"Gli orti della Sirena" / Carlo Nicotera

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CARLO NICOTERA

Gli orti della Sirena



A Sirenella voce di dentro di questa avventura



uno La prua delle navi guarda a Sud. E il mare è una lastra su cui sarebbe il caso di camminare, se non fosse che camminare sulle acque è degli Dei e noi Dei non siamo. Sennò saremmo sempre capaci di dare corpo ai desideri e alle nostre follie per esaudirli. Cosa che quasi mai gli umani si possono permettere, non fosse che per dimostrare ancora una volta la differenza tra chi ha in sé il germe del divino e chi invece rimane fanghiglia, polvere. Qualche volta fognetta. La prua delle navi guarda a Sud. Arriverà Scirocco. Pioggia, profumo di altro continente e tempesta. Ma in attesa del vento il mare è uno specchio. E le rocce sono tornate a fiorire sotto gli argini della città. *** Mi chiamo Andreas. Non sono greco. Ma un poco sì. E anche un po’ magrebino, normanno e lusitano. Come tutti noi che teniamo i piedi in questa vasca di mare che – diceva un vecchio marinaio – «anche un cieco può navigare da una parte all’altra tenendo le mani vicino agli scogli». 13


Mia madre si chiamava Pelagia e suo padre Andreas Contoslavos. Oggi che ho scavallato da quindici anni i sessanta, capisco fin dentro all’ultima fibra che mio padre Mimì, che era di Napoli, non mi ha chiamato come il nonno per forma. Ma per rispetto, riconoscenza e debito d’onore. Io ero la vita dopo la guerra e la paura. E papà aveva nel cuore il vecchio greco che lo aveva accolto in casa quando era un ufficiale della Marina nemica che occupava la sua Cefalonia. Merito degli occhi di Pelagia e di Mimì. Si erano scambiati uno sguardo che aveva la forza dell’arpione, il sapore del sangue e la vibrazione della speranza. Negli occhi scuri di lei e in quelli cerulei di mio padre, la promessa del futuro. E quando sei giovane, impaurito dalla ferocia che ti circonda, anche un solo sguardo diventa il rampino a cui ti appendi per resistere, e decidere che ce la metterai tutta a sopravvivere. Almeno se l’Orologiaio Cieco non ti prende nelle sue rotelline dai denti aguzzi. Io sono la prova che l’Orologiaio si era voltato da quelle parti con un sorriso e che i due ragazzi avevano ragione. E più di loro mio nonno, che per amore della figlia aveva accolto in casa un nemico. *** Papà era partito volontario sommergibilista per la guerra. In divisa da guardiamarina dell’Accademia di Livorno si era fatto fare una foto formato tessera con lo 14


sguardo sereno e compreso. Il padre, militare di carriera, era già in Africa da anni a “fare l’impero”. La madre l’aveva persa a tre anni mentre nasceva il fratello più piccolo. La foto la portò alla nonna – donna Carmela – ch’era rimasta con uno solo dei suoi sette figli (Pasquale) sei nuore e l’unica figlia femmina (la signorina Maria, o Zietta a seconda dei casi) ad accudire una schiera infinita di nipoti che andavano dai vent’anni scarsi di Mimì ai quattro di Adriana. Prima di andare alla base di Taranto per imbarcarsi come ufficiale di macchina sul “Gondar”, un sommergibile della serie Adua del ’36, mio padre passò da Resina, nome paesano dell’antica Ercolano, dove quei frammenti sparuti di famiglia erano sfollati. Voleva abbracciarli. E desiderava che gli facessero sentire l’odore di casa prima di avventurarsi in quello smarrimento che si chiama guerra. Ma lui era come quasi tutti i ragazzi di quel tempo, che alla retorica del regime si erano formati e davvero amavano quella patria “offesa dalle plutocrazie…”. Per questo quando riuscì a rimanere solo con la nonna, si fece abbracciare, si fece accarezzare le guance e i capelli sottili pettinati all’indietro e le diede la foto con la dedica scritta con grafia minuta e regolare da futuro ingegnere: “Alla Nonnarella mia, che mi accompagni con i suoi pensieri e le sue preghiere in questa drammatica e gloriosa ora in cui mettere in gioco la vita per la grandezza e l’onore della nostra amata Patria…”. 15


