Gianfranco Perri su "il7 Magazine" di Brindisi

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Gli articoli di Gianfranco Perri su “il7 MAGAZINE” di Brindisi 2017 – 2022



Gli articoli di Gianfranco Perri

su “il7 MAGAZINE” di Brindisi 2017 – 2022



Gli articoli di Gianfranco Perri su “il7 MAGAZINE” di Brindisi 2017 – 2022 Questi i miei quasi centocinquanta articoli pubblicati sul settimanale di Brindisi “il7 MAGAZINE”, dalla sua nascita, più di cinque anni fa nel giugno 2017, fino all’ultimo numero pubblicato nel dicembre 2022. Articoli tutti scritti su molti dei 282 numeri che cono stati ininterrottamente pubblicati di questo magazine settimanale, presto divenuto prestigioso, che ha scandito la vita cittadina di Brindisi in tutti questi cinque anni. Brindisi, una città dalla ben più che bimillenaria storia. Ed è proprio della storia di Brindisi che, nella loro quasi totalità, trattano gli articoli qui raccolti in un volume di quasi 500 pagine. ...Articoli non certo propriamente di storia, ma più semplicemente di “divulgazione storica”, di divulgazione della intrigata e affascinante storia della città che fu chiamata Brunda in lingua messapica e poi Brundisium dai Romani che la conquistarono nel 267 a.C., l’ultima città italica ad essere incorporata ai domini di Roma. Brindisi, la “filia solis” del grande re e imperatore Federico II, la “sentinella dell’Adriatico” dei convulsi anni del secolo XX. Gli articoli, sempre necessariamente brevi, trattano indistintamente sia di episodi e personaggi appartenenti alla storia “grande” e sia di episodi e personaggi storicamente meno eclatanti o meno conosciuti, tutti comunque appartenenti a pieno titolo alla memoria storica della città, quella memoria che mai dovrebbe affievolirsi nei suoi cittadini, specialmente nei più giovani. L’ordine con cui gli articoli sono qui presentati è quello cronologico relativo alla data della pubblicazione e non segue pertanto alcuna altra logica. In questo modo, la lettura può essere del tutto aleatoria e selettiva e, naturalmente, con la sequenza liberamente scelta dal lettore. Buona lettura, Gianfranco Perri Brindisi, 31 dicembre 2022


Gli articoli di Gianfranco Perri su “il7 MAGAZINE” di Brindisi 2017 – 2022

Le epigrafi cittadine? Sparite Quel cenacolo di studiosi locali eredi virtuali di papa Pascalinu Due protagonisti dell’Unità d’Italia: un “Romano” di Patù a Napoli e uno di Brindisi Duecento anni fa: quando Mesagne era più importante di Brindisi Dottorato e borsa di studio negli USA con lo spirito del rugbista La travagliata nascita del cimitero: 200 anni fa La Chiesa di San Paolo due volte “miracolata” Seconda vita dei conventi: tra musica e cucina Il duca di Atene e il suo palazzo di Brindisi Santa Maria del Crepacore un gioiello del VII Secolo Il primo Agrario? In quel convento Due cartografi quasi gemelli Quando non c’era neanche il vescovo Esplosione di due corazzate: quei tragici parallelismi Tre istantanee di alcuni secoli fa Gerardi, un eclettico sindaco brindisino di fine ‘700 Quanti Brindisini? In tutto ‘2.536.733’ Ecco come Brindisi da Calabrese divenne Pugliese A 400 anni dalla nascita è ancora giallo su Passante Fu un brindisino l’inventore delle voliere: Strabone Lenio… e non Lucio Scrivere una storia sognando: quella dei musicisti brindisini Auguri Giustino: la tua Vita è stata bellissima Avventure in mezzo al mare raccontate da un brindisino La teoria dei vetri rotti: promemoria per il sindaco 100 anni fa nasceva Antonio Di Giulio 75 anni fa la morte del pilota eroe Ferrulli Alla ricerca degli ancestrali abitanti di Brindisi Ecco i nomi dei primi brindisini che la storia ha documentato Efisio e i suoi Blu70: eredi dei grandi gruppi brindisini “La più antica e più illustre processione brindisina Unica al mondo” Motobarca da una sponda all’altra della nostra vita Fontana de Torres compie 400 anni ‘quasi’ sempre al suo posto


1525-1600 Pagine di storia brindisina di fine secolo XVI Il sacco di Brindisi dell’agosto 1529 “Mamma li turchi” Cronache brindisine di scorrerie, rapimenti e schiavi Ricordando Dino Tedesco brindisino illustre: poeta, giornalista e regista Conte di Montecristo ispirazione brindisina Il padre di Dumas recluso a Brindisi Guaceto, tra natura e storia: dall’acqua dolce degli arabi all’oasi protetta WWF 2050 anni fa quando Brindisi fu capitale dell’Impero Brindisi durante il regno italiano dei Goti Brindisi nella guerra greco‐gotica Guerra greco-gotica: brindisini nel baratro 40 anni fa il colonnello Varisco fu ucciso dalle BR: un eroe anche brindisino Brindisi longobarda: per due secoli fantasma Da Madrid le imprese del militare brindisino Simonetta Quell’incorreggibile vezzo di cambiare i nomi alle strade. Così è sparita via Magistra Brindisi negli anni del viceregno austriaco: da un dominatore all’altro Austriaci a Brindisi: dalla padella alla brace Il trasferimento del vescovo a Oria: Inizi di un conflitto Gregorio XIV e il via libera all’arcivescovo di Brindisi Il capitano Monticelli alla battaglia di Lepanto Brindisini arcivescovi: a Brindisi e altrove Brindisini: 9 arcivescovi e 9 vescovi nella storia Brindisi, contro Miami: difficile confronto? Eppure… “Juni” Romano nobile brindisino controverso sindaco di Lecce nel 1768 Quando la peste portò via da Brindisi la colonna… Che finì a Lecce Accadde a Brindisi durante il Decennale regno francese Churchill a Brindisi per tre volte con la Valigia delle Indie Quando tra Brindisini e Tarantini non correva buon sangue Quando i Brindisini emigrarono a Ellis Island (a New York) Giovanni De Marco, capitano brindisino del ‘600 A metà ‘700 Brindisi contava 8.000 abitanti e 10 conventi Quando le epidemie scoppiavano d’estate e sparivano in inverno Nel XIII secolo il porto base strategica degli ordini religiosi militari E il chirurgo francavillese volle restare in Argentina. Fuga di cervelli già nel 1880 Brindisi e Venezia tra accordi solenni e severe dispute Grande Guerra: la prima azione armata italiana partì da Brindisi nell’estate 1914 50 anni fa l’isola di Wight: partecipammo in 600 mila. E fu la storia A cavallo tra XVIII e XIX Secolo Brindisi fu al centro di un drammatico conflitto I soldati ex borbonici che combatterono nella Guerra civile americana San Francesco di Paola, il Santo dei naviganti, dopo 200 anni ritorna a Brindisi Nel 1912 Ricciotti Garibaldi salpò da Brindisi per la Grecia: la sua ultima spedizione


Brindisi spagnola: 200 anni che lasciarono il segno Alla conquista di Rodi: nel 1912 il battesimo di guerra per la base navale di Brindisi La divertente narrazione di Richard Keppel Craven in visita a Brindisi nel 1818 200 anni fa i Moti del 1820: molti i Brindisini coinvolti Quando la Marina Militare si appropriò di Brindisi 100 anni fa Brindisi determinante per liberare l'Albania Aloysio Ferreyra: l’ultimo castellano dell’Alfonsino in era vicereale La città e l’Aeronautica Militare: 90 anni e 27 aviatori brindisini decorati Brindisi e i brindisini quando in Italia e in tutta Europa successe un '48 L’immaginario castello Angioino di Brindisi: una ‘storica’ cantonata Mosse il primo passo da Brindisi l’avventura coloniale italiana: il 12 ottobre 1869 Nel 1943 l’epilogo dell’avventura coloniale italiana fece scalo a Brindisi Fu brindisino il primo generale dell’Aeronautica Militare Italiana: Oronzo Andriani Nel giugno del 1971 - il Battaglione San Marco sbarcò a Brindisi Quando il principe Filippo, futuro duca di Edimburgo, passò da Brindisi Accadde a Brindisi al tempo di Dante “Barche da pesca entrando nel porto di Brindisi” di Sanford R. Gifford - 1874 Brindisi di fine ’800: il ritratto impietoso - a tratti attuale - di un giornalista francese Brindisi-Valona: nel 1917 il primo servizio regolare italiano di Posta Aerea Quando Ernest Hemingway prefigurò la fuga a Brindisi del '43 L’epica vittoria dei Normanni sui Bizantini nel porto di Brindisi il 28 maggio 1156 Nel 1938 - 1939 partirono tutti dal porto di Brindisi i rurali pugliesi inviati in AOI Brindisi tra IX e X secolo in balia del 'tutti contro tutti' Kastellorizo: la più remota isola greca, con una storia un po’ italiana e anche brindisina Nella storia della Marina Italiana due navi hanno portato il nome “Brindisi” Quelle volte che Brindisi, città demaniale per eccellenza, fu ‘città feudale’ I due storici sommergibili “Balilla” entrambi di base a Brindisi 150 anni fa si inaugurò il traforo del Frejus: il più lungo tunnel ferroviario al mondo Nel 1480 la peste colpì Brindisi e “forse” fece dirottare l’attacco turco su Otranto La passione e il talento per la musica nel DNA dei brindisini: i fratelli Sgura Settembre 1943: quando anche il leggendario ‘Comandante diavolo’ venne a Brindisi 75 anni fa, dopo tre anni di permanenza a Brindisi, l’Accademia Navale ritornò a Livorno Con l’anno scolastico 1946-47 iniziò le attività l’Istituto Nautico Carnaro di Brindisi In visita al più illustre dei brindisini: culto e fama di “San Lorenzo de Brindis” in Spagna Nel 1921 la tumulazione della tomba del Milite Ignoto nell’Altare della Patria Cent’anni fa - 1921 - Piazza Cairoli prese la forma di cerchio con una fonte al centro Quando anche a Brindisi c’erano gli schiavi musulmani L’11 dicembre 1916 la corazzata “Regina Margherita” colò a picco Carlo Losito: brindisino di adozione, marinaio capace e provetto palombaro Albareale: la battaglia che nel XVII Sec. ebbe come protagonista eccezionale Padre Brindisi 60 anni fa Ugo Giuseppe Gigante - insigne musicista brindisino - moriva a New York


Gesta e morte in Anatolia dell’ammiraglio brindisino Ruggero Flores Trenta anni fa si spense a Roma l’attore brindisino Gianni Rizzo Da Fiume al Tommaseo: una storia “anche brindisina” di 75 anni fa Con la Grande guerra iniziò a Brindisi l’epopea dei MAS 90 anni fa moriva Angelo Titi un brindisino che ha lasciato il segno I dodici brindisini che parteciparono all’epopea dannunziana di Fiume nel 1919 Gli eredi dei MAS di Brindisi nel romanzo “El Italiano” di Arturo Pérz-Reverte La rivolta degli schiavi di Brindisi nel 24 d.C. sotto l’imperatore Tiberio Il 10 aprile del 1872 - 150 anni fa - moriva il patriota brindisino Giovanni Crudomonte Don Augusto Pizzigallo carismatico cappellano dell’Aeronautica e rettore del Cimitero 1799: quando anche Brindisi fu occupata dalle truppe russe Il marò brindisino Antonio Cappelli tra i caduti della battaglia di Lissa 125 anni fa cadeva ucciso in Grecia il deputato Antonio Fratti Domenico da Brindisi: il famoso ‘pope’ vissuto intorno al 1200 di cui si sa molto poco Brindisi bizantina: per due secoli città ‘quasi’ senza una storia propria Padre Bernardo Selvaggi: un brindisino del ‘600 precursore - a suo modo - dei tempi Brindisi: città ‘al limite’ e ‘città ‘limes’ Franco Arina: il Sindaco di Brindisi che esercitò il mandato più a lungo di qualunque altro 80 anni fa la disfatta e la gloria dell’esercito italiano a El Alamein Toponimo “Salento”: da quando? 1102: quando la normanna Brindisi fu occupata (?) dagli Ungheresi Papa Ustino: poeta dialettale brindisino dell’ultimo ‘800 Marchesi di Brindisi: Francisco José de Ovando e Lucio Boccapianola 60 anni fa moriva Serafino Giannelli: sindaco podestà e benefattore di Brindisi I cinque Brindisini che furono parlamentari del Regno d’Italia Nell’ottobre di 79 anni fa l’eccidio di Kos. Tra le 103 vittime l'ufficiale Andrea Cappelli Guerre d’altri tempi: così nel 1734 gli spagnoli riconquistarono Brindisi Commemorando l’eroe brindisino Tenente pilota Antonio Caravaggio Goffredo e Tancredi d’Altavilla: i due conti normanni della Brindisi postbizantina Perché Pigonati “NO” e Monticelli “SI” 1956: “annus horribilis” del Novecento brindisino 80 anni fa si consumò la tragedia dell’esercito italiano sul Fronte del Don






















FRAMMENTI DI STORIA

Quattro secoli bui tra VII e il IX: la Chiesa di Brindisi, quasi inesistente, dipendeva da Oria urante gli anni del dominio bizantino che nel meridione italiano seguirono alla fine della ventennale guerra greco-gotica che nel 553 aveva visto vincitori i Bizantini dell’imperatore Giustiniano, il malgoverno, l’esosità dei funzionari greci, la corruzione imperante, il precario stato di sicurezza delle vie di comunicazione terresti infestate dal brigantaggio, la miseria generalizzata e lo spopolamento, furono tali che a Brindisi - che pur era stata sede, con Leucio suo primo vescovo, di una delle prime comunità cristiane italiane - alla fine di quel VI secolo non si riuscì neanche ad eleggere un vescovo proprio. Nel 595, infatti, il papa Gregorio Magno scrisse a Pietro, vescovo di Otranto, perché provvedesse alla chiesa di Brindisi, priva di una guida dopo la morte nel 595 del suo presule Giuliano, e ve ne

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facesse pertanto eleggere uno. Una situazione conseguenza dell’abbandono in cui erano versati per anni il clero e tutto il popolo dell’intera regione - anche Lecce e Gallipoli in quel finire di VI secolo non avevano potuto eleggere il proprio vescovo - che aveva a lungo subito, e che ancora a lungo doveva continuare a subire, le continue angherie e le prepotenze di un’amministrazione affidata al governo di una serie di patrizi greci, che da Otranto esercitarono il potere assoluto bizantino in nome dell’esarca di Ravenna. La sede episcopale di Brindisi rimase vacante fino al 601 - o forse per ancor più tempo - e il seguente vescovo fu Proculus al quale succedette Pelino, monaco basiliano formatosi in Durazzo e trasferitosi a Brindisi perché non aderente al Tipo, l’editto dogmatico voluto dall’imperatore bizantino Costante II nel 648. Pelino fu poi martirizzato dai greci nel 662 e vescovo di Brindisi fu il suo giovane discepolo Ciprio, che da Durazzo lo aveva accompagnato

Il palazzo arcivescovile di Brindisi

il7 MAGAZINE 24 3 novembre 2017

ed era scampato miracolosamente alla persecuzione bizantina degli eretici nel meridione italiano. Il seguente presule di Brindisi fu Prezioso, il quale morì proprio quando, nel 674, i Longobardi decisero di conquistare Brindisi, strappandola al dominio bizantino durato centoventi anni. Prezioso morì poco prima o poco dopo l’arrivo dei Longobardi e venne seppellito in un sarcofago con una scritta quasi graffita ad indicare la sepoltura affrettata fatta da una cittadinanza sbandata e, probabilmente, in fuga. I Longobardi trovarono in Brindisi una città in profonda crisi, con le antiche mura romane dirute, così come la maggior parte degli edifici monumentali dell’età classica. Quindi la distrussero, essendo un porto per loro inutile e difficile da difendere contro gli abili navigatori bizantini, e fecero di Oria il loro più forte caposaldo in Calabria, la Terra d’Otranto, un caposaldo più facile da difendere trovandosi in una posizione sopraelevata rispetto alla zona circostante. E così, Prezioso fu l’ultimo presule residente in città prima del trasferimento della sede episcopale a Oria, resa inevitabile proprio dalla volontà longobarda di voler distruggere Brindisi, che fu abbandonata e restò quasi priva d’abitanti, con solo qualche sparuto gruppo di cittadini che si stabilì intorno al vecchio martyrium di San Leucio e con pochi gruppi di Ebrei nei predi del settore detto di Tor Pisana e nella Giudecca, che restarono per mantenervi un piccolo scalo marittimo per la loro colonia oritana. In una città ormai ridotta e molto contratta rispetto all’antica urbe romana. La sede del vescovado permarrà in Oria sino all’XI secolo, allorché la venuta del pontefice Urbano II a Brindisi - nel 1089 su richiesta del normanno Goffredo dominator di Brindisi, per consacrare le basi della nuova cattedrale - segnò la rifondazione della città ad opera dei Normanni e, con il restio arcivescovo oritano Godino, il ritorno a Brindisi della sede episcopale, dopo ben quattro lunghi e tristi secoli. Durante quei quattrocento anni, Brindisi restò a lungo semidistrutta e di fatto anche semiabbandonata, sia dagli spiazzati Bizantini e sia dai sopravvenuti Longobardi. E così, in quei secoli bui, la città dovette anche subire e soffrire a più riprese gli attacchi le razzie e le devastazioni


dei Saraceni, specialmente da quando questi, nell’827, si insediarono stabilmente in Sicilia e poi, finanche, nell’841 fondarono un emirato trentennale - in Bari. Nell’838 Brindisi venne assalita, saccheggiata, bruciata e poi spontaneamente abbandonata dalle bande berbere, nonostante il sopraggiunto soccorso delle truppe del principe beneventano Sicardo che, nella lotta intrapresa per liberare la città, rischiò di perdere la propria vita. Nell’864 i Saraceni rioccuparono Brindisi che poi, nell’867, fu assediata ed assaltata dall’imperatore Ludovico II nella sua campagna contro i Saraceni dell’emirato barese. Fu quindi la volta della riscossa bizantina sul meridione italiano e, nell’878, le forze dell’imperatore Basilio I comandate dal generale Niceforo Foca iniziarono la riconquista delle città ancora rimaste in mano araba e recuperarono anche il resto dei territori occupati dai principi longobardi. In quella vittoriosa e lunga campagna, in cui il generale bizantino solamente non poté liberare la Sicilia dall’occupazione araba, nell’886 anche Brindisi tornò sotto il formale controllo del Bizantini, i quali, naturalmente, la incontrarono praticamente tutta in macerie: “macerie longobarde del 674, macerie saracene dell’838 e macerie imperiali dell’867”. Quel ritorno - dopo 212 anni - dei Bizantini a Brindisi fu accompagnato da timidi, anche se presto interrotti, segnali di rinascita e alla fine di quel secolo IX si iniziò la costruzione della chiesa di San Leucio, impulsata dall’influente vescovo oritano Teodosio. Poi però, durante il secolo successivo, il X, le coste adriatiche me-

ridionali tornarono ad essere ripetutamente preda dei pirati saraceni, ai quali si alternarono quelli slavi, che nel 922 assaltarono Brindisi dove ritornarono ancora nel 926 e dove, nel 929, giunsero anche quelli schiavoni. Finalmente, quando Durazzo nel 1005 tornò a far parte dei domini dell’impero bizantino, l’assetto politico del settore meridionale della costa adriatica italiana riassunse vitale importanza strategica, giacché la capitale dell’impero poteva essere facilmente raggiunta via terra dopo la breve traversata da Brindisi a Durazzo e il

Papa Gregorio XIV

Papa Urbano II

La curia vescovile di Oria

il7 MAGAZINE 25 3 novembre 2017

porto di Brindisi diventò, come lo era stato per tutta l’antichità, il più importante terminale in Italia della via Egnazia. I Bizantini quindi decisero di intraprendere la ricostruzione di Brindisi affidandola al protospatario Lupo, ma solo qualche anno dopo, con l'arrivo dei Normanni, il dominio bizantino nel meridione italiano dopo la conquista normanna della Terra d’Otranto con, nel 1071, la fondazione della contea di Lecce e, nel 1088, quella del potente principato di Taranto, al quale anche Brindisi fu ascritta - di fatto cessò. Il ritorno della cattedra di Leucio a Brindisi, che nel 996 era stata elevata a arcivescovado dall’imperatore Basilio II, con Giovanni II arcivescovo di Brindisi - o di Oria? - con sedi suffraganee in Monopoli e Ostuni, non fu però indolore: furono necessari l’impegno e l’insistenza di più d’un papa su ben cinque arcivescovi e, anche quando finalmente e suo malgrado Godino “arcivescovo di Brindisi e Oria” poco prima di morire - 1100 - riportò la sede arcivescovile da Oria a Brindisi, la reticenza degli oritani ad accettare la sottomissione gerarchica della loro Chiesa a quella di Brindisi non cessò mai e la ribellione perdurò ancora per secoli. Fu solo nel 1591, infatti, quando il papa Gregorio XlV risolse infine la secolare controversia ordinando la separazione delle due Chiese: Brindisi con Andrea Ajardis manteneva la sede arcivescovile ed Oria, nuova sede vescovile autonoma da Brindisi, diveniva suffraganea dell’arcidiocesi di Taranto: uno status quo tuttora vigente.


Monumento funereo della tragedia della Benedetto Brin nel cimitero di Brindisi





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Storia millenaria

Irrisolti i misteri sulle opere del pittore brindisino vissuto nel Seicento e di quella firma con la «B»

A 400 anni dalla nascita è ancora giallo su PASSANTE

il7 MAGAZINE 30 2 marzo 2018

*,- -.+ (.+&,/ )((icorre quest’anno il quadricentenario della nascita di Bartolomeo Passante, rinomato e controverso pittore seicentesco nato a Brindisi nel 1618, come documentato dalla certificazione, rintracciata nella parrocchia napoletana della Carità, del suo matrimonio con Angela Formichella, avvenuto il 4 maggio 1636. Dalla documentazione diocesana si evince che il pittore, impiantato a Napoli da sette anni, era originario di Brindisi, era figlio di Donato d’Antonio e aveva diciotto anni. Angela Formichella era nipote di Pietro Beato, pittore di trentacinque anni, insieme al quale Bartolomeo aveva abitato nella strada di Toledo alle case d’Ottavio Genna, nella parrocchia di Sant’Anna. A Bartolomeo, la morte - di peste - lo sorprese prematuramente, il 17 luglio 1648, e il pittore brindisino fu sepolto a Trinità di Palazzo. In un Codice miscellaneo della Biblioteca Nazionale di Firenze intitolato “Notizie di vite ed opere di diversi pittori”, di Filippo Baldinucci e Anton Francesco Marmi, è inserita la Nota intitolata “De' pittori scultori ed architettori che dall’anno 1640 sino al presente hanno operato lodevolmente nella città e Regno di Napoli” e, nel 1675, il postillatore di quel Codice annotò: «B. Passante imparò ed imitò molto da Giuseppe de Ribera suo maestro, anzi che le copie fatte di sua mano quasi non si distinguono dalli originali del detto Giuseppe». Bernardo De Dominici, nel 1745, in “Vite de' pittori scultori ed architetti napoletani” lo accomunò ancor più al maestro Spagnoletto: «Passante fu discepolo del De Ribera e sotto la sua direzione riuscì valentuomo, tanto che il maestro molto l’adoperava nelle molte richieste di sue pitture; massimamente per quelle che doveano essere mandate altrove, ed in paesi stranieri. E questa è la cagione che poche opere sue si veggono esposte in pubblico, ma solamente in casa di alcuni particolari si ammirano varie istorie sacre da lui dipinte, e mezze figure di santi e di filosofi, perciocché egli di età ancora fresca morì di peste. Egli è così simile alle opere del Ribera che bisogna sia molto pratico di lor maniera chi vuol conoscerlo, conciossiacchè nel componimento e mossa delle figure, è simile al suo maestro, e più nel tremendo impasto del colore, come si può vedere dal bel quadro della “Natività del Signore”, situato sopra la porta della chiesa di S. Giacomo de' Spagnuoli, il quale è così eccellente che sembra di mano del suo egregio maestro, e massimamente a' forestieri, da' quali viene creduto di mano del Ribera, nel quale, però, da chi è intelligente dell’arte vi si vede un carattere superiore, nel ricercato disegno, e nell’espressione degli affetti, e più nell’esprimere la languidezza delle membra nella decrepità de' suoi vecchi, nella quale si può dire che fu inarrivabile. Laonde di Bartolomeo sol diremo che fu valente scolaro di Giuseppe de Ribera, e che l’opere sue son stimate da' professori quasi al pari del suo ammirabil maestro». La figura di questo peculiare artista brindisino però, oltre al nome del celeberrimo pittore spagnolo José de Ribera, detto Spagnoletto, è anche legata alla prolungata ed irrisolta controversia riguardante le sue opere, sulla cui attribuzione sono sorte differenti e contrastanti opinioni, motivate anche dal ‘giallo’ che accompagna il suo cognome: Passante o Bassante? Un enigma sorto

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perché alcune delle sue possibili opere sono firmate con la ‘B’, senza che neanche si sia ancora potuto escludere del tutto che si tratti di due personaggi - due pittori - distinti. In quanto alle opere, ad alcuni autori parve «incontrovertibile che tutto quanto il De Dominici riferisce del Passante si attaglia alla perfezione al ‘Maestro’ del “Annuncio ai pastori”», il famoso dipinto tuttora ufficialmente di ‘Anonimo’ conservato nel Birmingham Museum and Art Gallery, in origine attribuito addirittura al Velazquez e, nel 1935, attribuito da Roberto Longhi al pittore brindisino. Dalla “Natività del Signore” citata da De Dominicis potrebbe essere stata ritagliata la grande tela “Adorazione dei pastori” conservata in una chiesa di Kalmar in Svezia, come sostenuto da Giuliano Briganti quando, nel 1988, indicò che il pittore menzionato da De Dominici «indubbiamente parte, come molti altri, dall’orbita del Ribera e in seguito indirizza il suo cammino, orientandosi fra Stanzione, Fracanzano, De Bellis e l’eleganza del Cavallino e del Vaccaro, con però, una certa secchezza e un’attenzione al disegno che lo distinguono». Anche nel Museo del Prado di Madrid è conservata una tela intitolata “Adorazione dei pastori” a firma ‘Bartolomeo Bassante F’ e, d’accordo con gli studiosi spagnoli che esclusero poter identificare il suo autore con l’incognito ‘Maestro dell’Annuncio’, diversi autori, tra cui Ferdinando Bologna nel 1958, avanzarono la tesi dell’esistenza di due differenti pittori - di cognome simile, ma dalle caratteristiche diverse comprovata dalla indubbia divaricazione stilistica tra le due opere: il Passante, identificato come autore del “Annuncio ai pastori” di Birmingham e il Bassante, autore della “Adorazione dei pastori” del Prado. In contrapposizione, Roberto Longhi, che definì Bartolomeo Passante «maggiore ‘naturalista’ della prima metà del Seicento napoletano», pur riservandosi il beneficio del dubbio, nel 1969 ricusò la distinzione avanzata dal Bologna, mentre più tardi - nel 1972 - anche Raffaello Causa propugnò la distinzione tra due pittori, il Passante dell’Annuncio e il Bassante del Prado, attribuendo a quest’ultimo anche altri dipinti inediti e argomentando: «Bassante non supera mai i limiti del suo maestro, oscillando - sulla scia di Ribera - tra i modi del Falcone e quelli del Fracanzano, non senza anche inclinare verso l’artigianale rielaborazione di qualche opera vaccariana o cavalliniana di successo: “Adorazione dei pastori” del Prado, dipendente dal Cavallino. “Nozze mistiche di S. Caterina” firmato ‘Bartolomeus Bass me pinsit’, connesso al Vaccaro e collegato a “Sacra Famiglia con S. Giuseppe dormiente”. Quindi “S. Sebastiano curato dalle pie donne” e “Adorazione dei Magi” firmato ‘B’». Tra la seconda metà degli anni Ottanta e il decennio successivo, gli specialisti insisterono sull’urgenza di assodare la distinzione tra i due pittori e così, mentre alcuni propesero per accettare la possibile omonimia, altri, invece, opinarono essere ‘Passante o - indistintamente Bassante’ il pittore del Prado e delle altre opere attribuite ai due cognomi, e suggerirono battere piste alternative per l’identificazione del ‘Maestro dell’Annuncio’. Poi venne avanzata la possibile ‘sottrazione’ al Passante della paternità del dipinto del Prado, contestandone la validità della firma, proprio per essere ‘Bassante’ e non ‘Passante’ come invece sarebbe dovuto essere in base alle carte. E la controversia su quel dipinto si riacese: Bologna, ac-

