Design n 14

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DESIGN+ N. 14

ISSN 2038 5609 - "Poste Italiane Spa - spedizione in abbonamento postale D.L.353/2003 (conv. in L. 27/02/04 n° 46) art.1 comma.1 - CN/BO”

RIVISTA DELL’ORDINE DEGLI ARCHITETTI, PIANIFICATORI, PAESAGGISTI E CONSERVATORI DI BOLOGNA

I vincitori del concorso fotografico organizzato da GARBO, Giovani Architetti di Bologna

Il Culture Congress Centre dello studio Pichler & Traupmann Architekten • Zaha Hadid disegna la Serpentine Sackler Gallery a Londra • La nuova Coop di Orbetello dello Studio Giorgieri • Lectio Magistralis di Rafael Moneo




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LINEA b ambienti cucina, nasce agli inizi degli anni '80 come laboratorio artigianale specializzato nella progettazione e produzione di cucine. Oggi continua a mantenere la stessa qualità allargando i propri orizzonti commerciali, investendo in strutture tecnologiche avanzate e nella specializzazione del personale. Nelle cucine LINEA b, troviamo la presenza di un design elegante, la cura dei dettagli, la solidità delle scelte: una visione che coniuga la semplicità di materiali preziosi e accuratamente selezionati alla rigorosità di finiture ricercate, alla necessità di originali accostamenti. Bellezza, eleganza e funzionalità: cucine dalla fisionomia innovativa prodotte su misura per il cliente.


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CONCORSO

L’EDIFICIO NELLA CITTÀ LA CITTÀ NELL’EDIFICIO

I

Giovani Architetti di Bologna, per la prima edizione del concorso fotografico da loro indetto, hanno scelto come tema “l’edificio nella città / la città nell’edificio”. Ai partecipanti era richiesto di presentare un progetto fotografico composto di cinque immagini, che declinasse in maniera libera ma organica il tema scelto. Sono pervenuti ventotto lavori.

Nel valutarli ho tenuto conto di alcuni criteri basilari: attinenza al tema, qualità delle immagini, capacità di utilizzare il linguaggio fotografico, coerenza tra le immagini presentate, capacità progettuale. La giuria, composta da Maurizio Costanzo, direttore della rivista Design+, Simona Galateo, architetto, curatrice e scrittrice, Gianluca Morozzi, scrittore e musicista, Piero Orlandi, responsabile servizio Beni Architettonici e Ambientali dell’Emilia Romagna e curatore Spazio Lavì, oltre che da me, ha deciso di premiare il progetto Ferentari, Bucarest.

Questo lavoro non è un classico esempio di fotografia architettonica. Con un linguaggio immediato e “sporco”, più vicino a quello del reportage, racconta uno spaccato di vita in un quartiere degradato della capitale rumena, abitato da Rom fattisi stanziali. Restituisce l’immagine di un’umanità che si muove in un recinto fatto di palazzoni tutti uguali, cadenti, che attraversa aree incolte e fangose cosparse di rifiuti, sotto una luce biancastra e bagnata. È una visione angosciante e cruda, che nello spazio ristretto di una sequenza di cinque fotografie riesce a svilupparsi in maniera credibile, e può essere letta anche come il resoconto del fallimento di un progetto abitativo. Il secondo classificato è un lavoro di tutt’altra natura: è una riflessione sui confini tra spazi pubblici e privati nella città di Bologna. Biciclette, sedie, vasi di piante e autovetture sono i protagonisti silenziosi delle immagini, costruite sul rapporto tra questi elementi e gli spazi in cui sono posti, soglie, cortili e androni di palazzi. Tra gli altri lavori presentati ci sono alcuni altri spunti interessanti, ma sono anche emersi diversi punti critici: lacune nella capacità progettuale, visioni stereotipate o “turistiche” dell’architettura, oppure ancora un utilizzo della fotografia non maturo e non interamente consapevole. Si possono avere molti approcci diversi nel raccontare lo spazio costruito e il modo in cui chi lo abita e lo utilizza interagisce con esso, ma certamente contano sempre il tempo dedicato al progetto, la profondità dello sguardo, la scelta dei punti di vista e della qualità della luce. Decisioni che spesso si prendono ancor prima di iniziare a fotografare. È importante poi conoscere la storia del luogo che si intende descrivere o raccontare, conoscere chi, prima di noi, lo ha fotografato e come lo ha fatto. Lo spazio costruito è da sempre al centro dell’attenzione dei fotografi, che ne hanno descritto i cambiamenti, le novità e il degradarsi. Tuttavia in Italia manca una tradizione continuativa di documentazione paesaggistico-architettonica e, a parte rare eccezioni, non esiste una committenza pubblica organica per questo genere di lavori. Obiettivo di questo concorso, tra gli altri, è anche quello di costruire un archivio fotografico sulle nuove forme delle città. Mi sembra che questo possa essere uno stimolo importante per produrre e presentare, anche nelle prossime edizioni, nuove immagini dei luoghi e degli spazi che ci circondano. Molti di essi subiscono cambiamenti profondi e rapidi che necessitano di una analisi profonda, che la fotografia forse può aiutare. Martino Lombezzi

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FRANCESCO FLAMINI FERENTARI 1° premio vincitore

Il Ferentari è un quartiere situato all'estrema periferia sud di Bucarest, a soli 8 km dal centro. Nato come quartiere popolare, è divenuto, dopo il 1989, un insediamento di Rom stanziali che ne hanno fatto un luogo a metà fra lo slum e il ghetto. È il quartiere più malfamato di Bucarest, c'è l'acqua, ma non la luce. È disseminato di rifiuti di ogni genere. Droga, prostituzione, malavita, ma anche riciclo di roba vecchia e rottami metallici, sono alcuni dei principali traffici,

sviluppati all'interno di un quartiere architettonicamente di stampo comunista. Grandi palazzi in cui, come in formicai, convivono differenti anime che condividono lo stesso spazio e dal quale, come imprigionati, non riescono più a uscire. Un paradosso che porta lontano dalle tradizioni del popolo zingaro. Salta agli occhi, così, la simbiosi tra gli abitanti, l'ambiente stesso e i suoi edifici, che con gesti "normali" resistono a situazioni di squallore, sporcizia, malattie e

criminalità, in un quotidiano fatto di essenza. Un mondo grigio ma, in un certo senso, "vivo". Un luogo costruito, riconoscibile, quindi riconducibile ad un suo passato specifico che però trova i presupposti di una "certa" nuova umanità. Una strana comunità all'interno di un tessuto urbano edificato da altri che li hanno preceduti. Luogo fisico, estetico e antiestetico allo stesso tempo, fatto di relazioni connessioni e solitudine .

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CONCORSO

GIANLUCA RIZZELLO CONFLUENZE 2° premio vincitore

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La città entra dal retro dei palazzi, passa dai cortili e dagli androni e sale dalle finestre. La città non passa mai dalle porte. Tra lo spazio pubblico e lo spazio privato esiste una membrana, a volte sottile a volte meno, uno spazio fisico che divide e protegge, ma anche unisce e armonizza. Un territorio in cui confluiscono

penetrandosi pubblico e privato, palazzo e città, e in cui uno gradualmente cede il passo all’altro, di modo che il pubblico in breve diventa privato e il privato si trasforma presto in pubblico. Con la stessa leggerezza con cui un marciapiede diventa gradino e una aiuola condominiale, verde pubblico.


FELIPE AGUILE PONTE BALBIS 3° progetto selezionato

Utilizzando la tecnica dell’esposizione multipla ho fotografato da due diversi punti di vista il ponte Balbis di Torino. L’effetto è quello di un incrocio di acqua, arcate e alberi che si fondono creando una struttura anomala. Attraversando sotto il ponte in viale Thaon di Revel si rimane affascinati dall’eco. È un ponte che cattura. Non è raro vedere i bambini che si fermano a urlare per sentire la propria voce amplificata che arriva come una risposta alle proprie urla. All’inizio i genitori aspettano che finisca il gioco ma dopo vengono trascinati dall’effetto acustico e rimangono a giocare. Questa costruzione accoglie e crea relazioni tra le persone, nonostante si tratti di un contenitore aperto. L’acustica in questo spazio ha la capacità di aggregare le persone in maniera ludica e, anche se si tratta di un fatto puramente casuale, mi fa riflettere sulle infinite potenzialità del suono nell’architettura.

SIMONE BOSSI L’EDIFICIO NELLA TRAPPOLA DELLA CITTÀ 4° premio selezionato

Iconiche e arroganti conquistano il nuovo spazio in verticale di una città alla quale non appartengono ancora, intrappolati in contesti apparentemente estranei. Per il momento è solo un fatto puntuale, sotto controllo da ogni parte, in ogni momento; difficile non accorgersi del forte contrasto con un tessuto urbano consolidato da tempo. Tentano di conquistare i cittadini presentandosi come cosiddetti landmark, nuovi punti di riferimento, catturando gli occhi di tutti, ma in realtà solo pochi hanno la possibilità di penetrare al loro interno. Il processo di trasformazione è ormai iniziato, ma cosa riceve la città? Chi potrà davvero

beneficiare del nuovo spazio verticale? È dunque naturale domandarsi quale sia il vero valore di questa ambita volontà di manifestare sembianze di una metropoli contemporanea al passo coi tempi. DESIGN + 9


CONCORSO SIMONE CREMONA VETRI-NE 4° progetto ex aequo selezionato

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Nessuno mi sta guardando Gli edifici sono involucri, frontiere che separano ciò che sta dentro, l’intimo e il privato, con quello che sta fuori, che a sua volta può essere il dentro di qualcos'altro. Nelle trasparenze delle frontiere, negli specchi, nei vetri, avviene quell’intima fusione di spazio pubblico e privato che è alla base del vivere sociale,

dove le due cose non possono essere distinte veramente. Perciò ho guardato non “dalla finestra” ma “nella finestra”, invertendo l’ordinario rapporto tra il soggetto individuale o collettivo che solitamente osserva e lo spazio pubblico urbano, paesaggistico - che viene osservato. Per guardare, occorre soprattutto imparare a lasciarsi guardare.


FRANCESCO MERLA MUCEM spazio tempo città 5° progetto selezionato

Il soggetto del progetto fotografico è il MUCEM (Museo delle Civiltà d’Europa e del Mediterraneo). Nuovo edificio che si misura ed è misura di una parte della città di Marsiglia. Un corpo astratto e alieno che si confronta con l’orizzonte, il

costruito, il tempo, e il mare, in un alternarsi di dominio e soggezione, di interpretazione e invenzione. Scrigno nero con un proprio universo interiore, dalla città osservato, diventa per i suoi abitanti uno strumento attraversabile per esercitare lo sguardo.

GUIDO BARONCELLI QUARTIERE “LE FORNACI” 6° progetto selezionato

Il progetto nasce dalla curiosità di conoscere un quartiere della mia città, Pistoia. Durante la scorsa estate sono andato lì a fotografare e ho avuto modo di assistere ai riti quotidiani della gente che vi abita. Ho visto il paesaggio urbano in cui queste persone vivono e ho cercato di restituirne una visione dall’interno.

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DESIGN + Iscritta con l’autorizzazione del Tribunale di Bologna al numero 7947 del 17 aprile 2009

Direttore Editoriale Alessandro Marata Direttore Responsabile Maurizio Costanzo Caporedattore Iole Costanzo Coordinamento di Redazione Cristiana Zappoli Art Director Laura Lebro

Ristrutturazioni interne ed esterne Rifacimento tetti e facciate Impianti cartongessi Pavimenti Impermeabilizzazioni Deumidificazioni Siamo attivi sul territorio di Bologna e provincia nel settore delle ristrutturazioni e costruzioni dal 2001. Operiamo per committenti privati in particolare nei seguenti ambiti: Recupero e ristrutturazione edilizia con formula chiavi in mano e non, manutenzione programmata di immobili e nuova costruzione. Per poter rispondere anche alle esigenze di committenti pubblici, lÊazienda è in possesso della Qualificazione alla ESECUZIONE di Lavori Pubblici (OG1 in classe III). LÊazienda è in possesso della Certificazione di Sistemi di Gestione per la Qualità (ISO 9001).

bieffe s.a.s di F. Bonamassa & C. Via Brugnoli, 7 - 40122 Bologna www.impresaedilebieffe.it Tel. 051.6141894 - Fax 051.4390049

Redazione Emiliano Barbieri, Nullo Bellodi, Federica Benatti, Mercedes Caleffi, Giuliano Cirillo, Edmea Collina, Biagio Costanzo, Mattia Curcio, Silvia Di Persio, Antonio Gentili, Piergiorgio Giannelli, Andrea Giuliani, Giulia Manfredini, Stefano Pantaleoni, Luca Parmeggiani, Alberto Piancastelli, Duccio Pierazzi, Nilde Pratello, Claudia Rossi, Clorinda Tafuri, Luciano Tellarini, Carlo Vinciguerra, Gianfranco Virardi, Gabriele Zanarini Hanno collaborato Manuela Garbarino, Donatella Santoro Stampa Cantelli Rotoweb - Castel Maggiore (Bo) www.cantelli.net Finito di stampare in dicembre 2013

Via Saragozza, 175 - 40135 Bologna Tel. 051.4399016 - www.archibo.it

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La Ditta Mantovani opera da 15 anni nel settore dei serramenti (finestre, porte interne e blindati), rappresentando aziende leader per qualitĂ , tecnologia e varietĂ di prodotti (legno, pvc, alluminio). Ha sviluppato un rapporto continuativo e stretto con studi tecnici di progettazione e imprese di costruzione e ristrutturazione fornendo un servizio tecnico, commerciale ed esecutivo, relativo a ogni tipo di serramento, dal disegno progettuale alla posa in opera in cantiere. Mantovani offre preventivi dettagliati redatti dopo attenta valutazione della tipologia del lavoro; gestione e visione diretta dei prodotti presso lo show room per varianti e consigli; assistenza tecnica durante la posa in opera e verifica qualitativa post vendita.