La nonna lo strinse con un sorriso che mascherava il tremore: «Era meglio se restavi a studiare a Livorno, ma tanto a te chi ti ferma mai… Tu vai a fare la guerra e se ti dico di non fare imprudenze, ti dico ‘na scemenza… Ma tu si’ gl’uocchie miei e devi tornare. Devi tornare e devi tornare. E pregherò sempre fino a che non vieni ad abbracciarmi ‘n ‘ata vota… «Ma mo’ non ci pensiamo. Andiamo a tavola, ti ho fatto la pasta alla siciliana come piace a te. Ci ho messo tante di quelle melenzane del giardino e la provola e pure il ragù mio con le polpettine e le cervellatine di maiale. Tre teglie ho messo nel forno del pane. Stasera dobbiamo stare insieme e pensare che la prossima volta che le inforniamo così, stiamo tutti insieme pregando ‘o Pateterno e la mammina sua che finisce ‘sta scemenza della guerra... Nun me guarda’ accussi’ Mimì perché dico questo!!!… Nun me guarda’ accussi’ – lo ripeto – la guerra è ‘na scemenza vera!! E io mi sono fatta già quella d’Abbissinia e chella d’Etiopia e chella d’o Piave e chella di Spagna, e tra ‘na cosa e n’altra, so’ vent’anni che non vedo i miei figli e mo’ non vedo manco i miei nipoti, e chissà che cosa devo vedere ancora e che cosa non riuscirò a vedere. Tu parti e c’hai il fuoco della patria e della giovinezza e je t’abbraccio e ti benedico. Ma la guerra è ‘na scemenza co’ tutte chelli pparole ca parono cannonate e invece so’ pernacchie e ddulure»… «E nun me guarda’ accussi’ t’ho detto, Mimì!!!… ‘A guerra è 16


‘na cosa orribbbbbile. E s’je putessi, ti chiuderei in cantina a farti diventare aceto piuttosto che mandarti a fare ‘sta cosa della patria, delle baionette e delle fedi d’oro che si so’ pure pigliate. E mmo’ jamm ‘a tavola che fratelli e cugini vogliono sta’ cu tte, ma se vogliono pure magna’ a pasta, che già m’hanno sfruculiato: “Uè Nonnina, ma se non era pe’ Mimì la pasta con le polpette ce la sognavamo, stavamo ancora a patate e cipolle per la terza sera di seguito…”». Cenarono all’aperto della quieta sera, nel vecchio aranceto in fondo alla corte della casa marchesale. Il Vesuvio stava lì dietro, solenne, con colori buoni per affreschi di Pompei. E nel giardino vicino al pozzo maiolicato si sentiva l’odore dei gerani ancora. Quello della vite che rampicava sulla loggia, della carbonella nelle cucine maiolicate, dei pomodori cotti, del soffritto, del basilico intorzuto, dei peperoni arrostiti, dello sterco del cavallo di Ferdinando l’ortolano che tutte le mattine arrivava col carretto a via dei Quattro Orologi. E si sentiva anche il ciato vicino del mare, che scavalcava la linea costiera della ferrovia e arrivava al naso dritto di Mimì, che non sentiva la puzza di piscio del sottopassaggio che portava alla spiaggia, ma quello dell’estate africana dove forse lo spedivano. E dove – sognava ancora innocente – avrebbe lasciato un segno anche lui sullo stesso mare di Ulisse e di Enea, e anche di tutte le galee e galeazze della battaglia di Lepanto di cui mio padre ricor17


