"L’accordatore di destini" | Salvio Formisano

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SALVIO FORMISANO

L’accordatore di destini



a Maurizio



1 Quella mattina cominciai a camminare e non mi fermavo più. Strade, piazze, il lungomare. Tutto il giorno, sempre lo stesso passo. Camminavo senza sosta e senza fatica, macinavo chilometri e pensieri. Ero uscito di buon’ora e il fresco del primo mattino era diventato caldo, poi afa, poi fresco della sera e io continuavo in quella galoppata senza meta. Giù dalla collina di Posillipo, ancora il lungomare e di nuovo il centro. Camminavo, era tutto quello che volevo fare. Non avevo fame, solo voglia di un caffè e di una doccia. Entrai in un bar con la sigaretta accesa, dimenticando il divieto di fumare, e per non spegnerla la tenni chiusa nel palmo della mano, mentre aspettavo il caffè. Mi bruciava, ma bruciavano ancora di più i ricordi, soprattutto quelli degli ultimi giorni. Il cassiere mi fece l’occhiolino e sorrise per farmi capire che se n’era accorto. Dicano quello che vogliono, ma in questa città hanno una grande capacità di valutare le situazioni e comportarsi di conseguenza, decidendo quan7


do e se è il caso di intervenire. Trasgredire qualche volta è giusto e fa pure bene alla salute. Avrei avuto molto da imparare, anzi da rimparare, rimanendo in quella città, pensai. Fu in quel momento che mi balenò in mente l’idea di fermarmi a Napoli. Tornai in albergo quattordici ore dopo esserne uscito. Stanco morto. Alla reception mi dissero che la signora aveva dimenticato una valigia al bar. — Grazie, la butti via, — risposi. — Ma potrebbero esserci documenti, oggetti di valore. — Credo siano solo vestiti, controlli pure. — Certo, signore. In un albergo la prima regola è la discrezione, e quelli della reception sono i custodi sia delle chiavi che della riservatezza dei clienti. Il portiere non mi fece altre domande, non ce n’era bisogno, ci eravamo detti tutto in due parole e ora lui sapeva qual era la nuova situazione: la signora che era venuta con me, se n’era andata. Mi feci portare in camera una cena fredda e due bottiglie di vino bianco. — Sarà fatto, signore, buona serata. Non c’era nessun’ironia in quel ‘buona serata’, e nemmeno una velata solidarietà, solo un formale, inappuntabile saluto. Dopo le due bottiglie di vino, bevvi tutti i mignon dal frigo bar. Nella semioscurità della stanza mi guardavo allo 8


specchio e bevevo. Bottiglie e bottigliette vuote continuavano ad accumularsi vicino alla televisione spenta, e io mi scolavo un whisky dopo l’altro in un sentimento tra sfida e autocommiserazione, sempre con quello specchio che, impietoso, continuava a riflettere il mio penoso accanimento. Ore malvagie, spietate. A ripensarci, provo ancora oggi il disgusto e la vergogna. No, solo disgusto, vergogna no. Ero ubriaco e non più in grado di riflettere, lo specchio purtroppo sì. La mattina dopo mi svegliai molto presto, di soprassalto e con un gran mal di testa. Guardai il lato del letto dove aveva dormito Gloria fino al giorno prima e sentii un bruciore allo stomaco. Non per il whisky. Al bar dell’albergo presi solo un caffè e mi avviai all’uscita. Non mi chiesi cosa avrei fatto, dove sarei andato o cosa avrei visitato. Niente programmi, né itinerari, volevo essere completamente libero di seguire l’istinto, le gambe e i pensieri. Il portiere mi disse con la sua abituale discrezione che nella valigia della signora non c’erano documenti né oggetti di valore, e che era stata consegnata alla Caritas. — Bene, — risposi. — Il signore conferma la permanenza per tutto il periodo? — Confermo. — Bene, signore, una buona giornata. 9