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CONTENUTI

6

Concorso L’edificio nella città la città nell’edificio

19

Editoriale Non si finisce mai di studiare... di Alessandro Marata

20

p.19

Pensieri Globali Manlio Brusatin Professore di Disegno industriale ad Alghero

23

p.6

p.20

Segnali Nuova sede dell’ONU a Copenhagen Lo studio 3XN Architects ha progettato la nuova sede delle Nazioni Unite nella capitale danese

p.23

Zaha Hadid a New York Il Design Boutique Residential Condominium è il primo progetto dellÊarchistar nella Grande Mela

p.27

Ospitalità catalana p.28 ˚ stato inaugurato a Barcellona un nuovo ostello della catena Generator, design di Anwar Mekhayech E se il teatro è di paglia? Lo Straw Theatre era una struttura temporanea realizzata a Tallinn nel 2011 dallo studio Salto AB

p.31

Ripensare l’edilizia... p.33 In occasione del Cersaie 2013 Rafael Moneo ha tenuto a Bologna unÊinteressante lectio magistralis

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CONTENUTI

36

70

Progetti Un contenitore di cultura Progetto di Pichler & Traupmann Architekten ZT GmbH

p.36

Architettura e arte Progetto di Zaha Hadid Architects

p.50

A contatto con la laguna Progetto dello Studio Giorgieri

p.62

Esperienze creative Pensieri intorno all’architettura

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Professional Service Penso progetto mostro

p.72

Maggiore tecnologia per case piĂš intelligenti

p.78

Anteprima Arte e design in mostra

88

Luoghi del design Un museo per Poltrona Frau

92

Design Il ritorno dei Cinquanta

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EDITORIALE

il settore edile. Il mercato economico e culturale, che non è limitato ai confini nazionali, si sta rapidamente organizzando ed è presumibile che già nei prossimi mesi l’offerta sarà molto ampia, affidabile ed economicamente ragionevole. In ogni caso i primi tre anni, considerati periodo transitorio e sperimentale, serviranno proprio a definirne correttamente gli ambiti. Un aspetto molto interessante della formazione professionale continua sarà quello di creare profili di specificità curricolare, naturalmente se l’architetto lo desidera. Si potrà non solo dire di essere esperti in un dato ambito delle prestazioni professionali, ma anche, da un certo punto di vista, dimostrarlo ufficialmente, attraverso l’elenco delle attività formative frequentate. Il committente sarà, in questo modo, maggiormente tutelato potendo consultare curricula che, seppure in modo approssimativo, si possono considerare certificati. Questo apparente aumento della complessità dell’attività professionale in realtà rappresenta un’importante occasione per concentrarsi in maniera approfondita sul rapporto tra progettista e committente, tra innovazione e tradizione, tra la responsabilità individuale e quella sociale e ambientale, tra la pratica dell’edilizia e il pensiero architettonico. Come riportato nelle linee guida e di coordinamento attuative del regolamento per l’aggiornamento e sviluppo professionale continuo: “Le attività formative devono avere ad oggetto le aree inerenti all’attività professionale dell’architetto, pianificatore, paesaggista e conservatore nel rispetto delle rispettive competenze con particolare riferimento a: 1. architettura, paesaggio, design, tecnologia; 2. gestione della professione; 3. norme professionali e deontologiche; 4. sostenibilità; 5. storia, restauro e conservazione; 6. strumenti, conoscenza e comunicazione; 7. urbanistica, ambiente e pianificazione nel governo del territorio”. In conclusione, l’aspetto di maggior rilevanza è sicuramente quello qualitativo. L’elenco delle attività formative presenti nelle linee guida conferma una volontà di riconquistare una giusta competenza e una doverosa dignità professionale, umanistica e tecnologica, per il mestiere dell’architetto. Dignità e competenze che, per molteplici cause, di natura sociale, culturale ed economica, si sono in parte perdute. Bisogna andare, dunque , verso una nuova professionalità che possa affrontare i cambiamenti di un mestiere che la crisi economica, strutturale e devastante, sta radicalmente mutando.

NON SI FINISCE MAI DI STUDIARE...

In realtà sarebbe... non si finisce mai di imparare... ma le due cose vanno, ovviamente, di pari passo. Sulla testa di milioni di liberi professionisti italiani, molto dopo quella dei colleghi europei, è arrivata la formazione continua obbligatoria. È finalmente arrivata o è purtroppo arrivata? La domanda è inutile e superflua dato che, per adeguarsi alle direttive comunitarie, la riforma statale delle professioni ha definito urgenti e obbligatorie le procedure per allinearsi ai colleghi europei. È ovvio che per un architetto, che lavora con scrupolo, nell’interesse del committente, e che trova giovamento dal suo lavoro, ogni nuovo lavoro è fonte di aggiornamento sia tecnico che normativo. Non ci sarebbe, quindi, necessità di dedicare tempo ulteriore al suo processo di aggiornamento professionale. Quindi perché la normativa europea richiede questo ulteriore sforzo agli architetti e, più in generale, a tutti coloro che esercitano una libera professione? Le ragioni sono molteplici. Proviamo a identificarne qualcuna. Partiamo dalla più intuitiva ed elementare: il controllo. Come può fare il legislatore per controllare che quanto dovrebbe essere una normale e costante attività dell’architetto venga effettivamente svolta? Lo può fare solamente se l’architetto fornisce dimostrazione di avere partecipato, per un certo numero minimo di ore, a eventi formativi: corsi, conferenze, workshop, mostre, viaggi. Aver partecipato a tutte queste attività non dimostra che abbia effettivamente imparato e quindi si sia aggiornato: potrebbe avere dormito oppure letto il giornale tutto il tempo. A questo proposito, sembra un paradosso, sono più efficaci i corsi on-line, su piattaforma digitale, che avanzano solo dopo che l’utente, connesso e riconoscibile, ha risposto alle domande. Senza la risposta esatta la lezione on-line non prosegue e rimane bloccata. Ovviamente tutte queste considerazioni valgono in ambiente italico, laddove il senso dell’etica e della responsabilità individuale continua ad essere moderatamente basso. E, al tempo stesso, la furbizia, che ci vede famosi nel mondo, prevale. L’architetto serio e coscienzioso non dovrà fare altro, quindi, che continuare a comportarsi come già sta facendo, preoccupandosi solamente di fare in modo che questa sua attività volontaria sia ufficialmente visibile e monitorabile. La formazione permanente obbligatoria non sarà quindi, per lui, un peso ulteriore. E probabilmente neppure un costo aggiuntivo. Per quanto riguarda i costi, per ridurli tendenzialmente a zero, gli ordini professionali stanno lavorando intensamente per fornire opportunità a coloro che non vogliono o non possono spendere denaro, stante anche la drammatica crisi che ormai da anni caratterizza

Alessandro Marata

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PENSIERI.GLOBALI

Manlio Brusatin «Il colore è una verità per l’architettura, il design e la vita stessa. Il suo ruolo deve partire dagli spazi interni e inquadrare quelli esterni per farli venire dentro»

Lei ha curato molte pubblicazioni sul colore. Potrà allora dirci cos’è il colore?

Il colore ha avuto una notevole espansione nella percezione contemporanea grazie all’era del web. Gli ambiti che del colore più hanno fatto sistema di progettazione sono stati: il design, il restauro e l’architettura degli interni che si sta liberando dal diktat del bianco (e del nero) assoluto, che di per sé non è mai esistito né nei materiali né nella percezione. Il bianco del latte, della neve, della calce, sono uguali? Così il colore. È una sensazione che passa attraverso i nostri occhi e viene elaborata da due piccole aree speciali del nostro cervello (chiamate V4). Ma in sostanza il colore è allo stesso tempo quello che diceva Newton, in cui tutti i sette colori danno come somma il bianco e anche quello che pensava Leonardo che la somma dei colori dia il nero. Queste due sponde sono le due realtà cromatiche come il giorno e la notte. Una, la proprietà della luce dà il bianco, dall’altra parte la proprietà della materia dà il nero, ma le due qualità sono mescolate nel chiaro e nell’oscuro. I primi sono stati chiamati colori additivi e sono quelli che vediamo ora nello schermo e nel display, e quelli sottrattivi sono della pittura, della grafica, degli inchiostri e della stampante.

Oggi che rapporto c’è tra il colore e l’architettura contemporanea?

La sensibilità degli architetti contemporanei (decostruttivisti & archistar) è stata una prevalente cromoclastia. Certa dimensione hi-tech del vetro e dell’acciaio ha prevalso con superfici assolutamente splendenti nell’immediato ma immensamente grigie e sporche nel tempo. Ora si è capito che nella “decrescita” di queste immagini del tutto spettrali bisognava muoversi in maniera sperimentale verso operazioni di maquillage. Così come il “verde verticale” oppure le schermature cromatiche sia di effetto naturalistico che folklorico (Gonçalo Byrne a Jesolo o Renzo Piano a Londra, St. Giles) oppure di shock pubblicitario, Rosso Racing (Jean Nouvel, al kilometro rosso, di Bergamo).

Scegliere il colore in architettura si è sempre detto essere difficile perché si pensa debba richiedere un approccio selettivo, neutro e oggettivo. È pura illusione o è possibile?

Si pensa sempre ad un colore puramente esterno, come aspetto conclusivo dell’opera, non solo da parte degli architetti. Anche i pittori sbagliano quando sono incaricati di esprimersi con il colore e sovrappongono un loro quadro a un edifico (Daniel Buren, sede dell’Amin a Napoli). Anche se ci sono casi in cui il colore, e solo con il colore (con l’artista-politico Edi Rama) si è salvato miracolosamente l’effetto mortifero di una capitale come Tirana. Questo è successo anche in Russia in quelle città “senza nome” che erano le grandi fabbriche del nucleare o dell’ingegneria spaziale totalmente ridipinte in stile astratto. Ora però il ruolo del colore deve invece partire dall’interno, dagli spazi interni, e inquadrare quelli esterni per farli “venire dentro”. Come? Pensando semplicemente ai colori degli elementi naturali (come diceva Leonardo) e ai loro possibili accordi e sfumature: blu, rosso, verde, giallo come aria, fuoco, acqua e terra. Ecco che il colore fa parte di una “oggettività soggettiva”: noi tutti abbiamo un colore preferito magari in una specifica gradazione, quasi come il nostro oroscopo. Ma quando dico, per esempio, un giallo, ognuno sa di cosa si tratta. E ancora pensando a un giallo che va verso il rosso e un verde che va verso il blu, ho delle precise e nette sensazioni

Classe 1943, si è laureato in architettura con Carlo Scarpa, allo Iuav di Venezia. Ha esperienza internazionale sul tema del “Colore”, argomento sul quale ha tenuto lezioni, conferenze, seminari in fondazioni, musei e università. Attualmente Manlio Brusatin lavora per proporre una Carta del Colore in relazione alla codifica delle ricerche per i nuovi piani qualitativi delle città d’arte. È professore straordinario in Disegno industriale presso la facoltà di architettura di Alghero.

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(anche senza una precisa percezione). L’affinità dei colori sta accanto alla sua complementarietà per cui non posso dire né immaginare un verde che va verso il rosso, né un arancione che va verso il blu. Esistono nei colori affinità e contrapposizione allo stesso tempo, come appunto luce e ombra, caldo e freddo, chiaro e scuro che diventano valori assoluti in quanto percepiti e recepiti dal soggetto.

Assodato che il colore dialoga con la psiche, anche se secondo Matisse questa influenza dipende non solo dal soggetto ma anche dal colore, allora la luce, di cui tanto si parla in architettura, che valenza ha?

Come dicevo il problema della luce in architettura va considerato accanto all’ombra, e anche in rapporto alle stagioni e al clima. Si parla della luce - luce in modo astratto e fideistico. I grandi pittori per esempio suggerivano di dipingere alla luce mattutina, e in questa luce i loro quadri si “leggevano” proprio nelle loro luci e ombre. Anche oggi un vero quadro va visto con una luce diurna o per quanto possibile simile (anche con Led tricromatici) ma non certo come si continua a propinare ora un dipinto ritagliato come una diapositiva in un ambiente totalmente buio. La sequenza visiva-percettiva che già i pittori suggerivano non era: forma vs colore, ma colore/movimento/forma. La forma quindi non ha una definizione statica ma dinamica in rapporto a un colore ambientale diffuso che si sente solo quando manca.

Lei ha più volte affrontato il tema del colore in ambito sanitario. Esiste uno studio sugli effetti che il colore può avere sui malati e di cui un progettista possa avvalersi?

Le esperienze che ho cercato di svolgere in ambito sanitario derivano dal fatto di aver ascoltato sia medici che assistiti, i quali dicevano: “Per favore toglieteci questo color bianco-ospedale” (che si associa per contrasto drammatico al rosso del sangue). Come si sa, ora, l’ospedale è sempre meno il luogo permanete della malattia, ma di una vasta popolazione che fa prevenzione, assistenza e cura. Ci sono stati in passato dei colori palliativi negli ospedali in cui si curavano le malattie polmonari oggi in gran parte debellate, con un verdino altrettanto ospedaliero, meglio comunque del bianco assoluto che è solo una parvenza di sterilità e pulizia. Dal camice del personale ospedaliero si è passati infatti al verde e al blu, ma come si tratta l’interno di una stanza dove si sta prevalentemente orizzontali, pur non sempre? Si deve studiare molto il soffitto che si guarda (mai sufficientemente considerato) e il pavimento, sopra il quale ci si muove, togliendo per quanto possibile l’effettoscatola. Per quanto riguarda le pareti (come ho sperimentato in vari esempi): grandi fasce orizzontali (di 1 metro ca.) di un verde vegetale salvia o olivo si staccano dalla parte più usurata e più scura dal basso, e più chiara verso l’alto. Mai passare direttamente, dalla mazzetta cromatica offerta dalla ditta, all’applicazione, ma considerare operativamente un “rilievo cromatico” (in RGB e CMYK) dei colori esterni e circostanti per poi rintracciarli nei cataloghi del produttori. La sanità in primis si è espressa a favore di un ambiente studiato cromaticamente da estendere assolutamente all’edilizia scolastica e appunto alle carceri, di vecchia o nuova progettazione. Perché il colore non è affatto un’opinione ma una precisa e confortevole sensazione, per tutti, ed è ancora “l’ultimo che si dà ma il primo che si vede”.

Se come lei stesso ha scritto: ”il colore non è (solo) una qualità della luce ma una sensazione percepita dai nostri occhi e recepita dal nostro cervello” l’adozione di un particolare colore può aiutare a rendere più accogliente un ambiente sentito dai fruitori come angosciante o alienante?

Ci sono spazi e costruzioni che deprimono e mortificano ogni aspetto sia psicologico che fisico (ricordiamo i colori fisici o psicologici di Goethe) e non solo carceri, scuole e ospedali. Anche aeroporti e stazioni ferroviarie nel restyling sono diventati sempre più luoghi del “viaggiatore ignoto” il quale dovrebbe comprare cose assolutamente inutili in un mercato labirintico e deprimente. Un esempio fra tutti: alla stazione ferroviaria di Venezia si sta perpetrando del puro cannibalismo architettonico. Chi arrivando qui non avrebbe piacere di vedere subito il colore dell’acqua del Canal Grande? Come era prima infatti. In questi grandi interni della mobilità moderna la presunta funzionalità, ma soprattutto un’idea assurda di sfruttamento dello spazio, ha azzerato ogni qualità ambientale. Qualità che con il colore è una verità per l’architettura, il design, la vita stessa, al principio o alla fine di un viaggio.

