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PROPOSTE PER IL GREEN ACT

aprile / maggio 2015 euro 6,00

aprile / maggio 2015

CONTRIBUTI DI: Agostinelli, Dall’O’ Iacovini Onufrio Zambrini

Anno XIII Numero 2 euro 6,00

BIMESTRALE DI LEGAMBIENTE

POSTE ITALIANE S.p.A. Sped. Abb. postale 70% CN/AN

PROPOSTE PER IL GREEN ACT Verso la riqualificazione spinta degli edifici

FOCUS FOTOVOLTAICO 2.0: OPPORTUNITÀ IN ITALIA GRAZIE AL CALO DEI PREZZI E ALLA CREAZIONE DI NUOVI MODELLI DI BUSINESS


insieme costruiamo bellezza

www.legambiente.it

2015

Siamo al lavoro per costruire un futuro fatto di bellezza, ambiente e coesione sociale. Valorizzando e facendo conoscere le tante esperienze positive che già caratterizzano il nostro presente e, contemporaneamente, dando vita a campagne, iniziative, progetti partecipati che dimostrino nel concreto che il nostro Paese può e deve puntare sulla qualità dell’ambiente, sulla cura del territorio, su un’economia a basso impatto ambientale e ad alto valore sociale. L’impegno quotidiano dei nostri circoli territoriali ha bisogno del sostegno di tutti: puoi iscriverti a Legambiente, donarci il tuo 5x1000, diventare un nostro volontario. Scopri come su www.legambiente.it. Insieme possiamo farcela, unisciti a Legambiente!


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4 sommario

aprile/maggio 2015

argomenti

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editoriale

di Gianni Silvestrini

Clima sfavorevole per le fossili

Foto: Fotolia

di Michele Guerriero e Alessandro Visalli

di Gianni Mattioli e Massimo Scalia

Città in transizione

di Gianfranco Bologna

15 In movimento

di Giuliano Dall’O'

di Anna Donati

17 Il punto del Cigno

Analizzare il biomattone

di Sergio Ferraris

a cura di Legambiente

19 Controcorrente 2.0

21 Lifestyle

Progettare la resilienza di Mario Zambrini

49 automotive

L’auto che corre sui bit

di Agostino Re Rebaudengo di Karl-Ludwig Schibel

23 Un mondo diverso

di Carlo Iacovini

di Guido Viale

53 mobilità

24 QualEnergia.it

111 Ecoteca

Quando la mobilità è condivisa

di Domenico Caminiti

57 inserto

a cura di Sergio Ferraris

assoRinnovabili NEWS

a cura di Sergio Ferraris

114 Comunicare l’energia

62 nucleare

di Sergio Ferraris

Atomo in declino

di Giuseppe Onufrio

67 accordi internazionali

91 esperienze

Il disastro del TTIP di Mario Agostinelli

74 tecnologie

La diversità dell’accumulo

di Mario Conte

Fotovoltaico d’alta quota di Sergio Ferraris

107 aziende 1

Cambiare strategia di Sergio Ferraris

81 combustibili

109 aziende 2

Il pellet è sostenibile di Valter Francescato

86 elettromagnetismo

Semplificare il fotone di Sergio Ferraris

La gerenza è a pagina 113

Il danno dell’elettrone

di Massimo Scalia e Massimo Sperini

93 focus

97 innovazione

103 finanza

94 seu

IL NUOVO FOTOVOLTAICO

Il sistema d’utenza è efficiente di Tommaso Barbetti

È nostra. L’energia di Sara Capuzzo, Gianluca Ruggieri e Matteo Zulianello

100 fotovoltaico

Ristrutturare il fotone

aprile/maggio 2015

a cura di Sergio Ferraris testo di Edoardo Zanchini

43 prospettive

È PROMOSSA DA

Immagini d’energia

13 Sostenibilità possibile

38 edilizia

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Verde sul Green Act

32 scenari

rubriche

10 Mattioli & Scalia

26 iniziative

di Alessandro Visalli

Il Sole che rende bene di Stefano Gazziano

105 barriere

Scambio a ostacoli di Annalisa Corrado


Editoriale

di Gianni Silvestrini

aprile/maggio 2015

Clima sfavorevole per le fossili L’accordo con l’Iran, che dovrebbe essere siglato entro giugno (repubblicani permettendo), comporterà un aumento progressivo delle esporta-

Con i bassi prezzi petroliferi lo shale oil scricchiola e si aprono opportunità per la Carbon tax

zioni di petrolio lasciando presagire un contesto internazionale di prezzi bassi attorno ai 40-60 $/barile sia nel 2016 che nel 2017. Questo scenario avrà riflessi non indifferenti sulla produzione di shale oil, la cui rapida crescita è stata, insieme alla decisione saudita di mantenere i propri livelli produttivi, la causa del crollo delle quotazioni mondiali del greggio. Finora, l’estrazione statunitense di greggio, pur rallentando, era ancora in crescita. Stringendo i denti, i piccoli operatori hanno ridotto i costi e limitato le nuove trivellazioni, concentrandosi nello sfruttare al massimo i pozzi attivi (con il re-fracking) per riuscire a pagare i debiti. Una situazione che però non è destinata a durare a lungo, come dimostrano i primi licenziamenti. Ma la produzione petrolifera americana inizierà ora a calare. Rimane sullo sfondo il rischio di una bolla destinata a scoppiare, alimentando fallimenti a catena. A meno che intervengano le majors ad acquistare a prezzi stracciati terreni, pozzi e diritti di esplorazione. E qui si innesta un altro rischio molto più di fondo, un brontolio lontano: parliamo della possibilità per le multinazionali e le aziende di Stato di ritrovarsi con ampie riserve in portafoglio potenzialmente svalutate in presenza di un serio accordo sul clima. Ad alimentare le preoccupazioni si aggiunge l’estensione in Europa del movimento “Divest Fossil”. Una decisa spinta è venuta dalla decisione di Alan Rusbridger, direttore del Guardian, di spendere il prestigio del suo giornale in una campagna sul clima con una mobilitazione volta a convincere istituzioni e fondi a disinvestire dai combustibili fossili. Il buon esempio è venuto dall’interno, con la decisione di ripulire il portafoglio di 800 milioni di sterline gestito dal Guardian Media Group. Quale differenza con i nostri media, dove capita ancora di leggere articoli “negazionisti”, in un contesto di generale sottovalutazione delle trasformazioni in atto e dei rischi che ci aspettano. E veniamo a un’arma che il contesto di bassi prezzi di petrolio ha riportato in auge, una carbon tax fiscalmente neutra (o utilizzata in parte per agevolare la decarbonizzazione dell’economia) che accelererebbe gli investimenti in efficienza e nelle rinnovabili. Hanno sollecitato decisioni in questo senso istituzioni insospettabili come la Iea e la Banca Mondiale, ma le resistenze politiche sono e saranno fortissime. Alla fine di marzo, per esempio, il Congresso Usa ha bocciato, seppure di misura, una proposta che avrebbe aperto le porte a questo tipo di fiscalità e un analogo stop è arrivato da un referendum in Svizzera. Ma la situazione potrebbe cambiare in presenza di un chiaro accordo sul cima a Parigi, che consentirebbe di rilanciare con più efficacia la carbon tax in un contesto sovranazionale.

Proposte per il Green Act In un Paese debole e fiaccato è difficile identificare priorità, tante sono le problematicità da affrontare. È allora utile analizzare i possibili interventi alla luce di alcuni chiari parametri. Andrebbero individuate misure in grado di ridurre le emissioni climalteranti, aumentare la sicurezza energetica e che contemporaneamente offrano interessanti opportunità occupazionali. Accenniamo qui a tre proposte del Coordinamento Free, che vengono presentate in maniera più approfondita in un articolo della

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6 Editoriale rivista, che rispondono in maniera efficace a questi criteri e che garantiscono benefici multipli, trasversali a diversi settori, coerenti con un’impostazione olistica alla soluzione dei problemi. Riqualificazione edilizia “spinta”. La prima idea, già trattata nell’editoriale del numero scorso, riguarda il graduale passaggio dalla ristrutturazione di singoli appartamenti alla riqualificazione energetica, e sismica dove necessario, di interi edifici e quartieri. Lo sforzo richiesto non è da poco, visto che si tratta di arrivare entro il 2025-2030 a decuplicare la quota di energia risparmiata annualmente. Finanza innovativa e riorganizzazione dell’industria del settore sono elementi chiave per l’avvio di un processo che può garantire significativi risultati, grazie alla messa a punto di tecnologie e materiali coerenti con le alte prestazioni richieste, innescando un deciso rilancio occupazionale. Vanno studiate soluzioni finanziarie che consentano, al limite, di avviare i lavori senza anticipare propri capitali. La revisione del Conto termico che diventerà a breve operativa apre uno spazio molto interessante, garantendo un contributo del 65% nel caso di riqualificazioni in grado di rendere gli immobili pubblici “a energia quasi zero”. Questo incentivo facilita la predisposizione di un mix di finanziamenti pubblici e privati in grado di avviare riqualificazioni energetiche “spinte” senza intaccare le scarse risorse degli Enti locali. L’accompagnamento di un processo di certificazione energetica ambientale validata da terzi può garantire la qualità del processo di risanamento e il raggiungimento dei risultati finali. Sul resto del parco edilizio le risorse necessarie sono decisamente più elevate (per gli edifici pubblici il Conto termico mette a disposizione 200 milioni €). È stato proposto l’uso dei Titoli di Efficienza Energetica, estendendo la loro applicazione alla riqualificazione di interi edifici, un intervento che potrebbe essere da subito inserito nelle Linee guida in via di definizione. Posto che queste verranno pubblicate entro l’estate, si tratterebbe di uno strumento rapidamente operativo, utile per aprire il terreno, ma che non ha la possibilità di garantire adeguate risorse per la rapida crescita degli interventi. Per arrivare a decuplicare i risparmi di energia andranno dunque predisposte nuove misure. Una proposta riguarda l’apertura di un apposito fondo da parte della Cassa Depositi e Prestiti in grado di erogare finanziamenti del 65% per interventi spinti di riqualificazione; lo Stato riconoscerebbe al Fondo un credito di imposta decennale di misura analoga alle attuali detrazioni fiscali. Una soluzione in grado di superare molte delle difficoltà che si incontrano nel caso dei condomini. Il restante 35% potrebbe essere anticipato dalle banche che verrebbero garantite dalle riduzioni dei consumi o attraverso le bollette, come nel Green Deal inglese, o attraverso l’Imu, come nello schema statunitense dei Pace. Anche nel settore privato sarebbe possibile quindi anticipare l’intero ammontare degli investimenti necessari, avviando un processo di riqualificazione su larga scala in grado di sfruttare il nostro giacimento di “shale gas” rappresentato dall’energia dispersa da un parco edilizio inefficiente. Mobilità elettrica. E veniamo a una seconda proposta, quella di avviare una seria politica di promozione della mobilità elettrica, un settore nel quale il nostro Paese arranca aprile/maggio 2015


aprile/maggio 2015

in modo imbarazzante agli ultimi posti. Non ci ha mai creduto la Fiat e di conseguenza non ci hanno puntato i vari Governi. Ma perché oggi è importante porsi seriamente questo obiettivo? La risposta sta in una congiuntura particolarmente favorevole. Le case automobilistiche, per soddisfare gli obiettivi climatici della UE, dovranno, nei prossimi anni, immettere sul mercato una quota crescente di veicoli elettrici. Parallelamente il calo dei prezzi delle batterie renderà questa forma di mobilità sempre più interessante. Tesla sta realizzando una “gigafactory” nel Nevada con una capacità produttiva uguale a quella esistente oggi nel mondo. La cinese BYD ha risposto con una proposta produttiva analoga per dimensioni. Samsung, Foxconn, la stessa Apple e molte altre società stanno coltivando progetti ambiziosi. Possiamo dunque dire di essere alla vigilia del decollo della mobilità elettrica. Del resto, basta analizzare i dati dello scorso anno, con un boom di immatricolazioni che ha portato a un incremento del 43% dell’intero parco elettrico circolante. E la crescita è destinata a proseguire. In Norvegia le vendite di marzo hanno raggiunto un quarto delle immatricolazioni totali. Siamo insomma in presenza dell’ingresso di una delle “disruptive technologies” descritte nel libro “2 °C”. La diffusione della mobilità elettrica consentirà di combattere l’inquinamento urbano, ancora elevato in molti centri, e di ridurre le emissioni di CO2. D’altra parte, un forte contributo alla battaglia climatica verrà dalle rinnovabili. E la presenza di una rete di centinaia di migliaia di veicoli elettrici e di punti di ricarica “intelligenti” rappresenterà un anello fondamentale per stabilizzare la rete e garantire la diffusione del solare e dell’eolico. Ancora una volta i vari elementi del puzzle si inseriscono in una visione olistica che definiranno la mobilità e l’energia del futuro. Per finire, in un gioco di alleanze internazionali, il nostro Paese potrebbe ricavarsi uno spazio industriale in questa rivoluzione. Recupero dei boschi. Dopo la riqualificazione del patrimonio esistente e l’aggancio alle nuove forme di mobilità, parliamo di un’altra opportunità interessante, la preziosa risorsa interna rappresentata dai nostri boschi, al momento in larga parte trascurata. La contraddizione in questo settore è palese: a fronte di un raddoppio della superficie boschiva dal dopoguerra, spesso per l’abbandono di terreni coltivati, la produzione della legna si è dimezzata. In Italia si utilizza solo un quarto dell’incremento annuo della biomassa, molto meno di quanto avviene in altri Paesi europei. Una situazione priva di senso se si pensa che il contributo della biomassa solida al fabbisogno energetico del Paese - 7,5 Mtep - risulta di poco inferiore a quello delle rinnovabili elettriche, la cui produzione “normalizzata” nel 2013 è stata di 8,9 Mtep. L’anomalia è tanto più evidente se si pensa che una quota crescente di biomassa viene importata. Anche in questo caso, dunque, possiamo parlare di un giacimento di “shale gas” inutilizzato. La cura dei boschi avrebbe altri benefici collaterali. Consentirebbe di tenere sotto controllo il dissesto idrogeologico e gli incendi. Tenendo poi conto delle possibili applicazioni nella biochimica, da anteporre concettualmente come priorità alla stessa combustione. Cos’hanno in comune queste tre proposte? Tutte possono contribuire a ridurre la nostra dipendenza dalle importazioni energetiche e a decarbonizzare l’economia. Nel primo caso si riduce il consumo di gas grazie all’efficienza, nel secondo spostando la domanda dai carburanti a un’elettricità sempre più verde, nel terzo sostituendo direttamente il gas con le biomasse. Tutte lasciano intravvedere l’apertura di spazi occupazionali molto concreti e interessanti. Ma implicano un cambiamento di modelli consolidati di business e di gestione, che si parli di riqualificare in maniera industrializzata gli edifici, di creare le infrastrutture per un diverso tipo di mobilità, di passare a un cura intelligente dei boschi come avviene in altri Paesi europei. E ovviamente tutto ciò può avvenire solo in presenza di scelte politiche convinte e lungimiranti. Da qui il loro inserimento nel “Green Act”. Qualcuno ascolterà? 

IL LIBRO 2 °C Innovazioni radicali per vincere la sfida del clima e trasformare l’economia di Gianni Silvestrini Edizioni Ambiente. 2 °C racconta le trasformazioni tecnologiche e sociali che possono portarci fuori dalle crisi che ancora stiamo vivendo.

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8 Immagini d’energia

a cura di Sergio Ferraris

aprile/maggio 2015


aprile/maggio 2015

Impianti fotovoltaici sui condomini del progetto C.A.S.E. a L’Aquila – si ringrazia Enerpoint S.r.l. per l’immagine – www.enerpoint.it

FALCE E PANNELLO Tetti solari su tutti i condomini italiani. Non è un sogno, oggi addirittura sarebbe possibile senza incentivi diretti ma “semplicemente” aprendo alle innovazioni possibili con una moderna gestione delle reti e grazie alla riduzione del costo dei pannelli. Questa proposta, lanciata da Legambiente e Green Building Council Italia, prevede di utilizzare l’energia prodotta dai pannelli solari direttamente per gli usi negli spazi comuni o per una parte dei consumi dei singoli appartamenti del condominio. Per renderla praticabile, occorre però modificare la normativa vigente in modo da consentire nei condomini lo scambio sul posto con l’esonero dall’obbligo di coincidenza tra punto di immissione e prelievo dell’energia scambiata con la rete e da quello di pagamento degli oneri di rete e di sistema. Un’innovazione di questo tipo permetterebbe di far ripartire gli investimenti di solarizzazione dei tetti e aiuterebbe le famiglie a risparmiare sulle bollette. Non solo, potrebbe essere il motore di innovazioni nei condomini che vanno nella direzione dell’efficienza e di una maggiore vivibilità degli spazi comuni e privati. Da Predoi a Lampedusa, in tutti i Comuni italiani è installato il fotovoltaico, e siamo il primo Paese al Mondo per contributo del solare rispetto ai consumi energetici, grazie alla spinta resa possibile dagli incentivi in conto energia. Dobbiamo, e possiamo, continuare in questa prospettiva, per fare della lotta ai cambiamenti climatici una sfida per ripensare le città e il patrimonio edilizio. Edoardo Zanchini Vicepresidente Legambiente

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10 Mattioli &Scalia

di Gianni Mattioli e Massimo Scalia

Per Expo 2015 l’ambiente e la sostenibilità sono un optional. È saltato, per esempio, il link energia-clima

aprile/maggio 2015

Energia, acqua, terra, clima. Ed Expo? Arruolati sotto le bandiere di Laura Conti, iniziammo a batterci contro le monocolture intensive, non solo perché c’era dietro, tanto per cambiare, la Monsanto, ma perché cominciavamo a masticare di diversità biologica. Fino ad allora era rimasta per noi argomento da salotto scientifico, ma come mera comparsa, quando si parlava di Darwin e della selezione naturale: è l’estrema variabilità genetica che nella scomparsa di intere specie, anche nei periodi più devastanti come il Permiano, ha fatto sì che la vita sulla Terra non si estinguesse. Enzo Tiezzi col suo “sorgo zuccherino” o il “topinambur” aveva aggiunto la considerazione del risparmio d’acqua che alcune vegetazioni o antichi ceppi indigeni consentivano, in contrasto, appunto, con l’esosa richiesta delle monocolture; mentre Cesare Donnhauser, passando dalle colture a quel che si trova nel piatto, denunciava l’abuso della chimica, dei fertizzanti e dei pesticidi nel ciclo alimentare, funzionali alle rese straordinarie proprie delle moncolture intensive. Il “cerchio del male” così si chiudeva coniugando biologia, agro-alimentazione, acqua e risorse energetiche; e consentendo, a noi “energeti”, la facile battuta sull’uso dell’energia, cioè del lavoro come l’intende la Fisica, a produrre ordine contro l’entropia della diversità biologica. Un ordine distruttivo. Vent’anni dopo, come avrebbe titolato Dumas, ritrovammo incombente su diversità biologica e agricoltura una nuova minaccia che si andava ad aggiungere: i cambiamenti climatici. Quello sconvolgimento era per noi la spada di Damocle più pesante sospesa sulla testa dell’umanità, e far capire che era già in atto e non bisognava attendere i prossimi decenni fu il compito cui ci dedicammo con maggior impegno; e poiché l’analisi profonda della psiche ha da gran tempo ucciso la pretesa buonista di superego generosi e altruisti, è vero che quell’impegno era praticar teorie e modelli con la soddisfazione di conoscerli meglio di altri. Non esageriamo però, il tema ha purtroppo la sua drammatica densità su tutto il futuro di specie, e l’impatto dei cambiamenti climatici sui cicli dell’acqua, della biodiversità e di quello agroalimentare, segnalato da innumerevoli effetti, sta già avendo, e sempre più avrà, severe conseguenze proprio sull’agricoltura e sull’alimentazione per tutti gli abitanti del Pianeta, non solo per il miliardo di persone già oggi al di sotto del livello di sopravvivenza. Il cambiamento climatico è responsabile degli eventi meteorologici estremi e dei conseguenti gravi danni alle colture agricole, oggetto ormai da tempo di richieste specifiche di risarcimento ai Governi, non certo solo in Italia. Impatta sul calendario delle pratiche agricole, in particolare quelle vitivinicole, produce una crescente diffusione di agenti patogeni e di insetti nocivi su aree geografiche sempre più vaste, altera i ritmi di fioritura o di sviluppo di un sempre maggior numero di specie vegetali. Il cambiamento climatico, cioè la rottura della stabilità dei grandi cicli climatici, determina, pur nell’alternarsi degli effetti nelle varie aree del Pianeta, un risultato complessivo negativo e rappresenta una minaccia alla sicurezza alimentare, che dall’agricoltura dipende. Il cambiamento climatico è la più grave alterazione del riprodursi del ciclo delle acque e della loro disponibilità sulla Terra, proprio quando le attuali forme di produzione agroalimentare reclamano, a livello mondiale, un consumo pari a circa l’80% dell’acqua dolce. In uno scenario di un impoverimento progressivo della


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risorsa acqua, nel quale l’espansione della desertificazione e dell’aridità dei suoli ricorda con immagini talora raccapriccianti quel “predicament of the mankind” che era stato oltre quarant’anni fa la molla dello studio sui “limiti della crescita”. A fronte del 30% del fabbisogno energetico mondiale richiesto dal settore agro-alimentare, il V° Rapporto dell’IPCC certifica che il sistema agricoltura-foreste-uso del suolo (AFOLU) viene secondo, con il 24% delle emissioni totali di gas serra (soprattutto CH4 e N2O), dopo quello delle produzioni d’energia, accreditato del 34% del totale; vale a dire che AFOLU è parte decisiva di un feedback positivo, cioè di un circuito perverso che alimenta continuamente la causa delle drammatiche conseguenze che induce. “Nutrire il Pianeta, Energia per la vita” recita il logo di Expo. Impressiona subito l’eliminazione di fatto del tema energia dal contesto organizzativo e dai contenuti, mentre il progetto dovrebbe convergere su tutti e quattro gli elementi congiuntamente – energia, acqua, terra, biosfera – e sulle relazioni fra essi, se si vuole offrire un quadro di prospettiva e di azione in cui anche il nostro futuro sia considerato un bene comune. Già, Expo non parla di diritto all’acqua potabile e di acqua per l’agricoltura familiare, non parla di diritto alla terra e all’autodeterminazione a coltivarla, privilegiando così un’interlocuzione con le fasce di popolazione ricca e con interessi preminentemente commerciali. Non recependo il link energia – clima, Expo sottovaluta il contesto globale di un’iniziativa che vorrebbe essere globale: quello dei cambiamenti climatici e delle conseguenze sul mondo vegetale e sulla produzione agro-alimentare. Eppure anche agli organizzatori di Expo dovrebbe essere noto che l’urgenza di quel link è stata segnalata con forza, ormai da molti anni, dai pronunciamenti delle Accademie delle Scienze (2005, 2006), dai vertici mondiali sul clima e dallo stesso obiettivo UE di politica energetica – i tre 20% al 2020 – divenuto il punto di riferimento del dibattito dei 195 Governi che si stanno preparando per COP 21 a Parigi, proprio in concomitanza con la chiusura di Expo. Su tutto questo Expo glissa, se non affidando a piccole voci di contorno il tema di maggior attualità; al contrario, il cammino verso un cibo sostenibile richiederà che i profondi mutamenti di tecnologie, comportamenti e politiche avvengano nel contesto e in armonia con la trasformazione del sistema energetico, cioè verso produzioni decentrate e con fonti direttamente reperibili sul territorio. Una strategia opposta a quella di chi vuole Expo come occasione di un businness che, in nome di nuovi modelli di ricerca e sviluppo e di investimento, punti a ottenere un settore agro-alimentare ad ancora più alta intensità: la religione di un capitalismo ottocentesco, che rifiuta nuove idee e nuove possibilità. Una profonda svolta nella gestione umana del circuito energia, acqua, terra, biosfera si rende necessaria e inderogabile. Verso nuove forme di sviluppo economico-sociale, che impieghino saperi, tecnologie e intelligenza dell’uomo nella gigantesca impresa di praticare tutte le attività umane in sintonia coi grandi cicli della natura. Per questo vorremmo che, durante tutto il periodo dell’esposizione, Expo dedicasse a questi temi – i quattro “elementi” energia, acqua, terra, biosfera e il link con i cambiamenti climatici – una sessione centrale e permanente, sotto l’egida della FAO e dell’UNESCO e all’insegna degli “obiettivi del Millennio”, aperta al confronto tra gli esperti e le esperienze e le proposte che cittadini e portatori di interessi vorranno mettere a confronto. 

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Sostenibilità possibile

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L’alba dell’Antropocene di Gianfranco Bologna

La comunità scientifica è ormai concorde sul fatto che la pressione umana sul Pianeta è al massimo livello. E alla COP 21 si dovranno prendere decisioni chiare

Verso la fine di febbraio-marzo di ogni anno, il ghiaccio artico marino raggiunge di norma la sua massima estensione, dopodiché inizia il periodo in cui comincia lentamente a fondersi, un processo che dura fino alla fine di settembre quando si raggiunge invece il picco di fusione dei ghiacci. Dai dati scientifici a disposizione da quando esistono rilevamenti satellitari, e cioè dal 1979, sappiamo che la fusione del ghiaccio artico marino presenta un andamento di progressiva riduzione che desta preoccupazioni significative per gli effetti del cambiamento climatico, tanto che nel 2012 ha fatto registrare la massima riduzione della superficie della banchisa estiva artica. Nel 2012 il National Snow and Ice Data Center (NSIDC www.nsidc.org), che mette a disposizione tutti i dati sullo stato della criosfera del nostro Pianeta, fornì la segnalazione del record di riduzione del ghiaccio artico marino estivo raggiunto in quell’anno (che precedentemente apparteneva al 2007). Nel 2012 infatti alla metà di settembre la superficie dei ghiacci marini artici era di 3,41 milioni di chilometri quadrati, 760.000 km2 in meno del precedente record registrato il 18 settembre del 2007 (si tratta di un’area grande quanto lo stato del Texas negli USA). Lo scorso 25 febbraio invece il NSIDC ha registrato la massima estensione dei ghiacci artici marini segnalandola come la più bassa mai registrata. Questo dato ha superato il precedente record del 2011, con una superficie di 14,54 milioni di km quadrati (130.000 km2 meno del 2011). Questa notizia, insieme a tante altre che provengono dal campo delle ricerche sul Climate Change, ci segnalano un’ulteriore grave preoccupazione per i complessi andamenti del cambiamento climatico in atto e dovrebbero impegnare ancora di più i Governi di tutti i Paesi del mondo per consentire l’ottenimento di un successo concreto per la 21° Conferenza delle Parti della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici che si terrà a Parigi nel prossimo dicembre. Le ricerche vaste e articolate sul Global Change, il cambiamento globale cui abbiamo sottoposto tutti i sistemi naturali del Pianeta (vedasi la straordinaria massa di dati e analisi prodotta dai più grandi programmi di ricerca internazionali sui cambiamenti globali, Future Earth: research for global sustainability, www.futureearth.org), stanno conducendo all’ufficializzazione, prevista per il 2016, di un nuovo periodo geologico nel Geological Time Scale con il quale dividiamo i 4,6 miliardi di anni di esistenza della nostra Terra: l’Antropocene (www.anthropocene.info). Questo proprio a conferma di quanto la comunità scientifica internazionale ritenga il nostro intervento e la nostra pressione sulla natura equivalenti alle grandi forze geofisiche che sin qui hanno modificato la Terra. Dovrebbe essere ormai chiaro a tutti che abbiamo un’incredibile quantità di prove sulla profonda alterazione che l’attività umana ha prodotto sulla dinamica della natura del nostro Pianeta, dai principali cicli biogeochimici (come quelli del carbonio, dell’azoto e del fosforo) alla stessa evoluzione della vita. I livelli di anidride carbonica attuali nell’atmosfera sono documentati come i più alti da almeno 800.000 anni, l’acidificazione odierna degli oceani sta procedendo a un ritmo che non aveva avuto luogo nei precedenti 300 milioni di anni e ci appropriamo per le nostre attività dal 25 al 38% della produttività primaria netta dell’intero Pianeta. La COP di Parigi deve assolutamente raggiungere un trattato sul clima significativo. Il tempo per decidere non può più essere rimandato. 

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In movimento

aprile/maggio 2015

Le Ferrovie delle Meraviglie di Anna Donati

C’è una parte del patrimonio ferroviario nazionale che sta andando in malora. Allo stato attuale ci sono circa 1.300 chilometri di linee ferroviarie locali che risultano “sospese”. Se questa condizione divenisse definitiva, significherebbe che quasi il 10% del patrimonio ferroviario nazionale risulterebbe sacrificato. Eppure si tratta di un patrimonio collettivo prezioso sul piano dell’ingegneria ferroviaria, che attraversa splendidi paesaggi e borghi italiani. Un’Italia non “minore” che merita di essere tutelata e valorizzata, anche per contrastare abbandoni e dissesto idrogeologico.

Oltre il 10% del patrimonio ferroviario è a rischio abbandono. E le alternative per il recupero esistono

Ovunque in Europa e nel mondo si assiste a un rilancio delle ferrovie turistiche, proprio su queste linee locali, con servizi dedicati, carrozze panoramiche, fermate nei punti di maggiore attrazione storica, monumentale, enogastronomica e naturalistica. In Italia siamo ancora indietro ma qualcosa comincia a muoversi anche da noi e c’è voglia di viaggi “slow” nel paesaggio italiano. Tanto per citare qualche caso, le esperienze del Treno Natura tra Siena e la Val d’Orcia che ha ormai compiuto vent’anni, così come del Treno Blu della ferrovia Palazzolo Paratico sul lago d’Iseo e del Trenino Verde della Sardegna, che attirano nuovi turisti desiderosi di treni a bassa velocità (www.ferrovieturistiche.it). Ma vanno raccontati anche i casi della linea della Val Seriana, recuperata come tranvia veloce da Albino a Bergamo, mentre il successo della nuova Merano-Malles ha molto favorito la valorizzazione turistica della Val Venosta. O i casi più recenti dei nuovi treni turistici sulle ferrovie Sud-Est in Salento. Creata anche la Confederazione per la Mobilità Dolce (Co.Mo.Do) che mette insieme tutte le associazioni che promuovono gli spostamenti a piedi, in bicicletta, sulle ferrovie turistiche, spesso in modo combinato. Co.Mo.Do. promuove ogni anno alla fine dell’inverno una Giornata delle Ferrovie Dimenticate, un tempo “ferrovie delle meraviglie”, giornata molto partecipata da centinaia di associazioni locali ambientaliste, di turismo ferroviario, cicloturistiche e di trekking che hanno il merito di portare all’attenzione dell’opinione pubblica le linee dismesse. Basta sbirciare sul sito www.ferroviedimenticate.it per leggere dei circa 100 eventi che si sono tenuti nel 2015 in occasione di questa giornata. «L’obiettivo è quello di fare fronte comune per esercitare una pressione sulle Istituzioni e le Ferrovie dello Stato per affermare principi condivisi: l’assoluta rilevanza pubblica dei manufatti ferroviari, l’urgenza del loro recupero, il riconoscimento del valore storico e testimoniale» ha dichiarato l’arch. Massimo Bottini, presidente di Co.Mo.Do. Per questo vi sono Disegni di legge depositati in Parlamento e molto interesse da parte degli Enti Locali. Ma una vecchia ferrovia se è troppo degradata può diventare anche una greenway, cioè una ciclovia e un percorso pedonale, vincolando il sedime, favorendo il recupero di un territorio e trasformandolo in un parco naturale, in un corridoio ecologico (www.greenwaysitalia.it). Qualcosa si muove anche nelle Ferrovie dello Stato. Di recente è nata la Fondazione FS, con il compito di tutelare tutto l’immenso patrimonio di archivi, progetti, materiale rotabile storico, e la gestione dello splendido Museo Ferroviario di Pietrarsa (NA). La Fondazione adesso promuove anche treni storici, sulla ferrovia della Val D’Orcia, sul treno Blu del lago d’Iseo, sul treno del Parco Sulmona-Carpinone e sul treno dei Templi Agrigento-Porto Empedocle, lungo le linee di quattro spettacolari “binari senza tempo” (www.fondazionefs.it). 

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Chiama il nostro numero verde da rete fissa per informazioni sui comuni in cui è attivo il servizio. Il servizio di raccolta con il sistema Olly® è attivo in Toscana, Umbria e Trentino Alto Adige. La raccolta differenziata di oli domestici esausti è destinata alla produzione di energia pulita.


Il punto del Cigno

a cura di Legambiente testo di Maria Assunta Vitelli Ufficio Energia e Clima, Legambiente Nazionale

Ora è visualizzabile cosa sta succedendo nel territorio italiano a seguito dell’aumento di fenomeni meteorologici estremi

aprile/maggio 2015

La mappa del rischio climatico 112 gravi fenomeni meteorologici dal 2010 a oggi hanno provocato pesanti danni al territorio urbano italiano: 30 casi di allagamenti da piogge intense, 32 casi di danni alle infrastrutture con 29 giorni di stop a metropolitane e treni urbani, 8 casi di danni al patrimonio storico, 20 casi provocati da trombe d’aria, 25 eventi causati da esondazioni fluviali, numerosi feriti e ben 138 vittime. Questi i numeri. Legambiente racconta questi fenomeni nella “mappa del rischio nelle città italiane”, nata proprio con l’obiettivo di raccogliere, attraverso uno strumento interattivo e periodicamente aggiornato, le informazioni sui danni provocati in Italia dai fenomeni climatici dal 2010 a oggi, con particolare attenzione alle città (www. planningclimatechange.org/atlanteclimatico). Tra le informazioni registrate nella Mappa, troviamo tutti i fenomeni recenti descritti con i relativi danni e le vittime; gli 80 Comuni dove si sono registrati in questi anni gli impatti maggiori, suddivisi secondo categorie principali (allagamenti, frane, esondazioni, danni alle infrastrutture, al patrimonio storico, provocati da trombe d’aria o da temperature estreme); i luoghi dove questi fenomeni si sono verificati più di una volta e tutte le informazioni reperibili al riguardo, con l’obiettivo di riuscire a leggerle in maniera integrata per provare a comprendere le possibili cause antropiche; le scelte insediative o i fenomeni di abusivismo edilizio che ne hanno aggravato gli impatti, per arrivare a individuare le aree a maggiore rischio per i cambiamenti climatici. Non mancano i dati relativi agli stop a metropolitane e treni urbani nelle principali città italiane: 10 giorni a Roma, 9 a Milano, 8 a Genova, 6 a Napoli, 5 a Torino, con conseguenze sul traffico urbano e la vita delle persone. In diverse regioni il maltempo ha portato a frane con la chiusura di linee ferroviarie ed è evidente la necessità di un cambio radicale nella progettazione delle infrastrutture, nella gestione e messa in sicurezza per evitare che continuino allagamenti delle linee e delle stazioni. Registrati sulla Mappa anche i giorni di black out elettrici: 38 dovuti al maltempo, avvenuti dal Nord al Sud del Paese e con una sequenza costante (7 nel 2014, 7 nel 2013, 10 nel 2012, 6 nel 2011 e 8 nel 2010). Le ragioni dunque sono chiare e in vista della COP 21, la Conferenza sul clima che si terrà a Parigi, abbiamo bisogno di capire i caratteri e l’entità degli impatti provocati, soprattutto di cominciare a evidenziare il rapporto tra accelerazione dei processi climatici e problematiche legate a fattori insediativi o infrastrutturali nel territorio italiano. I risultati sono già ora, e lo diventeranno sempre di più, uno strumento prezioso in particolare rispetto a una questione oggi non più eludibile: abbiamo bisogno di nuovi modelli d’intervento, in particolare per le città, per affrontare fenomeni di questa portata. Se è condivisa l’urgenza della messa in sicurezza, è del tutto evidente che larga parte dei progetti che vengono portati avanti sono inadeguati rispetto alle nuove sfide che i cambiamenti climatici pongono con sempre maggiore urgenza. Non è continuando a intubare o deviare i fiumi, ad alzare argini o asfaltare altre aree urbane che possiamo dare risposta a equilibri climatici ed ecologici complessi che hanno bisogno di approcci diversi e strategie di adattamento. È in questa direzione che vanno le politiche comunitarie e i piani clima delle città europee, è ora che anche l’Italia e le sue città si muovano in questa direzione. 