Perfetto. Non avrei potuto sostenere conversazioni più lunghe. Mi piaceva quel portiere, avrei voluto che fossero tutti così. Uscii. A me, strade di Napoli. Chilometri, libere associazioni, migliaia di passi, rimpianti, riflessioni, caffè, dolore, piazze, piante, pianti, sudore, limonate. Sette giorni di camminate incessanti in cui i miei pensieri raggiunsero la loro disposizione più libera e profonda. All’inizio non vedevo quasi niente del mondo nuovo e affascinante che attraversavo. Fendevo la folla, quell’umanità che mi aveva sempre incuriosito, senza guardare, senza ascoltare, chiuso nei miei pensieri. Attraversai tutti gli stati d’animo e il mio passo si adattava a essi. Fu allora che gettai le basi per quella che sarebbe stata la mia nuova vita, il mio nuovo modo di essere. Non voglio dire che decisi allora di diventare quello che sono adesso. È la vita che ci raccoglie. Tu t’incammini e vai, poi è lei che decide. Devi essere bravo ad approfittare del momento o a scansarti, e non è facile nemmeno questo. Continuavo a pensare alle ultime ore con Gloria; avevo sempre le stesse scene davanti agli occhi, come una specie di vortice, da far girar la testa. Mi capitava da ragazzo, quando giocavo a poker. Facevamo delle partite di ore e ore. A volte si iniziava dopo cena e si finiva la mattina alle sette, alle otto. Quando tornavo a casa e mi mettevo 10


a letto, pur sfinito dalla stanchezza, non riuscivo a dormire. Chiudevo gli occhi e continuavo a vedere carte, punti, sentivo voci, rilanci, addirittura vedevo una mano che si muoveva velocemente e distribuiva le carte, che continuavano a cadere ininterrottamente davanti a ogni giocatore. Una spirale di assi, re, sette, donne, dieci che non finiva più e il rumore delle fiches, che però mi piaceva. Allora rinunciavo ad addormentarmi e uscivo a fare quattro passi. Faccio sempre così quando devo smaltire una botta, riflettere, o semplicemente distrarmi, esco a fare quattro passi. E dopo averne fatti molti, ma molti di più, al quarto giorno, improvvisamente, la mia andatura diventò compassata, lenta, da passeggiata. Mi si spezzò qualcosa dentro e una specie di indolenza prese il posto della disperazione di prima. Era come se non provassi più sentimenti e tensioni, come se una parte di me, quella che generava ansie e preoccupazioni fosse sotto anestesia. Avvertivo invece una lucidità straordinaria, una capacità di analisi e ideazione nuova, potente perché scevra da condizionamenti. Smisi quindi di camminare a testa bassa, e incominciai a guardarmi intorno, ad ammirare la bellezza e l’unicità dei vicoli, ad ascoltare voci, suoni, rumori. Non ero più un podista, ma un turista. Elaborai il lutto nel migliore dei modi: trovando un nuovo amore, Napoli. Era la mia città, ci ero nato e cresciuto, ma l’avevo lasciata da ragazzo e non c’ero più tornato. La conoscevo poco e la stavo riscoprendo. 11


L’insalata di polipo mi fa impazzire. Dopo quella squallida cena in camera, la mangiai almeno una volta al giorno. Non è difficile da preparare, il polipo, basta cuocerlo al punto giusto, in modo che si mantenga calloso, senza indurirsi. Naturalmente bisogna che sia fresco, altrimenti non ha sapore e non si sente l’odore di mare. Condire con poco aglio, olio, prezzemolo e limone, ma è buono anche senza niente. A Napoli lo cucinano benissimo. Anche in Sicilia e in Puglia; in altri posti invece ci mettono l’aceto e rovinano tutto, altri ancora addirittura lo spellano e siamo proprio al sacrilegio. A cena, in una trattoria a Santa Lucia, mangiavo il mio polipo e facevo progetti per il futuro. Sereno, distaccato, come se non si fosse appena abbattuto un uragano sulla mia vita. Presto sarei rimasto pure senza lavoro: dovevo tornare a Berlino e di lì a due mesi sarebbe scaduto il contratto con la Tfs International. Forse avrei potuto trovare un altro incarico nel settore, ma no, ormai avevo deciso, volevo cambiare vita. Ero fiducioso, ottimista e desideroso di novità. Si trattava davvero di capacità di analisi e programmazione o piuttosto di incoscienza? Al tavolo a fianco c’era una coppia, lei italiana, forse toscana, lui americano. Un cameriere anziano, capelli bianchi, giacca bianca e papillon nero. La donna ordinò 12


