Le madri ebree non muoino mai

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Narratori Francesi Contemporanei

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NARRATORI FRANCESI CONTEMPORANEI Collana diretta da Gianni Gremese


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Natalie David-Weill

Le madri ebree non muoiono mai romanzo Traduzione dal francese di Rosalita Leghissa

GREMESE


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Titolo originale: Les mères juives ne meurent jamais © Éditions Robert Laffont, S.A., Paris 2011 Copertina: Giulia Arimattei Stampa: Tipografica Artigiana s.r.l. – Roma Copyright edizione italiana: GREMESE 2012 © New Books s.r.l. – Roma www.gremese.com Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta, registrata o trasmessa, in qualsiasi modo o con qualsiasi mezzo, senza il preventivo consenso formale dell’Editore. ISBN 978-88-8440-746-7


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A Charles, Paul e Marie


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Tre madri di famiglia si incontrano per giocare a mah-jong e si vantano del modo in cui i loro figli le coccolano. La prima dice: «Mio figlio mi adora a tal punto che in occasione del mio ultimo compleanno mi ha regalato un magnifico cappotto per l’inverno». La seconda rincara: «Il mio ha fatto di meglio. Ha risparmiato durante un anno intero per regalarmi una crociera alle Antille». La terza assesta il colpo vincente: «Mio figlio è ancora più straordinario. Tre volte alla settimana va dallo psicanalista, e lo paga solo per parlare di me».

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Le Madri

(in ordine cronologico) Amalia Freud, nata Nathansohn (1835-1930), moglie di Jacob; madre di Sigmund, Julius, Anna, Rosa, Mitzi, Dolfi, Paula e Alexander; Jeanne Proust, nata Weil (1849-1905), moglie di Adrien; madre di Marcel e Robert; Pauline Einstein, nata Koch (1858-1920), moglie di Hermann; madre di Albert e Maja; Minnie Marx, nata Schรถnberg (1865-1929), moglie di Samuel; madre dei Fratelli Marx: Leonard (Chico), Adolph (Harpo), Julius (Groucho), Milton (Gummo), Herbert (Zeppo); Louise Cohen, nata Ferro (1870-1943), moglie di Marco; madre di Albert; Mina Kacew, nata Iosselevna Borisovskaia (18831941), moglie di Arieh; madre di Roman (detto Romain Gary); Nettie Kรถnigsberg, nata Cherry (1906-2002), moglie di Martin; madre di Allan (detto Woody Allen) e di Letty.

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1 Un paradiso riservato alle madri «Dio ha inventato le madri ebree perché non aveva tempo di fare tutto da solo». Proverbio ebraico

«Piange, ho proprio l’impressione che pianga». «Ma perché?». «Forse non sa di essere morta?». «Non è un buon motivo per essere triste». «Ma lei, signora, ha dimenticato lo stato in cui era quando è arrivata qui, nel paradiso delle madri ebree?». «Lei non c’era nemmeno!». «Me l’hanno raccontato!». «D’accordo, signora “so-tutto-io”». A piccoli passi, le due anziane donne che bisticciavano si avvicinarono a Rebecca, la quale non riusciva a frenare le lacrime. Suo malgrado. Come se il corpo le fosse scivolato via. E lei si lasciasse andare. Non capiva che cosa le stesse succedendo, dal momento che non aveva l’abitudine di piangere, né di sentirsi perduta o sorpresa. Fino a quel momento, era riuscita a evitare qualsiasi imprevisto che potesse turbarla. Per non provare paura e forse per non restare delusa, aveva preso in mano la propria vita e deciso, una volta per tutte, di mantenere il controllo della sua esistenza e delle sue emozioni. Si era imposta una disciplina ferrea che ave-

