La bella confusione - Marco Caramelli

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Narratori Francesi Contemporanei

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Narratori Francesi Contemporanei

Collana diretta da Philippe Vilain

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Marco Caramelli

LA BELLA CONFUSIONE Romanzo

Traduzione dal francese di

Franco Ferrini

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Questo romanzo si ispira al film 8½, che l’autore ha tuttavia liberamente ricreato nel racconto delle vicende e nella descrizione di luoghi e personaggi.

Titolo originale: Un beau désordre © Éditions Robert Laffont, Paris, 2020. Copyright dell’edizione italiana: 2022 © Gremese International s.r.l.s. – Roma Stampa: FP Design – Pavona (Rm) Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta, registrata o trasmessa, in qualunque modo e con qualunque mezzo, senza il preventivo consenso formale dell’Editore. ISBN 978-88-6692-151-6

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Eppure, io credo che se ci fosse un po’ più di silenzio, se tutti facessimo un po’ di silenzio, forse qualcosa potremmo capire. Federico Fellini, La voce della luna

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Prologo

Come mai un giovane cineasta di quarantatré anni, un uomo che esercita una delle professioni più ambite e che ha ottenuto di recente un successo planetario con il suo ultimo film, un uomo così seducente, in salute fisica perfetta, molto apprezzato dai suoi amici e ancora di più dalle donne, un uomo che potrebbe, con i guadagni accumulati, già vivere agiatamente fino alla fine dei suoi giorni, come mai un uomo tale è potuto cadere di colpo in quello stato tormentoso e avvilente che si designa comunemente con il tetro nome di depressione? Quell’uomo sono io, e tenterò, da qui in poi, di presentare i fatti nel modo più sincero possibile. Ho sempre avuto con i miei produttori rapporti simili a quelli di un ragazzo in piena crisi adolescenziale con suo padre, il quale tenta, dall’alto della sua esperienza, della sua posizione di superiorità e del suo disincantato realismo, di condurlo, facendo leva sia sull’autorità che sulla diplomazia mista a tenerezza, di spingerlo lungo i sentieri di una vita serena e convenzionale, vale a dire, dal suo punto di vista, a essere ragionevole. Il rapporto padre figlio descrive perfettamente la situazione di dipendenza finanziaria in cui si trova ogni regista –7–

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nella pratica della propria arte, ragion per cui il mio temperamento è sempre stato percepito dai miei produttori come quello – esasperante, capriccioso, irragionevole – che si attribuisce, giustappunto, ai ragazzi alle prese con l’adolescenza. Ma essendomi votato molto presto a un culto quasi mistico verso il mondo del circo e più specificamente alla figura del clown, dovrei dire piuttosto che i miei produttori si sono comportati con me come clown bianchi, mentre io nei loro confronti ero un clown augusto. Il clown bianco, autoritario, severo, incarna l’intelligenza fredda, la lucidità, il culto della ragione. Borghese ricco e potente, si presenta arrogantemente come la morale fatta persona, come ideale incontrovertibile. Il clown augusto, al contrario, è un impertinente, un pagliaccio che si fa beffe dell’ordine, che deride la perfezione e le buone maniere borghesi: si fa la cacca nelle mutande, ride e parla forte, si rotola per terra e fa un sacco di smorfie. È un vagabondo, un essere marginale mosso solo da istinto, emotività, gioia di vivere e libertà. In fondo, ognuno dei miei produttori avrebbe desiderato, come mio padre, che io diventassi un medico o, come mia madre, un cardinale, mentre io volevo fare il burattinaio, il saltimbanco, il buffone, non sottostare ad alcuna regola, dare fondo alla mia immaginazione senza ostacoli di sorta, essere libero come un cefalopode in fondo all’oceano. Insomma, volevo essere un artista. Il produttore è un uomo d’affari. Mettendo insieme notevoli somme di denaro rende possibile la creazione artistica; bisogna essergli riconoscenti. In questo è una sor–8–