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Controcorrente 2.0

aprile/maggio 2015

Il mercato è rinnovabile di Agostino Re Rebaudengo Presidente di assoRinnovabili

Il nuovo assetto del mercato elettrico parte dalle rinnovabili

Negli ultimi anni l’industria elettrica in Italia e in Europa ha vissuto un rapido e profondo cambiamento che ne ha influenzato la struttura e le logiche competitive, rendendo necessarie nuove regole. Le fonti rinnovabili hanno soddisfatto nel 2014 (dati Terna) quasi il 40% del fabbisogno elettrico nazionale. Si tratta di un risultato impensabile fino a qualche anno fa: i meccanismi d’incentivazione (di cui hanno peraltro goduto in passato e, in parte, ancora oggi anche le centrali alimentate a fonti fossili) hanno raggiunto il loro scopo, tant’è vero che i costi delle tecnologie rinnovabili sono ormai competitivi con le tecnologie convenzionali. Per esempio gli impianti eolici, anche italiani, sono competitivi con il nucleare: infatti, l’impianto in costruzione di Hinkley Point nel Somerset, UK (3.300 MW) riceverà 125 €/MWh per 35 anni, mentre i nuovi impianti eolici italiani riceveranno una tariffa inferiore ai 99 €/MWh e per soli 20 anni. Il costo dell’energia autoprodotta con il FV è ormai inferiore di almeno il 30% al prezzo in bolletta. Occorre quindi sfruttare al massimo la caratteristica delle fonti rinnovabili di essere disponibili ovunque, il che significa produrre gran parte dell’energia laddove la si consuma: insomma “W l’energia a km 0”. Inoltre, il settore elettrico subirà nei prossimi anni una rivoluzione simile a quella dell’informatica e della telefonia mobile. Infatti, anche i sistemi di produzione dell’energia rinnovabile sono caratterizzati da alti costi d’impianto (CAPEX) e da un costo marginale prossimo allo zero. Internet, energie rinnovabili e generazione distribuita presto si fonderanno, creando un Internet dell’Energia che cambierà il modo in cui si produce e si distribuisce l’elettricità e, probabilmente, anche quello in cui la si consuma. Con questi presupposti, assoRinnovabili ha commissionato una ricerca all’istituto di analisi economiche Althesys per individuare una proposta di nuovo market design per il settore elettrico. Lo studio mette in luce come nel nostro Paese l’impatto economico dei servizi di dispacciamento (cioè il costo delle attività per il mantenimento in costante equilibrio del sistema elettrico) sul valore del mercato, pari oggi al 9%, non sia superiore a quello di altri Paesi con forte crescita delle rinnovabili: per esempio, la Spagna raggiunge il 14% del valore del mercato. Accorciando i tempi di chiusura del mercato, per avvicinarlo al tempo di consegna, si potrebbero ridurre gli oneri di dispacciamento, portandoli, come già avviene in Germania, intorno al 4%. Un’altra evidenza emersa dalla ricerca riguarda il potenziale stimato, sulla base dei dati storici del 2013: le fonti rinnovabili potrebbero fornire servizi di rete per circa 9,5 GW, di cui 4,4 GW tramite impianti eolici, 0,4 GW fotovoltaici e 4,7 GW attraverso il parco idroelettrico ad acqua fluente idoneo (cioè quello senza diga). Infine, per continuare a favorire la diffusione di energia pulita, lo studio evidenzia come si sia resa necessaria l’introduzione di meccanismi di stabilizzazione del mercato a medio termine. Uno degli strumenti da introdurre potrebbe essere quello dei contratti a lungo termine, i quali a oggi non sono favoriti in Italia e in Europa, a differenza del resto del mondo. Viceversa occorrerebbero meccanismi regolatori che stimolino la domanda a contrattualizzare i propri consumi nel lungo periodo. In conclusione, le nuove regole del mercato, che dovranno essere emanate con un atto di legislazione primaria, dovranno permettere, nel rispetto degli impianti di energia green esistenti, un’ulteriore crescita delle rinnovabili in un assetto di mercato equilibrato che ne favorisca l’integrazione. 

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Lifestyle

aprile/maggio 2015

I nemici del clima di Karl-Ludwig Schibel

Dall’estero arrivano chiari segnali sull’inizio del processo di delegittimazione dell’industria fossile. Dall’Italia no

Alexander Langer parlava degli “amici del futuro”. Presumibilmente non esiste persona che non si senta appartenente a questo gruppo. Invece, se il futuro oggi è più che altro quello del clima, gli amici sono pochi. E nel Governo italiano non si è fatto ancora notare nessuno. Come si diventa amico del clima? Semplice. Riducendo le emissioni di CO2. Energie rinnovabili ed efficienza energetica invece di metano, petrolio e carbone. Da subito. Gli autori del decreto “Sblocca Italia” non sono amici del clima, anzi. Trasformare la E45 in autostrada è un crimine ambientale e climatico che farà guadagnare pochi e farà male a molti. Aumentare l’estrazione di gas e idrocarburi è un regalo alle multinazionali del settore ed è il modo peggiore di contribuire alla sicurezza energetica. Le associazioni ambientaliste hanno puntualmente protestato mentre la carovana del grande business, con le sue truppe ausiliarie nella politica e nella burocrazia, continua sulla sua strada. Quindi, niente da fare visto che i nemici del clima hanno il potere economico e politico dalla loro parte? Un raggio di speranza arriva, non dal famoso piccolo villaggio gallico, ma da una città tedesca con una nobile storia di resistenza e auto-determinazione: Münster nella Vestfalia. È lì dove nel 1534 confluirono gli anabattisti perseguitati in tutta Europa per fondare la loro comune, un esperimento di utopia sociale concreta, sconfitta dopo un anno e mezzo di assiedo. Certo sarebbe audace voler costruire una continuità storica fino al presente, sta di fatto che l’esemplare politica del clima di Münster parte nel 1990 con il primo piano climatico che pochi anni dopo, nel 1997, la fa scegliere come “Capitale federale per la protezione del clima”. Nel 2002 i cittadini di Münster hanno bloccato con un referendum la privatizzazione della municipalizzata per l’energia e il trasporto, facendo capire che lo spirito di auto-determinazione è ancora vivo dopo quasi cinque secoli. Nel marzo 2015 il Comune ha annunciato che venderà le sue azioni della RWE - dopo E.ON il numero due dei produttori di energia in Germania -, perché l’impresa gestisce centrali a carbone. Il disinvestimento di circa 12 milioni euro del fondo pensionistico da fonti energetiche fossili deliberato dal Consiglio comunale non metterà a rischio il futuro di RWE e neanche l’identico passo del Comune di Oslo, che è la prima capitale a ritirare oltre sei milioni di euro del suo fondo pensionistico dalla produzione di energia con carbone. L’assessore alle finanze di Oslo, Lae Solberg, ha dichiarato: «Non si tratta di grandi somme, però vogliamo mandare un chiaro segnale». Il segnale che auspicabilmente arriverà da tanti Enti locali, fondazioni, università è che il problema non consiste in qualche impianto particolarmente inquinante, ma nel modello di business di bruciare il carbone rendendo il Pianeta inabitabile. Senza dubbio le azioni che i Comuni di Münster e Oslo stanno mettendo sul mercato saranno acquisite subito da qualcun altro, economicamente RWE e gli altri giganti del fossile non sentiranno niente. Sono però forti i segnali dell’inizio di un processo di delegittimazione dell’industria fossile che rende visibile e mette in evidenza la bancarotta morale di chi fa soldi aggravando la crisi climatica. Il disinvestimento dal fossile, per altro, potrebbe anche essere una saggia decisione economica, poiché gli enormi guadagni delle grandi imprese del settore si basano sulla fiducia degli azionisti che i giacimenti di carbone, metano, petrolio saranno, anche in futuro, redditizi come lo sono stati in passato. Una volta che questa fiducia dovesse venire meno, le reazioni delle Borse potrebbero essere drammatiche. Sarebbe da augurarsi che il giorno in cui le menti dello “Sblocca Italia” si de-fossilizzeranno arrivi prima. 

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aprile/maggio 2015

Il rifiuto è marino di Guido Viale

Sono transnazionali, abbassano la qualità del pescato e ledono i bilanci comunali. I rifiuti marini non pongono solo problemi ambientali

Al prelievo sconsiderato di risorse fa riscontro una produzione ancora più irresponsabile di rifiuti, esito finale di un sistema ormai fuori controllo. Senza considerare le emissioni (tra cui i gas climalteranti, che costituiscono la principale minaccia per la vita umana sulla Terra) e gli effluenti, e limitandoci ai rifiuti solidi, ne abbiamo riempito ormai tutto il Pianeta: non solo il suolo, dalla cima delle montagne ai buchi scavati per estrarne materiali e poi riempirli di scarti; ma anche il cielo (in orbita intorno alla Terra ci sono ormai decine di migliaia di relitti, comprese le feci di alcuni astronauti, lasciate lì per ricordo); e il mare: ci sono persino due nuovi “continenti” formati da miliardi di frammenti di plastica trascinati dalle correnti nel bel mezzo dell’oceano Pacifico. Ma i rifiuti marini sono anche tra noi: spiaggiati sulle coste dal moto ondoso, o ammassati sui fondali, magari nascosti da una prateria di posidonia. Una categoria di rifiuti, questa, di cui finora ci si è occupati troppo poco, a partire dal fatto che non esiste una definizione dei rifiuti marini, né, di conseguenza, un soggetto responsabile che si occupi del problema, né una legislazione che ne regolamenti la gestione. Traggo queste informazioni da uno studio di Giuseppe Miccoli. Dalle poche rilevazioni effettuate su rifiuti spiaggiati in alcuni tratti delle coste italiane o sui materiali estranei finiti nelle reti dei pescatori (una componente sempre più presente e ingombrante del pescato), i rifiuti marini risultano composti per una percentuale variabile dall’80 al 90% di plastiche varie, parte delle quali non più riciclabili perché deteriorate. Il resto è composto soprattutto da bottiglie, lattine e filtri di sigaretta. Sulle coste italiane sono stati trovati materiali provenienti da tutti i Paesi del Mediterraneo, verosimilmente trasportati dalle correnti o gettati da imbarcazioni. Impossibile stimarne la quantità. Si può sapere solo quanti ne tirano su i pescatori, impigliati nelle loro reti. Sei pescherecci di Acciaroli - nel Comune di Pollica (SA) - ne raccolgono circa 300 chili a ogni pescata; moltiplicati per 200 giornate lavorative – le volte in cui i pescherecci escono in mare - sono 60 tonnellate/anno. Questi materiali rovinano il mare, fanno danni ai pescatori ma anche ai pesci, deturpano le spiagge deprimendo il turismo e pesano sui bilanci comunali, perché il materiale raccolto viene classificato come rifiuto speciale e deve essere smaltito in impianti ad hoc. Per questo i pescatori lo rigettano in mare prima di toccare terra, altrimenti lo smaltimento sarebbe a carico loro. Che cosa si può fare? Il 14 novembre dell’anno scorso la Commissione Ambiente della Camera ha approvato un emendamento sulla pulizia dei fondali marini. Con esso verranno individuati i porti idonei nei quali avviare operazioni di raccolta e trattamento dei rifiuti raccolti durante le attività di pesca e di turismo subacqueo, siglando accordi di programma con associazioni sportive, ambientaliste e culturali. L’esempio lo ha dato il Comune di Pollica, quello il cui sindaco, Angelo Vassallo, è stato ucciso cinque anni fa dalla mafia. I pescatori separano i rifiuti “pescati” ancora a bordo delle loro imbarcazioni e li conferiscono alla raccolta differenziata, permettendo al Comune di incassare il corrispettivo dal CONAI. Per ora lo fanno gratuitamente; ma è chiaro che si tratta di un’attività che deve essere riconosciuta e remunerata. Da allora, comunque, quantità e qualità del pescato sono migliorate. 

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qualenergia.it

aprile/maggio 2015

In questa pagina trovate una selezione, con un breve abstract, effettuata tra le notizie pubblicate recentemente dal nostro portale QualEnergia.it a cura di Sergio Ferraris

Riqualificazione edilizia in Italia: 40 miliardi in 6 anni Addio alla famigerata classe G delle case colabrodo: l’edilizia italiana è chiamata a una trasformazione per abbattere i consumi energetici. Un rinnovamento profondo, che dovrà puntare a interi palazzi e quartieri. Il tema è stato al centro del convegno sulla “deep renovation” urbana, organizzato da Green Building Council Italia e Legambiente. «I momenti di crisi rompono le consuetudini e aprono nuovi scenari. Il nostro shale gas è nel patrimonio immobiliare, che in media consuma tre volte più energia delle costruzioni più moderne», ha detto Gianni Silvestrini, presidente di Gbc. http://tinyurl.com/pcxrspp

Sogin, i giornalisti e quella controproducente “formazione nucleare” Il nucleare è una patata bollente. Sempre, anche quando si vorrebbe chiuderlo. E la cosa riguarda anche e specialmente il deposito italiano per i rifiuti nucleari di bassa e media attività. La riprova di ciò si è avuta a Roma in un evento “ibrido” a cavallo tra la conferenza stampa e la formazione permanente per i giornalisti, messo in piedi da Sogin, dal titolo “Corso d’aggiornamento professionale Ordine dei Giornalisti. Verso il deposito nazionale dei rifiuti radioattivi: problema o opportunità?”. http://tinyurl.com/pmscq8l

Evoluzione utility. Fort Collins e la ricetta del Rocky Mountain Institute Con la transizione energetica in atto verso le rinnovabili e la gestione distribuita, le utility devono rivedere profondamente il loro business model. In questo contesto è molto interessante quel che sta succedendo a Fort Collins, cittadina da circa 150mila abitanti in Colorado. Lì il Consiglio comunale ha votato per tagliare dell’80% le emissioni di gas serra entro il 2030 e diventare carbon neutral

IL FOTOVOLTAICO SI REINVENTA CON I SEU Gli economics ci sono. Non è però per nulla facile: non solo bisogna reinventarsi il mestiere, acquisendo competenze nuove, ma ci sono diverse criticità da superare, prima tra tutte quella dell’accesso al credito. La notizia è che il settore ha già messo in campo business model innovativi per superare gli ostacoli. L’ombra che incombe, invece, è quella di possibili cambiamenti normativi, riguardo alla quale però a Solarexpo il settore, in un acceso confronto, è riuscito a strappare qualche rassicurazione dall’Autorità per l’Energia. http://tinyurl.com/kgs5otk

entro il 2050. La municipalizzata locale, Fort Collins Utilities, ha deciso di accelerare il suo adattamento alla nuova era energetica, con il Rocky Mountain Institute. http://tinyurl.com/oew3trd

Solare termodinamico: 360 MW entro il 2017 ANEST ed ENEA hanno organizzato un incontro convegnistico per rinnovare e rinsaldare la collaborazione tra industria e ricerca per lo sviluppo del solare termodinamico, cercando da un lato di presentare le offerte - in termini di know how e di infrastrutture - della ricerca nazionale e internazionale e dall’altro di raccogliere le necessità e la domanda di ricerca proveniente dal mondo produttivo. Il nuovo avvio allo sviluppo del solare termodinamico

in Italia è stato promosso e stimolato da un importante programma di R&D che è stato sin dall’inizio aperto alle realtà industriali. http://tinyurl.com/k9llpb3

La qualità di “Scala Mercalli” contro chi confonde scienza con ideologia Circa un milione di media sono gli spettatori di “Scala Mercalli” andato in onda sui RAI 3. Nella terza puntata del 14 marzo, si è parlato di ghiacciai come termometro naturale del Pianeta: dalle grandi calotte polari alle Alpi si stanno riducendo ovunque e segnalano il problema del surriscaldamento globale. Quali sono gli effetti della fusione dei ghiacciai sulle popolazioni? E l’innalzamento degli oceani può cambiare la geografia del Pianeta? http://tinyurl.com/pxlvapu

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26 iniziative

VERDE SUL GREEN ACT

aprile/maggio 2015


aprile/maggio 2015

di Michele Guerriero*, Alessandro Visalli**

Arrivano le proposte del Coordinamento FREE sul Green Act del Governo Renzi e che dovrebbe sbloccare l’economia

Arrivano dieci atti concreti che possono contribuire a costituire il cuore del Green Act in Italia: li ha lanciati qualche settimana fa il Coordinamento Free, Fonti rinnovabili ed efficienza energetica, che raggruppa oltre 30 associazioni del settore. L’economia che cambia nei suoi paradigmi non può perdere quest’occasione. Ecco perché Free ha proposto al Governo dieci azioni concrete che possono caratterizzare davvero il Green Act. Eccole.

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Promuovere l’economia circolare

L’80% dei materiali utilizzati dall’industria produttrice di beni di consumo non viene recuperato, con effetti negativi sull’ambiente e sulla bilancia commerciale, con spreco di materie prime e di energia. Per massimizzare l’uso efficiente delle risorse, va promossa la trasformazione del sistema produttivo e di quello commerciale verso forme di economia circolare, dove il recupero e il riuso dei materiali utilizzati sia facilitato mediante prodotti progettati in modo da essere riqualificabili, di facile manutenzione e, a fine vita, di agevole estrazione di materiali e componenti riutilizzabili. Come si può promuovere l’economia circolare? Con incentivi fiscali ai produttori o gestori di attività terziarie lungo tutto il ciclo, commisurati alla percentuale di materiali risparmiati, accompagnati da penalizzazioni per i soggetti che non vi aderiscono; adottando norme contro l’obsolescenza programmata, come ha fatto la Francia; favorendo, per la sostituzione di componenti degli impianti di produzione di energia a fonti rinnovabili, l’utilizzo di parti usate e/o rigenerate; puntando al recupero

dei sottoprodotti, rimuovendo le barriere e destinando risorse all’integrazione tra filiere produttive e impianti di recupero anche energetico (con particolare riferimento alla microgenerazione distribuita).

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Rafforzare l’industria “green” in Italia

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Attuare la Carbon tax

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Far decollare la mobilità elettrica

Dopo il programma “Industria 2015” del 2006, peraltro arenatosi per l’insipienza dei Governi che si sono succeduti, è mancata un’incisiva politica industriale in Italia mirata ai comparti - come quelli dell’efficienza energetica, delle rinnovabili, della mobilità sostenibile, della biochimica - che hanno visto un forte dinamismo a livello internazionale. Considerata l’ulteriore accelerazione che subiranno questi comparti alla luce degli obiettivi climatici per il 2030, diventa strategica per il Paese la valorizzazione delle realtà nazionali che operano in questi ambiti. Questo comporta un’attenzione alla ricerca e alle applicazioni delle tecnologie innovative in Italia, in modo da favorirne poi l’esportazione.

L’attuale contesto di basso prezzo del petrolio rappresenta una congiuntura favorevole per l’introduzione di una carbon tax. Hanno sottolineato l’opportunità di questa proposta, tra gli altri, la Iea (International Energy Agency) e la Banca Mondiale. Poiché la delega fiscale prevede che si approvi la carbon tax, che entrerebbe in vigore solo quando adottata a livello europeo, il Governo italiano deve agire con fermezza.

La mobilità elettrica deve essere promossa con decisione per motivi ambientali locali, per ridurre le emissioni climalteranti e per favorire la creazione di una filiera industriale. Considerati gli obiettivi climatici al 2020 e quelli al 2030, e in particolare i limiti alle emissioni medie di CO2 delle nuove automobili (95 g/km nel 2020), occorre che almeno un decimo dei veicoli venduti in Italia alla fine del decennio sia elettrico. Attualmente nel nostro Paese la diffusione di veicoli elettrici è bassissima e decisamente inferiore a quella

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28 iniziative di molti Paesi europei. Per favorire le vendite occorrerebbe aumentare marginalmente la fiscalità sulla grande platea dei veicoli maggiormente inquinanti (per esempio le auto oltre i 200 gCO2/km) e destinare gli extra introiti al sostegno dei veicoli a minimo impatto. Occorrerebbe inoltre promuovere la realizzazione di punti di ricarica direttamente presso le abitazioni o le aziende.

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Puntare sulla riqualificazione spinta del parco edilizio

Per raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione europei al 2050 (-80%) occorre un deciso cambio di marcia nelle politiche di riqualificazione del parco edilizio esistente. Questo significa agire su due livelli: l’aumento della quota di superficie annualmente efficientata e il passaggio dalla pratica oggi prevalente di interventi su singoli appartamenti alla riqualificazione spinta che consenta di ridurre i consumi fossili del 70-90%. In pratica, occorrerà decuplicare nel giro di 15-20 anni i risparmi di energia ottenuti annualmente in questo comparto prevedendo un incremento annuo del 15% delle riduzioni dei consumi. Per raggiungere questi obbiettivi serve una politica coraggiosa di rilancio delle politiche di efficienza, la predisposizione di un’adeguata strumentazione finanziaria e la creazione di una filiera industriale in grado di intervenire in maniera integrata e seguendo approcci innovativi. Un’adeguata rimodulazione del Conto termico e dei TEE, accompagnata da fondi di garanzia, potrebbe attivare ingenti risorse private in grado di rimettere in moto il comparto delle costruzioni e di sfruttare il nostro “shale gas” rappresentato dall’inefficienza del nostro parco edilizio.

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Valorizzare il patrimonio forestale nazionale

Oltre 1/3 del territorio nazionale è costituito da boschi e foreste, negli ultimi 60 anni la superficie forestale è più che raddoppiata passando da 5 a quasi 11 milioni di ettari. Questa crescita non rappresenta il frutto di vere e proprie politiche ma, paradossalmente, è il risultato dell’abbandono. I boschi, sempre di più, possono rappresentare per il nostro

aprile/maggio 2015

Paese un’importante occasione di crescita e sviluppo imprenditoriale sostenibile, costituendo la base, non delocalizzabile, di un sistema economico che nella produzione di beni ecocompatibili e servizi ecosistemici può trovare ampie opportunità di crescita e innovazione. La materia forestale rimane un tema d’interesse strategico trasversale a diverse politiche (economica, ambientale, sociale, culturale). Si osserva una crescente sovrapposizione di competenze e ruoli a livello nazionale, regionale e locale con incertezze, contenziosi e appesantimento negli iter burocratici a svantaggio degli operatori del settore e dell’efficacia delle politiche. È urgente promuovere e dare continuità alla gestione attiva del patrimonio forestale, quale strumento indispensabile per lo sviluppo delle filiere produttive legate ai prodotti legnosi destinati all’edilizia, all’arredamento e alla produzione di energia rinnovabile, comprendendo la tutela del territorio e la salvaguardia ambientale e paesaggistica, la conservazione delle componenti bio-culturali del territorio italiano, la protezione e prevenzione del dissesto idrogeologico e degli incendi. È necessario riordinare la disciplina del settore e delle sue filiere ferma al 2001 con il D.lgs. 227/2001.

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Promuovere un nuovo mercato elettrico

Ai sensi del D. Lgsl. 102/2014 va promossa l’aggregazione della produzione FER in ambiti territoriali omogenei. L’aggiunta di back-up (oggi cicli combinati, domani accumuli), renderebbe ancora più prevedibile l’offerta e consentirebbe alle FER di partecipare a pieno titolo sia al Mercato del giorno prima che al Mercato infrasettimanale e al Mercato del servizio di dispacciamento. A tal fine è sufficiente calcolare gli eventuali oneri di sbilanciamento per l’aggregato e non per il singolo impianto che, se non si aggregasse, risulterebbe penalizzato. Sarebbe necessario modificare la normativa attuale di Terna, perché possa dispacciare insieme impianti allacciati in punti diversi della rete, rendendo analoga così la nostra normativa a quella del Regno Unito. La gestione aggregata di impianti contenenti FER non programmabili sarà enormemente facilitata dall’utilizzo


aprile/maggio 2015

esteso di accumuli elettrochimici, accompagnato con misure “ad hoc”. Va altresì consentita la stipula di contratti a lungo termine, che evitano l’offerta di energia a costo zero, riducono l’imprevedibilità dei ritorni economici (che scoraggia gli investimenti), orientano meglio gli investimenti per loro natura ad alta intensità di capitale e con ritorni molto differiti nel tempo. Le attuali normative - che non consentono di stipulare contratti bilaterali di qualsiasi durata, in quanto il compratore può disdirli senza alcuna penalità con preavvisi molto brevi - vanno abrogate, a favore di forme contrattuali che prevedano le consuete garanzie per la risoluzione anticipata. Per superare la comprensibile diffidenza di venditori e compratori verso impegni a prezzi fissi per un periodo prolungato (salvo adeguamenti in itinere), sempre ai sensi del D. Lgsl. 102/2014 va promossa la costituzione di aggregatori della domanda, una scelta coerente con il New Deal for Europe’s Energy Consumers e l’attuazione della demand response.

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Semplificare le rinnovabili

Per continuare a investire nel nostro Paese sono necessarie regole chiare, certe, stabili nel tempo e che, soprattutto, siano coerenti con un preciso disegno di politica energetica di lungo periodo. Occorre in sostanza invertire il senso di marcia per scongiurare che gli sforzi della collettività per la promozione delle rinnovabili vengano totalmente vanificati. Arrivare a un sistema nel quale, grazie a reti intelligenti e capacità di accumulo ben progettate, il trasporto dell’energia (previa trasformazione) svolgerà solo una funzione ancillare e residuale. Nel quale saranno necessarie ovviamente capacità di riserva (e dovranno essere remunerate equamente), ma il baricentro del sistema sarà la generazione diffusa da fonte rinnovabile immediatamente utilizzata. Per sostenere questa trasformazione si propone: • di emanare un nuovo schema di sostegno

che riguardi gli impianti di taglia piccola e media a servizio di famiglie e PMI, e sia a “incremento di costo zero” (utilizzando esclusivamente i risparmi derivanti da cali di produzione e uscita impianti incentivati, anche per revoca), privilegiando comunque efficienza e autoconsumo (es. favorendo l’istallazione di batterie e gli interventi FV su edifici con rimozione di amianto, o l’uso energetico di sottoprodotti); • di promuovere in particolar modo la minicogenerazione da biogas agrozootecnico e biomasse solide fino a 500 kW integrate nei cicli produttivi che hanno molteplici effetti positivi sia ambientali come economici; • di semplificare e promuovere l’istallazione di sistemi geotermici a reimmissione totale (o senza prelievo di acqua) nella taglia delle Piccole Istallazioni Locali, che possono portare un enorme contributo all’efficienza energetica del territorio; • di rivalutare i meccanismi di autorizzazione e le definizioni, avviando semplificazioni: unificando i diversi adempimenti verso amministrazioni locali, rete elettrica, etc. per gli impianti integrati a edifici esistenti e a loro servizio (anche geotermici) sino a una soglia differenziata per tecnologia; per

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30 iniziative gli elettrodotti in MT quando a servizio di impianti da rinnovabili; per le autorizzazioni paesaggistiche nei casi semplici; per il caso di impianti su discariche, ex cave e siti inquinati nelle quali l’uso energetico (anche per coltivazioni no-food a utilizzo vincolato) deve sospendere le procedure di bonifica, previa messa in sicurezza; per le reti private che collegano utenze industriali e commerciali e impianti di produzione da fonte rinnovabile o con modalità cogenerativa ad alto rendimento (CAR); per il silenzio-assenso, al netto delle procedure ambientali, trascorsi inutilmente i termini previsti per legge per l’emanazione delle autorizzazioni e/o dei pareri e permessi; per l’introduzione del “diniego costruttivo”; • di potenziare il meccanismo dei SEU, consentendo l’accesso ai benefici per “aggregatori” di domanda e offerta (“centrali di vendita” e “centrali di acquisto”, o altre forme di aggregazione di soggetti e impianti) connessi direttamente, anche tramite la rete con obbligo di connessione di terzi; • di rivedere la fiscalità stabilizzando i crediti di imposta per gli interventi di efficientamento energetico.

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Semplificare la microcogenerazione ad alta efficienza

Per raggiungere gli obiettivi di efficienza energetica imposti, in particolare nel settore edilizio e dei servizi, è necessario semplificare drasticamente la possibilità di realizzare investimenti nella microcogenerazione ad alta efficienza, il cui potenziale mercato è vastissimo ma ostacolato severamente dalla complessità degli adempimenti necessari per l’installazione degli impianti e soprattutto per l’accesso agli incentivi nonostante la disciplina europea (Direttiva 2012/27/EU) ne raccomandi esplicitamente lo sviluppo attraverso idonee politiche strutturali. Al fine di promuoverne lo sviluppo si dovrebbe: prevedere l’installazione necessaria di impianti di cogenerazione ad alto rendimento nei progetti di edifici di nuova costruzione e di ristrutturazioni rilevanti degli edifici esistenti, come già previsto per esempio per gli impianti alimentati da fonti rinnovabili; aprile/maggio 2015

prevedere un metodo standardizzato di riconoscimento dei Titoli di Efficienza Energetica che prescinda dalla valutazione caso per caso; applicare anche all’installazione di micro cogeneratori il beneficio della detrazione fiscale al 65%; abolire l’officina elettrica (almeno fino a 20 kW), il contatore fiscale, il registro delle misure di energia elettrica e l’applicazione dell’accisa sull’energia elettrica prodotta calcolandola sul combustibile utilizzato a partire dalla misurazione diretta del combustibile; in merito al tema della prevenzione incendi bisogna innalzare il limite entro il quale sia sufficiente una semplice dichiarazione dell’installatore.

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Valorizzare gli impianti rinnovabili esistenti

Gli impianti oggi in produzione costituiscono un valore per il sistema e, se opportunamente rinnovati, potrebbero continuare a produrre energia rinnovabile a un costo minore e a impatto ambientale e paesaggistico pressoché nullo, in quanto già “speso”, riducendo inoltre la necessità di installazioni future su nuovi siti. Per ottenere questo risultato bisogna incoraggiare, invece di ostacolare con tante piccole regole immotivate, l’efficientamento del parco di generazione da rinnovabili esistente, consentendo per esempio spostamenti di impianti in favore di maggiore possibilità di autoconsumo (a incentivi invariati), oppure di potenziare la produzione a parità di impianto (consentendo l’accesso per tali potenziamenti ai meccanismi previsti nei nuovi schemi di sostegno e facilitando comunque la generazione non incentivata aggiuntiva). Altre misure necessarie sono l’eliminazione dei divieti imposti dallo “spalmaincentivi volontario”, l’introduzione di ulteriori semplificazioni autorizzative, un accesso facilitato agli incentivi con meccanismi e contingenti dedicati, una maggior chiarezza su temi come la possibilità di riutilizzo di componenti dell’impianto preesistente, la possibilità per gli impianti di biogas di sfruttare il gas proveniente da ampliamenti delle discariche non previste in progetto. 

*Consulente Comunicazione Coordinamento FREE **Coordinatore Operativo FREE e Consigliere ATER



32 scenari

CITTÀ IN TRANSIZIONE di Giuliano Dall’O’ *

I quartieri e le città sostenibili sono le vere matrici del cambiamento verso modelli smart

Quando si tocca il tema Smart City le definizioni si sprecano, e non a torto. Quello delle città “intelligenti” è infatti un tema complesso, nel quale molti aspetti di cambiamento economico, sociale e ambientale interagiscono attraverso le innovazioni tecnologiche, a partire dall’ICT (Information and Communication Technology). aprile/maggio 2015

Parlare oggi di Smart City vuol dire fare riferimento a un modello di città nel quale, prima di tutto, si modificano i rapporti tra i cittadini e le istituzioni, tra i cittadini e il mondo dell’economia e, ovviamente, tra i cittadini stessi. Una Smart City deve essere valutata in modo dinamico come processo evolutivo, utilizzando protocolli che ci aiutano a misurare la smartness nelle diverse aree, da quella economica a quella dei trasporti, da quella ambientale a quella sociale o di qualità della vita. Gli indicatori utilizzati, pur con le loro criticità, ci consentono di effettuare un confronto tra realtà diverse. Non tanto con l’obiettivo di capire qual è la città più smart, quanto con lo scopo di evidenziare eccellenze, buone pratiche ma anche criticità che possono essere rimosse. In una città che intraprende un percorso verso una dimensione più smart la conoscenza non solo qualitativa ma anche quantitativa delle informazioni, che


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diventano poi indicatori, e il continuo e costante monitoraggio di queste rappresentano un valore aggiunto per misurare i cambiamenti e le politiche che stanno dietro.

I precursori delle città smart La “città intelligente” forse non troverà mai una definizione condivisa. La teorizzazione di un concetto si può basare partendo da un’analisi di ciò che è stato fatto e che si sta facendo, dalle esperienze spesso parziali di sviluppo economico, sociale e ambientale che, pur nella loro diversità, hanno un denominatore comune: l’obiettivo di migliorare la qualità dell’abitare dei cittadini e la ricerca di un nuovo rapporto tra cittadini e ambiente. Possono essere considerati precursori delle future Smart City Arcosanti, la città utopica, solo in parte realizzata, progettata da Paolo Soleri in Arizona, oppure le green town come il quartiere Vauban a Friburgo o il quartiere Krönsberg alle porte di Hannover entrambe in Germania, oppure la City of the Sun a Heerhugowaard (Olanda), considerata la più estesa area residenziale senza emissioni di CO2, per non parlare del quartiere Bo01 di Malmö (Svezia), più nota come City of Tomorrow basata sulla sostenibilità ambientale, ma anche sulla costruzione di una società nella quale la comunità che è al centro delle scelte sia in grado di stimolare i soggetti per l’innalzamento della qualità ambientale, sociale e fisica. Nelle matrici del cambiamento verso modelli smart dobbiamo necessariamente dare una giusta collocazione a movimenti come per esempio quello delle Transition Town o quello della decrescita felice. Il concetto stesso di città resilienti, ossia di città progettate con un’impostazione urbanistica in grado di reagire agli eventi naturali, deve far parte del percorso delle città smart perché una città che non è in grado di resistere alle calamità naturali non può essere considerata intelligente. Il tema della sostenibilità, energetica e ambientale, è uno dei pilastri delle Smart City. Per comprendere ciò che una città può concretamente fare, è utile capire quali sono gli strumenti che l’Amministrazione comunale ha a disposizione, ma soprattutto quali sono le interazioni che esistono tra questi strumenti che, forse perché elaborati in tempi diversi, in ambiti diversi o con diverse

finalità, spesso evidenziano sovrapposizioni e non di rado contraddizioni. Obiettivo di una smart governance è quello di utilizzare questi strumenti al meglio, potenziandoli con tutte le idee che per il loro tramite possono essere attuate. Il grafico di figura 1 evidenzia, ma allo stesso tempo integra, la sovrapposizione di due logiche di governance, una top-down che prevede il passaggio dalla programmazione nazionale a quella regionale fino ad arrivare a quella comunale, e una bottom-up, che parte quindi dal basso, enfatizzata negli ultimi anni dal progetto europeo Patto dei Sindaci. La pianificazione energetica regionale, resa obbligatoria dalla legge 10 del 1991, ha l’obiettivo di individuare le risorse energetiche rinnovabili disponibili ma si evolve come strumento di programmazione energetica, e spesso ambientale, completo, definendo strategie e obiettivi. Lo sviluppo del territorio alla scala comunale viene governato da quello che una volta si chiamava Piano Regolatore Comunale ma che oggi, grazie alle riforme avvenute nella legislazione urbanistica, si chiama Piano di Governo del Territorio. All’interno della FIGURA 1

Integrazione degli strumenti di pianificazione energetica e sostenibile alle varie scale

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34 scenari programmazione comunale possono essere utilizzati strumenti di programmazione urbanistica sub-comunale, che possiamo definire genericamente Piani Attuativi, strumenti cioè che consentono di definire e applicare regole che possano tenere conto di particolari specificità. Rimanendo sempre alla scala comunale troviamo altri strumenti di programmazione che possono contribuire a tracciare l’evoluzione di una città verso un modello smart. Uno di questi è il Piano del Traffico, sempre più spesso chiamato Piano della Mobilità Sostenibile, ma ce ne sono altri, dal Piano dei Rifiuti al Piano per l’illuminazione pubblica; a questo punto ci spingiamo nelle specificità locali: alcuni Comuni italiani hanno perfino approvato il Piano per la Decrescita. Uno strumento molto strategico per una smart city è il Regolamento Edilizio Comunale che detta le regole su come gli edifici debbano essere realizzati sia che si tratti di nuovi edifici sia che si tratti di edifici soggetti a ristrutturazione o a manutenzione straordinaria. Il Regolamento Edilizio Comunale definisce anche il rapporto tra gli edifici e il contesto territoriale, detta regole per gli spazi pubblici e per gli spazi privati.