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va sempre seguito senza deroghe. Come altri amano le vacanze e l’ozio, lei amava l’organizzazione, la pianificazione, l’ordine. Rebecca accumulava elenchi su ogni argomento: le spese da fare, i libri che aveva letto, quelli che doveva ancora leggere (la cui lista era ben più lunga), i pensieri da non dimenticare, i viaggi da organizzare, gli itinerari da conoscere, gli orari da pianificare… Non lasciava niente al caso. Così si stupì di essere presa alla sprovvista. Che cosa le stava succedendo? Dove si trovava? Guardava quelle donne che potevano essere sue nonne, anzi bisnonne, vestite alla moda degli anni Venti. Un salto nel passato? Una festa in maschera? Perché bisbigliavano osservandola? Si trovava a casa di una di loro? Tentò di alzarsi aggrappandosi a un tavolo di nocciolo. Perché notava la qualità del legno proprio mentre si sentiva tanto disperata? La più minuta delle due anziane donne l’invitò ad accomodarsi su un profondo divano di velluto nero, scuro come il suo sguardo. Gli occhi a mandorla molto truccati, i tratti del volto segnati dall’età, paffuta e con l’aria decisa, indossava un cappello con la veletta sollevata e un abito di pizzo acquistato sicuramente in un negozietto a buon mercato. Sorrise e chiese gentilmente: «Come si chiama?». «Rebecca Rosenthal, e lei?». «Io sono Louise Cohen, la madre di Albert», rispose la donnina. «Forse ha sentito parlare di lui…». «La madre di Albert Cohen?», domandò Rebecca intimidita, come capita spesso quando ci si trova a incontrare una persona famosa senza esser vi preparati. «L’autore di Bella del Signore è suo figlio?». «Glielo avevo detto che Albert è conosciuto», si rallegrò Louise girandosi verso l’altra donna, più alta e più imponente, che chiese con una punta di aggressività: «E conosce anche i Fratelli Marx?».

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«Vuol dire che lei è la madre?». Minnie Marx rise di cuore. Sembrava uscita da un romanzo di Erckmann-Chatrian, nel suo abito nero con lo scollo fermato da una spilla, i capelli ondulati e il viso tondo e troppo incipriato sul quale spiccava il rosso delle labbra dipinte. «Si potrebbe dire che non sarebbero mai stati famosi senza di me!». «La smetta di vantarsi, Minnie, così stancherà Rebecca». «Affatto», replicò quest’ultima, «adoro i Fratelli Marx. C’era un tempo in cui tutte le domeniche sera andavo a vedere i loro film in un cinema d’essai. I miei preferiti, La guerra lampo dei Fratelli Marx e Servizio in camera, erano un vero antidoto alla mia vita troppo malinconica. Groucho mi faceva ridere con i baffoni, l’accento newyorkese e il suo assurdo senso dell’umorismo. Era lui quello che mi affascinava di più». «Più di Chico?», domandò Minnie. Per evitare dissapori con la madre dei Fratelli Marx, Rebecca parlò degli altri figli. «Erano tutti divertenti. Credo mi piacesse in particolar modo ritrovare le stesse gag in ognuno dei loro film: Harpo davanti alla sua arpa, Chico con l’accento spassoso, Margaret Dumont con l’aria indignata perché ancora una volta si era lasciata prendere in giro dall’irresistibile Groucho». «Noto che lei ha decisamente un debole per Groucho», osservò Minnie. «Chi ha inventato walk this way1 è un genio», disse Rebecca.

Walk this way significa sia “seguimi” sia “cammina in questo modo”. 1

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Minnie non poté impedirsi di scoppiare a ridere e di imitare la tipica camminata di Groucho, a grandi falcate, piegato in avanti e con il sigaro in bocca. «E perché non parla di Albert?», domandò Louise Cohen. «Bella del Signore mi aveva stregato. Solal è bello, intelligente, seducente e disperato. Ero pazza di lui. E penso che l’autore dovesse assomigliargli». Louise Cohen arrossì di soddisfazione e assentì: «Sì, anche se lui lo negava, Solal e Albert hanno più di un punto in comune». Rebecca aveva la sensazione di essere a un esame del quale nessuno le aveva comunicato l’argomento. Supponeva che ci si aspettasse che fosse a conoscenza del maggior numero di dettagli possibile sui figli Marx e Cohen, e che non lesinasse complimenti al loro riguardo. Fino a quel momento, non se l’era cavata troppo male. Ma si stupì di aver voglia di superare una prova di cui non conosceva la posta in gioco. Si trattava di addolcire quelle donne? Di rimanere con loro? Era forse morta? Però, non poteva essere morta senza che se ne fosse resa conto! Non aveva attraversato nessun tunnel, non aveva visto una luce bianca, la sua vita non le era passata davanti agli occhi negli ultimi istanti della sua esistenza… «Vi ho sentito dire che sono morta. È impossibile, non ho avvertito niente». «Non se ne è accorta», le disse dolcemente Minnie. Louise Cohen le domandò che cosa era successo prima del suo arrivo da loro. «Proprio niente». Rebecca si esaminò: riconobbe il suo pullover verde preferito, i pantaloni di pelle scamosciata che le donavano tanto, gli stivaletti con i tacchi che le facevano ma-