L’annuncio ai Pastori attirbuito a Bartolomeo Passante come l’adorazione dei pastori che pubblichiamo nell’altra pagina cettando la ‘sottrazione’ si orientò verso un riferimento del quadro del Prado a De Bellis, mentre G. De Vito, non accettandola, si spinse a confrontare la firma ‘Bassante’ del dipinto del Prado e quella ‘Passante’ apposta sull’atto matrimoniale, ricavandone la conclusione di una assoluta somiglianza di grafia e di una conseguente coincidenza di persona per i due cognomi. Infine, si sono anche accesi sospetti sulla autenticità di quella firma del Prado, la cui più antica attestazione sembra risalire a un inventario del tempo di Carlo III e la firma, forse apocrifa, sarebbe stata post-apposta sulla vernice originaria, magari deformandola per errore. Nel 2014, Giuseppe Porzio, nella sua opera sulla scuola di Ribera, ha sostenuto, come De Longhi, che il Bartolomeo Passante riferito da De Dominici è il pittore brindisino di cui sono documentati luoghi e date di nascita e morte, raccogliendo anche il cauteloso parere favorevole di Erich Schleier e di Stefano Causa. Mentre, recentemente - 2017 - Achille Della Ragione in ’Il vero nome del Maestro dell’Annuncio ai pastori’, risposando la tesi dell’omonimia, assegna l’identità di ‘Passante’ al Maestro dell’Annuncio e sostiene che sia ‘Bassante’ il brindisino autore degli altri dipinti. Eppure, le già citate carte anagrafiche relative al pittore brindisino indicano chiaramente che è ‘Passante’ il suo cognome e,

il7 MAGAZINE 31 2 marzo 2018

del resto, il cognome ‘Bassante’ a Brindisi non sembra essere mai esistito. Quindi, evidentemente, a tutt’oggi qualcosa continua ancora a non quadrare tra gli studiosi d’arte! Sta di fatto - semplificando - che i dubbi sul cognome siano sorti principalmente a causa della firma apocrifa ‘Bassante’ sul dipinto del Prado e che la tesi dell’omonimia sia legata alla netta superiorità artistica del Maestro dell’Annuncio ai pastori rispetto al pittore del Prado. Quindi, senza dare credito alla firma del Prado e senza attribuire l’Annuncio ai pastori al Passante di De Dominici, non rimarrebbe quasi nulla della controversia su Bartolomeo Passante, comunque un importante e bravo pittore brindisino della scuola dello Spagnoletto. In conclusione: È comprovata la figura storica del pittore brindisino Bartolomeo di cognome ‘Passante’, corrispondente al bravo artista segnalato e caratterizzato dal De Dominici ed autore di molte delle importanti opere che gli sono state via via attribuite. Anche del famoso “Annuncio ai pastori” di Birmingham? Forse! Anche della “Adorazione dei pastori” del Prado? Forse! E quella firma con la ‘B’ è dovuta ad una omonimia, oppure a una deformazione o a una forzatura? Forse! Vabbè…: Buon quattrocentesimo compleanno, caro concittadino Bartolomeo!


LA STORIA

2=25=)6<57<4<58 9&<5-;5386;=7;99;=-89<;6; Marco Lenio Strabone creò nella sua villa brindisina una gabbia per uccelli a forma di esedra. Poi copiata a Roma 7<= .0- *0-'/1 +**.

on è la prima volta e, ahimè, non sarà certo l’ultima in cui capita di doversi lamentare per la scarsa qualità delle targhe del nostro stradario cittadino. Pur riconoscendo la bontà del risultato dell’ultima campagna di sostituzione delle vecchie e sconce targhe malamente dipinte con quelle di marmo bianco, bisogna ricordare che quella utile ed encomiabile campagna interessò unicamente il centro storico, mentre si è ancora in attesa che la necessaria sostituzione venga finalmente estesa anche a tutto il resto della città, per esempio, al Casale, eccetera. Però, l’aspetto fisico delle targhe, pur rivestendo una indubbia ed oggettiva importanza, non esaurisce per sé il tema della qualità dello stradario, giacché è il contenuto della targa che, ovviamente, ne costituisce l’elemento più caratterizzante e più importante. Ebbene, le deficienze dei contenuti, purtroppo, non sono state per nulla corrette e, anzi, alcune sono state persino aggravate con l’aggiunta involontaria di non pochi errori ortografici o, comunque, di alcune inesattezze, in accenti, vocali, lettere, eccetera. Ma non è solo questo il problema: la critica principale e di fondo, infatti, va rivolta alla pessima e consolidata abitudine di utilizzare in moltissimi casi unicamente il cognome del personaggio al quale una via è intitolata, inducendo ad errori di interpretazione e producendo con ciò dubbi e confusioni o, comunque, disincentivando il sorgere di ogni eventuale interesse o curiosità in chi legge una determinata targa e la trasmette e ritrasmette, oralmente o per scritto: senza conoscere quanto meno il nome e il cognome di un dato personaggio, si finisce con trattare quel suo cognome al pari di un oggetto, di una località, di fiume, una montagna, un fiore, eccetera. Dimenticando che, invece, "I nomi delle strade sono come tanti capitoli della storia della città e vanno mantenuti e rispettati, quali monumenti storici del passato" - Ferdinand Gregorovius. Manco a parlare poi, del fatto che per nessuno dei personaggi intestatari di vie cittadine si indicano nelle targhe le date, di nascita e morte, o la professione, o altro. La nostra “via Pasquale Romano”, per fare un solo esempio, è intitolata al popolare famigerato “sergente brigante” - che pure in altre città del Meridione ha avuto simili intitolazioni - oppure è intitolata a un meno popolare contemporaneo intellettuale leccese? Finalmente, per chiudere con la serie delle critiche, ecco la cosa certamente più grave: l’errore franco, come può essere lo scambio - semplice e diretto - di un nome, lo scambio cioè, di un personaggio con un altro. Ed è proprio questo il caso della nostra targa “via Lucio Strabone”. In questo caso si è commesso il grossolano errore di sostituire, nella targa stradale, il nome “Lenio” con il nome “Lucio”, sostituendo con ciò un’illustre personaggio brindisino con un geografo greco che, se pur molto più famoso, non ebbe certo una così stretta relazione con la nostra città da meritare l’intitolazione di una sua strada. Invece: chi fu Lenio Strabone? Quanti brin-

Una voliera moderna e in basso la voliera di Varrone disini lo sanno? E quanti lo saprebbero se la targa fosse stata scritta correttamente? Ebbene questo nostro concittadino, vissuto a cavallo della nascita di Gesù Cristo - cioè tra il primo secolo a.C. ed il primo d.C. - è stato nientemeno che l’inventore, riconosciuto e documentato, delle “voliere”: quelle ampie gabbie adatte a contenere uccelli, solitamente usate nei giardini zoologici o anche, quali elementi esotici o decorativi, in giardini pubblici e privati, simulando l’ambiente naturale e permettendo agli uccelli di vivere in uno spazio abbastanza ampio in cui poter anche volare. Fu, Marco Lenio Strabone, un cavaliere patrizio romano, che visse a Brindisi ai tempi dell’imperatore Augusto, in uno dei periodi di maggiore splendore di Brindisi, già florida e dinamica colonia di diritto latino e città ricca e ancora strategica per il controllo orientale, militare e commerciale, del novello impero. Lenio Strabone inventò le voliere, sia a fine ricreativo e sia ad uso commerciale, d’accordo con quanto a tale proposito testimoniò Marco Terenzio Varrone, l’erudito scrittore latino che fu un giorno ospitato a Brindisi nella casa di Strabone e vide per la prima volta, nel peristilio della sua abitazione, una gabbia per uccelli a forma di esedra. Restò così entusiasta di quella scoperta che, rientrato a Roma, fece costruire nella sua villa di Cassino una voliera monumentale, divenuta arci famosa. E Lenio ideò anche i padiglioni, con tante voliere contenenti diverse specie di uccelli cantori, per suo diletto e per divertimento dei suoi ospiti e orientale inoltre, introdusse la pratica dell’allevamento dei volatili ad uso culinario. A quell’epoca, infatti, a Roma i patrizi avevano affinato i loro gusti e a tavola ricercavano anche le carni di uccelli e perciò, questi venivano allevati per essere rivenduti come cibo prelibato. A Brindisi, in particolare, in quel periodo e in seguito all’invenzione di Strabone, si allevarono soprattutto tordi. Plinio il vecchio, nel suo “Naturalis Historia” così ne parla: «M. Lenio Strabone dell’ordine equestre di Brindisi, per primo organizzò voliere con uccelli di ogni genere rinchiusi; da ciò cominciammo a tenere in cattività gli animali a cui la natura aveva assegnato il cielo…

il7 MAGAZINE 23 9 marzo 2018


IL LIBRO

Scrivere una storia sognando: quella dei musicisti brindisini &6,,7:1627/7:08:93600758:6:.641739%%8:4922735958:09:&9427: 4627 08: ,-( )-($*. +)), o sognato Robert Johnson” è il titolo del libro, da poco dato in stampa, di Marco Greco. “Brindisi: dagli anni ’50 al 2000” è il sottotitolo del libro, alla cui presentazione ho assistito domenica scorsa al Wine Bar di Ottavio. La suggestiva copertina color seppia, racconta il primo piano di una foto del mitico Robert Johnson - una tra le più grandi figure del blues vissuto negli anni '30 e morto misteriosamente a soli ventisette anni per entrare nella leggenda della musica - che imbraccia la sua chitarra con sullo sfondo la loggia Balsamo, icona anche un po' romantica della nostra città. Al piede della copertina, infine, si legge “Frammenti di musica e resistenza”. A detta dell’autore, il suo libro, anzi il suo sogno, «si materializza attraverso un viaggio artistico tra pillole di storia italiana e cittadina, speranza e passioni, dischi e concerti». A detta di Lele Amoruso, che ha scritto la prefazione del libro, «l’autore “sbobina” gli ultimi decenni, partendo dal dopoguerra che avviava la ricostruzione del Paese, morale, sociale, culturale, economica e politica; e lo fa attraversando “le band”, e dopo qualche anno “i complessi” e finalmente “i gruppi”, che con diverse e articolate “colonne sonore” hanno raccontato il cambiamento e sono stati specchio della continua trasformazione di generi, qualità e stili di vita, segnando il tratto distintivo della nuova mentalità e modo di far vivere emozioni e illusioni». E a detta di Domenico Saponaro, che ha scritto la postfazione del libro, «la documentata e puntuale narrativa è lo spaccato di una lunga fase della cultura giovanile brindisina, ricca di fermenti e stimoli creativi, pienamente vissuta da più generazioni: un ampio capitolo socio-culturale segnato da eventi lieti e drammatici ma sempre significativi, un affresco composto di piccole e grandi storie che hanno travalicato il dato musicale in sé e con esso si sono intrecciate o si sono snodate in un percorso parallelo». Io, il libro l’ho letto di botto e, naturalmente, lo rileggerò per meglio metabolizzare le sue più di cento pagine, dense, densissime di oltre cinquant’anni di cose brindisine: fatti, date e nomi. Tantissimi nostri nomi brindisini: i nomi dei giovani giovanissimi e meno giovani musicisti brindisini e delle loro intrecciantisi sigle musicali. Musicisti per divertimento, o per circostanza, o per moda, o per professione, o per passione, ma in ogni caso sempre entusiasti protagonisti in prima linea di una cronaca cittadina, divenuta ormai “quasi” storia cittadina. Dalla lettura traspare subito che Marco Greco ha scritto questo bel libro

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con tanto cuore, ma si evince presto che in esso ha anche riversato tanto del suo “sapere” di bravo professionista: profondo conoscitore e rigoroso comunicatore della storia e della cultura musicale, quella brindisina e quella universale. Un racconto che si snoda cronologicamente, come è giusto che sia per un racconto di storia, ma che a tratti, con la naturale leggerezza e disinvoltura dell’autore, ondeggia e s’increspa seguendo le acrobatiche e coraggiose evoluzioni di quelli, tra i personaggi del libro, che la storia musicale brindisina l’hanno attraversata da protagonisti per anche ben più di un solo decennio. Un racconto di storie che si susseguono sui diversi scenari cittadini che, anch’essi, scorrono, si accavallano e si scavalcano con il trascorrere dei decenni: innanzitutto, dalle strade alle piazze e ai bar del centro e poi, dalle sale da ballo dei veglioni studenteschi e carnevaleschi degli anni '50 agli scantinati per le prove negli anni '60, dai famosi nigth club alle radio libere degli anni '70, dai pub alle discoteche degli anni '80, dai concerti ai concorsi di piazza e di teatro, eccetera. Ma quanti sono stati i musicisti brindisini, dal dopoguerra ad oggi? Naturalmente è impossibile la conta precisa. Forse trecento, forse seicento, forse molti di più, considerando tra loro i tanti della provincia e i tanti cresciuti musicalmente anche lontano o lontanissimo da Brindisi, molti dei quali - se non proprio tutti - puntigliosamente “raccontati” da Marco Greco. Numeri comunque enormi, propri di un fenomeno urbano quasi “di massa”, come si direbbe in altri contesti; di certo un importante fenomeno cittadino, sociale e culturale. Un qualcosa che mi suggerisce un insolito parallelismo: il basket brindisino, un altro fenomeno di pari continuità e inossidabile vitalità, nonché di altrettanto successo ed incisività, che a Brindisi ha coinvolto da vari decenni intere generazioni di giovani sportivi, e non solo loro: di fatto la città intera. E concludo questa breve rassegna con le parole del mio nuovo amico Marco Greco: «In questo libro, non ci siamo risparmiati a raccontare una gamma amplissima di umori, profumi e visioni. Scampoli di verità, un catalogo di spunti che rendono quasi immortali alcuni personaggi storici e anche tutti quegli “eroi” che, anche a Brindisi, quotidianamente continuano a sostenere ogni forma di cultura. Nutriamo la speranza che in futuro si possano generare nuovi spiriti rivoluzionari, ribelli, ispirati, per alimentare quella voglia di identità, di partecipazione e di cambiamento di cui il territorio necessita e che da sempre ha cercato attraverso la passione la competenza e la professionalità dei suoi tanti interpreti».

il7 MAGAZINE 23 16 marzo 2018


LA RICORRENZA

8)2)%6 +* *&% EHJB=HJ IBH @BHBHJ4GEEI@@I<H AIJ+753 253068!4227 AI +753 25306 !4227 l 5 maggio di 95 anni fa nacque a Brindisi Giustino Durano, attore, mimo, imitatore, cantante, autore, regista, fantasista, la cui celebrità doveva presto varcare i confini della sua città natale e quelli dell’Italia intera. Domani avrebbe festeggiato il suo compleanno se non fosse deceduto sedici anni fa in quel di Bologna, anche se va aneddoticamente raccontato che nel giugno del 1985, il giornale radio annunciò l’improvvisa dipartita del noto attore, scambiandolo con un suo cugino omonimo. E a quel proposito Durano, soavemente e beffardamente come era nel suo stile, ebbe a commentare: “La notizia della mia morte è certamente prematura”. Giustino Durano era coetaneo di mia madre, nonché suo vicino di casa. Mia madre abitava in via Rodi e Giustino in via Alfredo De Sanctis - combinazione - un altro grande attore brindisino. Grazie a queste fortunate circostanze, mia madre e Giustino furono compagni di giochi, da bambini e da adolescenti, in quell’epoca in cui i parchi giochi erano le strade del centro storico brindisino, per bambini, bambine e spensierati adolescenti. Mia madre mi raccontava con orgoglio di quella vecchia amicizia e ricordava il carattere riservato gentile e sensibile di Giustino e i loro giochi di gruppo nel giardino della vicina chiesetta della parrocchia di Sant’Anna, retta allora da papa Ciccio. Giochi ai quali partecipava anche Antonio Fella, il futuro carismatico parroco di San Benedetto che molti di noi ben ricordiamo.

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E, lo ricordava bene mia madre, fin già da bambino, Giustino si cimentava spesso e volentieri nelle opere teatrali della parrocchia. L’uomo di spettacolo che presto sarebbe divenuto Giustino Durano, esordì ventenne a Brindisi nel 1944, subito appena rientrato dalla guerra alla quale aveva partecipato come artigliere, in un varietà per le forze armate angloamericane, imitando Bing Crosbi, Al Jolson, Luis Armstrong e vari altri. Poi andò Bari con lo stesso ‘Spettacolo di arte varia per le forze

armate’ e nel 1946, con la compagnia da lui stesso organizzata, fu invitato a presentare quello spettacolo teatrale alla Columbia University di New York. Rientrato a Brindisi lavoricchiò per un po’ come cantante: Al nigth club Grotta Azzurra, un vecchio ristorante proprietà di ‘Rascaporte’, con un gruppo musicale - Orchestra Frascaro che aveva organizzato ad hoc. Quindi, con quella sua orchestrina, lavorò anche per l’Hotel Internazionale di Gigetto Passante. Poi esordì

Giustino Durano con Sofia Loren in «La Fortuna di esser donna»


Il più popolare attore brindisino nacque il 5 maggio di 95 anni fa Dall’infanzia nella parrocchia di Sant’Anna all’Oscar con Benigni E’ morto nel 2002

nella radio, a Bari, ma la sua meta era il teatro e così, 1947, proprio a Bari ebbe occaì già ià nell 1947 sione di affiancare Peppino De Filippo, per poi tornare ancora in radio, però a Milano. Nel 1951, al Teatro Puccini di Milano partecipò nell’avanspettacolo insieme a Febo Conti, e negli anni successivi lavorò con Dario Fo e Franco Parenti al Piccolo Teatro di Milano in spettacoli innovativi come Il dito nell'occhio, tra il 1952 è il 1953, e Sani da legare, tra il 1954 e il 1955. Passò dal cabaret del Teatro dei Gobbi agli spettacoli da solista, per poi tornare alla rivista con Wanda Osiris, Bramieri e Vianello. Dopo aver lavorato con Macario e Marisa Del Frate, dal 1960 si dedicò al teatro di prosa, seguendo Giorgio Strehler nel gruppo Teatro e Azione a Prato e affrontando nel tempo ruoli importanti in allestimenti di Shakespeare, Pirandello, Goldoni e Molière. Dopo aver recitato e cantato al Piccolo di Milano con Milva e Franco Sportelli nel 1965, ebbe parti di spicco in varie operette. Tornò in radio in varie occasioni: da L'innocenza di Camilla di Bontempelli nel 1970 con la regia di Camilleri, al radiodramma Il giornale di Mario Fazio e Nino Palumbo nel 1972 con la regia di Parodi, a In viaggio con Teo di Fiocco e la regia di Benedetto nel 1979, fino al programma satirico L'aria che tira nel 1981. Durano continuò a fornire interpretazioni di primissimo piano anche negli ultimi anni di vita: Nell’opera lirica Il barbiere di Siviglia di Rossini all’Opera di Roma nel 1998. Nel teatro E io le dico..., del 2001, da lui scritto, diretto e interpretato; L'uomo la bestia e la virtù di Luigi

Pirandello e Annata Ricca di Nino Martoglio, entrambi prodotti dal Teatro Biondo di Palermo. Nel cinema, Giustino Durano fece la sua prima apparizione nel 1954 in un film di Domenico Paolella intitolato Rosso e Nero. Nel 1975 partecipò al film Salvo D’Acquisto di Romolo Guerrieri. La vita è bella di Benigni del 1997 fu il suo ultimo film, in cui sostenne con amara ironia il drammatico ruolo dello zio del protagonista, riaffermando ancora una volta il suo ta-

il7 MAGAZINE 23 4 maggio 2018

lento con uno stile recitativo concitato e fortemente mimico. Per quella sua stupenda interpretazione, nel 1998 fu premiato con il Nastro d’Argento come migliore attore non protagonista. Anche se negli ultimi decenni della sua vita risiedette a Prato, Giustino Durano rimase sempre affettivamente legato alla sua Brindisi, “una ridente cittadina dell’Adriatico con un porto magnifico”, come egli stesso amava precisare e come lo ricordò anche nella sua lunga intervista che il 6 marzo 1999 rilasciò in Roma a Annamaria Palano, sua giovane concittadina diplomatasi presso l’Accademia di Belle Arti di Lecce discutendo la tesi proprio su Giustino Durano, poi riassunta nel suo libro “Giustino Durano: Un contributo allo spettacolo del Secondo Novecento” edito da Neografica di Latiano nel 2001, dal quale ho estratto quanto segue. «… La recitazione brillante, ironica e surreale di Giustino Durano lo impone al pubblico come uno degli attori più esuberanti, di una specie assai rara per quella forma di intelligenza acuta e un po’ stravolta, per il superamento delle convenzioni teatrali, per il modo assolutamente originale di comunicare con il pubblico e per la sua comicità fantasiosa, garbatamente stilizzata ed asciutta. Durante la sua lunga carriera gli è capitato di cimentarsi nel mondo della radio, del cinema, del teatro. Qual è il Durano vero, ci si potrebbe chiedere, ma sarebbe una domanda troppo azzardata. Chiediamoci semmai, quale sia stato il Durano originale, e la risposta probabilmente sarà: un fantasista. Giustino Durano è un artista ‘plastico’ in senso proprio, cioè adattabile e pronto ad assumere le forme che i tempi richiedono. Per il pubblico italiano Durano è un attore di richiamo, un attore che possiede una virtù impagabile: sa esporre certi contenuti progressivi dal punto di vista politico e sociale, divertendo; caratteristica questa, rarissima. Di solito, gli artisti progressisti, specie se attempati, sono tetri, amari, deprimenti: fanno scappare il pubblico. Durano lo attira. Durano è sempre in movimento; prova continuamente qualcosa, insegue un pensiero persino con le mani e, mentre gli occhi esprimono sensazioni, la bocca racconta vicissitudini passate. È un artista così lunare e saettante, con sopracciglia che solo lui riesce ad accomodare in forma d’accento circonflesso, la mimica svolazzante, la dizione che picchietta le sillabe senza mai cedere al birignao. È, infine, un teatrante così poliedrico e completo da essere inevitabilmente annoverato nella storiografia del panorama artistico dell’ultimo mezzo secolo...» A Brindisi, Giustino venne spesso e sempre volentieri, e in una di quelle sue tante scappate ci disse: “Se il cuore avesse le corde potrei dire che le sento vibrare ogni volta che si profila all’orizzonte la mia terra. Quando torno a Brindisi, per esempio, so di poter incontrare ancora una volta i miei amici e compagni di scuola. E poi, i premi… quanti premi mi danno a Brindisi”. Dopo la dipartita, Brindisi gli ha dedicato lo spiazzo antistante il teatro comunale che è stato chiamato “Piazzetta Giustino Durano” e dal 20 gennaio 2012 è stato immortalato anche dal mondo della scuola brindisina, con il Liceo Artistico Musicale che porta il suo nome.