Il Patto dei Sindaci Il Piano d’Azione per l’Energia Sostenibile (PAES o SEAP nell’acronimo inglese), inteso come strumento attuativo del Patto dei Sindaci, si colloca tra gli strumenti non cogenti, ossia non previsti dalla legislazione nazionale o regionale. La letteratura in materia di Smart City, tuttavia, è concorde nel considerare l’efficacia di questo strumento che nel suo concept originale contiene molti degli elementi necessari a garantire uno sviluppo intelligente delle città. Nell’ambito dell’iniziativa smart cities promossa del settimo programma quadro della UE, il Progetto THINK nel suo rapporto finale, che ha per titolo “Come favorire una transizione rapida verso sistemi locali di energia sostenibile”, ipotizza tre livelli di possibile “smartness” delle città. Un primo livello nel quale la città assume un ruolo di leader sulla base degli esempi che essa stessa propone (per esempio promuove una politica di efficienza energetica aprile/maggio 2015

nelle scuole), un secondo livello in cui la città svolge un ruolo di Policy Maker attuando una governance per gli attori privati, e infine un terzo livello in cui la città svolge un ruolo di coordinatore attraverso un approccio integrato. Operando a questo livello dallo studio emerge che il PAES, proprio per le sue caratteristiche, diventa lo strumento più strategico per il cambiamento (fig. 2). Il cambiamento delle città è molto difficile che avvenga in modo globale, non a caso tra gli esempi di precursori delle Smart City non troviamo città ma quartieri. L’evoluzione delle città verso modelli più sostenibili e smart deve necessariamente partire dai quartieri attraverso processi puntuali di rigenerazione urbana. Se uno o più quartieri cambiano si potrà attivare in modo spontaneo un processo di contaminazione in grado di trasformare l’intera città. Ma come stimolare e misurare questo cambiamento? Negli ultimi anni si sono sviluppati a livello internazionale protocolli di certificazione di “quartieri sostenibili”: questi strumenti - anche se nella forma originale vengono promossi privatamente su base volontaria dagli operatori che individuano una stretta correlazione tra la qualità dell’abitare e il valore commerciale degli interventi - devono essere considerati con attenzione in quanto possono contribuire ad accelerare la crescita di nuovi quartieri, e successivamente di intere città, su modelli smart. Si tratta di veri e propri protocolli che definiscono regole per la sostenibilità, regole che riguardano gli edifici ma anche il tessuto urbano. Una volta definito il protocollo è necessario condividere le regole: ci sono requisiti minimi, o pre-requisiti, che devono essere rispettati e ci sono crediti che possono essere ottenuti sulla base delle scelte progettuali che si fanno. La somma dei crediti concorre a determinare il punteggio finale e il livello di classificazione. La certificazione, che viene rilasciata da un soggetto terzo, quindi indipendente, per poter essere mantenuta nel tempo ha la necessità di essere verificata periodicamente. Un po’ come avviene con un sistema per la gestione della qualità. A livello internazionale il sistema di rating


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per la certificazione dei quartieri sostenibili più diffuso è il LEED for Neighborhood Development o più semplicemente LEED ND. Il sistema di certificazione LEED (acronimo di The Leadership in Energy and Environmental Design) è stato sviluppato negli Stati Uniti dallo U.S. Green Building Council (USGBC). Il protocollo ND, in particolare, è stato elaborato con il supporto del movimento degli urbanisti Congress of the New Urbanism e del Natural Resources Defence Council. Sempre a livello internazionale esistono altri protocolli per la certificazione dei quartieri sostenibili: il BREEAM Communities, sistema di rating proposto dal Building Research Establishment nel Regno Unito, e il CASBEE (Comprehensive Assessment System for Build Environment Efficiency) for Urban Development proposto dal Green Building Council giapponese. Il GBC italiano ha recentemente proposto un adattamento italiano del protocollo originale LEED NS, chiamato GBC Quartieri che si articola in cinque categorie: • localizzazione e collegamenti del sito: questa categoria focalizza i suoi crediti nella selezione di aree da sviluppare o recuperare in modo da minimizzare gli effetti negativi sull’ambiente. Lo “sprawling” urbano, inteso come una crescita disordinata e non omogenea di aree urbanizzate, soprattutto residenziali, può essere infatti causa di distruzione di habitat naturali locali come le zone umide, dell’aumento delle emissioni di gas serra e del deflusso delle acque meteoriche, ma soprattutto dell’incremento dell’utilizzo dell’automobile per accedere ai servizi di base; • organizzazione e programmazione del quartiere: questa categoria focalizza i requisiti di un’area territoriale fortemente collegata e connessa alle altre comunità adiacenti. In particolare vengono prese in considerazione l’efficienza delle infrastrutture e della compattazione urbana. Viene promossa la “mixité” urbana con i servizi e gli spazi pubblici, fortemente connessi da reti ciclabili e pedonali; • infrastrutture ed edifici sostenibili: questa categoria focalizza l’attenzione dei requisiti

sulla riduzione degli impatti ambientali che la costruzione e la manutenzione di edifici e infrastrutture comportano. La sostenibilità di un’area deriva sia dalla corretta gestione dello sviluppo urbano che dalla corretta costruzione e gestione di edifici e infrastrutture altamente sostenibili. Questo comprende prestazioni di sostenibilità degli edifici e delle infrastrutture ovvero tutti i temi della corretta gestione delle acque, dell’efficienza energetica, del corretto uso/ smaltimento dei materiali, con riferimento ai sistemi LEED e GBC HOME; • innovazione della progettazione: progettazione innovativa e prestazioni esemplari che eccedono i livelli contenuti in specifici crediti della scheda punteggio; • priorità regionali: questa categoria valuta strategie che indirizzino priorità specifiche di zone geografiche. Per ottenere la certificazione GBC Quartieri, devono essere soddisfatti tutti i prerequisiti e raggiunto il punteggio minimo previsto. La somma dei punteggi dei crediti puntati ottenuti determina il livello di certificazione.

Accelerare il processo Per accelerare il processo evolutivo verso un modello sostenibile, inclusivo e per questo FIGURA 2

Concept di una smart city

fonte: progetto THINK

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36 scenari

smart, si può fare molto e con budget limitati. Una Smart City è una città che affronta la questione energetica in modo globale, che si dà un programma, che promuove azioni concrete, che coordina tutti gli attori, dai cittadini alle imprese, dai gestori dell’energia agli amministratori, dagli artigiani ai tecnici, utilizzando al meglio quegli strumenti che fino a oggi sono stati utilizzati solo per dare un’immagine di impegno: • il piano di governo del territorio deve avere il coraggio di proporre modifiche radicali del tessuto urbano, identificando all’interno della città zone dove si evidenzino interventi smart dal punto di vista energetico, quartieri realmente sostenibili, efficienti, certificati, che diventino l’esempio e l’icona della città che sta cambiando; • il piano energetico comunale deve definire strategie nel medio e nel lungo periodo forti, in grado per esempio di programmare la realizzazione di infrastrutture energetiche, reti di teleriscaldamento o di teleraffrescamento ove economicamente possibile, generazione distribuita dell’energia sfruttando la cogenerazione. Il piano aprile/maggio 2015

energetico si dovrebbe far carico della programmazione e della gestione dei grossi impianti da fonti energetiche rinnovabili, centrali fotovoltaiche e centrali eoliche, attivando e valorizzando una strategia di generazione di energia distribuita; • il regolamento edilizio comunale dovrebbe definire regole per accelerare il processo verso un miglioramento della sostenibilità energetica e ambientale degli edifici, mantenendo una visione smart, ossia considerando che gli edifici saranno sempre più parte di una città che cambia, di una città sempre più orientata a fornire servizi e a diventare un sistema unico inclusivo anche dal punto di vista delle tecnologie; • il piano d’azione per l’energia sostenibile deve essere valorizzato come strumento che può realmente accelerare il cambiamento verso una città smart, come uno strumento realmente inclusivo all’interno del quale il cittadino e gli altri attori, che generalmente vengono chiamati stakeholder, si sentono realmente protagonisti del cambiamento. Ma se è vero che il cambiamento avviene dal basso, a scala sub-urbana, la trasformazione della città può essere accelerata attraverso l’implementazione di protocolli di certificazione ambientale come per esempio il GBC Quartieri. Questi strumenti, pur partendo da una base volontaria, possono fornire regole condivisibili sia a livello locale che a livello regionale o nazionale e diventare punto di aggregazione tra gli strumenti cogenti che spesso non si parlano o dettano regole diverse. Un processo di cambiamento sociale, perché è questo che realmente avviene in una Smart City, non accontenta mai tutti. Alcuni non lo comprendono, semplicemente perché faticano a recepire e ad assimilare l’innovazione, altri invece guardano con sospetto tutto ciò che è nuovo. L’evoluzione che porterà le nostre città a essere sempre più intelligenti, tuttavia, è un processo irreversibile nel quale, finalmente, l’innovazione tecnologica e il riscatto sociale dovranno coesistere mantenendo ben chiaro l’obiettivo che è poi quello di migliorare la qualità della vita dell’uomo in tutti i suoi aspetti. È questa la vera sfida.  *Politecnico di Milano



38 edilizia

ANALIZZARE IL BIOMATTONE di Sergio Ferraris*

Anche i nuovi settori legati della green economy devono essere sottoposti ad analisi dal punto di vista dei lavoratori

Leggendo studi e pubblicazioni sindacali del passato, spesso reperibili solo su bancarelle o in biblioteche specializzate, si trovavano frequentemente analisi sul mondo del lavoro e sui processi di produzione che possiedono ancora oggi una forte carica d’attualità. Un esempio di ciò lo si può trovare in un documento dell’allora Flm, l’ex sindacato unitario dei metalmeccanici, datato gennaio 1980 che criticava in maniera netta e decisa la svolta nucleare del Governo italiano. Allora il Piano energetico nazionale del 1975 prevedeva ben 20 GWe d’energia atomica entro il 1985, e lo studio - realizzato dal Flm a un solo anno dall’incidente di Harrisburg e con sei anni d’anticipo rispetto a quello di Chernobyl criticava aspramente lo sfruttamento dell’atomo a fini civili, con una profondità d’analisi che lascia sconcertati. Oggi si direbbe che il sindacato non sia più in grado di produrre cose simili, ma con ogni probabilità si tratta solo di scarsa comunicazione. L’Associazione Bruno Trentin – IRES - ISF, infatti, ha recentemente effettuato, su commissione della FILLEA-CGIL (Federazione Italiana Lavoratori Legno, Edili e Affini) coordinata da Serena Rugiero, la ricerca “Nuovi modelli di abitare e di produrre”, nella aprile/maggio 2015

quale ci si interroga su come si trasformi il lavoro all’interno delle dinamiche che stanno portando allo sviluppo dell’edilizia sostenibile. La premessa è che in edilizia siamo di fronte a una trasformazione profonda, un vero e proprio punto di svolta, che si regge su due cardini. Il primo è il fatto che ormai l’edilizia, così come l’abbiamo conosciuta fino a oggi, non esiste più. Le grandi infrastrutture e la nuova edilizia residenziale, infatti, possiedono percentuali di nuovo realizzato sempre più basse, mentre lo sviluppo è legato alle ristrutturazioni e all’efficientamento. E anche nelle nuove edificazioni del settore residenziale la trasformazione è radicale, con cambiamenti che coinvolgono sia le figure professionali, sia il concetto stesso di cantiere che non è più centrale nella dinamica del lavoro e delle imprese.

Lavori che cambiano Per quanto riguarda le figure professionali nel panorama dell’edilizia, si sta verificando un fenomeno inedito per il settore, ossia quello della qualificazione del capitale umano in relazione all’innovazione tecnologica e produttiva, e il perché è presto detto. L’arrivo di tecnologie e pratiche innovative come quelle legate all’efficientamento energetico e alla domotica - e domani alle smart cities - sta profondamente cambiando il “prodotto edilizio” - inteso come edificio - con l’apporto di una serie quasi infinita di innovazioni che devono essere implementate a livello di singolo edificio, perchè comunque il “prodotto” finale in edilizia è e rimane qualcosa di “sartoriale”, spesso rappresentato da un pezzo unico. In questo quadro, secondo gli autori della ricerca, i profili professionali rappresentano entità dinamiche, in continuo mutamento e che rispecchiano


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il quadro evolutivo del sistema. In questo scenario, quindi, si pone in essere una relazione d’influenza tra l’agire dell’impresa e il ruolo dell’azione professionale, cosa che mette gli individui al centro della scena del cambiamento. Più nello specifico, l’analisi condotta dai ricercatori ha portato a formulare una serie di suggerimenti per supportare l’azione dei protagonisti nei processi costitutivi del green building. In primo luogo per le imprese dell’edilizia, caratterizzate da dinamiche negli anni passati estremamente conservatrici, sarà necessario misurarsi con le continue evoluzioni e le previsioni dei propri bisogni professionali, pena il non poter soddisfare le richieste di una clientela sempre più esigente all’interno di uno scenario che sarà caratterizzato da un’elevata competizione. Andranno anche ripensati

radicalmente la formazione e l’aggiornamento, sia per gli occupati, sia per coloro che si apprestano a essere inseriti nel settore, indipendentemente dal fatto che vi abbiano già lavorato o meno, poiché sarà necessario un confronto con le nuove mansioni insite nei processi di mutamento tecnologico, mentre gli attori della formazione dovranno fornire non solo know how specifico, ma anche conoscenze atte a favorire lo sviluppo dell’occupabilità e dell’adattabilità degli addetti, al fine anche di aumentare la competitività delle imprese. E trovare in una ricerca prodotta dal sindacato l’attenzione alla competitività delle aziende non è cosa da poco e dovrebbe far riflettere. Nello specifico, secondo un rapporto del “Center for American Progress”, le professioni dell’edilizia maggiormente coinvolte nello sviluppo dell’economia sostenibile

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40 edilizia

sono: elettricisti, installatori di impianti di climatizzazione, carpentieri, addetti al movimento terra, costruttori di tetti, addetti all’isolamento, dirigenti e ispettori. Ma ciò che caratterizza queste figure, per così dire “mutate”, è in realtà l’alto grado d’intersettorialità che dovranno acquisire, o mantenere, per reggere la sfida. Nello specifico, secondo il “National center for O*Net Development” degli Stati Uniti, sono ben ventinove le figure professionali che dovranno essere caratterizzate da una forte intersettorialità, specialmente con l’industria manifatturiera. Infatti, nell’edilizia saranno sempre più presenti sistemi complessi che arriveranno già semifiniti in cantiere e che necessitano di montaggi e realizzazioni ad hoc. I sistemi a energie rinnovabili sono uno degli esempi più chiari di ciò. Nel fotovoltaico, per esempio, si coinvolgono gli addetti ai tetti, mentre gli elettricisti devono fare i conti con gli agenti atmosferici e le alte temperature, due elementi che non hanno mai riguardato gli impianti elettrici tradizionali, visto che sono all’interno dell’edificio. Stesso discorso per il solare termico, mentre è ancora più pressante l’aspetto tecnico per i serramentisti che sono, aprile/maggio 2015

per la prima volta nella loro storia, tenuti a garantire la tenuta, sia all’aria, sia energetica, non solo dei serramenti, ma anche della loro posa in opera.

Legno protagonista Uno dei casi di trasformazione più evidente del settore edile, nel quale si tocca con mano il cambiamento, è quello dell’edilizia sostenibile in legno. Poco diffusa nel nostro Paese, l’edilizia in legno sta conoscendo un alto tenore di sviluppo sia per il suo utilizzo in realizzazioni architettoniche particolari, sia per la costruzione di interi edifici in legno. In entrambi i casi è presente un alto tasso d’innovazione, anche se sembrerebbe il contrario visto che il legno è un materiale associato nell’immaginario collettivo all’antichità. Le grandi luci di edifici collettivi, come palestre, auditorium, teatri e così via, sono sempre più realizzate utilizzando legno lamellare dalle caratteristiche tecniche innovative, così come gli edifici - si è arrivati a realizzarne alcuni in Italia di otto piani - sono sempre più prefabbricati. Il fatto di realizzare pezzi importanti degli edifici in legno al di fuori del cantiere ha ridotto la “centralità” dello stesso, spostando una buona parte del lavoro


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in fabbrica dove si progettano e si costruiscono - utilizzando macchine a controllo numerico - sezioni importanti degli edifici, i cui limiti dimensionali sono circoscritti dalla logistica del trasporto, come mezzi e strutture viarie. Si riduce quindi l’importanza del cantiere come luogo di formazione dei manufatti e di, parziale, elaborazione concettuale dell’edificio, ma non solo. Con il legno si riducono i tempi di cantiere poiché una volta terminato l’assemblaggio di una sezione, o un piano dell’edificio, si può immediatamente proseguire con l’installazione dell’impiantistica, violando quello che fino a poco tempo fa era un dogma: evitare le fasi di sovrapposizione di cantiere. Dal punto di vista dell’occupazione, gli effetti sono chiari: si aumentano gli addetti specializzati nella progettazione e nella realizzazione in fabbrica e si diminuiscono le ore di lavoro/uomo più dequalificate di cantiere.

Salute in primo piano Un capitolo interessante e inedito della ricerca è quello relativo ai rischi per la salute e la sicurezza nell’edilizia sostenibile. Anche perchè non è detto che un green job sia anche un good job e bene fa il sindacato a interrogarsi su ciò. Le ricerche sulla questione non sono ancora approfondite e risultano essere di carattere generale, ma alcune questioni da affrontare sono già emerse. La prefabbricazione, per esempio, farà diminuire i rischi nei cantieri, ma saranno tutte da affrontare le nuove problematiche interne alle fabbriche, mentre sarà necessario verificare attentamente i potenziali rischi relativi alle nuove sostanze che si stanno affacciando sullo scenario dell’edilizia efficiente - non bisogna dimenticare il fatto che l’amianto è, dopotutto, un materiale naturale - e alle combinazioni tra le stesse. L’utilizzo maggiore di macchinari e dell’automazione spinta, sia in fabbrica, sia in cantiere, offrirà nuove opportunità, ma anche nuovi rischi, inediti, sul lavoro, mentre molto importanti sono le tematiche legate alle ristrutturazioni dei vecchi edifici che rappresenteranno sempre più una fetta di mercato più larga. Gli interventi di questo tipo infatti saranno caratterizzati da un alto rischio d’infortuni, visto lo stato di molti edifici, e di un altrettanto alto grado di rischio

sul fronte della salute dei lavoratori in quanto spesso in queste tipologie edilizie sono stati impiegati materiali dannosi, come l’amianto, che necessitano di bonifiche specifiche che devono essere affrontate in un quadro stringente di competenze e legalità, scenari sui quali spesso l’edilizia tradizionale è “zoppicante”. Altra questione importante legata alla bioedilizia è quella legata al ciclo, e al riciclo, dei prodotti edilizi, una delle caratteristiche peculiari della sostenibilità nell’edilizia stessa, fatto che comporta la creazione di una nuova filiera, con tutte le incognite e i rischi potenziali connessi. Un caso per tutti è quello legato all’utilizzo, sempre più massiccio, delle nanotecnologie in edilizia, specialmente in quella sostenibile. La conoscenza dei rischi di queste sostanze da parte dei lavoratori è molto bassa. Se il 54% dei cittadini europei non conosce il significato della parola, ben il 75% dei lavoratori e degli imprenditori, secondo uno studio dell’EU-OSHA, non è nemmeno consapevole di lavorare con nanomateriali. Circa le considerazioni da fare per avviare una seria riflessione sul rapporto tra la green economy e le condizioni di lavoro, il sindacato consiglia d’inserire il dibattito e i contenuti sulla salute di lavoratori e cittadini, nello scenario della green economy, promuovere la prevenzione attraverso un sistema continuo e partecipato e considerare la stessa lungo tutte le fasi delle nuove filiere. Non è meno importante l’aspetto formativo che deve contenere tutte le tematiche su salute e sicurezza, nonché il rafforzamento della ricerca sui nuovi processi. Infine, per il sindacato, è necessario considerare la salute di lavoratori e cittadini all’interno dei sistemi di certificazione, anche favorendo l’integrazione tra le diverse certificazioni. Nessuna chiusura al nuovo, quindi, ma molta attenzione da parte del sindacato ai nuovi processi della bioedilizia, oltretutto senza chiusure anti-industriali che spesso si trovano ancora nel dibattito italiano, sinistra e ambientalisti compresi. Mantenendo, però, quello spirito di “classe”, ossia di differenza tra operai e imprenditori che forse sarebbe necessario rivalutare, per sviluppare una vera dialettica sociale che porti a una migliore comprensione dei fenomeni.  *direttore QuelEnergia

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aprile/maggio 2015

Progettare la resilienza di Mario Zambrini*

RESILIENZA E ADATTAMENTO SONO LE NUOVE SFIDE DELLA POLITICA AMBIENTALE. SPECIALMENTE NELLA TRASFORMAZIONE URBANA

Parallelamente alla crescente consapevolezza dei processi di cambiamento climatico di origine antropica, alle politiche di lotta alle emissioni climalteranti si sono affiancate strategie e politiche finalizzate a rafforzare la capacità di adattamento dell’insediamento umano al progressivo mutare delle condizioni climatiche e ambientali. In Europa il tema è ormai parte integrante delle politiche di coesione, e «la promozione dell’adattamento al cambiamento climatico, la prevenzione e la gestione dei rischi» costituisce uno degli undici obiettivi tematici (con la transizione a un’economia a bassa intensità di carbonio, alla tutela dell’ambiente

e all’efficienza nelle risorse) ai quali, secondo la Strategia Europa 2020, dovranno orientarsi i Fondi previsti dal Quadro Strategico Comune 2014-2020. L’elaborazione scientifica e il dibattito interdisciplinare che accompagnano la ricerca di politiche efficaci di prevenzione e/o adattamento ai cambiamenti globali tendono a focalizzarsi sul concetto di “resilienza”, e in particolare sulla sua declinazione in termini programmatico-progettuali in modelli innovativi di sviluppo urbano. La consolidata tendenza all’inurbamento della popolazione mondiale porta a considerare quale “ambiente” di elezione dell’uomo quello urbano, e ad applicarvi conseguentemente metodi e principi mutati dall’ecologia, di fatto riconoscendo dignità al concetto di “ecosistema urbano” che viceversa, applicando i concetti dell’ecologia classica, potrebbe essere considerato quasi un ossimoro (nell’ecologia classica, come noto, la nozione di ecosistema fa riferimento a un sistema “chiuso” per quanto riguarda lo scambio di materia, e “aperto” esclusivamente a un input di energia solare e a un conseguente output di energia termica). Ne deriva che, fra le proprietà di questo particolare ecosistema, possa figurare anche la resilienza e che tale proprietà assuma un ruolo particolarmente significativo quale “matrice” della capacità di adattamento dell’ecosistema urbano ai cambiamenti climatici. Quello di resilienza è un concetto che affonda radici nell’ingegneria dei materiali da un lato e nella scienza ecologica dall’altro; nondimeno viene correntemente utilizzato anche in psicologia e scienze sociali. Le diverse definizioni, oltre che agli ambiti di applicazione di provenienza, fanno riferimento a diverse formulazioni e presupposti eterogenei; ne segue che con il termine “resilienza” si descrivono proprietà diverse a seconda dell’ambito di provenienza e di applicazione, e che la semplice trasposizione del significato da una disciplina all’altra rischia di tradursi in grossolane semplificazioni. Anche nel caso della resilienza il rischio “moda” è dunque dietro l’angolo, e la possibilità che l’appellativo “resiliente”

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44 prospettive finisca per essere routinariamente associato al vocabolo “città” (magari insieme a “sostenibile” e “smart”) come atto di doverosa quanto astratta adesione a una tendenza di moda, è tutt’altro che remoto. Tanto più che - a differenza di altri attributi (i già citati “sostenibile” e “smart”, per dirne due) il cui significato, ancorché sfuggente, assume pur tuttavia una valenza di per sé “positiva” - la resilienza può tradursi in condizioni e conseguenze non necessariamente desiderabili sotto diversi profili: «A differenza della sostenibilità, la resilienza può essere desiderabile o indesiderabile. Per esempio, condizioni di sistema che riducono il benessere sociale, come riserve idriche inquinate o regimi dittatoriali, possono essere molto resilienti» (Carpenter, Walker et al. From Metaphor to Measurement: Resilience of What to What?, Ecosystems, 2001). Assumendo l’adattamento al cambiamento quale obiettivo, e la resilienza quale proprietà - o insieme di caratteristiche e proprietà che un determinato sistema deve possedere funzionalmente a quell’obiettivo, dobbiamo allora preoccuparci non solo di definire univocamente la resilienza (e tradurla in caratteristiche verificabili, misurabili e progettabili) ma anche di analizzare, ponderare e valutare tutte le possibili conseguenze che l’adattamento a un determinato evento di un sistema resiliente comporta sulle sue diverse componenti. In ingegneria la resilienza è la capacità di un materiale di assorbire energia di deformazione elastica, ovvero la proprietà di resistere a forze dinamiche (urti e strappi), l’inverso della fragilità. In ecologia si definisce la resilienza come una misura della persistenza dei sistemi e della loro capacità di assorbire cambiamenti e disturbi mantenendo le stesse relazioni fra popolazioni o variabili di stato, ovvero la proprietà dei sistemi complessi di reagire ai fenomeni di stress, attivando strategie di risposta e di adattamento al fine di ripristinare i meccanismi di funzionamento. La resilienza dell’ecosistema non comporta quindi il ripristino a uno stato iniziale, ma il riposizionamento della funzionalità attraverso il mutamento e l’adattamento. Secondo Holling: «La resilienza determina la persistenza di relazioni all’interno di un sistema, ed è una aprile/maggio 2015

misura della capacità del sistema di assorbire cambiamenti nelle variabili di stato, nei determinanti e in altri parametri persistendo nel tempo. In questa definizione la resilienza è la proprietà del sistema e la persistenza o probabilità di estinzione è il risultato. Stabilità, invece, è la capacità di un sistema di ritornare a uno stato di equilibrio dopo un disturbo temporaneo. Più rapido è il ritorno allo stato di equilibrio, e più contenute le fluttuazioni intorno all’equilibrio, più stabile è il sistema. In questa definizione, stabilità è la proprietà del sistema, e il grado di fluttuazione intorno allo stato di equilibrio il risultato» (C.S. Holling, Resilience and Stability of Ecological Systems, 1973). In presenza di fattori perturbativi esogeni, il sistema complesso (l’ecosistema) è cioè in grado di riorganizzarsi e rispondere mantenendo, entro certi limiti di pressione, un adeguato livello di organizzazione (omeostasi), ovvero evolvere verso configurazioni non necessariamente riconducibili a quelle di partenza, ma comunque caratterizzate da un elevato livello di complessità. Oltre determinate soglie di pressione esterna, comunque, si attivano processi irreversibili di disgregazione della complessità del sistema e delle relazioni fra le sue componenti (collasso). Passando dall’ecosistema all’insediamento urbano, la resilienza è stata definita come «il grado di alterazione che le città tollerano prima di riorganizzarsi in una nuova configurazione di strutture e processi» (Marina Alberti, John M. Marzluff, Eric Shulenberger et al.,Integrating Humans into Ecology: Opportunities and Challenges for Studying Urban Ecosystems, Bioscience 1169, Dicembre 2003). O ancora, nella definizione proposta dall’Agenzia Europea dell’Ambiente, «la capacità di un sistema sociale o ecologico di assorbire i disturbi, mantenendo nel contempo la medesima struttura di base e modalità di funzionamento, oltre che la sua capacità di auto-organizzarsi e adattarsi allo stress e al cambiamento»; e infine «…con termini mutuati dall’ecologia e dalla sociologia … la capacità di un sistema, di un’impresa o di una persona di conservare la propria integrità e il proprio scopo fondamentale di fronte a una drastica modificazione delle circostanze» (Andrew Zolli, con Ann Marie Healy, Resilienza.


aprile/maggio 2015

La scienza di adattarsi ai cambiamenti. Rizzoli, Milano 2014). Non solo adattamento, dunque, quanto anche (o piuttosto) capacità – intrinseca, ovvero opportunamente sviluppata - del sistema (dell’ecosistema, o del sistema urbano) di riposizionarsi, a valle di un evento perturbante, in una configurazione sufficientemente equilibrata, ovvero caratterizzata da flussi organizzati di informazione, materia, energia. Nella misura in cui le reti infrastrutturali fisiche, informative, energetiche o ecologiche costituiscono l’ossatura del sistema, la resilienza restituisce la loro capacità di mantenere efficacia a valle di più o meno catastrofiche interferenze. In questo senso, una possibile definizione di sintesi del concetto di resilienza potrebbe fare riferimento alla proprietà (o insieme di proprietà) di un sistema che ne assicurano condizioni di sostenibilità sociale, economica e ambientale nel medio e lungo termine.

Scala e ambito di analisi La declinazione operativa del concetto comporta necessariamente la preliminare delimitazione dei confini (spaziali, temporali e funzionali) del sistema di riferimento: qual è il contesto geografico, ambientale, territoriale e/o sociale nel quale andranno riconosciute condizioni di resilienza, in che orizzonte temporale tali condizioni devono essere verificate, quali requisiti funzionali devono essere mantenuti all’interno del sistema resiliente, ovvero quali sono i vincoli (demografici, socioeconomici, fisici, ecc.) da assumere e rispettare nel perseguire una configurazione resiliente del sistema. Condizioni di resilienza possono infatti essere definite con riferimento alla piccola o alla grande scala geografica (passando dal livello locale a quello regionale, a quello globale) e in un orizzonte temporale di breve o lungo termine. Non necessariamente, però, condizioni di resilienza individuate su piccola scala (area vasta) nel medio o lungo termine possono

essere considerate la premessa di sistemi locali resilienti nel breve termine. Si può anzi ritenere - quanto meno in prima ipotesi - che la resilienza quale proprietà del sistema diventi meno probabile passando dalla piccola alla grande scala (dall’area vasta all’insediamento locale), e dal lungo al breve termine, soprattutto in quanto il sistema sia caratterizzato da un elevato livello di complessità e interdipendenza, oltre che da limitata o inesistente ridondanza degli anelli di retroazione e delle interconnessioni. Al tempo stesso, è ragionevole sostenere che la resilienza sia più “desiderabile” proprio in quanto conseguita a scala locale (di singolo insediamento) e nel breve termine (dove serve, quando serve), più che non a livello di sistema regionale o addirittura globale. Aumentando la dimensione dell’ambito territoriale (ovvero passando dalla scala locale a quella globale), aumentano infatti varietà degli ecosistemi (e/o dei sistemi antropizzati) e biodiversità, e le interazioni fra componenti ambientali, territoriali e sociali sono l’elemento portante di qualsiasi meccanismo di retroazione; passando inoltre da un orizzonte di breve a un orizzonte di lungo termine diventa più “probabile”, in una situazione evolutiva e non stazionaria, il verificarsi di interazioni che possano dar vita ad anelli di retroazione (feedback). La biodiversità e la presenza di numerosi anelli di retroazione consentono all’ecosistema di mettere in atto risposte diversificate a fronte di eventi perturbanti; più generalmente, la capacità resiliente della biosfera misurata a scala globale e con riferimento ai tempi geologici è

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46 prospettive

tendenzialmente garantita, anche a fronte di eventi catastrofici (la vita sul Pianeta ha come noto incontrato diversi eventi catastrofici in grado di provocare estinzioni di massa, senza per questo annullare completamente il processo evolutivo). Ma trovare le condizioni alle quali un insediamento urbano garantisca adattamento e ripresa a fronte di eventi perturbativi nel breve termine (mantenendo dunque la capacità di sostentamento per tutta la popolazione che vi risiede) è assai più difficile e aleatorio. E potrebbe essere anche molto costoso, sotto diversi punti di vista. Detto in altri termini, il sistema resiliente nel suo complesso e nel lungo periodo non necessariamente corrisponde a una sommatoria di sottosistemi tutti resilienti nel breve termine; se poi scendiamo a livello di singola popolazione, insediamento o addirittura individuo, il diffuso mantenimento di efficaci condizioni di resilienza risulta ancor più aleatorio.

Ecologia e pianificazione L’adozione del concetto di resilienza fra i principi ispiratori delle politiche ambientali e territoriali, che si traduce nell’ormai diffusa esigenza di ricondurre a una configurazione resiliente lo sviluppo e l’assetto dell’insediamento umano, richiedono dunque una non superficiale e articolata considerazione dei profili valoriali che un insediamento resiliente può comportare. Nell’estesa letteratura sull’argomento, infatti, è sempre più frequente riscontrare il valore intrinsecamente positivo (in termini culturali, se non morali ed etici) attribuito alla resilienza, aprile/maggio 2015

quale proprietà taumaturgica di “difendere” le città e gli insediamenti umani da cambiamenti catastrofici. Assumere la resilienza come “nuovo” paradigma della progettazione sostenibile non serve, e anzi rischia di tradursi in considerazioni ambigue, quando non del tutto contrastanti, dove tutto quanto è “buono” e positivo viene ascritto alla resilienza, mentre fenomeni di degrado trovano spiegazione nella mancanza di resilienza. È certamente possibile tradurre la definizione “ecologica” di resilienza in criteri e precetti di pianificazione, progettazione e gestione degli insediamenti umani; nondimeno, è bene considerare attentamente il reale significato - e le potenziali conseguenze non necessariamente “positive” secondo i nostri criteri valoriali - da attribuire al comportamento “resiliente” di un ecosistema o di un sistema complesso. Nella resilienza di un ecosistema, infatti, ci possono stare modifiche qualitative e quantitative anche consistenti di equilibri e rapporti fra componenti e loro relazioni. Un ecosistema può evolvere verso nuove configurazioni stabili essendo passato attraverso eventi catastrofici anche devastanti (si pensi agli incendi) ed essere perciò considerato resiliente. All’interno di uno scenario “resiliente” un sistema può vedere anche una drastica riduzione delle popolazioni precedentemente presenti. E in una città? Le esigenze e le aspettative antropiche sono tendenzialmente “conservative”; e dunque non necessariamente pronte ad affrontare scenari evolutivi nel breve e medio termine senza conseguenze sociali ed economiche anche significative. Un ecosistema può mantenere una configurazione resiliente passando attraverso la sostituzione di intere popolazioni; nella visione antropocentrica la presenza umana (e i suoi manufatti) tendono viceversa ad assumere un significato invariante. Ma l’invarianza (o rigidità) del sistema non necessariamente è compatibile con la sua resilienza. Progettare un sistema resiliente significa dunque individuarne i punti critici in relazione alle possibili interferenze, e analizzarne la capacità di risposta. E significa dotare il sistema di una rete (articolata, quando non addirittura ridondante) in grado di acquisire


aprile/maggio 2015

ed elaborare dati e trasmettere informazioni e istruzioni ad apparati di gestione e controllo delle risorse. Un insediamento reticolare basato su piccoli insediamenti autosufficienti, o comunque inseriti in una diversificata e ramificata maglia di relazioni di scambio (lavoro, energia, materie prime, prodotti lavorati) può garantire una capacità di ripresa a fronte di eventi che colpiscano uno o più “nodi” o “archi” del reticolo. Parallelamente, o forse preliminarmente, alla progettazione del sistema resiliente, è necessario portare il sistema medesimo e i suoi componenti a convivere con il cambiamento e a mitigarne gli effetti. Ciò che ci si aspetterebbe da una città sarebbe in realtà la capacità di “resistere” agli eventi esterni difendendo adeguatamente i propri abitanti; solo che, nella misura in cui tali eventi assumano dimensioni e caratteristiche significative, conviene prendere atto della difficoltà e dei costi associati alla resistenza “classicamente” intesa; l’adattamento prima, e la resilienza poi, diventano allora una sorta di second best rispetto alla resistenza: come il proverbiale giunco, che lascia passare la piena per poi risollevarsi, laddove diventi impossibile (o semplicemente troppo oneroso) difendersi dalla piena, conviene adattarsi a essa minimizzando i danni. Del resto, quale adeguata rappresentazione della dicotomia resistenza/resilienza è ben possibile rifarsi alla riqualificazione dell’alveo fluviale quale alternativa alla tradizionale “cementificazione” (rettifica, arginatura, tombamento, ecc.). Anche in questo caso, sono spesso considerazioni di carattere economico, oltre che ecologico, a consigliare la previsione di adeguate aree di espansione e libera divagazione delle acque di piena in luogo della arginatura “costi quello che costi”; ma aree di espansione e piani di divagazione hanno a loro volta un costo (territoriale ed economico) derivante dai limiti imposti agli usi del suolo che vi sono ammessi.