OGGI L’ARCHITETTURA DEGLI INTERNI SI STA LENTAMENTE LIBERANDO DAL DIKTAT DEL BIANCO (E DEL NERO) ASSOLUTO, CHE DI PER SÉ NON È MAI ESISTITO NÉ NEI MATERIALI NÉ TANTOMENO NELLA PERCEZIONE

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E G N A L I

NUOVA SEDE DELL’ONU A COPENHAGEN Vista dall’alto ha la forma di una stella a otto punte. È stata inaugurata ufficialmente a luglio (con la partecipazione del Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-Moon) e progettata dallo studio danese 3XN Architects. La nuova sede dell’Onu a Copenhagen è un edificio realizzato in due fasi: la prima fase è stata comple-

tata nel dicembre 2012, mentre la seconda fase terminerà a dicembre 2013. UN City, questo il nome della sede, si trova a Marmormolen, “il porto di marmo” a nord del centro di Copenhagen ed è concepita per ospitare tutte le diverse organizzazioni e agenzie delle Nazioni Unite. Il palazzo è stato studiato per simboleggiare al

meglio i valori e l’autorità dell’Onu, a cominciare dalla base a otto punte, rivolte, proprio come l’organizzazione internazionale, verso tutti gli angoli del mondo. La UN City ha una base di acciaio lucidato da cui spicca la facciata principale bianca, un riferimento alle gradi navi bianche che caratterizzano questa parte del porto di Co-

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LUOGHI.URBANI

Sopra: foto aerea della nuova sede dell’Onu, edificio-icona che nella filosofia progettuale degli architetti dovrebbe, con la sua forma a stella, rappresentare i valori e l’autorità delle Nazioni Unite. Sotto: l’edificio si affaccia sul porto ed è in grado di accogliere fino a 1700 persone

penhagen. L'edificio è caratterizzato da una facciata rivestita da persiane bianche in alluminio perforato, studiate appositamente dagli architetti insieme all’impresa costruttrice Pihl: garantiscono l’ombra agli uffici senza impedire la vista e il passaggio della luce del giorno. Nel cuore del palazzo un atrio luminoso collega l’ingresso che comprende tutte le aree comuni

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con i livelli dove si trovano le stanze delle diverse agenzie. Tutti i livelli sono collegati da una scala centrale pensata come una scultura spaziale decisamente scenografica che diventa il simbolo del lavoro che compiono le Nazioni Unite per creare dialogo, interazioni e confronti propositivi tra le persone in tutto il mondo. La scala è fatta in modo da invitare i dipendenti a utiliz-

zarla trasformandola in un luogo di incontro informale tra le varie agenzie. L’edificio è stato progettato in modo da limitare l’impiego di sostanze chimiche e inquinanti, sia nella fase di costruzione sia successivamente. Tutto è stato progettato affinché la UN City rispettasse ogni canone di sostenibilità. La ventilazione avviene mediante aria filtrata dall’esterno. Così, non solo ci si assicura che l’aria presente nell’edificio sia pulita, ma contemporaneamente si bilancia il livello di umidità interno. Più di 1.400 pannelli solari sono installati sul tetto dell’edificio al fine di generare energia rinnovabile direttamente in loco. La produzione di questi pannelli solari è stimata in 297.000 kWh/anno. Anche il sistema di raffreddamento, che utilizza acqua di mare fredda pompata al suo interno, elimina quasi completamente l’energia elettrica necessaria ad alimentare un ciclo di raffreddamento. Aeratori innovativi e rubinetti a basso flusso sono stati collocati nei rubinetti di cucine, bagni e docce. Oltre a ciò, circa tre milioni di litri di acqua piovana all’anno saranno catturati da tubi posizionati sul tetto: un quantitativo sufficiente a rifornire i servizi igienici dell’edificio. Sofisticati pannelli sulla facciata del palazzo possono essere aperti e chiusi a seconda di quanto calore naturale si voglia lasciar filtrare. Il tetto dell’edificio è stato ricoperto con una membrana bianca riciclabile, realizzata con materiali a base vegetale. Questo rivestimento ecologico riflette la luce solare e regola il riscaldamento dell’edificio. (Cristiana Zappoli)




PRE.VISIONI

S

ZAHA HADID A NEW YORK

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Il primo progetto dell’archistar nella Grande Mela sarà un condominio di lusso. Il progetto apre la strada a future costruzioni nell’area occidentale di Manhattan

a società newyorkese Related Companies ha commissionato allo studio Zaha Hadid Architectes la progettazione del Design Boutique Residential Condominium, affacciato sull’High Line di New York, la vecchia linea ferroviaria che è stata riqualificata nel 2008 e trasformata in un parco sopraelevato, al 520 West della ventottesima strada nel quartiere di Chelsea a Manhattan. Secondo indiscrezioni i lavori dovrebbero cominciare l’anno prossimo e sarà il primo progetto dell’architetto anglo iracheno nella Grande Mela. Il design audace della costruzione, che sa-

rà realizzata in vetro scolpito e acciaio complesso e che avrà una facciata dinamica e flessuosa, cattura la ricchezza del contesto urbano vivace e storico al tempo stesso, dove un suggestivo gioco tra la città e la High Line ha creato una potente dinamica urbana. Lo stesso gioco viene riproposto all’interno dell’edificio, dall’aspetto scultoreo, capace sia di fondere che di separare i due contesti. «Il nostro progetto è un’integrazione di volumi che scorrono l’uno nell’altro e, grazie a un linguaggio formale coerente, crea una particolare sensibilità d’insieme», ha spiegato Zaha Hadid. «Attraverso un si-

stema capace di reinventare l’esperienza spaziale, ogni residenza avrà una propria identità distintiva, caratterizzata da molteplici prospettive e punti di vista interessanti sul quartiere». Undici piani per 37 abitazioni con superfici fino a 500 mq, caratterizzate da un importante uso della tecnologia domotica. La hall dell’ingresso sarà a doppia altezza e offrirà scorci di panorama al di là degli spazi comuni. Ci saranno un giardino, la piscina, il centro benessere e altri spazi ricreativi. Gli appartamenti avranno ampie terrazze, cortili privati, entrate indipendenti.

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INTERIORS

OSPITALITÀ CATALANA

I

Inaugurato a Barcellona un altro ostello della catena Generator. Un mix tra mobili di design spagnolo, arte popolare, oggetti riciclati. Qui l’estetica incontra la funzionalità Generator Urban Design Hostels sono una catena di ostelli progettati con particolare attenzione al design da Anwar Mekhayech, socio dello studio canadese The Design Agency. Questi ostelli offrono sistemazioni comode e alla moda e ognuno è caratterizzato da uno stile unico che riflette lo spirito e la cultura della città che lo ospita, pur mantenendo un comune stile estetico e un importante accento sugli spazi sociali audaci ed emozionanti. È possibile trovare ostelli Generator a Dublino, Copenhagen, Amburgo, Londra e Berlino e, nel maggio del 2013, ne è stato inaugurato uno a Barcellona. L’ostello sorge in un ex edificio per uffici degli anni Sessanta sventrato e restaurato seguendo un concept pensato per i giovani e con prezzi economici. Gli spazi interni, che vogliono essere uno specchio della stessa Barcellona, sono diventati un arazzo di livelli e

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stili, in cui è possibile ritrovare lo spirito di Gràcia, il distretto in cui si trova. Le aree comuni sono decorate con cenni alla cultura popolare di questo quartiere, mixata con mobili di design spagnolo contemporaneo e vari oggetti riciclati, trovati o creati appositamente per il Generator. La Design Agency ha lavorato, per realizzare tutto questo, a stretto contatto con architetti, fornitori e artisti del luogo. Le stanze sono semplici ma accoglienti e alcune hanno terrazze private con una meravigliosa vista sulla città. Gli spazi comuni sono pensati per invitare gli ospiti a passarci il tempo e confondersi con essi, non sono solo luoghi di passaggio ma ospitano musica, cultura, design e arte loInterni dell’ostello Generator di Barcellona. Nell’arredamento è stato utilizzato molto il legno. I colori identificano i diversi ambienti

cale. Dalla hall a doppia altezza, ampia ma accogliente, si accede a sinistra alla reception dell’albergo e al bar, mentre a destra si entra nell’ostello. Nel bar “galleggiano” 300 lanterne di carta che si ispirano all’annuale Festa Major de Gràcia, mentre le pareti sono decorate da un patchwork di opere di street artist locali che hanno anche riprodotto le importati piastrelle del pavimento di Paseo de Gracia disegnate da Gaudì. La parte della hall che conduce all’ostello è caratterizzata dalla presenza di una struttura in legno che rende omaggio alla storia nautica di Barcellona. Le travi di legno alte circa 7 metri riproducono lo scheletro di una nave e nascondono una scala che conduce a una balconata vetrata che si affaccia verso l’ingresso dove si trovano una biblioteca e una sala in cui gli ospiti possono conversare e rilassarsi prima di accedere alle camere. (di Cristiana Zappoli)


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ARCHITETTURA.SOSTENIBILE

E SE IL TEATRO È DI PAGLIA?

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Una struttura temporanea ha ospitato, nel 2011, la stagione di un importante teatro a Tallinn. L’anno scorso è stato premiato con l’Estonian Cultural Endowment Prize

I

l NO99 Straw Theatre, progettato dallo studio di architettura Salto AB, è stato costruito nell’ambito delle iniziative di Tallinn, Capitale Europea della Cultura 2011. Il teatro, fatto in paglia con una struttura in legno, era un’architettura temporanea al confine tra un contenitore puramente funzionale e un’installazione artistica. È stato costruito per uno specifico scopo, quello di ospitare una speciale stagione estiva del teatro NO99 della durata di sei mesi, alla fine della quale è stato smantellato. Il teatro, che l’anno scorso è stato premiato con l’Estonian Cultural Endowment Prize categoria architettura, si trovava nella zona centrale della capitale estone, in cima all’ex bastione Skoone, una delle fortificazioni barocche meglio conservate di Tallinn. All’inizio del ventesimo secolo il bastione era utilizzato come giardino pubblico, durante il periodo sovietico era un’area di svago per le

truppe della marina, con un teatro estivo costruito in legno e un parco in cima all’area. Dopo che il teatro è stato bruciato e i sovietici se ne sono andati, per vent’anni il bastione è rimasto inutilizzato e trascurato, oggetto di diverse controversie immobiliari e piani di sviluppo su larga scala falliti. In un contesto di questo genere, lo Straw Theatre è stato un tentativo di riconoscere e riattivare temporaneamente questa location, testando il suo potenziale e utilizzandola nuovamente, dopo tanti anni, nel pieno rispetto delle stratificazioni storiche del sito. Il volume principale, dalla pianta rettangolare, occupava esattamente la stessa posizione del teatro estivo per i militari e una rampa di scale già presente allora era utilizzata come entrata all’area del teatro. La struttura era circondata da vari spazi per attività all’aperto, per esempio una piattaforma per

giocare a scacchi, un tavolo da ping pong, alcuni giochi per bambini. La struttura era fatta di balle di paglia scoperte dipinte con lo spray nero, e il suo aspetto scuro e monolitico rimandava decisamente al contesto storico del sito. Essendo una costruzione temporanea, gli architetti hanno pensato di non isolarla, come sarebbe stato normale per una costruzione di paglia, ma l’hanno lasciata aperta per consentire un’esperienza di tipo anche tattile del materiale, e per sottolineare simbolicamente il ciclo di vita di questo materiale sostenibile. (di Cristiana Zappoli) DESIGN + 31



INCONTRI

S

RIPENSARE L’EDILIZIA...

M

«Gli edifici sono frammenti di città». Questo il fulcro della lectio magistralis tenuta dall’architetto spagnolo Rafael Moneo in occasione del Cersaie

oneo possiede una inusuale capacità di risparmiare il linguaggio e una inusitata capacità di essere coerente con le necessità che sempre stanno alla base di ogni edificio e che proprio perché ogni edificio è frutto di una necessità lo rendono espressione, nonostante tutto, di un’epoca», con queste parole Francesco Dal Co, architetto, professore di architettura allo IUAV di Venezia e direttore di Casabella, ha presentato Rafael Moneo in occasione della lectio magistralis che ha tenuto a Bologna nell’ambito del Cersaie 2013. Premio Pritzker nel 1996, lo spagnolo Rafael Moneo è uno dei protagonisti assoluti dell’architettura dalla metà del 900 in poi. Tra i suoi progetti più importanti spiccano l’Auditorio e Centro Congressi Kursaal di San Sebastián (1999), il Museo di Belle Arti a Houston (2000), la Cattedrale di Los Angeles (2002), l’ampliamento del Banco de España a Madrid (2006), e, so-

prattutto, l’ampliamento del Museo del Prado a Madrid (2007). Alla professione di architetto Moneo ha affiancato la carriera universitaria: dopo aver insegnato in Spagna, nel 1985 è nominato Presidente della Harvard Graduate School of Design, incarico che ha ricoperto fino al 1990. Attualmente, all’interno della stessa istituzione, è Josep Lluis Sert Professor of Architecture. Il titolo della lectio magistralis bolognese, che ha fatto registrare il tutto

esaurito al Palazzo dei Congressi, era “Gli edifici non sono solo oggetti”. L’architetto spagnolo ha fatto cominciare il suo ragionamento dall’idea, già espressa anche nella conferenza stampa che ha preceduto la lezione, che edilizia e città non sono concetti separati: quando si fa edilizia si fa anche la città. «Tendiamo a vedere gli edifici – ha detto Moneo – come oggetti isolati e autonomi. Io mi rifiuto di farlo, gli edifici sono indissolubilmente legati alla città e solo pensando a essa ha senso fare architettura. Gli edifici assumono il loro significato più pieno quando sono immersi nella città, facendo parte di un paesaggio urbano più ampio che definiamo contesto. Noi architetti, in quanto responsabili della forma che assumono gli edifici, abbiamo associato in larga misura il nostro lavoro alla nozione di oggetto, tendiamo a vedere gli edifici come oggetti isolati e autonomi, estranei perfino alla vita che si svolge attorno ad essi, così ci siamo

José Rafael Moneo è nato a Tudela, in Spagna, nel 1937. Architetto di fama internazionale, svolge anche l’attività di relatore, critico e scrittore

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S

INCONTRI

abituati a vedere l’architettura. Ritengo di essere agli antipodi di coloro che pensano agli edifici come oggetti e partendo da tale posizione vorrei insistere su quanto gli edifici diventino immediatamente parte della città e, se si vuole, del paesaggio antropizzato». Per spiegare il suo punto di vista, Moneo ha presentato quattro dei suoi progetti, spiegando il suo approccio ai siti spesso caratterizzati da preesistenze importanti: l’ingresso al Miradero-Safont e il Centro Congressi a Toledo, dove ha ricostruito letteralmente un muro che segnava il fianco della città, collocando dietro di esso un complesso programma e mostrando quanto sia necessaria nell’urbanistica la nozione di reversibilità. Il Museo del Teatro Romano a Cartagena,

dove ha recuperato il passato della città includendo edifici esistenti in un itinerario che infonde in loro nuovi contenuti al servizio di usi inattesi. Il Northwest Science Building presso la Columbia University nella città di New York, un edificio per lavoratori

Rafael Moneo insieme a Francesco Dal Co (architetto, professore di architettura allo IUAV e direttore di Casabella) durante la conferenza stampa svoltasi in occasione del Cersaie

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che è nato nelle più precarie condizioni ma ha trovato la sua ragione d’essere nella cornice di un progetto urbanistico più ampio. E, infine, la nuova chiesa a Ribera de Loiola, San Sebastián, dove, nonostante il valore simbolico che era necessario conferire all’edificio, la comprensione della città ha contribuito in modo definitivo a determinarne la forma. «Le opere che presento oggi – ha specificato Moneo – non sono tanto architetture autonome suscettibili di essere intese come oggetti con valore in sé, quanto frammenti di città, episodi che difficilmente possono essere considerati isolatamente come edifici e che certamente andrebbero visti come fabbrica urbana, come sostanza di quello che denominiamo città».


