Cambiare il destino

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Collana

«DIALOGHI»

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Franรงois Hollande

CAMBIARE IL DESTINO

GREMESE


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Copertina: Ilaria Valeri

Titolo originale: Changer de destin © Éditions Robert Laffont, Paris, 2012

Traduzione dal francese: Leonardo Taiuti

Stampa: Grafiche del Liri – Isola del Liri (Fr)

Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo libro può essere registrata, riprodotta o trasmessa, in qualsiasi modo e con qualsiasi mezzo, senza il preventivo consenso formale dell’Editore. ISBN 978-88-8440-752-8


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Prefazione del presidente della Repubblica francese all’edizione italiana di Cambiare il destino «Cambiare il destino»: è questo l’orizzonte collettivo che propongo ai miei compatrioti all’interno del presente volume, scritto nel pieno della campagna per le elezioni presidenziali del 2012.

Testimonianza di un uomo coinvolto in una battaglia il cui risultato, al momento della stesura, era ancora incerto, il libro è anche l’atto di fiducia di un candidato che, per convincere i propri cittadini, si è rivolto direttamente a loro, esponendo le proprie idee, presentando le proprie proposte e aprendo il proprio cuore.

«Cambiare il destino»: è anche quello che mi proponevo di fare. I miei concittadini, quin5


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di, avevano il diritto di conoscermi meglio e di capire, attraverso il percorso di una vita, la personalità e i punti di forza di colui che chiedeva il loro voto. La crisi aveva già colpito la zona Euro e io mi sono preso l’impegno di far ripartire l’Europa. È quello che abbiamo cominciato a fare, a partire dallo scorso giugno, concludendo un patto basato sulla crescita, instaurando una supervisione bancaria e istituendo una tassa sulle transazioni finanziarie. Per realizzare il proprio destino, l’Europa deve imparare a essere ben altro che un mero mercato governato da discipline di bilancio: deve diventare uno spazio per il progresso e la prosperità, una nuova frontiera della democrazia. A qualche settimana da una decisione fondamentale per il futuro dell’Italia, alcune delle idee e delle esperienze che ho esposto in queste pagine potrebbero ispirare il centrosinistra dell’altro versante delle Alpi.

Innanzitutto, la certezza che esiste sempre un modo per garantire un futuro al proprio paese. Soprattutto nelle situazioni più critiche, non bisogna mai rassegnarsi. Quando un popolo fa affidamento sul meglio di sé, sui propri talenti, sulla propria creatività, 6


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può rialzarsi. A condizione, però, che tutto questo avvenga secondo giustizia.

Una campagna elettorale è un momento propizio alle discussioni, ai confronti e, quindi, anche alle divisioni. Tuttavia, nel corso della mia lotta, e soprattutto in questo libro, mi sono sempre sforzato di avere come interlocutori i francesi; tutti i francesi, senza alcuna distinzione, senza alcuna gerarchia, senza nessuna esclusione. Credo che non ci sia nulla di più dannoso che dividere un popolo in categorie – generazionali, sociali, culturali o etniche che siano. La mia prima ambizione era far ritrovare ai francesi il senso della patria e il gusto di un destino comune, un’ambizione alla quale tutte le altre erano subordinate. Ciò di cui un popolo ha bisogno non è un uomo che faccia miracoli. Ha bisogno di ritrovare la speranza dentro di sé.

È per questo che ho basato il mio progetto sui giovani. In tutto il continente, essi sono le prime vittime della crisi, della disoccupazione, della precarietà. Per la prima volta da moltissimo tempo, i giovani vedono profilarsi dinanzi a sé il pericolo di vivere in condizioni peggiori dei loro genitori. Non lo possiamo accettare. Restituire ai giovani le loro possibilità, il loro posto nel paese, la loro co7


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scienza di sé e la fiducia nel futuro è la mia priorità assoluta. E deve essere la nostra, quella di tutta l’Europa. Al di là della battaglia politica, questo libro parla di una speranza.