IL LIBRO

Avventure in mezzo al mare raccontate da un brindisino Il bel libro di Cafiero presentato al «Coliving Nettare»: ironia e incontri speciali tra le onde dell’Adriatico BJK 763 163.45 2117 omanda: «Brindisi è ancora una città di mare? Oppure è solo una citta sul mare?» Risposta: «Brindisi è stata da sempre una città di mare e per sempre lo sarà. Magari, sono i brindisini che furono gente di mare e che oggi forse non lo sono più tanto». A formulare la domanda: Giacomo Carito, il presidente della Sezione di Brindisi della Società di Storia Patria per la Puglia; ad essere sollecitato a dare la risposta: Marcello Cafiero, l’amico, l’avvocato, l’autore del libro “La prima traversata del Fanfulla… e altro”. Due brindisini doc! Lo scenario: la sala convegni del ‘Coliving Nettare’ in via Giudea, ore 18 di giovedì 31 maggio, in occasione della presentazione, dettagliatissima da Antonio Mario Caputo, del libro di Marcello Cafiero, in un’atmosfera amena e gremita di tantissimi brindisini e brindisine. Sulla predella anche Giorgio Sciarra e Giuseppe Marzano ‘Pippi l’inseparabile compagno di navigazione’, coprotagonisti di quella ‘prima traversata’ del Fanfulla: il gozzo cabinato in legno a poppa tonda lungo quasi sette metri, fatto costruire nel 1968 dal Dr. Antonio Maffei e da questi finalmente venduto al ‘sognatore’ Marcello Cafiero che, con già alle spalle svariati anni di mare su varie sue barche e barchette, nel 1976 ne divenne orgoglioso comandante armatore. Le cento pagine del libro di Marcello Cafiero, corredate da cartine e da tante belle fotografie, non solo raccontano con una grande leggerezza di stile e con meticolosa precisione il viaggio in mare - luglio 1977 - di andata da Brindisi fino all’altra sponda - quella greca - e ritorno, ma trasmettono al lettore - specialmente se brindisino e se nato qualche decennio fa - sensazioni e atmosfere passate e pur ancora presenti e perfettamente immaginabili da chi per mare c’è andato e, forse, persino da chi non lo ha mai fatto. Marcello, infatti, con questo suo libro, con questo suo bel racconto, agile e intriso di un’ironia spontanea e divertente, trasmette, sottilmente ma incisivamente, il senso della bellezza genuina: quella del mare, del pescare, dell’andar per mare, dello scoprire e… anche quella dell’essere ‘gente di mare’ e dell’essere amici. Prima, da Brindisi a Otranto, dalla mattina avanzata al tramonto; poi con decisione maturata all’improvviso ed all’unisono dai tre - da Otranto a Othoni, l’isola greca più vicina, a 42 miglia in direzione est-sud est, raggiunta dopo 9 lunghe ore di navigazione, dalle 23 fino all’alba molto inoltrata del giorno dopo, alternando l’impeto e l’entusiasmo alla preoccupazione e persino allo sconforto e alla depressione, tra i continui dubbi sulla rotta da seguire e sulla stessa convenienza o meno di continuare a perseguire la meta prefissa, senza carte nautiche e senza neanche strumenti - seri - di navigazione. E dopo Othoni, ecco Erikousa, la seconda delle tre isole Diapontie - la terza, Matraki, la si toccò sulla via del ritorno - quindi Corfù e ancora, Yogumenizza e Cassiopi. Ma non sono certo le pur suggestive tappe geografiche a costituire gli aspetti centrali del racconto: il veramente bello ed i protagonisti veri che s’impongono nella lettura del libro di Marcello, sono le tante sensazioni che vanno emergendo con le ore e i giorni in mare, gli incontri improvvisi e naturalmente imprevisti con i vari personaggi peculiarissimi che s’in-

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contrano, le battute di pesca, i momenti conviviali e… la serenità e l’allegria dell’andar per mare, dell’andar con amici. Non è qui il momento di citare o commentare gli interessanti dettagli e i tanti divertenti aneddoti contenuti nelle cento pagine scritte da Marcello Cafiero, alternati con le stimolanti descrizioni e le velate riflessioni dell’autore, nonché completati con opportuni richiami storici relativi all’intrecciato plurimillenario avvicendarsi di viaggi, conquiste, scambi, scontri, incontri, lotte e alleanze tra queste due sponde adriatiche. È invece il momento di raccomandare di leggere questo bel libro a tutti i brindisini: ai meno giovani per ricordare rivivere e riassaporare, ai più giovani per scoprire ed imparare ad apprezzare il bello e l’importanza di essere nati in una città di mare e, magari, far loro desiderare di tornare ad essere ‘gente di mare’. %XRQD OHWWXUD

il7 MAGAZINE 18 8 giugno 2018


RIFLESSIONI

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empo di elezioni: per gli aspiranti sindaco, tempo di programmi e promesse; per i cittadini, tempo di speranze! Speranza, innanzitutto, che possa finalmente iniziare un percorso nuovo per questa nostra ‘tribolata’ città che da ormai troppi anni non riesce ad eleggersi un sindaco capace di realizzare una amministrazione cittadina, quanto meno, efficiente, fosse anche solo per le ‘cose quotidiane, piccole e semplici’. Ed in questo contesto mi sembra quanto mai opportuno ricordare e quindi riesporre sul tappeto la già più volte enunciata e comprovata ‘teoria del vetro rotto’. L’idea è quella di riproporla proprio al nuovo sindaco; forse la conosce già o forse no e, comunque, l’esortazione è a farne tesoro: sono certo che Brindisi costituisce lo scenario perfetto in cui quella teoria assume una vigenza assoluta e, pertanto, lo scenario perfetto in cui la sua opportuna ed intelligente applicazione potrebbe portare ad un risultato ottimo. Nel 1969, negli Stati Uniti, il professor Phillip Zimbardo dell’Università di Stanford realizzò un esperimento di psicologia sociale, lasciando due auto abbandonate in strada: due auto identiche, della stessa marca, dello stesso modello e colore. Una di queste auto, fu lasciata nel Bronx, una zona povera di New York con un’alta tensione sociale e l’altra fu lasciata a Palo Alto, una zona ricca e tranquilla della California. Dopo poche ore, la gente nel Bronx cominciò a vandalizzare l’auto, rubando il rubabile e distruggendo il resto. L’auto di Palo Alto, invece, non venne nemmeno toccata, avallando

!25-14032 )135'1-03504--3 (04&1&4032 (1053/5,3.)2*4 con l’accaduto, l’attribuzione delle cause di un crimine alla povertà. Dopo una settimana, i ricercatori ruppero il vetro dell’auto di Palo Alto e videro presto iniziare lo stesso processo del Bronx: furto, violenza e vandalismo. Un semplice vetro rotto di una macchina, anche in un quartiere ricco, ordinato, pulito e sicuro, aveva innescato il via a tanti atti delittuosi! Quindi, il punto non è la povertà, ma, evidentemente, qualcosa che ha a che fare con la psicologia umana: un finestrino rotto in un’auto abbandonata trasmette un’idea di degrado, di

il7 MAGAZINE 28 15 giugno 2018

abbandono, di disinteresse, capace di infrangere i normali codici di convivenza. È una sensazione di assenza di leggi, di norme, di regole, qualcosa che suggerisce “qui è tutto lecito”. Ogni nuovo attacco, ogni nuovo danno subito dall’auto abbandonata è come se riaffermasse questo principio, in una reazione a catena capace di sfociare in una violenza irrazionale. Numerosi esperimenti successivi, condotti in diverse parti del modo, hanno portato a concludere che i reati sono decisamente maggiori


A sinistra il Monumento ai Caduti di piazza Santa Teresa, simbolo della conservazione. In alto alcune immagini del degrado della città

e tendono ad aumentare, nelle città o nelle zone dove il disordine, la sporcizia, l’incuria e il menefreghismo sono maggiori. Se si rompe il vetro di una finestra di un palazzo e nessuno lo ripara, presto anche gli altri vetri verranno rotti. Se una comunità mostra segni di trascuratezza - strade sporche e dissestate, arredo urbano fatiscente e rotto, illuminazione pubblica non perentoriamente ripristinata, marciapiedi sconquassati ed inerbati, muri grafitati, giardini parchi e monumenti degradati - e questo sembra non importare quasi a nessuno, allora presto avverrà un qualche tipo di reato, quindi si snoderà una lunga catena che poi si autoalimenterà; insomma, un circolo vizioso. Nel 1994 il sindaco di New York, Rudolph Giuliani, volle applicare la teoria dei vetri rotti per combattere il crimine che si era ampiamente diffuso nella metropolitana della città. L’operazione iniziò col far rigorosamente pagare il biglietto ai viaggiatori e quindi multare tutti gli inosservanti. Questo bastò a cancellare l’idea che la metropolitana fosse una zona abbandonata e senza regole, producendo un crollo delle attività criminali. Se vengono tollerati e restano impuniti i reati meno gravi - sosta in luogo proibito, eccesso di velocità, non rispetto del rosso al semaforo, abbandono di spazzatura e di defecazioni canine per strada, schiamazzi notturni, maltrattamento o uso improprio o vilipendio delle cose pubbliche – allora, di reati ne verranno commessi di più e via via sempre più gravi. E se poi i parchi e gli altri spazi pubblici danneggiati e deteriorati vengono progressivamente abbandonati dalla popolazione per paura di essere disturbata o derubata, saranno i delinquenti ad impossessarsi di questi spazi e quindi, in successione continua, di altri ancora. A questo punto si potrebbe obiettare che con

tale teoria si pretende sostenere che la colpa di tutti i mali sociali è solamente dell’ambiente. No, non tutta la colpa è dell’ambiente, anche i singoli cittadini hanno certo la propria responsabilità. Però, definitivamente, sono convinto che l’ambiente esercita un ruolo del tutto preponderante. È risaputo che, in generale, le popolazioni anglosassoni e le statunitensi in particolare, hanno uno spiccato senso civico: non sporcano, osservano rigorosamente le norme del codice stradale, non imbrattano le pareti, non buttano per strada cicche e gomme da masticare, applicano una manutenzione ossessiva ai propri beni mobili ed immobili, rispettano rigorosamente ogni cosa pubblica ed ogni autorità costituita, sono discreti e poco rumorosi in pubblico ed in casa propria, eccetera. Sarà perché hanno un DNA diverso dal nostro? Non lo credo proprio! Quel che succede da loro è che, da una parte, se butti un qualsiasi rifiuto per strada sarai salatissimamente multato senza possibilità alcuna di evadere la multa e lo stesso dicasi per le violazioni del codice stradale o; se imbratti un muro o danneggi un bene pubblico, nonché privato, oltre alla multa pagherai puntualmente ogni riparazione, eccetera; ed il tutto condito dall’altissima probabilità di essere colto in fragranti, nonché dalla ancor più alta probabilità di non essere perdonato, ne dal vigile e ne dal giudice di turno. E, dall’altra parte, le strade, i parchi, gli edifici e i trasporti pubblici, i monumenti, le illuminazioni, i parcheggi, i marciapiedi, eccetera, sono perlopiù conservati in condizioni impeccabili; e non solo perché rigorosamente rispettati, ma soprattutto perché puntualmente e sistematicamente riparati, nonché opportunamente e previamente mantenuti dalle rispettive pubbliche amministrazioni. Quindi, non un diverso DNA, ma una lunga

il7 MAGAZINE 29 15 giugno 2018

catena che si autoalimenta in un circolo virtuoso: l’ambiente obbliga e condiziona, anche severamente ogni qual volta è necessario; il cittadino, obbligato e condizionato dall’ambiente, rispetta - alla fine e, di fatto - spontaneamente e quasi naturalmente. Ma sarà nato prima l’uovo o sarà nata prima la gallina? Forse non è molto importante accertarlo, quello che è invece molto importante è il risultato e quel che è ancor più importante è che senza il contributo fondamentale dell’ambiente, anche il più virtuoso DNA è destinato a soccombere. Ed allo stesso modo, un ambiente veramente e diligentemente virtuoso, alla fine - ne sono del tutto certo - condizionerà positivamente anche il più ricalcitrante DNA. Anche il DNA dei brindisini? Altroché! Ricordiamo tutti quando fino a pochissimo tempo fa ci rimprocciavamo, tra molto altro, di essere tra le ultime città italiane per le percentuali di raccolta differenziata? Erano i tempi dell’interminabile controversia relativa all’assegnazione dei servizi di raccolta della spazzatura, mentre il pessimo servizio rischiava di sommergere l’intera città in emergenza sanitaria. Ebbene, son bastati pochi mesi di un servizio pubblico finalmente e discretamente efficiente, per far capovolgere la situazione. Adesso abbiamo scalato la graduatoria nazionale e siamo diventati esempio di civismo: sarà cambiata quella parte del nostro DNA in così poco tempo? Macché, è solo cambiato l’ambiente, ed il cambio ha, evidentemente, condizionato gli attori. Quindi? Caro nuovo sindaco, perché non provare ad applicare la ‘teoria dei vetri rotti’ a questa nostra Brindisi? Magari potremmo scoprirci essere una popolazione virtuosa e dall’alto senso civico. Non resta che provare per credere! Vuoi provarci? Coraggio e buon lavoro!


LA RICORRENZA

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ntonio Di Giulio “Tonino”, l’illustre brindisino del XX secolo che fu eminente medico e convinto ed attivo precursore ambientalista, nacque a Brindisi 100 anni fa, in un giorno di inizio estate come oggi. Ed in questo importante anniversario lo si vuol qui ricordare brevemente e, soprattutto, ricordare quello che fu il suo valoroso “fare” di uomo e di medico, un “fare” dai contenuti assolutamente e più che mai attuali. Dopo gli studi superiori classici, nel 1936 si iscrisse alla facoltà di medicina e chirurgia di Bari e nel 1942 si laureò a Napoli con il massimo dei voti. Nel 1947 conseguì la specializzazione in radiologia e radioterapia. Per vari anni fu assistente ospedaliero presso il reparto di radiologia dell’ospedale “Di Summa” di Brindisi, di cui, nel 1953, diviene primario. E nel “Di Summa”, nel 1958, fondò il reparto di radioterapia, presto punto di riferimento per l’intera regione e per tutto il meridione. Attento ai problemi di salute della popolazione della sua terra, il dottor Di Giulio si dedicò all’obiettivo della prevenzione oncologica. Fece nascere a Brindisi e provincia i consultori familiari per la prevenzione dei tumori femminili e organizzò corsi di educazione sanitaria per il personale paramedico e per la popolazione di tutta la provincia. Nel 1970, consapevole della drammaticità dei dati raccolti dall’Organizzazione Mondiale della Salute sulle patologie neoplastiche del territorio di Brindisi, iniziò una guerra frontale contro l’inquinamento ambientale e osteggiò con tutte le sue forze l’insediamento della centrale a carbone di Cerano. Carbone di cui cono-

:)((.: ) ()'" ) !,(.(, .:&. 0., sceva già e denunciava la pericolosità per la salute, come, purtroppo, fu confermato da studi e ricerche successive. Negli anni '80, inoltre, chiese si compilasse il registro tumori dell’area Ionico-salentina, completato nel 2016. Oltre alla medicina, campo in cui fu pioniere e raffinato ricercatore, Di Giulio si occupò anche d’altro: fece sorgere la cooperativa “Risveglio agricolo” di cui fu presidente per molti anni; avanzò ipotesi di potenziamento del porto e dell’aeroporto di Brindisi, intuendo le potenzialità turistiche del territorio.

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Fu, Di Giulio, anche politico, e fu sindaco di Brindisi nel 1956 per pochi mesi. Dagli anni '80 in poi si allontanò dalla vita politica attiva, criticandone il degrado e dedicando tutta la sua attenzione alla tutela della salute della popolazione ed alla strenua lotta contro l’inquinamento ambientale, soprattutto attraverso l’educazione dei giovani con frequenti incontri nelle scuole, per parlare di educazione sanitaria, educazione ambientale e prevenzione. Ai giovani, e a tutti i cittadini brindisini in più occasioni, si rivolse così: «Impegniamoci con


entusiasmo non momentaneo nel volontariato, scopriamo la solidarietà, strappiamo i ragazzi al degrado culturale e al dramma della disoccupazione, operiamo per la difesa della democrazia e della costituzione. La vera rivoluzione a Brindisi comincia dal ripristino della legalità». Ma furono tutti i suoi innumerevoli interventi e scritti sui tanti temi da lui affrontati - medicina, sanità, ambiente, politica, industria, agricoltura, sport, … - che meriterebbero essere riascoltati e riletti con somma attenzione. “Da quei discorsi e scritti, traspare il suo impegno assoluto ‘senza se e senza ma’, il suo sdegno contro le storture e le iniziative devastanti la salute e il territorio, il coraggio e il rigetto di ogni compromesso. La sua ‘rabbia’ contro l’illegalità, l’insipienza, la svendita delle coscienze, è manifesta nel suo peculiare periodare e in alcune espressioni ‘gridate’, coniate appositamente per dare risalto alle questioni trattate” [Elio Galiano: Introduzione al libro ‘Tonino Di Giulio, un maestro’ edito nel 2003]. Un libro, quello appena citato, che andrebbe letto da tutti i brindisini perché raccoglie alcuni - circa venti - tra i più emblematici interventi del dottor Di Giulio che, fortunatamente, sono rimasti documentati. Ho selezionato e qui trascrivo, uno scritto di Di Giulio molto breve, ma chiaro, contundente, utile e del tutto attuale, nonostante risalga al 183-1993. Si intitola “Consigli scomodi al cittadino”: «1. Impariamo a fare fino in fondo il nostro dovere e a non assentarci dal lavoro, impariamo a rivendicare i nostri diritti, a non mendicarli come favori. Impariamo a considerare i nostri beni e i servizi pubblici, dall’autobus al verde, dalla strada al monumento: solo così ne arresteremo il degrado e li difenderemo dall’incuria e dall’abuso illegale. 2. A casa: educhiamo i bambini alla democrazia, contro ogni violenza, insegniamo il rispetto delle leggi e la solidarietà verso i diversi e i deboli di ogni razza, religione e cultura. 3. Sul posto di lavoro: ovunque, in ufficio o in ospedale, al comune o alla regione, se c’è sospetto di tangenti o di sperpero di denaro pubblico o di favoritismi o di abusi ed omissioni nella pubblica amministrazione o di violazione delle leggi sugli appalti, dobbiamo andare a fondo, cercare alleati tra i colleghi, senza escludere di rivolgerci alla magistratura. Se insegnanti: non perdiamo occasione per parlare di

Due immagini del dottor Tonino Di Giulio criminalità organizzata e di quelle associazioni a delinquere tese al profitto illecito e improntate alla vigliaccheria. Se studenti: rivendichiamo servizi efficienti, lezioni puntuali, esami regolari e senza favoritismi. Se commercianti: quando riceviamo offerte di protezione o strane richieste, questo è il racket del pizzo e quindi rivolgiamoci a chi può tutelarci; se invece già paghiamo il pizzo, cerchiamo alleati nella categoria per associarci contro il racket. 4. Nella pubblica amministrazione: per ogni disfunzione o ritardo, pe aver accesso a ogni tipo di documento amministrativo, impariamo a servirci della legge 241 sulla trasparenza, consultiamoci con l’Associazione per la difesa della legalità a Brindisi, via Lata, 70. 5. Per strada: osserviamo il codice stradale e denunciamo gli abusi; se poi abbiamo la disgrazia di assistere a un fatto criminoso o a una rapina, collaboriamo con gli inquirenti, raccontiamo tutto ciò che abbiamo visto. 6. Boicottiamo gli affari della criminalità organizzata, a chi si buca spieghiamo che lui si rovina e i criminali si arricchiscono; non frequentiamo locali ed esercizi commerciali so-

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spetti. 7. Prima, dopo e durante le elezioni: rifiutiamo di scambiare il voto con un qualche favore. Impediamo anche con il voto il saccheggio di risorse collettive, l’inquinamento della vita pubblica e la consegna di pezzi dello Stato in mano della criminalità. 8. In ogni posto difendiamo il diritto alla salute di tutti i cittadini. 9. Interveniamo per prevenire nelle giovani generazioni l’adesione al modello illegale di vita. Infine, impegniamoci con entusiasmo non momentaneo nel volontariato, scopriamo la solidarietà, strappiamo i ragazzi al degrado culturale e al dramma della disoccupazione, operiamo per la difesa della democrazia e della Costituzione. La vera rivoluzione a Brindisi comincia dal ripristino della legalità.» Nel 1988 il dottor Di Giulio andò in pensione, ma continuò la sua opera facendo costituire il centro di oncologia presso l’ASL di Brindisi di Via Dalmazia. Morì poco più di vent’anni fa, il 24 settembre 1997, e un mese dopo, il 25 ottobre 1997, il Day Hospital di oncologia dell’ospedale di Brindisi gli venne intestato. La sua dipartita lasciò un vuoto incolmabile tra i suoi cari ed un riconoscente ed indelebile ricordo tra i suoi tanti amici e tra tutti quei suoi concittadini che ne avevano conosciuto ed apprezzato le qualità umane e professionali. Nel 1998 sorse la Fondazione Dr. Tonino Di Giulio, presieduta oggi dalla professoressa Raffaella Argentieri, che in tutti questi anni si è fatta promotrice di innumerevoli iniziative volte alla promozione ed organizzazione di attività sociali, culturali, educative, didattiche, scientifiche in ambito ambientale e socio-sanitario, secondo l’esempio e nel ricordo del dottor Tonino Di Giulio, ponendolo costantemente come uno dei modelli esemplari alle nuove generazioni. Il 30 luglio del 2011, la città di Brindisi inaugurò il parco Antonio Di Giulio, intitolato in omaggio e in riconoscimento al suo illustre concittadino e lo scorso autunno, nel ventennale della scomparsa, la Fondazione ne commemorò la memoria con una serie di eventi, tra i quali la pubblicazione del libro di G. Perri e M. Martinese “i 100 personaggi dell’odonomastica di Brindisi che attraversano tutta la storia della città” e la realizzazione del convegno scientifico “La salute disuguale in Italia: dati, spiegazioni, soluzioni e responsabilità”.


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l 5 luglio 1943, settantacinque anni fa, il sottotenente pilota Leonardo Ferrulli decollò alle 14:20 nel cielo di Sicilia dalla pista di Sigonella con il suo monoplano Macchi MC.202S della 91ª Squadriglia del glorioso 4° Stormo, diretto ad intercettare un’imponente formazione di bombardieri quadrimotori americani Boeing B-17 Flying Fortress scortata da caccia Lockheed P-38 Lightning e da una trentina di Spitfire. “…Nel cielo è un crepitare di proiettili: centinaia di mitraglie sparano rabbiose contro il temerario che osa da solo l’inosabile…”. Ferrulli fu visto abbattere un B-17 e presto tutta la caccia nemica incalzò con rabbia crescente per vendicare la perdita subita. Ma Ferrulli abbatté ancora un bimotore da caccia P-38 prima di essere attaccato dagli Spitfire di scorta. Colpito, si lanciò con il paracadute dal suo Macchi danneggiato, ma era troppo basso e urtò il suolo morendo nei pressi di Scordia, in provincia di Catania: prima, aveva generosamente voluto portare il suo aereo fuori dal centro abitato per non rischiare di coinvolgere alcun civile. Era stato abbattuto, in quel momento, il pilota italiano con il maggior numero di vittorie aeree: ventidue abbattimenti individuali e uno collettivo. Per quell’ultima azione di guerra gli fu conferita la medaglia d’oro al valor militare alla memoria, che si sommò alle quattro medaglie d’argento al valor militare che gli erano state conferite in precedenza. Questa la motivazione della medaglia d’oro: «Il cuore generoso, l’audacia eccezionale, l’abilità impareggiabile, avevano fatto di lui il simbolo eroico della nostra arma combattente. In numerosi aspri combattimenti per 20 volte piegò, vincendola, la baldanza nemica. Non ritornò da un meraviglioso combattimento nel quale, solo contro trenta, aveva ancora due volte fatto fremere il sacro suolo d’Italia con

75 anni fa la morte del pilota eroe FERRULLI l’urto del nemico abbattuto. Nell’ora grave della Patria, sfatando l’alone di invulnerabilità che si era creato, volle additare a noi, ingiustamente superstiti, la via della gloria e dell’onore. Esempio luminoso di una vita posta con superba dedizione al servizio della Patria». Leonardo era nato a Brindisi venticinque anni prima, il 1° gennaio 1918. Si arruolò in aeronautica il 23 giugno 1935 e, il 5 marzo 1936, conseguì a Grottaglie il brevetto di pilota militare. Il 16 marzo 1936 venne assegnato alla 84ª Squadriglia del 4° Stormo di stanza sull’aeroporto di Gorizia, uno dei reparti più blasonati

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della Regia Aeronautica, quello di Francesco Baracca, effigiato del cavallino rampante, lo stesso che ancora oggi troneggia sulle Ferrari, di cui è divenuto il simbolo. Durante la Seconda guerra mondiale, in Cirenaica il 19 dicembre 1940, ai comandi di un CR.42, Ferrulli ottenne la sua prima vittoria abbattendo un Hurricane nel cielo di Sollum. Sempre in Nord Africa, abbatté altri cinque Hurricane e un Bristol Blenheim. Poi, in Sicilia nel 1941, Ferrulli, con i Macchi MC.200 del X Gruppo, volò decine di volte sull’isola di Malta e con i piloti del suo Gruppo


Due immagini del pilota Leonardo Ferrulli. A sinistra il neo sindaco davanti alla sua casa

partecipò all’attacco contro la base maltese di Micabba. Al ritorno, sul mare, Ferrulli, vedendo un collega inseguito da due Hurricane, virò per aiutarlo assieme ad un altro collega. Sopraggiunsero altri cinque caccia nemici e si sviluppò un violento combattimento aereo. I tre Macchi si disimpegnarono filando a pelo d’acqua, inseguiti per 20-30 miglia dai caccia inglesi che, alla fine, virarono per rientrare alla base: Ferrulli rientrò con il velivolo colpito da

molte raffiche e gravemente danneggiato, ma non ferito e quindi, equipaggiato con un nuovo Macchi MC.202, l’anno seguente abbatté ben otto P-40 e uno Spitfire. Ferrulli fu poi destinato all’Egitto, nel cui cielo sommò 17 vittorie personali e fu protagonista di epici combattimenti, fino al suo rientro in Italia, di nuovo in Sicilia, nell’imminenza dello sbarco degli Alleati, ottenendo le sue due ultime vittorie il giorno stesso della sua morte, in quel fatale 5 luglio 1943. Finita la guerra, il Comune di Brindisi intitolò a Leonardo Ferrulli una strada cittadina nel

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rione Casale e l’Associazione Provinciale Gente dell’Aria provvide a sistemare sul muro esterno della sede del Banco di Napoli una lapide commemorativa dell’eroe brindisino. Questa però, alla fine degli anni Sessanta in occasione della demolizione del Banco, fu rimossa accantonata e quindi abbandonata in un deposito comunale. La lapide fu poi fortunosamente ritrovata dal generale - allora tenente colonnello - Giuseppe Genghi e, ristrutturata, fu sistemata presso la sede dell’Associazione Arma Aeronautica in via Nicola Brandi 29. Questo il testo della lapide: «PIÙ CHE SUL MARMO È INCISO NELLA GRATITUDINE DELLA PATRIA E NELL’ORGOGLIO DI BRINDISI IL RICORDO DEL NOBILE OLOCAUSTO DEL GIOVANE S. TEN. PILOTA LEONARDO FERRULLI DEL 4° STORMO CACCIA CADUTO IN COMBATTIMENTO AEREO PER L’ITALIA IL 5 LUGLIO 1943. LA SPOGLIA MORTALE SPLENDENTE DI QUATTRO MEDAGLIE D’ARGENTO RIDISCESE DAI CIELI AUREOLATA DI MEDAGLIA D’ORO AL V.M. LO SPIRITO ELETTO RISALÌ NEI CIELI NELLA GLORIA DEGLI EROI» Anche in Via Lata 88, sulla facciata della casa natale di Leonardo Ferrulli, una epigrafe marmorea ricorda il nostro concittadino eroe e, domenica scorsa, come ad ogni nuovo anniversario, lì si è svolta una semplice e suggestiva cerimonia commemorativa. In questa occasione, alla cerimonia di deposizione di una corona d’alloro, presieduta dal Generale di brigata aerea Giuseppe Genghi - Presidente dell’Associazione Arma Aeronautica Sezione di Brindisi - ha partecipato anche il neosindaco di Brindisi Riccardo Rossi accompagnato dalla sua consorte Paola. E in seguito, anche alla messa che ogni prima domenica del mese si celebra nella cripta del Monumento al marinaio, la figura di Leonardo Ferrulli è stata emotivamente ricordata da Giancarlo Sacrestano.