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PROGETTO / 1

UN CONTENITORE DI CULTURA In Austria, nella città di Eisenstadt, la capitale del Burgenland, nella parte più orientale del Paese, lo studio Pichler & Traupmann Architekten ZT GmbH ha realizzato il Culture Congress Centre, un centro congressi interamente dedicato alla cultura di Federica Calò


SCHEDA

Progettisti Pichler & Traupmann Architekten ZT GmbH Luogo Eisenstadt, Austria Tipologia Centro congressi culturale Cronologia 2009 - 2012 Superficie 3.300 m2


PROGETTO / 1

L

’inserimento urbano di questo nuovo complesso è stato concepito con l’intenzione di dare una percezione esterna come se fosse una singola entità. Quest’obiettivo è stato raggiunto realizzando un involucro in lamiera stirata tutto intorno a gran parte dell’ampliamento dell’edificio esistente, conferendo forza e compattezza alla nuova architettura, che è stata in grado di inserirsi con moderazione e coerenza nel contesto urbano esistente. L’avere rivestito l’intero edificio con uno schermo trasparente continuo ha fatto in modo che non si creasse una chiara distinzione tra la parte anteriore e la parte posteriore del complesso e, oltre a fungere

da rivestimento in facciata, l’involucro è stato pensato per essere anche utilizzato, in ogni sua parte, per la proiezione di video, permettendo di sfruttare tale spazio anche durante l’estate come auditorium o come cinema all’aperto. L’effetto suggestivo delle pareti in facciata è dato anche da sottili elementi verticali anteposti alle vetrate che danno trasparenza all’edificio e permettono, per quasi tutta la sua estensione, la visibilità degli interni da parte dei fruitori che passeggiano sullo spazio aperto della piazza antistante. Schubertplatz - il nome della piazza su cui si affaccia la nuova architettura - infatti fluisce all’interno dell’edificio stesso rendendolo parte dello spazio pubblico, mentre per gli spettatori che

si trovano al di fuori, il foyer si rivela come un luogo d’incontro tra l’esterno e l’interno, nonché spazio d’interazione sociale. La piazza scivola nell’edificio mediante un percorso di rampe e scale pensili che parte dal piano terra della strada antistante. Questo elemento di connessione è parte integrante dell’edificio ed è stato anche un contributo per migliorare la circolazione urbana di questo quartiere della città, rendendo più agevole il collegamento fra il posteggio auto posto a un lato della piazza e l’ingresso al centro culturale nel lato opposto. La nuova passerella realizzata sulla facciata verso la strada principale si aggancia ai punti spaziali e strutturali di collegamento esistenti, entra nell’edificio e

Vista dell’ingresso principale del centro culturale interamente realizzato in vetro e sovrastato da un volume irregolare a sbalzo che fa anche da copertura allo spazio immediatamente adiacente all’accesso sulla piazza antistante


MODELLO IN 3 D


PROGETTO / 1 SEZIONE LONGITUDINALE

SEZIONE TRASVERSALE

LA PIAZZA FLUISCE ALL’INTERNO DELL’EDIFICIO CHE DIVENTA PARTE INTEGRANTE DELLO SPAZIO PUBBLICO

Le linee nette e regolari della scalinata, che conduce i fruitori dalla piazza antistante all’atrio del piano superiore, interrompe la linearità della facciata composta di lastre in vetro e listelli verticali 40 DESIGN +

si allarga a imbuto verso l’atrio al piano superiore. Il nuovo ingresso principale, posto al di sotto di questa passerella, è concepito quindi come superficie coperta. Nella sua interezza, il complesso si sviluppa su una superficie totale di 3.300 metri quadrati dislocati su più livelli. La sala plenaria, la più grande delle tre, ha una capacità massima di contenimento di 659 persone e, oltre al foyer che è in grado di contenere fino a 720 ospiti, sono presenti altre due sale per eventi, rispettivamente da 244 e 354 posti. Queste metrature sono distribuite su differenti volumi frammentati tra loro che contengono, al piano terra, le funzioni del nuovo foyer, del guardaroba, delle biglietterie e del bookshop, mentre al

piano superiore sono localizzati il nuovo bar e le sale per le conferenze. Alcuni spazi interni sono stati organizzati con un’elevata flessibilità lasciando ampie metrature libere per permettere di ospitare eventi e manifestazioni di vario genere, mentre altri spazi del centro culturale sono stati maggiormente caratterizzati esaltando, con la scelta dei materiali e delle cromie, la presenza di qualche elemento strutturale lasciato a vista. Alcune superfici, per esempio, assumono l’aspetto di piani sfaccettati e poliedrici dai colori sgargianti. Parte di esse sono state interamente rivestite da listelli di legno chiaro, altre dipinte da motivi particolari che richiamano dipinti o semplici segni grafici. In queste superfici



La sala plenaria, la piÚ grande delle tre, ha una capacità massima di contenimento di 659 persone. La rete metallica, accostata a un’illuminazione colorata, ricrea giochi di luci e ombre particolari



PROGETTO / 1 PIANTA TERZO LIVELLO

PIANTA SECONDO LIVELLO

PIANTA PRIMO LIVELLO

PIANTA PIANO TERRA

PIANTA LIVELLO -1

PIANTA LIVELLO -2

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ALCUNI SPAZI INTERNI SONO STATI ORGANIZZATI CON FLESSIBILITÀ, LASCIANDO AMPIE METRATURE LIBERE PER PERMETTERE DI OSPITARE EVENTI DI VARIO GENERE variegate, assume particolare ruolo l’illuminazione che va a sottolineare le forme geometriche che rivestono questi spazi. Fasci di luce fuoriescono dalle fessure create dal legno di rivestimento e vanno a sottolineare la regolarità delle superfici. Gli ambienti che caratterizzano maggiormente questo centro culturale sono le tre sale destinate agli eventi e agli spettacoli. I materiali utilizzati, poveri ma al tempo stesso di forte presenza scenica, sono stati in grado di regalare effetti particolari, resi ancora più suggestivi dall’utilizzo di un’illuminazione colorata. Una rete metallica, che come primo scopo serve a occultare tutta la parte impiantistica posta sull’intera superficie dei soffitti e lungo le pareti, contribuisce, inoltre, a migliorare il riverbero e la diffu-

sione dei suoni all’interno della sala, requisito fondamentale per gli spazi pensati per ospitare anche manifestazioni musicali. La trama finemente forata della rete metallica posizionata in modo da creare piani sfaccettati, accostata a un’illuminazione colorata, ricrea giochi di luci e ombre particolari. In tutte e tre le sale è presente un forte richiamo alle forme geometriche scomposte e irregolari. Lo stesso elemento si ritrova anche nei percorsi di connessione e negli spazi comuni destinati ai servizi ricreativi. Il senso di irregolarità che si percepisce dall’alto e dal contesto intorno si contrappone alla linearità e semplicità delle superfici che rivestono gran parte dei pavimenti, caratterizzati prevalentemente dal colore bianco.

In alto: una delle sale più piccole rivestite da listelli di legno e fasci di luci rettilinei. Sopra: l’inquadramento in planimetria del centro culturale rispetto al complesso urbano esistente DESIGN + 45


PROGETTO / 1

Sopra: vista di uno spazio interno di servizio. In particolare, dell’ambiente che si sviluppa tra l’esterno delle tre sale e la facciata interamente vetrata. Sotto: vista di un render dell’esterno che dimostra la complessità dei diversi livelli dell’edificio e l’integrazione fra i diversi volumi

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Sopra: vista di uno degli spazi espositivi dove sono visibili le ampie luci che donano flessibilitĂ e libertĂ di allestimento agli eventi che temporaneamente occupano le sale. Sotto: vista di una delle scalinate interne, con parapetti in vetro, che collegano i diversi livelli

DESIGN + 47


PROGETTO / 1

Alcuni spazi interni sono stati organizzati lasciando ampie metrature libere per permettere di ospitare eventi di vario genere, altri invece sono stati caratterizzati esaltando, con la scelta dei materiali, la presenza di qualche elemento strutturale lasciato a vista 48 DESIGN +


DESIGN + 49


PROGETTO / 2

ARCHITETTURA E ARTE

Londra, città vivace e culturalmente attiva, già da molti anni ha l’humus giusto per far crescere in simbiosi arte e architettura. E ora si aggiunge un altro centro propulsore: la Serpentine Sackler Gallery. Un centro dedicato all’arte, strettamente legato alla Serpentine Gallery di Iole Costanzo


SCHEDA

Progettisti Zaha Hadid Architects Luogo Londra Restauro Liam O’Connor Architects Illuminotecnica Isometrix Superficie 1566 m2 Dimensioni altezza 8.95m il punto piÚ alto


PROGETTO / 2

U

na santa barbara napoleonica, ex polveriera, in stile palladiano del 1805 è stata recentemente riaperta al pubblico londinese. Oggi è una nuova galleria - centro culturale, Serpentine Sackler Gallery, a cui sono stati aggiunti ulteriori 900 mq. Il progetto è stato curato dall’architetto anglo iracheno Zaha Hadid. Questa storica e anche nuova struttura si trova sulla West Carriage Drive in una posizione di rilievo all’interno dei giardini settecenteschi di Kensigton Gardens, a soli sette minuti di distanza dalla nota Serpentine Gallery Pavillon (la celebre galleria nota anche per l’annuale cambiamento della struttura temporanea secondo il progetto di famosi architetti). La Serpentine Sackler Gallery, un padiglione stabile dall’aspetto effimero, che si attesta sull’antico manufatto rispettandone la struttura e creando una continuità armonica con esso e con i giardini circostanti, entrerà a far parte di un circuito di arte e architettura contemporanea.

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La copertura del nuovo manufatto, che integra la costruzione originale in mattoni, è una sinuosa tensostruttura, realizzata con una membrana tessile in fibra di vetro, tirata e montata su un anello ondulato realizzato in acciaio

LA COPERTURA PRESENTA UNA SUPERFICIE SENZA SOLUZIONE DI CONTINUITÀ, CHE IN VARI PUNTI SEMBRA GONFIARSI E SFIORARE TERRA

Lo spazio deve il proprio nome a Dr Mortimer e Dame Theresa Sackler, perché la loro fondazione ha sovvenzionato l’intero progetto con una eccezionale donazione mai ricevuta prima dalla Serpentine Gallery nei suoi 43 anni di storia. Il progetto di trasformazione in spazio pubblico è stato avviato nel 2010 e la gara indetta dal Royal Parks è stata vinta dalla Serpentine Gallery, la principale curatrice del restauro. La nuova estensione, il corpo aggiunto, ha una base trasparente e una copertura sinuosa opaca, capace di integrare la costruzione storica generando una sintesi armonica tra moderno e antico che lascia libere le relazioni tra il manufatto classico del diciannovesimo secolo, realizzato in laterizio, e la nuova tensostruttura. La particolare copertura sinuosa, realizzata con una membrana tessile in fibra di vetro, tirata e montata sulla struttura ondulata, è posta a protezione del nuovo ambiente: 900 mq di ampliamento pensati per diventare parte integrante dell’ex-deposito regio, da sempre noto in città con il nome



PROGETTO / 2 di “The magazine”. All’interno le particolari cinque colonne, che collaborano a sorreggere la tenso-copertura, hanno anche funzione di fonte luminosa e di punti focali della geometria interna. L’effetto finale è di leggerezza. Anche perché gli ambienti sottostanti tamponati unicamente con il vetro amplificano l’effetto di sospensione della copertura che sembra reggersi sui punti di appoggio a terra. All’interno della storica preesistenza i due spazi voltati e circondati da un colonnato quadrato, e recentemente restaurati, contenevano la polvere da sparo. Ora, ripuliti e trasformati sono diventati sale espositive

Sotto e nella pagina a destra: parte delle gallerie restaurate dell’ex polveriera napoleonica. I mattoni risalenti al 1800 sono stati ripuliti dall’intonaco e riportati a giorno ottenendo un risultato dai colori morbidi

SCHEMA COSTRUTTIVO

MEMBRANE DI COPERTURA

RIVESTIMENTO FRP

ALETTE DI VETRO

VETRI

destinate a ospitare le opere di artisti internazionali. L’ampliamento della Sackler Gallery è completamente illuminato. È inondato di luce grazie ai lucernari posti in copertura ma anche grazie alla parete di vetro, senza telaio, che circonda lo spazio interno, la sala ristorazione, in cui è stata anche organizzata la cucina a isola e un bancone bar accostato al lungo muro di mattoni dell’edificio storico. Il nuovo manufatto e la preesistenza offrono gallerie espositive e spazi per la socialità con caffetteria/ristorante. La Serpentine Sackler Gallery sarà uno spazio stabile in cui accogliere l’arte contemporanea e realizzare nuove idee con artisti internazionali. 54 DESIGN +

PILASTRI D’ACCIAIO

LA SERPENTINE SACKLER GALLERY, AMPLIA L’ANTICO MANUFATTO RISPETTANDONE LA STRUTTURA E CREA CONTINUITÀ CON I GIARDINI CIRCOSTANTI

ANELLO D’ACCIAIO

FONDAZIONE



56 DESIGN +


Una foto notturna dell’esterno della Serpentine Sackler Gallery, il 28 settembre scorso, giorno dell’inaugurazione. Nonostante l’aspetto di struttura temporanea è un padiglione permanente di 900 mq

