Gli ultimi giorni di Stefan Zweig

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Narratori Francesi Contemporanei

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Laurent Seksik

Gli ultimi giorni di Stefan Zweig romanzo

Traduzione dal francese di Micol Bertolazzi

GREMESE


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Titolo originale: Les derniers jours de Stefan Zweig Copyright © Flammarion, 2010 Copertina: Giulia Arimattei Stampa: Tipografica Artigiana s.r.l. – Roma Copyright edizione italiana: GREMESE 2012 © New Books s.r.l. – Roma www.gremese.com Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta, registrata o trasmessa, in qualsiasi modo o con qualsiasi mezzo, senza il preventivo consenso formale dell’Editore. ISBN 978-88-8440-707-8


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anciò un’occhiata al baule in cuoio beige, sistemato nel corridoio accanto alle altre valigie. Si voltò verso la signora Banfield, la cara Margarida Banfield, e allungò il braccio verso di lei per afferrare il bicchiere d’acqua che gli porgeva. Ringraziò e bevve d’un fiato. Rifiutò l’invito a visitare l’appartamento. Conosceva già la casa. Aveva amato ciascuna delle tre piccole stanze, l’arredamento semplice e rustico, il canto stridulo e appassionato degli uccelli all’esterno, l’immensità della valle di fronte alla veranda. A qualche decina di chilometri a sud, il Corcovado e il Pan di Zucchero si ergevano come monoliti sopra alle isole che affioravano dal mare. In quei paesaggi c’era il cuore del mondo. Addio alla bruma che avvolgeva le cime delle Alpi, ai crepuscoli freddi e immobili che cadevano sul Danubio, al fasto degli hotel di Vienna, alle passeggiate al calar della sera sotto gli alti castagni del giardino Waldstein, alle sfilate di belle donne nei loro abiti di seta, alle fiaccolate di uomini in nero avidi di sangue e di carni morte. Petrópolis sarebbe stato il luogo di ogni inizio, il punto di origine, simile a quello dove 7


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l’uomo era nato dalla polvere e tornava alla polvere, il mondo primitivo, inesplorato e vergine, garanzia di ordine e certezza, giardino del tempo in cui regnava la primavera eterna. Restò immobile davanti al baule, in una sorta di calma ipnotica, come soggiogato da un incantesimo. Fu il primo istante di spensieratezza dopo mesi. Cercò in fondo alla tasca interna della giacca la chiave del baule, quella chiave che aveva sempre tenuto con sé, e che a volte sfiorava con la punta delle dita, come un talismano prezioso, in mezzo alla folla frettolosa, su una banchina della stazione o sul molo di un porto, nell’attesa di una nave o di un treno il cui arrivo era incerto. Ogni volta, la magia funzionava. Il contatto con la chiave lo riportava al passato. Una carezza sul metallo freddo regalava un giro in carrozza intorno al Ring, un posto per una prima al Burgtheater, la compagnia di Schnitzler al ristorante Meissl & Schadn, una conversazione con Rilke alla brasserie della Nollendorfplatz. Quei tempi non sarebbero più tornati. Mai più passeggiate sul ponte Elisabetta, camminate sul grande viale del Prater, il bagliore dell’oro del palazzo di Schönbrunn, né il lungo spettacolo del sole che tramonta sulle rive del Danubio. La notte era calata per sempre. Girò la chiave nella serratura. Dal bagaglio aperto uscì una sorta di luce pura. In quell’ango8


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lo di Brasile, il giorno nasceva una seconda volta. Il suo animo, intorpidito per molto tempo da un sonno senza sogni, fu sommerso da una calma esaltazione, mentre il suo cuore iniziava a battere con un’eco potente. Il suo cuore palpitava di nuovo. Sentì una presenza dietro di lui, gli parve di percepire un soffio. Si voltò, convinto che Lotte fosse lì a osservare la scena, momento di pace nella tormenta, serena, immobile, condividendo sapientemente la solennità dell’attimo, con lo stesso atteggiamento, calmo e per nulla fatalista, che aveva mantenuto nei giorni e nelle settimane di infinito terrore, fuga, movimento perpetuo, attesa incerta dei visti, file interminabili di esseri con i volti in lacrime e vane suppliche. Non c’è più un sacro asilo, un posto fisso dove abitare. Ormai la vita è il luogo di un eterno errare. L’immemorabile esodo. La osservò. E davanti alla grazia esalata da quel viso, si chiese con quale diritto poteva lasciare offuscare la brillantezza del suo sguardo e fare di quella giovinezza una bellezza decadente. Il viaggio non sarebbe mai finito. La signora Banfield aveva preparato il tè, ne voleva una tazza? Fece di no con la testa, ma questa volta il suo rifiuto non aveva nulla della buia ricusa con la quale aveva l’abitudine di declinare ogni invito. 9