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le ai piedi. Non era cambiato nulla, tranne quello che la circondava; si trovava in un salotto che non conosceva. «Qual è l’ultimo avvenimento che ricorda?», insistette Louise Cohen. «Perché tortura questa povera ragazza? La lasci tranquilla. È già abbastanza sconvolta così», disse Minnie. «È lei che ha cominciato, Minnie. Non mi accusi. Rebecca sta bene. È solamente un po’ turbata, niente di strano». Come mai quelle donne si permettevano di parlare di lei come se non ci fosse? Rebecca si sentiva come la “nuova arrivata” che deve farsi accettare in un collegio femminile, proprio lei che detestava le novità e la promiscuità. La situazione la sconcertava. Come era possibile che si ritrovasse insieme alle madri di Albert Cohen e dei Fratelli Marx? Come mai si conoscevano? E perché rimanevano insieme, se litigavano su tutto? «Mi domandava del mio ultimo ricordo…», disse Rebecca pensando che, se si fosse rifiutata di partecipare, non avrebbe scoperto nulla. Fu trascinata dalla curiosità e decise di buttarsi. «Sono stata catapultata fuori dalla mia automobile. Ricordo la pioggia che mi inzuppava i vestiti e qualche istante più tardi ho avvertito un dolore acuto». Minnie si impietosì: «Quanti anni ha? Sembra una bambina». «Trentotto. Non sono poi così giovane, sa?». «Dipende per che cosa». Louise Cohen prese da parte Minnie Marx e le sussurrò che non era il momento di rovinare tutto. Per una volta che succedeva qualcosa, le sarebbe piaciuto conoscere ogni dettaglio. Soprattutto, non bisognava contrariare Rebecca, che chiaramente non voleva accet-

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tare di essere morta. Se lo avesse appreso senza la delicatezza necessaria, avrebbe potuto inibirsi ancora di più e magari decidere di tacere o addirittura di andarsene! Minnie si prese gioco di lei: «Lei si mostra premurosa con Rebecca per egoismo, non per tranquillizzarla». «Perché, lei ha forse molte altre distrazioni?», si difese Louise. «No, ha ragione». Insieme ritornarono da Rebecca, immersa nei suoi pensieri. «Dunque, si è trattato di un incidente d’auto…», cominciò Louise per spingerla a raccontare. Rebecca prese a tremare, tanta era la violenza con cui si ripresentavano la paura e il dolore che l’avevano resa incapace di reagire. «Siamo qui per aiutarla», disse Minnie con una gentilezza disarmante, «ci siamo passate anche noi». Le due donne la guardavano senza manifestare impazienza. Aspettavano. Avevano tempo. Rebecca cercò di ricordare. Prese a parlare lentamente per richiamare alla memoria i fatti, così come si erano verificati. «Non vedevo niente, e i minuti passavano», spiegò. «I capelli e il fango mi impedivano la visuale e mi rendevo conto, senza capire il motivo, che le automobili viaggiavano di traverso. Bizzarro. Una bella inquadratura per un film, mi sono detta, come se la cosa non mi riguardasse. Eppure, ero sdraiata sull’asfalto e vedevo l’autostrada fra il suolo e il telaio dell’automobile. Chiunque avrebbe lottato per aggrapparsi alla vita. Io no. Io volevo solo che finisse il prima possibile. Mi ricordo di aver sentito dei passi frettolosi, voci nella mia direzione, una sirena dei pompieri, persone che correvano… Credo che a questo punto io abbia perso conoscenza». L’aveva colta il panico: non se ne parlava affatto di