DESIGN + 57


PROGETTO / 2 BASAMENTO

PIANTA PIANO TERRA

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3

1. ambiente; 2. impianto idrico; 3. impianti elettrici; 4. impianto di condizionamento; 5. cabina; 6. corridoio; 7. vano di servizio; 8. deposito forniture; 9. materiale da cucina; 10. spogliatoio; 11. attrezzature per cucina; 12. armadio detergenti; 13. ascensore; 14. montacarichi; 15. wc

1. ingresso; 2. punto vendita ovest; 3. punto vendita est; 4. ristorante; 5. galleria; 6. toilet corridoio; 7. spogliatoio bimbi; 8. wc uomini; 9. wc donne; 10. wc disabili; 11. saletta; 12. stoccaggio; 13. corridoio di servizio; 14. uffici; 15. lavanderia; 16. stoccaggio; 17. cabina elettrica; 18. ascensore

COPERTURA

MODELLO ISOMETRICO DEL MODELLO

1

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1. lampeggiante; 2. lucernaio; 3. anello di testa della colonna; 4. staffa orizzontale; 5. staffa verticale; 6. lamiera esterna di acciaio; 7. piastra; 8. piastra rinforzata con fibra; 9. piastra di base


DETTAGLIO STRUTTURA

DETTAGLIO COPERTURA

1 1 2 2

3 4

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7

RISTORANTE

RISTORANTE

GALLERIA

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11

1. membrana esterna; 2. isolamento termico; 3. membrana interna; 4. testa in acciaio inox; 5. vetri lucernario; 6. tubo fluorescente; 7. muro di mattoni esistente; 8. fascia d’acciaio; 9. staffa di serraggio per membrana esterna; 10. trave in acciaio; 11. staffa di serraggio per membrana interna

12 9

1. membrana esterna; 2. isolamento termico; 3. trave; 4. staffa per membrana esterna; 5. rivestimento esterno; 6. staffa per membrana interna; 7. parete di vetro; 8. vetro strutturale; 9. ghiaia e resina; 10. testa in acciaio; 11. grata di areazione; 12. tubo fluorescente

SEZIONE LONGITUDINALE

DESIGN + 59


LA SERPENTINE GALLERY È STATA ORGOGLIOSA DI OSPITARE NELLA SUA AREA UN SEGNO DI HADID, CHE È ANCHE IL SIGILLO DEL SUO IMPEGNO DI COLLABORAZIONE CON ARCHITETTI DI PRIMO PIANO NELLA SERIE DEI PADIGLIONI ESTIVI

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All’interno del nuovo corpo è stata organizzata una sala ristorante e un bar. Il bancone si attesta sulla parte che i due manufatti condividono. Lo spazio è scandito da cinque pilastri che sorreggono la copertura, con una duplice funzione: portante e illuminante

DESIGN + 61


PROGETTO / 3

A CONTATTO CON LA LAGUNA Il contributo di un progetto architettonico, se reso visibile su un normale edificio industriale o commerciale, può assumere una particolare rilevanza. Soprattutto se presenta intensi connotati espressivi. In grado di imprimere al paesaggio circostante una forte caratterizzazione di Federica Calò

È

il caso della nuova Coop di Orbetello, il piccolo comune toscano situato nel pieno centro della laguna della Maremma grossetana. Progettato dallo Studio Giorgieri di Firenze, il nuovo supermercato è stato in grado di reinterpretare le caratteristiche morfologiche di questo paesaggio e trasferirle nel progetto dell’edificio stesso, sfruttando l’opportunità di poter riqualificare questa zona della città, ma al tempo stesso rispettandola, perché fortemente connotata da elementi naturali da preservare. L’aspetto ambientale, infatti, è proprio quello che ha generato la forma di questo particolare edificio. Situata nella parte della città che si collega alla terraferma, la nuova Coop è stata realizzata tra un’area di espansione residenziale e la laguna stessa, diventando, così, un elemento di filtro e mitigazione tra l’ambiente urbano e quello naturale. Un ruolo anomalo affidato a un centro commerciale di media vendita, che generalmente è visto come un elemento architettonico di scarsa qualità ambientale. In questo caso, invece, la sfida era proprio quella di affidare a una funzione attrattiva, che solitamente non viene valorizzata, un ruolo di rigenerazione urbana e anche ambientale. Il rivestimento del volume in listelli in le-

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Vista del centro commerciale dal lato del suo ingresso. La forte espressività del rivestimento di legno avvolge l’intera architettura ed esplode nel punto della torre, e rende visibile il supermercato anche in lontananza, connotandolo come simbolo identificativo

LA TORRE È STATA REALIZZATA COME SPAZIO PUBBLICO E OSPITA ATTIVITÀ SIA ATTRATTIVE CHE RICREATIVE

SCHEDA

Progettisti Studio Giorgieri Luogo Orbetello, Italia Tipologia Centro Commerciale Committente UNICOOP Tirreno



PROGETTO / 3


Il rivestimento in listelli di legno prosegue anche sulla copertura del centro commerciale, dove è stato ricreato un percorso sopraelevato che permette una piacevole vista sulla laguna di Orbetello

gno, che dà forma all’ingresso e si estende per tutto il corpo dell’edificio, elemento caratterizzante di tutto il supermercato, è ispirato alla verticalità delle canne lacustri e alle loro cortine vegetali e, come queste, genera una permeabilità visiva dall’interno e dall’esterno. Scelta progettuale insolita per un supermercato, in grado di creare, nei fruitori che si accingono a entrare, una percezione di appartenenza alla laguna stessa anche dall’interno di un luogo puramente commerciale. Il particolare rivestimento in lamelle di legno permette ai

fruitori del supermercato di praticare anche un’attività anomala per una tale funzione, quella del birdwatching, resa possibile grazie alle finestre a bilico aperte sul lato verso l’Oasi della Laguna, che dista solo poche centinaia di metri. L’edificio si presta a essere come un gioco, anche grazie ad alcuni elementi che gli permettono di diventare interattivo con i fruitori: i listelli di legno presenti come rivestimento, sono stati riproposti, infatti, anche sul tetto del corpo longitudinale del supermercato e funzionano da per-


PROGETTO / 3

Sopra: altri dettagli dell’ingresso dell’edificio, caratterizzato da una forma a imbuto che convoglia i fruitori verso l’interno. Sotto: vista del corpo longitudinale dal lato del parcheggio verso la laguna. In alto, a destra: dettaglio delle finestre a bilico aperte, che permettono di praticare il birdwatching verso l’Oasi della Laguna


corso e passeggiata sopraelevata che permette una piacevole vista sulla laguna di Orbetello. La torre, inoltre, che conclude il corpo architettonico verso strada, è stata immaginata e realizzata come uno spazio pubblico, parte del centro commerciale, ma al tempo stesso rimane un’entità a sé, ospitando varie attività attrattive e ricreative anche separatamente dall’orario di servizio del supermercato. L’articolato volume dell’ingresso si giustappone, con il suo disegno e la sua “pelle”, al semplice corpo dello spazio di vendita e di deposito. Lo spazio di transizione tra l’edificio e il bordo lagunare è invece occupato dal parcheggio verde che termina con una duna pensata sia per mitigare la vista del centro commerciale dalla laguna sia per lasciare una zona di “rispetto” destinata alla pista ciclabile che corre lungo il bordo della laguna stessa. Visto il valore altamente naturalistico del sito, oltre alla parte strutturale in legno di cui è composto il volume, all’ingresso e ai rivestimenti in materiale di riciclo per la

parete ventilata del blocco vendita, anche per quanto riguarda la parte impiantistica del supermercato sono state utilizzate tecnologie di “energy saving”. Tra queste, frigoriferi a chiusura e luci interne ad abbassamento o innalzamento automatico dello spettro luminoso che lavorano in sintonia

con la presenza o meno della luce naturale. Anche questo è un elemento insolito in una struttura puramente commerciale. Struttura che gode del vantaggio dell’ingresso della luce naturale che penetra attraverso le aperture a shed posizionate sulla copertura.

LA COOP, REALIZZATA TRA UN’AREA DI ESPANSIONE RESIDENZIALE E LA LAGUNA, DIVENTA UN ELEMENTO DI FILTRO TRA L’AMBIENTE URBANO E QUELLO NATURALE


PROGETTO / 3 PIANTA PIANO TERRA

VISTA VOLO D’UCCELLO DALLA LAGUNA

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PLANIMETRIA GENERALE DELL’AREA D’INTERVENTO

Canale navigabile Barriera vegetale piantumata

PROSPETTO EST

PROSPETTO NORD

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ESPERIENZE CREATIVE

L’idea di Lettera a un Architetto nasce da una conversazione con giovani laureati che mi chiedevano (per la mia esperienza), con quale fine si pone il nostro mestiere, quale ruolo potesse avere ancora una professione ambigua come la nostra, divisa tra tecnica, storia e “artisticità”. Mi sono deciso, al fine di lasciare traccia di quella conversazione, di mettere in ordine qualche idea cercando di dare un filo logico al discorso, con molti riferimenti, qualche problema e qualche consiglio. Ho perciò provato a dare spiegazione prima a me, come consuntivo di ciò che mi ha aiutato a sopravvivere in questa faticosa esperienza; poi ho cercato di svolgere una cronologia di come a mio avviso si sono svolte le cose da alcuni millenni ad oggi, constatando che l’evoluzione dell’Architettura più che di molte scienze, si è sviluppata per necessità obiettive legate alla vita quotidiana e ai bisogni che, con lo svilupparsi della civiltà, esigevano soluzioni sempre più funzionali, ai quali si univa un nuovo senso della vita, legato al desiderio di “qualità” che di generazione in generazione, cresceva in relazione con i bisogni essenziali. Ho azzardato una ipotesi tutta riferita a quella “umanità” che accompagna le scelte, convinto che anche un sentimento odioso come l’invidia, può aver contribuito alla crescita dei valori estetici. Magica parola perché, come il piacere unito al bisogno di sopravvivenza dell’umanità abbia aiutato la qualità nel rapporto amoroso, così in Architettura la competitività, l’invidia e altro, hanno accelerato l’evoluzione della forma. Ci sono voluti millenni perché solo nell’800 fosse chiaro che si erano sviluppati due motivi plausibili nell’evoluzione degli stili, legandoli alle esigenze di funzionalità e di linguaggio. L’Architettura era di fatto diventata il metro di giudizio della cultura della

società, individuando la tipologia umana dalla volontà di esprimere le necessità con il massimo del rigore, diremo oggi proletario e repubblicano contrapposto al desiderio di privilegiare l’apparire a quello dell’essere. Tra questi due valori nella loro contrapposizione, si sono raffinati nei secoli due modi di esprimere la forma; di fatto selezionando “parole” più vicine alle necessità, alla loro indispensabilità, contrapponendole all’inutile, al superfluo o al sublime. L’Architettura rincorrendo speranze linguistiche nella “fantasia” o nei valori legati ai contenuti morali, è riuscita ad orientare la politica, perché con il suo indispensabile servizio alla società ha preceduto lo sviluppo della cultura influenzando la politica e producendo orientamenti e movimenti che hanno cambiato il corso dei secoli. Nella mia “Lettera”, sono riportati diversi esempi che chiariscono come tutto ciò possa essere accaduto, fino a configurare una unione, un legame indissolubile fra artisticità e tecnica. Si arriva all’epoca dei “lumi”, al rifiuto razionale del barocco, alla Rivoluzione Francese e al puro classicismo che recupera l’antichità più perfetta. Da quel momento niente più potrà essere come prima anche se la restaurazione delle cattive coscienze, preme e cerca di farsi largo. Siamo arrivati alla fine dell’800 dove le “parole” erano diventate talmente complesse e numerose che gli stili furono offerti ai progettisti confezionati in “baedeker” dove si raccoglievano frammenti (portoni, finestre, scale, ecc) delle diverse culture. La materia, la struttura, la funzione erano lasciate allo scheletro in muratura, mentre tutto il “decoro” era affidato al “bon ton” del progettista. Pur nell’eclettismo dei riferimenti, l’Architettura di quegli anni aveva saputo connotare dignitosamente il tessuto urbano anche contrapponendo stili diversi, rispettando però altezze, allineamenti stradali e materiali di costruzione in modo da realizzare armonia senza prevaricazioni. All’inizio dell’Ottocento il vecchio mondo andò in crisi per molte ragioni: la nascita di una coscienza nuova con la scoperta di valori

sociali frutto delle grandi rivoluzioni proletarie introdotte dal pensiero di Hegel, Engels e Marx, imponendo nuovi contenuti politici ed estetici. “L’Estetica” di Hegel, e “Il Capitale” di Marx, offrirono nuove opportunità di riflessione; in sintesi recuperarono il sano principio di funzione, utilità e qualità della forma, escludendo il superfluo attraverso il quale era stata coperta per secoli la semantica della forma. In tal modo fu restituito a ogni oggetto il suo valore estetico letto attraverso la ragione e una concezione del bello prodotto dal fascino della macchina e dall’essenzialità delle nuove tecnologie. Si era recuperato un valore importante, legato alle indicazioni politiche di quegli anni; ma anche alla cultura, alle tesi espresse da Freud, Jung e De Saussure, per i quali l'espressione era contenuta tutta nel particolare, nella unicità dei caratteri umani. L’elenco imponeva una nuova procedura progettuale attuata per mezzo dell’articolazione delle funzioni nello spazio utilizzando la struttura: a ogni tipologia, doveva corrispondere una diversa tipologia strutturale. Fu allora che la politica e la società riequilibrarono i valori contrapposti al potere economico, restituendo dignità all’uomo come individuo inteso come parte della collettività. Ciascuna di queste tesi consolidò una rete di valori nuovi: dalla letteratura alla musica; dalle arti figurative all’analisi dell’io; tutto in pochi anni, concorse a trasformare il mondo così com’era stato vissuto e letto fino allora e nel quale le azioni si potevano muovere in spazi riservati a limitate aree sociali. Anche l’Architettura fu coinvolta dal nuovo modo di vivere la cultura del proprio tempo, prima con timidi approcci alle novità per poi consolidarsi attraverso le esperienze di quei pochi architetti, pittori e poeti che si aprirono ad una originale visione del mondo. Avendo vissuto in quegli anni e avendone assorbito i contenuti etici, ho potuto raccontare il mondo e le ragioni delle mie scelte e l’ho fatto non come esempio ma per trasmettere il travaglio di un giovane architetto che prendeva coscienza del suo ruolo.