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Era un no impaziente e febbrile, un no promettente. Alla fine avevano trovato un luogo dove posare le valigie, in quell’autunno del 1941. Per molte settimane consecutive, avrebbero osservato dallo stesso posto il tramonto. Avrebbero potuto scrivere ai loro cari indicando, sul retro della lettera, un indirizzo dove ricevere la posta, un semplice indirizzo – r ua Gonçalves Dias 34, Petrópolis, Brasile – come non era mai più successo dopo Londra. Ma avevano finito per stancarsi di Londra. Lotte cominciò a parlargli, con la voce dolce che la malattia rendeva, certi giorni, affannata; quell’asma incurabile, aggravata dai viaggi e che a volte la portava al limite del soffocamento. Quel mattino, la sua voce non tradiva alcun malanno. Disse, con un tono calmo: «Credo che staremo bene. Il posto è splendido. Sono sicura che vi riprenderete da questi viaggi, che ricomincerete a scrivere… Forse, è qui che trascorreremo i nostri ultimi giorni?». Lui si guardò intorno. L’appartamento era immerso nella penombra. Uno stretto corridoio si apriva, a destra, su una stanza da letto quadrata con il pavimento ricoperto da un vecchio tappeto. Due letti gemelli, con la struttura in ferro, vicini l’uno all’altro, occupavano il fondo della camera. Sul comodino, una Bibbia e un posacenere. 10


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Tende bianche, senza ricami, appese con dei ganci sopra la finestra. La stanza dava su un bagno, con una vasca dallo smalto scrostato sul bordo, dove erano appoggiati due asciugamani. La cucina disponeva di tutto il necessario. In mezzo alla sala da pranzo, un tavolo in quercia, quattro sedie impagliate, una poltrona di cuoio scuro logoro, una libreria. Alle pareti, alcune nature morte. Era una piccola casa con tre locali. Per quella sorta di bungalow, aveva ottenuto un affitto di soli sei mesi. Dopo un semestre avrebbe dovuto fare i bagagli, trovare un’altra sistemazione. Contò con le dita. Entro il marzo del 1942 sarebbe stato mandato via. Raus! Fuori, Zweig! Sei mesi in quel posto sperduto in mezzo al niente. Un luogo di luminosa desolazione. Ma aveva il diritto di lamentarsi? I suoi amici, immersi nel loro presente di sangue versato, cercavano un riparo per la notte, elemosinavano cento dollari per passare l’inverno, supplicavano un visto a chi aveva un nome. Erano diventati mendicanti, quelli del popolo del Libro, quelli della tribù degli scrittori. La piccola casa di Petrópolis doveva essere considerata come il più elegante dei palazzi. Doveva dimenticare la sua abitazione di Salisburgo, allontanare dalla memoria l’imponente fortezza di Kapuzinerberg, l’antico padiglione di caccia del XVIII secolo la cui facciata faceva pen11