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ta di discendente della Chiesa cattolica – senza la quale innumerevoli capolavori del nostro patrimonio artistico non avrebbero mai visto la luce – ma anche dei Medici o dei Borgia, i produttori artistici della loro epoca. Purtroppo, questa brava gente non si accontenta mai di chiamare un artista e dirgli: «Ti do tutti i soldi che ti servono, fammi una bella opera d’arte». Sarebbero creature divine, se facessero così! Invece, no. Pretendono sempre di intromettersi nel processo creativo: vogliono consigliare, proporre, correggere, accorciare, abbellire, e ogni volta, in maniera quasi ossessiva, modificare la scena finale dei film. È lì che comincia la bagarre, che volano i piatti. Va da sé che, per una questione di principio, o perché non ho mai riconosciuto ai produttori alcuna competenza artistica (come a me non verrebbe mai in mente di mettere becco nelle loro faccende finanziarie), mi sono sempre opposto al benché minimo dei loro interventi. Ho sempre dato prova, in questi casi, di una sconfinata ostinazione, in modo tale che nessun produttore è mai riuscito a condizionare il mio lavoro. Altrimenti mi sembrerebbe di tradire quell’essere che si annida dentro di me. Un essere che non conosco a pieno, ma in cui ho completa fiducia, in quanto sin dai miei inizi mi sussurra nell’orecchio l’idea di ogni mio film e assume il potere al momento di realizzarlo. Io mi accontento di lasciarlo fare, gli metto semplicemente a disposizione il mio corpo per gli spostamenti e la mia voce per dirigere gli attori e dare indicazioni. Le persone mi guardano sempre con scetticismo quando parlo di questo essere che fa il lavoro al mio posto, ma è proprio così. Del resto, quando mi succede d’incappare casualmente in uno dei miei film, quando li trasmettono –9–

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leggera, qualcosa che fosse più in linea con le produzioni del momento. Il progetto perciò venne messo da parte e io mi rimisi al lavoro con i miei fidati co-sceneggiatori, Pinelli e Flaiano, per soddisfare il buon Pegoraro. Ne venne fuori il soggetto de I vitelloni – che gli presentai. A momenti ci resta secco. Ma che cos’è questo titolo incomprensibile? Non potrebbe intitolarsi I vagabondi? Non ci pensavo nemmeno lontanamente a cambiare il titolo. Cedette su questo punto, ma la sua pazienza vacillò irreversibilmente quando gli dissi che volevo come protagonista Alberto Sordi. Che cosa? L’esperienza de Lo sceicco bianco non le è servita di lezione? Non ha ancora capito che Sordi fa scappare il pubblico? La prego, sia ragionevole, mi venga incontro, scelga De Sica come protagonista, altrimenti mi manderà in rovina. Si prese la testa fra le mani, crollò sulla sedia scosso dai singhiozzi. Ora, non avendo io mai saputo che cosa voleva dire “ragionevole”, mi intestardii su Sordi e il film partì con Sordi. Ma quando Pegoraro vide le prime immagini di moviola andò su tutte le furie: mi accusò di essere un sadico, di avere un gusto malsano per la bruttezza, quindi si affrettò, senza nemmeno aspettare la fine delle riprese, a vendere i diritti del film ad Angelo Rizzoli. Bel colpo! Perché I vitelloni ebbe un successo enorme alla Mostra di Venezia del 1953. Orde di produttori allora mi assalirono per finanziare il seguito: “I vitelloni vanno in città”, “I vitelloni vanno a sciare”, “I vitelloni al contrattacco”, “Le vitellonette visitano Roma”… Erano pronti a ricoprirmi d’oro purché facessi un film qualunque comprendendo nel titolo quel famoso termine “incomprensibile”. Ma il progetto che mi – 11 –