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morire così presto. Non se lo aspettava. Aveva tanti appuntamenti quella settimana. Era piena di impegni. «Di che genere?», domandò Minnie. «Sono professoressa di francese alla Sorbona, ho corsi da tenere, elaborati da correggere, studenti da seguire, ma soprattutto ho un figlio. Si chiama Nathan e resterà solo». Impotente, Rebecca si lasciò travolgere dalla disperazione: era morta, questo era certo. Sulle prime si era sentita sollevata dal fatto che non avvertiva più quel dolore insopportabile ma, ripensando agli ultimi avvenimenti, si disse che avrebbe potuto cercare di resistere e non lasciarsi morire. Avrebbe dovuto pensare a suo figlio. Ora lamentarsi non serviva più a nulla. Era morta e provava paura. Ciò che la spaventava non era il fatto che la sua vita fosse finita, ma l’aver lasciato Nathan. Louise tentò di consolarla, precisando che non aveva nessuna colpa se era morta; non si era mica suicidata. «È stato un incidente. Non può farci nulla. Non ha niente da rimproverarsi». Pensierosa, Rebecca rimase in silenzio. Louise, temendo di vedere andar via la nuova arrivata, prese Minnie da parte. «Crede che ci troviamo davanti a una depressa?». «Come vuole che lo sappia, io? L’abbiamo incontrata nello stesso momento». «Faccia qualcosa per tirarla su di morale. Sa essere divertente, lei!». Minnie non era sicura di poter aiutare quella giovane donna, bella e fredda come una statua. Non somigliava a loro. Era minuta, indossava i pantaloni, aveva i capelli biondi che le ricadevano sulle spalle, e poi le sembrava che fosse più sbalordita delle altre: si agitava davvero troppo per suo figlio.

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«Che ne sarà di Nathan senza di me?», si chiese Rebecca. «Conosco tutto di lui: i silenzi, il sorriso appena accennato quando è orgoglioso di sé, i suoi attacchi di risa, i nervosismi quotidiani. Ne so interpretare gli stati d’animo. So che ha bisogno di due cuscini per dormire e che non tollera la minima coperta. Ricordo quel suo sorriso mezzo addormentato che mi faceva sciogliere ogni mattina. Solo io posso essere disposta ad ascoltare la musica indiana che lui adora e ad ammirare i suoi sforzi per essere elegante quando indossa le stesse, eterne camicie bianche allineate nell’armadio come una divisa. Sapevo tacere quando era necessario. E sapevo incoraggiarlo e motivarlo». «Si abituerà a vivere da solo, non se la prenda», disse Louise con delicatezza. «Pensiamo di essere indispensabili», rincarò vivacemente Minnie Marx, «ma le garantisco che suo figlio se la caverà molto bene senza di lei. È quello che è successo con i miei…». Rebecca l’interruppe. «L’ultima volta che gli ho parlato, ci siamo lasciati in malo modo. Gli ho dato dell’incapace. Se ne è andato di casa senza una parola, senza voltarsi indietro». Louise Cohen era sgomenta. Non capiva come si potesse pensare di criticare la luce dei propri occhi. «Non è che, siccome non ha mai contraddetto Albert, lei sia stata una madre migliore», osservò Minnie Marx. «Io ho sgridato molto i miei figli. Loro mi giudicavano autoritaria e insopportabile, ma mi obbedivano. E alla fine mi hanno ringraziato». Rebecca si stava innervosendo. «Ma lei non è morta mentre era in rotta con uno di loro». «No, riconosco che deve essere terribile».

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Louise le pestò un piede, criticando la sua mancanza di tatto. Minnie ribatté che evocando «la luce dei suoi occhi», lei non aveva certo mostrato maggiore sensibilità. «Bisogna che vi racconti», le interruppe Rebecca. «Nathan è uscito dall’aula degli esami addirittura senza aver completato il suo compito di diritto. Non me l’ha detto, l’ho scoperto io grazie a un collega. Quando l’ho affrontato, ha confessato che non sopportava questa materia, che la studiava solo perché io potessi dire, parlando di lui, “mio figlio è avvocato”. Ha aggiunto che mi immischiavo di tutto, che sapeva quel che faceva, che aveva il diritto di vivere la sua vita e anche di farsi bocciare a un esame, se voleva. Io che mi vantavo di essere scampata alle crisi adolescenziali così temibili, e invece mio figlio mi ha sbattuto in faccia quello che covava dentro. Mi ha accusato di ogni male, addossandomi la responsabilità del fallimento della sua vita… a diciotto anni. Cose ben più gravi di un ridicolo esame, ha aggiunto. E aveva ragione, me ne rendo conto solo ora». «Ma no! Assolutamente no!», esclamò Minnie. «Lei lo faceva per il suo bene, e per lei quell’esame era importante. Non c’era da discutere e non deve rammaricarsi». «Scherza? Sono stata un mostro! Gli ho spiegato con uno sguardo indignato quanto mi aveva deluso, prima di opporgli un silenzio glaciale. Se n’è andato sbattendo la porta. L’incidente è accaduto poche ore dopo». Louise Cohen era inorridita per la durezza di Rebecca. Il fatto che fosse morta poco dopo le sembrava meno grave dell’umiliazione che aveva inflitto a suo figlio! Rebecca continuava a parlare senza rendersi conto dell’effetto disastroso che stava scatenando, perché le