La speranza per un nuovo modello di società, in cui il potere pubblico imponga dei limiti al mondo della finanza, in cui gli ideali di giustizia si possano incarnare nella realtà della vita quotidiana. È la stessa passione per la Giustizia che mi anima ancora oggi quando, come presidente della Repubblica, lavoro al risollevamento del mio paese e a un nuovo orientamento di tutta l’Europa. François Hollande

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Essere se stessi Sono candidato al ruolo più importante del paese. Se i francesi mi vorranno concedere la loro fiducia, diventerò il settimo presidente della V Repubblica. Non ho preso alla leggera la decisione di candidarmi. Essa non ha rappresentato soltanto l’esito finale di una lotta politica che conduco da trent’anni, al servizio del mio partito e dei miei concittadini. No, mi sono candidato per cambiare il destino della Francia. Scrivendo queste parole, valuto la grande responsabilità che mi assumo. Cambiare il destino della Francia? Non è un obiettivo presuntuoso, quando la nazione sta subendo già così tante pressioni? Non è fuori dalla mia portata, visto che così tanti miei concittadini non hanno fiducia nella politica? No, affatto! La Francia sta vivendo un momento decisivo della sua storia. Dieci anni di gover9


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no conservatore l’hanno spinta dove si trova adesso, ossia sull’orlo di una rottura interna. Occorre cambiare rotta. Il paese deve scegliere: il salto nel vuoto all’insegna degli eccessi o il risanamento nel nome della giustizia. La mia decisione

Tutto, nella vita, mi ha preparato a questo momento: i miei rapporti personali e le responsabilità che mi sono state affidate, i successi che ho raggiunto e le prove che ho dovuto superare. È stato un lungo viaggio, iniziato molto tempo fa e adesso giunto alla sua conclusione. Tuttavia, perché i francesi mi accordino la loro fiducia, devono innanzitutto conoscermi. Devono capire perché tre anni fa, da solo, senza sostegno, senza appoggi, senza ricoprire una carica nazionale, al termine di una profonda riflessione, ho deciso di concorrere alla presidenza. Quindi voglio parlare loro con franchezza del mio percorso, del nostro futuro e, soprattutto, della mia idea di Francia. Come scriveva Montaigne nei suoi Saggi: «Voglio che mi si veda qui nel mio modo d’essere semplice, naturale e consueto, senza affettazione né artificio: perché è me stesso che dipingo». Mi metto sotto la sua protezione, lui che si vede10


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va come un uomo normale e scrisse un libro unico. È proprio quello cui aspiro io: essere un normale uomo politico, che viene investito di una responsabilità unica. Sono nato a Rouen, in piena Normandia storica, e sono stato eletto nella Corrèze, nel cuore della Francia. Sono stato a lungo capo di un grande partito – associato al governo per cinque anni – ed eletto alle primarie cittadine da quasi tre milioni di elettori. Si dice che una carriera politica sia la combinazione di costanza e circostanze particolari: neanche la mia sfugge a questa regola. Infatti, ho avuto alti e bassi, successi e rovesci, ascese e cadute, ma le mie convinzioni mi hanno sempre dato forza, senza rumore e senza esagerazioni, perché ho sempre seguito il pensiero che ritenevo più giusto, non dubitandone mai. Ho scelto sin da subito di impegnarmi per il mio paese, forse grazie ai miei genitori che, senza volerlo, hanno fatto nascere in me questa vocazione. Mio padre aveva idee opposte rispetto alle mie e mi ha praticamente costretto a sviluppare un mio pensiero, ad affinare le mie argomentazioni. Partigiano dell’Algeria francese, aveva delle convinzioni che cozzavano contro quelle che, invece, erano nate nel mio spirito. Senz’altro, l’essermi dovuto opporre a colui che amavo è stato di per sé un insegnamento, e nel mio intimo 11