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faceva di nuovo l’occhiolino, quello che mi dava delle gomitate, era La strada. Rieccomi dunque in cerca di un produttore. Luigi Rovere mi disse di aver versato torrenti di lacrime leggendo il copione, ma il suo verdetto fu il seguente: «Questa sceneggiatura è un’opera letteraria notevole, ma come film non farà una lira! Non è affatto adatta per il cinema!». Ne seguì una caterva di altri rifiuti e dovetti accettare come ultima risorsa il ritorno di fiamma di Pegoraro. Dopo essersi ripreso dagli sfottò dei colleghi per la faccenda de I vitelloni, desiderava ristabilire il proprio onore producendo La strada. A condizione, però, che il personaggio di Gelsomina non fosse interpretato da Giulietta Masina, che a suo parere non «andava assolutamente bene» per il ruolo. Peccato che per me invece Giulietta Masina fosse perfetta, così alla fine furono Carlo Ponti e Dino De Laurentiis, allora soci, a godersi la cinquantina di premi internazionali con cui venne incoronato il film in seguito. Se pensate che dopo questo mi sia stata concessa fiducia e mi abbiano lasciato lavorare in pace, allora non avete capito niente della mentalità di un produttore cinematografico. Dopo l’immenso successo che conobbe La strada, ricevetti una valanga di proposte, ma nemmeno una per produrre Il bidone, il film su cui stavo lavorando all’epoca: volevano tutti un po’ di Gelsomina! “Le vacanze di Gelsomina”, “Gelsomina va in bicicletta”, “La figlia di Gelsomina”… Avrei potuto fare fortuna vendendo il suo nome ai fabbricanti di bambole. Walt Disney in perso– 12 –

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na voleva farne un cartone animato. Avrei potuto vivere vent’anni a spese della povera Gelsomina! Nel corso degli anni Cinquanta, la società italiana conobbe una metamorfosi spettacolare. Dopo una guerra che aveva devastato la nazione, il miracolo economico era al culmine e un vento nuovo di libertà soffiava in tutto il paese. Roma, dove gli studi cinematografici, grazie a strutture d’avanguardia e a condizioni fiscali vantaggiose, attiravano un gran numero di produzioni internazionali, era stata ribattezzata niente meno che “la Hollywood sul Tevere”. Ed era a via Veneto, la celebre strada costeggiata da alberi e palazzi Art nouveau o barocchi, con i suoi negozi di lusso, i suoi prestigiosi alberghi – il Majestic, l’Excelsior – e i suoi famosi caffè – lo Strega-Zeppa, il Doney, il Café de Paris –, che affluiva fino a tarda notte tutta l’intellighenzia della capitale: intellettuali, politici, artisti, figure del mondo del cinema, modelle e giornalisti. Flaiano era uno degli habitués di questa società mondana, e fu a forza di raccontarmi le stravaganze che vi accadevano ogni sera che mi fece venire l’idea di farne lo sfondo del mio film successivo. L’intenzione di partenza era quella di realizzare una specie di documentario che dipingesse questa nuova società frivola ed edonista, una specie di réportage alla maniera dei giornali scandalistici che furoreggiavano all’epoca nella stampa italiana. Volevo, in termini di struttura narrativa, che fossimo ancora più innovativi rispetto al passato, e così dissi a Rondi, Pinelli e Flaiano durante una riunione di lavoro: «Vorrei che arrivassimo a un’opera picassiana, cubista; dobbiamo scomporre il tutto per poi rimontarlo seguendo i nostri capricci più infantili». – 13 –