Dall’adattamento alla resilienza La declinazione del concetto di resilienza nella pianificazione del territorio e dell’uso delle risorse in una logica “antropocentrica” non è dunque immediata, né semplice. Progettare la resilienza di un ambito

territoriale e/o urbano significa affrontare (e risolvere) numerose questioni di carattere sia teorico che metodologico. E ricondurre a un modello sufficientemente coerente le molte interrelazioni fra attività umane, usi del suolo, criteri di pianificazione e progettazione, risorse naturali, territorio, rischi ambientali, ecc. L’adattamento è il primo stadio di un ipotetico percorso culturale che parte dalla presa di coscienza della irreversibilità dei processi di cambiamento indotti dalle attività umane (viviamo, per dirla con Paul Crutzen, in pieno Antropocene), dall’inadeguatezza delle politiche di contrasto al cambiamento climatico finora adottate e dalla necessità di superare approcci di governo del territorio e delle risorse essenzialmente basati su ipotesi conservative. Adattarsi significa, di fatto, cambiare abitudini consolidate in funzione di mutate condizioni esterne. E si tratta di un cambiamento generalmente percepito come disagevole (ci si adatta a condizioni meno confortevoli di quelle di partenza); l’adattamento viene cioè “subìto” e non certo ricercato. Passare dall’adattamento alla resilienza significa metabolizzare nell’organizzazione territoriale, sociale ed economica dell’insediamento umano la non staticità delle condizioni esterne, ovvero assimilare il cambiamento come condizione non occasionale e non limitata nel tempo. Parallelamente, o forse preliminarmente, alla progettazione del sistema resiliente, è quindi necessario attrezzare il sistema medesimo e i suoi componenti a convivere con il cambiamento e a mitigarne gli effetti. Le politiche e le strategie di adattamento costituiscono in questo senso un primo tassello nella costruzione della città resiliente. Solamente un primo, però. La declinazione del concetto di resilienza nella pianificazione del territorio e dell’uso delle risorse in una logica “antropocentrica” non è cioè immediata, né semplice. Occorre affrontare diverse questioni, di carattere sia teorico che metodologico. E ricondurre a un modello sufficientemente coerente diverse e articolate relazioni fra attività umane, usi del suolo, criteri di pianificazione e progettazione, risorse naturali, territorio, rischi ambientali.  *Ambiente Italia srl

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www.achabgroup.it

Portiamo in alto la raccolta differenziata

Ambi.en.te. S.p.A. è una delle aziende leader nel Lazio nel campo dell’igiene urbana, con risultati d’eccellenza e soluzioni tecniche all’avanguardia. LA PERFORMANCE 2014 DI RACCOLTA DIFFERENZIATA

61% risultato medio nei comuni serviti

Alcuni risultati di raccolta dell’anno 2014: Ariccia (RM) 18.199 abitanti Cave (RM) 10.977 abitanti Ciampino (RM) 37.332 abitanti Gallicano nel Lazio (RM) 5.823 abitanti Monteporzio Catone (RM) 8.582 abitanti Palestrina (RM) 20.771 abitanti Zagarolo (RM) 17.208 abitanti Serrone (FR) 3.046 abitanti

62,9% 65,8% 62,0% 61,9% 62,0% 62,6% 55,6% 53,2%

Ambie.en.te. spa, nel rispetto della normativa comunitaria e nazionale, persegue la lotta ai rifiuti e allo spreco adottando la strategia delle “5 R”: RIDUZIONE ALL’ORIGINE DEI RIFIUTI RACCOLTA DIFFERENZIATA RIUSO DEGLI OGGETTI ANCORA UTILI RICICLO DEI MATERIALI UTILI RECUPERO DI ENERGIA


automotive

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L’auto che corre sui bit di Carlo Iacovini*

LA CONVERGENZA TRA AUTOMOTIVE E INFORMATICA STA TRACCIANDO GLI SCENARI SUL FUTURO DELLA MOBILITÀ PRIVATA

Un prototipo di Google car in test nel campus di

© CARLO IACOVINI

Mountain View

“Titan”: anche il nome rispecchia la magnitudine con cui Apple sembra affacciarsi al mondo dell’auto. Verità o fantasia che sia, la notizia trapelata pochi mesi fa è entrata dirompente tra gli addetti ai lavori e non solo. Ai primi di Gennaio a Las Vegas al Consumer Electronic Show (meglio noto come CES) le principali case automobilistiche hanno dato sfoggio delle proprie innovazioni per la guida autonoma. Bmw ha presentato una i3 che girava autonomamente per il grande piazzale, Volkswagen la E-Golf con autopilota per parcheggiare e ricaricare le batterie in modalità wireless, Audi ha portato una vettura con guida semi-autonoma da Los

Angeles a Las Vegas per testare la “normalità” delle tecnologie. Anche Bosch non era da meno con un proprio prototipo a testimonianza che tutta l’industria si muove in questa direzione. Solo un anno prima Google aveva lanciato nella stessa occasione “android car” la loro versione di software integrati tra infotainment, navigazione e telefonia. Un’alleanza che raccoglieva le più importanti case automobilistiche e che rappresentava la risposta all’Apple Car, il sistema IOS che unisce devices di Cupertino con le auto. Apple quest’anno non era presente al CES, ma a posteriori è sembrata una strategia per uscire qualche settimana dopo con indiscrezioni che stanno condizionando il dibattito dell’industria automobilistica. Al punto che al salone di Ginevra, patria delle grandi novità e parterre che vede la presenza dei numeri uno del gotha mondiale, le domande più frequenti erano: «Cosa ne pensa dell’ingresso di Apple nel settore Automotive?», un tormentone che ha coinvolto la stessa assemblea degli azionisti della “Mela” di Cupertino, opportunamente dribblate dal CEO Tim Cook tra una battuta e una non risposta. Per comprendere meglio la sostanza di questa notizia è bene prima inquadrare alcune premesse. Ci sono molteplici segnali di come l’industria tecnologica si stia sempre più avvicinando all’automotive e viceversa. La Silicon Valley, nota a tutti come il distretto tecnologico per eccellenza, si sta arricchendo di presenze importanti anche da altri settori. La Ford ha da poco inaugurato a Palo Alto il più avanzato centro ricerca del gruppo, guidato da Dragos Maciuca, proveniente guarda caso proprio da Apple e con alle spalle una laurea in ingegneria meccanica, un MBA e una lunga esperienza nella Silicon Valley. Con lui un

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50 automotive team di 125 persone che dovranno portare Ford nell’olimpo dell’innovazione tecnologica. Bmw, tra le prime aziende del settore, ha operativo da oltre dieci anni il “BMW Technology Office USA” con base a Mountain View a pochi metri da Google, per concentrare la ricerca sull’interfaccia uomo-macchina per semplificarne la gestione (tra i più famosi output, il sistema IDrive), sui servizi di assistenza alla guida o nuovi materiali e produzione.

Densità di ricerca Ma nelle poche miglia in cui si sviluppa la Silicon Valley sono attivi altri centri ricerca di Toyota, Honda, Mercedes, oltre a grandi gruppi industriali come Bosch, Continental, Denso e Delphi. Nessuno dei grandi player è rimasto fuori dall’arena competitiva della ricerca e integrazione tra automotive e tecnologie informatiche. In un decennio di intensa ricerca e sviluppo può risultare “normale” una vicinanza sempre più stretta tra i big dei rispettivi settori. Non è un caso che Tesla sia nata proprio qui. Un concentrato di innovazione che ha racchiuso in sé nuovi scenari propri dell’automotive (come la tecnologia della trazione elettrica) e dell’informatica (auto connesse, piattaforme di gestione integrate a distanza, ecc.), oltre che peculiarità commerciali atipiche per gli Stati Uniti (la vendita diretta e non tramite dealer in franchising). Un ulteriore elemento di rilievo ruota attorno al sistema finanziario industriale. Il mercato dell’auto sta uscendo da una crisi globale senza precedenti che in molti casi ha messo in difficoltà interi gruppi storici. Gli investimenti in sviluppo si sono concentrati sulla riduzione dei costi, nella sicurezza, mentre solo negli anni più recenti, grazie alla ripresa di alcuni mercati geografici e alla domanda di Paesi emergenti, l’industria dell’auto mostra un dinamismo dai lontani ricordi. Di contro l’industria tecnologica è cresciuta enormemente nell’ultima decade con picchi di capitalizzazioni dalle cifre astronomiche da parte di giovani start up o di brand consolidati. Una “bolla” che non è ancora scoppiata e che continua a trovare ambiti di crescita in settore vicini e integrabili. E qui sta un primo elemento. La grande disponibilità economica dell’industria ha permesso ad alcuni player di avvicinare un settore industriale aprile/maggio 2015

come quello dell’automotive, notoriamente basato su barriere all’entrata molto alte. Fino a oggi però si trattava di investire in prodotti e componentistiche, anche complesse. Sistemi che facevano convergere tecnologie “mobile” con l’automobile per avvicinare gli utenti a nuovi modi di fruire e vivere l’esperienza di guida. Ma ora le barriere sono definitivamente “crollate” e mentre non vediamo Ford produrre telefonini e tablet, ci troviamo invece di fronte alla google car. Il gigante di Mountain View è noto per investimenti in settori ad altissima innovazione. Il famoso GoogleX, reparto del campus dedicato ai progetti segreti, sembra sfornare idee tra le più lungimiranti: dai sistemi complessi, alla robotica, ai gadget più improbabili (come si sono rivelati in parte i google glass) fino ad arrivare alla guida autonoma che, ricordiamo, in Google è una realtà da molti anni. Più di recente Google ha presentato il piccolo “ovetto” interamente progettato e costruito nel loro reparto R&D. In una recente visita ho avuto occasione di vedere personalmente il prototipo, mentre effettuava test in un’area del campus tecnologico. Dalle forme compatte, tipiche delle city car di ultima generazione, spiccava l’insolita ergonomia interna, non ancora divulgabile come immagini, ma incentrata su un nuovo modo di concepire lo spazio. Due sedili, nessun volante e un mini “cockpit” con le informazioni più importanti, proiettate su uno schermo stile tablet. In sostanza l’auto come un pc. Non è dato sapere come saranno sviluppati gli interni definitivi, ma certo il percorso di Google è già in dirittura di arrivo. Ma qual è l’obiettivo di Google? Un conto è realizzare prototipi innovativi, concentrati di tecnologie utili a sperimentare nuove forme di mobilità. Diverso è costruire un sistema distributivo, commerciale e di servizio post vendita. Il business dell’auto è molto complesso e non solo fatto di tecnologie. Lo sanno bene i vertici del management Tesla che in America da alcuni anni lottano con le normative e le lobby della rete distributiva.

La rete sulla strada E infatti poche settimane fa Chris Urmson, capo progetto di Google, ha annunciato che il gruppo sta cercando partner nell’industria dell’auto per portare la google car sulle strade.


E se Audi, Volkswagen, Bmw e Ford hanno già progetti concreti, sono in diversi i grandi gruppi che potrebbero stringere alleanze con Mountain View. Anche se non è chiaro però dove saranno regolamentate le prime auto a guida autonoma. Oggi ci troviamo in un vuoto normativo che presto potrebbe diventare un problema per la concretizzazione dei progetti pilota. Le auto autonome richiedono una cornice di intervento legislativo per definire i contenuti e i limiti di utilizzo delle tecnologie, oltre alle condivisibili problematiche di sicurezza. E così, oltre alla California, altri Paesi si portano avanti. L’Inghilterra ha di recente avviato lo studio per una serie di normative che possano permettere alle auto senza conducente di circolare liberamente nelle strade. La commissione Trasporti inglese ha formalmente annunciato il via ai lavori, con l’obiettivo di ridurre la fatalità stradale e l’incidentalità, soprattutto nelle aree urbane. Molto diverso il percorso di Apple e molteplici le ragioni per cui potrebbero entrare nel business automotive. Innanzitutto Apple ha una considerevole disponibilità finanziaria, calcolata in 180 miliardi di dollari, tali da rendere l’azienda capace praticamente di qualsiasi investimento nel settore. In secondo luogo Apple monitora con molta attenzione le cosiddette “disruptive technologies” per disegnare gli scenari prossimi futuri su orizzonti di lungo termine. Molti rumor lo scorso anno davano Apple interessata al business del 3d Printing, altro tema di grande attualità che sta rivoluzionando le potenzialità dell’industria manifatturiera. In quel caso il tema riguardava l’intenzione di Apple di produrre una stampante 3d a marchio proprio, come nuovo prodotto per la distribuzione globale. Ancora allo studio, il business si integrerebbe bene con la rete distributiva di Apple e un nuovo pezzo di design in pieno stile Apple potrebbe completare ancor di più la gamma degli Apple Store nel mondo. L’investimento in questo caso sarebbe particolarmente ridotto rispetto all’automotive e meno complesso nella gestione della filiera

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© CARLO IACOVINI

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complessiva. Più difficile pensare a una Apple Car parcheggiata nel piano sotterraneo della 5th Avenue a New York, regno delle migliaia di appassionati al marchio che frequentano uno dei più famosi Apple Store come fosse un luogo di intrattenimento. La scelta strategica di Apple dovrebbe quindi avere una valenza molto più ampia, dalle origini molteplici. Apple ci ha abituati a innovazioni di grande impatto nella vita quotidiana e l’automobile è certamente uno dei beni di massa più diffusi. Ma rivoluzionare questa industry è molto più complesso nel suo insieme ed Apple dovrebbe quindi concentrare tutti gli sforzi tecnologici esistenti. Ecco perché si dice che la Apple car dovrebbe essere a trazione elettrica, a guida autonoma, certamente connessa con il proprio Iphone (che potrebbe addirittura guidarla). Di certo non potremmo comprarla nei normali concessionari, quindi servirebbe una rete vendita nuova, in molti casi integrata negli Apple Store (magari per configurare la vettura, scegliere le diverse versioni o vederla tramite qualche forma di realtà aumentata). Le competenze tecniche di Apple non mancano di top executive con esperienza automotive. Eddy Cue, “head of internet and software services”, è nel board di Ferrari, Phil Schiller, “head of Marketing”, è notoriamente un appassionato di auto. Luca Maestri, CFO del gruppo, origini italiane - manager estremamente affabile e professionale, incontrato personalmente in

Dimostrazione di guida autonoma della Bmw i3 al Consumer Electronic Show di Las Vegas del Gennaio 2015


© CARLO IACOVINI

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una visita alla Apple pochi mesi fa – vanta un’esperienza ventennale in General Motors. Infine uno degli executive più importanti, Joni Ive, designer della Grande Mela, ha vissuto una carriera affiancata alla passione per le 4 ruote. A questi top manager si aggiungono numerosi tecnici dell’auto al punto che si vocifera ci siano più di 200 persone al lavoro sul progetto Titan. Già pronti anche i partner. Pare che dei top executive siano volati fino in Austria negli stabilimenti della Magna, dove già oggi si producono vetture conto terzi e dove ci sono linee produttive e competenze anche nel settore elettrico. Stranamente, poche settimane dopo l’indiscrezione si scopre che Samsung SDI, divisione della multinazionale asiatica dedicata all’energia e alla batterie, aveva comprato tutto il ramo d’azienda proprio della Magna. Sinergie o guerra di fornitori? Se infine mancano expertise particolari, non si bada a spese e alcuni manager sono stati assunti in Apple con bonus di ingresso nell’ordine di 250 mila dollari. Molti di questi manager arrivano da Tesla. Ma allora perché non comprare direttamente TeslaMotors? Questa la grande variante di fantafinanza che circolava nel settore. Che può avere un senso, se vista in prospettiva di lungo termine. Intanto la casa di Palo Alto ha già realizzato tanti degli investimenti necessari e condivisi con la visione di Apple. Anche se la strategia rigidissima di Elon Musk è di realizzare tutto sempre internamente così da acquisire valore ed expertise. Pertanto tutte le tecnologie di Apple andrebbero riviste e integrate con quanto già realizzato da Tesla con una probabile conflittualità di merito. In secondo luogo Tesla gode oggi di un grande vantaggio di mercato. Le prestazioni dei veicoli aprile/maggio 2015

prodotti, la rete di infrastrutture di ricarica in corso di installazione in tutto il mondo e un brand di grande valore per i propri clienti conferiscono all’azienda una potenzialità pari ai colossi dell’automobile, pur vendendo in proporzione poche migliaia di vetture. Ma anche Tesla non è priva di difetti, riconosciuti anche da clienti ed estimatori. In particolare molte finiture, dettagli di assemblaggio, particolari degli interni, sono spesso considerati non all’altezza del valore della vettura. Peccati veniali e tutto sommato ben sopportati dai clienti, diciamo più che altro “pecche di gioventù” per un nuovo costruttore. I supercharger, sistemi di colonnine progettati per erogare fino a 125 kW di potenza per ricaricare in venti minuti una Model S, sono sì oggi un grande asset, ma allo stesso modo rappresentano un sistema chiuso che è utilizzabile soltanto dai clienti stessi. Nel frattempo il mondo dell’automotive ha faticosamente trovato un’alleanza tecnologica nel sistema di ricarica definito “combo2”, portando nei prossimi anni migliaia di colonnine “universali” per molti costruttori (soprattutto tedeschi e americani) a discapito della tecnologia giapponese usata da Nissan e Renault. Nel medio periodo quindi troveremo sistemi di ricarica diffusi e compatibili con molte autovetture, che avranno anche tutte le qualità tipiche di chi produce auto da oltre un secolo: allora, il sistema “chiuso” del mondo Tesla potrà diventare un limite. Non ci sono ulteriori informazioni al momento e a Cupertino le bocche sono cucite a tutti i livelli, con il rischio che si tratti di una grande speculazione mediatica mentre Apple potrebbe facilmente diventare un fornitore privilegiato di componentistica per l’automotive, evitandosi molti problemi ma garantendosi lauti margini. Ma anche qui le sorprese non mancheranno. Proprio di questi giorni è l’indiscrezione, nemmeno troppo velata, di un nuovo player interessato al settore dell’auto elettrica. Il magnate Richard Branson, a margine della conferenza stampa durante il gran premio della Formula E di Miami, ha dichiarato di valutare positivamente un ingresso del suo gruppo nel settore. Vedremo tra poco anche una Virgin Car? La sfida è aperta.  * Corporate Relations Manager - Energica Motor Company


mobilità

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Quando la mobilità è condivisa di Domenico Caminiti*

A PALERMO È AL VIA IL PROGETTO DEMETRA. PER UNA MOBILITÀ SOSTENIBILE CHE PARTE DALLE ESIGENZE DELLA CITTÀ E DEGLI UTENTI

Il dibattito sulle strategie per la soluzione dei problemi che attanagliano la mobilità nei centri urbani ha assunto toni certamente più ricercati e sono tante le ricette che - proposte da Istituzioni, Associazioni, singoli cittadini - vanno a comporre un complesso puzzle nel quale, tuttavia, non tutte le tessere dimostrano di essere state collocate al posto giusto. Un esempio ce lo fornisce, infatti, il tanto reclamizzato concetto di sostenibilità che stenta a entrare nelle scelte di vita quotidiana e che non pare sia compreso appieno nella sua essenza. La parola “sostenibilità”, come definita nella lingua italiana, è identificata da

vari significati, riconducibili alla definizione: possibilità di essere sopportato, specie dal punto di vista ecologico e sociale. Ma ci chiediamo: cosa deve essere sopportato dal punto di vista ecologico e sociale? Fra i temi centrali sui quali può applicarsi questa definizione, il trasporto urbano sostenibile costituisce uno dei più complessi tra quelli che competono ai decisori, nel tentativo di perseguire un obiettivo di sostenibilità generale. Palermo ha approvato la partecipazione a un programma di investimenti promosso dal Ministero dell’Ambiente, che prevede un cofinanziamento per iniziative tendenti alla riduzione del traffico privato a vantaggio dei sistemi di TPL. In tale piano erano ricompresi due interventi che riguardano il potenziamento del servizio di car sharing (già attivo dal 2009) anche con ausilio di veicoli elettrici e lo sviluppo del servizio di bike sharing. Il piano è stato affidato ad AMAT Palermo spa, azienda municipale che gestisce TPL e servizi di mobilità sostenibile, quale soggetto attuatore e cofinanziatore dell’iniziativa. Nell’area metropolitana e nella zona dell’hinterland allargata, il peso della città di Palermo è rappresentato da una popolazione che costituisce il 63,52% del totale dei residenti, mentre nei Comuni gravitanti risiede il rimanente 36,48%. Nell’arco temporale 1998/2008 la popolazione residente nell’area urbana metropolitana è cresciuta di 2.076 abitanti. Più in particolare, nel capoluogo è diminuita di 27.118 abitanti (-3,95%), negli altri Comuni limitrofi è cresciuta complessivamente di 40.843 abitanti (+12,09%). Lo scenario della mobilità, che caratterizza la città di Palermo e la sua area metropolitana, è costituito da elementi non dissimili da altri grandi centri abitati: • forte componente di mobilità interna all’area urbana, che costituisce la maggioranza (80%) del totale degli spostamenti che interessano l’intero sistema urbano dei trasporti; • pendolarismo, fenomeno che è stato accentuato progressivamente dall’aumento della popolazione che risiede nei Comuni

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54 mobilità TABELLA 1

Distribuzione degli spostamenti a Palermo per tipologia di veicolo Motivo dello spostamento Studio

%

Lavoro

%

Totale

%

Treno, Metro

1.528

1,1

1.130

0,8

2.568

0,9

Bus urbano/extra urbano

19.762

14,3

10.508

7,3

30.270

10,7

Bus aziendale/scolastico

1.857

1,3

725

0,5

2.582

0,9

Auto privata (come conducente)

7.832

5,7

83.549

58,0

91.381

32,4

Auto privata ( come passeggero)

37.484

27,2

7.007

4,9

44.491

15,8

Moto/scooter

16.311

11,8

20.434

14,2

36.745

13,0

535

0,4

1.133

0,8

1.668

0,6

Bicicletta Altro mezzo

42

0

155

0,1

197

0,1

A piedi

52.680

38,2

19.437

13,5

72.117

25,6

Totale

138.031

100

144.078

100

282.019

100

FIGURA 1

Bike Sharing a Palermo – Ripartizione oraria delle preferenze espresse attraverso un campione di 1.193 interviste 10 11 11

0 18 11

16

fascia oraria

22 40

6,00 - 7,00 7,00 - 8,00

76

34

8,00 - 9,00 9,00 - 10,00 10,00 - 11,00

109

11,00 - 12,00 508

12,00 - 13,00 13,00 - 14,00 14,00 - 15,00 15,00 - 16,00

327

16,00 - 17,00 17,00 - 18,00 18,00 - 19,00 19,00 - 20,00

limitrofi, dato questo in controtendenza rispetto alla sostanziale staticità del trend di Palermo.

Il progetto Demetra Al fine di porre in essere gli obiettivi del programma Ministeriale, AMAT, d’intesa con il Comune di Palermo, ha predisposto il progetto DEMETRA (Development of ecology system for metro transport) che ha avuto l’obbiettivo di realizzare una piattaforma di mobilità pubblica aprile/maggio 2015

condivisa

Mezzo utilizzato

multimodale, comprendente il rafforzamento del servizio di car sharing convenzionale con auto a metano, la costituzione di una flotta di vetture elettriche e la realizzazione del servizio di bike sharing e scooter sharing elettrico. Lo sviluppo del progetto DEMETRA è stato incentrato su sette direttrici tematiche: • analisi del territorio e della domanda di mobilità; • rispetto dei vincoli nelle zone interessate; • scelta della localizzazione dei parcheggi; • studio delle interferenze con altre infrastrutture della mobilità; • studio della mobilità e del traffico; • emergenze architettoniche dei tracciati; • identificazione delle risorse per la gestione. Lo studio si è giovato dei dati forniti dal PGTU del Comune di Palermo e ha tenuto conto della zonizzazione, delle finalità degli spostamenti e delle esigenze di intermodalità fra i sistemi di trasporto gomma-gomma e gomma-ferro, al fine di precostituire un sistema di interazione con centri di attrattività turistica e di business pubblico/privato, nel tentativo di deviare la domanda di trasporto casa - lavoro dal mezzo privato all’auto condivisa. I cittadini palermitani si spostano per studio o per lavoro prevalentemente all’interno del territorio comunale: il flusso interno è costituito da 274.074 spostamenti, pari al 97,2% del totale. Quelli che si spostano giornalmente verso altri Comuni della provincia di Palermo sono 7.111, pari al 2,5% del totale dei palermitani che si spostano giornalmente. La tipologia degli interventi è stata armonizzata


aprile/maggio 2015

FIGURA 2

Bike Sharing a Palermo – Distribuzione degli spostamenti espressi attraverso un campione di 1.027 interviste 34 143 motivo spostamento 138

712

lavoro tempo libero studio sport

TABELLA 2

I numeri della mobilità sostenibile a Palermo 102 24

Auto a metano Auto elettriche a ricarica veloce

400

Biciclette a pedalata muscolare

20

Biciclette a pedalata assistita

10

Scooter elettrici

80

Parcheggi car sharing a Palermo

2

Parcheggi presso gli aeroporti di Palermo P. Raisi e Trapani Birgi

4

Parcheggi in provincia di Trapani

8

Parcheggi con colonnine di ricarica per auto elettriche

37

Ciclo parcheggi

7 2

Pensiline fotovoltaiche per ciclo parcheggi Stazioni di mobilità

con la politica delle alternative modali individuate nel PGTU, per fornire alternative modali all’uso di autoveicoli per il trasporto individuale privato attraverso: • la migliore organizzazione possibile delle zone a parcheggio, con il potenziamento del sistema a rete interconnesso e intermodale (auto + bici), dove, attraverso diversi modi di spostamento, si può migliorare l’accessibilità alla città tramite i sistemi di trasporto proposti; • adeguate facilitazioni per le modalità di trasporto con auto (spazi con privilegio per gli spostamenti e i parcheggi a uso esclusivo) e

Il car sharing Palermo Il servizio car sharing a Palermo nasce nel 2009, aggregato all’Azienda dei trasporti pubblici locali, AMAT Palermo S.p.A., gestito nell’ambito del settore dei servizi speciali della mobilità. Beneficiaria di finanziamenti della Regione Siciliana e del Ministero dell’Ambiente, l’azienda si è originariamente dotata di una flotta di quarantasei veicoli a metano distribuiti su quaranta parcheggi che progressivamente sono stati incrementati fino agli attuali ottanta, di cui sei in ambito extraurbano. Il servizio di Palermo appartiene al circuito ICS (Iniziativa Car sharing), struttura di coordinamento delle realtà locali del car sharing, promossa e sostenuta dal Ministero con un finanziamento di circa nove milioni di euro, per fornire assistenza alle città che intendano sviluppare sistemi di car sharing con l’obbiettivo di istituire uno standard nazionale operativo e tecnologico, procedure unificate in una prospettiva unitaria ed evidenziare le caratteristiche che una organizzazione deve avere per avviare con successo un servizio di car sharing. Con il brand nazionale “IO Guido Car Sharing”, il servizio del capoluogo siciliano rimane l’unico dell’Italia meridionale e si distingue per la continua progressiva espansione recentemente caratterizzata dall’adesione al protocollo denominato Trame d’Occidente - sottoscritto ad Alcamo il 21 dicembre 2014 tra il Comune di Palermo e diversi Comuni delle Province di Trapani e Palermo - per la costituzione di un tavolo partenariale interistituzionale per lo sviluppo della mobilità sostenibile in area vasta. Il servizio è stato, pertanto, attivato nelle città di Alcamo e Castellammare del Golfo e negli aeroporti di Palermo Punta Raisi e Trapani Birgi.

ciclistiche (itinerari ciclabili); • la valorizzazione dei parcheggi d’interscambio esistenti ai margini del nucleo denso della città, con opportunità di park&ride. È stata compiuta un’indagine su un campione di 623 interviste per l’individuazione dei quaranta nuovi parcheggi car sharing in aggiunta ai quarantasei attivi. Parimenti è stato eseguito un sondaggio via web per l’identificazione degli elementi della matrice origine destinazione necessari a identificare trentasette cicloparcheggi sul territorio comunale. Il sondaggio esteso a 1.200 cittadini ha permesso di valutare le fasce orarie di riferimento e i motivi dello spostamento. L’originalità del progetto DEMETRA è identificabile nella realizzazione di un’unica

55


56 mobilità FIGURA 3

La crescita del servizio di car sharing a Palermo contabilizzazione degli usi del car sharing; • la disponibilità, in tempo reale, delle abbonati informazioni circa le biciclette presenti nei 1.800 cicloposteggi, sul medesimo portale utente in 1.600 uso per il car sharing; 1.400 • la stima della distanza percorsa dalle biciclette; 1.200 • la localizzazione delle biciclette con sistema 1.000 GPS. Nella tabella 2 si possono apprezzare i numeri 800 del servizio Car Sharing Palermo conseguenti alla 600 realizzazione del progetto DEMETRA. Particolare menzione va fatta per la 400 progettazione delle prime due Stazioni di 200 Mobilità della Città di Palermo, che costituiscono 0 un’innovazione per la politica della mobilità 2009 2010 2011 2012 2013 2014 2015 cittadina, composte da strutture pensate quale hub di mobilità urbana per il collegamento intermodale tra i diversi servizi offerti dal sistema. piattaforma tecnologica che gestisce il sistema nel Ciascuna stazione di mobilità si avvale di: suo complesso (auto a metano, auto elettriche, • stazione di Car Sharing auto a metano; bike, scooter, van), attraverso la quale il cittadino • stazione di Car Sharing auto elettriche; è in condizione, con un unico contratto di • parcheggio scooter elettrici; abbonamento, di poter accedere a tutti i veicoli • parcheggio biciclette; della flotta in sharing di AMAT. Unico è, infatti, il • panchine di attesa con pensilina; sistema di accesso al servizio, dalla prenotazione • posto ricarica per veicoli elettrici privati; al prelievo del veicolo, sia essa automobile • punto di ristoro per utenti car-bike sharing; o bicicletta, con indubbio vantaggio sia per • chiosco per informazioni biglietteria l’utilizzatore, sia per il gestore. L’integrazione tra i automatica TPL e car -bike sharing. sistemi è realizzata al fine di consentire: Significativi anche i numeri della gestione del servizio che testimoniano di una costante crescita • la gestione integrata delle anagrafiche degli (Fig. 3 e Tab. 3). utenti del car sharing e del bike sharing; Il progetto DEMETRA costituisce, per la Città di • l’uso della bicicletta mediante la medesima Palermo, uno dei tasselli fondamentali per la card usata per il car sharing; costruzione di un sistema più complessivo di • la gestione della contabilizzazione mobilita pubblica, indirizzata alla sostenibilità dell’uso della bicicletta integrata con la ed alla condivisione. Esso non TABELLA 3 è punto di arrivo ma tappa per una maggiore espansione Il servizio di car sharing a Palermo nel dettaglio del servizio in area vasta, processo già avviato con Numero Media Numero l’estensione a due città della Km Ore Totale ore anno contratti annuale corse % Utilizzo percorsi utilizzo disponibili provincia di Trapani (Alcamo attivi auto effettive e Castellammare del Golfo) 2015 1.690 86 4.266 167.427 32.004 158.873 20,14 e al realizzato collegamento 2014 1.527 41 10.996 489.470 117.251 348.690 33,63 con gli aeroporti di Palermo e 2013 1.085 35 8.095 360.055 93.245 302.842 30,79 Trapani.  2012

831

35

7.874

312.221

61.121

308.104

19,84

2011 2010

628 473

35 34

6.911 6.474

204.559 220.780

33.850 35.726

299.455 287.010

11,30 12,45

aprile/maggio 2015

* Direttore servizio Car Sharing Palermo


I

NEWS SOMMARIO

I

MERCATI Eclissi: analisi delle conseguenze sul mercato

II III IV

ESTERO Deserti rinnovabili di Roberto Vigotti

elettrico di Alessandro Federico

FONTI La dura vita del gas bio di Cosetta Viganò NOTIZIE DAGLI ASSOCIATI

MERCATI

ECLISSI: ANALISI DELLE CONSEGUENZE SUL MERCATO ELETTRICO È dimostrato che le rinnovabili garantiscono la sicurezza del sistema di Alessandro Federico / Ufficio Studi assoRinnovabili – a.federico@assorinnovabili.it

l 20 marzo 2015 un’eclissi solare ha oscurato il cielo: in Italia il fenomeno è stato visibile tra le 08:24 e le 10:44, con un oscuramento massimo del 59%. La riduzione dell’irraggiamento solare ha direttamente influenzato la produzione di elettricità da FV, provocando un calo di circa 3.000 MW della produzione fotovoltaica, seguito da una veloce risalita di 5.000 MW. Terna ha fatto fronte a questo evento senza precedenti principalmente controllando gli interscambi con l’estero, gestendo in tempo reale i pompaggi e attuando la procedura RIGEDIGDPRO, che ha comportato il distacco tra le 07:00 e le 14:00 di impianti di produzione fotovoltaica per circa 4.400 MW, pari al 25% della potenza installata in Italia. Gli effetti sul Prezzo Unico Nazionale (PUN) sono evidenziati nel grafico, che confronta l’andamento del prezzo nel giorno dell’eclissi con quello del giorno precedente.

I

Nel dettaglio, si è registrato un incremento alla punta (intorno alle 11:00) di quasi 40 € a MWh portando il prez-

che ha evidenziato come il calo dei consumi elettrici e il contestuale incremento della produzione di energia da fonti rinnovabili abbiano portato un risparmio complessivo di oltre 7,3 miliardi di euro nel triennio 2012-2014. Ciò che l’evento ha dimostrato, soprattutto, è la grande potenzialità che le fonti rinnovabili possono rivestire nell’ambito della gestione in sicurezza del sistema. La procedura attuata per l’eclissi infatti «ha consentito a quasi 10.000 impianti fotovoltaici italiani di contribuire, simultaneamente, alla gestione in sicurezza del sistema elettrico,

zo a 90 € a MWh (circa l’80% in più del giorno precedente). Su base giornaliera le stime di assoRinnovabili dicono che ciò abbia comportato per gli acquirenti un esborso pari a circa 12 milioni di euro in più rispetto al giorno precedente, con un incremento del 30% sul costo totale, passato da 40 a 52 milioni di euro. Due sembrano i fattori che hanno maggiormente spinto Fonte: Elaborazione assoRinnovabili su dati GME al rialzo il PUN. Il primo è il controllo coerentemente con l’evoluzione in atto degli interscambi con l’estero, che ha imverso il modello delle smart grids» (Terpedito l’afflusso di energia dalle centrali na, comunicato stampa). Fatto confernucleari e a carbone straniere, meno comato anche dall’AD di Terna, Gianni Arstose rispetto a quelle a ciclo combinato mani, nel convegno dedicato al mercato italiane. Ciò è evidenziato dal fatto che elettrico organizzato da assoRinnovabili nella Zona Nord si è verificato l’aumenil 25 marzo, durante il quale ha spiegato to più rilevante dei prezzi. Il secondo è come «le rinnovabili rappresentino per la mancata produzione fotovoltaica, che il Gestore un’opportunità di distacco contribuisce significativamente a ridurimmediato e a costi ridotti», anche in re il prezzo dell’elettricità, soprattutto ottica europea, dato che «alla Germania nel lungo termine, un fatto rilevato da abbiamo coperto circa 1.000 MW di sbiassoRinnovabili in un suo recente studio lanciamento in occasione dell’eclissi».


II

ESTERO

DESERTI RINNOVABILI L’Egitto attrae investimenti in solare ed eolico: una chiamata per gli operatori italiani

di Roberto Vigotti / Segretario Generale RES4MED - info@res4med.org

Egitto attraversa una fase di transizione politica e sociale caratterizzata da persistenti crisi energetiche. La rapida e costante crescita del consumo di energia ha creato una pressione insostenibile sui conti pubblici e il Governo egiziano ha dovuto riconsiderare le politiche di sussidio ai prezzi energetici: con un mercato interno di quasi 90 milioni di consumatori, nell’ultimo decennio la domanda di elettricità è cresciuta a un tasso medio annuo del 7%. Prima della rivoluzione del gennaio 2011, il mix energetico era dominato dal gas naturale (55%) e dai prodotti petroliferi (40%). Negli anni successivi il disavanzo energetico è cresciuto a causa del calo della produzione domestica di petrolio e di gas e per la diminuzione dell’import. Di conseguenza, il deficit energetico ha subito un’impennata che ha portato il Governo a dichiarare l’esistenza di una crisi energetica: per rispondere alla cronica carenza di elettricità e alle previsioni di crescita dei consumi elettrici, l’Egitto ha bisogno di installare una capacità di generazione aggiuntiva di 13 GW nei prossimi cinque anni. In questo quadro emergenziale si inscrive il piano di sviluppo delle energie rinnovabili il cui perno è rappresentato dal meccanismo di feed-in tariff lanciato a settembre 2014 per accelerare l’installazione di 2,3 GW di energia solare e 2 GW di eolico entro il 2017. Lo schema di feed-in tariff ha da subito registrato l’interesse di numerosi player locali e internazionali, tra cui alcuni dei

L’

egiziana, soprattutto nell’energia e nei trasporti, descrivendo l’Italia e l’Egitto come «custodi di uno spazio unico» in quanto «estremi del ponte di sfide e opportunità offerto dal Mediterraneo». Il rafforzamento della partnership energetica pubblicoprivata tra Italia e Egitto è stata al centro della conferenza Delivering Renewable Energy Investments in Egypt: Immagine Asja Ambiente Italia, per gentile concessione assoRinnovabili Challenges and Opprincipali operatori italiani. Dato che portunities organizzata da RES4MED ed l’Italia è il terzo partner commerciale Enel Green Power con il patrocinio del dell’Egitto e il primo tra i Paesi euroMAECI e del MiSE lo scorso 20 aprile a pei, questa consolidata architettura di Roma. Le più alte cariche istituzionali relazioni rappresenta un’opportunità di egiziane del settore energetico e finaninvestimento e di creazione di sviluppo ziario, i rappresentanti delle istituzioni locale per tutta la filiera italiana delle italiane e i leader dell’industria delle rinnovabili. rinnovabili membri di RES4MED si Il Premier Renzi, in occasione dell’Egypt sono riuniti per discutere il futuro delle Economic Development Conference orrinnovabili nel mix energetico egiziano, ganizzata dal Governo egiziano a Sharm il ruolo degli investitori nello sviluppo El Sheikh lo scorso marzo, ha dichiarato delle rinnovabili e dei TSO nella loro inche «è arrivato il momento di aumentare tegrazione nei sistemi elettrici regionali, la presenza italiana in Egitto in termini i meccanismi di aste e feed-in tariff e gli quantitativi e qualitativi», sottolineando ostacoli al finanziamento e alla bancabiche «le sfide del Cairo sono anche le nolità dei progetti, le sfide dei technological stre» e rinnovando l’impegno a lavorare providers per incrementare la competiticon le istituzioni locali. Il Presidente vità delle rinnovabili in Egitto. del Consiglio ha ribadito «il ruolo molGli atti del convegno sono disponibili to importante» dell’Italia nell’economia su res4med.org.