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lo ringrazierò sempre, perché i nostri confronti mi hanno forgiato il carattere. Mia madre ha reso quella prova meno aspra. Era una donna dalla gentilezza infinita, che amava rendere felici le persone intorno a lei. Ha fatto molto di più che allevarmi: mi ha dato fiducia. Mi ha sostenuto in ogni momento e le leggevo negli occhi quanto fosse orgogliosa di me – il più bel regalo che una madre possa fare a un figlio. Non saprà mai come si concluderà questa storia, nella quale ha avuto una parte così importante: se n’è andata proprio nel momento in cui ho preso la decisione di candidarmi. Aveva una mentalità aperta e uno spirito generoso. Aveva scelto un mestiere, l’assistente sociale, che la metteva al servizio degli altri. E mi ha trasmesso la voglia di rendermi utile. Da adolescente, ben prima di diventare cittadino a tutti gli effetti, la politica era la mia passione. Le idee mi intrigavano tanto quanto le discussioni, le scommesse tanto quanto le polemiche, i movimenti tanto quanto i personaggi. Ancora oggi credo nell’azione collettiva; non amo l’ipocrisia, l’apparenza e l’esibizionismo che animano la vita pubblica. Eppure, anche se sto molto attento al pudore personale, non ne ho alcuno quando si parla di scelte politiche. La mia curiosità nei confronti della politi12


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ca si è risvegliata durante una grande lotta francese, quella che, nel 1965 – durante le prime elezioni presidenziali a suffragio universale della V Repubblica – oppose uno sconosciuto, Mitterrand, al generale de Gaulle. «La libertà contro la gloria», aveva detto sfrontatamente François Mitterrand, citando Lamartine. De Gaulle rappresentava il sogno della grandeur, ostacolato da una borghesia alla quale si appoggiava controvoglia. Era a capo di una società angusta, autoritaria, arcaica, che il Maggio francese avrebbe spazzato via. I rivoluzionari che marciavano a testa alta in quel maggio del ‘68 l’avevano capito. Il loro sogno era anche il mio: una società fraterna e giusta, che rispetta l’uomo e la natura, che rifiuta di misurare ogni cosa tramite calcoli egoistici. Mi sono avvicinato al socialismo nel momento in cui si stava ricostituendo come partito, a quei tempi svilito dagli eredi di Jaurès e di Blum. All’epoca del congresso di Épinay avevo diciassette anni e subito capii che era quello il mio posto. In poco tempo, senza l’aiuto di nessuno, scalai tutti i gradini della meritocrazia francese, arrivando fino alla Scuola Nazionale di Amministrazione, che era considerata un po’ come il passaggio obbligato per poter servire lo Stato. Dato che volevo anche capire la situazione delle realtà 13


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economiche, conclusi la mia formazione prendendo un diploma di HEC1. La Repubblica mi aveva assicurato queste competenze e io ho voluto ripagarla mettendomi a sua disposizione. I miei valori, quelli che ancora oggi difendo, si sono plasmati a quell’epoca. Appartengo alla generazione Mitterrand. Ne sono fiero, anche se ho dovuto prenderne le distanze. Il mio impegno, però, non è cambiato. Ho preso parte molto presto a tutte le lotte della sinistra e le sono rimasto fedele, anche se sapevo che, per durare, avrebbe avuto bisogno di un perpetuo rinnovamento. Eppure, nonostante la sfiducia, confesso di aver guardato con rispetto il generale de Gaulle. Era riuscito a risollevare una Francia caduta nell’abisso, il presidente che sognava una nazione capace di risorgere all’insegna della fierezza, dell’audacia e dell’indipendenza, l’uomo di Stato che incarnava il destino della nostra nazione. Più che la sinistra, si può dire che sia stata la destra stessa a farlo cadere in disgrazia, nel 1969. Non sopportava più la sua grandezza, che danneggiava i propri interessi. In seguito, l’eredità gollista è 1 Hautes Études Commerciales (Alti Studi Commerciali), istituti di istruzione superiore a indirizzo economico-commerciale. [N.d.T.]