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Sottoponemmo la prima versione della sceneggiatura a De Laurentiis, che aveva prodotto il mio film precedente, ma l’insieme gli parve troppo confuso, mal strutturato, perfino pericoloso, senza contare il costo, giudicato eccessivo. Riteneva inoltre che per un progetto così ambizioso la scelta del giovane Marcello per il ruolo del protagonista fosse troppo rischiosa: ci voleva una celebrità del calibro di Paul Newman. Ma io avevo bisogno che il personaggio venisse interpretato da una faccia banale, così De Laurentiis preferì cedere i diritti al miglior offerente. Alla fine, fu Rizzoli a produrre La dolce vita, al termine di un’epica battaglia che dovetti combattere per conservare il mio titolo (che lui voleva cambiare a tutti i costi in “Via Veneto”), e perché il film non venisse massacrato al montaggio, dal momento che – capite bene – tre ore, non è possibile! È troppo lungo! Una metà degli spettatori usciranno prima del termine e l’altra metà bisognerà scuoterli alla fine della proiezione per svegliarli! Prendere in giro i produttori, l’avrete capito, mi diverte molto, ma devo anche ammettere che questa lotta incessante mi è del tutto salutare, perché senza di essa i miei film sarebbero sicuramente meno riusciti. In fin dei conti, la stupidità e la mediocrità di questi produttori mi hanno aperto gli occhi sulla natura del mio lavoro, mi hanno consentito di trovare un equilibrio. Altrimenti, mi sarei lasciato trascinare dall’idealismo, trascurando le questioni pratiche che sono la realtà quotidiana del cinema. Nell’esercizio della propria arte, confrontarsi con un’autorità, anche a costo di burlarsene, è un correttivo necessario all’immaturità psicologica dell’artista. La rivolta è sempre feconda, essa porta con sé la necessità or– 14 –

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ganica dell’espressione, mentre l’approvazione conduce alla banalità e alla noia. Per tornare alla grave depressione che mi affligge proprio mentre sta per essere battuto il primo ciak del mio ottavo lungometraggio, credo sia necessario esporre la genesi particolare dei miei film. Mi è sempre sembrato che essi avessero un’esistenza precedente e indipendente da me, che fossero come stazioni nelle quali entravo una dopo l’altra, come un treno, durante il viaggio della mia vita. Quando mi appaiono per la prima volta, avviene sotto forma di una nebulosa capricciosa e sfuggente. Non è niente di più di una visione, di un sentimento, di un raggio di sole mattutino che accarezza le gote di una bella donna, o di un semplice profumo. Subito dopo la mia fantasia si scatena e mi sommerge con una folla di visi, sensazioni, ambienti, dialoghi, e l’insieme si ramifica come corallo, nelle direzioni più disparate. Perché tutto questo perda la sua forma onirica, bisogna che si produca qualcosa che mi costringa ad alzarmi dal letto, prendere l’automobile, andare agli studi a confrontarmi con i mille problemi che comporta la realizzazione di un film. L’elemento fondamentale, senza il quale non farei mai nulla di concreto, è il contratto che firmo con un produttore. Più precisamente, è l’anticipo che mi versa e che non voglio restituire. Lo ripeto. La mia psicologia è quella di un bambino che, perché si metta al lavoro, deve esservi costretto dai suoi genitori o dagli insegnanti. Senza contratto, senza anticipo, passerei le mie giornate a vagabondare, a correre dietro le farfalle o alle belle ragazze. L’artista è un trasgressore immaturo. E per – 15 –