III

FONTI

LA DURA VITA DEL GAS BIO La vicenda del biometano: la corsa a ostacoli delle nuove rinnovabili

di Cosetta Viganò / Responsabile Ufficio Tecnico - c.vigano@assorinnovabili.it

ell’era dell’incertezza normativa e dei tagli agli incentivi che caratterizzano il settore delle rinnovabili elettriche, si sta facendo largo una tra le filiere potenzialmente più promettenti: quella del biometano, dove le FER vengono impiegate non per generare elettricità, ma per autotrazione e riscaldamento. La materia prima non manca - circa 1.400 MW di impianti biogas, in crescita nonostante la crisi -, le tecnologie di depurazione nemmeno. Cosa ci ha impedito allora di vedere un’espansione del settore al pari di quella di altri Paesi non certo dotati di una storia in materia di bioenergie più avanzata della nostra? Come purtroppo spesso accade, è nei meandri della regolazione che vanno ricercate le cause. Il D.Lgs 3 marzo 2011, n. 28 ha fissato i princìpi per l’incentivazione del biometano, dando mandato all’AEEGSI di definire - entro giugno 2011 - le caratteristiche fisiche e chimiche del biometano e le condizioni tecniche per la connessione alla rete del gas, e al Ministero dello Sviluppo Economico - entro luglio 2011 - di approvare le direttive per l’incentivazione della sua produzione. Il MiSE ha disciplinato le modalità di incentivazione del biometano dopo due anni di ritardo con Decreto 5 dicembre 2013, e ha dato mandato di adottare ulteriori deliberazioni a CTI e AEEGSI, entro 60 giorni dall’entrata in vigore del DM (cioè entro il 18 marzo 2014), e a GSE nei successivi 60 giorni dalla pubblicazione delle prime. Nel dicembre

N

2014, il CTI ha adottato le linee guida sua conclusione, l’AEEGSI rimanda per la sostenibilità del biometano, con al rapporto UNI/TR 11537 (elaborato la NORMA UNI/TS11567. Le direttive peraltro dal Consorzio Italiano Gas, dell’AEEGSI per la connessione degli rappresentante dell’Italia al CEN per impianti a biometano alle reti del gas il mandato M/475). I requisiti di qualità naturale sono state approvate solo il 12 previsti da tale norma però, risultano febbraio 2015 (Deliberazione 46/2015/R/ più restrittivi di quelli vigenti per il gas Gas), omettendo peraltro la definizione naturale (sfavorendo così, per ragioni delle caratteristiche chimiche e fisiche incomprensibili, l’utilizzo di metano biodel biometano, demandata alla normalogico rispetto al metano fossile) e ben tiva europea. Delle procedure GSE per più severi anche di quelli adottati per il il rilascio degli incentivi, ancora nessubiometano negli altri Paesi europei. In na traccia. altre parole, partiamo in ritardo e pure A complicare non poco le cose è stato in svantaggio! Non resta allora che spel’intrecciarsi del percorso normativo itarare che le potenzialità, il know how e la liano con le evoluzioni della normativa capacità di mettersi continuamente in tecnica a livello comunitario. La Comgioco che le bioenergie (e le rinnovabili) missione Europea ha infatti assegnato italiane hanno più volte dimostrato di un mandato (M/475 EN) al Comitato avere, abbiano la meglio sulle regole e Europeo di Normazione (CEN) che prei ritardi che, ancora una volta, ostacovede l’elaborazione di due norme tecnilano la competitività del nostro Paese che europee per le specifiche di qualità e il decollo di un settore nel quale gli del biometano (una relativa all’autotraoperatori stranieri hanno già potuto zione, l’altra all’immissione nelle reti giocare d’anticipo. del gas naturale). Fino al termine di questo mandaon il termine biometano si indica un biogas che ha to, vige la regola subìto un processo di raffinazione per arrivare a una di standstill, osconcentrazione di metano tale da renderlo idoneo, al pari sia il divieto per del gas naturale o metano fossile, all’utilizzo come carbugli organismi di rante per autotrazione o all’immissione nella rete gas. Il normazione nabiometano è prodotto tramite un processo di decompozionale di pubsizione biologica di sostanze organiche in assenza di osblicare qualsiasi sigeno (digestione anaerobica), dal quale è possibile otnorma che non tenere un gas (biogas) con percentuale di metano pari al sia interamente 45-70% che, attraverso un processo di raffinazione volto conforme a una a eliminare la CO2 e le altre impurità, è trasformato in un norma europea combustibile ad alto contenuto di metano (≥ 95%). già esistente. Nelle more della

Cos’è il biometano

C


IV

assoRinnovabili, Via Pergolesi, 27 - 20124, T +39 02 6692673 | Sede di Roma: Via Ticino, 14 - 00198, T +39 06 8552293 e-mail: info@assorinnovabili.it; segreteria@assorinnovabili.it| www.assorinnovabili.it Seguici anche su: twitter.com/assoRinnovabili | linkedin.com/company/assorinnovabili | facebook.com/assoRinnovabili| youtube.com/user/assoRinnovabiliIta

RWE INNOGY ITALIA PORTA L’ENERGIEWENDE NEL “BEL PAESE” RWE Innogy, società impegnata nello sviluppo, costruzione e gestione di impianti nella filiera delle fonti energetiche rinnovabili, coglie le opportunità offerte dall’”Energiewende” (la transizione energetica) e integra anche in Italia le proprie attività tradizionali con la fornitura di servizi ad hoc per migliorare le prestazioni tecniche ed economiche degli impianti di produzione rinnovabile. Supporto nella pianificazione e caratterizzazione ottimale dei progetti, attività a 360° nella manutenzione predittiva di impianti, supporto nell’installazione degli apparati di interfaccia con i gestori di rete, strutturazione di nuove opportunità di business sono alcuni dei servizi offerti grazie all’esperienza e alla reputazione conquistata in ambito nazionale ed europeo. In qualità di primario produttore di energia da fonti rinnovabili con oltre 3.500 MW attualmente in esercizio, RWE si propone anche come trusted partner per le nuove iniziative nel campo energetico. Per informazioni: RWE Innogy Italia, www.rwe-innogy.com, tel. 0269826300.

JUST IN TIME! Si, just in time per il rispetto dei tempi previsti. Agli inizi di Febbraio 2015 Idroelettrica Molino Rizzoni Srl, società partecipata al 100% da H2E Srl, ha ultimato - grazie allo staff interno coordinato dall’Ing. Furio Cinotti - tutte le operazioni tecniche per la messa in servizio commerciale della centrale di Molino Rizzoni, Località Grizzana Morandi (BO). L’impianto, con un salto geodetico pari a 4,10 mt e con una portata di 26 m3/s, è stato dotato di una turbina Kaplan ad asse verticale bi-regolante di potenza nominale di 850 kWp fornita da Andritz (Austria). L’impianto rappresenta l’undicesima realizzazione “in proprio” della società toscana che, nata nel 2009, sta raggiungendo importanti obiettivi. Nella foto un momento della costruzione.

SISTEMA PER LA GESTIONE DELLE PROCEDURE RIGEDI Tecnowatt presenta il sistema per la gestione delle procedure di riduzione della generazione distribuita conforme alle specifiche Terna, Allegato A72, Norma CEI 0-16 Allegato M, implementando funzionalità addizionali necessarie al fine di rendere la procedura di apertura e ripristino affidabile, sicura e pronta a implementare possibili modifiche alle specifiche richieste. L’unità di controllo si integra al centro del distributore tramite protocollo IEC 870-5104, esponendo le interfacce di configurazione, reportistica e storicizzazione tramite pagine HTML. Le periferiche remote installate presso i produttori come da specifica (Allegato M) comunicano con l’unità di controllo tramite scambio di SMS.

SI ALZA IL SIPARIO SULLA CENTRALE A BIOMASSE LEGNOSE DI ALMENNO S. SALVATORE Dedalo ESCO SpA e il Comune di Almenno S. Salvatore hanno inaugurato la centrale a biomasse legnose con 550 kW di potenza nominale che alimenta una rete di teleriscaldamento a servizio delle scuole primarie e del palazzetto dello sport comunale. Dedalo ESCO Energy Service Company con sede a Bergamo - opera nell’ambito del finanziamento tramite terzi: un sistema che permette al cliente di non sostenere alcun costo, mentre la ESCO ripaga la sua attività con i risparmi ottenuti, assumendosi interamente il rischio della buona riuscita del progetto e della sua efficienza nel tempo. Vantaggi per tutti, quindi, in primo luogo per l’ambiente, che beneficia di una sostanziale riduzione delle emissioni di gas serra.


MESSAGGIO PUBBLICITARIO

RECOIL: recuperare l’olio vegetale usato in cucina e trasformarlo in energia Dal biodiesel all’ energia elettrica e termica: l’olio vegetale

LIFE10 ENV/IT/000341

usato in cucina è una grande risorsa energetica ed economica. Raccolto in modo differenziato e dopo opportuni processi di trattamenti e rigenerazione, infatti, può essere riciclato e tornare a nuova vita sotto forma di materie prime per uso industriale o energia alternativa. E invece troppo spesso finisce nei lavandini o disperso nel suolo o nei corsi d’acqua, provocando gravi danni ambientali. Colpa della mancanza di informazione (non tutti conoscono il livello inquinante di

questo rifiuto e i vantaggi economici e ambientali del suo recupero) ma anche di un sistema di raccolta domestica ancora carente, lasciata all’iniziativa dei singoli comuni.

Per favorire un cambiamento nella gestione degli oli vegetali esausti nonché nel comportamento dei consumatori, nasce Life LIFE10 ENV/IT/000341 “RECOIL (RECovered waste cooking OIL for combined heat and power production)”, progetto cofinanziato dalla Commissione europea nell’ambito del programma LIFE+ e guidato da AzzeroCO2 con il Conoe, Legambiente, Kyoto Club e Cid Software. Attraverso un’innovativa collaborazione tra enti pubblici e soggetti privati, RECOIL si propone di incrementare il quantitativo di olio vegetale esausto di origine domestica raccolto in modo differenziato per essere inviato a recupero. Il progetto, avviato nel 2011, ha realizzato un sistema ottimizzato per la raccolta porta a porta dell’olio vegetale esausto al fine di limitare i danni derivanti dalla sua dispersione nell’ambiente e finalizzato

alla produzione energetica. In due comuni pilota, Castell’Azzara (Gr) e Ariano Irpino (AV), è stato pianificato un sistema di raccolta porta a porta dell’olio usato e un sistema informativo innovativo di monitoraggio e tracciabilità dell’intera filiera di raccolta che ha consentito di seguire costantemente l’andamento della stessa e valutarne i risultati. Nelle due località sono stati raccolti complessivamente 2.122 litri di olio vegetale usato, evitando così di immettere in atmosfera circa 125 kg di Co2 equivalente. In particolare, il monitoraggio della raccolta domiciliare porta a porta nei due comuni pilota ha rilevato che i 1.500 cittadini di Castell’Azzara (Grosseto) hanno raccolto 910 litri di olio vegetale esausto, con una media annua a persona pari a mezzo litro di olio vegetale esausto raccolto, e che i 5.000 abitanti di Ariano Irpino (Avellino) hanno raccolto 1.212 litri di olio vegetale esausto, con una media annua di 0,24 litri.

“Grazie a progetti come questo – commenta Stefano Ciafani, vicepresidente di Legambiente – si contribuisce a ridurre gli sversamenti degli oli nelle fognature e, al tempo stesso, si recupera una risorsa utile alla produzione di energia rinnovabile. Per questo motivo è fondamentale l’impegno di un’attività di informazione e sensibilizzazione che coinvolga direttamente i cittadini e le pubbliche amministrazioni nella gestione sostenibile dei rifiuti e, per questo, vogliamo continuare a promuovere iniziative come questa affinché si diffonda la pratica della raccolta porta a porta dell’olio vegetale usato. Il nostro auspicio – conclude Ciafani - è che sempre più comuni italiani adottino questo percorso”.


62 nucleare

ATOMO IN DECLINO di Giuseppe Onufrio*

Del “rinascimento nucleare” nessuna traccia e all’orizzonte si profila un crollo

Guardando l’evoluzione dell’industria nucleare, almeno nei Paesi occidentali, il quadro che emerge è di profonda crisi, non certo di “rinascimento”. Il caso più eclatante è quello della francese Areva, per l’87% di proprietà dello Stato, la cui situazione è vicina al fallimento dopo che ha dovuto iscrivere in bilancio perdite per circa 4,9 mld di euro. Già lo scorso novembre l’azienda aveva annunciato di sospendere le previsioni finanziarie per il 2015 e 2016 a seguito delle perdite registrate nel progetto finlandese di Olkiluoto e per la stagnazione del mercato nucleare. Standards & Poor’s abbassava il rating a BB+ a “titolo spazzatura”. A marzo Areva ha formalizzato la richiesta alla Nuclear Regulatory Commission statunitense di sospendere la procedura di certificazione dell’EPR negli USA. La crisi del settore nucleare non è recente e l’incidente di Fukushima sembra aver solo accelerato l’involuzione dell’industria. L’energia nucleare ha avuto due picchi di crescita corrispondenti alla messa in funzione di un elevato numero di reattori, nel 1974 e nel 1984-1985. Già nel decennio 1991-2000 si registrò un declino almeno per quanto riguarda il numero dei reattori: ne sono stati chiusi 52 e aperti solo 30. Nel 2001 arrivò il piano di rilancio del nucleare di George Bush, piano che avrebbe avuto un qualche risultato solo alla fine del decennio con la presidenza Obama. Ma anche negli USA - dove aprile/maggio 2015

nel 2013 è iniziata la costruzione di quattro unità AP1000 in due siti, i primi reattori nucleari in costruzione dopo 35 anni - molto difficilmente si può parlare di rinascimento dato che i reattori con più di 40 anni sono già 24. Così gran parte delle aspettative dell’industria sono legate, come anche in Francia, più all’estensione della licenza d’esercizio che a nuovi investimenti; negli USA, finora, sono state concesse estensioni della licenza a 71 dei 100 reattori e un terzo di questi è già entrato nella fase di estensione della licenza (che può essere estesa di altri 20 anni). Sempre negli USA, sono stati progressivamente cancellati tutti i progetti di costruzione di EPR: se AmerenUE ritirava il progetto per Callaway 2 nel 2009, Unistar formalizzava la cancellazione del progetto di Nine Mile Point (New York) nel 2013 e PPL ha ritirato la proposta per un reattore a Bell Bend nel 2014. In Europa i cantieri per la costruzione dei primi EPR di Olkiluoto e Flamanville rappresentano la testimonianza più evidente della difficoltà dell’industria nucleare, avendo entrambi lo stesso ritardo e proiezioni sui costi finali a circa 8,5 mld di euro rispetto a una previsione iniziale di 3,2 (ma le stime per i progetti in UK sono già superiori). Nel caso finlandese, com’è noto, i ritardi hanno anche prodotto cause legali miliardarie tra la francese Areva e l’azienda finlandese TVO. A Flamanville, dove si pensava che la francese EDF potesse far tesoro del caso finlandese e che riuscisse a gestire meglio il cantiere avendo una maggiore esperienza come costruttore, si è invece avuta la stessa evoluzione.

Hinkley Point in UK In UK, per fronteggiare la prevista progressiva chiusura dei reattori esistenti, il progetto principale è quello di due unità EPR a Hinkley Point. La trattativa con EDF, che aveva già rilevato nel 2008 British Energy e, con essa, tutti i siti nucleari britannici, prevede un prezzo di cessione garantito a 92,5 sterline per MWh per


aprile/maggio 2015

35 anni, il doppio del prezzo medio al mercato elettrico britannico. In sostanza, si tratta di un costo totale previsto di 24,5 miliardi di sterline (poco meno di 34 miliardi di euro) per due unità EPR per un totale di 3,2 GW. In pratica questo “Contract for Difference” è una sorta di “feed-in-tariff ” nucleare, dunque una misura introdotta come se questa fosse una tecnologia emergente e non un’industria con oltre mezzo secolo di sviluppo alle spalle. Il tema è assai controverso e ha sollevato diverse critiche come “aiuto di Stato” (in particolare da parte dell’Austria). In UK una recente asta per un progetto eolico a terra si è conclusa a 82 sterline/MWh; e anche il solare fotovoltaico in grandi impianti in UK viaggia a costi persino inferiori a questo (C. Ottery, energydesk. greenpeace.org, February 26th, 2015 - http://tiny.cc/ottery). La media delle aste per le rinnovabili presenta un prezzo di 110 sterline per MWh (rispetto ai 155 £/MWh come prezzo di partenza), costi che comunque sono in rapida discesa.

di microfessurazioni nei vessel di due reattori belgi nelle centrali di Doel (unità 3) e Thiange (unità 2), resa nota nel 2012. Si tratta della prima volta che questo genere di microfessurazioni è stato osservato in questa quantità. Per Jan Bens, Direttore Generale dell’Autorità di sicurezza nucleare belga (FANC), «questo potrebbe essere un problema globale dell’industria nucleare». Le analisi prodotte sui reattori belgi, secondo due esperti di corrosione - Digby MacDonald dell’Università di Berkeley e Walter Bogaerts

La flotta nucleare esistente La strategia di sopravvivenza dell’industria nucleare è da tempo quella di prolungare le licenze d’esercizio dei reattori oltre il termine previsto che è, solitamente, di 40 anni. Questo comporta ovviamente procedure di revisione nelle quali vengono prescritti interventi di adeguamento e retrofit per aggiornare i livelli di sicurezza. La Corte dei Conti francese ha stimato in 55 miliardi di euro il costo degli interventi per i 58 reattori francesi, ma altre stime portano queste cifre dal doppio al quadruplo: 2-4 miliardi per reattore (Schneider, et al. World Nuclear Status Report 2014). A ogni modo in Francia il Governo ha approvato una legge per la “transizione energetica”, che prevede che la quota nucleare nella produzione elettrica scenda dall’attuale 75% al 50% entro il 2025, un sostanziale congelamento della potenza installata. Ad alzare ulteriormente l’attenzione sull’effettivo stato dei reattori esistenti, la scoperta di migliaia

dell’Università di Lovanio – hanno supportato e con vigore questa preoccupazione. Per il regolatore statunitense NRC, invece, il tema non riguarderebbe i reattori pressurizzati statunitensi e comunque, secondo la NRC, questo non sarebbe un problema strutturale.

L’impatto di Fukushima Il dibattito sulla gestione del nucleare esistente è particolarmente intenso in Giappone dove, dopo l’incidente di Fukushima che ha portato alla definitiva chiusura di tutti i 6 reattori, i 48 reattori superstiti sono stati progressivamente spenti e da oltre 18 mesi non viene più prodotta elettricità da nucleare in un Paese che, prima dell’incidente, copriva quasi il 30% della produzione con questa fonte. Lo scorso marzo quattro aziende elettriche giapponesi hanno

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64 nucleare Il tentativo cinese

annunciato la chiusura definitiva di 5 centrali. Si tratta di una svolta, prima di Fukushima i piani degli operatori erano quelli di chiedere un’estensione della licenza d’esercizio a 60 anni. Dei 43 reattori che rimangono, 21 sono in attesa del permesso dell’autorità di sicurezza nucleare giapponese NRA per ricominciare a produrre elettricità. Sui tempi della progressiva riaccensione dei reattori in Giappone pesano le numerose cause legali intentate, una delle quali ha causato la chiusura nel settembre 2013 delle due unità a Ohi che erano già state riavviate, un’opinione pubblica per il 70% ostile alla riapertura e la capacità del sistema elettrico giapponese di fronteggiare la situazione causata dall’azzeramento della produzione nucleare senza aver subìto nessun blackout. Imponenti misure di efficienza e risparmio, il decollo delle rinnovabili col solare in testa e un aumento dei consumi di gas naturale hanno consentito di fronteggiare la situazione, con un impatto dell’8% sulle emissioni di CO2. La politica del Governo giapponese Abe è però tornata indietro, dando priorità di dispacciamento al nucleare e al carbone e mettendo un limite all’ingresso di nuova potenza rinnovabile in rete. Lo scontro in Giappone tra il vecchio assetto della produzione elettrica e le rinnovabili è evidente: la rapidità con cui può crescere, per esempio, il solare in un Paese peraltro leader della tecnologia è di gran lunga superiore ai tempi necessari per riavviare la potenza nucleare. Il record italiano di 9,3 GW del 2011 è stato superato dalla Cina con 12 GW nel 2013 e il Giappone può senz’altro aggiungersi ai Paesi in rapida crescita solare. aprile/maggio 2015

La Cina ha rilanciato il suo programma nucleare nel 2007 puntando sullo sviluppo della propria filiera di reattori ad acqua leggera CPR e sull’AP1000 come tecnologia di generazione III (Toshiba-Westinghouse) oltre ad altri due EPR. Con 28 reattori in costruzione, oltre il 40% dei cantieri nucleari ufficialmente aperti, la Cina si posiziona come il Paese più attivo nella costruzione di nuovi reattori. Anche in Cina ci sono conferme di ritardi in tre quarti dei cantieri, inclusi quelli degli AP1000 che degli EPR (World Nuclear Status Report, 2014). Al momento, i 17 GW in produzione coprivano solo il 2,1% della produzione elettrica nel 2013, superati per la seconda volta nel 2014 dalla produzione eolica in quel Paese. Anche se ci fosse una generalizzata estensione delle licenze dei reattori in funzione oltre i 40 anni, cosa che dopo Fukushima appare assai improbabile, il declino del nucleare appare in corso e da tempo. La dinamica dei costi degli impianti nucleari è sempre al rialzo, mentre le fonti rinnovabili si avvicinano sempre più alla competitività assoluta e il solare sarà già in grid parity in pochi anni pressoché ovunque; la limitazione nella disponibilità di acqua (che in Cina limita le nuove localizzazioni solo a siti sulla costa) e le incertezze sull’effettivo funzionamento dei nuovi reattori (ancora nessun AP1000 o EPR ha mai generato un solo kilowattora) appaiono come fattori difficilmente risolvibili. Il declino è certo, il crollo, almeno in alcuni Paesi, non è escluso. A questi se ne aggiunge uno che appare come quello definitivo: la crescita delle rinnovabili porta con sé una trasformazione nella logica delle reti elettriche che rende sempre più difficile la coesistenza di una generazione così poco flessibile come quella nucleare. Una rivoluzione energetica è già in corso e richiede una nuova logica e un nuovo modello di business, che metta al centro le diverse fonti rinnovabili, le smart grids, gli interventi di efficienza energetica negli edifici, nelle industrie e negli uffici. E questa è anche l’unica strada possibile sul piano industriale, come dimostra la recente svolta di Enel il cui nuovo piano industriale, pur lentamente, vira finalmente nella direzione giusta.  *Direttore Greenpeace Italia


Roma 17-18 Giugno 2015 Residenza di Ripetta - Via di Ripetta 231 - ore 9.30 - Sala Bernini

Tra i temi di questa seconda edizione: l’innovazione nel ciclo dei rifiuti, il ruolo delle istituzioni nazionali e degli enti locali, le opportunità per le imprese. Il Forum si propone di fare il punto sul rispetto degli obiettivi della normativa europea di settore e sulle criticità del sistema. Ma anche sugli sviluppi futuri della ricerca e sulle novità legate alla tecnologia degli impianti, sugli aspetti gestionali e sulle buone pratiche per la riduzione dei rifiuti. L’iniziativa prevede incontri con esperti di settore, rappresentanti di aziende e istituzioni, giornalisti specializzati. Per informazioni e adesioni inviare una mail a forumrifiuti@legambiente.it Segreteria organizzativa: 06.86268380 www.lanuovaecologia.it • www.legambiente.it • www.kyotoclub.it

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accordi internazionali

aprile/maggio 2015

Il disastro del TTIP di Mario Agostinelli*

IL TTIP È UN TRATTATO PER LE FOSSILI, CONTRO IL CLIMA, A SFAVORE DI RINNOVABILI E FUTURO. E CHE AUMENTERÀ LE DISUGUAGLIANZE

Hermann Scheer sosteneva che la sfida energetica del XXI secolo si sarebbe giocata tra atomo e Sole, in un anticipo ridotto all’essenziale dello scenario entro cui la geopolitica deve far i conti con la sfida per la sopravvivenza della biosfera. Secondo l’ideatore del Conto energia, un mondo vivente, soffocato da protesi artificiali di cui l’uomo si è circondato e che ha industrialmente prodotto e accumulato a disprezzo dei cicli naturali, avrebbe cercato scampo nella fonte nucleare per rallentare

il cambiamento climatico senza alterare il modello capitalistico di crescita illimitata della produzione e dei consumi e, insieme, di spreco imperdonabile di lavoro e natura. Nel secondo decennio del nuovo millennio la realtà è assai più complessa di quanto Hermann presagiva e presenta già tutte le turbolenze di un cambiamento profondo del paradigma energetico. La sorpresa cui ci troviamo di fronte sta nel crescente successo delle fonti naturali accompagnate da un’ostinata ricerca di efficienza. Risultato non più ascrivibile al solo progresso tecnologico e alla raggiunta convenienza economica, bensì alla consapevolezza che la stabilità e il futuro di un modello di produzione e consumo non debba più passare dall’accaparramento delle risorse fossili. Un possesso e, contemporaneamente, un esproprio, conseguito per via militare o per “accordi” asimmetrici imposti dalla disparità economica dei contraenti. La verità

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68 accordi internazionali è che quello che i Governi trascurano - la responsabilità di assicurare salute, riproduzione e conservazione della specie – sta prendendo piede in una coscienza diffusa di cui abbiamo quotidianamente riscontro e che desidera cooperazione politica, riorganizzazione sociale e convergenza di “stili di vita”. In una lenta, ma a mio avviso inesorabile, presa di distanza delle popolazioni dalla competizione che i governanti inseguono nell’arena globale del mercato, ne sta passando di acqua sotto i ponti.

Nucleare a fine corsa Molte sono le avvisaglie di un processo difficilmente reversibile, a dispetto dei disegni che il prevalere dell’economia sulla vita cerca ancora di perseguire. Nonostante i rischi della tecnologia nucleare vengano esorcizzati con la promessa di una sua riconversione innocua e pulita e con impegni massicci dei Governi che ne apprezzano la ricaduta militare (l’industria nucleare americana sostiene che occorre aumentare del 20% i finanziamenti a fondo perduto per le industrie dell’atomo, e il Pentagono ne appoggia la richiesta, suonando l’allarme per la minaccia alla sicurezza nazionale rappresentata dal cambiamento climatico), solo il piano cinese sembra uscire dallo stadio di progetto sulla carta. E si avvertono anche in Asia le resistenze dei movimenti antinucleari. A seguire, nonostante la riduzione dei prezzi dei fossili non convenzionali abbia fatto gridare alla “rivoluzione dello shale gas”, il prezzo del petrolio non si stabilizzerà al ribasso nel lungo periodo, dato che i vincoli alle emissioni ne ridurranno comunque la compatibilità. In compenso, cresce il rischio di bolle finanziarie, perché sempre più elevati sono i costi attuariali di estrazione, combustione e trasporto. Infine, le tecnologie rinnovabili decentrate (sole + vento + geo + idro + biomasse), invece, pur limitate da una relativa discontinuità, sono sfruttabili direttamente in pressoché ogni angolo del mondo e stanno raggiungendo la “grid parity” a ritmi fino a un decennio fa impensabili. Nei primi tre trimestri del 2014, la Cina ha speso 175 miliardi dollari in progetti di energia pulita, un salto del 16% rispetto all’anno precedente. Restando in Europa, sono le imprese a valorizzare per prime la maggiore aprile/maggio 2015

disponibilità di elettricità da FER, al punto di richiedere che sia il mercato ad adattarsi alle FER, estendendo la possibilità di accumulo e di ricorso a reti intelligenti. Anche Bloomberg – un’origine insospettabile - da tempo indica nel solare la fonte più conveniente in quanto a stabilità per gli investimenti. Un conflitto di così ampia portata, che riguarda nientemeno che la transizione da un sistema fossile e nucleare, fondato su concentrazione di capitale, finanza e infrastrutture proprietarie, a un sistema di fonti naturali non proprietarie, diffuse e territorialmente governabili, non sfugge certo agli interessi dei Governi e delle corporation che tengono il campo nell’economia, nel commercio, nel sistema finanziario globale. Ed è qui che si inserisce l’iniziativa che Stati Uniti ed Europa in particolare stanno assumendo sul fronte dei trattati commerciali che riguardano anche l’energia.

TTIP asimmetrico Va qui ricordato che quando si tratta di esportazioni di GNL o shale gas, la legge statunitense concede l’approvazione automatica alle applicazioni per i terminali destinati a spedire il gas ai Paesi che hanno sottoscritto accordi commerciali con Washington, mentre le richieste di terminali GNL per inviare il gas altrove, al contrario, devono passare attraverso un processo di valutazione, che determina se tale commercio è nell’interesse nazionale degli Stati Uniti. Questo è il nodo che gli Stati Uniti vogliono risolvere una volta per tutte a vantaggio loro e delle loro imprese, sia con la UE che con i Paesi asiatici (Cina e India escluse) e con l’Oceania. Washington è attualmente impegnata in due importanti accordi commerciali multilaterali di negoziazione: il Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti (TTIP, con i 28 Paesi della UE) e la Trans-Pacific Partnership (TPP, con 11 Paesi nella regione Asia-Pacifico e Americhe). Di fronte a una palese asimmetria che gli Stati Uniti vogliono rendere norma universale cogente, la UE sta purtroppo rinunciando ai suoi obiettivi ed è giunta ad annacquare gli obiettivi di efficienza e rinnovabili che si era fin qui data. Sono le maggiori imprese euro-americane che si sono mosse, formalmente per avviare


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negoziati per un accordo di libero scambio che aumentasse ulteriormente «la generazione di ricchezza monetaria legata al commercio». Gli obiettivi non dichiarati esplicitamente stanno però altrove: non tanto rimuovere le barriere commerciali fra i due partner per facilitare la vendita di merci e servizi, quanto allineare al ribasso le norme ambientali e sul lavoro, consentire la privatizzazione dei beni comuni, affidare i contenziosi che si apriranno in tema di diritti a un arbitrato di natura privata, in cui le multinazionali e i loro interessi avranno ruolo decisivo. Nel caso specifico dell’energia, la cosiddetta «coerenza nei regolamenti» e una «più stretta cooperazione» minano alle fondamenta la cultura di cui l’Europa è stata a lungo leader nel mondo. Business Europe - la più grande federazione di datori di lavoro europei, che rappresenta le maggiori multinazionali d’Europa - ha accusato la normativa ambientale europea di aver posto le imprese continentali in una situazione di svantaggio rispetto ai loro concorrenti globali, e ha evidenziato la «necessità di ridurre il differenziale UE-USA». Sotto tiro ancora il Protocollo di Kyoto, che in attesa della COP di Parigi entrerebbe in una nuova fase critica, dato che i grandi emettitori di CO2 avrebbero strada

libera per aumentare l’inquinamento e, quindi, gli accordi sul clima troverebbero una sintonia di opposizioni sul fronte “atlantico”. Il risultato del reciproco riconoscimento degli standard ambientali potrebbe essere il proliferare di tecnologie controverse come la fratturazione idraulica (fracking) per produrre il gas di scisto, con gravi danni alla salute e alla sicurezza delle persone e dell’ambiente. Il fracking, già bandito in Francia per rischi ambientali, potrebbe diventare una pratica tutelata dal diritto: le compagnie estrattive interessate a operare in questo settore potrebbero – sulla base delle norme previste - chiedere risarcimenti agli Stati che ne impediscono l’utilizzo. Diverse imprese energetiche USA hanno posato gli occhi sui giacimenti europei di gas di scisto (specialmente in Polonia, Danimarca e Francia) e potrebbero avvalersi del TTIP per smantellare i divieti e le moratorie nazionali adottate per proteggere i cittadini europei. Nella sua attività di lobby, Business Europe sollecita un capitolo energia che renda libero il flusso di petrolio e di shale gas dagli USA all’Europa. A oggi infatti non esiste export petrolifero dagli USA e per il gas si attende il 2016, ma esistono molte restrizioni legislative oltreoceano al riguardo. L’eliminazione di qualsiasi restrizione all’export

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70 accordi internazionali di materie prime fossili in Europa è la richiesta di un’industria europea che, consapevole dell’esaurimento delle risorse del Vecchio Continente (la produzione domestica di petrolio è stimata in calo del 57% al 2035 e quella del gas del 46%), ignora la possibilità della rivoluzione delle fonti rinnovabili e dell’efficienza e rimane ancorata a carbone, gas e petrolio.

Europa fossile L’Unione, dal canto proprio, ha fatto di tutto nell’ultimo periodo per preparare il terreno

delle importazioni di idrocarburi non convenzionali. Ha stracciato tutti i regolamenti che si era data per limitare l’inquinamento, come la direttiva sulla qualità dei carburanti e quella sulla qualità dell’aria. Un regalo all’industria automobilistica da una parte, alle multinazionali dell’energia fossile dall’altra. Si andrebbe così verso l’armonizzazione nella concessione delle licenze di estrazione: i Paesi contraenti sarebbero obbligati a rimuovere ogni ostacolo che inibisca la libera circolazione dei combustibili fossili (ogni comunità che reagisca alla costruzione di oleodotti, leggi Keystone XL, o a nuovi pozzi, leggi Basilicata, è avvertita). Interessante in questo quadro è notare la predisposizione del nostro Governo ad anticipare le avances americane e a offrirsi come l’approdo (hub) europeo del gas. Federica Mogherini, Alto rappresentante UE per gli affari aprile/maggio 2015

esteri e certo non estranea alle posizioni italiane al riguardo, ha fatto pressioni a dicembre sul Segretario di Stato americano John Kerry per inserire il capitolo sull’energia nel Trattato e, con esso, aprire un canale di importazione per lo shale gas americano. Mogherini ha sostenuto che un capitolo sull’energia nell’accordo di libero scambio potrebbe rappresentare «un punto di riferimento per il resto del mondo» in fatto di mercati energetici. Per i biocombustibili, il TTIP, attraverso l’armonizzazione delle normative europee in ambito energetico, incentiverebbe l’importazione di biomasse americane che non rispettano i limiti di bilancio di emissione di gas a effetto serra e altri criteri di sostenibilità ambientale. Per le rinnovabili si profila il divieto assoluto di «domestic content nelle energie alternative» (quindi addio a ogni connessione tra sviluppo locale e green economy), con stretti limiti alla possibilità in uso in Europa di incentivare le fonti naturali. In particolare, l’articolo O della bozza al comma a) vieta ai Governi di far valere «requisiti relativi al contenuto locale» nei programmi per le energie rinnovabili. Uno strumento che alcuni Paesi hanno adottato per favorire la creazione di industrie nazionali. Nei carburanti da autotrazione sono differenti i limiti inquinanti e anche qui il rischio è un accordo al ribasso. Assai critica è la discussione che si è aperta sulla qualità dei carburanti, che impone in Europa di assicurare una riduzione delle emissioni dei gas serra nell’intero ciclo di vita dei combustibili impiegati nel settore dei trasporti. Fin dalla sua adozione, Shell, BP, Exxon Mobil, Chevron e gli altri big del petrolio hanno fatto pressioni per annacquare i suoi effetti. La UE sinora ha sostenuto un “peso CO2” diverso per ciascun carburante in base all’origine/metodo di estrazione della materia prima. È su queste basi che il petrolio non convenzionale (per esempio quello estratto dalle sabbie bituminose in Canada), che in seguito al processo di estrazione emette più anidride carbonica di quello convenzionale,


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viene penalizzato e fin qui rifiutato. L’articolo D al punto 2 stabilisce che i Governi, in materia di energia, abbiano la possibilità di mantenere obblighi relativi all’erogazione dei servizi pubblici solo finché la loro politica non è più onerosa del necessario. Diventerebbe quindi praticamente impossibile accordare ai più poveri e ai più deboli una “tariffa sociale” ribassata del gas o dell’energia elettrica. Prezzo di mercato per tutti, senza se e senza ma (ma Renzi ci ha già pensato e la tariffa di maggior tutela per gas ed elettricità cesserà per decreto tra un anno e mezzo).