spaghetti alle vongole per tutti e due. Il cameriere stava per allontanarsi quando l’americano, in un italiano incerto, disse che sugli spaghetti ci voleva anche il ketchup. Il cameriere lo guardò come fosse un marziano o un rospo. — Ma come, il checciapp’ sopra agli spaghetti a vongole? Lo disse con un tono di rimprovero, alzando la voce. Guardò la donna sperando che intervenisse a evitare quell’abominio, ma lei alzò le spalle e l’americano, sorridendo, confermò: ketchup, yes. Un americano che sembrava Alberto Sordi quando fa l’americano. Poi il cameriere guardò verso di me, indicandoli con la mano tesa come si fa con due poveri scemi e si allontanò indignato, brontolando: — Cos’ ’e pazz’, o checciapp’ ’ncopp’ ’e spaghetti a vongole. Dopo un po’ tornò con i due primi, servì prima lei e poi l’americano, gettandogli quasi il piatto davanti, facendolo rotolare sulla tavola. Li fissò per qualche secondo, schifato, poi: — E per secondo i signori che prendono? — sottolineando con ironia ‘i signori’. — Frittura di gamberi e calamari per due, — rispose lei. E lui, lo stupendo cameriere: — E ’ncoppa che ci mettiamo, ’nu bello sciroppo ’e menta e orzata? Meraviglioso. Quel cameriere era l’esatto opposto del portiere d’albergo. Tanto ironico e indiscreto il primo 13


quanto professionale e riservato il secondo, eppure erano giusti entrambi, ognuno a modo suo, al posto suo. E il mio posto qual era? Avevo deciso: Napoli. Sarei tornato nella mia cittĂ .

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2 Due mesi dopo, al ritorno da Berlino, mi sistemai da un’affittacamere a Spaccanapoli. Una stanzetta senza pretese, con un piccolo specchio sopra il lavandino, un armadio a due ante, una sedia di legno, un tavolino e un letto non troppo comodo. La finestra dava su San Biagio dei Librai, il bagno era nel corridoio. Mi andava benissimo e, appena arrivato, dormii otto ore di seguito. La mattina dopo dissi alla padrona di casa, una matrona con una vestaglia blu elettrico, che mi sarei fermato per un mese e andai a fare colazione al bar sotto la mia finestra. Uscendo, sentii i suoi occhi, puntati tra le scapole, che mi squadravano e cercavano di capire chi ero e cosa facevo. Come poteva capirlo lei, non lo sapevo nemmeno io. Stavo sempre da solo e passavo le giornate andando in giro, nei bar o steso nei giardinetti della villa comunale. Faceva ancora caldo, l’inverno tardava ad arrivare. La sera, una pizza e il cinema. Anche a Berlino, negli ultimi due mesi, me ne ero rimasto quasi sempre da solo, per i fatti miei. 15


L’isolamento, peggio ancora l’autoisolamento, espone un uomo a seri pericoli psicologici. Non vivere per gli altri, o almeno con gli altri, allontana dalla ragione e dalla vita stessa. Io mi sentivo bene, non mi pesava la solitudine. Il mio umore però aveva continui sbalzi. I soldi stavano finendo, dovevo trovarmi un lavoro. Uno qualsiasi sarebbe andato bene, tanto non aveva senso inseguire le chimere. Fare progetti, costruire qualcosa, tutte stronzate. Sogni da adolescente. Cominciai a rispondere alle inserzioni sui giornali, a quasi tutte le richieste di personale. Mi presentavo ai colloqui e niente, le faremo sapere, ci lasci i suoi recapiti, mi dicevano. Passavano le settimane ma io non mi scoraggiavo e continuavo a fare colloqui. Risposi anche a una di quelle inserzioni in cui non viene specificato il tipo di lavoro, si indicano solo i requisiti richiesti. Mi diedero appuntamento in un albergo vicino alla stazione. C’erano altri nove candidati, li contai. Si aggiravano per la hall o leggevano il Mattino sui divani. Chissà chi erano, che facevano. Dove sarebbero andati dopo il colloquio? Sarebbero tornati a casa loro? Avevano una famiglia, dei figli? Un altro lavoro che volevano lasciare? Nove persone che non si conoscevano, che fino a pochi minuti prima ignoravano l’uno l’esistenza dell’altro, ora si scrutavano, si studiavano e provavano a valutarsi con delle occhiate furtive, per capire quale candidato sarebbe stato 16