REPORTAGE STORICO

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Alla ricerca degli ancestrali abitanti di Brindisi 0:; 570 370.26(4335

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ur tralasciando qui ogni possibile approfondimento relativo alla fondazione di Brindisi, è comunque il caso di ricordare quanto meno le due classiche tradizioni leggendarie che la fanno risalire, l’una agli Etoli al seguito dell’eroe greco di Argo, Diomede figlio di Tideo, attestata da Pompeo Trogo, l’altra, attestata da Strabone, ai Cretesi partiti dalla Sicilia sotto la guida dell’eroe Iapige, figlio di Licaone e fratello di Dauno e Peucezio, o partiti da Cnosso con l’eroe ateniese Teseo figlio di Etra ed Egeo. Due tradizioni che va notato, pur se tra di esse chiaramente incompatibili, sono entrambe di derivazione greca, anche se sull’origine degli Iapigi va però segnalata la recentemente più accettata tradizione che li sostiene originari dell’Illiria, sostenuta e ampiamente sopportata etnograficamente da F. Ribezzo, 1906: “Una prova definitiva della pertinenza del messapico, genericamente al gruppo delle lingue balcaniche o slavo-baltiche e direttamente all’illiricoalbanese, sarebbe la concordanza nel trattamento caratteristico delle gutturali palatali, che è la nota più differenziativa e specifica delle lingue di quel gruppo”. Lo stesso Ribezzo spiega anche il perché dell’indubbia presenza ellenistica nella civiltà messapica. Si tratterebbe in effetti non di ellenicità ma di ellenizzamento, conseguente a immigrazioni protostoriche in condizioni di civiltà e di cultura non molto superiori a quelle dei primitivi che vi si trovavano già stanziati e da questi assorbito e profondamente assimilato in tanti secoli di convivenza pacifica. L’idioma messapico del resto, al pari degli altri dell’Italia antica, non poté superare la concorrenza letteraria civile del greco e successivamente, e soprattutto, quella anche politica del latino che determinò, finalmente, la sua soppressione. Il caduceo bronzeo di Brindisi, al pari di vari altri reperti epigrafici anteriori alla romanizzazione, attesta quell’introduzione del greco come lingua nobile, ufficiale o interfederale. Mentre il

messapico, anche in iscrizioni di carattere funerario, non giunse oltre l’ultimo secolo della Repubblica, giacché anche in esse subentrò prepotentemente il latino. Strabone, il già citato geografo-storico greco vissuto nell’era augustea, sempre a proposito di Brindisi scrisse che l’importante città messapica venne privata di gran parte del suo territorio ad opera degli Spartani che, guidati da Falanto, avevano fondato Taranto intorno all’VIII secolo a.C. e commentò come Brindisi dal ferace territorio e dallo splendido porto - sul piano storico fosse stata un’antica città di nobilissime origini, nonché capitale regale del mondo messapico. Quindi, aggiunse che “tutto il territorio messapico fu un tempo ricco e popoloso con 13 città, ma di quelle solo sopravvivevano Taranto e Brindisi, mentre le altre erano ridotte a cittaduzze, avendo tutte subito grandi devastazioni e sofferenze” - no lo scrive ma, evidentemente, ad opera dei conquistatori Romani . In quanto al territorio messapico citato da Strabone, la tradizione ormai consolidata lo ritiene facente parte della Iapigia - pressoché l’attuale Puglia - divisa appunto in - da Nordovest a Sudest - Daunia, Peucezia e Messapia, i cui confini a nordovest erano delimitati all’incirca dall’istmo che collega Taranto a Ostuni ed il cui nome era legato a quello di Messapo, il comandante dell’esercito conquistatore della Iapigia giunto sulla costa adriatica con Iapige - o con suo padre Licaone - ed i cui abitanti (N. Valente, 2018) appartenevano a due etnie: i Salentinoi stanziati intorno all’estremo promontorio peninsulare e, stanziati sul restante territorio e quindi su Brindisi, i Kalabroí, dai quali quel nome di origine epicoria ‘Calabria’ con cui i Romani presto sostituirono quello greco di ‘Messapia’. Quella rivalità - tra la lacedemone Taranto e la messapica Brindisi - segnalata da Strabone, non

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cessò certo con l’insediamento spartano in Taranto, ma bensì perdurò endemicamente ed attivamente per i tanti secoli che intercorsero tra quella fondazione e la romanizzazione dell’intero territorio iapigio, e quindi messapico, avvenuta nella prima metà del III secolo a.C. Ma quella della secolare e spesso cruenta rivalità tra Taranto e Brindisi è tutta un’altra lunga storia, una storia che poi finì proprio con facilitare la conquista romana. “Nel 272 a.C. i Romani, dopo la facile conclusione della guerra contro Taranto e il suo all’alleato Pirro, devono affrontare il problema delle popolazioni che durante il conflitto si erano schierate con il principe epirota. D’altra parte, i Messapi, che avevano ormai manifestato chiaramente la loro ostilità verso i Romani, costi-


tuivano un pericolo costante per quelle navi romane che seguivano la rotta del canale d’Otranto tra la Grecia e il golfo di Taranto. In questo contesto cresceva inevitabilmente l’interesse di Roma verso Brindisi, il cui porto avrebbe invece reso più rapidi e sicuri i collegamenti e i traffici commerciali con la Grecia. Nel 267 a.C. pertanto, i Romani intraprendono una prima campagna militare contro i Salentini col pretesto che essi avevano aiutato Pirro, aggiudicandosi facilmente il trionfo de Sallentineis al comando dei consoli Atilio Regolo e Giulio Libone e poi, nel 266, con una seconda e definitiva campagna, i consoli Fabio Pittore e Giunio Pera trionfarono de Sallentineis Messapieisque. Successivamente, dopo soli pochi anni, i Romani trasformano l’ager brinisinus in

ager publicus e poi, il 5 di agosto del 244 a.C., sotto il consolato di Manlio Torquato e Sempronio Bleso, vi deducono la colonia di diritto latino di Brindisi, con 6000 coloni” (G. Laudizi, 1996). I Romani (U. Laffi, 2015) distinguevano due tipi di colonie: di diritto romano e di diritto latino. Le prime, marittime e con funzione essenzialmente di difesa militare, erano piccole comunità fondate sull’ager romanus con 300 coloni i quali conservavano la cittadinanza romana, con tutti i diritti-doveri che ne derivavano. Le colonie di diritto latino come la brindisina, invece, costituivano una specie di stati sovrani per quanto riguardava i rapporti interni: avevano una cittadinanza propria, proprie leggi, magistrati, statuto, moneta, censo ed esercito. Ciò che non le rendeva stati veri e propri era il fatto che le relazioni estere erano delegate a Roma alla quale erano inoltre obbligati a fornire truppe. I coloni latini - ne venivano dedotti tra 2000 e 6000 - erano alleati privilegiati di Roma e possedevano particolari diritti, tra cui quelli al connubio e al commercio con i Romani. Quei nostri concittadini ancestrali, si sommarono quindi a quelli autoctoni - messapi - sul finire della prima metà del III secolo a.C., quando la città fu romanizzata e divennero cit-

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tadini brindisini di diritto latino. Brindisi poté così conservare a lungo la sua pregevole autonomia, fino alla promulgazione - nel 90 a.C. della legge Iulia de civitate latinis et sociis danda, con cui Roma concesse la cittadinanza romana agli abitanti di tutte le colonie latine e a tutti gli alleati italici. Quali dunque i nomi e le specificità di quegli abitanti ancestrali di Brindisi che, circa 2250 anni fa, la storia cominciò finalmente a registrare? In realtà le fonti pervenute al riguardo, specialmente in relazione agli inizi di quel periodo storico, non sono numerosissime ed anche per questo spesso non risulta facile neanche il poter attribuire quei primi nomi a cittadini messapi o a cittadini latini. Tutto infatti fa supporre che la mescolanza e l’integrazione iniziò presto e fu presto destinata ad essere gradualmente ma inesorabilmente dominata dalla componente latina, sia sul piano culturale che su quello economico e, naturalmente, politico. D’altra parte, “mentre si sottolinea un ruolo indigeno attivo nelle situazioni coloniali successive all’avvento romano, l’urbanizzazione preromana dell’area brindisina si caratterizzò come un complesso processo dalle forti radici indigene, con grandi cambiamenti avvenuti anche nel corso dello stesso III secolo a.C. nel ridisegno complessivo della mappa territoriale e del popolamento,” (G. Carito, 2018). Emblematica della segnalata integrazione è la figura del grande intellettuale Quinto Ennio da Rhudie (239-169 a.C.), zio materno del nostro celeberrimo concittadino Marco Pacuvio (220130 a.C.). Ennio, al pari di molti personaggi brindisini dell’epoca, si dichiara essere greco tra i greci, romano tra i romani e messapico fra i suoi conterranei: di nascita apparteneva all’élite messapica, poi era greco per educazione, ma era romano per adozione e per scelta propria. M. Silvestrini nel gennaio 1996 ha presentato al IV Convegno di studi sulla Puglia romana, un lavoro intitolato “Le gentes di Brindisi romana” con allegato l’elenco delle “gentes documentate a Brundisium”. Si tratta di 218 nomi familiari ‘nomina’ provenienti dall’intero patrimonio epigrafico e documentale brindisino disponibile alla data. Nell’elenco i nomi, che vanno dall’epoca coloniale a quella imperiale, sono ordinati alfabeticamente e sono opportunamente identificati quelli appartenenti a famiglie di rango senatorio, di rango equestre e di rango decurionale - 30 in totale - mentre i nomi da riferire alla colonia latina compaiono in corsivo e sono solamente 5: Hortensii, Pacuvii, Polfenii, Ramnii e Satorii. Di questi 5 personaggi tratterà la seconda parte di questo articolo! (1 - Continua)


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Ecco i nomi dei primi brindisini che la storia ha documentato 5=>+:;7*6;739<$866:

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e fonti ‘storiche’ più antiche rinvenute sugli abitanti di Brindisi, fanno essenzialmente riferimento alla popolazione messapica, alla quale - a partire dalla metà del III secolo a.C. - si sommò quella romana. I Messapi, secondo le più recenti e accreditate ipotesi, erano di origine illirica e le più remote tracce della loro presenza sull’attuale territorio salentino, e quindi su quello brindisino, risalgono a ben prima della fondazione spartana di Taranto, avvenuta sul finire dell’VIII secolo a.C. “In una cornice geografica come quella salentina, probabile teatro di continui spostamenti e sovrapposizioni, è comunque improbabile che si possa supporre una purezza etnica per la stirpe messapica, mentre più logico è invece ipotizzare la presenza di immissioni e infiltrazioni etniche allogene, elleniche o persino celtiche” (M. Leone, 1969). “L’urbanizzazione preromana dell’area brindisina si caratterizzò come un complesso processo dalle forti radici indigene, con grandi cambiamenti avvenuti anche nel corso dello stesso III secolo a.C. nel ridisegno complessivo della mappa territoriale e del popolamento… Le indagini sul campo indicherebbero che durante quel periodo - preromano - la società regionale nell’area brindisina sarebbe stata caratterizzata da processi di urbanizzazione e centralizzazione, prima che - a partire dalla metà del III secolo a.C. - si verificasse la graduale inevitabile integrazione nell’orbita romana” (G. Carito, 2018). Nel 244 a.C. infatti, i Romani dedussero a Brindisium una colonia di diritto latino composta da seimila coloni. E nel 90 a.C., dopo la guerra sociale, con la promulgazione della legge Iulia de civitate latinis et sociis danda, Roma assegnò la cittadinanza romana agli abitanti di tutte le colonie latine e a tutti gli alleati italici. E anche Brindisi, quindi, in quell’ultimo secolo a.C. fu Municipium romano - i cittadini furono iscritti alla tribù Maecia - e con

tale status entrò poi nel lungo periodo imperiale, durante il quale, già quasi del tutto romanizzata, raggiunse presto l’apice del suo splendore. Il canonico Pasquale Camassa (1934) ci racconta che la maggior parte di quei seimila coloni romani dedotti a Brindisi provenivano dalla tribù Palatina, una delle quattro tribù urbane di Roma. Mentre A. Ferraro (2009) ci spiega che la maggior parte degli iscritti a quella tribù erano liberti e soprattutto ingenui figli di liberti, anche se numericamente consistente era il gruppo degli apparitores - funzionari ai quali era affidata l’esecuzione coattiva delle sentenze dei magistrati - con, inoltre, una buona rappresentanza di persone di rango elevato, magari discendenti di un liberto, giacché, cosa che poteva accadere anche tra senatori e personaggi di nobiltà recente, diversi membri dell’ordine equestre avevano un’umile ori-

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Qui sopra la statua bronzea di Lucio Emilio Paolo, sotto un ritratto di Marco Pacuvio. In alto a destra un’ara sepolcrale messapica

gine. Non è dato di sapere quanti fossero gli abitanti messapici di Brindisi, né la loro composizione sociale, quando giunsero i seimila coloni romani, ma è presumibile che il processo di integrazione sociale tra le due etnie non abbia tardato molto a svilupparsi. Ed è per questo che, in un contesto sociale come quello che si venne a stabilire a Brindisi in quei primi anni della colonia, risulta spesso difficile per i personaggi più antichi di cui si è trovata una qualche traccia storica, poter differenziare con precisione quelli appartenenti alla etnia messapica da quelli di provenienza romana. M. Silvestrini (1996), su un totale di 218 nomina fino ad allora individuati nel patrimonio epigrafico e documentale brindisino, ne segnala solamente cinque come sicuramente appartenenti al periodo coloniale, mentre tutti i restanti sono da attribuire al periodo municipale, maggioritariamente imperiale. Questi, in ordine alfabetico, quei cinque più antichi cognomi brindisini, storicamente documentati: Hortensii, Pacuvii, Polfenii, Ramnii e Statorii, e tra loro, in ordine di importanza e notorietà, sono invece indubbiamente primi i Pacuvii e i Ramnii, rappresentati dai famosi Marco Pacu-


vio e Lucio Ramnio. Poi, tra i già più numerosi nomi del periodo municipale preimperiale, vanno segnalati i due ben conosciuti Laenii, Lenio Flacco - il mecenate che accolse più volte Cicerone, nonché uomo d’affari, negotiator, anche in Bitinia - e Lenio Strabone il ricco cavaliere, eques, inventore delle voliere che ospitò Varrone - Quindi, a seguire, i tanti Brindisini, più o meno noti, vissuti durante i secoli del periodo imperiale, tra i quali Silvestrini risalta la presenza estremamente cospicua degli Iulii, quindi dei Claudii, eccetera. Sul nostro celeberrimo concittadino Marco Pacuvio (220-130 a.C.) la bibliografia storica e letteraria è molto ricca, e allora basti qui solo ricordare che fu poeta e scrittore - nonché pittore - e fu indubbiamente uno dei principali tragediografi latini. Ma in questo contesto va anche detto che, mentre suo padre era un nobile brindisino, sua madre era sorella del famoso Quinto Ennio di Rhudiae, uno dei padri della letteratura latina, il quale vantava orgogliosamente la sua nobile ascendenza diretta dal re Messapo e proclamava insistentemente di possedere tre cuori: uno messapico, uno greco e uno romano. Anche su Lucio Ramnio - pressoché contemporaneo di Pacuvio - ricco cavaliere brindisino con probabile ascendenza messapica e raffinato anfitrione di personalità militari romane

e altri dignitari in transito a Brindisi, è disponibile una buona bibliografia e, recentemente (2018), Giacomo Carito ha pubblicato un dettagliato lavoro su questo personaggio, per certi versi un po’ enigmatico, vissuto a Brindisi nel periodo coloniale ed elevato alla notorietà storica perché protagonista della rivelazione del supposto complotto che il re macedone Perseo ordiva ai danni di Roma, in quel 172 a.C. quando Ramnio lo scoprì mentre era ospite alla corte di Perseo, che lo avrebbe invitato a partecipare attivamente in quel complotto contro Roma, dietro promessa di lauti compensi. Grazie a quella rivelazione del leale Ramnio, Roma intraprese la terza guerra macedonica, vincendola con la battaglia di Pidna al comando del console Lucio Emilio Paolo (168 a.C.) e abolendo così la monarchia macedone. Ma Carito ci rivela che probabilmente si trattò - come si direbbe oggi - di una guerra preventiva, giacché non ci sono testimonianze realmente attendibili che Perseo stesse preparando una guerra contro Roma, mentre la propagandata denuncia di Ramnio fu eventualmente parte di un falso annalistico. E aggiunge - Carito - che la leale partecipazione dei maggiorenti brindisini alla politica romana di espansione verso Oriente può aver lasciato una forte traccia nella memoria collettiva, esaltando l’episodio - del Ramnio - reale o verosimile, in un gesto di patriottismo da tramandare nelle storie. E per concludere, cosa aggiungere a proposito dei tre meno noti antichi brindisini: Statorio Hortensio e Polfenio? È di nuovo Carito che, nel suo riferito articolo, scrive che nel santuario di Delfi un’iscrizione racconta che Gaius Statorius, brindisino figlio di Gaio, nel 191-190 a.C. era garantito da prossenia - protezione che un cittadino promi-

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nente, il prosseno, esercitava sugli appartenenti a un’altra città, tutelando gli interessi degli stranieri affidatigli, ricevendo e ospitando coloro che giungevano nella sua città con un incarico ufficiale - così come ne era garantito anche un altro brindisino, Lucius Ortensius, ricordato in altra iscrizione del 168-167 a.C. Se Delfi considerava un italico degno di prossenia, egli doveva essere ricco e influente, con buone reti di relazioni in Grecia e in Italia; un privilegio quello, che solo poche persone non greche ricevevano. Infatti, secondo le iscrizioni documentate, Delfi concesse la prossenia a pochissimi italici: un pugno di romani, un anconetano, un pugliese di Arpi e i due brindisini. Il mercante Pulfennius da Brindisi, figlio di Dazoupos, invece, lo si ritrova garantito da prossenia nel santuario di Dodona e, con un decreto del 175-170 a.C., sono concessi a lui e ai suoi discendenti vari altri diritti, incluso quello di poter acquistare terra e casa in Epiro. E conclude Carito che, eccetto Ortensio le cui origini non possono essere tracciate, gli altri parrebbero avere tutti ascendenza messapica. I nostri concittadini atavici quindi, quanto meno quelli che le fonti storiche ci hanno permesso di identificare con il loro nome, furono - i più - risultato della naturale integrazione etnica e culturale, tra le autoctone popolazioni messapiche e le sopraggiunte genti romane, conseguente a quell’incontro epocale che proprio nell’ambito urbano di Brindisi si originò intorno al suo porto, militarmente e commercialmente strategico, a partire dalla seconda metà del terzo secolo a.C., per poi via via estendersi, nel periodo municipale e soprattutto imperiale, anche all’entroterra, all’ager (C. Marangio, 1975). (2 - Fine)


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MUSICA

Efisio e i suoi Blu70: eredi dei grandi gruppi brindisini Dagli esordi con i Randun alla fondazione della band esattamente 20 anni fa: concerti, cd e tanti premi

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anno scorso, l’amico Marco Greco diede alle stampe il suo “Ho sognato Robert Johnson…” in cui ci raccontò con pacata emozione il lungo ed affollato percorso di quelli che a Brindisi hanno fatto la storia - nonché in una qualche misura anche l’attualità - della buona musica: suonata, cantata, ascoltata e ballata. Tra le parecchie centinaia di musicisti puntigliosamente ricordati da Marco Greco nel suo bel libro, sono moltissimi quelli che meriterebbero di essere enfaticamente - oltre che ricordati - celebrati per le loro straordinarie qualità artistiche e umane e, ne sono certo, ci saranno buone occasioni per farlo. Io oggi, appunto, ho scelto di raccontare ‘di uno di loro’: di un musicista e cantante brindisino, di un amico dalle peculiarità artistiche e - ancor più - umane, assolutamente encomiabili. Un musicista con già alle spalle un lungo e talentoso itinerario artistico, ma - per il nostro diletto - tutt’ora in piena e frenetica attività e con davanti, ne sono proprio certo, ancora un lungo WUDJLWWo per lui colmo di tante altre gratificanti esperienze. Efisio Panzano, infatti, all’anagrafe non è più un ragazzino, tant’è che di anni in meno di me ne ha veramente pochi, sufficienti però ad averci impedito di “suonare assieme” in quei favolosi - musicalmente parlando - anni Sessanta, prima che io abbandonassi quel romantico ‘mestiere’ di musicista per intraprenderne un altro, un po’ meno artistico. Ho rincontrato Efisio dopo tantissimi anni - troppi purtroppo, direi - precisamente nel marzo del 2012, quando con l’entusiasmo di Nicola Poli, un altro bravissimo musicista divenuto quasi un’icona per noi brindisini, si riuscì ad organizzare il 1º Raduno dei musicisti brindisini, con la partecipazione di tantissimi di loro, giovani e giovanissimi, ma anche e soprattutto, tanti meno giovani e quasi storici. Da allora mi sono riproposto, riuscendoci, di rivedere riabbracciare e soprattutto riascoltare Efisio e la sua band, tutte le volte che ritorno a Brindisi che, per mia fortuna, non sono poche. Ebbene Efisio, anche in quell’occasione manifestò il suo essere, non solo di musicista, ma di amico sincero e dalla grande umanità. Non indugiò un solo istante a mettere a disposizione senza interesse alcuno i suoi preziosi strumenti e impianti musicali: trasportandoli, montandoli e rimanendo poi, con incredibile umiltà, a disposizione di tutti, manovrando quegli impianti durante tutte le cinque e più ore che durò quella bellissima manifestazione. Efisio iniziò a cantare e suonare - il basso e la chitarra - negli anni ’70, quindi integrò i Randun, il talentoso gruppo con cui, accompagnato da Antonio Bruno, Pino Sammarco e Salvatore Cocciolo, nel 1982 conquistò il primo premio al Festival Città di Brindisi celebrato in quella lontana estate brindisina.

Efisio Panzano Poi, tantissime appassionanti esperienze musicali finché, esattamente vent’anni fa, una svolta importante, con la fondazione della “Blu70-Blusettanta Band” con la quale gli orizzonti di Efisio si allargarono via via su tutto il panorama pugliese, e oltre. Centinaia e centinaia di concerti: in teatri, piazze, club, discoteche e navi da crociera, in formazione band e big band. Un primo CD di successo ‘20 anni di Hit Parade’ e, nel 2015, la conquista del terzo posto nel prestigioso Capitalent. Gli integranti di oggi dei Blu70, con la voce solista di Efisio, sono i bravissimi musicisti brindisini: Antonio Bruno, chitarrista e arrangiatore; Paolo Mauro, tastierista e cantante; Roberto Cati, percussionista e batterista; e il bassista Alfredo Perchimenna. Ma Efisio e i Blu70 non sono solo in cinque. Tutt’altro! Sono molti di più: la bravissima band brindisina si rinnova continuamente e si arricchisce di contributi sempre di eccezionale qualità, ogni qual volta l’occasione diventa propizia: magari per l’importanza dello scenario e dello spettacolo, ma anche per sperimentare prospettive nuove, o per il solo e semplice piacere di rincontrare i tanti bravi musicisti, amici di sempre, che le strade e i ritmi della vita hanno condotto su altri sentieri. I bravissimi fratelli Franco e Enzo Sgura, e Michele Mele, tanto per citare unicamente alcuni fiati, ma anche tanti e tanti altri ancora. Grazie Efisio, grazie a nome di tutti noi brindisini - e non amanti della buona musica, grazie per le tantissime emozioni che ci regali e grazie soprattutto q VWDWR JLj GHWWR per quella tua coinvolgHnte pasVLR ne che riesce a giungere diUHW tamente al cuore di chi t aVFROWD Grazie e… alla prossima!

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SALVIAMO IL CAVALLO

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«La più antica e più illustre processione brindisina Unica al mondo» =FG 785 285069 4227

iovanni Battista Casimiro, regio notaio brindisino ed insigne letterato e storico, nella sua famosa ‘Epistola Apologetica a Quinto Mario Corrado di Oria’ del 1567, a proposito dell’antichissima - antiquor et clarior - tradizione del ‘cavallo parato’ in Brindisi, così scriveva: «Questo in nessun altro luogo della terra si è mai usato fare; tanto dunque più antica e più illustre è questa nostra tradizione, che né in Roma… né in alcun altro luogo della terra… ed è unica in tutto il mondo… e più preziosa» Quella tradizione del cavallo parato, del resto, era già stata tramandata dall’ancor più antico storico brindisino della prima età angioina, Carlo Verano, nella sua ‘Historia Brundusina’ scritta verosimilmente tra i secoli XIV e XV, andata dispersa e comunque certamente ripresa dal medico e storico brindisino Giovanni Maria Moricino (1560-1628) nel suo manoscritto ‘Antiquità e vicissitudini della città di Brindisi dalla di lei origine sino all'anno 1604’, poi palesemente plagiato dal padre carmelitano Andrea Della Monica e pubblicato nel 1674 con il titolo ‘Memoria historica dell´antichissima e fedelissima città di Brindisi’. Lì, vi si può leggere: «… Nella solennità che ogni anno si celebra del Santissimo Sacramento, l’arcivescovo, vestito pontificalmente,

monta innanzi alla porta maggiore del Duomo sopra un bianco cavallo… portando nelle mani la custodia dove è racchiusa la venerabile Eucharistia… sotto il cielo di un ricchissimo baldacchino…» Una singolarissima processione che annualmente commemora quanto accaduto, intorno all’anno 1250, in seguito al naufragio della nave su cui viaggiava il re di Francia Luigi IX portando con sé l’ostia consacrata. La nave si arrenò presso uno scoglio costiero a circa tre miglia dalla città di Brindisi, dove l’arcivescovo Pietro III si recò accompagnato da un gran numero di cittadini servendosi di un cavallo per coprire quel relativamente lungo tragitto. Lì, prese in consegna il calice contenente l’ostia consacrata e lo portò fino alla Cattedrale, in processione con il popolo che a piedi seguiva il cavallo con il suo carico sacro. E quando fu che a Brindisi iniziò quella tradizione commemorativa? Non ci è dato di conoscere con certezza storica la data esatta - forse fu il 4 giugno del 1265, se non ancor prima ma si sa che il papa Urbano IV, con la bolla ‘Transiturus’ dell’8 settembre 1264, istituì la festa del Corpus Domini, estendendo a tutta la Chiesa Universale la festa che si era originata nel 1247 nella città francese di Liegi e permettendo che nell’occasione si potesse anche ‘pro-

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cessionare’ la SS. Eucaristia. E si sa che il papa Giovanni XXII, eletto nell’agosto del 1316, per quella festa del Corpus Domini rese solennissima e obbligatoria in ogni villaggio della terra la processione del SS. Sacramento, fissandone lo spazio di ‘miglia tre’: proprio la distanza che separa lo scoglio brindisino detto del Cavallo dalla Cattedrale e quindi, il percorso di quella prima processione eucaristica esterna della storia, che nel 1250 ebbe luogo a Brindisi al seguito del SS. portato a cavallo dall’anziano arcivescovo Pietro III. Durante i 714 anni compresi tra il 1250 e il 1964 - anno in cui la processione fu sospesa per poi essere ripristinata nel 1970 - furono ben 62 gli arcivescovi di Brindisi che, come assevera lo storico Giuseppe Roma nel suo documentatissimo libro edito nel 1969 ‘Nella millenaria tradizione del Cavallo Parato’: «Tutti, anche di età grave o di malferma salute,


Un disegno che descrive il Cavallo parato. A sinistra la preziosa opera di Giuseppe Roma

giudicarono di non potersi sottrarre alla non lieve incombenza di portare il SS. in ostensorio, cavalcando anche faticosamente per le vie della città. Non si trattava di una tradizione protrattasi nei secoli per mera tolleranza, bensì di una tradizione che comportava il ripetersi di un consenso di convinta partecipazione attiva e personale dell’arcivescovo. Segno dunque che il carattere storico-religioso-liturgico era tale da non consentire a nessun vescovo di metterlo in discussione. E peraltro, sulla Cattedra brindisina non mancarono, nel corso dei secoli, prelati di straordinaria dottrina e di ricchissimo pensiero, tra i quali, per evocarne solamente tre di tre epoche diverse: Girolamo Aleandro, Francesco De Ciocchis e Annibale De Leo…» E, per la storia di Brindisi e della sua Chiesa, sono da aggiungere alla lista anche gli altri 4 arcivescovi che fino ad oggi, per altri quasi 50

anni dopo quella breve sospensione, hanno processionato la SS. Eucaristia sul cavallo parato: Nicola Margiotta, Settimio Todisco, Rocco Talucci e Domenico Caliandro. I Brindisini siamo orgogliosi della nostra storia e delle nostre tradizioni e quella del ‘cavallo parato’ è certamente la nostra più amata ed originale delle tradizioni: in assoluto unica al mondo e, anche per questo, da preservare sempre e per sempre, come è stata - in effetti - preservata, nonostante nel trascorso dei secoli non siano mancati vari tentativi di annullamento, tutti - puntualmente e per fortuna - falliti. Il Sacro Concilio Tridentino, che durò 18 anni dal 1545 al 1563, pur avendo stabilito principi di rigore in fatto di riti e di cerimonie, ratificò l’autorizzazione alla processione del ‘cavallo parato’ di Brindisi. Durante quel famoso Concilio, fu papa Paolo IV che era stato arcivescovo di Brindisi dal 1524 al 1542. Preparatore ne fu il celebre cardinale Girolamo Aleandro, già arcivescovo di Brindisi e vi partecipò anche l’arcivescovo brindisino Giovanni Carlo Bovio. Però, nel 1605 giunse a Brindisi dalla Spagna il nuovo arcivescovo Giovanni Falces di S. Stefano, il quale appellò la processione del ‘cavallo parato’ alla Sacra Congregazione dei Riti. E questa respinse il ricorso sentenziando, nel 1611, che le lodevoli e immemorabili tradizioni della Chiesa brindisina non potevano essere derogate dal cerimoniale dei vescovi. Poi, il papa Paolo V nominò una commissione di cardinali della Sacra Congregazione dei Riti, col compito di procedere alla revisione di tutti i riti particolari e i risultati furono pubblicati con bolla papale del 17 giugno 1614, senza che in essi vi fosse revisione alcuna relativa al rito particolare del ‘cavallo parato’ di Brindisi. Centocinquanta anni dopo, il papa Benedetto