Mercato vs ambiente In nome della competitività, dunque, si calpestano le capacità fisiche del Pianeta, si ignorano le disastrose conseguenze sul clima, si ipoteca il futuro per un immediato piatto di lenticchie. Strano come questa enorme partita ancora non susciti allarme e reazione nell’opinione pubblica. La “rivoluzione shale” è sopravvalutata e potrebbe nel medio periodo rivelarsi strategicamente non solo poco risolutiva, ma addirittura perniciosa, dato che i vincoli climatici e finanziari di lungo periodo potrebbero risultare per questa tecnologia esiziali. In quanto rivaluta le riserve energetiche degli Stati Uniti precedentemente in grave crisi, fornendo a essi una posizione di rilievo assoluto in un mercato tuttavia molto complesso, risulta ovvio che i produttori americani cerchino mercati di sbocco. Ma quale interesse può avere l’Europa – e il mondo intero – per un calcolo senza senso, se si parte dal bilancio energetico e dall’obiettivo di produrre sempre più elettricità consumando sempre meno risorse naturali, emettendo sempre meno anidride carbonica e altri inquinanti? Questo dovrebbe essere l’obiettivo della politica energetica, preda ancora della retorica di un’insuperabile contesa fra rinnovabili e fossili. È un discorso che in Italia, in una paradossale insicurezza energetica, dovrebbe rappresentare il nerbo di una politica industriale per sfruttare al massimo le proprie risorse naturali rinnovabili in un orizzonte che unisca lavoro, ambiente, clima e politica estera. Non sembra che la classe dirigente mondiale - e italiana in particolare - sia all’altezza di una simile sfida. Basta ricordare che un esperto

stimato come Alberto Clò, in un’intervista a un quotidiano nazionale, accusa l’Europa di «aver inseguito le farfalle delle rinnovabili (…) promuovendo una strategia illusoria di decarbonizzazione delle fonti di riscaldamento e finendo per riversare su gas ed elettricità oneri non di mercato, legati agli incentivi per le “energie pulite”». Mentre, a suo dire – e delle sue fonti di ispirazione – «è certificato che nel lungo termine la crescita delle richieste energetiche potrà essere soddisfatta per l’80-85% solo dai combustibili fossili». Un po’ il contrario di quanto abbiamo provato qui a sostenere e documentare. Ma tant’è, perché se, a giudizio di Panebianco, l’obiettivo della politica energetica è quello di «spingere Teheran e Mosca a più miti consigli», allora le grandi questioni dell’uguaglianza sociale e climatica, dell’accesso non dissipativo alle risorse naturali, del diritto alla pace come premessa a una vita dignitosa, della democrazia come risorsa e potere di decisione saranno sempre fuori portata. Ma al di là di tutto deve essere chiaro un vizio d’origine dei negoziati al centro della nostra riflessione. Il TTIP ripercorre la strada del NAFTA, del WTO, di decenni di Washington Consensus, di globalizzazione al servizio delle multinazionali, riproponendo una ricetta ormai obsoleta. La libertà intesa come possibilità di fare ciò che economicamente risulta più conveniente, così da favorire solo gli oligopoli della ricchezza e danneggiare chi purtroppo non ha reddito sufficiente per difendere i propri diritti elementari. L’astrazione del mercato è un danno per il Pianeta, l’economia deve rientrare nell’ecosistema perché le leggi della fisica non sono negoziabili. Questo andrebbe ricordato ai negoziatori del TTIP. È urgente sempre più un trattato sulla biosfera che gli ultimi sussulti della geopolitica imperniata sulla guerra (militare, economica, sociale) cercano di allontanare nel tempo. L’appuntamento di Parigi a Dicembre potrebbe dare una chance a questo percorso nuovo, socialmente e ambientalmente desiderabile, ma forse impraticabile se da qui ad allora si concludessero TTIP e TTP, due trattati che rappresenterebbero un nefasto canto del cigno di un liberismo che stiamo già ora pagando duramente.  * Presidente associazione Energiafelice

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74 tecnologie

LA DIVERSITÀ DELL’ACCUMULO di Mario Conte*

L’accumulo di energia per le nuove reti elettriche avrà diverse caratteristiche

L’ammodernamento delle reti elettriche in corso in Europa e nel resto del mondo risponde a precise necessità di sviluppo per soddisfare la crescente domanda di energia elettrica, con un minore impatto ambientale e con maggiore integrazione di fonti rinnovabili non programmabili. In questo processo di rapida evoluzione del sistema elettrico, l’uso di sistemi di accumulo è particolarmente richiesto per aiutare a ridurre gli effetti negativi associati a questi cambiamenti, contribuendo a migliorare le capacità operative della rete, ridurre i costi (di investimento e di gestione), aumentare l’affidabilità dei sistemi modificati con nuove tecnologie e, nel contempo, rinviando e riducendo le necessità di investimento per nuove infrastrutture, a cui si possono citare la possibilità di utilizzare i sistemi di accumulo per rispondere a situazioni di emergenza, grazie a ulteriori potenziali servizi di back up e di stabilizzazione della rete. Lo svolgimento di queste accresciute funzioni dei sistemi di accumulo ha richiesto l’aggiornamento e il rinnovamento delle tecnologie di accumulo con caratteristiche tecniche ed economiche sempre più compatibili con le nuove funzioni. Fermo restando aprile/maggio 2015

l’obiettivo prioritario del contenimento del costo per ogni tipo di applicazione, le tecnologie per l’accumulo dell’energia si stanno sempre più differenziando e specializzando in modo da rendere massimo il valore economico e l’insieme dei vantaggi associati. Pertanto nelle reti elettriche si possono potenzialmente utilizzare in diversi punti della rete tutte le varie tipologie di sistemi di accumulo, classificabili in differenti modi: con il metodo di accumulo, con le caratteristiche prestazionali, con la taglia per applicazioni centralizzate o distribuite (da decine di MW fino a qualche kW). La classificazione più semplice si basa sul metodo di conversione utilizzato: l’energia elettrica, infatti, a eccezione dell’accumulo nel campo elettrico di un condensatore (che per caratteristiche costruttive può anche essere incluso nella famiglia dell’accumulo elettrochimico, come nel caso dei supercondensatori) e in quello elettromagnetico dei magneti superconduttori, non può essere accumulata direttamente ma deve essere prima convertita in un’altra forma di energia. Si possono quindi distinguere le seguenti metodologie di accumulo: • accumulo meccanico (energia potenziale o cinetica) - pompaggio d’acqua - sistemi ad aria compressa (CAES) - volani (flywheels) • accumulo elettrochimico - accumulatori elettrochimici (o anche, comunemente ma erroneamente, batterie) - supercondensatori (che sono costruttivamente dispositivi elettrochimici, denominati scientificamente, non a caso, condensatori elettrochimici), che


aprile/maggio 2015

accumulano direttamente energia elettrica in forma elettrostatica o in combinazione con reazioni elettrochimiche • accumulo elettrico - SMES – Superconducting Magnetic Energy Storage (accumulo in magneti superconduttori) • accumulo termico - accumulo del freddo - accumulo del calore • accumulo chimico - Idrogeno - biocombustibili. La tabella 1 confronta la densità di energia riferita a quella effettivamente disponibile, dopo i vari processi di conversione - dei vari metodi di accumulo.

TABELLA 1

Confronto dei diversi sistemi di accumulo per le reti elettriche Metodo di accumulo

Tipo di accumulo

Densità di energia, kWh/m3

Accumulo di energia meccanica

Energia potenziale: per esempio, pompaggio di acqua con differenza di altezza di 360 metri

1

Energia cinetica in volani

10

Energia in campi elettrici, come nei supercondensatori

10

Energia in campi elettromagnetici, come negli SMES

10

Batteria Piombo-acido

100

Batteria Litio-ione

500

Calore sensibile in acqua con DT=100 K

115

Calore latente in cambiamenti di fase, come quello da acqua a vapore

636

Idrogeno liquido

2.400

Benzina

8.500

Accumulo di energia elettrica Sistemi di accumulo elettrochimico Accumulo di energia termica

Accumulo meccanico L’accumulo di energia elettrica in forma di energia meccanica può avvenire tramite la conversione in energia potenziale o cinetica. L’esempio più diffuso di accumulo di energia potenziale è quello dei sistemi di pompaggio d’acqua. Un’altra forma di accumulo di energia potenziale è correlata alla compressione elastica di una massa solida o gassosa: applicazioni di questo tipo sono i sistemi ad aria compressa (e, per piccole quantità, l’energia elastica di carica della molla degli orologi meccanici). L’accumulo sotto forma di energia cinetica avviene invece con la messa in movimento, lineare o rotante, di

Accumulo di energia chimica Fonte: SEFEP –ISEA 2012

una qualunque massa, come nel caso dei volani (in inglese, flywheels). Nel 2011 la capacità di pompaggio installata nel mondo ammontava a circa 123 GW. In Europa la capacità complessiva è di 45 GW e rappresenta circa il 5% della capacità elettrica totale. L’Italia ha una grande capacità di accumulo da pompaggio installata, pari a circa 7,6 GW e tuttavia nel 2011 ha prodotto meno di 2 TWh, contro 8 TWh

75


76 tecnologie TABELLA 2

Principali caratteristiche tecniche degli accumulatori elettrochimici Caratteristiche principali Densità di energia

Potenza specifica

Vita ciclica

Tecnologie per l’accumulo

Piombo

Alcaline

[%]

[°C]

140 -350

70 -75

20 -40

80 -100

140 -300

300 -1.000

80 -85

20 -40

100

140 -250

800 -1.500

70 -85

20 -40

[Wh/l]

[W/kg]

acido libero

25 -40

60 -100

VRLA

30 -40

compresso

40 -50

Tipo di

Intervallo di temperatura

numero di cicli @ 80% DoD 200 -1.500

[Wh/kg]

Ni-Cd

Efficienza

potenza

25 -40

130

500

800 -1.500

70 -75

-40 -50

energia

40 -50

130

120 -350

800 -1.500

70 -75

-40 -50

60 -80

200 -300

500 -1.000

200 -1.000

60 -65

0 -40

NiZn NiMH Tipo di

potenza

40 -55

80 -200

500 -1.400

500 -2.000

70 -80

0 -45

energia

60 -80

200 -350

200 -600

500 -2.000

70 -80

0 -45

103 90-120

150 183

100 100-120

4.500 2.500-3.000

89 90

-20 -45 -20 -45 -20 -60

NaS (riferiti ai moduli)

Alta temperatura

Zebra - Na-NiCl2 Li Ione

Litio

Tipo di

potenza

70 -130

150 -450

600 -3.000

800 -1.500

85 -90

energia

110 -220

150 -450

200 -600

800 -1.500

85 -90

-20 -60

100 -180

100

300 -500

300 -1.000

90 -95

-20 - 110

60-80

75-80

50-150

10.000

70-75

0 -40

potenza

3 -5

3 -10

2.000 -10.000

500k -1M

95 -100

-20 -90

energia

12 -20

3 -6

2.000 -10.000

500k -1M

95 -100

-20 -90

Li Polimeri Redox a flusso (varie coppie, valori medi)

Energia

Supercondensatori

Tipo di

prodotti nel 2002, picco storico di utilizzo. A oggi, sono operativi solo due impianti CAES, uno in Germania (Huntorf ) e uno negli Stati Uniti (McIntosh - Alabama). Il primo impianto commerciale di volani di taglia significativa (20 MW – 5 MWh), costruito dalla Beacon Power per conto della NYISO (New York Independent System Operator) per svolgere la funzione di regolazione di frequenza, è entrato in servizio nel 2011 a Stephentown (New York).

Accumulo elettrochimico Gli accumulatori elettrochimici sono sistemi in grado di accumulare energia elettrica convertendola in energia chimica mediante processi elettrochimici. Si differenziano dalle comuni pile primarie perché in essi la reazione di conversione dell’energia è reversibile, e pertanto sono anche denominati pile secondarie. Un sistema di accumulo aprile/maggio 2015

elettrochimico normalmente consiste in un insieme, denominato batteria, di accumulatori elettrochimici in cui sia possibile ripristinare elettricamente lo stato dei reagenti precedente alla scarica e che siano collegati in modo da adattarsi alle richieste elettriche ed energetiche del sistema di utilizzazione. Le applicazioni a supporto del sistema elettrico connesse alla rete erano, a fine 2011, pari a 450 MW, una percentuale comunque molto limitata della potenza totale installata per tutte le applicazioni. Nel mondo sono state realizzate diverse decine di impianti con potenze fino ai 10 MW e contenuto di energia fino a 40-50 MWh. Le caratteristiche peculiari dei sistemi di accumulo elettrochimico sono la modularità e la flessibilità di realizzazione e di uso. La tabella 2 riassume lo stato dell’arte dei sistemi di accumulo elettrochimico. I supercondensatori, per la loro capacità di fornire alte potenze ma per tempi


aprile/maggio 2015

molto brevi e quindi con scarsa attitudine ad accumulare grandi quantità di energia, sono indicati per applicazioni di potenza, particolarmente richieste nei servizi ancillari. I primi impianti di accumulo in reti elettriche con batterie al piombo sono stati costruiti dalla seconda metà degli anni Ottanta. Uno dei più grandi impianti in potenza di accumulo elettrochimico al mondo è stato realizzato con batterie Ni-Cd e si trova a Fairbanks, in Alaska: dal 2003 un impianto da 27 MW (e 14,6 MWh) opera da supporto alla potenza reattiva e come “spinning reserve”. Attualmente la batteria Na-S (sodio-zolfo) è il sistema di accumulo elettrochimico più utilizzato nelle reti elettriche con numerosi impianti realizzati principalmente in Giappone e negli Stati Uniti. Un impianto da 180 kW (230 kWh) è stato realizzato da FIAMM in Italia per l’utilizzo del surplus di energia prodotta da un impianto fotovoltaico e altri sono in fase di costruzione e prova. Negli Stati Uniti sono stati progettati e realizzati alcuni impianti dimostrativi con batterie litio-ione con potenze da 2 MW con lo scopo di regolare la frequenza, mentre altri impianti dimostrativi sono in fase di realizzazione. Impianti di varie taglie di batterie redox sono stati realizzati in diverse parti del mondo (Danimarca, Giappone, Stati Uniti e Tasmania) con principale applicazione nelle wind farm e con potenze comprese tra 5 kW e 4 MW. Infine i supercondensatori sono stati applicati soltanto in alcuni impianti dimostrativi di piccola taglia, come, per esempio, il sistema realizzato dall’ENEA per la Ricerca sul Sistema Elettrico per il livellamento del carico di utenze industriali.

Accumulo elettromagnetico L’energia può essere accumulata in un campo magnetico creato dal flusso di corrente che attraversa un cavo conduttore (detto più precisamente “induttore”). Se l’induttore è composto da materiale superconduttore, il sistema di accumulo elettromagnetico di energia viene denominato SMES (Superconducting Magnetic Energy Storage). Le prime realizzazioni sperimentali degli SMES risalgono ai primi anni 70. Due unità SMES da 10 MW complessivi (le prime in Italia e tra le prime nel mondo) sono

state installate presso lo stabilimento di Agrate Brianza (MB) della società STMicroelectronics. Al mondo sono stati realizzati alcuni sistemi sperimentali per lo studio della tecnologia e nuovi progetti di ricerca di base e applicata sono stati recentemente finanziati negli Stati Uniti e in Giappone.

Accumulo termico L’evoluzione delle reti elettriche apre nuove opportunità applicative anche a sistemi di accumulo più convenzionali. L’accumulo di energia termica in diverse forme (calore a bassa e alta temperatura, freddo per usi civili e industriali) è un chiaro esempio di queste nuove possibilità, indubbiamente legate alla disponibilità di fonti primarie di energia in forme diverse o mercati dell’energia con variazioni diurne od orarie dei costi. L’energia termica può essere accumulata con una molteplicità di tecnologie e metodi, che possono essere opportunamente utilizzati in vari punti della rete elettrica. I metodi di accumulo sotto forma di calore sensibile, di calore latente o di energia chimica (più propriamente termochimica) rappresentano le alternative più comunemente utilizzate. Un esempio molto avanzato di accumulo di energia termica in PCM è presente negli impianti solari termodinamici di generazione di energia termica CSP (Concentrating Solar Power). Le tecnologie più recenti sono contenute nell’impianto Archimede da 5 MWe, progettato da ENEL con il supporto di ENEA e realizzato in Sicilia.

Accumulo chimico L’energia elettrica e l’energia termica (per esempio, da fonte solare) possono essere convertite mediante reazioni chimiche reversibili in energia chimica di diversi materiali da utilizzare per l’accumulo. Per esempio si possono produrre gas, come l’idrogeno e i biocombustibili, che possono essere trasportati e accumulati con diverse modalità per lunghe distanze e per lunghi periodi, praticamente senza perdite. L’idrogeno è considerato uno dei principali vettori energetici di un futuro auspicato non lontano, in cui l’economia dell’idrogeno sarà pienamente sviluppata. L’idrogeno può essere ottenuto da varie fonti,

77


78 tecnologie TABELLA 3

mondo nel 2011, circa il 99% risultava composto Stato di sviluppo dei sistemi di accumulo dai sistemi di pompaggio dell’acqua, mentre i sistemi Maturità Costo, Efficienza Limiti nella vita Tempo ad aria compressa (CAES) Tecnologia applicativa in $/kW (%) ciclica di risposta raggiungevano i 440 MW da secondi e subito dopo i sistemi con Pompaggio acqua Maturo 1.500-2.700 80-82 No a minuti batterie sodio-zolfo mentre da secondi CAES (interrato) Demo – Usato 960-1.250 60-70 No i rimanenti sistemi di a minuti accumulo arrivavano a 85 da secondi CAES (esterno) Demo 1.950-2.150 60-70 No MW. L’accumulo termico a minuti per la sola produzione del Volani Demo - Maturo 1.950-2.200 85-87 >100.000 istantaneo freddo assommava a circa Batteria Piombo-acido Demo-Maturo 950-5.800 75-90 2.200->100.000 millisecondi 1 GW. Le attività di ricerca e Batteria Litio-ione Demo - Maturo 1.085-4.100 87-94 4.500->100.000 millisecondi sviluppo unite ai vari studi Batteria a flusso Sviluppo Demo 3.000-3.700 65-75 >10.000 millisecondi di sistema e di mercato (Vanadio) ipotizzano una crescente Batteria a flusso Sviluppo Demo 1.450-2.420 60-65 >10.000 millisecondi quota di dispositivi (Zinco-Bromo) adatti ad applicazioni Batteria Sodio-Zolfo Demo - Maturo 3.100-4.000 75 4.500 millisecondi di taglie medio-piccole Produzione di Gas Demo 1.370-2.740 30-45 No 10 minuti con prestazioni e (Power to Gas) caratteristiche funzionali Supercondensatori Sviluppo - Demo N.D. 90-94 No millisecondi più vicine a quelle SMES Sviluppo - Demo N.D. 95 No istantaneo possedute dai sistemi di Fonte: State Utility Forecasting Group – Deutsche Bank Report 2015 accumulo elettrochimico e dei CAES, mentre un ruolo ancora da valutare come combustibili fossili, biomasse, acqua, con riguarderà metodi e soluzioni ancora più molteplici processi che vanno dal reforming, avanzate e innovative, quali la produzione all’elettrolisi fino ai processi termochimici, e accumulo dell’idrogeno (nella prospettiva fotobiologici e ad alta temperatura. Solo alcuni di sviluppo dell’economia dell’idrogeno) e di questi processi hanno raggiunto il livello i sistemi SMES, che utilizzeranno materiali commerciale, ma la competitività economica superconduttori operanti a temperature dell’accumulo chimico in idrogeno (o altri energeticamente ed economicamente più combustibili gassosi o liquidi) per le applicazioni convenienti. alle reti elettriche e altri impianti di generazione Per le sole applicazioni in impianti solari, il di energia è ancora da dimostrare, con la mercato delle batterie è visto in crescita quasi necessità di ulteriori attività di ricerca. esponenziale arrivando nel 2020 a circa 4,5 miliardi di dollari dagli attuali 200 milioni, su Il mercato dell’accumulo un totale di mercato delle batterie ricaricabili di Lo spostamento verso l’utente finale di quote circa 78 miliardi di dollari. Infine, altre stime di maggiori di generazione di energia elettrica apre mercato (Boston Consulting Group) prevedono nuove opportunità per i sistemi di accumulo. La che il mercato dei sistemi di accumulo al 2030 tabella 3 confronta l’attuale stato di sviluppo dei possa raggiungere cumulativamente un totale, vari metodi di accumulo e alcune caratteristiche riferito alle sole reti elettriche, di 420 GW di interesse per le reti elettriche. Per esempio, (oggi sono intorno a 130 GW) con un valore alcune previsioni di sviluppo delle tecnologie e economico complessivo di 280 miliardi di euro: del mercato, come quella recente della Deutsche circa la metà di questo mercato è previsto che Bank, indicano riduzioni di sette volte del costo possa essere coperto da tecnologie di accumulo finale dei sistemi di accumulo elettrochimico nel giro di cinque anni. Su un totale di 127mila elettrochimico.  MW, presenti nelle reti elettriche di tutto il *ENEA aprile/maggio 2015


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combustibili

aprile/maggio 2015

Il pellet è sostenibile di Valter Francescato*

PERCHÉ LA MODERNA COMBUSTIONE DEL PELLET È PIÙ RISPETTOSA DELL’AMBIENTE RISPETTO A GAS NATURALE E GPL

Il pellet di legno sta diventando sempre di più una commodity energetica a scala internazionale. Si stima che nel 2025 il consumo supererà i 50 milioni di tonnellate, ovvero raddoppierà. Eppure in alcuni settori dell’opinione pubblica e talvolta delle istituzioni vi è ancora la percezione che le fonti fossili, in particolare quelle gassose (metano e GPL), siano “più rispettose dell’ambiente” se confrontate alla moderna combustione del pellet, perché emettono meno polveri all’atto della combustione. L’obiettivo di questo articolo è cercare di dimostrare - sulla base di dati veritieri, pertinenti e scientificamente verificabili - che l’uso del pellet per la produzione di calore rinnovabile in caldaie automatiche allo stato della tecnica è rispettoso dell’ambiente anche quando è impiegato in sostituzione di combustibili fossili in forma gassosa.

È sicuramente vero che all’atto della combustione un combustibile solido (pellet) emette più polveri di un combustibile gassoso (metano e GPL). Ma è importante comprendere questa differenza oltre che in termini quantitativi, soprattutto in senso qualitativo/compositivo, ovvero in termini di effettiva tossicità sulla salute umana del particolato emesso. Attualmente la preoccupazione delle autorità competenti (MATTM, ARPA), con particolare riferimento alle emissioni della combustione domestica del legno, sono riferite soprattutto alla qualità del particolato, ovvero al suo effetto di tossicità. I composti più temuti, legati alla combustione domestica tradizionale del legno, sono gli Idrocarburi Policiclici Aromatici (IPA), tra questi il più noto e temuto è il Benzo(a)pirene. Nel bacino padano, infatti, si osserva che, mentre il PM10 è in costante diminuzione, il B(a)P mostra una tendenza in aumento in alcune valli alpine/ montane/pedemontane chiuse, con scarso ricambio d’aria e fenomeni di inversione termica. La combustione del pellet in moderne caldaie automatiche, allo stato della tecnica: • è caratterizzata dal fattore di emissione (FE) di particolato (PM) più basso rispetto ai tipi di generatori e biocombustibili legnosi. Il FE varia nell’intervallo 6-15 mg/MJ ed è composto essenzialmente da sali minerali, ovvero composti inorganici; • il particolato è (quasi) privo di composti carboniosi organici (IPA). Il FE di B(a)P di una caldaia a pellet è nell’ordine di 0,03 mg/ GJ, ovvero 300 volte inferiore alle aspettative degli attuali piani di qualità dell’aria (il FE riportato nel Guidebook 2013 per le caldaie a pellet è pari a 10 mg/GJ); • recenti studi scientifici svizzeri e austrofinlandesi, attraverso test di tossicità in vitro su cellule polmonari, hanno dimostrato che l’effetto di tossicità sulla salute del PM prodotto da moderne caldaie automatiche a pellet è trascurabile in quanto la mortalità cellulare rilevata sui campioni caricati con elevate concentrazioni di PM da combustione del pellet non ha dimostrato differenze

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82 combustibili significative rispetto ai campioni testimone (privi di PM). Gli studi austro-finlandesi più recenti hanno confermato inoltre che non ci sono effetti di tossicità significativi, rispetto al PM urbano, in termini sia di infiammazione cellulare sia di genotossicità. A nostra conoscenza, non esiste alcuno studio scientifico che dimostri un significativo peggioramento della qualità dell’aria, in termini di PM10, NO2 e SO2, in prossimità del luogo di installazione di una moderna caldaia automatica a pellet. Esiste invece uno studio indipendente e autorevole condotto nel 2005 da ARPA Biella che, in seguito a un monitoraggio della qualità dell’aria (PM10, NO2, SO2) nei pressi della centrale termica alimentata a cippato del Comune di Occhieppo Superiore (quindi con un FE sicuramente superiore a quello di una caldaia a pellet, considerando anche il fatto che si tratta di uno studio di 10 anni fa), ha portato alle seguenti conclusioni: «Non sono osservabili effetti particolari dovuti all’accensione degli impianti di riscaldamento (tra il 27 settembre e il 3 ottobre), come pure non si evidenziano incrementi causati dal funzionamento della caldaia a cippato». Del resto basta fare semplici calcoli per dimostrare che 20 moderne caldaie a pellet con un FE di 15 mg/MJ che producono 1.000 MWh primari di energia termica emettono ca. 50 kg di PM all’anno, ovvero la stessa quantità emessa da 4 stufe a legna tradizionali di 12 kW che producono in un anno 1/10 dell’energia primaria (100 MWh primari). Se consideriamo un solo chilometro di strada mediamente trafficata (10.000 veicoli al

Pellet certificato Il pellet certificato ENplus, oggetto di questo articolo, è quello con lo schema di certificazione più diffuso al mondo, attivo in 27 Paesi, che certifica più di 6 milioni di tonnellate, pari al 60% del pellet impiegato a scala europea per il riscaldamento. ENplus è uno schema di processo, quindi oltre alla qualità del prodotto finale (chimico-fisico ed energetica) è l’unico che valuta tutta la filiera produttiva - dall’origine della materia prima al consumatore finale - con particolare riguardo al consumo di energia grigia e al conteggio delle emissioni climalteranti.

aprile/maggio 2015

giorno, Euro 3) questo km produce in atmosfera ca. 230 kg di PM all’anno. Le differenze in termini di impatto sulla salute si moltiplicano di molto se consideriamo che oltre il 90% del PM prodotto da una stufa tradizionale a legna è composto da sostanze carboniose organiche, le quali aumentano ulteriormente facendo riferimento alle emissioni degli autoveicoli (Diesel).

Gassoso vs solido L’affermazione secondo la quale la semplice sostituzione del combustibile fossile gassoso, sia esso “naturale” o derivato dal petrolio, con moderni e performanti caldaie automatiche a pellet o la nuova installazione dei medesimi generatori, comporterebbe un peggioramento della qualità dell’aria e quindi un aumento dell’effetto di tossicità sulla salute umana, a causa soprattutto dell’aumento delle emissioni di polveri a scala locale o regionale, non trova quindi alcun riscontro nella letteratura tecnica e scientifica. Il miglioramento della qualità dell’aria di una valle o di un ambito territoriale regionale si raggiunge attraverso piani di qualità dell’aria che considerano tutte le sorgenti inquinanti e applicano azioni di mitigazione complessiva e puntuale degli impatti. Il monitoraggio della qualità dell’aria nelle regioni del bacino padano, infatti, dimostra che il valore del particolato è sensibilmente diminuito negli ultimi decenni grazie ai piani di qualità dell’aria. Quello che aumenta talvolta localmente (specie in montagna, nelle valli chiuse con fenomeni di inversione termica) è il valore di alcuni composti policiclici aromatici - B(a)P - legati soprattutto alla combustione domestica della legna in generatori obsoleti con scarse prestazioni tecnicoambientali che, proprio grazie alla sostituzione con moderne caldaie a pellet, caratterizzate invece da un fattore di emissione di polveri inferiore di oltre il 90% e una tossicità equivalente (TEQ) dei composti policiclici oltre 1.000 volte inferiore, sono in grado di determinare un significativo miglioramento della qualità dell’aria in queste aree critiche, ed è per questo che tali interventi sono sostenuti da strutturati incentivi statali attivati in seguito al recepimento in Italia di specifiche direttive europee (2009/28/EC). Nella comparazione dell’impatto negativo


aprile/maggio 2015

FIGURA 1

0 Coal

Natural gas

0 Coal

70

Diesel oil

30

Natural gas

Heat generation

140

Electricity production

(g C carbon dioxide equivalents per MJ)

Methane and Natural Gas 60

(g C carbon dioxide equivalents per MJ)

sull’ambiente della combustione del pellet vs quella dei combustibili fossili gassosi non vengono considerati gli effetti di alterazione del clima generati da questi ultimi, nonostante questo argomento sia il principale driver delle politiche energetiche e ambientali dell’Europa e dell’Italia. Eppure il Report 2013 dell’IPCC (www. ipcc.ch), ovvero del panel intergovernativo per i cambiamenti climatici, ha espresso giudizi molto chiari ed estremamente allarmati, con effetti già in atto e che diventeranno ancora più evidenti e tangibili nei prossimi decenni. In estrema sintesi l’IPCC dice alla comunità internazionale che, in mancanza di concrete politiche energetiche su risparmio energetico e rinnovabili che taglino le emissione di gas climalteranti del 70%, non sarà possibile contenere il riscaldamento del Pianeta entro i 2 °C al 2050; inoltre, se l’attuale trend di emissione non cambia nei prossimi 86 anni, la temperatura media del Pianeta salirà fino 4,8 °C, con conseguenze catastrofiche e irreparabili per le future generazioni. Sulla base di questi consolidati scenari, a gennaio 2014 la Commissione e il Parlamento europeo hanno avviato il dibattito sulla politica climatica ed energetica post 2030. A Ottobre 2014 gli Stati membri hanno adottato la posizione europea, ovvero nuovi e ambiziosi obiettivi post 20-20-20: 40% di riduzione dei gas serra, 27% di energia rinnovabile, 27% di efficienza energetica. Su tale base è opportuno confrontare gli impatti sul clima – che creano effetti negativi diretti e indiretti anche sulla qualità dell’aria – della combustione dei combustibili fossili gassosi rispetto al pellet con un approccio che consideri l’intero ciclo di vita (LCA). In primo luogo, sulla base di nostre elaborazioni e con l’ausilio di appositi modelli, abbiamo calcolato mediamente per il pellet un’emissione di 30 kg di CO2eq/MWh utile e per il gas naturale e il GPL rispettivamente 250 e 270 kg di CO2eq/MWh utile, ovvero un risparmio netto di CO2eq di 220-250 kg/1.000 kWh utili ogni volta che si sostituiscono questi combustibili fossili con il pellet. Per un’abitazione di 150 m2, significa un risparmio annuo di 45-50 t di CO2eq, ovvero 900-1.000 t in 20 anni di vita tecnica dell’impianto di riscaldamento. Considerando che in Italia consumiamo circa 3 Mt di pellet all’anno, sostituiamo circa 1,2 Mtep producendo un risparmio – solo con il pellet – di

Comparazione tra i fattori di emissione di CO2eq di gas naturale, olio combustibile e carbone per la produzione di calore ed energia elettrica

Fonte: Robert W. Howarth R.W. 2014. A bridge to nowhere: methane emissions and the greenhouse gas footprint of natural gas. Energy Science and Engineering published by the Society of Chemical Industry and John Wiley & Sons Ltd.

oltre 2,5 milioni di tonnellate di CO2eq. Recenti studi hanno dimostrato che l’effetto climalterante del gas naturale sarebbe addirittura superiore a quello di gasolio e carbone. Considerando infatti l’intero ciclo produttivo del gas naturale - incluse le emissioni di metano, che hanno un effetto climalterante 50 volte superiore alla CO2 - e una scala temporale ventennale, molto più consona al potenziale effetto climalterante delle emissioni di metano nel ciclo produttivo (Global Warming Potential, GWP), risulta quanto riportato nella figura 1. In giallo sono indicate le emissioni dirette di CO2eq attraverso la combustione e in rosso quelle derivate dalle emissioni di metano nel ciclo produttivo. Lo studio dimostra che il gas naturale convenzionale ha un effetto climalterante (GHG, in g di CO2eq/ MJ primario) nettamente superiore a quello del gasolio e del carbone, in particolare quando il gas naturale è impiegato nella produzione di calore a livello residenziale e commerciale.

Effetti socio-economici L’Italia spende ogni anno oltre 60 miliardi di Euro per l’approvvigionamento energetico delle fonti fossili che provengono da Paesi esteri. Il 60%

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84 combustibili dell’energia termica in Italia (80 Mtep) è prodotta con il gas naturale, il 70% di questo è acquistato da tre Paesi con situazioni geopolitiche tutt’altro che stabili: Russia, Algeria e Libia. Il pellet concorre a rendere l’Italia meno dipendente dalle fonti fossili e crea significativi livelli di risparmio per le famiglie del ceto medio-basso. L’industria nazionale di produzione ha un potenziale produttivo di circa 0,7 Mt/anno con un notevole potenziale di sviluppo grazie alle risorse forestali nazionali inutilizzate. Basti pensare che la superficie forestale italiana è più che raddoppiata in mezzo secolo e preleviamo dai nostri boschi meno del 25% dell’incremento legnoso annuo, contro il 70-80% di Austria e Germania. I boschi gestiti secondo criteri di sostenibilità contribuiscono molto di più alla protezione del clima rispetto a quelli abbandonati, poiché la valorizzazione a cascata dei prodotti legnosi nei settori industriale ed energetico consente di sostituire le materie prime fossili e minerali quali l’acciaio, il cemento, il gas, il petrolio e il carbone. Questo è quanto dimostrano i risultati di uno studio condotto dal prof. Hubert Hasenauer, direttore del Dipartimento Forestale e Scienze del Suolo dell’Università di Risorse Naturali e Scienze della Vita di Vienna (Universität für Bodenkultur www.boku.ac.at). Così un ettaro di bosco gestito è in grado mediamente di generare (in 300 anni) un risparmio di 1.603 tCO2, ovvero 10 volte maggiore al risparmio conseguibile da una foresta abbandonata (146 tCO2). Inoltre, ricordiamo che l’abbandono dei territori montani e collinari, che rappresentano circa i 2/3 del Paese, sono una delle principali cause del profondo dissesto idrogeologico, vera e propria emergenza per l’Italia, con ingentissimi danni alle comunità che abitano i luoghi più soggetti a tali fenomeni. Il settore del pellet è particolarmente significativo per l’industria italiana, con oltre 42.000 unità lavorative impiegate annualmente, di cui oltre 20.000 direttamente nella produzione e distribuzione del combustibile. La sola produzione di pellet ha una ricaduta occupazionale pari a 8,3 unità lavorative per milione di euro fatturato, contro 0,5 per i derivati dalla raffinazione del petrolio. Inoltre, l’incidenza del valore aggiunto della produzione di pellet è sette volte superiore rispetto a aprile/maggio 2015

quello derivante della raffinazione del petrolio (dati ISTAT, elaborazione AIEL). È importante evidenziare che i produttori italiani di generatori alimentati a pellet, con oltre 22.000 unità lavorative impiegate, sono oggi leader a scala internazionale, esportando oltre il 35% in Europa e Nord America, contribuendo al prestigio del Made in Italy nel mondo. La combustione del pellet per la produzione di energia termica rinnovabile, in particolare in moderne caldaie automatiche, allo stato della tecnica non solo è di per sé rispettosa dell’ambiente, ma lo è ancor più in confronto a tutti i combustibili fossili, inclusi quelli gassosi. Questo assunto trova concreta applicazione anche nelle politiche incentivanti del nostro Paese, attivate da decreti di recepimento di direttive europee, di concerto tra i ministeri dello Sviluppo economico, dell’Ambiente e dell’Agricoltura e foreste. Attualmente in Italia si incentiva (incentivi diretti e bonus fiscali) la nuova installazione di caldaie a pellet e l’installazione di queste caldaie in sostituzione di caldaie alimentate a combustibili fossili, inclusi i gassosi. Il pellet in molti casi riceve gli incentivi maggiori, proprio perché consente di raggiungere le migliori prestazioni tecnicoambientali. Quindi, concretamente, se un privato, un’azienda, un ente pubblico sostituisce il proprio generatore a gas naturale o GPL con una caldaia a pellet riceve un incentivo economico per i risparmi energetici che ottiene, il risparmio di gas climalteranti che consegue e quindi per un’azione considerata dall’Europa e dall’Italia più rispettosa dell’ambiente in cui viviamo e che lasciamo alle future generazioni. Non conosciamo invece sistemi incentivanti attivi a livello nazionale o europeo che incentivino la sostituzione di una moderna caldaia a pellet con una caldaia alimentata a gas naturale o a GPL. È evidente che anche la combustione del pellet produce effetti negativi, qualsiasi attività e processo produttivo determina emissioni più o meno dannose; tuttavia, per quanto sopra riportato, la promozione del pellet al fine di farlo diventare una commodity energetica, in sostituzione dei combustibili fossili, rappresenta un percorso sostenibile per produrre energia termica rinnovabile, nel rispetto dell’ambiente e delle future generazioni.  *Direttore tecnico AIEL



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IL DANNO DELL’ELETTRONE di Massimo Scalia e Massimo Sperini

Ecco perché il Governo non deve aumentare i limiti di esposizione alle radiazioni elettromagnetiche

“Strategia per la banda ultralarga” e “Crescita digitale” evocano nuove appetibili fruizioni, un allargamento delle possibilità di comunicazione e una sua velocizzazione che sono utili e piacciono alla stragrande maggioranza dei cittadini, oltre ad alludere a un progresso tecnologico in un settore nel quale l’Italia decisamente arranca. Che cosa c’è di storto, allora? La solita “elettrofobia”, quale rimbombò con un certo successo mediatico ai tempi delle antenne di RadioVaticana nei primissimi anni 2000? Senza entrare nel merito di una valutazione delle tecnologie a radiofrequenza o microonde che verranno impiegate – WiFi, radar, ripetitori della radiofonia, della radiotelevisione e della telefonia mobile – e dell’analisi dei loro possibili effetti biologici e sanitari, vogliamo proporre alcuni argomenti di carattere generale, ma non generico, per far capire quale grave errore sarebbe se, all’interno dei provvedimenti che il Governo intende varare in materia, venisse contemplato un innalzamento dei limiti di esposizione rispetto all’attuale normativa italiana, accettando un conseguente ulteriore aumento dell’inquinamento elettromagnetico nelle aree pubbliche più sensibili: scuole, ospedali, luoghi aprile/maggio 2015

di lavoro. Da qui il nostro appoggio ai molteplici appelli che in questo senso medici, fisici, biologi, ingegneri e ricercatori, associazioni e comitati stanno già rivolgendo ai massimi esponenti istituzionali e del Governo.