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poter trasgredire ha bisogno di leggi, dogmi, genitori, un preside, un prete, femministe militanti o carabinieri. L’immenso successo di critica e di pubblico che aveva ottenuto La dolce vita mi permise finalmente di avere un inedito potere di negoziazione. Mi fu allora sufficiente borbottare qualche idea sconclusionata perché il caro Rizzoli mettesse la sua firma in fondo a un contratto. La sua sola condizione, che accettai con la giubilazione di un bidonista, era che parlassi ogni tanto con uno dei suoi uomini di fiducia, uno scrittore nonché editore e critico cinematografico francese, piuttosto rinomato pare, che si chiamava Lalaunay. Naturalmente, salvo rare eccezioni (tra cui Moravia e Pasolini), aborrivo gli intellettuali o presunti tali. Questo tipo di persone che vuole classificare tutto, dargli un nome, spiegare e catalogare, mi ha sempre annoiato profondamente, per cui mi dissi che stare a sentire le asinerie di questo Lalaunay non mi avrebbe nuociuto più di tanto e avrebbe potuto, addirittura, chi lo sa, divertirmi e distrarmi. L’importante era che potesse essere avviata la macchina della produzione. Per la preparazione di certi film, mi è capitato di affittare un piccolo ufficio anonimo e nascosto, ma questa volta me ne offrirono uno sfarzoso e principesco nei locali della Cineriz al 22 di via Po, a due passi da Villa Borghese. Così, per mesi, mi recavo tutte le mattine al mio nuovo posto di lavoro per dar vita, come uno scultore che trasforma mucchi di argilla in statue o anfore, ai fiotti di magma che si erano messi a sgorgare ancora una volta dai recessi della mia anima. Ho sempre mantenuto, data la mia carriera di vignettista, l’abitudine di dare alle mie – 16 –

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idee una prima esistenza concreta mediante il disegno. Comincio col fissare sulla carta degli schizzi a caso, dei bozzetti, di ciò che naviga liberamente e anarchicamente sui laghi turbolenti della mia mente. Possono rappresentare situazioni, ruoli, ambienti oppure personaggi coi loro costumi, i loro volti, le loro pose, il loro fisico e perfino i loro sentimenti. Questi disegni mi aiutano a trovare gli attori, servono ai truccatori e ai costumisti per ricostruire fedelmente le marionette della mia immaginazione, e agli arredatori per ricreare le scenografie corrispondenti. E mentre va avanti questo lavoro grafico, teniamo una serie di riunioni, io e i miei co-sceneggiatori, per portare avanti l’aspetto letterario e narrativo della faccenda. Si tratta di un momento molto delicato, in cui cerchiamo tutti insieme di scoprire la forma che potrebbe assumere il film. Per il momento, avevo solo sensazioni vaghe, intuizioni contorte. Sapevo soltanto che la storia avrebbe ruotato attorno a un personaggio centrale, un uomo sulla quarantina, incastrato nella propria vita come un insetto nell’ordito vischioso di una ragnatela. Si dibatterebbe febbrilmente in un intreccio di relazioni umane che lo asfissierebbero, ma senza le quali rischierebbe di cadere in un vuoto ancora più vertiginoso, dal momento che gli verrebbe a mancare un solido radicamento, una spina dorsale che lo sostenesse. Ecco, volevo fare il ritratto caleidoscopico di un individuo in crisi d’identità, una sorta di balletto di personaggi e sogni, angosce e frustrazioni, speranze e nostalgie… Una sera, confidai queste mie idee confuse a Ennio Flaiano, il mio vecchio e fedele sceneggiatore della prima ora, mentre scorrazzavamo in automobile, com’era nostra abitudine, per le vie di Roma – 17 –

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senza una meta precisa, per il semplice piacere di vagabondare. Il pover’uomo rimase di sasso, non fece alcun commento. Sapeva perfettamente che fra noi le parole erano inutili, che potevo leggere la sua costernazione e il suo scetticismo nel suo strabuzzare gli occhi, nelle sue alzate di spalle o nei suoi raschiamenti di gola. Lui, lo scrittore, pensava che il soggetto che avevo tentato goffamente di presentargli non fosse adatto in alcun modo al mezzo cinematografico, che il mio racconto non fosse che un tentativo presuntuoso e velleitario di sconfinare in una dimensione a cui poteva accedere solo la letteratura. Tullio Pinelli, il mio secondo fedele accolito, con il quale ripetei l’esperienza qualche giorno dopo, tacque anche lui, perplesso. L’unico che, senza sorpresa, acconsentì con il suo abituale entusiasmo (avrei potuto tirare in ballo qualsiasi cosa a proposito di questo nuovo film – la presenza di un’astronave alta cinquanta metri, un mio desiderio di adattare I viaggi di Gulliver o Le memorie di Casanova – e l’avrebbe trovata assolutamente formidabile) fu Brunello Rondi, il quale si dichiarò subito pronto a imbarcarsi in questa bell’avventura. Cominciammo come sempre a scrivere separatamente: io suggerivo un tema, un soggetto, una situazione, e ognuno di noi trattava la sequenza per conto proprio. Io però non avevo ancora deciso chi sarebbe stato l’uomo di cui volevo fare il ritratto: scrittore? avvocato? impresario teatrale? giornalista? Pinelli me lo domandò tutte le mattine, per settimane, ma io gli rispondevo soltanto che avremmo affrontato la questione in un secondo momento, che non aveva nessuna importanza. Un giorno, decisi di piazzare questo fantomatico per– 18 –