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XIV ordinò un’ulteriore revisione dei riti e delle cerimonie della Chiesa Universale, dandone incarico al padre Giuseppe Catalani e promulgando poi, con bolla del 26 marzo 1752, il nuovo Rituale Romano in cui si regolava anche il cerimoniale della processione eucaristica del Corpus Domini. Dopo pochi giorni da quella promulgazione divenne arcivescovo di Brindisi il dottissimo teologo Giovanni Angelo De Ciocchis e il 1º giugno di quello stesso 1752, giorno del Corpus Domini, «… calò in Chiesa con veste viatoria, stivaletti, cappello e bastone, salì sul trono, si pose il càmiso, cappa magna e mitria, e in tal forma si pose a cavallo, al solito, e con tutta la mitria portò nostro Signore». Il proprio padre Catalani, infatti, ebbe a scrivere: «… Altro diverso modo di portare in processione il SS. Sacramento è nella maniera che è descritta nella ‘Storia Brundusina’ di Giovanni Carlo Verano. Il SS. è condotto per la città su un bianco cavallo, reso mansueto e riccamente bardato. Per il che, in tal giorno l’arcivescovo vestito degli abiti sacerdotali con piviale, cavalcando tal cavallo, suole portare il SS. che da due accoliti viene continuamente incensato, sotto un baldacchino recato da sei canonici solennemente salmodianti, mentre i due Primati della città, cioè il governatore e il sindaco, ve lo conducono reggendo per mano il freno del cavallo…» E per concludere, niente di più appropriato che la seguente sacrosanta affermazione: “Le tradizioni popolari, specie quando immemorabili, sono un aspetto dell’anima stessa del popolo che le esprime; e pertanto vanno riguardate con più attento cuore, piuttosto che con più attenta ragione” - Giuseppe Roma, 1969 -


LA STORIA

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MOTOBARCA da una sponda all’altra della nostra vita ?GI$;=6%7=65:<+877;

inalmente, dopo “soli” quattro anni circa di sospensione, sta per essere ripristinata la tradizionale fermata della motobarca ai piedi della scalinata del Casale: un’interruzione iniziata per dare spazio ai lavori di ristrutturazione della banchina durati un paio d’anni e poi prolungata, anzi ed incredibilmente raddoppiata, a causa di un banale ed imperdonabile errore di progettazione che ha impedito il naturale attracco della motobarca e ha indotto alla costruzione di un nuovo costoso pontile galleggiante, originalmente non previsto. Pazienza, ormai ci siamo… quasi! Propizia, quindi, l’occasione per raccontare una pagina abbastanza originale, di storia brindisina. Il popolarissimo servizio di traporto passeggeri via mare nelle acque portuali interne del porto di Brindisi, all’attuale operatore la Società Trasporti Pubblici di Brindisi STP - fu formalmente affidato dal Comune nel novembre 2001, determinando quell’atto amministrativo il definitivo passaggio sotto il controllo diretto della città di Brindisi dello storico servizio pubblico che durante tanti secoli aveva ininterrottamente operato ‘in concessione’ sul mare del Seno di Ponente, tra la banchina del quartiere marinaro delle Sciabiche e l’opposta sponda del Casale. La STP infatti, è la società di capitale pub-

blico proprietà del Comune di Brindisi e della Provincia di Brindisi che opera l’intero trasporto pubblico urbano nel Comune di Brindisi. Fondata nel 1969 con il nome di Azienda Municipalizzata Autotrasporti Brindisi AMAB, nel 1975 assunse il nome e l’assetto azionario attuale. Prima del novembre 2001 e per circa una settantina d’anni, il servizio di traghettamento tra Brindisi e il Casale era stato via via gestito da tutta una serie di società private da quando, nell’anno 1931, il comandante del porto Silvio Fontanella, aveva segnalato l’incompatibilità legale dell’esclusività del traghettamento mantenuta per secoli da parte della Mensa Arcivescovile di Brindisi; una incompatibilità poi ratificata dall’Avvocatura dello Stato che ritenne tale diritto ‘non provato’. L’allora arcivescovo Tommaso Valeri, protestò prontamente presso il Procuratore di Bari ‘il procedere lesivo per gli interessi della Mensa Arcivescovile da parte del comandante del porto di Brindisi’ ma, nel dicembre dello stesso anno, la Direzione Generale della Marina Mercantile, riconfermò la piena libertà di circolazione nel porto e quindi, la conseguente inconsistenza del preteso diritto esclusivo della Mensa Arcivescovile. Decaduta quindi quell’esclusività, il servizio si fu gradualmente diversificando e privatizzando finché, nell’anno 1958, la società cooperativa ‘Contramare’, proprietà di Guadalupi, Gigante, Piliego e De Marco, commissionò alla SACA la costruzione di

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tre motobarche - Giuseppina, Annamaria e Augusto - che furono adibite alla prestazione del servizio a visitatori e abitanti di Brindisi. Qualche anno dopo, nel 1962, la cooperativa fu rilevata da Cosimo Gioia che la liquidò sostituendola con la C.C.I.A.A. ditta individuale di sua proprietà che gestì a lungo il servizio Brindisi-Casale con un contributo del Comune a copertura del disavanzo sul costo del biglietto. Nel 1978, la società passata in proprietà alla figlia di Cosimo Gioia, Elena, fu liquidata e sostituita


Qui accanto la motobarca a Brindisi negli anni Sessanta mentre al centro una splendida foto degli anni Cinquanta

dalla società ‘Casalmare’ che poi, nel 1994, fu assorbita dalla nuova società ‘Brindisi mare’ che fu quella che mantenne la concessione del servizio con il relativo contributo comunale fino a tutto il 2001. Ma cos’era, in che consisteva e da quando era stato in vigore, quel diritto di esclusività di traghettamento di cui aveva usufruito la Mensa Arcivescovile di Brindisi durante secoli? Ebbene, a tale proposito bisogna cominciare con il premettere che il servizio regolare di traghettamento Brindisi-Casale

sicuramente sorse - in principio, anche se comunque senza mai escludere altri usi civili - legato ai continui pellegrinaggi che avevano come meta la trecentesca chiesa di Santa Maria del Casale. Eventualmente, non risultando documentato un qualche antico atto legale formale che lo avesse concesso in forma esplicita, quel diritto di servizio di trasporto fu ritenuto esclusivo da parte della Mensa Arcivescovile, in ragione del fatto che lo stesso si originò in tempi in cui tra la città ed il Casale, di fatto completamente disabitato, era costituito solamente dai pellegrini che si recavano presso la Chiesa di Santa Maria del Casale: «… La genesi della chiesa, ai margini di un frequentatissimo itinerario quale quello costituito dall'Appia Traiana e non distante dalle cale portuali di ponente in cui era ampia disponibilità d'acqua dolce, si determina nell'avanzare della linea dei coltivi che caratterizza il XIII secolo… Lo sviluppo di Santa Maria va dunque intrecciato con quello della fortuna della grande via dei pellegrini, della frequentazione delle cale portuali vicine e dello sviluppo dell'abitato, in cui non dovevano mancare strutture d'ospitalità, cui ineriva. Ospizi o ospedali per i crocesignati o i pellegrini diretti in Terra Santa erano ovviamente lungo il grande itinerario che aveva uno snodo essenziale nei porti pugliesi e fra questi, in particolare, Brindisi. Frequenti sono le tracce lasciate nella chiesa da quanti si dirigevano o tornavano dalla Palestina…» [G. Carito, 2010]

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Anche se certamente ne esistono di precedenti, il riferimento esplicito più antico che ho reperito in relazione al servizio di traghettamento tra Brindisi e il Casale, risale al 1568, anno in cui l’arcivescovo di Brindisi Giovanni Carlo Bovio (1564-70) cedette la chiesa di Santa Maria del Casale e annessi fabbricati ai frati Minori Osservanti della provincia di San Nicola, i quali il giorno 26 aprile vi piantarono la croce dando inizio alla fabbrica del monastero, che fu poi completato, fra 1635 e 1638, dai frati Minori Osservanti Riformati, subentrati ai primi nel 1859. Tra l’arcivescovo e il provinciale frate Lorenzo da Tricase, in quel 1568, si convenne: “Lo arcivescovo di Brindisi da et concede in perpetuo alli frati di San Francesco osservanti la chiesa di Santa Maria del Casale posta fora della città de Brindisi qual è dell’Arcivescoval Mensa con li edificij di case et torre et con lo giardeno e terreno adiacente et contigui ad essa Chiesa con li patti conditioni […] Item si reserva la barcha de Santa Maria et il draghetto del portu chiamatu il varcaturo”. Il padre Bonaventura da Lama nella sua [Cronica… Lecce, 1724] rileva che, comunque, inizialmente i Padri Osservanti ricevevano una grossa limosina di ducati 90 per l’affitto della barca che tragitta i passeggieri e poi, quando si riformarono, si contentarono di soli 24 ducati, rinunciando al resto a favore della Mensa Arcivescovile. Un altro importante riferimento esplicito al traghettamento, lo si ritrova nel classico testo sulla storia di Brindisi, notoriamente plagiato dal padre carmelitano Andrea Della Monaca e da questi fatto dare alle stampe nel 1674: «…Si celebra ogn’anno in detta chiesa alli otto di settembre la solennità della nascita della Vergine, e vi è una fiera competente, ma il concorso della gente forestiera è grande, che rende la festa più celebre. Il camino ordinario che si fa per andare alla detta devotione, e al monasterio de’ padri, parte è per mare, e parte per terra; per mare perché bisogna passare tutta la larghezza del corno destro del porto interiore, che è di duecento cinquanta passi, per il che vi sono molte barche in quel giorno ornate di tendali, e bandiere per fine di condurre, e ricondurre le genti dall’una, e l’altra riva, aggiungendosi per maggior diletto de’ spettatori la vista dell’emulatione grande che è tra marinari, ch’in voga arrancator s’affatigano gli uni per superar gl’altri nella prestezza del viaggio per far maggior


La motobarca negli anni Novanta e in basso il traghetto che collega oggi le due sponde del porto

guadagno; oltre la barca ordinaria fatta à modo di scafa, che vi tiene tutto l’anno l’arcivescovo, essendo ciò sua giurisdittione per far traggitto delle genti che vanno à lavorare i campi, che sono di là del mare; si và anco per terra, poiché uscendosi dalla barca è di bisogno caminare per giongere al monasterio de’ padri passi ottocento, per una strada amena, spalleggiata dall’ombre delle siepi, delle vigne, de’ giardini, e d’oliveti, che vi sono dall’una, e l’altra parte del camino. Si può andare anco sempre per terra senza toccar mare, ma il viaggio è un poco più lungo, e alquanto faticoso.» All’anno 1722 invece, risale un documento notarile compilato dal notaio Giuseppe Matteo Bonavoglia su incarico dell’arcivescovo di Brindisi Paolo De Vilana Perla, nobile

della Catalogna nativo della città di Barcellona. Il documento è una Patea di tutte le entrate, cioè il reddito dell’arcivescovo, da beni mobili ed immobili e tassazioni. Ebbene, fra le entrate figura l’esercizio di traghettamento nel porto con la “Barca di Santa Maria” tra le due sponde del seno di ponente, tra Brindisi in riva Sciabiche e il Casale in località Santa Maria. Un altro riferimento al monopolio del traghettamento Brindisi-Casale è contenuto nella ‘Cronica dei Sindaci di Brindisi dall’anno 1529 al 1787’ di Pietro Cagnes e Nicola Scalese. Dopo la trentennale (1714-1734) parentesi del governo austriaco sul regno di Napoli, con l’avvento di Carlo Borbone sul trono, a Brindisi erano sorte serie tensioni tra i pubblici amministratori

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civili, gli eletti consiglieri il sindaco e il governatore da una parte, e il clero nella persona dell’arcivescovo Andrea Maddalena, napoletano, dall’altra e le tensioni accumulate si concretizzarono in occasione di alcuni episodi specifici, uno dei quali ebbe al centro della disputa proprio il traghettamento al Casale: «Il giorno 11 settembre 1738, il sindaco di Brindisi Tomaso Cantamessa, radunò nel Sedile il parlamento cittadino e decretò decaduto il diritto del quale godeva l’arcivescovo relativo allo ‘jus prohibendi per la barca del Casale’, una concessione dalla quale a quel tempo l’arcivescovo otteneva, affittandone il diritto, da 60 a 70 ducati l’anno». Il decreto cittadino fu immediatamente impugnato e rimesso ai tribunali e alla fine si ritornò allo status quo, per cui l’arcivescovo di Brindisi continuò - durante altri 200 anni - a riscuotere per quella concessione. Ancora nel 1923, infatti, il canonico Salvatore Polmone “concede in locazione a Teodoro Piliego il diritto di passaggio che la Mensa Arcivescovile possiede per il trasporto delle persone e delle merci dalla sponda delle Sciabiche nel porto di Brindisi, all’altra opposta di Santa Maria del Casale” [Archivio Storico Diocesano, Brindisi, Fondo Amministrazione, Serie Mensa Arcivescovile, cart. 40, fasc. 2]. A proposito di quel litigio, nell’Archivio di Sato di Brindisi [III, B-1-1-XXVII, a. 1738] riposano gli atti che citano «…una piccola gabella per lo Jus barcagni seu dell’imbarcaturo, per trasportare, seu passare con la barca, seu scafa tutte le genti che vogliono passare da una banda all’altra; tanto per andare alla Chiesa di Santa Maria del Casale de Padri Riformati, quanto per andare alle loro Masserie, giardini e territori e loro beni, tenendovi una sua barca seu scafa propria della sua Mensa Arcivescovile che l’affitta per triennio…»


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Nella foto a sinistra la futura piazza Vittoria si chiama ancora piazza Fontana: siamo nel 1910. Qui sopra la fontana de Torres tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento. In basso lo spostamento della fontana il 10 ottobre 1928 (Foto di Pietro Acquaviva). Nella pagina accanto una foto della fontana oggi, in piazza Vittoria

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il7 MAGAZINE 31 23 novembre 2018

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1595-1600 PAGINE DI STORIA BRINDISINA DI FINE SECOLO XVI ;CD%15/ 05/,24 3001 el XVI secolo Brindisi faceva parte del Viceregno spagnolo di Napoli. Gli spagnoli infatti, all’inizio del secolo – nel 1509 – erano subentrati agli aragonesi sul trono di Napoli, e ci sarebbero poi restati per duecento anni. Nel trascorso di quel primo secolo di dominazione spagnola sul meridione italiano, a Madrid il trono di Spagna era stato occupato, in successione, da Ferdinando il cattolico, Carlo V e Felipe II, mentre furono molti di più i viceré spagnoli che si avvicendarono a Napoli. Nel 1595 era viceré Enrique de Guzman e il regio governatore di Brindisi era Francisco Maldonado de Salazar. Le altre principali autorità cittadine di nomina regia erano i castellani di terra (del castello svevo) e di mare (del castello alfonsino), il giudice e l’arcivescovo. Il sindaco, invece, era nominato dal preside della provincia di Terra d’Otranto, s’insediava il 1º settembre e durava in carica un anno. Sul finire del 1595 era sindaco Bartolomeo

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Gennuzzo, il castellano di terra era Vicente Castelloli, quello di mare Girolamo de Herrera, il giudice era Vincenzo Pitigliano e l’arcivescovo era Andrés de Ayardi, il primo arcivescovo della sola Brindisi, dopo che Oria era diventata suffraganea dell’arcidiocesi di Taranto. Ed è proprio con l’arcivescovo Ayardi, che inizia la serie dei fatti che qui si raccontano, susseguitisi in città durante quell’ultimo lustro di secolo. Fatti del tutto ordinari alcuni, di cui si tralascia il racconto, e meno ordinari e finanche di cronaca nera altri, tutti registrati nella “Cronaca dei Sindaci di Brindisi 1529-1787” scritta dai due sacerdoti brindisini Pietro Cagnes e Nicola Scalese e pubblicata da Rosario Jurlaro nel 1978. Fatti, quelli che si trascrivono di seguito, che in qualche modo assemblano una specie di notiziario brindisino di quel lustro, uno spaccato sociopolitico della città, un riflesso di realtà e problematiche urbane di un’epoca lontana, anche se comunque non da troppo tempo scomparse o, forse, non ancora scomparse del tutto: delitti passionali, invidie e xenofobie, ragazze madri e neonati abbandonati, diritti dei lavoratori violati,

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prelati d’ogni rango coinvolti in storie criminose, giochi d’azzardo, militari che invadono le sfere civili, tempi lunghissimi per eseguire opere pubbliche, vertenze e controversie economiche tra pubblico e privato, eccetera. «A 4 settembre 1595 passò da questa a miglior vita l’arcivescovo Andrea de Aijardes, il quale fu avvelenato, dove ne fu inquisito Giovanni Figueroa, che si diceva, che lui l’avesse fatto avvelenare, per la morte del quale venne in questa città un consigliero da Napoli, Giovanni Tomaso Vespoli, il quale carcerò detto Giovanni, e lo portò in Napoli, insieme con Matteo della Ragione per detta causa. Il 20 ottobre i medici Giovanni Maria Moricino e Marcello Barlà furono carcerati nel castello di terra per ordine del regio consigliero per commissione di S. Eccellenza soluti vinculis, et catenis si obbligano di tener loco carceris detto castello sotto la pena di ducati 2000 per cui entraron fideiussori dottor Antonio Leanza, Giovanni Battista de Napoli, Giovanni Andrea Monetta, ed Angelo Pappalardo.» [Si trattò del giallo più clamoroso del secolo. Quel presunto omicidio per avvelenamento


A sinistra una suggestiva veduta aerea del Forte a Mare e sullo sfondo il Castello aragonese. In basso il Catello Svevo, nel porto interno di Brindisi

dell’arcivescovo Andres de Ayardi, infatti, rimase giudizialmente irrisolto e i suoi due medici, entrambi illustri personaggi brindisini, sospettati e incarcerati, furono poi rilasciati perché poterono provare la loro estraneità. Per quanto attiene la sorte di Giovanni Figueroa, questi non fece più ritorno a Brindisi, ma: “Si è pure sospettato che i motivi de’ disgusti tra l’arcivescovo Andrea e Giovanni Figueroa fossero stati, perché quegli da diligente ed ottimo prelato, chiedeva dal Figueroa stretto conto de’ mobili della Chiesa involati durante la lunga vedovanza di circa sei anni seguita alla morte dell’anteriore arcivescovo, Bernardino de Figueroa, di lui zio"]. Il 1º settembre 1596 subentrò a sindaco Giovanni Battista de Napoli: «A dì 19 novembre, giorno di martedì, ad ore 18 fu ammazzato Daniele Coci arcidiacono e vicario capitolare, sedia vacante, per averlo trovato Luca Ernandez in casa di Giovanni Tafuro con sua sorella, moglie di detto Giovanni, dove detto Luca fu pigliato carcerato da Spagnoli della compagnia, e portato a Lecce, e dopo in Napoli.» Il 1º settembre 1597 subentrò a sindaco Giovanni Antonio Piscatore: «Il 16 ottobre il maestro Pietro de Tuccio prende l’appalto, per 80 ducati, di costruire il ponte levatoio al castello dell’Isola [una delle ultime strutture a completamento del Forte a mare la cui costruzione, laboriosa e complessa, si era protratta per quasi 50 anni] … Giovanni Battista Monticelli, che aveva combattuto con propria compagnia a Lepanto nel 1570, ed in altri tempi in altre battaglie, ottiene per la sua famiglia e per sé la patente di nobiltà nonostante l’opposizione dei nobili brindisini Sebastiano del Balzo e Teodoro Pando che dicevano il padre suo Pietro fosse stato maestro d’ascia seu mannese, povero e vile… I Domenicani protestarono che le case di loro proprietà sono quasi tutte rovinate per la malhabitazione di spagnoli et di altre genti di presidio quali vengono e vanno subitamente e mal trattano detti luoghi, et case, così medesimamente de vigneti, territori, in città situati.» Il 1º settembre 1598 subentrò a sindaco Antonio

Leanza, nobile e nello stesso anno subentrò a governatore Giovanni Francesco Carducci: «A dì 15 settembre passò da questa a miglior vita la buona memoria del nostro re Filippo II, e successe il figlio Filippo III. Si fecero le esequie in Brindisi, a 10 novembre con aversi posto di lutto il governo a spese della città… A dì 13 novembre venne l’arcivescovo Giovanni Petrosa, il quale dimorò a S. Leucio, cioè nelli Cappuccini una mano di giorni, e non entrò nella città insino a 22 di detto mese… Il 12 febbraio 1599 il frate agostiniano Oronzo Gaza si trova carcerato nel castello grande sotto la custodia del castellano… Il 13 giugno, è battezzata una figlia naturale di Caterina, schiava mora di Visconte Rizzago, commerciante veneto dimorante in Brindisi.» Il 1º settembre 1599 subentrò a sindaco Giuseppe Pascale e nello stesso anno subentrò a viceré Fernando Ruiz de Castro: «Il 20 settembre è gran pericolo di rivoltar la città perché il castellano di mare aveva ordinato ai suoi soldati di togliere il danaro delle gabelle del mosto di vino ai carrettieri che lo portavano ad alcuni privati che non godevano di franchigia ed aveva anche minacciato di incarcerare gli arrendatori della stessa gabella… Tra marzo e aprile dell’anno 1600 vi sono vertenze tra l’arrendatore dei sali per la provincia di Terra d’Otranto Scipione de Raho, i credenzieri del regio fondaco dei Sali e saline in Brindisi Vittorio Pascale, Antonio Sguri e Lattanzio Tarantino, il fondacchiere Camillo Coco e gli amministratori della città… Il 26 maggio Pasquale Villanova fa pubblica promessa di non giuocare ai dadi né ad altro giuoco, sotto pena di far eseguire per la chiesa del Carmine un quadro di sua proprietà del valore di venticinque ducati.» Il 1º settembre 1600 subentrò a sindaco Giovanni Battista Monetta e nello stesso anno subentrò a governatore Luigi de Benardes: «Il 24 ottobre è battezzata una figlia naturale di Speranza, schiava mora di Giovanni Camillo Coci… Sono anche battezzati Camilla “exposita cuius parentes igno-

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rantur” e Francesco “naturalis filius universitatis”. Molti altri battesimi di “espositi” [in genere neonati da ragazze madri che venivano abbandonati, lasciati – esposti – sulla ruota] si ritrovano anche in varie date successive, un fenomeno spesso legato agli arrivi in Brindisi di nuove compagnie di soldati, spagnoli e a volte d’altri paesi, che si avvicendavano di continuo.» A complemento di questo peculiare “notiziario” cinquecentesco di Brindisi, e per meglio intendere quali erano all’epoca “i venti” che aleggiavano sulla città, è interessante rileggere il primo paragrafo di un articolo scritto nel 1978 da Giacomo Carito a proposito della “cultura a Brindisi dalla seconda metà del XVI secolo in avanti”: «Nel XVI secolo si propongono in Brindisi problemi di non poco momento: la formazione di gruppi eretici, l’impoverimento economico determinato dall’espulsione degli ebrei, la definizione di un nuovo ruolo per la città adriatica dopo che l’espansione turca – impedendo il “trafficare nell’Illirico, nella Grecia e nell’Egitto – ridusse la negotiatione in piccolissimi termini, e fù à poco, à poco tralasciato da Brundisini il maritimo negotio”. Generalmente, le scelte e le impostazioni che si assumono nel corso del XVI secolo finiscono con l’essere determinanti e condizionanti anche per i secoli successivi: così è per la ridefinizione militare del porto di Brindisi e per la sempre più marcata presenza, non solo in termini religiosi ma anche culturali ed economici, delle strutture ecclesiastiche.» Ed è anche giusto, infine, ricordare che in quel lustro di fine secolo, tra i brindisini si annoveravano non pochi personaggi di grande levatura, tra i quali, i già citati Gio Battista Monticelli, intrepido comandante militare e lo scrittore storico Giò Maria Moricino, i letterati Nicolò Taccone e Lucio Scarano, il giurista Ferrante Fornari e, niente meno che Giulio Cesare Russo – Fra’ Lorenzo – il più illustre figlio di Brindisi di tutti i tempi.


