"Rosso Lupo" / Francesco Puccio

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FRANCESCO PUCCIO

Rosso Lupo



A Ico e al suo “maestro del lupo cattivo� per aver ispirato queste pagine



“C’era una volta una cara fanciulla a cui tutti volevano bene, specialmente la nonna, che non sapeva più cosa regalarle. Una volta le regalò un cappuccetto di velluto rosso e, poiché le donava tanto che ella non volle più indossare altro, tutti la chiamarono Cappuccetto Rosso” da “Cappuccetto Rosso” di Jakob e Wilhelm Grimm



MATTINO



uno La metro in corsa si fermò sui binari emettendo un fischio acuto, stridendo. Le porte si aprirono e si chiusero in un attimo. Viaggiatori, viandanti, turisti si diedero il cambio. Alcuni scendevano sul mondo immobile, altri salivano su quello in movimento. Le porte scivolarono. Giulia scese dalla metro, pensando al suo Gerry, un tipo un po’ spento, senza molti slanci, che si accontentava del suo. Viveva contento, capiva il giusto per non doversi fare troppe domande, per non dover restare senza risposte. Si fermava sempre un attimo prima di cadere. Non creava questioni e quelle che c’erano le scomponeva, forse troppo. Dopo, se provavi a rimettere insieme i pezzi, non trovavi più nulla e ti sembrava di aver alzato solo polvere. Quando ebbe finito di pensare, di fissare una splendida ragazza su un cartellone pubblicitario vicino al distributore di bibite nella galleria della metro e di immaginarsi lei su un cartellone grande quanto mezzo palazzo, mezza nuda, bella com’era, Giulia era già riemersa in superficie. 11


Ma fuori pioveva e lei non aveva l’ombrello. - Lo sapevo che si metteva a piovere! Quando s’era alzata, notte fonda, era solo nuvolo. Il pantalone lungo, largo, già impregnato d’acqua. Una pozzanghera grande che pareva uno stagno. Ma senza pesci. Lo sapeva, come sapeva tutto il resto. Ma alcuni sono fatti così. Anche se sanno le cose, aspettano che accadano, che piombino addosso come massi. Non tornò indietro, aveva già fatto tardi. Lavorava in un bar, serviva ai tavoli. Dietro il bancone a fare il caffè c’era un tale di cui nessuno più ricordava il nome. Alto, smilzo, pochi capelli, naso lungo, affilato, labbra strette, le mani rapide, lo sguardo sveglio, di chi forse ha capito come gira il mondo e allora si mette fuori e osserva. Tutti lo chiamavano “Peppino la tazza”. Stava lì da tempo immemorabile. Pare fosse felice. Del soprannome, ma anche del lavoro. - Ci devi nascere, barista. Baristi erano stati il padre e il nonno. Il proprietario, invece, stava alla cassa. - Meglio non fidarsi. Dieci centesimi qua, venti là e a fine giornata ti fottono cinque, dieci euro. Era sospettoso, diffidente. Si chiamava Cosimo. E basta. Ma gli piaceva farsi chiamare don Cosmì. Era un in12


crocio. Napoletano per parte di madre, che poi era quella dominante. Quanto al padre, nessuno l’aveva mai conosciuto, manco lui. Ammesso che ci fosse stato. Aveva due dita gialle, indice e medio della mano destra, come i baffi; le sigarette, tante da fare nebbia nel locale. Lui fumava ancora, anche se c’era la legge che proibiva di farlo nei locali pubblici. - Al diavolo la legge. Me ne fotto, io ho fatto il ’68 - diceva, anzi borbottava a chi lo avvisava del rischio di una multa. Una volta, uno a cui sfumacchiò in faccia, gli fece notare che era in difetto. Niente. Ma a fregarlo fu l’espressione indisponente. Molto indisponente. Gli tossì addosso, a sfottere e perché aveva una bronchite cronica. Ai poliziotti, però, non lo disse che aveva fatto il ’68 e non li mandò neanche al diavolo.