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premeva rivelare ogni cosa, come se le sue parole potessero cancellare il rimorso che la torturava. «Nathan probabilmente si sentirà colpevole per la mia morte. Deve pensare che, se non mi avesse parlato così aspramente, io senz’altro non mi sarei innervosita… Forse avrei evitato quello stupido incidente!». «È vero? Avrebbe potuto evitarlo?». «No». Le lacrime salirono agli occhi di Rebecca. Louise le prese la mano e le parlò dolcemente, benché fosse sgomenta per il suo atteggiamento. «Non pianga, andrà tutto bene», le disse. “Perché queste donne bizzarre sono così premurose?”, si domandò Rebecca al culmine dell’angoscia. «Come può esserne certa? Nathan è un orfano. So cosa deve sopportare. Quando mia madre morì, avevo l’impressione che mi osservasse, che fosse presente e io conversavo con lei, le chiedevo consiglio, le raccontavo la mia vita. Avevo solo dieci anni, e questo mi consolava. Bisogna dire che mio padre non mi parlava mai di lei. Faceva parte di quella generazione che non rivelava i propri sentimenti, che non mostrava le emozioni, che considerava il lamentarsi alla stregua di un crimine contro l’umanità o, perlomeno, contro chi gli stava intorno. Parlare di sé era indecente. È forse per questo che mi sono sentita abbandonata?». «Non reagirà come lei», provò a dire Louise. «D’altronde, cambierà, passerà dallo sconforto alla tristezza, per approdare sulle rive di una nostalgia quasi serena». «Albert Cohen non si è mai ripreso dalla sua scomparsa. Nell’opera Il libro di mia madre, invoca lei che, benché morta, continua a vivere nei suoi sogni. Smarrita nell’Oltretomba, senza identità, resta così presente nel suo quotidiano che lui la rimprovera per averlo abbandonato egoisticamente. Dubita del suo amore. E, se

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i miei calcoli sono giusti, Cohen aveva quarantotto anni quando lei è morta. Ed era un adulto già celebre! Se lui ha avuto difficoltà a sopportare il lutto, immagini Nathan, che è ben lungi dall’essere un uomo maturo!». Minnie si protese verso Rebecca: «Potrebbe cercare di considerare anche la nostra tristezza! È stata una dura prova lasciare i nostri figli, cessare di essere al corrente di ciò che li riguardava, mollare la presa, constatare che la loro vita continuava senza di noi. Le altre possono testimoniarlo». «Le altre?». «Oh sì, vedrà, siamo in tante. Qui ci sono le madri di Marcel Proust, di Sigmund Freud, di Romain Gary…». Rebecca scoppiò a ridere, un riso confortante: lei era madre, era ebrea. E dunque era una madre ebrea? Faceva parte del mito? Il fatto di trovarsi in mezzo a quelle donne famose era una garanzia per l’avvenire del figlio? «Ci sono solo madri ebree qui?». «Non c’è bisogno di essere ebrei per essere una madre ebrea», osservò Minnie. «Nemmeno di essere madri. Mio marito era una madre ebrea, come lei, come tutte noi. È un epiteto, sa. È sinonimo di affettuosa, devota, eroica, possessiva, esigente, curiosa, ossessionata dall’alimentazione e dalla sicurezza, paranoica, angosciata e angosciante, costantemente preoccupata per i propri figli». «Ma voi siete tutte ebree?». «È così, non è colpa nostra», rispose Louise. Minnie Marx le spiegò che il concetto di “madre ebrea” era abbastanza recente. All’inizio del ventesimo secolo, le madri ebree erano materne, protettrici e affettuose. Grazie ai romanzieri americani, ad esempio Saul Bellow e Philip Roth, si erano progressivamente