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stata dilapidata. Ciò che ne rimaneva è stato definitivamente gettato alle ortiche nel 2007: il generale era uscito dal comando militare integrato della NATO, e ci si è rientrati. Voleva la partecipazione, ed essa è caduta nel dimenticatoio. Aveva detto che la politica della Francia non doveva essere succube della Borsa, e invece siamo alla mercè dei mercati finanziari. Sono ancora molti i francesi che rimangono sensibili al suo senso dell’onore. E il suo ricordo è prezioso, soprattutto in questo periodo dove solo uno sforzo per reagire e andare avanti ci aiuterà a sconfiggere la crisi e a liberarci dal potere illegittimo della finanza. Da tempo, ormai, il mio pensiero si basa su due parole chiave: rappresentanza e azione. Sono due idee che non mi hanno mai abbandonato. Ma questa volontà aveva bisogno di una grande occasione per emergere: la ebbi nel 1981 quando, giovane uditore alla Corte dei Conti, partecipai da vicino alla campagna presidenziale di François Mitterrand, che ottenne una vittoria storica. Da lì arrivai all’Eliseo dopo una prima candidatura legislativa nella Corrèze. Cambiare vita... ho creduto con tutte le mie forze a un futuro migliore. Che emozione fu, per me, quella sera del 10 maggio 1981! Finalmente avremmo messo le nostre speranze alla prova nel duro mondo 15


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reale! Anche se possono non ricapitare più, esistono dei giorni che giustificano tutta un’esistenza. A trent’anni di distanza, all’avvicinarsi delle prossime elezioni, questo bel ricordo legato alla fine dell’ultimo secolo mi fa guardare con fiducia a quello che comincia. Nel 1988 sono diventato deputato della Corrèze. Ormai il mio destino era totalmente votato, tramite la mia circoscrizione, al mio paese. Nel 1997 sono diventato primo segretario del Partito socialista, proprio quando una dissoluzione inattesa ci ha condotto alla vittoria. Avevo quarantatré anni, Lionel Jospin era Primo ministro e io ero associato al governo della Francia. Sono grato a Lionel Jospin: sono stato testimone del rigore delle sue decisioni, della chiarezza delle sue scelte, del suo rispetto per lo Stato. Ho anche capito che governare un paese è una fortuna, ma la tragedia è in agguato e può verificarsi in ogni istante. Chi detiene il potere ha il dovere di affrontare sia l’una che l’altra con lucidità e sangue freddo. Nell’aprile del 2002, Jean-Marie Le Pen superò Jospin al ballottaggio del secondo turno e l’onest’uomo che sostenevo annunciò con dignità il proprio ritiro dalla scena politica. Non avevo previsto questo epilogo, anche se credevo di aver colto alcuni segnali premoni16


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tori. La campagna elettorale, per esempio, mi era sembrata inconsistente e il candidato era costretto a fare troppe cose per riuscire ad averne davvero il controllo. L’unica certezza era soltanto una palese ostilità contro Jacques Chirac, il che di sicuro non poteva bastare per ottenere la vittoria. A quel punto confidai a Lionel Jospin tutte le mie perplessità, arrivando quasi alla lite. Era la domenica del 20 aprile, la vigilia del primo turno elettorale. Mi rispose che avrebbe revisionato tutta la campagna il lunedì seguente, per il secondo turno. Ma il lunedì seguente fu sconfitto. Non ho più dimenticato quella lezione. Rimasi l’unico sulla scena e promisi a me stesso, con tutta la mia anima, che non avrei mai rivissuto quel nervosismo, quell’inerzia. Tutta la sinistra avrebbe dovuto riflettere su quanto era accaduto, per non rivivere l’angoscia della dispersione e per non assistere ancora, umiliata, a un secondo turno in cui a darsi battaglia erano destra ed estrema destra. Oggi il pericolo non è certo passato. Anzi, al contrario. La disperazione è così grande nel cuore del popolo, che esso potrebbe cadere nella tentazione dell’estremismo, per cambiare le carte in tavola e dire la sua a chi detiene il potere. Ma coloro che la pensano così devono anche essere consapevoli del fatto che io li ascolto e che tengo a loro. A queste 17