due Il bar di Giulia era all’angolo di via della Selva. Quel lavoro l’aveva trovato leggendo un annuncio sul muro di una fermata della metro: cercasi ragazza che abbia precedenti esperienze di lavoro, massima disponibilità di orario, buona retribuzione. Falso. 13


La retribuzione era modesta, ma Giulia era alla ricerca di soldi per pagarsi delle foto che si era fatta fare per un book e quindi accettò. Il bar era in un posto squallido, fuori mano. Ci trovavi gente mista. Era arredato male, anzi non era arredato affatto. Legno vecchio, ruvido, sedie scadenti, tovagliette gialline. La pala del ventilatore con la luce a neon che funzionava un giorno sì e uno no. A Giulia faceva schifo quel posto. Ma la pagavano e andava bene così, almeno per il momento. Si avviò, di corsa, per prendere meno acqua. Quando aprì la porta del bar, era tutta bagnata. - Ti sembra l’ora d’arrivare? - Piove. Giulia distinse la voce rauca, greve del proprietario. Non lo vide in faccia. Era dietro a una nuvola di fumo. Erano le otto e un quarto. Giulia rispose secca. S’aspettava il rimprovero. L’avrebbe risposto peggio, l’avrebbe mandato al diavolo, ma quel posto le serviva ancora. Peppino asciugava tazzine, aveva un ghigno disegnato sulle labbra; chi lo conosceva, credeva fosse una sorta di distacco dalla realtà quotidiana o una roba simile. Per altri, era un accenno di paralisi. In questi casi, Peppino non interveniva, faceva lo gnorri; poi, con calma, le diceva di non prendersela, che 14


don Cosmì era burbero, ma buono. Era solo stronzo, pensava Giulia. Peppino era fatto così, tendeva a stemperare, ad addolcire se c’era troppo sale. La moglie lo aveva tradito e lui l’aveva scoperta, l’aveva vista a letto con una specie di bruto nerboruto, il suo istruttore di fitness, ma s’era fatto un’idea tutta sua sulla variabilità dell’amore, sulla mutevolezza dell’animo femminile e altre chiacchiere del genere. A volte più che un barista sembrava un filosofo. Cornuto, ma filosofo. - Parti prima, quando piove. Qui la gente arriva presto la mattina! - sbottò don Cosmì. Giulia avrebbe voluto replicare, dirgli di non rompere, che tanto quelli che si siedono per la colazione arrivano più tardi, gli altri prendono un caffè al banco e via, che l’ora in cui il bar era più affollato erano le cinque, le sei del pomeriggio. Da un po’ le ramanzine la infastidivano, soprattutto se fatte da lui, che se ne stava dietro a una cassa a contare soldi, che non sapeva niente di lei, di come cominciava la sua giornata, di tutto il resto e che sapeva solo borbottare. Poi le faceva schifo il modo in cui lui la guardava; se la mangiava con gli occhi. S’aspettava che un giorno le mettesse le mani addosso e allora sì, avrebbe graffiato, azzannato lui, il suo bar e quei suoi soldi che puzzavano di vomito. 15


Una volta Giulia puliva la vetrina dei liquori, era di spalle. Peppino in bagno, il bar vuoto, don Cosmì le stava dietro, sentiva il suo alito di aglio cotto e fumo sul collo, la puzza del suo alcool nell’aria; provò a toccarle il sedere, poi si leccò le dita e si mise a ridere. Quella era un’altra Giulia e allora fece finta di nulla, ma il cuore le tremava, sudava, aveva paura. Se avesse urlato sarebbero uscite lacrime. La Giulia di oggi lo avrebbe graffiato a sangue, gli avrebbe strappato la pelle dalla faccia. Gli animali sono fatti così, quando sentono puzza di bruciato si tengono alla larga. L’odore del lupo era forte e don Cosmì se ne stava tranquillo, per quanto poteva.