preso. Anch’io li osservavo, ma solo per curiosità. Guardavo le giacche, i nodi delle cravatte, le scarpe. Non ce n’era uno vestito decentemente. Giacche e pantaloni con tessuti scadenti e taglio sovietico, cravatte dai colori impossibili e nodi grandi come arance. Una galleria degli orrori. Non ero per niente ansioso, anche perché rifiutavo di considerarmi in concorrenza con quella gente. Ma lo ero, ecco il problema. Galleggiavo in una realtà tutta mia, che non mi faceva comprendere quale fosse davvero la situazione. Mi trovavo nelle loro stesse condizioni, forse ero vestito più decorosamente, ma con ogni probabilità loro erano messi meglio di me, che, anche se non me rendevo conto, ero proprio nei guai. Avevo un urgente bisogno di lavorare e aspettavo con calma il mio turno, per nulla preoccupato dall’esito del colloquio, come se la cosa non mi riguardasse. Era avvenuto una specie di scollamento tra la realtà e la percezione che avevo di essa. Ormai non tenevo più nel giusto conto gli accadimenti e le occasioni, vivevo in una specie di serena, distaccata, irreale fiducia in me stesso e nel futuro. Un atteggiamento che può indurre gli altri in errore, può dare l’idea di trovarsi di fronte a uno con i nervi saldi, padrone di sé e capace di tenere le situazioni sotto controllo. Infatti feci una buona impressione al colloquio. Il curriculum e le attitudini erano ottimi, mi dissero. Molto importante anche l’esperienza di ricerca di disertori fatta 17


durante il servizio militare, ed era un altro punto a favore il fatto che non avevo famiglia, né problemi di orari e spostamenti. C’era da lavorare anche di notte, qualche volta. Avrebbero trasmesso il mio nominativo al cliente che aveva commissionato la ricerca di personale e mi avrebbero chiamato per un secondo colloquio. — Ma di che lavoro si tratta? — Non possiamo ancora dirlo, ci dispiace. È la procedura. Prima dobbiamo comunicare al cliente l’esito dello scouting. Scouting, che parola del cazzo.

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3 Dopo aver fatto indagini sul mio conto, a qualche giorno di distanza dal colloquio, quelli dell’agenzia mi chiamarono e mi presentarono al mio futuro datore di lavoro. Quando mi dissero di che cosa si trattava, sulle prime ero dubbioso, soprattutto sorpreso, poi pensai che non sarebbe cambiato granché, la mia vita sarebbe rimasta la stessa, e accettai. Così sono qui che cammino ancora, cammino molto anche adesso, mi siedo ogni tanto in qualche bar, in ristoranti, autobus, taxi, qualche volta prendo il treno, attese, giornali. La paga è abbastanza buona: duecentocinquanta euro al giorno più le spese. Sarebbe ottima se lavorassi tutti i giorni, ma non è così. Un lavoro vale l’altro, pensavo, ma questo dopo tre mesi già mi fa schifo. Che cosa faccio? Rubo l’intimità delle persone, rovisto nelle miserie delle loro vite e le rovino. M’incollo al soggetto e lo seguo per giorni o settimane. Il ‘soggetto’, in gergo, è l’uomo o la donna da ‘servire’, l’obiettivo. Prima di iniziare mi hanno fatto fare un breve corso e qualche volta sono uscito in missione con il capo. La prima cosa che mi ha detto è stata: 19