CULTURE

,:A8?77> 6@A-9@;6@8@ 6<:: ?1>8=>A+ 6@A)563 163,78"4115 ome è normale e giusto che sia, la storia universale ben ricorda e documenta ampliamente il tristemente famoso sacco di Roma del 1527 ad opera di orde di lanzichenecchi, soldati mercenari tedeschi all’epoca arruolati nell’esercito dell’imperatore Carlo V, re di Spagna e di Napoli, comandati dal loro famigerato capo Georg von Frundsberg. Il sacco si produsse nell’ambito del secondo dei conflitti italiani, tra Carlo V d’Asburgo e il re di Francia Francesco I di Valois, per il dominio politico d’Europa. Eppure, nel corso di quella stessa guerra, a due anni distanza, si produsse un altro sacco che, sebbene con meno risonanza nella storia mondiale, lasciò una traccia altrettanto profonda ed ugualmente triste nella nostra città: il sacco di Brindisi del 1529 ad opera, questa volta, dell’altro schieramento, le truppe dell’antimperiale Lega di Cognac, specificamente quelle veneziane, francesi e romane, guidate dal comandante papalino, il barone Simone Tebaldi Romano. Carlo V, figlio di Giovanna la Pazza – figlia del re Ferdinando il cattolico – e perciò erede al trono spagnolo, e di Filippo il Bello – figlio dell’imperatore Massimiliano – e perciò erede al trono asburgico, si trovò a regnare su un impero immenso, che andava dall’America Latina alla Sicilia, passando per Fiandre e Paesi Bassi, l’impero su cui non tramontava mai il sole. Alla morte di Massimiliano nel 1519, infatti, anche se Francesco I di Francia aveva avanzato pretese sul trono imperiale legittimate dall’appoggio di papa Leone X, alla fine era stato Carlo V a vincere l’elezione. Dopo le dispute per la successione al trono dell’impero, la lotta tra Carlo V e Francesco I continuò a più riprese e culminò in una nuova sconfitta per il francese con la battaglia di Pavia del 1525, nella quale lo stesso Francesco I cadde prigioniero. L’anno seguente, il 22 maggio1526, Francesco I diede vita alla Lega di Cognac, costituita da Francia, Firenze, Venezia, Milano e Inghilterra, e ad essa aderì anche lo Stato Pontificio del papa Clemente VI. Quella mossa del pontefice causò la reazione dell’imperatore, che radunò un esercito di 12.000 mercenari lanzichenecchi tedeschi per farli discendere in Italia dove, assieme alle truppe spagnole e italiane comandate da Carlo di Borbone, sovrastarono le forze della Lega, di scarsa coesione e mediocre efficienza militare, e dopo qualche mese giunsero alle porte di Roma. Nell’attacco alle mura, il 5 maggio 1527, morì Carlo di Borbone e il giorno dopo gli im-

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periali vi entrarono, mentre il papa si rifugiava in Castel Sant’Angelo. I lanzichenecchi, esasperati per le pessime condizioni sopportate durante la campagna e per i mancati pagamenti pattuiti, sfuggiti al controllo del loro comandante, von Frundsberg che si era ammalato, si diedero per otto giorni al saccheggio della città e alla violenza sui suoi abitanti con inaudita brutalità; furono devastati i palazzi dei prelati e dei nobili contrari all’imperatore e furono assalite le chiese e i monasteri, rubati i tesori e distrutti gli arredi sacri. In seguito agli eventi di Roma, nell’agosto del 1527, l’esercito francese discese in Italia e si unì alle altre forze della Lega sotto la guida del maresciallo d’oltralpe Odet de Foix, conte di Lautrec. Alla fine dell’anno, con la notizia dell’imminente uscita delle truppe imperiali da Roma, i collegati di Cognac decisero di portare la guerra al sud, nello spagnolo regno di Napoli. Lautrec quindi, intraprese lo spostamento di tutte le forze alleate verso Napoli e – mantenendo un percorso prossimo a quello della flotta veneziana di Pietro Lando che puntava sulle città costiere pugliesi – ai primi di marzo del 1528 entrò nella strategica in Puglia. Anche l’esercito imperiale si diresse in Puglia guidato dal nuovo comandante Filiberto principe d’Orange il quale, alla notizia che gli alleati avevano preso Melfi e Ascoli, intraprese la via della ritirata strategica a Napoli. Altre città si arresero o si allearono alla Lega: Barletta, Monopoli, Molfetta, Bisceglie, Giovinazzo, Cerignola, Trani, Andria, Minervino, Altamura, Matera, Polignano, Mola e Bari – dove però i castelli rimasero spagnoli – e Ostuni. Fece invece resistenza Manfredonia, mentre l’esercito alleato inseguiva gli imperiali e mentre, a sud,

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i veneziani pensavano a riprendersi i porti perduti nel 1509: Gallipoli, Otranto e soprattutto a Brindisi. «Così la regione, rifugiatisi gl’imperiali nei luoghi fortificati – Otranto, Taranto, Gallipoli – veniva in potere dei veneziani e Lando si affaticava intorno a Brindisi. Questa città, come le altre di Puglia, era sfornita di truppe imperiali che erano state mandate verso la Capitanata al principio della guerra. All’intimazione di arrendersi e non ostante la minaccia di dover pagare cinquantamila scudi, rispose dapprima negativamente per timore dei forti, ma poi, aperte trattative, il 29 aprile 1528 Brindisi alzò bandiera veneziana, mentre le persone atte alle armi si ritiravano nelle due fortezze a difendervi la bandiera imperiale. I veneziani appena entrati in città, ove fu posto a governatore Andrea Gritti, commisero soprusi e angherie contro gli abitanti ai quali già avevano rovinato le campagne all’intorno, poi misero l’assedio ai castelli stabilendo di darvi in maggio un pieno assalto.» [V. VITALE, L’impresa di Puglia degli anni 15281529. Archivio Veneto - 1907] A metà di maggio, Lando – senza essere riuscito a espugnare i due castelli, nonostante i tanti e ripetuti attacchi sferzati sia da mare che da terra – con le sue galere, che non potendo entrare nel porto avevano trovato approdo nella rada di Guaceto, fu inviato a Napoli per rafforzarne l’assedio, lasciando la città allo stremo, come si evince da una lettera datata Brindisi 18 maggio 1528, inviata da Bartolomeo Porzio a Valerio Marcello in Venezia: «Qual hanno ruinato Brandizo da dentro et di fora, da dentro le caxe de iardini, de fora de li hogj, massarie, olive taiate ed altri inconvenienti, ad tale che omne uno sta per disabitar sin


che lo magnifico governator no fe’ bando che nullo s’habbia da partire. Già son doi anni che havemo perdute le intrate si per la peste si per li soldati, che oramai in Brandizo non è chi possa mangiare pane maxime soprastante la carestia che lo tumino de formento vale più di uno ducato d’oro, che molti ne hanno patuto et pateno di persona per ditta carestia.» Così, nel giugno del 1528, salvo gli attacchi sotto le mura dei castelli di Brindisi, che mai cessarono del tutto, la guerra era inattiva in tutta la Puglia, eccetto che attorno a Manfredonia. Mentre nell’assedio di Napoli, in mancanza di risultati, Lautrec decise di tagliare i rifornimenti idrici alla città facendo distruggere l’acquedotto e riversandone le acque nei vicini terreni paludosi. Tale circostanza, in concomitanza con la calura estiva, generò una violenta pestilenza che presto si abbatté sull’esercito assediante e lo stesso Lautrec ne fu vittima, morendo il 15 agosto. Finalmente, gli alleati della Lega, decimati dalla pestilenza dalla carestia e dai nemici, tolsero l’assedio e ripiegarono su Aversa dove, il 30 di agosto, furono intercettati e battuti dalle truppe imperiali. L’anno 1529, così come si era chiuso il 1528, si aprì fra la stanchezza delle due parti, non aliene dalle trattative di pace, ma neppure disposte a interrompere le operazioni di guerra. Gli imperiali guidati in Puglia dal marchese Del Vasto, deliberarono la riconquista delle più importanti terre perdute, Barletta, Trani, Monopoli, senza peraltro riuscirvi. Mentre i collegati deliberarono tornare alla riscossa della strategica Terra d’Otranto e il 28 luglio riattaccarono Brindisi, puntando soprattutto alla presa dei due castelli: quello di terra, difeso dal vice castellano Giovanni Glianes e quello di mare, difeso dal vice castellano Tristan Dos. Il castellano generale, Ferdinando – Hernando – de Alarcón, era in quei giorni a Napoli. Sindaco di Brindisi era Giacomo de Napoli. Il provveditore veneziano Pietro Pesaro, il 13 agosto prese terra a Porto Guaceto e con l’avanguardia si avvicinò alla città, la quale si lasciò persuadere ad arrendersi, ma, contro i patti, fu saccheggiata dalle truppe francesi, mal frenate dai veneziani. Il 18 arrivò Camilo Orsini con mira a prendere i castelli, che anche questa volta erano rimasti nelle mani spagnole, cominciando con quello di terra. Esaurite però, dopo solo due giorni, le munizioni, si decise di chiamare a rinforzo il capitano Simone Tebaldi Romano che giunse a Brindisi con tutti i suoi fanti: “e qui, il 28 agosto, in una ricognizione intorno al castello di terra, egli trovò la morte per un colpo di artiglieria”. Poi, finalmente giunse la notizia che a Cambrai il 5 agosto era stata firmata la pace e, pur con la reticenza dei veneziani, l’assedio fu tolto. Ma per Brindisi era troppo tardi: l’uccisione del Romano aveva scatenato l’inferno. «Furono della morte di costui dalla soldatesca celebrati lagrimosi funerali nella misera città, contro la quale sfogò il suo sdegno senza timore alcuno della divina giustizia, e senza pietà degl’innocenti; perciò che i soldati, essendo di varie nationi, e liberi dal freno del capitano, trascorsero nella solita loro indomabile natura, essendo natural conditione di costoro, quando non

Francesco I re di Francia, in basso Philibert de Chalons, principe d’Orange. Nella pagina accanto una galea veneziana

han capo, che li guidi, di commettere ogni enormità imaginabile... Quel furore dunque, che dovevan accenderli contro i loro proprij nemici, che stavano nella fortezza uccisori del loro duce, rivolsero contro gli amici della città, che spontaneamente gl’havean raccolti nelle loro case, e dando nome di vendetta alla loro avaritia, e di giustitia alla loro perfidia, s’incrudelirono nell’innocente città, e nella robba de’ cittadini. Comiciò a darsi sacco di notte, per celar forse col buio delle tenebre, la crudeltà ch’usavano. Non si possono senza orrore descrivere, né meritano esser udite da orecchie umane le particolarità delle sceleratezze commesse da quella soldatesca diss’humanata, e feroce, avida non men di sangue, che di ladronecci. Non perdonarono a cosa alcuna, humana o divina, furono gl’infelici vecchi, e l’innocente vergini tratti per barba e per crine, acciò rivelassero le nascoste ricchezze, furono abbattuti i chiusi claustri, e fracassate le caste celle delle spose di Dio. I

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tempij con orrendi sacrilegi profanati; furono fatte in minutie i tabernacoli, e buttando per terra le sacre hostie consacrate, si presero i piccoli vasi d’argento ove stavan riposte. Eccessi invero abominevoli, & esecrandi, per li quali meritavano aprirsi le voragini della terra, & esser da quelle ingoiati; o esser fulminati dal cielo, o strangolati dalle furie; ma si differì dalla divina giustitia il dovuto castigo ad altro tempo per esser più severo degl’accennati… Restò per qualche conforto alla depredata città il cadavero del general nemico, che fu seppellito nella chiesa di Santa Maria del Casale in un deposito, dal canto destro nell’entrar della porta principale della chiesa, dove fino a tempi nostri si lesse quest’iscrittione nel sasso: Hic iacet Simeon Thebaldus Romanus, imperator exercitus.» [A. DELLA MON$CA, Memoria historica dell’antichissima e fedelissima città di Brindisi - 1674] Quando il castellano Ferdinando de Alarcón rientrò a Brindisi, incontrò la città «pobre y deshecha, y los castillos muy mal tratados de las baterías, que los enemigos les habían hecho, y mucho mayor era la ruina del grande, por habérsele caído los estribos, y las corinas del muro, que guardaban la colina en que estaba fabricado, se miraban arruinadas.» [A. SUAREZ De ALARCÒN Comentarios de los hechos del señor Hernando de Alarcón, marques de la Valle Siciliana y de Renda, y de las guerras en que se halló por espacio de cincuenta y ocho años - Madrid 1665] Quindi, anche Alarcón si sommò alla richiesta inviata dai cittadini al re, avallata dal viceré principe d’Orange, affinché fosse annullata la condanna inflitta alla città per ribellione – essendo stata considerata fiancheggiatrice di francesi e veneziani per la sua reiterata resa alle truppe della Lega – segnalando, a sostegno della sua posizione che per buona ventura di Brindisi fu finalmente accolta da Carlo V, proprio l’epica resistenza che avevano mostrato entrambi i suoi castelli, lottando fedeli all’imperatore senza mai arrendersi agli allegati.


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«Mamma li Turchi», cronache brindisine di scorrerie, rapimenti e schiavi 9AB#1/+ ,/+%-0 .,,1 /D FDGXWD GL &RVWDQWLQRSROL LQ PDQR DJOL RWWRPDQL LO PDJJLR ROWUH f DOOD ILQH GHOO LPSHUR URPDQR G RULHQWH i GHWHUPLQz XQ JUDQ FDPELR JHRSROLWLFR p SHU FXL fu soprattutto l’equilibrio militare marittimo a rimanere scosso decisamente a favore dell’impero ottomano SHUORPHQR SHU SL GL XQ VHFROR, fino a quando il 7 ottobre 1571 a Lepanto ci fu una prima grande vittoria dell’armata cristiana sull’impero ottomano. In questo contesto, sul finire del XV secolo – ed ancor più in quello seguente – in particolar modo nei mari della Terra d’Otranto, lo scacchiere divenne complicato e continuamente cambiante, con la presenza di tanti protagonisti di peso e dagli interessi contrapposti: la repubblica marinara di Venezia, la Francia di Francesco I, il regno spagnolo di Napoli dell’imperatore Carlo V e l’impero ottomano di Maometto II, il quale rivendicava apertamente i suoi diritti di possesso su Brindisi, era infestata da una temibile peste. Comunque Otranto e Gallipoli, in quanto antichi porti del- siano andate le cose, certo è che quell’evento l’impero bizantino da lui conquistato. ebbe così tanta risonanza che a Brindisi crebbe All’alba del 28 luglio del 1480, alcune decine di enormemente la percezione dell’ineluttabilità di migliaia GL uomini VX GL unD imponente flotta un prossimo sbarco turco sulla città. Una città per turca composta da un paio di centinaia di navi, la quale non era certamente nuova né ingiustifigiunsero a Valona e da lì salparono YHUVR OH FR cata quella paura – di fatto già atavica – all’invaVWH VDOHQWLQH VEDUFDQGR poco a nord di Otranto, sione barbarica proveniente dal mare. presso i laghi Alimini, nella baia poi detta “dei Così, in quello stesso 1481, Brindisi fu fatta forturchi”, da dove si diressero verso la città metten- tificare dal re aragonese Ferdinando I, che ordinò dola a ferro e fuoco. E anche se fu abbastanza ac- al figlio Alfonso la costruzione di una grande forcreditata l’idea che l’ammiraglio ottomano Gedik tezza sulla punta occidentale dell’isola Sant’AnAhmet Pascià avesse puntato su Brindisi prima drea all’ingresso del porto. E le opere di difesa di dirottare su Otranto per ragioni meteorologi- costiera proseguirono anche con l’avvento degli che, in effetti, la scelta di Otranto probabilmente spagnoli sul trono di Napoli, Ferdinando il cattonon dovette essere solo un ripiego occasionale, lico prima, l’imperatore Carlo V dopo, Felipe II, giacché quella città era palesemente indifesa, e così via: nella prima metà del secolo XVI si comentre Brindisi aveva ricevuto rinforzi, e in più struì il Forte a mare contiguo al castello Alfonsino

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e, a partire dall’anno 1569, furono edificate in serie lungo il litorale, ben quattro nuove torri – Testa, Penna, Mattarelle e Guaceto – che vennero ad affiancare la preesistente angioina Torre Cavallo, il tutto come conseguenza del costantemente rinnovato timore di nuove scorrerie e saccheggi da parte di turchi e barbareschi. Scorrerie e saccheggi che, in effetti, ci furono, perdurarono per tutto il secolo XVII e continuarono – pur diradandosi – anche nel XVIII. Tra gli assalti più prossimi a Brindisi: Il 27 luglio 1537 i turchi sbarcarono a Castro, ottenendo la resa dal comandante del castello dietro assicurazioni che sarebbero state rispettate la vita e gli averi degli abitanti. Più che i patti, naturalmente non osservati considerato il gran numero dei catturati, influirono sulla resa le ingenti forze – 7000 fanti e 500 cavalli – messe a terra dai turchi. Il


Sopra un dipinto che raffigura la caduta di Costantinopoli, a sinistra la battaglia di LepantoTintoretto, a destra un ritratto dell’ammiraglio Andrea Doria

1° gennaio 1547 fu assalito San Pancrazio da cui, colti in piena notte, furono portati via gli abitanti che poi, in parte furono riscattati e in parte furono portati in Turchia e venduti come schiavi. Le mire dei turchi poi, si rivolsero anche al santuario di Leuca, il quale subì più volte saccheggi insieme con le vicine terre del Capo: Salve, Gagliano, San Giovanni di Ugento, Marina di Cesaria e altre. E nel 1594 ci fu addirittura un clamoroso tentativo di saccheggiare Taranto quando, tra il 14 e il 22 di settembre, sbarcati da un centinaio di navi, orde turche condotte dal rinnegato messinese Sinan Bassà Cicala, in più riprese tentarono – vanamente – di entrare in città. Uno degli aspetti più terrifici di quelle scorrerie turche, nonché di quelle barbaresche, era il sequestro indiscriminato degli abitanti cristiani sorpresi dagli assalitori, che venivano poi schiavizzati e venduti nei vari mercati nordafricani o che, nel migliore dei casi, venivano rilasciati dietro il pagamento di un congruo riscatto. Si trattava di fatto di un mercato fiorente su un istituto, quello della schiavitù, in realtà molto antico e, comunque, considerato del tutto normale all’epoca, praticato sistematicamente e massivamente da entrambi i contendenti: i musulmani da una parte e i cristiani dall’altra. I catturati, provvisoriamente raccolti in posti vicini, come per la Puglia erano Valona o una qualunque delle isole vicine, in seguito erano concentrati in città più lontane, come Costantinopoli, Tunisi, Tripoli, Algeri, e sottoposti a duri trattamenti, sempre che non fossero condannati ai remi. Esposti nei bazar, se ne dibatteva la

vendita, oppure si fissava il prezzo del riscatto che era notificato a congiunti o a incaricati da questi perché la somma fissata fosse raccolta ed inviata. Si sviluppava così un vero e proprio mercato, per il quale, di fronte ai depositi degli schiavi infedeli, ne sorgevano altrettanti nelle città degli stati cristiani, come a Napoli, Messina, Palermo, dove si effettuavano le compravendite o dove mediatori laici ed ecclesiastici si assumevano l’incarico di agevolare lo scambio degli infelici. Ebbene, tutto quanto riferito ritrova riscontro in più occasioni anche tra le righe delle cronache cinquecentesche e seicentesche della nostra città: cronache di scorribande di assalti di rapimenti o di pagamenti del riscatto, ma anche cronache d’acquisto di schiavi musulmani e di giovani schiave “che incanutivano al servizio dei nobili brindisini perché morissero sterili o madre di schiavi cui il padrone concedeva il nome della casata perché fossero, come schiavi, sempre più legati a lui”, o cronache di battesimi e morti o di liberazione degli stessi schiavi, eccetera. Per esempio, dalla Cronaca dei Sindaci di Brindisi 1529-1787, scritta da Pietro Cagnes e Nicola Scalese, pubblicata da Rosario Jurlaro nel 1978: «…Il 25 maggio 1553 si perfeziona l’atto di vendita di un’abitazione di Filippo Capasa promessa in vendita dal fratello mentre Filippo era prigioniero dei turchi, per il riscatto del quale si era resa necessaria la somma anticipata dall’acquirente. Il 13 giugno 1599 è battezzata una figlia naturale di Caterina, schiava mora di Visconte Rizzago, commerciante veneto dimorante in Brindisi. Il 17 aprile 1600 è battezzata una figlia naturale di tale Lucia, schiava fatta cristiana e il 24 ottobre è battezzata una figlia naturale di Speranza, schiava mora di Giovanni Camillo Coci. L’11 maggio 1620 nella cattedrale si sono fatti funerali per Domenico Bucicco, morto schiavo dei turchi. Il 5 agosto 1628 Ferdinando Bassan

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libera il suo schiavo turco Sciti Jaza a richiesta del greco Pietro Ullano perché potessero, in cambio, essere liberati alcuni cristiani dai turchi e il 26 novembre, dopo essere stata istruita e catechizzata dall’arcivescovo Giovanni Falces, è battezzata dallo stesso, alla presenza del castellano grande Francesco Carrillo de Santoia, Anna Maria Mancipia, schiava turca del capitano della coorte spagnuola residente in Brindisi Diego Marziale d’Agusti. Il 13 giugno 1637 il capitolo della cattedrale dà un aiuto economico al cantore della chiesa di Maruggio che andava mendicando per aver fuggito da mano di turchi quando pigliarono Maruggio il 13 giugno 1630. Il 31 gennaio 1667 un sacerdote greco raccoglie elemosine in Brindisi per il riscatto di schiavi cristiani dai turchi. Il 6 maggio 1672 il capitolo della cattedrale dà due carlini di elemosina ad un uomo che era fuggito dalla prigionia dei turchi lasciando il figlio che sperava di riscattare e il 10 agosto dà dieci grana di elemosina ad un sacerdote greco scappato dalla prigionia dei turchi. A dì 5 agosto 1673 giorno di sabato su la mezza notte fu integralmente saccheggiato dalli turchi Torchiarolo, con morte di quattro persone di detto casale e ottantaquattro ne furono fatti schiavi. A dì 10 ottobre 1676 una galeotta turchesca fece sbarco tra la torre della Penna e la torre delle Teste, e fece dodici schiavi dalle masserie vicine e a Brindisi – a causa del grande spavento per quell’assalto così prossimo alla città – si fece costruire la muraglia, ovvero cortina, che sta attaccata tra il torrione dell’Inferno con quella della porta di Mesagne. Nel luglio 1681 Specchiolla, presso San Vito dei Normanni, malgrado la resistenza opposta dai terrazzani, fu saccheggiata dai turchi. Dal 1686 al 1694 molte famiglie di Brindisi, tra le quali Vavotico, Samblasio, Seripando, Montenegro, Stea, Pizzica, Vitale, Brancasi, Sarmiento, Ripa ed altre, acquistano schiave e schiavi turchi ‘a cristianis captos’ in Ungheria e in Grecia. Il 2 settembre 1688 è sepolto in cattedrale Gabriele, schiavo turco di Carlo Lata, battezzato in Brindisi e il 7 dicembre 1695 viene sepolto in Brindisi Antonio figlio di Teresa, turca fatta cristiana, serva di Nicolò Romano. Il 28 luglio 1701 è sepolta Anna de Marco, il 30 luglio Maddalena Cuggiò ed il 9 ottobre Nicolò Montenegro, tutti i tre defunti con la specifica ‘ex genere turcarum’ che vuol dire: schiavo della famiglia di cui porta il nome. Il 20 marzo 1703 il capitano di barca di ventura Coci Dimitri Tirandafilo dichiara di avere avuto incarico di riscattare dai turchi quattro schiavi di Taranto, ossia Antonio Francesco Batta, Antonio Minzulo, Cataldo Chierono, Antonio Nicola de Totero, e di avere riscattato gli stessi grazie a Giorgio Papa di Corfù con duecento dodici piastre siciliane di Spagna in argento, più cento quaranta piastre occorse per tramezzaneria di altri turchi ed il nolo della barca fino a Brindisi ove sono in quarantena i riscattati. E dice dell’aiuto ricevuto dall’Opera del monte della miseria di Napoli per quel riscatto. Mentre si trova in quarantena del porto di Brindisi il 29 giugno 1707, dichiara degli stessi aiuti dell’Opera, Stefano Papa, epirota della città di Salina, nipote di Giorgio Papa con il quale si dedica a riscattare cristiani da schiavitù da diverse parti di Turchia...»


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(perché la memoria, caritatevole, aiuta a trasformarci, dopo anni, da comparse in protagonisti). Fatti, luoghi, persone di un personalissimo ‘teatrino’ che dopo trent’anni esatti dalle prime rappresentazioni, continua incessantemente a riproporre, nella mente e nel cuore, la replica d’una recita reale, che ha come scena Brindisi, come epoca gli anni ’50-’55, come protagonisti gli amici…» – Seconda di copertina di “MUDDICULI”. Cinquanta poesie, che sono tante cose assieme: istantanee di una Brindisi ormai quasi del tutto andata, immagini autobiografiche – la sua amarcord brindisina – racconti buffi e

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racconti tristi, rievocazioni di luoghi, fatti, personaggi e macchiette della nostra città, e anche molto altro. Anzi, facciamoglielo dire a Dino: «Muddiduli, vecchi pinzieri sti quattru paroli mbastiti cu acu e cuttoni di ieri.» «Sulu to’ nziddi, e parìa temporali: ce ti ticia? Muddiculi. Di cori mia.» Quelle poesie di Dino, dicevo prima, sono tante cose assieme, ma a pensarci bene, forse sono solo e semplicemente un grande atto d’amore per la sua Brindisi. Dino nacque a Brindisi il 24 settembre 1933. A Brindisi frequentò le scuole elementari, le medie e il liceo classico Marzolla. Quindi,


giurisprudenza all’Uni- A destra Dino Tedeversità di Bari. A Brin- sco ai tempi della disi sviluppò la sua pubblicazione di passione per il palco- «Muddiculi». In alto scenico e poi, ancora circa tre anni fa con giovanissimo, quel la moglie Silvana e treno per Torino e, per la nipote Francesca dieci anni, le regie – e non solo – al Teatro Stabile di quella città. Dal teatro al giornalismo e da Torino a Milano. E con la penna, una carriera inarrestabile: «La Gazzetta del Popolo», «Il Giorno», «Il Mattino», «TV Sorrisi e Canzoni», «Radiocorriere TV», «Tuttoturismo» e, per venticinque anni, «Il Corriere della Sera», occupandosi sempre di cultura e spettacolo. Ma Dino non faceva solo il bravo giornalista su carta. È stato coautore di due cicli della serie televisiva RAI ‘Trent’anni della nostra storia’ ed ha anche lavorato per il grande schermo, con la sceneggiatura del film ‘Sposerò Le Bon’. E, naturalmente, non potevano certo mancare i meritatissimi riconoscimenti e premi alla sua straordinaria professionalità: il premio Salsomaggiore TV e il premio Saint Vincent di giornalismo, ad esempio. Tanti interessi, tanti impegni, tanti successi, mentre il cuore di Dino batteva sempre per la sua bella famiglia. Questa la dedica che ha voluto stampata sul suo libro: «A mia moglie Silvana, alle mie figlie Antonella, Simona e Silvia, “muddiculi” d’una vita che appartiene solo a loro». Era inoltre, nonno orgogliosissimo di tre nipoti: Francesca, Simone e Tommaso. E con la sua famiglia, specialmente con la moglie Silvana, Dino

tornava spesso e volentieri a Brindisi, la sua città, sempre amata e mai dimenticata: il protagonista centrale, anzi il protagonista unico, del suo capolavoro poetico “Muddiculi”. E di quel protagonismo, non me ne meraviglio affatto. Qualche anno fa, infatti, in tutt’altra circostanza, scrissi «… E tutto, proprio tutto, direttamente incredibilmente e intimamente legato a quei primi pochi anni, solo una frazione di quanti ormai vissuti. E già, quegli anni dell'infanzia, dell'adolescenza, della prima gioventù: è incredibile quanto siano trascendenti, quanto segnino, quanto caratterizzino e quanto scalfiscano

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nel profondo la personalità e la stessa esistenza. È impattante scoprire come la terra in cui si nasce e in cui si impara a parlare, a camminare, a capire, a studiare, a sperimentare, ad amare, ...ad essere, eserciti un richiamo così poderoso, conscio o inconscio, timido o dirompente, ma comunque ineludibile: il richiamo inconfondibile dell'amore.» Così come succede a tanti, anche a me, naturalmente, è capitato in più occasioni di ricorrere a una citazione, quando in quel citare era un po' come ritrovare il proprio pensiero nei pensieri di chi, già prima, aveva elaborato quella stessa idea, o quella stessa reminiscenza, o quella stessa percezione, ed era riuscito a plasmarla con esattezza ed efficacia; oppure quando quel citare era un po' come conversare con il passato per dare un contesto al presente. Ebbene, prima di leggere “Muddiculi” di Dino, non mi era ancora capitato di cogliere in un testo poetico quella sensazione di star leggendo in un verso, proprio la frase o il pensiero o il racconto che avevo sulla punta delle labbra o nell’intimo più intimo e che non sarei mai riuscito a assemblare così alla perfezione. Dino, il poeta, in effetti, nei suoi muddiculi quella sensazione la trasmette magistralmente, in tante delle sue poesie e – ne son certo – non solo a me, ma anche a tantissimi altri suoi concittadini: bravo Dino, grazie Dino! E per dimostrarlo, a questo punto, mi verrebbe proprio voglia di trascrivere qui tutti quei suoi muddiculi, ma non si può e non importa, tanto il suo “Muddiculi” è sempre lì per tutti noi, sempre pronto e disposto ad essere letto. Del resto, e lo sappiamo tutti: ©, POETI NON MUOIONO MAI»