tre In realtà, la pioggia non c’entrava nulla. La colpa era stata della sveglia, che non era suonata. Anzi, che era suonata ma poi si era stancata e aveva smesso. Gerry si era girato dall’altro lato, stringendosi al cuscino, qualche brandello di parola, poi un respiro lungo come un tonfo e nulla più. Giulia aveva l’abitudine, specie ora che soffriva d’insonnia e si girava e si rigirava e si alzava e si ridistendeva, di fissare il soffitto, di seguire nella pe16


nombra una crepa per capire dove andasse a finire. Quella mattina era rimasta a spiarla più del solito. - È tardi! Di scatto si era alzata come spinta da una molla, era corsa in cucina a mettere su del tè, e dritto sotto la doccia. Mentre l’acqua le scendeva sulla faccia, pensò che non le andava più di lavorare in quella bettola. C’è sempre un altro posto in cui le persone vorrebbero stare, un’altra persona con cui fare l’amore, un altro paese da abitare, un’altra vita da vivere. Era rimasta così per una buona mezz’ora. L’acqua che scendeva, lei che si osservava il corpo, morbido e sensuale, i seni burrosi, la pelle ambrata, quel corpo che sentiva sprecato per quella vita, che avrebbe invece potuto mostrare, usare per farsi vedere e riconoscere. Il tè doveva essere bollito una ventina di volte. Gerry dormiva, sognava. S’era fatto tardi. Entrando nel bar, si levò la mantella. Rossa. Un regalo di sua madre, alcuni anni prima. Prima che qualcosa se la portasse altrove, prima che Giulia se ne andasse, fuggisse da casa sua, dalla sua vita, dai suoi sogni di bambina. Una panchina sul molo. Il mare urlava, schiuma mista a sale contro gli scogli, rabbioso, un gabbiano stanco volava basso, una donna, la figlia per mano. 17


- Questa mantella servirà a farti notare. Quando sarà tutto grigio, i palazzi, le strade, la gente che incontrerai, i tuoi pensieri, l’aria intorno a te, la indosserai e ti ricorderai che esistono i colori anche se spesso non li vedi. Ricordati, Giulia, dei colori. Sono le mani dell’anima. Giulia taceva. Appese la mantella a un gancio sul muro screpolato del bar. In realtà un po’ le andava stretta, in primavera era un po’ calda, ma non faceva nulla. Era attaccata a quel soprabito come una bambina si aggrappa alla sua bambola. D’inverno non se la levava mai. Giulia spiccava fra la gente, la vedevi arrivare da lontano. Aveva passi leggeri e veloci. Le città, quelle grandi, che ti svuotano l’immaginazione, ti violentano di realtà, hanno bisogno di una macchia di colore qua e là, di qualcosa che ti distragga, anche solo per un attimo. Ormai erano anni che Giulia non vedeva il suo paese, il mare di vetro, l’ingresso di casa, la sua stanza col soffitto alto, le pareti doppie, i quadri del salotto con quei paesaggi innevati, posti mai visti, il pendolo, il suo oscillare fastidioso, i poster appesi ai muri della sua stanza, certe foto in bianco e nero, un’altra storia; un pupazzo sul letto, di quelli morbidi, che si stringono nei momenti difficili, quando diventi grande, donna, ti viene il ciclo, fai l’amore con uno che appena conosci, in una macchina, mentre piove. 18


indice MATTINO POMERIGGIO SERA DOPO MEZZANOTTE

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PANTONE

Un colore per ogni volume. Tonalità che suggeriscono percorsi di genere, di storie e atmosfere sempre diverse. Le gradazioni sono sfumature di senso, illusioni di scelta nell’oceano di infinite suggestioni. Prive di immagini di copertina, ai titoli della collana Pantone è affidato il potere evocativo del colore e della parola, fin dove il linguaggio può condurre. Il resto è materia dell’altrove.


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finito di stampare per conto di Iemme edizioni nel mese di settembre 2017 presso Vulcanica Srl – Nola (Na)


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