— La regola principale è non farsi coinvolgere. Mai odiare o simpatizzare per il soggetto, che per te deve significare solo duecentocinquanta euro al giorno più le spese, e basta. Mi ha insegnato anche delle cose interessanti e le tecniche di pedinamento. Aveva lavorato nei servizi segreti, diceva, credendo di impressionarmi. Mi ha dato un po’ di microfoni, un binocolo, una fotocamera digitale che si può nascondere sotto la giacca e del materiale per camuffarmi. Io però al massimo mi metto i baffi, la barba finta e gli occhiali spessi, alternandoli o tutti e tre insieme. Cambio spesso abbigliamento durante la missione, questo sì. Giacca e cravatta, casual, oppure in tuta da operaio. Niente parrucche, però, né tinture e altre stronzate. Eccomi qua insomma, faccio l’investigatore privato. Il primo caso fu quello di un rappresentante di commercio. Un lavoro semplice, il capo me lo diede apposta, trattandosi della mia prima prova. Mi fece partecipare fin dall’inizio, da quando la moglie del rappresentante si presentò in ufficio per raccontare le sue pene. Comincia sempre così, con una donna o un uomo che vengono a confessarsi. Si mettono a nudo, si liberano. È impressionante il modo in cui si aprono e ti raccontano la loro vita, gli aspetti più intimi. Non c’è bisogno di fare troppe domande, vanno avanti da soli, a ruota libera. 20


Era una donna mingherlina, con la testa incassata nelle spalle e una montagna di capelli neri. Sui quarantacinque anni. Una vocina debole che non smetteva mai di parlare. È questo soprattutto: vogliono parlare, raccontare a qualcuno le loro sofferenze. A qualcuno che sperano possa risolvere i loro problemi, salvarli. Questo nuovo lavoro mi metteva in una posizione che mi sembrava in qualche modo privilegiata. Ascoltare nei minimi particolari aspetti anche scabrosi della vita privata di persone mai viste prima. È una posizione che ti dà anche una certa autorità; questi poveracci dopo qualche minuto sono completamente disarmati e ti si affidano incondizionatamente. Sono pronti a seguire alla lettera qualsiasi consiglio o istruzione. La donna ci raccontò che il marito tornava a casa sempre tardi la sera, anche il sabato, e spesso rimaneva a dormire fuori per lavoro, pur essendo la sua zona limitata alla Campania. Le diceva che dopo un’intera giornata di lavoro non se la sentiva di mettersi in macchina e farsi due o trecento chilometri per tornare, così preferiva dormire in albergo. Qualche volta passi, ma la cosa si stava ripetendo troppo spesso. No, non faceva mancare i soldi a casa. Guadagnava molto bene. L’uomo era un tipo veramente odioso. Sempre in doppiopetto e con un sorriso smagliante. Ce l’aveva stampato fisso sulla faccia quel sorriso, sembrava avesse una paresi. 21


Incominciai a detestarlo da subito, pochi minuti dopo che avevo iniziato a seguirlo, quando si accese una sigaretta e buttò il pacchetto vuoto per terra, con un cestino per i rifiuti proprio di fronte a lui. Non si ammazzava certo di lavoro, finiva molto presto. Visitava l’ultimo cliente generalmente verso le sei, poi se la spassava per tutta la sera con una ragazza dell’età di sua figlia, che aveva ventidue anni. Non ci misi molto a capire le sue abitudini e dopo qualche giorno smisi di seguirlo. Lo aspettavo direttamente alle sei e mezza davanti l’agenzia di viaggi dove lavorava la ragazza. Rideva sempre, lo stronzo. Uno di quei tipi che fanno battute cretine e poi ridono da soli. La ragazza, che era proprio carina, sembrava esserne invaghita. Bah, la vita è proprio strana e io ormai non cerco più di capire. Se la spassava proprio, quello scemo. Secondo me si mangiava metà dello stipendio con quella. Regali, cene in ristoranti esclusivi, locali da ballo. Anche la garçonnière al Pietraio, con splendida vista sul golfo, doveva costargli un sacco di soldi. Consegnai il mio rapporto al capo, dopo soli sette giorni, corredato di registrazioni e fotografie. Il vecchio fu contento, disse che avevo fatto un buon lavoro. Non so poi come andò a finire con la moglie; non ero in ufficio quando venne ad apprendere le belle notizie. Chissà come si sarà sentita. Io invece stavo bene, in armo22


nia e in pace con me stesso. Mi sembrava di fare qualcosa di utile, di positivo. Avevo lavorato per una poveraccia, contro un bastardo, che mi era stato antipatico giĂ dopo pochi minuti. Ma non sarebbe stato sempre cosĂŹ, anzi.

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