CULTURE

->=<?B9AB'>=<?7;A8<> A85A;@2A>=?B(;A=9A8A=@ Si concluse qui la prigionia del generale francese Dumas padre del romanziere che scrisse racconti leggendari 9AB#23.!/3.,14"5//2 l 7 marzo 1799 il generale francese Alexandre Dumas, dopo aver partecipato alla campagna napoleonica d'Egitto, s'imbarcò per la Francia, ma dopo qualche giorno di navigazione, le precarie condizioni della nave e il mare in tempesta lo costrinsero a cercare rifugio nel porto di Taranto, fiducioso d'incontrare accoglienza amica. Non fu così: tutti i francesi a bordo furono catturati dai sanfedisti del cardinale Fabrizio Ruffo che, per sfortuna di quei naufraghi, da qualche giorno avevano ricondotto la città sotto il controllo borbonico. Per il generale Dumas iniziò così una lunga e penosa prigionia che doveva concludersi a Brindisi due anni dopo, serbando così per Brindisi un appuntamento frugale con la leggenda: quella del Conte di Montecristo. Il generale Dumas, infatti, sarebbe divenuto padre del romanziere Alexandre Dumas, autore dei Tre moschettieri e del Conte di Montecristo, i due arci famosi romanzi per i quali l'indubbio ispiratore fu proprio quel padre generale con la sua rocambolesca esistenza: Thomas Alexander Davy de la Pailleterie, o più semplicemente Alex Dumas, come preferì firmarsi dopo essere asceso per merito proprio fino al grado di generale di divisione. Alex Dumas nacque il 25 marzo 1762 a Jérémie, nella colonia caraibica francese di Saint Domingue – la odierna Haiti – figlio di un nobile francese, il marchese Alexandre Antoine Davy de la Pailleterie e di Marie Cessette Dumas, la sua schiava nera concubina. Antoine era il primogenito del marchese Alexandre Davy de la Pailleterie, aristocratico in declino della provincia di Caux, e suo fratello Charles, nel 1732 ebbe un incarico militare nella colonia francese di Saint Domingue, dove sposò una ricca creola orfana, rilevandone la piantagione di canna da zucchero. Così, nel 1738, Antoine, il futuro padre del generale, si unì a suo fratello Charles, lavorando nella piantagione per dieci anni per poi abbandonrla dopo un violento litigio tra fratelli. Quando il blocco britannico alle spedizioni francesi limitò le esportazioni di zucchero da Saint Domingue, Charles si dedicò a contrab-

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bandare la merce da un territorio neutro, sul confine nordorientale della colonia, lo scoglio di Monte Christi, oggi in territorio della Repubblica Dominicana, di fronte al quale si trovava un isolotto: Monte Cristo. Antoine, invece, in Saint Domingue si guadagnò da vivere in Jérémie, come coltivatore di caffè e cacao in una sua più modesta piantagione, La Guinaudèe. Acquistò la schiava Marie Cessette, la tenne come concubina e nel 1762 nacque il loro primo figlio Thomas Alexandre; in seguito nacquero anche due figlie, Adolphe e Jeannette, che affiancarono una prima figlia di Marie Cessette, Marie Rose. Morti i suoi fratelli, Antoine rimase erede unico della famiglia Davy de la Pailleterie e nel 1775, già sessantenne, decise di tornare in Francia per riscattare il titolo nobiliare e le proprietà della famiglia. Non avendo però il denaro necessario al viaggio, se lo procurò vendendo le tre figlie. Il figlio Thomas Alexandre, invece, lo vendette al capitano francese Langlois con diritto di riscatto, ottenendo con ciò, sia un modo legale per mandare il fi-

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glio in Francia e sia un prestito temporaneo per le spese del suo viaggio. Così, il ragazzo Thomas arrivò in Francia il 30 agosto 1776, registrato sul manifesto della nave come lo schiavo Alexandre. Appena sbarcato, suo padre lo ricomprò e lo liberò, portandolo nella riscattata tenuta di famiglia a Belleville in Caux, Normandia, dove vissero per più di un anno finché, venduta quella proprietà si trasferirono in una casa in rue de l'Aigle d'Or, nel sobborgo parigino di Saint Germain en Laye. L'anno seguente, Antoine si sposò e poco dopo Thomas decise di arruolarsi: non potendo dimostrare almeno quattro generazioni di nobiltà dal lato paterno – anche se possedeva tale requisito – lo fece come soldato semplice di cavalleria nel 6° Reggimento dei Dragoni della Regina e lo fece assumendo il nome di Alexandre Dumas. Il 15 agosto 1789, a un mese dall'inizio della Rivoluzione, l'unità di Dumas fu inviata nella città di Villers Cotterêts per controllare l'ondata di violenza rurale e Dumas, alloggiato presso l'Hôtel de l'Ecu, si fidanzò con la figlia


dell'albergatore, Marie Louise. Nel luglio 1791, il reggimento di Dumas fu inviato a Parigi in funzione antisommossa insieme alle unità della Guardia Nazionale, sotto il comando del marchese Lafayette e nel 1792, come caporale della Rivoluzione, Dumas si cominciò a distinguere per le sue temerarie azioni di guerra e la sua reputazione cominciò a crescere e a diffondersi tra i militari francesi. Così, nell'ottobre, con a Parigi già proclamata la repubblica, Dumas entrò con il grado di tenente colonnello nella Légion franche des Américains et du Midi, una legione libera, indipendente cioè dall'esercito regolare, composta da uomini di colore liberi. Il 28 novembre 1792 il colonnello Dumas sposò Marie Louise Elisabeth Labouret a Villers Cotterêts, dove poi comprò una fattoria che abitò con la sua famiglia nei momenti liberi dalle sue campagne militari. Lì nacquero presto le sue due figlie, ne1 794 Marie Alexandrine e nel 1796 Louise Alexandrine, che morì bambina. Sciolta la legione, nel luglio 1793 Dumas fu promosso a generale di brigata nell'esercito del Nord e un mese dopo fu promosso di nuovo, a generale di divisione, con l'incarico di comandare l'esercito dei Pirenei Occidentali. A dicembre fu inviato a comandare l'esercito delle Alpi contro le truppe austriache e piemontesi che difendevano il passo del Piccolo San Bernardo e nella primavera del 1794 conquistò il passo e poi la vetta del Moncenisio, facendo più di mille prigionieri: una strepitosa e strategica vittoria, che fece scalpore a Parigi. Tra agosto e ottobre del 1794, passò al comando dell'esercito d'Occidente per controllare la massiccia rivolta scoppiata nella regione della Vandea contro il governo rivoluzionario di Parigi e nel settembre 1795 fu incorporato all'esercito del Reno partecipando all'attacco a Düsseldorf, dove fu ferito. Nel novembre del 1796, Dumas fu inviato a Milano per unirsi all'esercito d'Italia – comandato in capo dall'ancora poco conosciuto generale Napoleone Bonaparte – che era entrato in Piemonte ad aprile e quindi a Milano a maggio. Già in quel periodo, tra i due generali sorse una certa tensione, quando Dumas obiettò e provò a contrastare la politica di Napoleone di consentire indiscriminatamente alle truppe francesi di saccheggiare le proprietà nei territori che venivano occupati e di maltrattarne gli abitanti. Nel dicembre Dumas fu messo a capo della divisione che assediava la strategica città di Mantova e, con una risoluta azione di controspionaggio e con pochi uomini, riuscì a bloccare il tentativo austriaco di rompere l'assedio, permettendo l'arrivo dei rinforzi francesi che finalmente ottennero la capitolazione della città. Subito dopo Dumas si distinse permettendo all'esercito francese di spingere le truppe austriache verso nord e catturandone migliaia nell'inseguimento. Fu in quel periodo che, divenuto famoso anche tra i nemici, i soldati austriaci iniziarono a chiamarlo Schwarze Teufel (Diavolo Nero). L'apice della popolarità di Dumas in quella prima campagna napoleonica

A sinistra Alexandre Dumas e la copertina del suo famoso libro dal quale sono stati tratti numerosi film tra cui quello cui si riferisce la foto qui sopra

d'Italia arrivò quando, passato sotto il comando del suo amico generale Joubert, combatté lungo le rive dell'Adige terrorizzando gli austriaci finché un giorno, il 23 marzo 1797, respinse da solo un intero squadrone su un ponte sul fiume Eisack a Klausen – oggi Chiusa, in Italia – e per quell'impresa i francesi iniziarono a riferirsi a lui come "l'Orazio coclite del Tirolo". Un anno dopo, nel maggio 1798, al generale Dumas fu ordinato di presentarsi a Toulon per unirsi all’armata francese in partenza per la campagna d'Egitto di Napoleone e fu da questi nominato comandante della cavalleria dell'esercito d'Oriente. L'armata sbarcò presso Alessandria a fine giugno e il 2 luglio Dumas guidò i granatieri fin sotto le mura, penetrando la città con il resto delle truppe francesi. Poi, guidò la cavalleria nella lunga marcia verso sud, al Cairo, sostenendo vari scontri con la cavalleria mamelucca. Per le truppe francesi le condizioni nel deserto risultarono estremamente dure, per il calore, la sete, la stanchezza e la mancanza di rifornimenti adeguati, provocando finanche un certo numero di suicidi. Accampati a Damanhour, Dumas incontrò diversi altri generali, tra i quali Murat, con i quali esternò critiche alle modalità di conduzione dell'impresa da parte del comandante Napoleone. Così, conclusa vittoriosamente il 21 luglio la battaglia delle Piramidi, quando Napoleone apprese di quelle critiche del suo generale Dumas, lo affrontò adiratamente minacciando finanche di sparargli per sedizione. In risposta, Dumas solo gli chiese il permesso di tornare in Francia e Napoleone non si oppose a quella richiesta, giacché lo scontro tra i due generali della Rivoluzione, oltre che ideologico, era divenuto anche personale. Però, a causa della quasi totale distruzione dell'armata francese nella baia di Abukir il 1°

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agosto a opera della flotta britannica dell'ammiraglio Orazio Nelson, Dumas non fu in grado di lasciare l'Egitto. Rimase quindi al Cairo prestando regolare servizio e in ottobre fu determinante nel reprimere una rivolta antifrancese, caricando a cavallo i ribelli nella moschea di Al Azhar. Il 7 marzo 1799 Dumas finalmente lasciò l'Egitto a bordo della corvetta Belle Maltaise, una nave militare dismessa, in compagnia del suo amico, il generale Jean Baptiste Manscourt du Rozoy, del geologo Déodat Gratet de Dolomieu, di quaranta soldati francesi feriti e numerosi civili maltesi e genovesi per un totale di quasi 120 imbarcati. Durante la navigazione però, la vecchia nave cominciò a fare acqua e a causa del maltempo dovette rifugiarsi nel porto di Taranto, nel Regno di Napoli, dove Dumas e i suoi compagni si aspettavano un ricevimento amichevole, avendo saputo che il regno era stato rovesciato dalla Repubblica Partenopea instaurata sul modello di quella francese. La repubblica costituita a Napoli il 24 gennaio 1799 però, era risultata precaria e nelle province del sud aveva presto ceduto alle forze filoborboniche dell'esercito della Santa Fede guidato dal cardinale Fabrizio Ruffo, che dalla Sicilia era sbarcato sulla penisola e la stava risalendo con l'intenzione, poi finalmente concretizzata, di raggiungere Napoli, la capitale del regno, per restaurare il potere monarchico. In quel clima politico-militare, la cattura dei naufraghi della Belle Maltaise fu inevitabile e le autorità sanfediste che da una settimana, dall'8 marzo, ricontrollavano la piazza di Taranto, imprigionarono Dumas, Manscourt e il resto dei francesi. Iniziò così la prigionia del generale Dumas, che dopo due lunghi anni doveva concludersi a Brindisi, così come lo racconterà la prossima puntata. (1 - Continua)


'-6&4023605" )*4+ 23,-)+1646 25/05+5 Il generale fu liberato dopo una lunga prigionia: il figlio prese spunto da quella storia per il Conte di Montecristo 056 ,.& (.&"+- *((, l 7 marzo 1799 il generale francese Alexandre Dumas, dopo aver partecipato alla campagna napoleonica d'Egitto, s'imbarcò per la Francia, ma dopo qualche giorno di navigazione, le precarie condizioni della nave e il mare in tempesta lo costrinsero a cercare rifugio nel porto di Taranto, fiducioso d'incontrare accoglienza amica. Non fu così: tutti i francesi a bordo furono catturati dai sanfedisti del cardinale Fabrizio Ruffo che, per sfortuna di quei naufraghi, da qualche giorno avevano ricondotto la città sotto il controllo borbonico. Per il generale Dumas iniziò così una lunga e penosa prigionia che doveva concludersi a Brindisi due anni dopo, serbando così per Brindisi un appuntamento frugale con la leggenda: quella del Conte di Montecristo, immortalata dal romanzo di Alexandre Dumas, il famoso romanziere, figlio del generale. Durante i primi giorni da recluso a Taranto, nei quali gli fu impossibile riuscire a parlare con un qualche ufficiale di alto rango a cui chiedere spiegazioni sulla sua prigionia, il generale Dumas ricevette la visita di un personaggio enigmatico, Giovanni Francesco Boccheciampe, presunto fratello del re di Spagna, ma in realtà disertore corso che da poco più di un mese era sorto a capo delle forze sanfediste della provincia di Lecce, riconquistandola quasi tutta alla corona borbonica, Taranto inclusa. Ma neanche da lui ebbe un qualche chiarimento circa la sua detenzione. L'avventuriero Boccheciampe aveva acquistato improvvisa fama rocambolescamente quando, giunto il 14 febbraio a Brindisi, era stato creduto essere il fratello del re di Spagna ed era stato acclamato capo armato dei locali controrivoluzionari sanfedisti. Qualche settimana dopo, il cardinale Ruffo fece chiedere ai due generali francesi prigionieri a Taranto, Dumas e Manscourt, di comunicare ai comandanti delle forze francesi ancora in Napoli, una proposta di scambio di prigionieri: loro due in cambio proprio di quello stesso controrivoluzionario corso, Boccheciampe, fatto prigioniero dalle truppe francesi che il 9 aprile erano giunte nel porto di Brindisi al seguito del vascello Généreux proveniente dall'Egitto, scampato dalla disfatta di Abukir, ed avevano conquistato la città. Inviata

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a Napoli quella proposta però, il cardinale Ruffo perse interesse in quell'eventuale scambio di prigionieri, quando sospettò che il Boccheciampe fosse stato fucilato dai francesi quale disertore, evento in effetti verosimilmente avvenuto tra il 18 e il 19 aprile nei pressi di Trani, per ordine del generale J. Sarrazin. E così, sfumata ogni possibilità di liberazione immediata, dopo quasi sette settimane dalla

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loro detenzione, il 4 maggio Dumas e Manscourt furono dichiarati prigionieri di guerra dell'esercito della Santa Fede, mentre quasi tutti gli altri naufraghi della Belle Maltaise furono liberati. Il 13 giugno l'esercito sanfedista entrò a Napoli, la repubblica cadde e il regno borbonico napoletano fu restaurato. A Taranto, Dumas lo seppe perché gli comunicarono che la sua prigionia sarebbe passata ad un regime


di carcere duro, senza più passeggiate giornaliere all'aria, eccetera. Nell'ottobre del 1799 Napoleone, finalmente ritornato in Francia, conquistò il potere eliminando il Direttorio con il colpo di stato del 18 brumaio – 10 novembre – e poco dopo non esitò a intraprendere la seconda campagna d'Italia, rifondando la Repubblica Cisalpina dopo la battaglia di Marengo del 14 giugno 1800. E a settembre, per disposizione del marchese Della Schiava – Vincenzo Maria Mastrilli, preside della provincia di Lecce – Dumas e Manscourt furono trasferiti da Taranto a Brindisi, dove furono reclusi e mantenuti, questa volta, in una situazione di gran lunga migliorata. Durante la durissima prigionia a Taranto, infatti, Dumas era rimasto malnutrito e ancor peggio curato per circa diciotto mesi e così, quando giunse a Brindisi, era zoppo, con la guancia destra paralizzata, quasi cieco dall'occhio destro e sordo dall'orecchio sinistro. Il suo fisico era quasi distrutto e arrivò a convincersi che tutti quei suoi malanni si produssero perché sottoposto a un lento e sistematico avvelenamento al quale era sopravvissuto solo perché aiutato da un gruppo locale filofrancese segreto, che gli aveva fornito alimenti medicine libri e altri conforti. Da recluso a Brindisi – forse nel castello Svevo, o forse nell’Alfonsino – Dumas poté conversare regolarmente con un sacerdote di nome Bonaventura Certezza, una specie di cappellano dei castelli, con il quale finì con istaurare una sincera amicizia. Nel museo Alexandre Dumas a Villers Cotterêts in Francia, è conservata una lettera che il padre Bonaventura scrisse a Dumas qualche mese dopo la sua liberazione, il 17 agosto 1801: «Sappi mio caro generale, che ho sempre mantenuto e sempre manterrò vivo dentro di me ciò che sento per te, sentimenti che mi obbligano a rivolgerti eternamente i miei rispetti. Di fatto, non ho tralasciato di muovere neanche una sola pietra, per trattare di ottenere tue notizie. So che ascoltare lodi ti incomoda, però, conscendo il calore del tuo cuore, oso parlarti in questo modo. Magari potessi abbracciarti! – maledetta distanza – Te lo dico di tutto cuore. E se un giorno vorrai visitarmi, a casa mia sempre sarai da me ricevuto a braccia aperte». E anche con Giovanni Bianchi, il suo carceriere – castellano di Brindisi dal 1798 al 1802, nonché già sospetto giacobino – Dumas mantenne durante i circa sei mesi della sua permanenza nella prigione del castello una costante e, per quello che le circostanze potevano permettere, cordiale relazione personale e anche epistolare, come si evince da alcune di quelle loro epistole conservate nel Museo Alexandre Dumas. Le cortesi lettere scambiate tra i due, spesso trattavano questioni del tutto triviali, per esempio relative alle vettovaglie, agli indumenti, alle scarpe e quant'altro di cui il generale prigioniero potesse aver bisogno. Finanche, una volta annunciata la prossimità della liberazione, Bianchi inviò a Dumas campioni di stoffa affinché il generale scegliesse quella più adatta a fargli confezionare l'uniforme da indossare nel viaggio, nonché alcuni cappelli tra

Gerard Depardieu nei panni del Conte di Montecristo. Nella pagina accanto il generale Alexandre Dumas, prigioniero per lungo tempo a Brindisi

i quali scegliere il modello che ritenesse più consono per lui. Una relazione insomma, che se pur non esente da qualche screzio, fu migliorando con il passare dei mesi, probabilmente anche a riflesso degli eventi militari che, in corso e sempre più prossimi alle porte del regno, lasciavano facilmente presagire una imminente evoluzione pro-francese della situazione. Difatti, verso la fine dell'anno 1800, le forze napoleoniche in Italia sotto il comando del generale Joachim Murat, misero in fuga l'esercito napoletano di Ferdinando IV, il cui governo riprese la via del rifugio a Palermo, e il 18 febbraio1801 a Foligno fu concluso l'armistizio tra le truppe francesi e quelle del re di Napoli, con la firma del generale Murat per la Francia e del generale DDmas per Ferdinando IV. E così, subito dopo quelle vicende dell'inverno 1800-1801, alla fine del mese di marzo del 1801, si produsse, finalmente, la liberazione del generale Dumas, che fu inviato alla base navale francese di Ancona nel contesto di una situazione politico-militare estremamente confusa: Brindisi, ufficialmente sotto il re di Napoli che però era rifugiato a Palermo, dipendeva dalla provincia di Lecce presieduta dal borbonico marchese della Schiava, mentre a Mesagne era insediata una consistente guarnigione francese composta da circa 350 militari, senza uno status formale riconosciuto e ufficialmente in via di smobilitazione. Di fatto, quei soldati francesi ritornati nei dintorni Brindisi fin dai primi giorni del 1801, non tolsero mai del tutto la loro ingombrante presenza da quel territorio, evidentemente troppo strategico. Una presenza che probabilmente aveva in qualche misura influito sulla liberazione del prigioniero Dumas, liberazione alla quale non doveva neanche essere rimasto estraneo lo stesso generale Murat che, forse non a caso, volle che tra le clausole dell'armistizio si inserisse quella relativa alla liberazione dei pri-

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gionieri francesi. Dopo essere stato liberato dalla lunga prigionia, partito da Brindisi via mare e dopo lo scalo a Ancona, il 12 aprile Dumas arrivò a Firenze, dove sostò per un po' di giorni. Quindi raggiunse Parigi, dove consegnò la sua relazione di prigionia e poi, finalmente, a casa nel giugno di quell'anno 1801. Aveva da poco compito trentanove anni e da subito dovette cominciare a lottare per mantenere la sua famiglia, che aveva trascorso la sua assenza in grandi ristrettezze economiche. Scrisse ripetutamente al governo francese e a Napoleone Bonaparte, reclamando il compenso economico per il suo periodo di prigionia e chiedendo anche un nuovo incarico militare, ma senza mai ricevere risposte veramente positive al rispetto da parte del governo e senza mai ricevere risposta alcuna da Napoleone. Il 24 luglio 1802, Marie Louise dette alla luce il terzo e ultimo figlio del suo matrimonio, Alexandre. Quattro anni dopo, il 26 febbraio 1806, Alex Dumas morì nella sua casa a Villers Cotterêts all'età di quarantaquattro anni. Alla sua morte, suo figlio Alexandre, il romanziere, aveva tre anni e sette mesi. Il ragazzo, sua sorella e sua madre vedova, rimasero in povertà, giacché Marie Louise non ricevette la pensione normalmente assegnata dal governo francese alle vedove dei generali e dovette lavorare come venditrice in una tabaccheria. A Parigi il nome di Alexandre Dumas è inciso sulla parete sud dell'Arco di Trionfo e, nel 1912, una statua del generale fu eretta in Place Malesherbes, ora Place du Général Catroux, dove rimase per trent'anni accanto alle statue dei suoi due famosi discendenti – Alexandre Dumas père, il romanziere e Alexandre Dumas fils, il drammaturgo – finché le truppe tedesche d'occupazione, l'abbatterono tra il 1941 e il 1942, senza che mai più sia stata riposta. (2 - Fine)


CULTURE

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aver costituito un approdo an- Un particolare della car- trasformarono in loro sicura e socora importante, come lo indi- tina realizzata nel 1154 lida base d’azione per sistematicacano il rinvenimento di un dal cartografo arabo mente scorribandare su tutto il relitto dell’epoca nelle sue Edrisi. Meridione italiano. acque e la presenza di resti A destra una bella veUna volta sbarcati e ben insediati coevi di una torre-faro realizzata duta di Torre Guaceto nella Sicilia, infatti, fu naturale che in grossi blocchi squadrati sul oggi gli Arabi guardassero all’Italia pesecondo – quello più grande – ninsulare come ad una meta di condei tre isolotti antistanti. quiste e, soprattutto, di scorrerie. È però dall’alto Medioevo che Così, per ben due secoli, il IX e il giungono i primi elementi stoX, l’intero Mezzogiorno visse la rici certi e documentati circa le vicissitudini presenza musulmana come un endemico fladella strategica caletta brindisina. Vicissitu- gello di guerra e di rapina, continuamente dini inizialmente legate, appunto, alla pre- combattuto – da Bizantini, Veneziani, Longosenza araba che sulle coste adriatiche bardi, Franchi – e mai debellato, anche perché cominciò a far sentire con insistenza la sua te- gli Arabi furono abili a inserirsi nelle vicende mutissima azione a partire dal IX secolo, spe- della tribolata storia altomedievale del Mericificamente a partire da quando nell’827 i dione italiano, proprio come avvenne in mussulmani Aghlabidi provenienti dal Norda- quella loro prima incursione dell’836, quando frica, iniziarono l’occupazione stabile della fu lo stesso duca di Napoli, AnGUHD FKH OL Sicilia che, ben presto e per duecento anni, chiamò in suo soccorso contro SiFDUGR LO SUL Q

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Qcipe di %HQHYHQWR FKH OR DYHYD DVVHGLDWR Solo poco più di un anno dopo, nell’838, gli Arabi di Sicilia comparvero nelle acque dell’Adriatico e s’impadronirono indisturbati di Brindisi, che era rimasta semidistrutta e quasi del tutto spopolata da quando, circa il 680, i Longobardi l’avevano conquistata sottraendola ai Bizantini. Il duca Sicardo, appena saputolo, accorse da Benevento con numerose forze a cavallo per respingerli, ma alle porte della città cadde in un tranello e solo fortunosamente riuscì a salvarsi. Poi, i Saraceni, avuta notizia che Sicardo stava facendo grandi preparativi per la rivincita, non esitarono a dar fuoco alla città e a ritirarsi, non senza averla prima depredata, stabilendosi nella vicina strategica e ben protetta baia di Guaceto, ove costruirono un grande campo trincerato – denominato "ribat" del quale fino a tutto il XVI secolo si scorgevano ancora le rovine – che servì loro come base da cui dedicarsi indisturbati a organizzare scorrerie per mare e per terra durante una trentina d’anni, fino alla caduta dell’emirato di Bari nell’871 ed alla successiva stabile riconquista bizantina di Brindisi, circa l’880. Poi, con la cacciata definitiva degli Arabi dalla Sicilia – nel 1038: duecento anni dopo la loro prima incursione su Brindisi – e con la fondazione del regno, dei Normanni prima e degli Svevi degli Angioini e degli Aragonesi dopo, le incursioni dei Saraceni finirono di costituire una minaccia impellente per le coste brindisine e il piccolo porto Guaceto visse di una regolare, per lo più commerciale, pur limitata attività ausiliare di quella brindisina. Finché, la caduta in mani turche di Costantinopoli nel 1453, segnò una svolta definitiva nell’equilibrio delle relazioni di forza in tutto il Mediterraneo orientale, nonché nell’Adriatico meridionale, presto crudamente materializzate con l’invasione di Otranto nel 1480 da parte degli Ottomani di Maometto II. Sul finire del 1483, le relazioni tra il regno di Napoli dell’aragonese Ferdinando I – il re Ferrante – e Venezia si erano tese per essere

stata questa – secondo Ferrante – partigiana, quanto meno per omissione, degli Ottomani nella traumatica vicenda appena conclusasi dell’attacco e presa di Otranto. E in tale contesa i Veneziani, sollecitati dal papa Sisto IV che era stato attaccato da Ferrante, tentarono di prendere Brindisi inviando da Corfù una flotta forte di 56 vele trasportando truppe d’assalto al comando di Giacomo Marcello. Il generale veneziano pensò non attaccare la città dal mare, perché ben difesa, e sbarcò proprio sulla strategica spiaggia di Guaceto – che a quel tempo fungeva da porto esclusivo di Mesagne e i che Veneziani ben conoscevano per averla utilizzato già in precedenti occasioni per scorribandare nell’entroterra – da dove iniziò la marcia su Brindisi. Le truppe invasore saccheggiarono Carovigno e San Vito dei Normanni – allora degli Schiavoni – e quindi si diressero “tonfi e baldanzosi” alla volta di Brindisi con il proposito di occuparla. In città però, Pompeo Azzolino, un nobile condottiero brindisino che già si era distinto nelle azioni militari per la liberazione di Otranto, appena informato degli eventi organizzò in armi un gruppo di cittadini volontari e uscì all’incontro di Marcello, affrontandolo e sconfiggendone le truppe sulla strada per Brindisi. Lo fece retrocedere costringendo gli invasori a una precipitosa fuga – in cui lo stesso Marcello rischiò di essere ucciso – incalzati fino al porto di Guaceto nelle cui acque era alla fonda l’armata veneta che, dopo aver cannoneggiato gli inseguitori brindisini e aver accolto i malconci fuggitivi, sciolse le ancore e prese il largo alla volta di Gallipoli. Iniziò quindi, una nuova lunga stagione di scorrerie e saccheggi da parte dei mussulmani arabi, turchi, saraceni e barbareschi, come indistintamente li furono identificando i terrorizzati abitanti delle nostre coste. Scorrerie e saccheggi che perdurarono nei secoli XVI e XVII e continuarono, pur diradandosi, finanche nel XVIII. E così gli Spagnoli, nuovi signori del regno di Napoli, a partire dal 1560 edificarono lungo il litorale brindisino quattro nuove torri – Testa, Penna, Mattarelle e Gua-

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ceto – che affiancarono la preesistente angioina Torre Cavallo. I pirati musulmani, in effetti, intensificarono le proprie razzie, tese soprattutto ad approvvigionare il fiorente mercato degli schiavi. Due corsari musulmani – Khair Al Din e Dorghut – rievocano le incursioni più devastanti e distruttive: Khair Al Din, detto Barbarossa, sceicco d’Algeri e ammiraglio comandante della flotta turca, dopo la vittoria ottenuta a Pervese nel 1538 sulla flotta imperiale di Carlo V, ebbe mano libera in tutto il Mediterraneo, devastando le coste del vicereame di Napoli. E quando nel 1546 morì, gli succedette, per fama e per efferatezza, l’audacissimo Dorghut che fu governatore di Tripoli, il corsaro musulmano più scaltro e potente fino allora conosciuto, vero terrore dei naviganti e delle popolazioni costiere occidentali. «…A dì 5 agosto 1673 giorno di sabato su la mezza notte fu integralmente saccheggiato dalli turchi Torchiarolo, con morte di quattro persone di detto casale e ottantaquattro ne furono fatti schiavi. A dì 10 ottobre 1676 una galeotta turchesca fece presenza presso la torre delle Teste e fece dodici schiavi dalle masserie vicine, e a Brindisi – a causa del grande spavento per quell’assalto così prossimo alla città – si fece costruire la muraglia, ovvero cortina, che sta attaccata tra il torrione dell’Inferno con quella della porta di Mesagne. Nel luglio 1681 Specchiolla, presso San Vito dei Normanni, malgrado la resistenza opposta dai terrazzani, fu saccheggiata dai Turchi…». E per molte di quelle scorrerie, la baia di Guaceto costituì, naturalmente, l’ideale punto di sbarco. Nel Settecento, la rada di Guaceto divenne proprietà della famiglia Dentice di Frasso che nel 1940 ne fece una riserva di caccia e da allora l’area non fu più interessata da insediamenti umani. Durante il secondo conflitto mondiale fu impiegata per fini militari. Nel 1981 la Convenzione di Ramsar indicò l’area come zona umida di importanza internazionale e nel 1991, l’Oasi di Torre Guaceto fu dichiarata Area Naturale Marina Protetta.