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sare a un annesso del castello di Neuschwanstein e dove aveva giocato, da piccolo, l’imperatore Francesco Giuseppe. Quella tenuta era la località dove si era sempre sentito meglio, dietro le mura spesse, guardiane della sua solitudine, quando scriveva o era in preda alla rabbia furibonda. Una nobile fortezza dove era vissuto felice. Dimenticare Salisburgo. Salisburgo non esisteva più, Salisburgo era tedesca. Vienna era tedesca, Vienna, provincia del Grande Reich. L’Austria non era più il nome di una nazione. L’Austria, fantasma errante negli animi smarriti. Corpo morto. L’inumazione si era compiuta sulla Heldenplatz, sotto l’ovazione di un popolo che acclamava il suo Führer. L’uomo venuto a rinvigorire i sogni di grandezza, a ridare prestigio e purezza alla Vienna ebraizzata. L’Austria si era offerta a Hitler. Vienna, sfilata da favola, con i viali di cristallo dove si aprivano i cuori, si rotolava nel fango, si asciugava al vento del crimine. Vienna danzava durante i sabbat, tendeva la mano al figliol prodigo, tornato nel paese natale attraversando Braunau am Inn, dove aveva visto la luce, e rientrando nella propria casa, Re di Berlino, Kaiser d’Europa investito dal cardinale Innitzer, acclamato da una città esultante. Erano passati tre anni dall’Anschluss. Le testimonianze di chi riusciva ancora a fuggire si succedevano. 12


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Raccontavano la fame, il dolore, la miseria. L’esecuzione degli ebrei a Vienna. Lo spettacolo dell’orrore che si era svolto nelle terre tedesche si riproponeva, accelerato, nella piccola capitale, là dove aveva vissuto le ore più belle della sua esistenza. Avevano saccheggiato i negozi, incendiato le sinagoghe, picchiato gli uomini per strada, esposto gli anziani, i pii osservanti in caffettano, alla vendetta. I libri erano stati bruciati – i suoi e quelli di Roth, di Hofmannsthal, di Heine… –, i bambini ebrei erano stati espulsi dalle scuole, gli avvocati e i giornalisti ebrei deportati a Dachau. Avevano emanato le leggi, leggi che vietavano agli ebrei di esercitare la loro professione, di entrare nei giardini pubblici e nei teatri, di camminare per la strada durante quasi tutte le ore del giorno e della notte, di sedersi su una panchina; leggi che ordinavano di dichiararsi alle autorità, che toglievano la nazionalità, che estorcevano i patrimoni, che cacciavano dalle case, che raggruppavano, confinavano le famiglie ebree fuori dalle mura della città. E il tedesco era un uomo di legge! Il dramma si ordiva nella città in cui era nato. «Il più grande omicidio di massa della Storia», aveva profetizzato. Non gli avevano voluto credere. Avevano detto che era matto. Già quando aveva fatto le valigie, nel 1934, quattro anni pri13


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ma dell’Anschluss, gli avevano dato del codardo. Si era esiliato, lui, il primo dei viennesi, il primo dei fuggitivi. «Soffri di una psicosi da esilio immaginario», aveva sostenuto la sua ex moglie, Friederike. Sarebbe potuto restare quattro anni in più, restare come aveva fatto Freud, nell’illusione che la disgrazia fosse solo di passaggio. Era partito nel 1934, dopo che la polizia austriaca aveva perquisito la sua casa alla ricerca di un nascondiglio d’armi: armi a casa del cantore del pacifismo! Molto presto aveva sentito girare il vento, il vento cattivo che soffiava dalla Germania. La rabbia nei discorsi, la brutalità degli atti annunciava l’Apocalisse a chi aveva gli occhi aperti, a chi dava un senso alle parole. Apparteneva a una razza in pericolo: l’«Homo austriaco-judaicus». Aveva l’istinto delle cose, conosceva bene la Storia. Aveva scritto di ogni epoca, di Maria Stuarda e Maria Antonietta, Fouché e Bonaparte, Calvino ed Erasmo. Prendendo come metro di paragone le tragedie del passato, arrivava a presagire dei drammi in divenire. Quella guerra non avrebbe avuto niente in comune con le precedenti. I suoi cugini, gli amici, quelli che erano rimasti, che non avevano voluto sentire ragioni, non avevano voluto ascoltarlo, conoscevano la miseria e la fame. E si narrava che a volte uno di quegli esiliati, colto da un momento di coraggio, 14