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persone dico: se pensate a intolleranza, discriminazione, xenofobia, allora non contate su di me. Ma se la vostra idea è far capire ai potenti l’importanza di sostenere chi soffre ogni giorno le ristrettezze della vita e l’indebolimento della patria, allora vi capisco e sono con voi. Nel 2006 avevo già pensato di candidarmi alle imminenti elezioni presidenziali. Ma il fallimento del referendum europeo aveva diviso il mio partito e mi aveva obbligato, ancora una volta, a rimetterlo insieme. Fu Ségolène Royal a candidarsi. Aveva il favore dell’opinione pubblica e io mi feci da parte senza alcuna esitazione, anche se le nostre vite private si erano ormai separate. Con quella sua forza d’animo che conoscevo bene, portò avanti una campagna elettorale coraggiosa contro un avversario che invece riuscì, contro ogni evidenza, a sfruttare la nostra divisione interna. Al momento della sconfitta ricordo di aver provato una tristezza profonda, che si univa alla delusione di tutto il partito. In quel momento capii che la sinistra sarebbe entrata in un periodo di turbolenza. Ne avevo già avuto qualche avvisaglia, ma sapevo che il peggio doveva ancora venire. Forse era necessario toccare il fondo – il funesto congresso di Reims – per dare un futuro al partito. Nel 2008 lasciai la direzione del PS. Avevo 18


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condotto il partito a grandi vittorie locali ma, dal 1995, avevamo sempre perso le elezioni decisive. Da dove nasceva questa maledizione? Perché la sinistra, così forte nelle città, nei dipartimenti e nelle regioni, falliva sempre la prova suprema? Fu proprio a causa di questa fatalità che mi posi l’unica domanda che davvero valeva la pena farsi: potevo essere io colui che avrebbe posto fine alla lunga e ingiusta assenza della sinistra dalle scene nazionali? Ovviamente non ero il solo ad aspirare a questo ruolo: c’era Dominique StraussKahn che, più o meno segretamente, si stava preparando; c’era Ségolène Royal, la nostra candidata del 2007; e c’era Martine Aubry, la nostra prima segretaria. Una serie di personalità forti, che normalmente sarebbero bastate a convincermi a farmi da parte. Ma non quella volta! Mi proposi di essere io l’uomo giusto per gestire la gravità della situazione, rispondere alle aspirazioni dei francesi a un rinnovamento, dare prova di semplicità ed efficacia nell’esercizio del potere. La traversata del paese mi fu molto utile. Mi permise di avvicinarmi alla realtà: mi ha dato una legittimità, un’identità. Credo molto ai legami che avvicinano una persona a un territorio. Sono l’incarnazione della politica. Eppure erano pochissimi, all’epoca, ad avere fiducia nelle mie possibilità! Un pugno 19


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di amici, un gruppo di pochi eletti, una cerchia di valorosi. La loro qualità era indiscutibile, la loro solidarietà senza cedimenti. Ma il loro numero... In ogni caso cominciai, al mio ritmo, senza tener conto dei pronostici, della cabala, dei commenti salaci di quelli che sanno sempre tutto ma non capiscono niente. Tre anni per difendere le mie idee, tre anni per addestrare la sinistra, tre anni per unire la Francia. I sondaggi, che oggi mi favoriscono, all’epoca mi attribuivano percentuali a una cifra. L’importante era prenderla con filosofia! Poco a poco, comunque, quei sondaggi cambiarono, fino a farmi diventare prima un rivale serio (e non un semplice candidato che non vince mai), poi il favorito di quelle primarie cui, all’inizio, avevo guardato con sfiducia e che erano destinate invece a rivelarsi la più bella iniziativa democratica di sempre. Lentamente, con circospezione, i cittadini hanno cambiato opinione nei miei confronti. Sono stati loro a scegliermi, investirmi, designarmi. Non è stato un processo rapido, ma un accumularsi di segnali, di incoraggiamenti, di testimonianze ricevute da francesi senza nome, calorosi, incontrati casualmente durante i miei spostamenti, che mi hanno dato la certezza di potercela fare. In quei momenti delicati, poi, è stato prezioso l’affetto dei miei figli. Valérie, la mia compagna, mi ha dato il 20


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