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trasformate in yiddishe mama per il loro amore esagerato, soffocante, addirittura patologico. «E Woody Allen», aggiunse Rebecca. «Non c’è solo la scuola newyorkese a rappresentare la “madre ebrea”», disse Louise Cohen. «Albert ha scritto Il libro di mia madre nel 1954 in Francia». Minnie usò il suo tono più dolce per non urtare la sensibilità di Louise: «Le madri ebree sono sempre esistite: Sara, Rebecca, Rachele, Lea, Jokebed, la madre di Mosè… Ma il concetto in sé è un’invenzione americana, divenuta molto famosa nel 1964 con la pubblicazione del libro di Dan Greenburg Come diventare una madre ebrea in 10 lezioni. Questo ha cambiato tutto». «La madre di Woody Allen non è qui?», domandò Rebecca. «No», rispose Louise. «Non l’avete mai vista?», insistette. «Sì, ma non è rimasta a lungo con noi». «Perché? Io sono una fan di Woody Allen». «Anch’io», replicò Minnie, che non diede altre spiegazioni su quell’assenza. Rebecca si ripromise di rimandare la domanda a più tardi. D’altra parte, non capiva granché, malgrado le loro spiegazioni. Per la prima volta pensò al suo funerale. Quante volte se l’era rappresentato in sogno? Immaginava la sua migliore amica in lacrime, i suoi colleghi che chiacchieravano fra loro. Il film scorreva davanti ai suoi occhi: alcuni piangevano, altri erano semplicemente venuti a firmare il registro, troppo agitati, troppo assillati dalla vita per fermarsi anche solo un’ora. I parenti stavano attorno a suo figlio. E anche se, nella scena che cento volte si era immaginata, Antoine, il padre di Nathan, era inconsolabile, lei dubitava che sareb-

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be venuto; l’aveva abbandonata molto presto dopo la nascita del figlio e non era stato un padre presente. Tuttavia, quanto le sarebbe piaciuto che si fosse commosso! Non appena si parlava di lui, non poteva evitare un fremito nelle mani, il mento tremante, la voce rotta, il cuore che batteva troppo forte e l’animo agitato. Diciotto anni dopo il loro incontro, provava ancora per lui gli stessi sentimenti. Proseguì il suo sogno a occhi aperti e immaginò il figlio che prendeva la parola in sinagoga per dire qualche frase tenera e affettuosa sul dolore causato da quella perdita. «Ha delle foto?», domandò Louise strappandola ai suoi pensieri. Istintivamente, Rebecca cercò la borsa. La sua borsa! Ne aveva dimenticato persino l’esistenza, ma il fatto di averla là, al suo fianco, rendeva questo oggetto di cuoio logoro più prezioso dell’amico più intimo. E non si sentì più persa quando ritrovò, infilate in una tasca, alcune foto di Nathan. Aveva conservato, dalla materna alle superiori, le foto di scuola in cui tutti i bambini hanno la tendenza ad assomigliarsi. A cinque anni, non avevano forse tutti la riga, accuratamente tracciata a sinistra? A dieci, una frangia troppo lunga per cercare di nascondere gli occhiali di cui si vergognavano? A quindici, i capelli lunghi arruffati e l’apparecchio ai denti? «Ma è uno splendido ragazzo!», esclamò Louise, guardando l’ultima foto, la più recente. «Doveva essere pazza di lui». «L’ho adorato. Con i suoi riccioli bruni, gli occhi chiari a mandorla, Nathan assomiglia a una miniatura persiana». «E a suo padre», sottolineò Louise, «con una madre così bionda». Assomigliava talmente tanto ad Antoine che Rebec-

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ca aveva avuto difficoltà a considerarlo un essere indipendente e non il clone del padre. Guardarlo le procurava un misto di felicità e di angoscia. Passava dall’ammirazione più autentica al timore che non sapesse cavarsela nella vita. «Nathan perde le chiavi, dimentica gli appuntamenti, sperpera il denaro e resta senza far nulla, se non ci sono io dietro a scuoterlo. La sua camera è in un disordine tale che non riesce a trovare mai niente, neanche cercando bene. Senza di me è perduto. Quando da bambino non riusciva a mettersi il cappotto, glielo infilavo io, e gli sistemavo anche i lacci per evitargli la fatica; io facevo i suoi compiti invece di spiegarglieli». «Lei non aveva pazienza», disse Louise, «voleva andare veloce». «È vero, non ho mai sopportato la lentezza, volevo che fosse perfetto subito, senza dargli il tempo di imparare. Il risultato è che temo di averne fatto un buono a nulla. Come potrà cavarsela senza di me?». «È un problema molto diffuso fra le madri ebree», affermò Louise Cohen.

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