dava i nomi dei legni e dei loro comandanti: Capitana di Venezia – Antonio da Canal; Fortuna di Venezia – Andrea Barbarigo; Tre Mani di Venezia – Giorgio Barbarigo; Due Delfini di Candia – Francesco Zen; Leone e Fenice di Candia – Francesco Mengano; Cristo di Candia – Andrea Corner; Angelo di Candia – Giovanni Angelo; Piramide di Candia – Francesco Bon; Cristo Risorto di Venezia – Simon Guoro; Cristo di Corfù – Cristoforo Condocolli… Le conosceva tutte, veneziane, genovesi e napoletane, cretesi e pontificie unite nelle Lega Santa… Ma questa era un’altra storia di cui si vantava quand’ero bambino e mi raccontava ‘ste leggende prima di mandarmi a letto. Ma intanto ora anche lui partiva per attraversare il Mediterraneo, la grande Sirena che da millenni incanta gli uomini e le loro vite. *** Papà stava sulla banchina prima d’imbarcarsi, a fianco del “Gondar”. Stretto, lungo e un po’ inclinato all’ormeggio nell’acqua grassosa dell’Arsenale. La torretta, più una ciminiera di giocattolo che ghigno di macchina di morte. Lo scafo brunito nemmeno minaccioso nonostante i due infossati occhi neri dei tubi lancia–siluri. Per un momento fu preso dall’emozione, dalla paura della guerra e dalla voglia della vita, dal ricordo della pasta alla siciliana, del calore di casa e dell’abbraccio della nonna e di quello di Pissi, la ragazzetta con la frangetta con cui amoreggiava già 18


da adolescente tra gli scogli e la spiaggia nera dello stabilimento di Bianca Scognamiglio, “La Favorita”, che confinava con le mura e i giardini della villa borbonica da cui aveva preso il nome. Ma si sentiva un soldato. Si diresse verso la torretta per presentarsi all’ufficiale di guardia. Sotto i suoi passi sentiva il ponte tremare nel trum–trum dei generatori. Era in guerra. Il “Gondar” inizialmente fu destinato al pattugliamento della sponda orientale. L’Adriatico a risalire fino alle isole dell’Incoronata e Pola. L’Istria sembrava a quei ragazzi una terra di valchirie, sorridenti e disponibili. Ma di quelle donne – che a forza dovevano essere italiane e che sembravano tanto più spregiudicate, disinvolte e moderne delle italiane vere – non riuscivano mai a ricordare un nome in quel miscuglio di slavo, croato e tedesco; e anche di abitudini, culti e riti, abiti e colore degli occhi, tagli dei capelli, accenti confusi, mani arrossate dalla Bora di novembre: Vera (Fede), Nadežda (Speranza), Vesela (Allegra), Duša (Anima), Zlata (Oro), Zora (Alba), Sveta (Luce), Mila (Amore), Milka, Draga, Dranka, Sabrina, Melanie, Sabine. Miti sorrisi e inutili promesse per quei giovani, che da una parte e dall’altra, all’improvviso, non potevano più giocare al futuro. Finiva spesso tutto in un abbraccio che sapeva di spritz e di ossa spigolose sotto le carezze infilate nella lana ruvida. 19


Di nuovo giù verso Itaca, Zante e poi in pericolo verso il Pireo e quella gente a cui si dovevano “spezzare le reni”. Ma come si spezzano le reni a chi ti accoglie prima ostile e poi con un sorriso vedendo la tua perduta giovinezza nello sguardo? Grecia da amare. Che anche se nemico, ti senti a casa con quell’aria costante di aneto nelle insalate, con cetrioli e feta. E casa è anche il Meltemi fresco – così simile al Greco a Tramontana del Golfo – che taglia la faccia tra Naxos e Santorini con gli spruzzi di mare teso mentre sei di guardia in torretta su un mare di divina bellezza. A Cefalonia, in quell’interminabile febbraio di pioggia del ‘41, con il vento dei Balcani che s’incuneava nelle montagne e, feroce, nel cappotto di Mimì, la malinconia delle scatolette, del puzzo di nafta e della poca acqua scaldata vicino allo scarico del motore, fu vinta dallo sguardo di Pelagia Contoslavos, che incrociò gli occhi di mio padre, che non resisté alla tentazione di sorridere all’innocenza. Tre giorni dopo, in uno sprazzo improvviso di sole, Pelagia arrivò sulla banchina con un grande cesto di portokàli e lemòni e cape di rape come quelle pugliesi, verdi e grandi. Per una coincidenza assolutamente cercata e fortemente voluta, arrivò che di guardia era di nuovo Mimì: «Iàssu, ciao, egò ìme ì Pelagia. Mio padre – e a sentirla era un cantico di parole – dice che i nemici si vincono con il sorriso e con l’onore ospitale della gente di talàssa. Questa verdura è del nostro orto e mio padre dice che anche oggi 20