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sonaggio in una città termale, in cui sarebbe andato per “passare le acque”, e da quel momento ebbi la sensazione che l’argomento del film cominciasse a rivelare possibilità concrete. Scrivemmo qualche scena, gli attribuimmo una moglie e un’amante, ma il nostro entusiasmo scemò, perché ci ritrovammo ben presto in un’impasse. Il mio racconto faceva acqua da tutte le parti, mancava chiaramente di una base solida, di un tronco ben radicato al suolo da cui i rami avrebbero potuto dispiegarsi armoniosamente. Va da sé che non avevo un inizio né la minima idea per una fine. Non facevamo che girarci intorno, e nonostante tutti i miei sforzi, la mia mente sprofondava in una bruma ogni giorno più spessa. Una mattina, decisi di arrendermi: era inutile accanirsi sulla sceneggiatura. Più mi ci concentravo, più la cosa diventava confusa. Se volevo imbastire il film, bisognava cominciare con lo scegliere gli attori, collocarli con precisione, scavare, come un archeologo, tra la gente, parlare con lo scenografo, con il direttore della fotografia. Bisognava, insomma, che facessi come se il film fosse già pronto e le riprese dovessero cominciare entro una trentina di giorni. Partire con una sceneggiatura sotto forma embrionale non mi preoccupava più di tanto, lo avevo già fatto in passato. Tutto si sarebbe risolto da sé, credevo. D’altronde, si trattava di passare alla fase del lavoro che trovo più divertente, quella in cui il film si apre a nuove possibilità, in cui può ancora divenire qualcosa di molto diverso. In genere, comincio col passare ai giornali un annuncio di questo tipo: “Nell’ambito della preparazione del suo prossimo film, Massimo Barbiani è disposto – 19 –

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a ricevere tutti coloro che vorranno presentarsi al seguente indirizzo, da lunedì a venerdì, dalle 10 alle 16”. Nel frattempo, incarico i miei fidati collaboratori di setacciare la città alla ricerca di volti corrispondenti alle descrizioni che fornisco loro, e più in generale di un qualsiasi personaggio “barbianiano”, vale a dire che sembri degno di figurare in uno dei miei film. Nei giorni che seguono mi portano centinaia di fotografie e incontro decine di attori e di potenziali comparse: artisti del circo e del varietà, cantanti, dattilografe, prostitute, contesse, culturisti in pensione, ferrovieri… in pratica chiunque abbia avuto la compiacenza di rispondere alla mia richiesta. Li osservo tutti quanti con attenzione, e rubo a ciascuno di essi un pizzico di qualcosa, un tratto della personalità, un gesto particolarmente espressivo, un abbigliamento caratteristico, un tic verbale, un modo divertente di corrugare le sopracciglia, un’espressione dialettale che mi fa ridere, un ragionamento che mi sorprende… Posso vederne mille per prenderne soltanto uno, ma assimilo tutto quanto, ognuno mi offre un boccone, ognuno rappresenta un frammento del materiale con cui costruisco le mie future baracche. È quindi in un ufficio, circondato da buffoni, saltimbanchi e cantastorie come in una corte medievale, in una sorta di follia surrealista, in un’atmosfera dove i vapori di birra e liquori flirtano con il fumo delle sigarette, dove voci e dialetti si mescolano in una Babele sonora, che si compie il rito propiziatorio del passaggio da una vaga nebulosa a un astro dalla fisionomia impetuosa e ben delineata. Ma questa volta le cose non andarono come al solito. – 20 –