Campi naturali e artificiali Un primo e fondamentale argomento richiama l’evoluzione che l’ambiente naturale ha subìto a causa dei campi elettromagnetici prodotti artificialmente dai dispositivi elettronici, la cui diffusione è proceduta in progressione geometrica a partire dal Secondo Dopoguerra. Vi avevamo fatto cenno in un precedente articolo su QualEnergia (“Il fascino discreto del BEM”, n. 2, 2014), ma è il classico caso del repetita iuvant, magari con l’appoggio di qualche immagine. Sull’arco di milioni di anni, e per quel che riguarda noi – homo sapiens – gli ultimi duecentomila, i mammiferi hanno stabilito un equilibrio con l’ambiente elettromagnetico naturale, i cui valori riportiamo in tabella11. La Terra, come si sa, è dotata di un suo campo elettrostatico e di un suo campo magnetostatico e poi di campi variabili nel tempo su un’ampia banda di frequenze, dovuti a fenomeni naturali. La caratteristica di questa attività elettromagnetica naturale è di essere in generale prodotta - per quel che riguarda la variabilità nel tempo, cioè la frequenza nella forma di spike, di impulsi distribuiti nel tempo in modo casuale e non continuo. La rappresentazione grafica in funzione del tempo di questa situazione, che è il fondo naturale elettromagnetico, corrisponderebbe a brevi tratti di curve che descrivono oscillazioni irregolari, casualmente presenti nelle diverse regioni di frequenza. Insomma, lo spettro sarebbe essenzialmente “vuoto” se non per


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FIGURA 1

Andamento campo elettromagnetico (attività temporalesca)

ambiente però incontaminato. Al momento, alcune bande; un modello possibile è quello si può far riferimento al valore efficace di rappresentato in figura 1, nella quale si vede picco del fondo naturale, che nella regione l’andamento tipico della componente magnetica delle alte frequenze ([10 MHz, 3.000 MHz]) è di un campo elettromagnetico dovuto pari a 194 μV/m (circa 0,2 mV/m) (vedi Tab. 1). all’attività temporalesca. L’intervallo di tempo nel quale il campo magnetico si mantiene Assumendolo come valor medio si sopravvaluta apprezzabilmente diverso da zero è di soli 0,2 fortemente l’entità reale del fondo naturale, ma ms circa, il valore di picco è di 50 nanoTesla. il valore medio del fondo artificiale – pari a circa Al contrario, la presenza dei campi artificiali 20 mV/m, come si può agevolmente desumere ha progressivamente invaso con continuità da Fig. 2 – risulta almeno cento volte superiore a tutto lo spettro elettromagnetico, almeno fino quello naturale, nonostante l’approssimazione ai 3 GHz (1 GHz = 1.000 MHz), giustificando il per eccesso. Se poi si guarda a misure di campo concetto di “inquinamento elettromagnetico”, o eseguite immediatamente fuori o anche dentro elettrosmog, e producendo una situazione come abitazioni e scuole, da 2 V/m a 20 V/m, in aree quella rappresentata nelle figure 2 (lo spettro esposte ad antenne a radiofrequenza, in questi si estende da 26 MHz a 3 GHz. Il primo TABELLA 1 picco a sinistra indica le trasmissioni radio in FM. Subito dopo la frequenza Fondo naturale (valore efficace) di 400 MHz iniziano le trasmissioni della TV digitale. Intorno a 900 MHz c’è INDUZIONE CAMPO la telefonia GSM e i due picchi centrati SORGENTE FREQUENZA MAGNETICA ELETTRICO a 1,9 GHz e 2,2 GHz sono le emissioni Campo elettrico atmosferico 80-150 V/m 0 Hz del sistema UMTS) e 3 (nello stesso Campo imperturbato* <0,5 V/m 0 Hz intervallo di frequenza della Fig. 2, lo Campo geomagnetico Italia ~ 40 μT 0 Hz spettro registrato al chiuso mostra gli Risonanze di Schumann 3 pT 8 Hz stessi picchi nelle stesse bande, ma qui il Attività temporalesca <0,1 nT max 0,5 V/m 5 Hz - 1 kHz fondo è circa la metà (10 mV/m). Vale in Attività temporalesca 0,05 nT 0,01 V/m 50 Hz generale per le abitazioni). Il confronto tra le due situazioni, fondo Attività temporalesca max 50 nT max 50 μV/m 1 kHz - 10 MHz naturale/fondo artificiale, richiederebbe Fondo naturale (cosmic noise) 0,5 μT 194 μV/m 10 MHz – 30 GHz un’analisi dello spettro analoga, oggi *È il “fondo naturale”, cioè il campo elettrico naturale presente negli ambienti schermati dal campo elettrico non disponibile, a quella di Fig. 2 in un atmosferico come sotto gli alberi, all’interno di una grotta o negli edifici in generale

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88 elettromagnetismo hot spots (“punti caldi”) il valore medio di campo è superiore dalle diecimila alle centomila volte a quello del fondo naturale nella stessa regione di frequenza. Queste considerazioni fanno ben comprendere, innanzi tutto, che il confronto tra campi artificiali e campi naturali va fatto con i valori che essi hanno nelle diverse bande di frequenza, assai diversi, e non con il caso statico. E come siano del tutto fuorvianti certe affermazioni pubbliche, pensiamo a quelle fatte da Umberto Veronesi nella sua duplice veste di scienziato e Ministro della Sanità ai tempi della questione di Radio Vaticana nella primavera del 2001: «..siamo dunque adatti, evolutivamente parlando, al campo elettromagnetico terrestre, come dire che le nostre cellule sono naturalmente compatibili con questo genere di radiazioni». (Corsera, 10 aprile 2001). Certo che si è stabilito un equilibrio evolutivo delle nostre cellule e del nostro organismo con i campi elettromagnetici presenti sulla Terra, ma sull’arco di duecentomila anni e con i valori naturali dei campi! È più che comprensibile allora che non solo l’uomo della strada si ponga l’interrogativo di che cosa succeda a un equilibrio perturbato da un così forte scossone: l’aumento esponenziale dei valori dei campi conseguito negli ultimi sessant’anni, cioè in un tempo assai piccolo, meno di un millesimo della durata temporale su cui si è dispiegata la storia evolutiva di homo sapiens. Questa considerazione ha poi un carattere più FIGURA 2

Spettro, misurato in ambiente ad aria non confinata, in un’area di Roma (Cinecittà Est)

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generale, perché la contrazione temporale di processi naturali indotta dalle attività dell’uomo ha in generale creato profondi squilibri. Basti pensare all’immissione di decine di migliaia di nuove specie chimiche introdotte nell’ultimo secolo in un ambiente naturale rimasto chimicamente “costante” per intere ere geologiche. O all’analogia coi cambiamenti climatici, dove l’aumento di concentrazione della CO2 negli ultimi 50 anni, dovuta eminentemente ai consumi dei combustibili fossili impiegati nelle attività umane, è stato pari a quello che in altre epoche della storia del clima ha richiesto 5.000 anni; ed è proprio questa contrazione temporale di un fattore cento che misura l’azione forzante, com’è definita in climatologia, che ha prodotto il passaggio dalla stabilità all’instabilità dei grandi cicli del clima.

Sorgenti dannose Le sorgenti dei campi artificiali, cui si riferisce il provvedimento governativo, sono pressoché tutte direzionali e questo implica che le persone esposte nell’area irraggiata potrebbero avere danni sanitari, in dipendenza dalla durata dell’esposizione. Nel caso dei radar l’impatto sembrerebbe minore perché la sorgente è usualmente in rotazione e l’emissione ha carattere pulsato. L’esposizione su una determinata area si ha quindi solo quando il fascio radiativo la incrocia; poi, il treno d’onde emesso, che ha la durata del μs, “annegato” in un tempo di ripetizione del segnale mille volte più grande. Sta di fatto però che nella situazione concreta, per esempio del radar di Potenza Picena, l’eccesso di tumori rispetto all’atteso registrato in una ben precisa area della cittadina suggerisce l’associazione tra il danno e la radiazione, che spetterebbe ora a una rigorosa indagine epidemiologica convalidare. Di certo i valori di campo elettrico che si possono stimare all’interno della testa per un campo incidente di 130 V/m – vedi il già citato articolo – registrano 17,5 V/m, ancora a 5 cm dentro il cervello: ben al di sopra dei 6 V/m fissati dalla norma come valore di attenzione, e ben fuori dalla testa! Si dirà che il radar è un dispositivo militare, assai poco diffuso nel territorio; non così gli impianti Wi-Fi o della telefonia mobile, che operano nella stessa banda di frequenza dei radar e talora


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FIGURA 3

sono pari anche per potenza irraggiata. Per questi apparati viene meno il carattere di forte intermittenza tipico dei radar, perché le antenne emettono con continuità, e non per impulsi, su un arco di ore molto ampio, aumentando così, già per questo solo fattore, il rischio di danno sanitario. Da dove questo rischio? È ormai luogo comune affermare che il corpo umano è un organismo bio-elettrico, e questo è vero anche per la cellula e i suoi componenti. La membrana cellulare è attraversata da flussi ionici, le correnti ioniche, fondamentali nel regolare i livelli di concentrazione delle varie specie ioniche all’interno del citosol. La cellula nel suo insieme, ma i microtubuli del citoscheletro – le “ossa” della cellula – e la membrana cellulare e le proteine di membrana sono animati da incessanti moti vibratori che, in conseguenza delle distorsioni nella distribuzione delle cariche elettriche elementari in essi presenti, si comportano secondo le leggi dell’elettromagnetismo classico come vere e proprie antenne; che emettono su un amplissimo spettro di frequenze, da pochi Hertz (Hz) al TeraHertz (THz = 1.000 miliardi di Hz), radiofrequenze e microonde incluse. Sono i campi elettromagnetici (CEM) endogeni e la loro rilevazione sperimentale è un fatto scientifico recente. Il rischio sanitario, associato agli effetti specifici delle onde elettromagnetiche emesse dalle antenne, è collegato alle variazioni delle correnti ioniche attraverso la membrana cellulare e ai fenomeni di risonanza nell’accoppiamento tra le frequenze del campo indotto dalle antenne e le frequenze dei CEM endogeni. I fenomeni di risonanza possono modificare in modo rilevante gli scambi energetici e metabolici dell’attività cellulare. L’alterazione dei flussi ionici attraverso la membrana a causa del campo indotto, come nello studiatissimo caso dell’efflusso degli ioni calcio dalle cellule cerebrali, incide sulla regolazione delle concentrazioni ioniche nel citosol di ogni cellula, che sono le registe del sistema di comunicazione che governa le attività basilari delle cellule e il loro coordinamento. Errori nel trattamento dell’informazione cellulare sono responsabili di cancri, diabeti e autoimmunità. Pur in assenza di parte di questi dati e del

Spettro registrato al chiuso nei locali dell’Università di Tor Vergata a Roma

completamento di queste osservazioni, l’International Agency for Research on Cancer (IARC) concluse nel 2011 che vi fossero evidenze sufficienti per classificare nel gruppo B2, cioè come possibili cancerogeni, i campi elettromagnetici alle frequenze radio, con evidenze limited tra gli utenti della telefonia mobile in rapporto all’insorgenza di gliomi e di neuromi acustici, inadequate invece per trarre conclusioni su altri tipi di cancro. Nel comunicato stampa di presentazione della monografia (vol. 102, 2013) il gruppo di lavoro dello IARC ricordava che sull’arco di dieci anni, dal 2004, era stato registrato un incremento del 40% del rischio di glioma nella categoria di utenti che usa di più il telefono cellulare (30 minuti al giorno per un periodo di 10 anni).

Sottovalutazione del rischio Il rischio sanitario attuale è fortemente sottovalutato, rispetto ai danni già in corso, per la mancanza, grave, di adeguate ed estese indagini epedemiologiche da parte delle istituzioni pubbliche preposte. Aumentare i limiti d’esposizione sarebbe un atto di irresponsabile aggravemento, ma anche un cedimento alle pressioni delle industrie del settore; vergognoso, se attuato in nome del progresso, e stoltamente dimentico del fatto che proprio la prima introduzione degli standard su radiofrequenze e microonde, negli anni Cinquanta, e il loro successivo abbassamento è stata storicamente la molla per l’affermarsi di tecnologie migliori e più sicure. Basta guardare a come erano i primi cellulari nei film di vent’anni fa.  *CIRPS, Sezione BEM

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esperienze

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Fotovoltaico d’alta quota di Sergio Ferraris

LE INSTALLAZIONI FOTOVOLTAICHE IN CONDIZIONI ESTREME SPESSO SERVONO AD ACQUISIRE METODOLOGIE UTILI ANCHE PIÙ IN GENERALE

La sperimentazione di tecnologie consolidate in condizioni estreme per apportarvi eventuali miglioramenti è una delle vie per innovare. Prova ne sono le molte invenzioni che sono state realizzate per l’esplorazione spaziale e ora divenute d’utilizzo comune. Il fotovoltaico è una di queste visto che, oltretutto, trovò un’applicazione insostituibile nei satelliti di telecomunicazione e oggi rappresenta la principale fonte d’energia della Stazione Spaziale Internazionale. Recentemente un impianto fotovoltaico è stato installato a un’altezza minore di quella orbitale, ma in un contesto comunque “problematico”. Parliamo dell’impianto fotovoltaico realizzato da EnergyGlass, utilizzando inverter solari ABB, a quota 3.452 metri di Punta Helbronner sul massiccio del Monte Bianco, per sopperire al fabbisogno energetico della nuova stazione funiviaria. In un contesto del genere sono state

due le esigenze da soddisfare. La prima è quella di un inserimento rispettoso dell’ambiente, mentre la seconda è quella di ricorrere a fonti energetiche compatibili con il contesto alpino. Sul fronte del contenimento dell’impatto ambientale e dei consumi energetici la scelta è stata quella di limitare al massimo l’utilizzo d’energia, con l’uso di materiali ad alto isolamento e di sistemi di riscaldamento a pompe di calore, mentre per l’energia residua si è scelto un sistema fotovoltaico, il tutto per avvicinarsi il più possibile a un bilancio energetico pari allo zero, cosa necessaria in un ambiente come quello alpino ad alta quota. La scelta è stata quella di ricorrere a elementi multifunzione per l’involucro edilizio, ossia di svolgere la funzione architettonica, quella d’isolamento termico e di produzione energetica. Con questa logica il consorzio Cordée Mont Blanc, realizzatore dell’opera, ha deciso di utilizzare un sistema fotovoltaico prodotto da EnergyGlass, azienda di Cantù (CO), sulla stazione di base a Pontal d’Entrèves, da 13,3 kWp, costituito da 92 pannelli di vetro stratificato triplo da 29,04 mm di spessore per una superficie complessiva di 160 metri quadri mentre un secondo impianto, 12,9 kWp composto da 84 pannelli con una superficie di 120 metri quadri, è stato realizzato a Punta Helbronne. Proprio quest’ultimo è un impianto, vista l’altezza e le temperature, estremamente critico per il quale è stato utilizzato un vetro stratificato triplo con doppia camera e uno spessore di 69,5 mm. Si tratta di impianti che sono stati interconnessi alla rete elettrica, alla quale cedono l’energia prodotta e non utilizzata, al fine d’ottenere una, parziale, compensazione economica. Nel dettaglio i pannelli fotovoltaici utilizzati da EnergyGlass sono di tre diverse tipologie, da 160, 170 e 190 Wp, al fine di sfruttare al meglio le tre diverse esposizioni della superficie fotovoltaica. Oltre al sistema di generazione fotovoltaica rappresentato dai pannelli, per l’impianto realizzato a Punta Helbronner si sono resi necessari componenti che rispondessero

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92 esperienze

al meglio alle severe condizioni ambientali presenti sul luogo. Per quanto riguarda gli inverter sono stati scelti due modelli di inverter di stringa ABB, PVI-3.6-TL-OUTD-S e PVI6000-TL-OUTD-S, appartenenti alla famiglia di inverter monofase UNO che è caratterizzata da unità completamente sigillate, in grado di resistere alle condizioni ambientali più estreme. La scelta dell’inverter PVI-3.6-TL-OUTD-S, nello specifico, è stata dettata dalla presenza di una doppia esposizione dei pannelli, poiché la serie UNO, con potenza superiore ai 3 kW, è caratterizzata da una doppia sezione di ingresso che consente di gestire, attraverso due canali indipendenti, la potenza di due stringhe separate aventi esposizioni diverse. «Questa soluzione è particolarmente utile per installazioni con orientamenti diversi come quelle sulle nuove stazioni funiviarie del Monte Bianco. - afferma Antonio Rossi, Technical Sales aprile/maggio 2015

Manager EMEA che ha seguito il progetto per ABB - Perché consente di gestire due generatori con condizioni operative diverse utilizzando un unico inverter». Oltre a ciò l’installazione ha avuto bisogno di inverter che potessero affrontare le caratteristiche fisiche particolari del luogo in questione. «Le condizioni di lavoro degli inverter e dei generatori fotovoltaici devono essere valutate con cura, - prosegue Rossi - per tenere conto di come si modificano i rating elettrici degli inverter ad altitudini superiori ai 2.000 metri per effetto della rarefazione dell’aria. È quindi necessario calibrare con cura la configurazione del generatore fotovoltaico per assicurare le massime prestazioni anche in circostanze estreme come queste». Oltre alla rarefazione dell’aria un altro problema è stato quello degli elevati valori di irraggiamento a cui il generatore fotovoltaico è esposto, per effetto di una maggiore componente diretta, l’atmosfera più rarefatta filtra meno la radiazione solare, e riflessa, poiché spesso si verifica un forte riverbero, dovuto alla presenza di una coltre di neve e ghiaccio per buona parte dell’anno. «A causa della rarefazione dell’aria dovuta all’altitudine - conclude Rossi - lo scambio termico con l’ambiente circostante è minore. Inoltre a causa di livelli di irraggiamento più elevati rispetto a installazioni convenzionali (per effetto della ridotta azione filtrante dell’atmosfera e della presenza di un significativo riverbero), uniti a ridotte temperature di lavoro delle celle, i pannelli fotovoltaici renderanno disponibile una potenza più elevata rispetto alle condizioni standard (STC)». 


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focus

IL NUOVO FOTOVOLTAICO Il fotovoltaico riparte in Italia seguendo schemi innovativi sia di finanziamento sia d’incentivazione, coinvolgendo nuovi soggetti, sperimentando l’accumulo, utilizzando i SEU. Una tecnologia che si afferma nel panorama nazionale

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Il sistema d’utenza è efficiente di Tommaso Barbetti*

Ridurre la bolletta del 15% con i SEU è possibile e concreto, mentre con lo “spalmaincentivi” il 10% rimane una chimera

Quando il settore delle fonti rinnovabili (e quello del fotovoltaico in particolare) muoveva i primi passi – sembra passata un’eternità, ma stiamo in realtà parlando di meno di 10 anni fa – la grande domanda che tipicamente veniva rivolta agli esperti di settore era più o meno la seguente: «Sarò veramente in grado di ridurre la mia bolletta?». Chi poneva la domanda era principalmente il piccolo consumatore di energia che, più che altro incuriosito dall’avvento delle nuove tecnologie, vedeva nel fotovoltaico uno strumento innovativo per ridurre la propria dipendenza dalla rete elettrica. Passano pochi anni – siamo adesso intorno al 2010-2011 – e la grande domanda che il consulente di turno si sente quotidianamente rivolgere cambia. «Quale sarà l’IRR (Internal Rate of Return, che indica il tasso di rendimento annuo) del mio impianto?», chiede il nuovo operatore fotovoltaico, attratto stavolta probabilmente più dagli incentivi del Conto Energia che non dalla transizione energetica. Non serve un semiologo per capire che il cambio di terminologia celava in realtà un cambio di prospettiva per gli operatori: se nella prima fase il focus era di natura tecnica e – per così dire - energetica, nella seconda l’attenzione era quasi esclusivamente di carattere finanziario. Tale differente approccio si è naturalmente declinato in una serie di elementi nuovi per il settore delle fonti rinnovabili: una nuova categoria di operatori che entra nel mercato (i fondi di investimento, attratti appunto dagli elevati IRR del settore), un assetto di produzione dell’energia che non sembrava conciliarsi con le caratteristiche di modularità del fotovoltaico (i grandi impianti a terra per la vendita dell’energia alla rete), una nuova modalità di sviluppo delle iniziative (dove in molti casi l’abilità nella negoziazione dei project financing con gli istituti di credito si è rivelata più importante degli elementi tecnici e progettuali). Con la fine dei Conti Energia può dirsi conclusa anche la parentesi finanziaria del fotovoltaico. Beninteso, i fondi di investimento ci sono ancora e continueranno a esserci, ma il loro ruolo sarà semmai limitato al consolidamento delle iniziative e alla crescita esterna aprile/maggio 2015


FOCUS IL NUOVO FOTOVOLTAICO

mediante acquisizioni sul mercato secondario, invece appare difficile immaginare un loro ruolo nello sviluppo di nuovi impianti, che – come più volte sottolineato su QualEnergia – poggerà quasi integralmente sui Sistemi Efficienti di Utenza (SEU). Chi saranno dunque i protagonisti della terza fase del fotovoltaico? Quale sarà la grande domanda a cui dovremo rispondere nei prossimi anni? Partiamo – come si conviene – dal secondo punto. La grande domanda del settore è di nuovo cambiata: non si parla più di IRR, ma di risparmio sulla bolletta. A differenza però della primissima fase, a porre l’interrogativo non sono più i piccoli consumatori incuriositi dall’avanguardia tecnologica, ma quella piccola e media industria che da sempre lamenta l’elevato costo dell’energia come uno degli svantaggi competitivi rispetto agli altri Paesi. Il meccanismo che sta alla base dei SEU è ormai ben noto: un consumatore, spinto dalla volontà di ridurre i propri consumi dalla rete elettrica, prende in considerazione l’idea di realizzare, nei pressi del proprio sito di consumo, un impianto di generazione di energia elettrica (per rientrare nella definizione dei SEU sarà necessario che si tratti di un impianto a fonti rinnovabili o cogenerazione ad alto rendimento, di potenza massima pari a 20 MW). Occorre subito chiarire un aspetto: da un lato è vero che potranno verificarsi casi in cui il consumatore deciderà di realizzare e gestire l’impianto in piena autonomia, lasciando dunque ben poco spazio all’attività dell’operatore fotovoltaico. Tuttavia – anche sulla base dei casi che abbiamo seguito in questi mesi – riteniamo che nella maggioranza dei casi l’impianto non verrà realizzato e gestito direttamente dal consumatore, ma verrà lasciato in mano a un operatore “energetico”, in grado di gestirne la crescente complessità tecnica e operativa. Una volta che l’impianto sarà realizzato, sarà necessario connetterlo, mediante

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96 seu una rete privata, al sito di consumo: a quel punto, tutta l’energia prodotta dall’impianto e contestualmente auto-consumata dal cliente non sarà soggetta (se non in minima parte) al pagamento degli oneri generali di sistema e degli oneri di rete, che rappresentano complessivamente oltre il 50% del valore della bolletta elettrica.

Bolletta ristretta In un simile contesto, vediamo come si potrà rispondere alla domanda: «Quanto potrò ridurre la mia bolletta?». Se in passato era possibile circoscrivere il rendimento finanziario di un impianto all’interno di un range di confidenza abbastanza ristretto – una volta nota la tariffa incentivante, le uniche variabili significative erano il costo dello sviluppo e la finanza – oggi non è più possibile rispondere in modo univoco. È infatti evidente che una PMI – pagando una bolletta elettrica assai salata – potrà in linea teorica ottenere un risparmio assai maggiore rispetto a quello che potrà ottenere un grande consumatore energivoro, che – godendo già di sconti sulle componenti tariffarie – di fatto non potrà comprimere più di tanto il costo di acquisto dell’energia. Al tempo stesso inciderà il grado di corrispondenza tra profilo di produzione dell’impianto di generazione e profilo di consumo del cliente: in caso di elevata coincidenza, la quantità di energia non soggetta al pagamento di oneri sarà maggiore, mentre si ridurrà la quantità di energia prelevata dalla rete (così come l’energia ceduta in rete dall’impianto di generazione). Facciamo un esempio: ipotizziamo una PMI che acquisti energia elettrica dalla rete a un prezzo finale intorno ai 190 €/MWh e realizzi un SEU che preveda la presenza di un impianto fotovoltaico – con un grado di coincidenza tra produzione e consumo del 75% (ossia, il 75% dell’energia prodotta dall’impianto fotovoltaico viene immediatamente consumata dal cliente). Posto che anche sull’energia scambiata nel SEU sarà dovuto il pagamento delle tasse (intorno ai 35 €/MWh), delle componenti tariffarie fisse (basate sulla potenza impegnata con la rete, intorno a 23 €/MWh) e, a partire da quest’anno, il 5% degli oneri generali di sistema (poco meno di 3 €/MWh), il consumatore SEU potrà ottenere risparmio sulla bolletta elettrica su prezzi inferiori a 129 €/MWh. D’altra parte il produttore SEU (la cui alternativa è cedere l’energia alla rete pubblica a prezzi intorno a 50 €/ MWh) saprà che – come indica la letteratura – un valore di vendita dell’energia sufficiente a ripagare tutti i fattori produttivi (incluso il capitale investito) per un impianto FV è pari a 90 €/MWh: tuttavia, tenendo conto della necessità di cedere in rete (a prezzi più bassi) una parte dell’energia prodotta – per via della parziale coincidenza tra produzione e consumo –, dovrà ipotizzare un prezzo di cessione dell’energia SEU intorno a 100 €/MWh. In tal caso dunque ci sarebbe un ampio spazio di incontro tra domanda (il cliente) e offerta (il produttore fotovoltaico), che potrebbe portare il consumatore a risparmiare intorno al 10–15% del valore della propria bolletta mediante il SEU e il produttore a remunerare la propria iniziativa almeno a un IRR unlevered dell’8%. È inoltre evidente come – partendo da costi di acquisto dell’energia più elevati e incrementando il livello di auto-consumo – la percentuale di risparmio potrà essere aumentata: includendo anche il calore nell’equazione (i.e. cogenerazione ad alto rendimento), il risparmio potrà superare anche il 20% e gli IRR arrivare in doppia cifra. Poco, forse dirà qualche consumatore: dimenticandosi tuttavia che la controversa, mastodontica e irripetibile operazione “taglia bollette” (la cui principale misura fu lo “spalma-incentivi” fotovoltaico) è riuscita a produrre un risparmio – ancora tutto da verificare – nell’ordine del 2,5-3% della bolletta elettrica. Poco, forse dirà anche qualche produttore di energia, abituato a un business model meno complesso: dimenticandosi tuttavia che – al netto di qualche residua risorsa di incentivazione – il 100% del development di nuovi impianti passa necessariamente da questa strada.  * Partner eLeMeNS

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innovazione

FOCUS IL NUOVO FOTOVOLTAICO

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È nostra. L’energia di Sara Capuzzo, Gianluca Ruggieri e Matteo Zulianello*

La democrazia energetica passa sia attraverso l’autonomia, sia dalla nascita di nuovi soggetti: dal basso

Quando la priorità del sistema energetico nazionale era soddisfare una domanda di elettricità in crescita rapidissima e le fonti disponibili erano in prevalenza quelle fossili, si è necessariamente affermato un sistema energetico centralizzato, oligopolista, dove l’utente finale rinunciava a farsi troppe domande: un ente nazionale (o una società municipalizzata) pensava a tutto. Spesso però le grandi aziende energetiche hanno interpretato questa grande responsabilità come la libertà di potersi comportare con disinvoltura, promuovendo la realizzazione di impianti con grandi impatti ambientali. O addirittura come un via libera a pratiche scorrette, a scarsa considerazione nei confronti dei lavoratori e dei cittadini o addirittura a iniziative illegali. Degenerazioni che si sono ulteriormente acuite quando il mercato è stato liberalizzato e le aziende energetiche, non più interpreti delle politiche energetiche nazionali (o locali), hanno assunto un ruolo di protagonista. Non è difficile trovare in rete riferimenti agli aspetti controversi delle centrali di Vado Ligure, La Spezia, Civitavecchia. Alla battaglia vinta a Porto Tolle. Ai progetti di Enel in Patagonia. Agli impianti nucleari di Enel in Slovacchia. O ancora ai casi di corruzione che hanno coinvolto Eni in paesi come il Kazakistan, la Nigeria, l’Algeria. Queste aziende sono state anche protagoniste di pratiche commerciali disinvolte ma diffuse, tanto che Eni, Enel, A2A, Edison e altre società sono state sanzionate in passato dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato. In questa situazione, stiamo assistendo a rapidissimi cambiamenti. Globalmente nel 2013 le rinnovabili elettriche hanno rappresentato il 58% della nuova potenza elettrica installata (in 13 anni le fonti esauribili sono passate dall’81 al 42%). In Italia la crescita è stata ancora più rapida: in 15 anni l’energia annua prodotta da fonti eoliche e fotovoltaiche è aumentata di un fattore 100. Sembra legittimo chiedersi quanto il modello energetico che ha dominato la seconda parte del Novecento sia compatibile con la transizione in atto. Il dibattito internazionale è infatti ormai concentrato su un dilemma: è possibile rinnovare le aziende esistenti (e quindi introdurre le cosiddette utilities 2.0) oppure è necessario interpretare il nuovo mercato energetico attraverso un modello di responsabilità diffusa,

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Il primo fornitore a finalità mutualistica, che fornisce elettricità rinnovabile e sostenibile ai propri soci nel mercato domestico www.enostra.it

la cosiddetta democratizzazione energetica? Chi promuove questa seconda alternativa ritiene che il modello vada cambiato non solo dal punto di vista tecnologico, ma anche e soprattutto dal punto di vista dell’organizzazione complessiva. In questa visione, l’utente finale - il cittadino - deve tornare ad avere un ruolo importante, come negli anni della prima elettrificazione tra la fine dell’800 e l’inizio del 900. Ma guardando il mercato italiano, sembra ancora esserci posto solo per i giganti, le aziende superstiti del monopolio o quelle nate dalla progressiva fusione delle grandi municipalizzate: imprese in grado di dettare l’agenda politica a Comuni, Regioni e al Governo nazionale. Se escludiamo i singoli cittadini che sono riusciti a mettersi sul tetto un impianto fotovoltaico, beneficiando degli incentivi e rendendosi quasi indipendenti dal sistema energetico nazionale, chi ancora non si è sottratto alla loro influenza ha qualche residua possibilità di manovra? Esiste uno spazio nel mezzo, che possa essere occupato da iniziative collettive ma nate dal basso, capaci di stare nel mercato ma senza sottostare alla dittatura del profitto a breve termine? Realtà che provino a tenere assieme sostenibilità economica, sociale e ambientale?

Nuove realtà È per rispondere a questa esigenza che nel 2014 è stata costituita la cooperativa di vendita “è nostra”: un’impresa, creata e gestita dalla comunità di utenti, che dalla seconda metà del 2015 fornirà elettricità rinnovabile e sostenibile ai propri soci sul mercato domestico. Tale energia sarà acquistata da impianti rinnovabili, comunitari e sostenibili, e da imprese estranee a business critici dal punto di vista sociale, etico o ambientale. La nuova Cooperativa intende favorire la produzione di energia dal basso, fondata sui valori di bene comune, di innovazione sociale e di rispetto ambientale. Il modello prevede una gestione democratica e trasparente, con la partecipazione diretta dei soci alla definizione di scelte strategiche e operative della Cooperativa. Aderendo, il socio sceglie di essere consumatore attivo,

La federazione europea ResCoop.eu

N

el dicembre 2013 è stata ufficialmente costituita la federazione europea delle cooperative di cittadini che producono e consumano energia da fonti rinnovabili. ResCoop.eu sostiene le cooperative che basano la loro azione su principi ambientali (favorire la transizione verso le rinnovabili riducendo l’impatto dei nuovi impianti), economici (supportare l’economia locale e l’occupazione, ridurre le rendite finanziarie, accorciare le filiere dell’approvvigionamento energetico) e sociali (migliorare il coinvolgimento dei prosumer, incoraggiare il commercio equo, assicurare un accesso equo al bene comune energia). Promuove quindi un modello basato sulla cooperazione, un approccio decentrato per la transizione energetica, che consenta alle persone in tutta Europa di produrre e consumare la propria energia e di investire insieme nelle fonti

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rinnovabili. Le cooperative aderenti a ResCoop devono assicurare l’affiliazione volontaria e aperta, un controllo democratico delle proprie attività in capo ai singoli soci, la partecipazione economica diretta, l’attenzione ai bisogni delle comunità, l’autonomia da centri di potere esterni e la collaborazione tra realtà simili. L’iniziativa mira a sostenere lo sviluppo di nuove cooperative, aiutandole a superare gli ostacoli finanziari e bancari. Promuove inoltre l’educazione, l’informazione e lo scambio di esperienze a livello europeo di iniziative promosse dai cittadini. ResCoop intende rappresentare i suoi membri a livello regionale, nazionale e, soprattutto, europeo per sensibilizzare gli organi legislativi sugli impatti relativi a esperienze che coinvolgono direttamente i cittadini nelle decisioni. Maggiori informazioni rescoop.eu/it


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Le cooperative energetiche europee

etico e responsabile. Le scelte della Cooperativa saranno definite sulla base di criteri quanto più possibili oggettivi e misurabili e saranno validate da un comitato scientifico indipendente. Per statuto la Cooperativa non mira a fare n Europa la cooperazione energetica è a tutti gli profitto, ma a garantire una fornitura di energia elettrica effetti un’alternativa ai fornitori tradizionali di equa e responsabile al giusto prezzo, favorendo parallelaenergia. I numeri lo dimostrano: in Germania, mente la riduzione dei consumi attraverso campagne di dove sono presenti circa 800 cooperative di produzione, Greenpeace Energy può contare su sensibilizzazione al risparmio energetico. Per partire, il una comunità di 23 mila soci e fornisce elettricità prezzo delle offerte sarà in linea con il servizio di maggior a 110 mila consumatori. Nella belga Ecopower e tutela, ma la forza dell’impresa sta nel numero di soci, non nella danese Middelgrunden i soci che consumano nei chilowattora venduti: al crescere della Cooperativa, si energia sostenibile sono rispettivamente 47 mila e abbasserà il prezzo dell’elettricità fornita. Eventuali mar40 mila. Restando nell’area mediterranea, è degna gini, al netto delle spese di gestione (di una struttura voludi nota l’esperienza di Som Energia in Spagna: in tamente leggera), saranno reinvestiti o ridistribuiti ai soci un contesto che ha scontato la crisi economica in forma di ristorno. forse più che in Italia, questa cooperativa, fondata I soci fondatori di è nostra sono Avanzi, EnergoClub, alla fine del 2010, è riuscita a raccogliere in poco Retenergie e ForGreen. Quattro realtà che, pur operando meno di 4 anni quasi 20 mila soci. Lo stesso dicasi in ambiti diversi, da sempre perseguono l’obiettivo di favoper la francese Enercoop, che permette a circa 18 rire la transizione energetica del Paese. Grazie al confronto mila soci di consumare l’unica elettricità di tutto con le migliori esperienze europee, nell’ambito del progetto il Paese che non proviene da impianti nucleari. La europeo ResCoop 20-20-20, è stato possibile definire proUE si è data l’obiettivo di raggiungere entro il 2020 filo e obiettivi del nuovo soggetto. L’interazione con coouna quota di energia rinnovabile pari al 20% del perative attive in Spagna, Francia, Germania, Danimarca e totale dei consumi elettrici. Il coinvolgimento dei Belgio (vedi box a lato) ha consentito, inoltre, di delineare cittadini nelle comunità energetiche può divenire un piano di sviluppo realistico e compatibile con la realtà uno strumento importante per il raggiungimento legislativa e regolatoria italiana. Uno dei tratti che accomuna dell’obiettivo. è nostra alle diverse esperienze europee è il legame stretto tra cooperativa di vendita e promozione di nuovi impianti da fonte rinnovabile e a basso impatto (secondo quello che a volte viene definito il criterio della addizionalità); è nostra non sarà titolare di impianti di produzione, ma ne promuoverà la realizzazione mettendo a disposizione i propri canali di comunicazione per sostenere le realtà virtuose - come per esempio Retenergie - con l’obiettivo di accelerare la fase di reclutamento di soci finanziatori per la realizzazione di nuovi impianti a basso impatto ambientale. In definitiva la Cooperativa sarà al contempo un’operazione di disinvestimento dalle multinazionali fossili, un’impresa ad azionariato popolare con logiche simili ai gruppi d’acquisto, un mediatore per l’incremento della quota rinnovabile nel mix nazionale, un’iniziativa di finanza etica. Ed è proprio con il supporto di Banca Etica, in veste di partner promotore, che è partita la campagna di sottoscrizione. Non di rado vengono evidenziate le similitudini tra Banca Etica ed è nostra: entrambe nascono dal basso, aggregando una domanda inevasa - in un caso di finanza etica, nell’altro di energia sostenibile –, rimettono il cittadino al centro dell’attenzione, rappresentano per tutti un’alternativa reale e concreta. Le prime conferme (e le adesioni) stanno arrivando proprio dal mondo dell’economia solidale, dai gruppi d’acquisto, dai comitati locali d’azione, dai movimenti contro le fossili. Del resto la Cooperativa si riconosce nei principi espressi nella Carta per la rete italiana di economia solidale del 2007 e nel Documento di base dei GAS del 1999. È significativo che questi stessi ideali permeino anche la carta dei valori della rete ResCoop.eu (vedi box a pag. 98), scritta nel 2012. Sintonie che sembrano quasi dimostrare che un modello partecipato e democratico è finalmente possibile anche nel mercato energetico italiano. 