lo scòrbuto è un pericolo per chi naviga e la dona alla tua nave. Non ti meravigliare. Ho detto a mio padre che se i suoi insegnamenti sono giusti, io potevo invitare un nemico e fargli un sorriso di speranza e di pace e che volevo farlo a te. Se per una volta dimentichiamo la guerra, forse la pace arriva prima. E dunque se non hai paura di inganni, domani sera puoi venire nella nostra casa sulla Salita del Geco e mangiare psària, calamaràchia e marìdes alla brace che mou patèras, Andreas Contoslavos, cucinerà…». Pelagia non ebbe un attimo di turbamento. Non abbassò gli occhi. Papà avrebbe voluto abbracciarla lì subito, con tutta la forza e la gioia dei suoi anni. Ma era un ufficiale della Reale Marina Italiana: «…efharistò grazie …anche di parlare italiano così bene… ma non so se sarà possibile. Chiederò al mio comandante… Domani a mezzogiorno potrà avere una risposta signorina Pelagia…». L’ordine era di far credere che fossimo graditi ovunque, generosi e mai crudeli. Cazzate, come poi si è scoperto. Però Mimì ebbe disposizione di accettare quell’invito. Non sarebbe andato da solo, ma con il suo sottufficiale, il capo di prima classe Mario Stefanelli, tarchiato capofamiglia di Trani, pescatore di infinite nostalgie silenziose. «Un brav’uomo… senza parole soperchie» – raccontava anni dopo papà. E però, forse proprio per questo, proprio con Mimì, Stefanelli si apriva un po’. Lo guardava come 21


avrebbe guardato uno dei suoi ragazzi sbattuti chissà su quale fronte, e di cui non aveva notizie da tre mesi. Si faceva un cruccio pensando che quel giovane, come un suo figlio, gli poteva morire sotto agli occhi. Allora si metteva a urlare ai marò, che dovevano ingrassare meglio il generatore delle batterie «…Che là ci appendiamo la vita quando stiamo immersi…». O li tormentava che dovevano tenere puliti i filtri, tutti i filtri... «…Che qua dentro il fumo di ritorno non ci deve entrare se non volete fare la fine dei sommergibilisti stupidi…». Con Mimì invece giocava a vedere dall’altra parte dell’Adriatico il millenario faro dei marinai tranesi: la cattedrale immensa, di pietra bianca, messa a fare da specchio al sole dell’alba e a quello del tramonto «che così capisci bene dove stai in mezzo al mare...». Stefanelli combatteva così il magone, dando una gomitata a Mimì, anche se lo chiamava Signore, o Guardiamarina, per poi dirgli con il tu: «Lo vedi là il riflesso che scavalca l’orizzonte? Lo vedi? Là ci sta casa mia. Che è pure casa tua quando finisce ‘sto schifo che ci fanno fare». Arrivarono alla Salita del Geco. Mimì portava da parte del comandante Marinelli una bottiglia di brandy Stravecchio Branca, preso dalla riserva personale in segno di amicizia. E aveva scovato in fondo alla sacca la sciarpa di lana biancocrema che gli aveva fatto la Nonnarella. Per Pelagia. Furono accolti con ferma cortesia, sul cancello del giardino che portava alla casa. All’ingresso, un fico sbian22