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Dopo aver passato al vaglio centinaia di foto, incontrato dozzine di persone, organizzato parecchie sedute di lavoro con Pinelli, Rondi e Flaiano, tappezzato il muro del mio ufficio di disegni e bozzetti, invece di germinare come quei fagioli o quelle lenticchie che si mettevano nel cotone bagnato da bambini e da cui crescevano decine di germogli, il mio film sembrava scappar via come un fringuello spaventato dal passaggio di una motocicletta. Il sentimento, l’essenza, il profumo, quell’ombra, quel lampo di luce che mi avevano sedotto all’inizio, convinto a lanciarmi in quella nuova avventura, si erano dissolti, lasciandomi solo e smarrito. Non ricordavo più qual era il film che volevo fare. Niente panico! Cercai subito di rassicurarmi, ero solo andato in panne come in quegli incidenti che a volte capitano alla virilità degli uomini, semplice conseguenza di una grande ansia, di una di quelle subdole forme di stress che s’infiltrano nel nostro subconscio e provocano somatizzazioni. Basterà pazientare un po’, e a tempo debito la mia lucidità ritornerà, proprio come ritorna il sole all’estinguersi della notte. Le operazioni continuarono, perciò, come se niente fosse. Vennero ingaggiate le maestranze, firmati i contratti degli interpreti principali, mentre veniva dato inizio alla costruzione di alcune delle scenografie – tra cui l’hotel delle terme, che sarebbe sorto in un bosco vicino a Roma, e la fattoria di mia nonna, negli studi della Scalera Film sulla circonvallazione Appia –, sotto la direzione dell’inevitabile Piero Gherardi, il mio virtuoso direttore artistico da Le notti di Cabiria in poi. La grande macchina della produzione raggiungeva – 21 –

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poco per volta la sua velocità di crociera, con il suo meticoloso calendario, i suoi piani di lavorazione, i suoi preventivi e tutta la sua fauna formicolante e pimpante. Io lasciavo fare, come se la cosa non mi riguardasse, come quei genitori che rimangono imperturbabili davanti al televisore mentre i figli imbrattano i muri di pittura, attaccano una pentola alla coda del gatto o dipanano rotoli di carta igienica per tutta la casa. Ero paralizzato dalla mia ansia crescente, e mentre la produzione si dava da fare negli studi, cercavo disperatamente, di nascosto, di riprendere in mano il mio film perduto, di ripercorrere l’itinerario della sua gestazione – da dove mi era venuta l’idea iniziale? Il primo contatto? L’ispirazione originaria? –, di rinfondere vita a quel misero aborto a cui non ero stato neppure capace di dare un titolo. Sulla copertina della cartella in cui tenevo le mie note mi ero accontentato di scrivere “8½”, con riferimento al numero di film che avevo girato fino ad allora, dove il “½” stava per un episodio, intitolato Agenzia matrimoniale, che avevo accettato di dirigere nel 1953 su richiesta di Riccardo Ghione e Marco Ferreri. Ci avvicinavamo alla data di inizio delle riprese e, man mano che si intensificavano le richieste della produzione, cresceva in me la convinzione dell’inevitabile sconfitta. Era tutto finito, non ero più capace, non avevo più nulla di interessante da dire. Finito il cinema, finite le marionette, finiti i travestimenti e le smorfie, non mi rimaneva che ritirarmi crudelmente prima del tempo. Vedevo già i titoloni dei giornali: “Colpo di scena nel mondo della settima arte: Barbiani annulla le riprese del suo nuovo film; dopo due Oscar e una Palma d’oro a Cannes mette fine alla sua giovane carriera da cineasta!”. – 22 –