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assetato d’aria esterna, di profumo del passato, chiamato dai bagliori del sole, si avventurava lungo i viali di Vienna e percorreva l’Alserstrasse con la speranza di raccogliere mille istanti luminosi. Allora, si raccontava, dei passanti lo riconoscevano dall’aria stralunata, dal terrore sul volto; lo interpellavano, radunavano la folla, lo richiamavano all’ordine, il nuovo ordine. Qualcuno nel cerchio lanciava una pietra, un secondo si avvicinava per dargli uno schiaffo; altri, incoraggiati, si avventavano sull’uomo, piovevano colpi, colava il sangue, ci si accaniva. E se per caso un SS che gironzolava per il Ring, allertato dal tumulto mentre risaliva la Florianigasse, si avvicinava alla scena, allora dalla folla si sollevava un clamore confuso; il cerchio si allargava, scendeva un grande silenzio, l’SS prendeva dalla cintura la pistola e l’arma scintillava sotto il sole di Vienna. L’uomo in nero mirava, aggiustava il tiro, una pallottola fischiava e la morte afferrava l’amante dell’aria aperta. Ecco quanto riportava l’articolo di un quotidiano viennese che gli era stato fatto arrivare: «Il sindaco di Vienna ha deciso di tagliare il gas negli appartamenti occupati dagli ebrei. Il numero sempre maggiore di suicidi con il gas in queste abitazioni infastidisce la popolazione e d’ora in poi sarà considerato come disturbo all’ordine pubblico». 15


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Respirò profondamente l’aria tiepida che passava attraverso la finestra socchiusa. Contemplò l’immensità verdeggiante che si presentava allo sguardo oltre i tetti della città. Il suo animo cedette alla dolcezza dell’ambiente. I suoi turbamenti si placarono. Dimenticò gli anni svaniti, gli esseri che soffrivano. Ebbe un pensiero per Lotte e per se stesso. Un senso di vergogna lo attraversò insieme a una sensazione di benessere. Dimenticò la vergogna. Rivolse a Lotte un sorriso timido. Disse che condivideva quello stato di sollievo. Ciò che l’aveva conquistato, durante la prima visita, era stata la veranda su cui si apriva il salotto e dove aleggiava un non so che di vitale. Seduto sulla poltrona, aveva provato la familiarità dei luoghi. Si chinò sul baule e ne esaminò il contenuto, una quarantina di opere. I libri avevano fatto il viaggio con lui, da Salisburgo. Si era ripromesso di tirarli fuori soltanto quando nel suo animo fosse tornata la calma. Era giunto il momento. Estrasse i libri, uno a uno. Lentamente, di ciascuno, osservava la copertina, sfiorava il bordo. Poi a lungo, perdutamente, in modo quasi ridicolo, immergeva il naso tra le pagine e annusava l’odore che se ne sprigionava. Quei libri non avevano più visto la luce dai tempi della fuga dalla casa austriaca. L’ultimo posto che avevano co16


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nosciuto era la biblioteca della tenuta di Kapuzinerberg. Il tempo, la traversata dei continenti e degli oceani non avevano dissipato il loro profumo. Esalavano l’odore del salotto della casa di Salisburgo. Le pagine se ne erano impregnate negli anni: un insieme di aroma di pino, legna bruciata, foglie d’autunno, odore di terra dopo la pioggia, fumo di sigari, mela, cuoio vecchio, fragranza da donna e tappeti persiani. Dopo l’entusiasmo e la solennità con cui aveva aperto le prime opere, affondò il naso nelle successive. Inspirava a pieni polmoni. Le pagine avevano conservato tutto. Il passato non era né morto né sepolto. Era preservato tra le pagine dei libri. Gli agenti della Gestapo, molto tempo prima, avevano requisito la casa, frugato in ogni angolo delle stanze, portato via i mobili, i quadri d’autore, migliaia di altri libri, ma non avevano potuto catturare l’odore del salotto. Una parte del passato era sfuggita ai profanatori. I libri avevano conservato i profumi della vita, resuscitavano von Hofmannsthal mentre fumava il suo avana, il povero Joseph Roth che assaporava il whisky, il venerato Sigmund Freud e i suoi aromi di pipa. Il ricordo di tutti quelli che avevano attraversato il salotto, Franz Werfel ed Ernst Weiss, Thomas Mann e Toscanini, era stato messo in salvo. Tutti quegli esseri morti o in esilio sarebbero sopravvissuti attraverso l’evocazione della loro presenza. 17


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