cato dall’inverno. Entrarono sotto una pergola di vite e glicine in letargo, spoglia di ogni bellezza. Dalle finestre con le imposte blu, il profumo della legna sapeva di fresco perché il vecchio Andreas buttava scorze d’arancio a bruciare sulla brace. Pelagia faceva da interprete. Intorno al tavolo, con Andreas e Pelagia, c’erano tre nonni della ragazza e la mamma, Melina, che guardava i due marinai italiani con occhi del colore dei fiori di rosmarino. Prima di sedersi, il vecchio Andreas spiegò il senso crudele e accorato di quell’accoglienza: «Ho accettato l’idea di avere nemici alla mia tavola, perché oggi compio 50 anni e i miei due figli stanno da qualche parte a rischiare di morire. Come voi. Forse un giorno si troveranno sulla vostra terra, e saranno soli come siete voi. Io prego perché ci sia un padre come me, che possa dare a loro la speranza di pace come io ho deciso di darla a voi. È il regalo per i miei anni, che sono già tanti e che non voglio affogare nell’odio… Sedete, beviamo…». Il pesce arrostito che sapeva di giardino in fiore era straordinario, e il vino resinoso che Mimì associava ai banchetti omerici faticosamente studiati al liceo, sciolse il cuore di Stefanelli che alla fine, dopo il terzo Ouzo fatto in casa, si mise a cantare in pugliese “Santa Lucia luntana”, con occhi che sembravano usciti da un bagno di cipolle. Sulla soglia del giardino Mimì salutò Andreas stringendogli la mano. Si scambiarono uno sguardo – adulto 23


con adulto – come a Mimì ancora non era riuscito di fare con il padre che non vedeva da due anni. Stefanelli prima salutò militarmente, poi allungò la mano ad Andreas, ma i due si presero istintivamente l’avambraccio all’altezza del gomito e poi, travolti da un’onda comune che era più forte del pudore e della guerra stessa, si abbracciarono mescolando gli odori della giacca di fustagno del greco e quello del panno blu del cappotto del sottufficiale. Pelagia rimase appena indietro e quando il padre rientrò gli fece un cenno come a dirgli “lasciami ancora un minuto”… Stefanelli si allontanò di una ventina di passi. Pelagia che aveva al collo la sciarpa della Nonnarella mise una mano sul petto di Mimì, e presa con l’altra quella di mio padre la portò al suo: «…Torna in pace Mimì. Torna a casa tua e, se sarà, torna anche qui. Anche tu sai che non c’è bisogno di altre parole». Gli porse un canestro di vimini coperto da un lino bianco… «È un altro po’ di frutta fresca. Portala ai tuoi compagni di guerra. Cancelleranno il metallo dalla loro bocca. Che qualcuno ci benedica. Tutti». Si alzò in punta di piedi e diede un bacio sulla fronte a Mimì, giusto alla radice del naso, quasi a dargli un morso di labbra. Rimase sulla soglia senza scappare indietro ma guardandolo ancora, ferma, con un lampo struggente, specchio di tutti gli occhi di dentro. *** 24


PANTONE

Un colore per ogni volume. Tonalità che suggeriscono percorsi di genere, di storie e atmosfere sempre diverse. Le gradazioni sono sfumature di senso, illusioni di scelta nell’oceano di infinite suggestioni. Prive di immagini di copertina, ai titoli della collana Pantone è affidato il potere evocativo del colore e della parola, fin dove il linguaggio può condurre. Il resto è materia dell’altrove.


PANTONE

717

ALBERTO CORBINO

Poesía de la Reína 7476

SALVIO FORMISANO

L’accordatore di destini 7683

ALBERTO CORBINO

Questo è un bel libro 877

FRANCESCO VELONÀ

Buio blu 194

SERGIO CALIFANO

Spartito doppio


327

VINCENZO GAMBARDELLA

Scricchiolii 7496

LUCA OTTOLENGHI

Questa terra 127

CARLO NICOTERA

Lettere dal Faro 032

FRANCESCO PUCCIO

Rosso Lupo 669

ROSARIO BOENZI

Una sera di luglio


finito di stampare per conto di Iemme edizioni nel mese di maggio 2018 presso Vulcanica – Nola (Na)


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