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Ma come dare la brutta notizia al mio produttore, che aveva già investito ingenti somme di denaro nel progetto? E a tutti quei poveri piccoli artigiani che davano prova, nel compimento del loro lavoro, di tanto entusiasmo? Mi sentivo come un bambino che aveva commesso un’enorme stupidaggine e non aveva il coraggio di confessarlo a suo padre. Un groppo di disperazione e nervosismo iniziò allora a ostruirmi sempre di più l’esofago, presto mi divenne impossibile deglutire e faticoso il semplice respirare. La notte, le rare volte in cui riuscivo a rilassarmi a sufficienza per trovare il sonno, ero assalito da incubi tremendi. Mi trovavo tutto solo, in piedi, sul palcoscenico di un teatro sprofondato nel buio ad eccezione della mia figura, investita da un potente riflettore. Avrei dovuto annunciare pubblicamente che il film non si faceva più, che gettavo la spugna. Ed ecco che in fondo alla sala appariva un’orda di giornalisti e di critici cinematografici che ridevano a crepapelle, ricoprendomi di invettive, gettandomi in faccia uova e pomodori marci, rammentando gli uni agli altri che sapevano benissimo che ero solo un impostore, un artista da due soldi, un patetico buffone. Poi il riflettore si spostava su un altro settore del pubblico, illuminando questa volta i miei poveri compagni di sventura, Pinelli, Flaiano e Rondi, i volti impassibili, l’aria affranta, che scuotevano sgomenti la testa. Usciva poi dalle tenebre il gruppo dei produttori, Rizzoli, Ponti, De Laurentiis, Rovere e Pegoraro, che, tutti vestiti di bianco, coi panama in testa, paffuti come balenotteri, i cubani fumanti incastrati fra le labbra, alzavano le spalle o serravano i pugni con dei rictus di collera ed esasperazione. E infine Louise, – 23 –

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mia moglie, in lacrime, immersa nell’oscurità tranne che per un raggio di luna che le accarezzava delicatamente il viso. Era seduta in prima fila, accartocciata su una delle poltrone, bella come un’imperatrice, e si lasciava scendere le lacrime sulle guance con il suo consueto contegno… Oppure mi trovavo intrappolato, sempre solo, in un gigantesco ingorgo ostinatamente immobile sul Raccordo anulare. Intorno a me, le automobili erano popolate di individui dai volti inquietanti che mi squadravano con disprezzo o emettevano scoppi di risa sguaiate puntandomi il dito contro. Poi, un fumo acre cominciava a entrare dalle griglie di aerazione e invadeva l’abitacolo togliendomi il respiro. Cercavo di aprire la portiera o di abbassare i finestrini, ma invano. L’auto sembrava sigillata ermeticamente. Non mi rimaneva che rompere il vetro, ma non ci riuscivo; quando l’aria si faceva sempre più rarefatta e la nuvolaglia di fumo sempre più densa, giusto un attimo prima che morissi asfissiato mi svegliavo di soprassalto, madido di sudore, in una stanza la cui aria mi sembrava gelida. Fu di un lunedì mattina, quando non avevo messo nulla sotto i denti da quarantott’ore e scrutandomi nello specchio del bagno avevo scoperto due occhiaie particolarmente sinistre, subito dopo essere andato nel mio ufficio, aver fatto qualche telefonata, risposto alle prime domande su questo o quell’ordine di tessuto, di questa o quella scenografia, oppure di questa o quella comparsa, che fui assalito all’improvviso da un senso di vertigine; la vista mi si annebbiò, tutto quanto si colorò di un verde seppia, dopodiché un sipario nero arrivò a segnalare, come a teatro, la fine dello spettacolo. – 24 –

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