NICOLA PAGLIARA Nei primi anni di professione ha progettato la centrale telefonica di Benevento. I suoi riferimenti resteranno per tutta la vita i grandi maestri americani e tedeschi e sarà attratto in particolare dalla scuola di Wagner e dalla scuola di Chicago. Nel 2013 ha pubblicato Lettera a un Architetto, edito da Giannini. 70 DESIGN +

SCHEDA

PENSIERI INTORNO ALL’ARCHITETTURA


Università di Bologna - Facoltà di Giurisprudenza

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PROFESSIONAL SERVICE

Architettura e design a scala ridotta, come strumento per la comunicazione del prodotto industriale. Questa la filosofia progettuale di Arredart Studio


Nella foto: allestimento per ICE, Istituto Commercio Estero, Maison & Objet 2010

PENSO PROGETTO MOSTRO


U

PROFESSIONAL SERVICE Sotto: allestimento per ICE, Istituto Commercio Estero, Maison & Objet 2010. A destra: esempio di allestimento dove l’architettura, la grafica e il design colpiscono il pubblico e lo invitano a entrare e conoscere il prodotto esposto. Allestimento per la manifestazione Zoomark 2013, Bologna. A destra, in basso: un altro stand realizzato alla manifestazione Zoomark 2013, Bologna

n vecchio detto “chi non mostra non vende”, racchiude un concetto che, a partire dalla metà del 1800 ad oggi, ha dettato mode e tempi delle esposizioni e del relativo linguaggio che sono valide ancora oggi, in una società nella quale la comunicazione visiva e l’immagine determinano buona parte del successo di un prodotto. I primi esempi moderni di esposizioni iniziano nella seconda metà del XIX secolo a partire dall’esposizione universale di Londra del 1851 e da quella di Parigi nel 1855. Con il passare del tempo, le esposizioni diventeranno sempre più importanti, trasformandosi ben presto in un riferimento e influenzando numerosi aspetti della società dell’epoca quali l’arte, il commercio, le relazioni internazionali. In Italia, già nel 1881 viene sperimentata la prima esposizione, che poi diventerà campionaria nel 1920 a Milano, dove 1200 espositori, di cui 256 esteri, per la prima volta esporranno in spazi definiti e personalizzati per i propri prodotti.

Si assiste pertanto alla nascita dell’allestimento fieristico come vera e propria architettura fatta di arte, espressione di emozione volta a valorizzare il prodotto esposto. Anche se temporaneo, si tratta di uno spazio progettato e organizzato allo scopo di dare importanza al prodotto in maniera tale da valorizzarne l’aspetto estetico e la sua funzione, stimolare quella risposta che ci si attende dal pubblico affinché esso varchi la soglia dello stand per entrare in contatto con il prodotto in maniera più completa e cogliere il suo valore. Da allora sino a oggi, il concetto e l’obiettivo dell’esposizione non sono cambiati, ma si sono evoluti, subendo forti accelerazioni, facendo diventare l’allestimento espositivo un territorio di lavoro per architetti e designer i quali, introducendo nuove forme di linguaggio architettonico ed espositivo, rendono il campo dell’allestimento un vero e proprio laboratorio sperimentale. Costretti a rispondere a innumerevoli e complesse richieste dai più svariati ambiti merceologici, ci si trova a costruire e mettere in scena vere

ARREDART STUDIO SRL FORNISCE ANCHE ATTIVITÀ DI CONSULENZA NELL’AMBITO DELLA COMUNICAZIONE CON L’IDEAZIONE DI IMMAGINI, TESTI E OGGETTI PUBBLICITARI

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PROFESSIONAL SERVICE e proprie rappresentazioni del vivere quotidiano. Pur derivando dal mondo della progettazione architettonica, l’allestimento degli spazi espositivi, ha regole e intenzioni proprie. Nella progettazione possiamo seguire due vie: una, più applicata all’organizzazione spaziale e al dettaglio tecnico dove si punta a valorizzare il prodotto industriale collocandolo all’interno dello spazio sfruttandone le sue caratteristiche estetiche, l’altra che riunisce design, architettura e grafica, più libera ed espressiva al fine di colpire il pubblico e indurlo a scoprire il prodotto racchiuso e custodito nell’architettura. Gli spazi rappresentativi delle aziende e dei propri prodotti si cuciono addosso ad esse, rappresentandole in tutto e per tutto e facendo trasparire le filosofie e i concetti di vita e lavoro. Allestire è una disciplina che spesso nasconde, dietro l’immediata intuizione e la rapidissima esecuzione, profondità di pensiero e capacità sintetica di rappresentazione. Accanto a questo processo produttivo ci sono delle figure imprescindibili. La prima è l’azienda produttrice, il cliente, sempre più fonte di ispirazione e di richieste innovative; la seconda è l’azienda allestitrice, colei che per prima ha creduto in questo processo di crescita, adattandosi e assecondando le più varie e bizzarre richieste dei progettisti e delle aziende, investendo in tecnologia, ricerca e manodopera specializzata, creando dei veri e propri team di progettazione interni, capaci di risolvere problemi e proporre soluzioni alternative in tempo reale. È sull’onda di questo spirito che nel 1968 nasce Arredart Studio sas fondata dagli architetti Marco Cesari e Lucio Lanzarini, che insieme iniziano a sviluppare e realizzare i primi allestimenti specializzandosi nel settore merceologico delle calzature, con la realizzazione di stand in fiere nazionali e internazionali. Spinta da un forte successo l’azienda si sviluppa rapidamente ottenendo un immediato riscontro dalle aziende produttrici che sempre di più puntano all’esposizione fieristica del loro prodotto. Nel 1981 le strade dei fondatori si separano, nasce Arredart Studio SaS guidata dall’architetto Marco Cesari, il quale indirizza l’attività nel settore degli allestimenti fieristici e dell’arredamento su misura, stimolato dalla presenza di numerevoli clienti importanti come Brass, Tuborg, Goldwell, Polli, ISA, Elveca e tanti altri. Negli anni 90, quando il tessuto economico ha permesso sviluppo e innovazione, l’azienda si espande, amplia i propri magazzini, il numero di dipendenti e il parco mezzi, arrivando a circa 10mila mq di stabilimento e 55 dipendenti. In questi anni avviene il passaggio generazionale

e l’azienda nel 1991 diventa Arredart Studio Srl guidata sino ad oggi dall’architetto Marco Cesari e dal figlio Simone Cesari che insieme a un numeroso staff di collaboratori portano l’azienda ai vertici nel settore. Allora come oggi, durante questi quarant’anni di lavoro, la missione è stata quella di fornire idee per migliorare la comunicazione, trasformare le idee in progetti cercando di valorizzare il prodotto e l’azienda espositrice. Un percorso lungo durante il quale Arredart Studio Srl si è adeguata ai tempi ampliando le proprie competenze e sviluppando diverse eccezionalità in ambito progettuale, produttivo e realizzativo. Il processo produttivo di Arredart Studio Srl inizia con la progettazione architettonica di allestimenti fieristici personalizzati, proseguendo nella preventivazione e ingegnerizzazione del progetto, fornendo al cliente un prodotto a noleggio “chiavi in mano”. Arredart Studio Srl fornisce ai propri clienti anche attività di consulenza nell’ambito della comunicazione attraverso l’ideazione di immagini, testi e oggetti pubblicitari, ideati e sviluppati da un reparto grafico all’avanguardia sia dal punto di vista professionale sia tecnologico. La produzione è suddivisa nei vari reparti di preparazione, vetreria, elettrico, carpenteria, verniciatura e laccatura, mobili e falegnameria. È sfruttando questa ampia struttura che tutti i componenti degli allestimenti vengono predisposti e interamente rifiniti ogni volta in fabbrica prima di essere imballati e spediti in fiere dislocate in tutta Europa, dove maestranze altamente specializzate assemblano, tinteggiano e rifiniscono l’allestimento con precisione, garantendo tempi certi di consegna al cliente. Oggi, come sappiamo, la crisi finanziaria già da qualche anno si è abbattuta sull’economia reale, mettendo in difficoltà il sistema industriale del nostro Paese. In questo contesto storico, dunque, per le imprese è diventato più che mai fondamentale esporre e proporre i propri prodotti attraverso dinamiche espositive nuove e flessibili. Arredart Studio Srl, con la sua storia e la cultura professionale acquisita negli anni, si colloca in questo periodo come la soluzione certa e decisiva a queste dinamiche, con la consapevolezza che le aziende devono continuare a investire in fiere ed esposizioni per raccogliere e vincere le sfide di mercati sempre più complessi e competitivi. (testo: arch. Federico Sanmarchi e arch. Fabrizio Batoni)

A sinistra: allestimento per ICE, Istituto Commercio Estero, Maison & Objet 2010. Sotto: esempio in cui il prodotto collocato nello spazio personalizza l’allestimento. Realizzazione per la manifestazione Host 2011, Milano

ARREDART STUDIO SRL via Rigosa 40, Zola Predosa, Bologna tel. +39 051 752261 / fax. 051 758859 info@arredart.it - www.arredart.it DESIGN + 77


PROFESSIONAL SERVICE

MAGGIORE TECNOLOGIA PER CASE PIÙ INTELLIGENTI

I VANTAGGI DI UNA COLLABORAZIONE TRA ARCHITETTI E CONSULENTI DOMOTICI NELLA FASE DI PROGETTAZIONE. NE PARLIAMO CON L’INGEGNERE GABRIELE TASSONI Grazie alla tecnologia una casa può diventare talmente intelligente e affidabile da essere capace di reagire in maniera automatica a fughe di gas e acqua, ponendo l’impianto elettrico in uno stato in cui non possa creare danni a cose e persone e riarmandolo in automatico quando il pericolo è passato. La tecnologia può renderla più confortevole, automatizzando in maniera trasparente tutta una serie di rituali fatti di accensioni, spegnimenti e impostazioni che ci troviamo a eseguire continuamente, sempre uguali, nell'uso giornaliero della casa.

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Inoltre, può rendere l’abitazione sempre più efficiente energeticamente, gestendo in automatico i carichi o i condizionamenti in modo da distribuirli nella giornata o scollegandoli quando non necessari. Si sfrutta così sempre meno energia in modo da rendere l'integrazione con le energie rinnovabili sempre più funzionale. La domotica è lo studio e l’applicazione delle tecnologie in grado di trasformare le nostre case in abitazioni più sicure e più intelligenti. «Quando insegnavo all’università - racconta l’ingegner Gabriele Tassoni, uno dei fondatori di

Taris, azienda bolognese che si occupa di domotica - ero solito introdurre il corso di integrazione e controllo nella domotica spiegando che questa scienza è una materia strana. Di per sé esiste come punta dell’iceberg che si appoggia su propedeuticità molto vaste». Gabriele Tassoni è un consulente domotico, figura fondamentale a cui affidarsi per trasformare la propria abitazione, migliorandone il comfort e la sicurezza e, di conseguenza, migliorando anche la qualità della propria vita. «Ogni volta che approccio


malfunzionamento. L’aiuto deriva dal fatto che spesso il lavoro dell’architetto esula dalla conoscenza specifica dei pro e contro di ogni tecnologia scelta. «Il mercato - spiega Gabriele Tassoni - si evolve continuamente e qualcuno che possa rendere più semplice l’integrazione di tecnologia nel progetto architettonico, semplificando le interazioni fra impianti, porta sicuramente a una più facile simbiosi fra architettura e controllo». Dei vari errori facilmente riscontrabili in tanti impianti esistenti, il più grave è l’inaffidabilità. Per esempio, si vedono ancora case progettate con domotiche centralizzate, per gestire ogni parte

della costruzione. «Se in un primo momento e da parte di un occhio inesperto questa può sembrare una semplificazione, in realtà è uno degli errori peggiori che si possono fare. Tuttora vedo molti impianti progettati con questa idea. Il problema è che se l’unità centrale smette di funzionare, tutta la casa smette di rispondere ai comandi dell’inquilino, generando situazioni che vanno dal fastidioso al pericoloso». Un’altra problematica che chi non è esperto di solito si porta dietro è quella che riguarda l’uso di marche piuttosto che di protocolli. «Perché una casa mantenga affidabilità nel lungo periodo, non si può pensare di legarsi a marche commerciali, in quanto queste possono fallire o più semplicemente decidere che una tecnologia o parte di essa non venga più prodotta per ragioni commerciali, lasciando così l’inquilino della casa senza ricambi o alternative. La trappola qui è facilmente individuabile. Se il consulente propone marche specifiche, spesso non è un buon consulente o è un commerciale di una certa casa costruttrice, il cui obiettivo non è quello di ottenere il miglior impianto, ma di vendere quanta più tecnologia marchiata per ottenere provvigioni maggiori». È fondamentale quindi, per un consulente domotico, conoscere quante più tecnologie domotiche possibile, in modo da poter sempre scegliere la migliore per l'utilizzo che deve essere fatto. Bisogna conoscere nozioni che derivano dall'ingegneria informatica, elettrica ed elettronica, per poter trovare i punti di contatto fra le tecnologie proposte. Bisogna avere esperienza vasta e completa di ciò che nel mercato esiste a livello di protocolli di comunicazione, in modo da sapere quali implementare fra i diversi impianti presenti nella casa.

PRODUCTS

un nuovo progetto, - racconta Gabriele Tassoni - ci sono una serie di obblighi che tengo sempre presente: la tecnologia deve nascondere all’inquilino quanto più riesce della propria esistenza e della complessità che muove le interazioni fra i diversi impianti; deve essere affidabile nel tempo, senza legarsi a soluzioni proprietarie, ma parlare protocolli standard; deve essere aperta a integrare sempre nuove soluzioni; deve prevedere dialoghi fra protocolli allo stesso livello (orizzontali) e verso livelli superiori o inferiori (verticale), in modo da ottenere funzioni evolute inter-impianto anche se i livelli superiori (di supervisione) subiscono malfunzionamenti. Ma se i malfunzionamenti non sopraggiungono deve astrarre semplicemente ed elegantemente le funzioni complesse senza che l’inquilino debba pensare che sta vivendo in una casa domotica». La figura del consulente domotico è fondamentale anche in affiancamento agli architetti nelle fasi iniziali dei progetti, quando ancora il progettista si trova in riunione con le aziende impiantistiche. In questa fase una scelta tecnologica sbagliata si tradurrà sicuramente in un

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AN

T E P R I M A

CALATRAVA IN VATICANO

L

’esposizione propone al pubblico una raccolta di circa 140 opere per presentare la complessa e multiforme produzione artistica del celebre architetto e ingegnere di origine spagnola. Un selezionato nucleo di modelli architettonici è accompagnato non solo dai relativi studi preparatori, ma anche da dipinti ad acquerello, nati da una vena creativa del tutto autonoma dalla genesi dei progetti stessi, e da una ricca antologia di sculture, sia monumentali come di formato più ridotto, realizzate in bronzo, marmo, alabastro, legno. Gli accostamenti tra opere appartenenti a codici artistici differenti, sebbene contigui, seguono vari criteri per indirizzare lo sguardo dell’osservatore verso livelli diversificati nella lettura dei volumi architettonici, della visione dello spazio e delle forme, aspetti propri del percorso artistico di Calatrava. Il grande modello architettonico della Chiesa greco-ortodossa di St. Nicholas a New York, progettata per Ground Zero, è affiancato a suggestivi disegni ad acquerello nei quali lo sguardo dell’artista spazia dallo studio dei mosaici e delle cupole di Santa Sofia a Istanbul allo schiudersi di una camelia, dall’arco disegnato dal peso di una foglia di palma al volto di Cristo, modello ideale per la Chiesa a pianta centrale.