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* è nostra - società cooperativa

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Ristrutturare il fotone di Alessandro Visalli*

Il revamping impianti fotovoltaici incentivati pone problemi, ma dovrebbe essere considerato una fonte aggiuntiva

In Italia, che per alcuni anni è stato il secondo mercato mondiale per le istallazioni fotovoltaiche, dal 2008 al 2013 sono stati realizzati oltre 500mila impianti incentivati per circa 19mila MW. Da allora il settore ha avuto un progresso più lento, ma comunque significativo, arrivando a sfiorare oggi probabilmente i 20 GW. Facendo esclusivo riferimento agli impianti incentivati, è importante considerare che solo 12mila di questi (quasi il 2%) hanno una taglia superiore a 200 kW ma cumulano una potenza installata di 11mila MW (circa il 60%). Su taglie ancora più alte (maggiori di 500 kW) il numero di impianti scende a 7.600 (1,5%), mentre la potenza a 9.300 MW (50%). Nella partizione tra 2mila e 5mila kW (quindi dei grandi impianti areali, per lo più su terreno agricolo) abbiamo poco meno di mille impianti (950) a cumulare 2.200 MW di potenza istallata. Infine esistono solo cinquanta impianti molto grandi, quelli che spesso sono finiti agli onori delle cronache con le loro enormi distese di pannelli, per una potenza cumulata di 747 MW (Fig. 1). La seconda caratteristica del parco fotovoltaico italiano da considerare è che la struttura proprietaria è molto frammentata. Più in dettaglio, e questo è molto rilevante per gli scopi di questo articolo, questa potenza è stata istallata (facendo particolare riferimento agli impianti oltre i 200 kW) soprattutto nel 2011 e in parte del 2012. Sono dunque impianti che oggi sono rispettivamente nel terzo e quarto anno di vita (Fig. 2). In questi due anni, anzi nei settantadue mesi di durata dell’intero periodo di incentivazione (cinque Conti Energia) il 53% in numero e il 47% in potenza degli impianti incentivati è entrato in esercizio solo a ridosso delle diverse scadenze (per calo degli scaglioni di tariffa o loro cessazione), quindi in cinque mesi: dicembre 2010, giugno 2011, agosto 2011, agosto 2012, dicembre 2012. Gli operatori sanno bene cosa sono queste date: fine II Conto Energia, “salva Alcoa”, registro “grandi impianti” IV Conto Energia, ecc. Queste modalità di crescita della potenza istallata hanno determinato in molte installazioni il rischio di scarsa efficienza e qualità, dovuta a fretta e imperizia, le cui cause più frequenti sono: • danni materiali; • derating inverter; • cablaggi errati; • dimensionamento inefficiente delle stringhe; • mismatching. aprile/maggio 2015


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FIGURA 1 Alcune stime di operatori attivi nel segmento del revamping e della certifiConfronto numerosità con potenza degli impianti fotovoltaici cazione attribuiscono al 40% degli imin Italia pianti verificati problematiche di varia gravità che determinano comunque una minore produzione. Sono presenti alcuni casi limite (probabilmente in numero contenuto) in cui gli impianti già dal secondo anno hanno registrato cali di efficienza anche del 20-30%. Per questo motivo sono molto attivi, anche a servizio del mercato secondario rivolto a riacquistare e concentrare la proprietà degli impianti, operatori che propongono interventi di revamping con pay-back promessi in alcuni casi inferiori a due anni. Senza entrare nel merito, è probabilmente bene segnalare qualche elemento da considerare dal punto di vista del gestore/proprietario di un impianto. Di seguito considereremo, invece, il punto di vista più rilevante del sistema ambientale e di Fonte: Atlasole interrogazione del 24 giugno 2014 generazione da rinnovabili, per il quale la ricerca della massima efficienza dovrebbe essere il riferimento principe. Da una parte la regolazione del settore è in continua evoluzione, in genere non con interventi a favore del mondo delle rinnovabili, e genera le seguenti problematiche: • l’attivazione del Decreto “spalmaincentivi” (DL 91/2014), ha portato una riduzione dal 6 al 20% del flusso di cassa relativo e da cinque a dieci punti del TIR. Questo effetto, in alcuni casi molto severo sulle strutture finanziarie e debitorie ex ante, potrebbe essere revocato dall’esito dei ricorsi che sono stati avanzati; • l’attuale presenza di limiti, definiti nei Decreti di Incentivazione e nel “Decreto Controlli”, alla modifica degli impianti incentivati, comportano il rischio di revoca degli incentivi se le modifiche interessano, con modalità non accettate dal GSE, l’impianto come autorizzato e incentivato (potenza, dimensione, assetto fondamentale). In questa direzione è imminente l’emanazione di un DRT di cui parleremo di seguito. D’altra parte sono in previsione alcune nuove regolazioni che possono comportare opportunità: la possibilità per gli impianti da rinnovabili di offrire “servizi di rete” remunerati a seguito delle decisioni attese in tal senso dall’Autorità per l’energia elettrica il gas e il sistema idrico e la possibilità in alcuni casi di attivare dei Sistemi efficienti d’utenza – SEU, anche in prospettiva di un possibile allargamento dello strumento.

Revamping con limiti Il DRT di prossima emanazione da parte del GSE sottopone ogni modifica al progetto (layout, potenza, dispositivi di ottimizzazione, inclinazioni e supporti, riefficientamenti in generale) originariamente presentato agli incentivi a una qualifica preventiva (di durata non superiore a novanta giorni), pena la revoca degli incentivi concessi. Dovrebbero fare eccezione solo le sostituzioni “come erano e dove erano” per ragioni tecniche (per esempio rottura e furto), comunque comunicate. Il punto più sensibile del DRT è il tet-

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102 fotovoltaico FIGURA 1

to alla produzione incentivabile che viene imposto all’atto del revamping. Infatti il GSE, con qualche incoerenza rispetto all’obiettivo che dovrebbe essere prevalente di massimizzare l’efficienza, prevede di non incentivare l’energia prodotta in eccesso rispetto alla produzione antecedente l’intervento. Il soggetto responsabile potrà quindi disporne liberamente, ma non sarà incentivata oltre il tetto. Detto limite, nel Documento di Consultazione era fissato alla media della produzione dei tre anni precedenti incrementata del 5%. Allargando la visione si può guardare positivamente alla volontà di precisare, con regole non equivoche e stabili, le procedure e condizioni di manutenzione straordinaria, revamping, potenziamento e ottimizzazione degli impianti fotovoltaici, in conFonte: Atlasole interrogazione del 24 giugno 2014 siderazione come detto del grande numero di istallazioni, della varietà delle casistiche e, non ultimo, del grande numero di operatori che si stanno orientando su tale mercato secondario. Il principale valore da salvaguardare, in un’ottica di mercato, è infatti la chiarezza e operatività delle regole, qualunque esse siano, perché regole chiare consentono agli operatori di prendere in modo consapevole e razionale le proprie libere decisioni. Tuttavia l’obiettivo prevalente da un punto di vista ambientale dovrebbe sempre essere l’efficienza di sistema, intesa come massima capacità di produrre energia rinnovabile a parità di impegno di suolo e di impianti. Un impegno di suolo rilevante. Infatti, i circa 10mila MW istallati (7mila impianti) nella taglia oltre 500 kW, per l’80% e più presenti su suolo agricolo, occupano quasi 15-16mila ettari (e alcune migliaia di capannoni industriali e commerciali). Pur essendo tale misura complessivamente non elevatissima (la Superficie agricola utilizzabile - SAU in Italia è pari a oltre 12.000.000 di ettari) è assolutamente necessario che produca il massimo rendimento energetico possibile. In altre parole, anche il revamping degli impianti fotovoltaici esistenti può essere considerato una potenziale fonte energetica disponibile, da sfruttare in via prioritaria; può contribuire all’indipendenza energetica del Paese e al contrasto ai cambiamenti climatici. Attraverso questo processo virtuoso possono essere nel tempo superati anche i guasti derivanti dall’eccessiva velocità con la quale il settore è cresciuto negli anni scorsi, e le difficoltà a garantirne una gestione corretta ed efficace. Il parco fotovoltaico esistente è infatti per sua consistente parte fortemente inefficiente, sia per struttura proprietaria sia per caratteristiche proprie; il processo di revamping potrebbe contribuire, se incoraggiato e non ostacolato dalle autorità competenti in base a considerazioni di corto orizzonte, alla sua relativa aggregazione, e quindi alla concentrazione/ottimizzazione della gestione e del monitoraggio, alla gestione con criteri industriali e alla programmazione delle manutenzioni con recupero di produzione, e non ultimo alla possibilità di attivare nuovi schemi commerciali per vendita aggregata dell’energia. 

Confronto numero con potenza degli impianti fotovoltaici in Italia >200 kW

*Coordinatore Operativo FREE e Consigliere ATER

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finanza

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Il Sole che rende bene di Stefano Gazziano*

Arriva la microfinanza innovativa per il solare: impatti macroscopici, crescita e buona rendita

Investire nel fotovoltaico conviene. Non solo ai fondi esteri, che ora accumulano i proventi del Conto energia, ma anche ai piccoli risparmiatori che possono ricavare un interessante ritorno percentuale anche da minimi investimenti, finanziando progetti solari. In inglese si chiama “crowdfunding”, Wikipedia lo traduce con “micro finanziamento diffuso”. In altri tempi in Italia lo si è spesso chiamato “Azionariato Popolare” e in genere è stato relegato ai margini dell’economia significativa. Grazie alla possibilità di raccogliere e valutare le informazioni e di investire direttamente su piattaforme web, negli ultimi anni diventa invece un significativo fattore di innovazione, normalmente utilizzato per sostenere nuova imprenditoria (le “start-up”, visto che per capirsi va bene l’inglese), da qualche anno ha effetti importanti nella diffusione delle fonti rinnovabili, soprattutto nel fotovoltaico . Perlomeno è quanto accade in America dal 15 Aprile 2011 (partenza reale operativa a Luglio 2013) grazie a una start-up californiana che, attraverso una piattaforma online, raccoglie piccoli investimenti con i quali finanzia un paniere di progetti solari, essenzialmente fotovoltaico di media taglia per edifici commerciali o comunità. L’investimento medio è a oggi di circa 1.000 dollari, letteralmente il piccolo risparmio delle famiglie, quindi, e il tasso d’interesse applicato minimo è del 4,5%: un buon guadagno dopotutto, visti i tempi. L’azienda dietro questo fenomeno si chiama Mosaic, non ha nulla a che fare con il primo browser della Università dell’Illinois, è nata ovviamente in California e funziona come una banca virtuale di energia rinnovabile, raccogliendo investimenti ed erogando prestiti per progetti solari che vengono ripagati tipicamente in dieci anni. Mosaic si finanzia tramite un contributo su ciascun prestito. Il modello non è molto diverso da altre piattaforme di crowdfunding, una delle più note delle quali è Kickstarter, appunto dedicata a creare incontri tra imprenditoria creativa e finanziatori di venture capital.

Investimento certo La piattaforma di gestione degli investimenti è il primo portale, di cui si sappia, che funziona da marketplace per investimenti solari. Il meccanismo di Mosaic è collegare “high quality borrowers” con “qualified investors”: una selezione preliminare qualifica sia l’affidabilità dei beneficiari del finanziamento sia gli investitori. Il beneficiario utilizza il prestito per solarizzare l’edificio, ricavandone risparmi sulla bolletta elettrica che vanno a coprire il prestito con interessi. L’investimento del singolo risparmiatore viene diversificato su un paniere di progetti di solarizzazione in modo da distribuire il rischio. Inizialmente dedicata soprattutto a impianti di media taglia su edifici commerciali o comunità, sta ora aprendo anche a più piccoli interventi, e coinvolge ormai migliaia di piccoli investitori che guadagnano dal finanziare le fonti rinnovabili. Tutto viene sia stipulato che monitorato via web. Il sito joinmosaic.com è il portale di ingresso. L’ “hashtag” Twitter #putsolaronit permette di seguire le ultime novità. A Marzo 2015, tramite Mosaic sono stati investiti più di

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Joinmosaic.com è la piattaforma web nettamente diversificata in due portali: per investitori e per richiedenti il finanziamento

10,5 milioni di dollari che hanno prodotto più di 31 TWh, con un default pari a zero, cioè nessun beneficiario è scappato coi soldi, 100% di puntualità nei pagamenti agli investitori con un tasso di interesse tra il 4,5 e il 7% annuo. Dati dal sito www.joinmosaic.com. Il sistema sembra ormai ben avviato e comincia a riscuotere attenzione anche da parte dei grandi player della finanza. The New York Times, Forbes, Fortune, The Wall Street Journal, Time Magazine e Bloomberg, per citare i principali media, hanno dato spazio alla piattaforma. Mosaic è stata inclusa tra le dieci imprese più innovative per due anni consecutivi secondo la classifica “Fast Company”, il Dipartimento per l’Energia del Governo USA l’ha inserita tra i vincitori del “SunShot Initiative Grant”, uno schema di incentivazione per ridurre i costi del FV del 75% al 2020. Il Sierra Club e Verizon Wireless l’hanno premiata. Più concreto probabilmente il finanziamento di cinque milioni di dollari erogato direttamente alla Mosaic dal CEFIA, la Clean Energy Finance and Investment Authority, Banca etica dello Stato del Connecticut. L’ “investimento di impatto sociale”, come sta diventando comune chiamarlo, si differenzia dalle iniziative sociali di “azionariato popolare” (peraltro antica tradizione italiana) - come “adotta 1 kW” in Piemonte a Racconigi, gli asili di Treviso, qualche piattaforma web e molte altre - proprio in questo: oltre a rivestire un valore sociale o ambientale, opera come un normale investimento di capitale ed effettivamente genera profitti. L’interesse è alto e le prospettive appaiono decisamente promettenti. Il mercato della Finanza Sociale (non solo energia) in Italia potrebbe raggiungere entro il 2020 i 250 miliardi di Euro secondo il rapporto italiano della Social Impact Investment Task Force istituita in ambito G8 (http://www.socialimpactinvestment.org/reports). Un successivo recentissimo (Marzo 2015) rapporto “Introduzione alla Finanza Sociale”, curato da Fondazione Sodalitas (http:// www.sodalitas.it), si presenta come prima guida italiana agli strumenti di Finanza Sociale ed elenca un esaustivo quadro delle opportunità disponibili. Novità interessante dedicata alla produzione energetica sarà dalla metà del 2015 l’entrata in funzione della cooperativa “è nostra” (www.enostra.it «prima comunità in Italia che fornisce elettricità sostenibile»), nata per la vendita ai soci di elettricità da sola fonte rinnovabile: tra le attività è previsto il sostegno agli impianti da rinnovabili anche tramite reclutamento di soci finanziatori. Non è poco, attualmente i risparmiatori sono disposti a perdere soldi investendo, pur di conservare sicuramente il capitale. La Germania ha appena (Febbraio 2015) piazzato i bond di Stato a tassi di interesse negativi (cioè, per chiarire, uno compera i buoni del Tesoro tedeschi a 100 e dopo 5 anni gli restituiscono di meno, mettiamo 95). E non è il solo caso: gli investimenti a interessi negativi in Europa hanno raggiunto, secondo JP Morgan, 2.000 miliardi di dollari (Financial Times, 25 Febbraio 2015), Danimarca, Finlandia, Austria e Olanda hanno tutti offerte di buoni di Stato a perdere, così come i bond di Nestlé e Shell. In queste condizioni, investire in solare ed efficienza energetica non solo realizza valore aggiunto ambientale e riduzione delle emissioni climalteranti, ma permette anche un rendimento finanziario certo.  *ENEA e John Cabot University

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Scambio a ostacoli di Annalisa Corrado*

Lo Scambio sul posto altrove è uno strumento nato “zoppo” che varrebbe la pena ripensare

È ormai prassi diffusa e comune, davanti a una situazione “bloccata” o “stagnante”, quella di richiedere a gran voce la definizione di nuovi strumenti, di nuovi regolamenti o, addirittura, di nuove leggi. Nel campo delle energie rinnovabili e dell’efficienza energetica, però, spesso accade che le buone idee ci siano state, ma che poi, per qualche motivo, siano rimaste bloccate, o che siano state completamente snaturate strada facendo, perdendo efficacia. È il triste caso degli scarsissimi risultati dello “scambio sul posto altrove”, inizialmente accolto con estremo interesse dagli operatori e dai potenziali beneficiari, ma poi rimasto nella collezione dei promettenti incompiuti. Come noto, il tradizionale regime di connessione dello scambio sul posto permette di realizzare una particolare forma di autoconsumo in sito, consentendo che l’energia elettrica prodotta da un impianto alimentato da fonti rinnovabili (di dimensioni inferiori a una data soglia) e immessa in rete possa essere prelevata e consumata, sullo stesso punto di connessione, in un momento diverso da quello della produzione. La rete elettrica nazionale diviene, quindi, uno strumento di capienza “infinita” per l’immagazzinamento virtuale dell’energia elettrica prodotta, ma non contestualmente auto-consumata. Al netto di eventuali prelievi forfettari per gli oneri generali di sistema sulla quota parte di energia auto-consumata, uno dei potenti vantaggi del sistema dello scambio sul posto resta legato al rimborso degli oneri anche sulla quota parte di energia elettrica prelevata dalla rete (fino a concorrenza del valore dell’energia elettrica immessa). Il valore dell’energia prelevata e quello dell’energia immessa, in questo modo, restano di un’entità simile e un impianto ben progettato attorno ai consumi reali dell’utenza ha certamente un quadro economico di riferimento interessante, potendo abbattere drasticamente la bolletta elettrica dell’utenza a cui è abbinato. Il rimborso degli oneri è senza dubbio uno snodo cruciale dello scambio sul posto, poiché tali oneri hanno un notevole peso sul costo complessivo dell’energia elettrica (anche 6 €cent/kWh su circa 18 €cent/kWh complessivi) ed è fondamentale perché il fotovoltaico sia un investimento sostenibile, in assenza di altri strumenti incentivanti.

Ostacoli normativi E qui arrivano le cattive notizie per il succitato “scambio sul posto altrove”, che avrebbe dovuto dotare alcuni soggetti di uno strumento più potente per diffondere buone pratiche sui territori; introdotto con l’art. 27 comma 4 della legge 99/2009, lo Scambio Sul Posto Altrove prevede, di fatto, che i Comuni con popolazione fino a 20.000 residenti e il Ministero della Difesa possano usufruire del servizio a copertura dei consumi di proprie utenze, senza tener conto dell’obbligo di coincidenza tra il punto di immissione e il punto di prelievo dell’energia scambiata con la rete. Lo Scambio sul Posto Altrove permetterebbe cioè ai suddetti Enti di realizzare uno o più impianti di dimensioni mag-

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106 barriere giori e consumare l’energia nei tanti edifici di cui sono proprietari come se si disponesse di tanti piccoli impianti “diffusi”. Questa opportunità consentirebbe di ridurre i costi di investimento (effetto scala) e di risolvere una serie di problemi tecnici legati alla dislocazione degli impianti a ridosso delle utenze, per esempio nei casi in cui gli immobili non siano adatti all’installazione di un impianto FV perché privi di spazi adatti/sufficienti o perché in zone vincolate, consentendo cioè di disaccoppiare completamente le esigenze dell’impianto da quelle dell’utenza. Tale duplice beneficio è stato di fatto annullato dall’ultima frase del citato comma istitutivo, che indica come l’energia possa, sì, essere scambiata «...senza tener conto dell’obbligo di coincidenza tra il punto di immissione e il punto di prelievo dell’energia scambiata con la rete», ma, purtroppo, aggiunge anche «…e fermo restando il pagamento degli oneri di rete». In questo modo per lo Scambio sul Posto Altrove decade il rimborso degli oneri di rete per tutta la quota di energia scambiata così come avviene per il regime ordinario di scambio sul posto, restando possibile solo per la quota di energia scambiata sul medesimo punto di immissione. Considerando l’estrema frammentazione delle utenze comunali (e non si pensi solo, tipicamente, alla presenza di distinti punti di prelievo edificio per edificio, ma anche alla frequente parcellizzazione delle utenze di illuminazione pubblica, tra le voci più energivore di ogni Amministrazione), la quota parte di energia immessa in rete ed esente dagli oneri non potrà che diventare trascurabile rispetto al totale, abbattendo la valorizzazione media del kWh immesso in rete a un valore troppo lontano dai 18 €cent/kWh che caratterizzano la contropartita del costo dell’energia prelevata. Malgrado le recalcitranti posizioni dell’Autorità per l’energia elettrica e il gas in merito, nate da meri bilanci economici immediati e del tutto privi di proiezione strategica, in una fase di totale assenza di forme incentivanti stabili per la realizzazione di impianti fotovoltaici di dimensioni significative per gli Enti Locali, rendere efficace questo meccanismo sarebbe un’operazione importante, anche nell’ottica di attrarre investimenti esterni e di poter ricorrere, anche senza Conto energia, a schemi in cui siano ammissibili e attraenti anche i finanziamenti di privati (per quei Comuni, la stragrande maggioranza, non in grado di mettere a bilancio investimenti simili di tasca propria). Con il recente innalzamento della taglia degli impianti per cui è ammesso lo scambio sul posto, da 200 a 500 kW, tra l’altro, le economie di scala conseguibili potrebbero rendere i costi degli impianti più competitivi, tanto, per esempio, da tentare di farne una leva per rimettere in moto il settore delle bonifiche delle coperture in fibro-cemento amianto, dopo la sconcertante e scellerata abolizione totale dei contributi in Conto energia. E se le Amministrazioni non dovessero essere in grado di affrontare l’investimento? E se anche il mondo degli “investitori puri” dovesse restare inizialmente scettico davanti a una struttura di investimento non chiara e immediata come quelle degli anni precedenti? Credo si possa affermare con una certa sicurezza che la parte del pioniere potrebbe essere rivestita con profitto dai soggetti che hanno animato le nobili e fruttuose esperienze di partenariato diffuso (già ampiamente esistenti e collaudate, dalla nordica Castelleone alla meridionalissima Melpignano). In particolare ridando strumenti in mano alle comunità afflitte dalla piaga dell’amianto, la molteplicità dei valori aggiunti ambientali che potrebbero arricchire un territorio attorno allo strumento dello “scambio sul posto altrove” non potrebbe che essere premiata da cittadini che vedrebbero in questo tipo di azione un investimento non solo economico (e quindi redditizio), ma anche “prospettico”, in termini di salute, di benessere sociale, di educazione alla partecipazione, di responsabilità.  *Responsabile tecnico AzzeroCO2 aprile/maggio 2015


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Cambiare strategia garantire know how territoriale».

di Sergio Ferraris

Pensate che quello italiano sia un buon mercato?

IL MERCATO ELETTRICO STA CAMBIANDO E PER IL FOTOVOLTAICO SARÀ MOLTO IMPORTANTE IL RUOLO DELL’AUTORITÀ PER L’ENERGIA

Il mercato del fotovoltaico si sta trasformando in maniera profonda e le aziende si stanno adeguento. Abbiamo parlato di ciò con Mark Babcock, vicepresidente di SunEdison Residential and Small Commercial Europe che ci ha raccontato come si sta comportando l’azienda. SunEdison sta cambiando. Come?

«Abbiamo creato un’azienda controllata, Terraform, per l’acquisto degli asset produttivi, gli impianti da FER, così vogliamo passare dallo sviluppare e vendere impianti, a offrire servizi energetici, cosa che assicurerà un flusso di cassa stabile e garantito. Nell’ultimo anno abbiamo sviluppato 1 GW di fotovoltaico, Terraform ne possiede 1,5 GW e 2,5 GW sono in manutenzione. In gestione in Italia ne abbiamo 400 MWp». Come giudica il mercato italiano?

«Il mercato italiano sta cambiando con la fine degli incentivi e ciò implica che è diventato più stabile sul lungo periodo. Cambia la logica. Oggi non si parla più del fotovoltaico come investimento, ma come risparmio energetico. Quindi è una dinamica di mercato legata all’erogazione d’energia elettrica a un cliente finale, domestico o industriale». Questo cambiamento come lo avete vissuto?

«Il primo nostro step, a livello globale, è stata la vendita degli impianti con i nostri moduli. Successivamente ci siamo orientati verso la fornitura di servizi, come quella dell’elettricità da fotovoltaico. La cosa non è semplice, il processo dura ancora. Stiamo imparando da altri mercati come gli Stati Uniti, l’Australia, la Gran Bretagna e adattiamo ciò che apprendiamo al mercato italiano che, essendo più frammentato, implica una logica d’accesso al cliente attraverso una rete di partner, capace di

«Penso che il mercato elettrico italiano abbia buone potenzialità, ma con il giusto approccio. Servono regole chiare e stabilità. I SEU e lo Scambio sul posto vanno nella giusta direzione per raggiungere la Grid parity con il fotovoltaico. Si aprono nuove prospettive per chi vuole vendere energia fotovoltaica. Il mercato sarà sempre più complesso e competitivo per chi si occupa solo della vendita degli impianti e della loro installazione». Pensa che i Sistemi Efficienti d’Utenza in Italia possano essere efficaci?

«Penso che siano sistemi in grado di funzionare se c’è una grande stabilità e prevedibilità dei costi, senza i quali non è possibile farli funzionare. Senza stabilità e prevedibilità gli investitori non operano e i sistemi non funzionano». Cosa pensa dello “Spalmaincentivi”?

«Nessuna modifica retroattiva piace, sia agli sviluppatori, sia agli investitori. Si è trattato di un provvedimento negativo». Pensa che in Italia, per il fotovoltaico, siamo in presenza della Grid parity?

«La Grid parity è direttamente influenzata dall’autorità di regolazione. Ogni provvedimento, come lo Scambio sul posto, i SEU e così via, ha impatto sulla Grid parity. Noi crediamo che il modello dei SEU vada verso la Grid parity, come nel caso del mercato residenziale se si considerano le detrazioni fiscali. Certo se si levano incentivi e si aggiungono tasse la questione si riapre. Anche in questo caso sono molto importanti stabilità e prevedibilità. L’Italia è in mezzo a un guado, da un lato ha ottime qualità per sviluppare un mercato eccellente sul lungo periodo, come il buon irraggiamento e un alto prezzo dell’energia, dall’altro una normativa incerta». Quindi pensa che tutto sia in mano all’autorità di regolazione?

«Sì, il regolatore fa la differenza. Se parlassimo solo del costo di generazione del kWh il suo ruolo non sarebbe così importante, ma se a ciò aggiungiamo i costi addizionali le cose cambiano. Radicalmente». 

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aprile/maggio 2015

Semplificare il fotone Per esempio?

di Sergio Ferraris

I MERCATI ESTERI SONO EFFERVESCENTI, MENTRE QUELLO ITALIANO TIENE ANCHE SENZA INCENTIVI, MA È NECESSARIA UNA NORMATIVA CERTA

Valerio Natalizia, amministratore delegato di SMA Italia, ha recentemente assunto anche la carica di Regional manager per il Sud Europa per l’azienda. Gli abbiamo chiesto il suo punto di vista sul fotovoltaico da questo nuovo ruolo. Il mercato italiano è dominato dal pessimismo. È così anche fuori?

«No, devo dire che durante questa mia prima uscita in questo nuovo ruolo ho ritrovato una certa dose di positività. Per esempio a Istanbul ho avuto l’opportunità di parlare con diversi operatori turchi e ho notato un approccio positivo, nel quale si ha la netta impressione di nuove opportunità di business, nonostante la Turchia faccia a oggi numeri molto più bassi rispetto al mercato fotovoltaico italiano odierno. E non è un caso isolato. All’estero sulle rinnovabili c’è molto più interesse e anche un buon grado d’effervescenza commerciale. Il fotovoltaico, ormai, è una fonte affidabile e sicura anche sotto al profilo degli investimenti, visto che ci sono impianti in funzione da oltre vent’anni. A livello mondiale i grandi investitori ci credono, c’è un mercato in crescita e la domanda si sta spostando dall’Europa ad altri Paesi». Come considera il mercato italiano?

«Lo scorso anno sono stati installati 385 MWp di fotovoltaico, la maggior parte senza gli incentivi in conto energia. Questo significa che crescere, anche se in maniera più lenta, è sempre possibile». Quali sono i problemi quindi?

«Parlo dal punto di vista aziendale. Noi abbiamo puntato sia sui Sistemi Efficienti d’Utenza, sia sul revamping degli impianti fotovoltaici esistenti, ma ci siamo scontrati con l’incertezza dovuta a certi cambiamenti normativi».

«Parlo dello spalma incentivi ma anche del possibile cambio d’attribuzione degli oneri di sistema dalla parte variabile a quella fissa della bolletta che potrebbe, se non effettuato con la giusta attenzione, ledere fortemente il modello basato sull’autoconsumo. E specifico che non sono contrario alla rivisitazione del mercato elettrico, ma che ritengo sia necessaria una grande attenzione verso le rinnovabili, per le quali sembra che non si facciano politiche adeguate rispetto agli obiettivi che ci si pone. L’Italia poi ha il vantaggio di essere un mercato dove si continua a installare anche senza incentivi diretti, cosa che non è successa altrove». Quindi cosa ci manca?

«Il fotovoltaico non ha bisogno d’incentivi ma di una comunicazione positiva e di una normativa che deve essere chiara e stabile. E ciò vale sia per il mercato domestico, sia per quello industriale. Al mercato italiano non servono condizioni aggiuntive, ciò che manca è una visione di medio-lungo periodo abbinata alla certezza delle regole. Se grandi aziende come Enel dichiarano di vedere nelle rinnovabili un orizzonte possibile, significa che uno sviluppo positivo delle rinnovabili è possibile. Sullo storage, analogamente, abbiamo tutte le normative pronte, ma serve un’accelerazione per rendere pronta la rete». Qual è la vostra politica aziendale in questo quadro?

«Per quanto riguarda SMA, l’Italia è e continuerà a rimanere centrale, anzi vediamo nell’Italia una sorta di palestra nella quale è possibile sperimentare dinamiche e prodotti nello scenario disegnato dalla fine degli incentivi. Abbiamo introdotto di recente un nuovo inverter da soli 9 kg per 1-3kW di potenza che possiede un’interfaccia web integrata che consente al tecnico o all’utente d’accedere alla macchina attraverso la rete Wi-Fi. E ciò in una prospettiva d’integrazione con i sistemi della Smart Home. Puntiamo ad avvicinare l’impianto fotovoltaico alla logica della commodity, il tutto con una grande semplificazione a partire dal settore residenziale». 

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ecoteca

a cura di Sergio Ferraris

Federico M. Butera Dalla caverna alla casa ecologica Storia del comfort e dell’energia Pagine 264 Isbn: 9788866271239 Prezzo: 22,40 euro Edizioni Ambiente

aprile/maggio 2015

Abitare l'innovazione L’innovazione ha migliorato la qualità dell’abitare. Sembra scontato, ma non è sempre stato così e anche solo 150 anni fa le abitazioni avevano caratteristiche molto diverse da quelle di oggi. Si pensi che oggetti scontati come le finestre vetrate erano retaggio di, pochi, ricchi e potenti. È una sorta di macchina del tempo degli edifici a scopo abitativo il volume, giunto alla seconda edizione, “Dalla caverna alla casa ecologica. Storia del comfort e dell’energia”, realizzato da Federico M. Butera per Edizioni Ambiente. Il periodo temporale preso in esame dall’autore è vasto e va dal Paleolitico ai nostri giorni incrociando, cosa rara, le condizioni e gli stili di vita con le tecnologie e l’economia dell’abitare, tracciando una narrazione spesso avvincente, per chiunque si occupi di ecologia e tecnologie. Il dato fondamentale che emerge dalle 264 pagine è che c’è sempre stata una relazione strettissima tra invenzioni, e quindi innovazione, e la cultura dell’abitare. Basti pensare al vetro. La correlazione tra le tecnologie produttive del vetro, con l’aumento della qualità del prodotto finale, e il suo utilizzo, fatto a cui si deve l’invenzione di un oggetto “semplice e scontato” come l’infisso - che in passato non esisteva e successivamente è stato retaggio delle classi più abbienti - è descritto con attenzione e dettaglio da Butera sgombrando così il campo da una serie di luoghi comuni che abbiamo rispetto alle nostre case. Come quello che abitazioni con qualche decennio sulle spalle siano molto arretrate. L’autore in realtà ci aiuta anche nel comprendere il fatto che alcune cose criticabili che abbiamo anche oggi nelle nostre abitazioni non sono frutto di invecchiamento temporale, ma di una logica che ha ormai dimostrato d’essere non adeguata

alle nuove condizioni imposte dalla scarsità delle risorse e dai cambiamenti climatici. L’analisi dell’utilizzo dell’energia nelle abitazioni sotto a questo profilo è illuminante. Dalla fine dell’Ottocento, infatti, grazie all’elettricità sono arrivate nelle case molte innovazioni a partire dall’illuminazione che passando dal gas se non dall’olio di balena o dalla candela - alla lampadina inventata da Edison ha aumentato la vivibilità e la sicurezza, si pensi agli incendi, delle abitazioni. Oggi il comfort, legato anche allo spreco, delle nostre case si basa su due assunti, secondo Butera, superati: che l’energia a basso prezzo sia illimitata e che l’impiego delle fonti fossili non faccia danni. Si tratta di due questioni che stanno mostrando “la corda” sia sotto al profilo ambientale, sia dal punto di vista sociale ed economico e alle quali Butera propone una serie di soluzioni rese possibili, sia dall’aumento di prezzo dell’energia, sia dalle nuove tecnologie, oggi disponibili. Ma nel volume trovano posto anche una serie di curiosità che lo rendono estremamente gradevole come quella legata all’aumento dei consumi energetici dovuti alla presenza della pubblicità nei programmi televisivi. Butera infatti ha calcolato che la presenza delle inserzioni pubblicitarie allunga il tempo d’accensione delle televisioni del 16%, che tradotto in termini di consumi energetici corrisponde a un maggiore consumo in Italia di quasi 1.200 GWh ossia una centrale da 150 MWe accesa tutto l’anno 24 ore su 24. Insomma dalla descrizione tracciata nel volume si evince che, per quanto riguarda le abitazioni, l’epoca nella quale viviamo è sì di transizione, ma si inserisce in un percorso d’innovazione già esistente nei decenni passati anche se, ed è questa la novità, per la prima volta l’ambiente e la fine delle risorse diventano due fattori fondamentali. 

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114 Comunicare l’energia

Cattivo clima sulla Tv di Sergio Ferraris

La critica televisiva vorrebbe il naufragio di Scala Mercalli, ma il vero obiettivo è, forse, l’informazione ambientale

aprile/maggio 2015

L’ambiente sbarca in prima serata e c’è chi vorrebbe fosse il Titanic: destinato al naufragio. Che le tematiche ambientali nel 2015 fossero un discreto tabù è un fatto assodato, figuriamoci poi quelle che escono dallo schema “ambiente uguale animali e paesaggi”. E mai e poi mai se hanno, addirittura, l’ambizione di andare in prima serata, su una rete nazionale e magari con argomenti “scomodi” quali i cambiamenti climatici. E infatti, una parte della critica televisiva - nello specifico Aldo Grasso sul Corriere della Sera del 16 marzo e altri - non ha preso bene l’approdo il sabato sera su Rai Tre di Scala Mercalli, che ha finalmente sdoganato l’informazione ambientale da quella sorta di “riserva indiana” televisiva, fatta di fasce orarie e audience storiche. Si tratta di reazioni prevedibili che però fanno pensare. Già, perchè la trasmissione di Luca Mercalli ha l’indubbio pregio di parlare di cose che accadono, positive o negative che siano. Certo è difficile trovare qualcosa di positivo nei cambiamenti climatici, quando le ricercatrici di Stanford ricalcolano i danni sociali della CO2 da 73 a 220 dollari a tonnellata, affermando che i danni si misureranno sul lungo periodo; oppure quando capita che gli scienziati “allarmisti” in fatto di cambiamenti climatici, nell’ultimo rapporto delle Nazioni Unite sul Clima, siano il 99,8658%: ossia, solo uno scienziato su 745 è in disaccordo sul tono “catastrofico” dell’ultimo rapporto dell’Ipcc. Eppure il conduttore della trasmissione ce l’ha messa tutta per evitare di deprimerci il sabato sera con le catastrofi presenti e future. Ci ha raccontato del quartiere londinese di Brixton dove si unisce l’ecologia con la lotta alla povertà, ci ha portati all’isola di Samsø, in Danimarca, dove gli abitanti hanno finanziato personalmente la fase di start up delle pale eoliche con 15mila euro a famiglia e fanno quadrare i conti economici e ambientali del proprio riscaldamento con fonti rinnovabili, - in un clima che d’inverno non è uno scherzo. Per convincerci a vedere il quartiere sostenibile di Stoccolma, Luca Mercalli ha utilizzato un volto noto, e non per l’ecologia, come quello di Filippa Lagerback. Ma di tutto ciò nelle critiche dei critici non c’è traccia. Si sancisce una “nostalgia” per il “rassicurante” Piero Angela - aggettivo che forse lo stesso Angela non gradirebbe - e ce la si prende con il tono da “professorino” e da “gufo” con il cravattino. Insomma Grasso se la prende con gli aspetti negativi legati ai cambiamenti climatici bollandone l’informazione come “ideologia”, affrontata, secondo lui, con uno stile da “profeta di sventure”. E qui chiude il discorso. Sta di fatto che quelle sventure incombono e lo confermano sia i fenomeni meteorologici estremi cui abbiamo assistito anche in Italia durante gli ultimi anni, sia un patrimonio scientifico senza pari nella storia dell’umanità. Disponiamo di reti di monitoraggio ambientale che vanno dalle stazioni a terra ai satelliti e i miliardi di dati che producono possiamo trattarli con gli elaboratori più potenti del Pianeta - il volume d’elaborazione dei dati ambientali e meteorologici è secondo solo a quelli militari - e le comunità scientifiche possono lavorare a distanza e in tempo reale. Sui dati scientifici e sul lavoro degli scienziati abbiamo un’innovazione mai vista nella storia dell’umanità. Ebbene se il 99,8658% della comunità scientifica mondiale, lavorando così, osserva l’approssimarsi di catastrofi ambientali, cosa dovrebbe fare Luca Mercalli di diverso se non indicarci i problemi e le possibili soluzioni? Se poi il problema sono gli ascolti in prima serata lo si dica senza troppi giri di parole. A noi un milione di cittadini che ogni sabato sera s’informano sull’ambiente non sembrano proprio pochi. 




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