La splendida torsione delle vele che danno vita al progetto per il Palasport a Roma, per l’Università di Tor Vergata, è accostata a tre bellissimi dipinti di figure accovacciate: una tensione dinamica quasi inespressa, contenuta, nello studio sul bilanciamento tra le forze. La verticalità delle Torri di Malmö o di Chicago si rispecchia nell’equilibrio instabile delle sculture a esse abbinate. La riflessione sul volto umano trova compiutezza nelle rotondità delle sculture in marmo ed alabastro, nella forma racchiusa dell’Opera House di Tenerife, ovvero sembra dissolversi nella trasparenza delle superfici colorate di una serie di acquerelli geometrici. Il movimento è reale quando apre, come i petali di un fiore, le maglie che compongono due colonne tortili in bronzo. È un movimento visionario, e non per questo meno vero, nell’intreccio delle corna dei tori ammassati, nei rami secchi di un bosco senza luce o nei corpi, che con i loro gesti compongono spazi, fisici, psicologici e spirituali.

Città del Vaticano Santiago Calatrava. Le metamorfosi dello spazio Braccio di Carlo Magno (dal 5 dicembre 2013 al 20 febbraio 2014)

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MOSTRE

Considerato da alcuni il padre del fotogiornalismo, da altri colui che al fotogiornalismo ha dato una nuova veste e una nuova direzione. Robert Capa, il famoso fotografo ungherese, pur non essendo un soldato, visse la maggior parte della sua vita nei campi di battaglia, seguendo i cinque maggiori conflitti mondiali: la guerra civile spagnola, la guerra sino-giapponese, la seconda guerra mondiale, la guerra arabo-israeliana del 1948 e la prima guerra d’Indocina. Settantamila foto scattate in quasi quarant’anni di vita. Questa è l’eredità custodita a New York, all’International Center of Photography. Da questo enorme patrimonio il fratello Cornell e il biografo di Capa Whelan hanno selezionato 937 foto, tra le più caratteristiche ed importanti che hanno dato vita a tre serie identiche – le master Selection I, II e III – ognuna completa di tutte le immagini, conservate a New York, Tokyo e Budapest. L’esposizione

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di Roma presenta una selezione di 78 fotografie e racconta con scatti in bianco e nero il settantesimo anniversario dello sbarco degli Alleati. Esiliato dall’Ungheria nel 1931, Capa inizia la sua attività di fotoreporter a Berlino e diventa famoso per le sue fotografie scattate durante la guerra civile spagnola dal 1936 al 1939. Quando arriva in Italia come corrispondente di guerra, ritrae la vita dei soldati e dei civili, dallo sbarco in Sicilia fino ad Anzio: un viaggio fotografico, con scatti che vanno da luglio 1943 a febbraio 1944 per rivelare, con un’umanità priva di retorica, le tante facce della guerra spingendosi fin dentro il cuore del conflitto. Le immagini colpiscono ancora oggi per la loro immediatezza e per l’empatia che scatenano in chi le guarda. Lo spiega perfettamente John Steinbeck in occasione della pubblicazione commemorativa di alcune foto di Robert Capa “Capa sapeva cosa cercare e cosa farne dopo averlo

Fotografie di guerra

Donna tra le rovine di Agrigento, 17-18 luglio 1943 Robert Capa © International Center of Photography/Magnum Collezione del Museo Nazionale Ungherese

trovato. Sapeva, ad esempio, che non si può ritrarre la guerra, perché è soprattutto un’emozione. Ma lui è riuscito a fotografare quell’emozione conoscendola da vicino.” Ed è così che Capa racconta la resa di Palermo, la distruzione della posta centrale di Napoli o il funerale delle giovanissime vittime delle Quattro Giornate di Napoli. E ancora, vicino a Montecassino, la gente che fugge dalle montagne dove infuriano i combattimenti. E i soldati alleati, accolti a Monreale dalla gente, o in perlustrazione in campi opachi di fumo. Settantotto fotografie nelle quali l’obiettivo di Capa mostra una guerra subita dalla gente comune, piccoli paesi uguali in tutto il mondo ridotti in macerie, soldati e civili vittime della stessa strage. ROMA

Robert Capa in Italia 1943-1944 Museo di Roma Palazzo Braschi (fino al 6/1/2014)


Ryan Mendoza è un artista statunitense ma europeo d’adozione: vive infatti tra Napoli e Berlino città che, culturalmente opposte, permettono, ciascuna a modo loro, maggiore indipendenza di ricerca e sperimentazione. È considerato dalla critica internazionale una delle personalità artistiche emergenti del contemporaneo e un autentico “caso” nel panorama dell’arte di questi ultimi anni. Recupera, controcorrente rispetto alla maggior parte degli artisti contemporanei, la pittura che, corposa e materica, rivela essere il mezzo più idoneo alla sua indagine sugli stati d’animo e sulla conoscenza dell’individuo e delle sue paure. Con uno sguardo rivolto ai grandi del passato e ai miti del Rinascimento e del Barocco come Goya, El Greco, Salvator Rosa, Caravaggio, Gericault o Delacroix, Mendoza apre un suo scenario personale ricco di stravolgimenti e alterazioni: prospettive sproporzionate, anatomie deformate e

scenari metafisici creano un’atmosfera straniante. Le opere, grazie anche a un sapiente uso della luce e a una grande capacità di analisi fisiognomica, sembrano come guardarsi a uno specchio; i protagonisti delle tele di Mendoza sono uomini, donne, ma soprattutto ragazze dallo sguardo assente, perso nel vuoto, che suscitano nello spettatore un senso di mistero e una miriade di domande. Sono sagome imbrigliate nel colore pastoso dello sfondo che ricordano una presenza passata, memore di una vita precedente. Il titolo della mostra riflette un’indagine profonda che presuppone un fuori e un dentro, luce e oscurità, paura e liberazione. L’intensità del colore e la sua sapiente trasposizione sulla tela rimandano alle pulsioni e agli atti sessuali che per l’artista sono la massima espressione della creatività e del profondo. Parte integrante della mostra è “Everything is Mine”, il diario che Ryan Mendoza scrive dopo il trasferimento

Indagare le emozioni

dalla Pennsylvania a Berlino e che sarà pubblicato da Bompiani nel 2014. Un momento duro per l’artista che, ulcerato dal rimorso per aver abbandonato il padre in una casa di riposo americana, ritrova l’ottimismo nella capitale tedesca nella quale aspetta, come promesso, la visita del più importante critico d’arte al mondo. In cerca d’ispirazione, convince sua moglie e alcuni loro conoscenti a posare nudi per lui: nasce “Everything is Mine” e si dimostra un racconto intimo nel quale è molto sottile il confine tra l’arte e la pornografia. Il catalogo mostra in apertura il colloquio tra Ryan Mendoza e George W. Bush dal quale emerge proprio la Chromophobia. Un’analisi reciproca sul valore dell’arte in relazione alle fobie e alle proprie credenze. BOLOGNA

Chromophobia ABC, via Farini 30 (fino al 10 gennaio 2014)

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MOSTRE

Triennale Design Museum in occasione del centenario della nascita presenta la prima grande e inedita mostra in Italia dedicata a Piero Fornasetti, a cura di Barnaba Fornasetti. La decisione di rendere omaggio a questa figura ha lo scopo di evidenziarne l’importanza e ricollocarla correttamente nell’ambito del dibattito critico e teorico sull’ornamento come elemento strutturale del progetto. Pittore, stampatore, progettista, collezionista, stilista, raffinato artigiano, decoratore, gallerista e ideatore di mostre, Fornasetti è stato una personalità estremamente ricca e complessa. Ha disegnato e realizzato circa tredicimila tra oggetti e decorazioni: un universo fatto in egual misura di rigore progettuale, artistico e artigianale come di fantasia sfrenata, invenzione surrealista e poesia. Il percorso della mostra si articola in sezioni che spaziano dagli esordi pittorici vicini al Novecento alla stamperia di libri d’artista, dalla stretta collaborazione con Giò Ponti

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negli anni Cinquanta e Sessanta ai più difficili anni Settanta e fino al 1988, anno della sua morte, un lungo periodo contrassegnato per la maggior parte dal dogma razionalista imperante della funzionalità nell’architettura e nel design che ha fatto di lui una figura marginale senza per questo spegnerne la creatività vulcanica. La mostra si compone di oltre settecento pezzi provenienti per la maggior parte dallo straordinario archivio curato da Barnaba Fornasetti, che prosegue ancora oggi l’attività avviata dal padre. Alla Triennale sarà anche possibile vedere un video dal titolo “Dai confini del solito” realizzato in occasione della mostra da Toni Meneguzzo. Un corto in stop motion (realizzato assemblando scatti fotografici) di 8 minuti e 5 secondi che ha comportato 22 giorni di riprese fotografiche nel pianeta Fornasetti (casa, laboratorio, negozio) e in uno studio fotografico, ottenendo 12.400 scatti. Ogni scatto ha previsto uno spostamento

Il mondo alchemico di Fornasetti

dell’oggetto o della luce per animare la scena. Meneguzzo ha poi selezionato 4.000 immagini per comporre le 102 scene (31 della casa, 20 del laboratorio, 20 del negozio, 31 degli oggetti ripresi nello studio fotografico) che rappresentano il mondo alchemico di Fornasetti. “Il briefing artistico è la dilatazione alchemica e caleidoscopica della visione artistica di Piero Fornasetti; spiega Meneguzzo - il caleidoscopio è stato raffigurato impossessandoci di tutti i materiali speculari per farne uscire dei particolari del corredo immaginario di Fornasetti”. “Dai confini del solito è un lavoro simile a quello di Fornasetti perché ha una grande artigianalità”, prosegue Meneguzzo. “Tutte le immagini sono realizzate in presa diretta in location”. MILANO

Piero Fornasetti. 100 anni di follia pratica Triennale (fino al 9 febbraio 2014)


Lewis Balt - Vasca di refrigerazione, centrale nucleare di Gravelines

Marilyn Bridges - Chrisler Building

“Macchine per abitare. Fotografie e disegni d’architettura dalla collezione della Galleria civica di Modena”, una mostra realizzata interamente con materiale proveniente dalle raccolte della Galleria civica di Modena. Curata da Francesca Mora e Gabriella Roganti, promossa e organizzata dalla Galleria civica di Modena e dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Modena con il sostegno dell'Assessorato alla Cultura della Regione Emilia-Romagna, la mostra propone al pubblico circa un centinaio di opere tra disegni e progetti di architettura, anche utopistica, sviluppati su carta assieme a immagini di architettura costruita, così come viene rappresentata dalla fotografia. Dal patrimonio della galleria sono stati selezionati studi di singoli edifici insieme a visioni urbane in modo da offrire una panoramica di alcune tra le voci italiane più significative dell’architettura contemporanea e delle sue diverse

interpretazioni da parte di fotografi internazionali. «La raccolta di disegno della Galleria civica, - spiega Gabriella Roganti - a venticinque anni dalla sua costituzione, è giunta a contare oggi oltre 4000 fogli, senza considerare i fondi monografici. Sono quindi ampiamente motivate le ricognizioni che, dapprima saltuariamente, da alcuni anni con maggiore organicità vengono realizzate allo scopo di presentare al pubblico un patrimonio così ampio. Questa occasione espositiva dà l’opportunità di esporre fogli che attraverso studi d’architettura e visioni urbane rendano testimonianza delle elaborazioni progettuali di alcuni tra i più importanti architetti italiani del secondo Novecento». Tra i disegni in mostra si segnalano i fogli di grandi architetti del Novecento come Carlo Aymonino, Andrea Branzi, Guido Canella, Paolo Portoghesi e Aldo Rossi, nonché di figure legate in particolare al territorio emiliano come

Patrimoni modenesi

Aldo Rossi - Studio per Mantova

Cesare Leonardi e Tullio Zini, a cui sono dedicate due piccole sezioni della mostra, arricchite da recenti donazioni. Ampio spazio è inoltre riservato al cospicuo Fondo Ico Parisi, dal quale sono stati estrapolati disegni relativi a tre importanti progetti architettonici mai realizzati: dieci tavole dalla serie “I grattacieli”, studi preparatori per la facciata del Museo Gugghenheim di Venezia e per il progetto urbanistico “Operazione Arcevia”. Gli scatti dei fotografi, fra i quali Olivo Barbieri, Franco Fontana, Luigi Ghirri, Naoya Hatakeyama, Mimmo Jodice, André Kertész, Jun Shiraoka, Wolf Reinhart, restituiscono in circa 40 immagini il diverso modo di vedere l'architettura attraverso l'obiettivo fotografico. MODENA

Macchine per abitare Palazzo Santa Margherita (fino al 26/01/2014)

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A

MOSTRE

Fotografie di Gotti

Alle origini della terra è il titolo della prima serie fotografica: una sorta di racconto della creazione visto e interpretato dal fotografo bolognese. Pensato come un viaggio intorno al mondo alla ricerca di territori ancora incontaminati, cerca di immaginare come poteva presentarsi il pianeta subito dopo la “Creazione”. La seconda serie fotografica, di piccolo formato, si intitola Crossing over. Attraverso l’immagine. Ispirato da grandi opere contemporanee come “L'uomo che cammina” di Alberto Giacometti, Gotti riunisce tredici scatti realizzati nell’attimo esatto in cui le figure umane attraversano il paesaggio, naturale o urbano che sia, parallelamente al piano fotografico.

La libertà dell’arte

BOLOGNA

Paolo Gotti – Emil Banca via Mazzini (dal 17/12/2013 al 28/02/2014)

E luce fu

La scultura di Siza

Nessun’altra invenzione ha rivoluzionato nell'ultimo secolo il nostro spazio ambientale quanto la luce elettrica. Grazie alle nuove tecnologie oggi si sta sviluppando un cambiamento radicale nel mondo della luce artificiale. Ed è proprio a questo sviluppo che il Vitra Design Museum dedica la mostra “Lightopia”. Si tratta della prima mostra che presenta il tema del design della luce attraverso esempi di arte, architettura, design e tante altre discipline.

Jackson Pollock, Rothko, de Kooning, Kline. Rivoluzione artistica, rottura col passato, sperimentazione, energia. L’esposizione, curata da Carter Foster con la collaborazione di Luca Beatrice, è prodotta in collaborazione con il Whitney Museum di New York. Attraverso le opere dei 18 artisti, guidati dal carismatico Pollock, e definiti “Irascibili” da un celeberrimo episodio di protesta nei confronti del Metropolitan Museum of Art, il visitatore avrà un panorama completo di un fondamentale stile artistico che seppe re-interpretare la tela come uno spazio per la libertà di pensiero e di azione dell’individuo; uno stile proprio di quella che fu chiamata “la Scuola di New York” e insieme un fenomeno unico, che caratterizzò l’America del dopoguerra e che influenzò, con la sua forza travolgente, l’Arte Moderna in tutto il mondo. Protagonista indiscussa della mostra “Pollock e gli Irascibili” è l’opera Number 27 di Pollock, forse il suo quadro più famoso, nonché prestito eccezionale, data la delicatezza e la fragilità di questo olio, oltre alle sue dimensioni straordinarie - circa tre metri di lunghezza. Ma il Whitney Museum ha eccezionalmente acconsentito a fare viaggiare quest’opera, alla quale sarà dedicata un’intera sala di Palazzo Reale. Le altre opere esposte in mostra coprono un arco storico che va dalla fine degli anni Trenta alla metà degli anni Sessanta. Saranno presenti alcuni tra i capolavori più rilevanti della collezione del Whitney, come Mahoning di Franz Kline (1956), Door to the River di Willem de Kooning (1960).

L’esposizione si suddivide in due parti: la prima è dedicata all'opera scultorea del maestro dell’architettura contemporanea Alvaro Siza, che presenterà a Gaeta sei opere inedite. La seconda accoglie la narrazione intorno alla mitologia greca concepita da Linde Burkhardt per la Pinacoteca di Gaeta e composta da vasi in ceramica, vetri, 34 sculture e un ambiente. Nel percorso dedicato all’architetto portoghese, saranno esposte otto grandi sculture, tra cui sei inedite. Le sculture, riconducibili a tre differenti periodi, sono messe in relazione con i disegni preparatori, fra cui alcuni estratti dai famosi "quaderni di schizzi".

GAETA (LT)

WEIL AM RHEIN

MILANO

Lightopia

Pollock e gli Irascibili

Alvaro Siza / Linde Burkhardt – Pinacoteca Co-

Vitra Design Museum (fino al 16/03/2014)

Palazzo Reale (fino al 16/02/2014)

munale “Giovanni da Gaeta” (fino all’11/05/2014)

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Omaggio a Depero

AGRIGENTO – Fausto Pirandello. Il tempo della guerra (1939 – 1945) Fabbriche Chiaramontane (fino al 25/02/2014)

Pittura spagnola

AOSTA

Universo Depero – Museo Archeologico Regionale (dal 12/12/2013 all’11/05/2014)

L’americano Warhol

A documentare per la prima volta in modo puntuale uno degli snodi più rilevanti della ricerca di Fausto Pirandello saranno circa sessanta opere. Agli oltre trenta dipinti – provenienti da istituzioni e musei pubblici e da gelose collezioni private, fra i quali alcuni del tutto inediti –s’affianca ad Agrigento, città d’origine del padre Luigi, una larga scelta di opere su carta, anch’esse per lo più inedite, provenienti dalla collezione degli eredi. A introdurre questo periodo dell’operosità di Pirandello, saranno inoltre esposti alcuni esempi della precedente stagione, spesa fra Roma e Parigi: dalla “Scena campestre” del 1926 alla “Donna con bambino” del 1929 al misterioso “Testa di bambola”, fra gli altri.

Ritorno alle origini

La mostra è dedicata a Fortunato Depero, una delle figure maggiormente significative del secolo scorso che ha saputo proporre una visione dell’arte totale ancora oggi di straordinaria attualità. Un personaggio a tutto tondo, attivo per quarant’anni, che ha sfidato le convenzioni attraverso un processo linguistico che ha coinvolto sia il contesto pubblico sia quello privato. Il progetto, a cura di Alberto Fiz e Nicoletta Boschiero, responsabile di Casa Depero a Rovereto, è organizzato dall’Assessorato Istruzione e Cultura della Regione autonoma Valle d’Aosta in stretta collaborazione con il Mart di Rovereto che ha assicurato il prestito di una serie particolarmente significativa di opere, alcune mai uscite dal museo prima d’ora, che spaziano dal 1910 alla metà degli anni Cinquanta. Tali prestiti sono arricchiti da testimonianze fondamentali provenienti da altre realtà museali, fondazioni, gallerie e musei aziendali come la Campari con cui si è sviluppato un lungo sodalizio durato dal 1925 al 1939. Non manca un nucleo particolarmente significativo di testimonianze proveniente dalla collezione personale di Ugo Nespolo che ha sempre considerato Depero un suo fondamentale punto di riferimento. Sono esposte oltre 90 opere tra dipinti, arazzi, tarsie, mobili, sculture, bozzetti, progetti, libri e schizzi in un’esposizione che ripercorre l’iter creativo di Depero dai suoi esordi in ambito simbolista alla sua adesione al futurismo giungendo sino alle realizzazioni degli anni ‘40 e ‘50 quando appare evidente il recupero dell’arte popolare.

Duecentotrenta opere, provenienti dall’Andy Warhol Museum di Pittsburgh e da numerose collezioni americane ed europee, ricostruiscono il percorso creativo dell’artista che ha rivoluzionato l’arte del XX secolo. Contrariamente a tante analoghe iniziative dedicate a Warhol, legate al gusto di un singolo collezionista, l’esposizione di Pisa rilegge, attraverso un percorso fortemente tematizzato, l’avventura dell’artista che è riuscito a scuotere dalle fondamenta il mondo accademico della pittura e della critica del secondo Novecento, ma anche a modificare per sempre l’immagine dell’America e della società contemporanea.

PISA

Andy Warhol. Una storia americana BLU. Palazzo d’arte e cultura (fino al 2/02/2014)

Una selezione di opere provenienti da musei e collezioni private europee e americane ripercorrerà le tappe salienti della carriera di Zurbarán. Il percorso espositivo, scandito in sezioni cronologico-tematiche, metterà in evidenza il talento del pittore nell’imporre un registro innovativo a generi e temi della tradizione. Francisco de Zurbarán fu tra i protagonisti del Siglo de oro della pittura spagnola e di quel naturalismo raffinato che lasciò un’eredità duratura nell’arte europea.

FERRARA

Zurbarán (1598 – 1664) Palazzo dei Diamanti (fino al 6/01/2014)

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LUOGHI DEL DESIGN

UN MUSEO PER POLTRONA FRAU Uno spazio espositivo dedicato alla storia dell’azienda marchigiana. Un’eccellenza italiana conosciuta in tutto il mondo. Michele De Lucchi lo ha pensato come fosse un teatro, dove ogni giorno va in scena il meglio del design del nostro Paese

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ento anni di storia vanno festeggiati per bene. A maggior ragione se a compierli è Poltrona Frau, uno dei simboli del made in Italy nel mondo. Le poltrone dell’azienda marchigiana sono icone che raccontano non solo il marchio, ma anche 100 anni della nostra storia. Per questo motivo, da quest’anno, esiste a Tolentino il Poltrona Frau Museum, progettato dall’architetto milanese Michele De Lucchi: uno spazio vivo e aperto che, andando oltre il comune concetto di museo, intreccia storie diverse e racconta i primi 100 anni dell’azienda. «Poltrona Frau Museum è la sintesi estrema della nostra filosofia e siamo fieri di condividere con i futuri visitatori italiani e internazionali la nostra

Sotto: modello Vanity Fair, 1930, icona indiscussa dell’azienda. Nel museo ha un posto d’onore ed è esposto al centro di un grande patio centrale. Sopra, modello Lyra, 1934. Nella pagina a fianco, in alto: la caffetteria all’ingresso del museo; sotto: la sala dedicata ai grandi progetti Contract di teatri e auditorium: dal Parlamento Europeo a Strasburgo al Walt Disney Concert Hall di Los Angeles; ogni realizzazione è ospitata in una nicchia, dove campeggia la seduta che ne è protagonista

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storia e la passione per quello che facciamo da tantissimi anni», dichiara Roberto Archetti, brand director di Poltrona Frau. «Valorizzare l’intelligenza delle mani dell’azienda, raccontare una storia imprenditoriale, espressione dell’eccellenza italiana riconosciuta a livello internazionale, è per noi un grande onore». Ricavato all’interno degli stabilimenti Poltrona Frau, il museo espone una collezione di arredi, disegni, immagini, materiali mai esposti prima al pubblico: sono 1400 mq di design e di intelligenza delle mani, come amano dire in azienda, perché da sempre Poltrona Frau è portavoce di un’artigianalità italiana mai del tutto scomparsa nel nostro Paese. La scelta del luogo è un omaggio al territorio marchigiano


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LUOGHI DEL DESIGN

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nel quale l’azienda, fondata a Torino da Renzo Frau nel 1912, si è trasferita all’inizio degli anni ‘60. Un solido legame rafforzatosi nel corso di quasi cinquant’anni grazie alla competenza del tessuto produttivo regionale e al coinvolgimento della comunità locale. «Sono davvero orgoglioso di questo progetto. Nella mia esperienza imprenditoriale - dichiara Franco Moschini, presidente di Poltrona Frau - ho sempre dato molta importanza al legame con il territorio marchigiano. Oltre ad avermi dato i natali mi ha offerto la grande opportunità di sviluppare un’azienda che oggi è portatrice dei valori del bello italiano nel mondo. È per questo che abbiamo deciso di dedicare Poltrona Frau Museum a mia madre Stella. Devo dire grazie a tutte le donne e gli uomini

Sopra: uno dei cinque spazi dedicati ai cinque ventenni, dal 1912 a oggi: ognuno è un piccolo concentrato di costume. A sinistra: in alto, modello Sanluca, 1961 e modello Dezza, 1965, all’interno delle torri illuminate. In basso: la sala riservata all’Interiors in Motion, ovvero al mondo delle auto, degli yacht, degli aerei, degli elicotteri

che hanno dato il proprio contributo alla realizzazione di questo progetto, che è per me l’avverarsi di un sogno». De Lucchi ha concepito il museo come uno spazio teatrale in cui le luci, concentrate sui pezzi esposti, danno il ritmo di una visita museale. Ci sono tutte le poltrone - icona che hanno scandito la storia dell’azienda: la Vanity Fair, che si mostra per prima ai visitatori, al centro di un grande patio centrale avvolto nel vetro e immerso in una luce a effetto naturale; poi tutte le altre, dalla Chester fino alla Juliet, undici in tutto, disposte in una sequenza cronologica, ognuna racchiusa in una struttura fatta a torre, realizzata in legno con rivestimento in tela ecru e illuminazione calda dall’interno. E grazie a questa affascinante scenografia, il made in Italy va in scena. DESIGN + 91


DESIGN

IL RITORNO DEI CINQUANTA

0 5 La libertà creativa del design degli anni Cinquanta attrae ancora esteticamente e ispira voglia di emulazione. Molti oggetti oggi in uso hanno una storia di oltre 60 anni e sono testimoni dell’alta qualità dell’artigianato italiano di Cristiana Zappoli

Sono gli anni del dopoguerra, gli anni del “miracolo economico”, gli anni in cui l’Italia riduce sensibilmente il divario che la separa dai maggiori paesi industrializzati. Ed è proprio negli anni Cinquanta che molte aziende italiane investono sui grandi centri di progettazione, per esempio l’Olivetti, la Pirelli, e la Montecatini, a cui si deve il boom della produzione di oggetti in plastica. Gli anni in cui architetti e designer scoprono l’industria del mobile e le innovazioni tecnologiche diventano fondamentali. Le parole d’ordine sono innovazione e cambiamento. Arrivano nelle abitazioni degli italiani i mobili prodotti in serie dalle grandi aziende che scoprono l’importanza della funzionalità e di un design dai tratti puliti: librerie modulari, lampade in metallo e lampadari dalle linee morbide, elettrodomestici dalle forme bombate. E considerando che mai come adesso l’arredamento si ispira al passato rivisitandolo in chiave moderna, accostando elementi vintage a elementi contemporanei, anche gli anni Cinquanta hanno la possibilità di dire ancora la loro. Sono tanti i designer che hanno realizzato arredi e complementi di arredo che riproducono mobili e accessori anni ’50 e altrettante le aziende che continuano a produrre serie di arredi o di complementi di arredo disegnati in quegli anni. Mobili che si rifanno al passato, dunque, o che arrivano direttamente dal passato. Per dare alla propria casa un tocco retrò.

Sedia Bertoia, Knoll. Nel 1950 lo scultore Harry Bertoia realizza per Knoll una collezione di sedute trasformando barre metalliche in opere d’arte. La sedia Diamond e la Collezione restano le uniche proposte di design di Bertoia e sono tuttora in produzione (foto Joshua McHugh) 92 DESIGN +


Cassettone D.655.1, Molteni. Comò disegnato da Giò Ponti in diverse varianti tra il 1952 e il 1955. È caratterizzato dai frontali dei cassetti verniciati a mano in colore bianco con maniglie applicate di varie essenze. La struttura in essenza di olmo è sostenuta da piedi in ottone satinato

Tanis, Ligne Roset. Il designer Pierre Paulin avvia nel 1954 la collaborazione con Thonet-France, disegnando in particolare scrivanie e sedie. Proprio in quel periodo progetta la scrivania ''CM 141''. Ligne Roset rivisita questa scrivania nel 2008, con il nome Tanis

Cinquanta, Enrico Cassina. 5 modelli di maniglia in puro stile anni ’50, dalle forme sinuose e accattivanti. Oggetti “preziosi” che fanno risaltare la “forma dell’utile”, must indiscusso del design di quegli anni: l’ergonomia mette in mostra forme aerodinamiche che favoriscono un’agevole apertura del movimento della mano DESIGN + 93


DESIGN

T904, Poltrona Frau. La panca, disegnata da Gastone Rinaldi, riassume il design anni ’50 evocando la ricerca di Le Corbusier, ma con una sua originalità. La struttura è disegnata in tubolare di acciaio verniciato nero. La seduta è composta da una tavola in multistrato di pioppo con impiallacciatura in frassino tinto teak

Panton Chair, Vitra. Elastica e sinuosa, la sedia di Verner Panton, è disegnata per seguire l’anatomia del corpo. È stampata a iniezione da un blocco unico di polipropilene, ed è impilabile fino ad un massimo di cinque elementi. È disponibile nella finitura lucida e nella versione satinata

Coffee Table, Vitra. Disegnato da Isamu Noguchi, che lo definisce uno dei suoi migliori progetti, questo tavolo è formato da un pesante piano di vetro che poggia su due pezzi di legno con struttura ad angolo retto. Con la sua sagoma organica ricorda le opere di bronzo e marmo dello stesso scultore 94 DESIGN +


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