CULTURE Il ruolo svolto dalla nostra città nel nascituro Impero romano resta testimoniata dalla statua dedicata a Cesare Augusto in piazza del Popolo

2050 anni fa quando Brindisi fu Capitale dell’Impero 3:; ')# $)# &* ($$' ia Ottaviano, Via Pace brindisina e Via Augusto imperatore, sono le tre intitolazioni che l’odonomastica brindisina dedica a Gaius Iulius Caesar Octavius Augustus, pronipote di Giulio Cesare e primo imperatore romano. E poi, la statua in Piazza del popolo, copia in bronzo dell’originale romana in marmo, chiamata “Augusto di Prima Porta”, donata da Roma a Brindisi il 25 maggio 1935 in occasione del bimillenario Augusteo. Non è certo poca cosa, ma non è neanche troppa cosa, considerando che si tratta di un personaggio veramente celeberrimo per la storia universale, e visto che con Brindisi Augusto ebbe più di un incontro, eventualmente non ultimo quello in occasione della visita del già imperatore al capezzale dell’amico morente Virgilio, nel settembre del 19 a.C. In quella circostanza, molto probabilmente proprio grazie alla presenza di Augusto, poté evitarsi in extremis la distruzione del manoscritto dell’Eneide ordinata GaO poeta.E certamente ancor più trascendente fu l’incontro che tra Ottaviano e Brindisi si celebrò agli albori della fondazione dell’impero, quando proprio Brindisi rappresentò per il futuro imperatore, il suo scenario referenziale da cui, nell’arco di pochi anni, si consumarono gli eventi che portarono Ottaviano a diventare

V

Augusto. Questo, infatti, quanto il professore Vito Antonio Sirago, prestigioso autore di storia romana, ha scritto a tale proposito nel suo libro “PUGLIA ANTICA”, editato nel 1999 dalla Società di Storia Patria per la Puglia - pagg. 195 e 196: «…Un altro momento cruciale [per Brindisi] scoppiò nel 40 a.C., quando Antonio pensò di far fuori il giovane collega [console] Ottaviano, sbarcando con le sue navi a Sipontum e a Brindisi. Ottaviano ammalato restava a

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Canasium, ma il suo luogotenente M. Vipstano Agrippa correva a Sipontum e ricacciava gli Antoniani, l’altro luogotenente Servillo correva a Brindisi e bloccava gli Antoniani sbarcati. Antonio capì di non potercela fare: e si accomodò. Scese a patti [Foedus Brundisinum, la Pace Brindisina], ricevette in moglie Octavia minor, sorella di Ottaviano, lasciò l’Italia al rivale e se ne partì. Il 37 altra frizione; altro incontro fra i due rivali a Brindisi – preparato da Mecenate (partigiano di Ottaviano) e da Cocceio (partigiano


In alto la statua di Cesare Augusto in piazza del Popolo com’è oggi e in basso a sinistra negli anni Sessanta. In alto a destra dove il Gruppo Archeo propone di collocarla

di Antonio) che fecero il famoso viaggio Roma-Brindisi, descritto da Orazio. Nuovo accordo: Ottaviano cedeva un gruppo di legioni (21.000 uomini), Antonio cedeva parte della flotta (130 navi). Lo scambio avvenne a Taranto, e qui poté vedersi, forse ultima volta, una grande parata militare e navale, ma tutti romani, fraternizzare, almeno per qualche giorno.

L’ultima grande parata militare a Brindisi si ebbe nell’estate del 31 a.C. [2050 anni fa]. Ottaviano raccoglieva le forze per il prossimo (ultimo) scontro con Antonio; fece raccogliere legionari e navigli di nuova fabbrica, modellati sulle navi di Liburni (le famose Liburniche), non grandi, strette e lunghe, capaci d’infilarsi tra i grandi vascelli dell’avversario: era stata un’idea di M. Agrippa, vero maestro di guerra. Ma a Brindisi Ottaviano volle farsi seguire anche dai senatori di Roma: tutte le grandi personalità volle a Brindisi, sotto controllo, per evitare tradimenti. E a Brindisi, restarono tre anni, fino al 29 a.C. compreso. Intanto le forze di Ottaviano si mossero, raggiunsero Corfù e poco più avanti, ad Azio, si incontrarono con le forze di Antonio già legato a Cleopatra. E vinsero. La vittoria di Azio (settembre del 31) non fu sanguinosa: mentre si affrontavano le flotte, la nave regia di Antonio e Cleopatra fuggì verso sud e gli Antoniani, di mare e di terra, si arresero. Ottaviano inseguì, occupò la Grecia e poi sbarcò in Egitto. Nel 30 Antonio si uccise. Nel 29 Ottaviano entrò in Alessandria: e qui trovò Cleopatra già morta, avvelenata da un ser-

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pente. Ebbe tutte le strade facilitate: occupò tutto l’Egitto, che non costituì a provincia romana, ma dichiarò “regno aggiunto all’impero”. Lui si proclamò continuatore dei Lagidi, la dinastia di Cleopatra: lasciò le cose immutate, impadronendosi solo del tesoro egizio che fece trasportare in Italia. Nel 28 a.C. sbarcò a Brindisi, osannato, riverito, per le imprese militari, ormai unico padrone dell’impero, e straricco per il tesoro egizio. Brindisi, che era stata capitale per tre anni, gli tributò onori eccezionali: tra l’altro gli innalzò un arco di trionfo [l’unico della storia romana ad essere stato eretto fuori Roma, purtroppo andato distrutto e completamente disperso]. E così, Brindisi fu la prima a riconoscere l’onnipotenza di Ottaviano. Questi allora si avviò lentamente verso Roma con tutte le autorità. Nel gennaio del 27 a.C., L. Munazio Planco, vecchio Cesariano, propose in senato di dare il titolo di Augusto al vincitore: il quale lo gradì tanto che da allora si chiamò Cesare Augusto. Brindisi aveva assistito al cambiamento da Ottaviano ad Augusto...» E da Repubblica a Impero.


CULTURE

-1,+1(13+'-2,)031.3-0",/ 1)2.12,/3+013 /)13 Anche se fugace, fu un periodo di grande prosperità economica per la città grazie ad agricoltura e commercio +13 %(" !(" '& $!!%

A

ll’incirca mezzo secolo durò il regno ostrogoto in Italia: quarant’anni, dall’insediamento in Ravenna nel 493 d.C. del re Teodorico seguito alla deposizione di Odoacre – che nel 476 d.C. aveva deposto Romolo Augustolo, l’ultimo imperatore d’Occidente – fino allo scoppio della guerra greco-gotica nel 535; più altri vent’anni di quella guerra, fino alla definitiva sconfitta dei Goti nel 553 con la conseguente effimera occupazione bizantina. Nonostante la breve durata di quel primo vero regno romano-barbarico d’Italia, la magna figura di Teodorico ebbe modo di incidere notevolmente sulla storia della penisola, governando durante più di trent’anni in maniera notoriamente saggia, rafforzando ed assicurando i confini del regno mediante azioni militari e diplomatiche opportunamente intessute, promuovendo una serie di interventi tesi a risollevare i territori dal degrado conseguente alla crisi economica e sociale maturata durante la tarda età imperiale, e dedicandosi diligentemente a organizzare l’amministrazione della giustizia e a rinnovare le infrastrutture e le strutture amministrative locali. Sebbene secondo i calcoli più accreditati si sia trattato complessivamente di solo poco più di centomila individui, l’impatto dell’irruzione gotica e dello stanziamento nei territori italiani, sul piano dell’ordine sociale ed economico, fu impressionante. L’insediamento causò innumerevoli invasioni delle proprietà urbane e rurali – sia attraverso forme di occupazione violenta e sia attraverso contestazioni giudiziarie – con dimensioni diverse per aree geografiche della penisola e causò numerosi conflitti, più accesi e ricorrenti tra appartenenti ai ceti sociali più elevati e possidenti e via via più fievoli al discendere nella scala sociale. Teodorico – conoscitore della cultura greco-romana grazie ai dieci anni giovanili vissuti a Costantinopoli – ben consapevole che non avrebbe potuto sostituirsi all’imperatore d’Oriente e che il suo compito primario era quello di rappresentare l’istituzione imperiale sul piano politico gestionale, maturò comunque l’idea di poter realizzare nella penisola italiana il progetto di un soggetto politico romano-germanico, vincolato all’impero ma dotato di una propria auto-

nomia governativa e legislativa, ricorrendo a una politica di concordia e di rispetto nei confronti dell’elemento romano e della Chiesa di Roma. E così, pur conscio delle difficoltà insite nella convivenza fra popolazioni ed etnie così lontane e diverse fra loro, volle perseguire, fino a quando gli fu consentito dalle circostanze, la strada della tolleranza e della concordia radicata intorno alla pace con il popolo romano e all’amicizia con il senato, osservando al contempo rispetto verso la Chiesa e preservando l’intesa con l’impero d’Oriente. Pur mantenendo in funzione i capisaldi amministrativi romani – corrector, procurator, praefectus – Teodorico delegò il loro controllo a dignitari goti e, inoltre, introdusse la fondamentale figura del ‘comes Gothorum’ a cui affidò la direzione e il controllo del regno in tutti i campi, in primis nella giustizia e finanche nell’economia con i comiti siliquatorium – agenti doganali – nei porti. I comites rispondevano alle due esigenze primarie del regno: l’una rafforzare il potere centrale e regolare la vita degli Ostrogoti; l’altra promuovere l’integrazione fra elemento germanico ed elemento romano, rappresentando il comes un punto di

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incontro e di riferimento per entrambi. E per definire esattamente il campo di competenze dei comites e degli altri funzionari del regno, Teodorico emanò una copiosa serie di editti – formulae – tra cui l’importante ‘Formula comitivae Gothorum per singulas civitates’. E così, amministrò la giustizia in modo ibrido, ma efficiente ed equilibrato, avvalendosi del cospicuo corredo di leggi romane in relazione al senato e al popolo di Roma e, al contempo, mantenendo in vigore per il popolo goto le proprie leggi, tradizioni e consuetudini. Con tale spirito, le formulae distinguevano Romani e Goti di fronte al diritto, ma assicuravano a entrambi la garanzia di una giustizia equa. Teodorico inoltre, di fronte alla legge e di fronte allo stato, aggiunse ai Goti e ai Romani un terzo ordine, quello dei fedeli, dei religiosi, di tutti coloro che in qualche modo gravitavano intorno alla sfera ecclesiastica e che riconoscevano nel pontefice romano l’unica e vera guida spirituale cui fare riferimento, non solo per la soluzione di questioni legate alle materie di fede, bensì anche per dirimere controversie di altra natura. Intuì, infatti, l’inutilità di opporsi al progressivo accrescimento del potere dei vescovi, e preferì piuttosto avvalersi del loro aiuto per raggiungere più facilmente i suoi scopi, nel desiderio ultimo di mantenere, con il potere, anche la pace e la concordia all’interno del regno. Conscio inoltre che, anche nei territori fisicamente più lontani dall’influenza diretta della Chiesa romana, il popolo, sfiduciato ormai dal senato, dalle istituzioni civili, dallo stesso impero, trovava nelle istituzioni ecclesiastiche un elemento rassicurante circa il proprio destino. I vescovi delle province italiane ottennero così alcuni compiti amministrativi precisi, sia nell’ambito della vita cittadina che sul piano giurisdizionale. Ma non tutto risultò facile per Teodorico e la situazione interna rimase ben lungi da una tranquillità che potesse considerarsi duratura. Il senato di Roma era troppo soggetto alle influenza delle potenti famiglie cittadine dalle quali uscivano quasi tutti i suoi membri. E inoltre, era inevitabile il graduale delinearsi di una rivalità e di un contrasto di interessi fra l’antica aristocrazia senatoria romana e la nascente aristocrazia gota. I rapporti tra i Goti e i Romani


andarono così a deteriorarsi, evidenziando sempre più la necessità da parte dei senatori di trovare appoggi in Oriente e, all’opposta parte, di riscontrare la volontà regia di impedire qualsiasi intromissione dell’impero. Così, nonostante Teodorico avesse avuto la maturità e l’intelligenza di comprendere che quanto più solidale fosse stata la sua politica, tanto più la presenza gota avrebbe potuto continuare a operare, dovette fare i conti con una realtà che andava oltre i suoi intendimenti e le sue possibilità reali di intervento. A tutto ciò si aggiunse la difficile e complessa situazione religiosa che, se al principio in qualche modo favorì Teodorico e i Goti italiani grazie al distacco tra Roma e Bisanzio, di fronte alla pacificazione tra le due Chiese – quando nel 518 giunse al suo termine lo scisma acaciano che aveva per lungo tempo contribuito a mantenere lontane le due grandi capitali dell’impero – cominciò a configurarsi quale motivo di crisi. Il contrasto si accentuò con l’editto dell’imperatore Giustino contro gli ariani. Teodorico, che era ariano, nel 525 ordinò al papa Giovanni I di recarsi a Costantinopoli per indurre Giustino a ritirare l’editto e poi, irritato per l’esito non del tutto positivo del viaggio del papa, lo fece imprigionare, in unione con alcuni altri prestigiosi d’Italia. A quel punto, l’Italia aveva ormai consolidato la sua mappa politica intorno a tre forze antitetiche: la corte gota, che mirava a conservare una propria autonomia rispetto al senato e alla forza imperiale, il senato, sempre più teso a riavvicinare all’Occidente l’impero, e ultima la Chiesa di Roma, che nella figura del suo vescovo assumeva un ruolo sempre più consistente e sempre più importante nella sua funzione di moderatrice e di mediatrice fra le due parti in lotta. E questa nuova realtà politica finì per porre Teodorico in una posizione di estrema incertezza, aggravatasi in seguito alla riapertura dei rapporti tra Bisanzio e Roma e alla nuova politica anti-eretica avviata da Giustino e perseguita dal successore Giustiniano. Teodorico pertanto si sentì minacciato vedendo svanire i suoi progetti di una politica, se non antimperiale, tutta italo-germanica e, pur consapevole dello stato di subordinazione in cui si trovava nei confronti dell’autorità dell’imperatore bizantino, finì per vedere quest’ultimo come un avversario, contro cui però volle sempre evitare una guerra, sapendo che avrebbe condotto alla fine del suo governo. Le sue volontà e le sue speranze però, si infransero contro le vicissitudini e la politica dei suoi successori – Amalasunta, sua figlia reggente del figlio Atalarico e Teodato, cugino marito e omicida di lei, e gli altri tre, Vitige, Totila e Teja – i quali condussero non solo alla vanificazione del progetto teodoriciano, ma anche al totale dissolvimento della presenza ostrogota nella penisola, seguito alla ventennale guerra greco-gotica. La storia di Teodorico e dell’età gotica italiana è quindi un intreccio tra la costruzione di un disegno politico e l’impossibilità di una sua traduzione in azione concreta e duratura. Forse i Goti non ebbero tempo sufficiente per portare avanti con successo e concretezza politica un programma per sé troppo ambizioso e, probabilmente, quanto meno nella figura del loro re Teodorico, si posizionarono un po' troppo in avanti per i loro tempi. In ogni modo, certo è

Palazzo di Teodorico nel mosaico di Sant’Apollinare, sotto Teodoro II il Grande

che quei pochi – quaranta – anni di sostanzialmente buon regno gotico, dovevano di lì a poco essere, in buona parte dei territori italiani, amaramente rimpianti: nei vent’anni della sanguinosa guerra greco-gotica, negli anni dell’esosa amministrazione bizantina, in quelli della conquista longobarda, in quelli delle devastazioni saracene, eccetera. Infatti, ad esempio, nella regio romana di Apulia et Calabria – dove non risulta si fosse stanziato un numero apprezzabile di Goti – alla quale apparteneva l’allora calabra Brindisi, durante gli anni del regno gotico e fino allo scoppio della guerra greco-gotica, era perdurato lo stato di relativa prosperità economica, già avviato al principio del V secolo con il processo di trasformazione agraria che aveva visto anche l’impianto di estesi oliveti e il richiamo di ingenti masse lavoratrici. L’epistolario di Cassiodoro, prestigioso ministro romano di Teodorico e storico dei Goti, presenta la Puglia come grande produttrice di frumento e com-

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menta che a quel tempo, i Calabri – cioè i Salentini – erano considerati ‘peculosi’. Mentre un altro storico dei Goti, Giordane, dà notizia di trasporti di grano salentino effettuati per via mare attraverso il porto di Brindisi, non solo verso le altre regioni d’Italia ma anche verso lontani mercati esteri, a cui partecipavano anche commercianti veneziani. «In Brindisi, il commercio e l’agricoltura furono allora favoriti, perché le terre adiacenti alla città, ricche di humus e d’acqua anche quando vi era siccità, fornivano ottimi raccolti. La città era anche fornita di magazzini per il grano e per gli altri prodotti agricoli che i commercianti provvedevano a esportare con navi proprie dal porto di Brindisi. Ricchi allevamenti intorno a Brindisi furono documentati da Procopio, il quale riferisce che in piena guerra i Goti tenevano al pascolo presso la città una mandria di cavalli» [Giacomo Carito]. Infine, anche altre evidenze – come le stesse disposizioni particolari, contenute nella famosa Pragmatica sanctio pro petitione Vigilii di Giustiniano seguita alla conquista bizantina, tendenti al recupero dei negotiatores Calabriae et Apuliae – indicano la preesistenza di una classe fiorente numerosa e ben organizzata di commercianti dediti al traffico delle derrate alimentari di produzione locale. Ma dopo quella lunghissima guerra, anche per Brindisi ‘effettivo’ spartiacque tra tardoantico e medioevo, «…a partire dalla seconda metà del VI secolo tutto il sistema economico salentino subì un forte processo involutivo: Bisanzio considerò il Salento come un mercato cui esportare i suoi prodotti e non si preoccupò di favorire l’attività produttiva locale. Brindisi divenne così un semplice porto di frontiera, ormai quasi completamente fuori dagli itinerari commerciali che contavano. Lo spopolamento delle campagne, le inumane condizioni di vita dei contadini e il rapace fiscalismo bizantino, furono le cause della depressione che, iniziatasi in quel periodo, sarà costante per Brindisi durante secoli, fino alla fine del primo millennio» [Giacomo Carito]. Se l’imperatore Giustiniano non avesse deciso di portare caparbiamente in Italia quella rovinosa guerra dalla quale ottenne null’altro che una costosissima quanto pirrica vittoria, forse, l’utopico progetto teodoriciano avrebbe potuto avere tutt’altro esito e la storia d’Italia tutt’altro futuro.


CULTURE

7;45;1;<4933:<0/977: 07928 086;2: Un conflitto poco noto ma dalle conseguenze epocali: cominciò nel 535, sessanta anni dopo la fine di Roma 5;<%.0, +0,'12#/++.

a storiografia classica colloca convenzionalmente il passaggio dal Tardoantico al Medioevo in coincidenza con la caduta dell’Impero Romano d’Occidente, a sua volta associata alla deposizione dell’ultimo imperatore, Romulo Augustulo, per mano del generale romano di origini unne Odoacre, nel 476 dC., estromesso dopo tredici anni dal goto Teodorico e da questi ucciso nel 493. Da qualche tempo però, gli storici hanno messo in discussione tale convenzione, osservando che più significativo che l’individuazione di una data precisa in cui collocare il trapasso, sia l’individuare la fine della persistenza dell’antico, cosa che si traduce inevitabilmente in accettare una transizione più o meno lenta e solo eventualmente più o meno legata a un qualche specifico accadimento, in sostituire quindi a una data un periodo e, infine, in considerare un passaggio non unico ma diverso da luogo o regione a regione. In questo ordine di idee, per Brindisi e per la sua regione salentina, probabilmente lo spartiacque tra il Tardo Antico e l’Alto Medio, potrebbe averlo costituito la ventennale guerra greco-gotica iniziata nel 535, una sessantina d’anni dopo la fine dell’Impero Romano d’Occidente. Infatti, anche se le fonti sul corso della guerra intorno a Brindisi non sono molto prodighe di notizie che sono comunque sufficienti a poter determinare la ‘non occorrenza’ di un evento dalla portata emblematica di un cataclisma epocale, è indubbio che l’avvento del dominio bizantino conseguente al risultato di quella lunga guerra – che vide finalmente sconfitti i Goti – costituì certamente un cambio profondo e una interruzione drastica per un sistema socioeconomico e politico che, se pur in graduale e oscillante evoluzione, con i Goti si era mantenuto in sostanziale continuità con il trascorso Basso Impero. Le “Variae” di Caissiodoro Flavius Magnus Aurelius (~486-560) costitiscono la fonte più diretta circa il cinquantennale periodo del dominio gotico in Italia, con il re Teodorico, Amalasunta sua figlia reggente del figlio Atalarico, e il re Teodato cugino marito e omicida di lei. Mentre numerosi ed interessanti dettagli sono riportati nello “Stato politico economico di Brindisi dagli Inizi del IV Secolo all'anno 670” di Giacomo Carito in Brundisii Res, 1976.

L

Fonte principale della guerra gotica è, invece, il “De bello Gothico” di Procopio di Cesarea (~495-565), storico greco, segretario e consigliere al seguito del comandante bizantino Flavio Belisario, in parte – fino al 540 – testimone diretto e privilegiato degli eventi che si susseguirono in Italia fin dallo sbarco in Sicilia degli eserciti bizantini inviati dall’imperatore Giustiniano – l’ultimo imperatore di origini romane – completato dagli scritti di Agazia di Mirina (~536-582), un altro storico bizantino considerato il continuatore di Procopio, che iniziò la sua narrazione della guerra dal punto – circa il 550 – in cui l’interruppe Procopio, descrivendone di fatto le fasi finali con le campagne di Narsete, il generale bizantino eunuco grande

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stratega, che rilevò Belisario dal comando fino a culminare vittoriosamente la guerra. La lunga guerra si sviluppò in due fasi ben separate tra di esse. La prima vide una relativamente rapida vittoria dei Bizantini di Belisario che, sbarcato nel luglio del 535 in Sicilia e conquistatala, nel 536 varcò lo stretto e attraverso la Calabria si diresse a Napoli che, assediata e conquistata in soli venti giorni, fu sacchegiata indiscriminatamente. In seguito, lo sconfitto re goto Teodato venne sacrificato dai suoi ed al suo posto fu eletto Vitige, il quale dalla capitale del regno, Ravenna, si dispose a organizzare la reazione gotica, mentre Roma senza resistere si arrendeva a Belisario il 10 dicembre del 536. Quindi, Vitige tentò la riconquista di Roma assediandola con un esercito numeroso, ma vanamente, e dopo un anno ripiegò nuovamente su Ravenna. Poi, trascorso qualche altro anno di alterne vicende belliche – che nel 537 videro lo sbarco a Otranto di un contingente fresco di mille soldati e di ottocento cavalieri comandati dal generale bizantino Giovanni – fu Belisario a porre l’assedio a Ravenna, che resistette a lungo finchè un vorace icendio, probabilmente doloso, distrusse tutte le scorte di grano. Vitige allora, nella primavera del 540, decise di capitolare e, al seguito di Belisario, fu portato come trofeo a Costantinopoli, dove poi rimase in esilio dorato. La prima fase della guerra, conclusasi a favore dei Greci, aveva avuto come teatro delle operazioni essenzialmente Roma e le regioni del centro e del nord’Italia e i Goti, in seguito alla capitolazione di Vitige, nel settembre-ottobre del 541 elessero re Baduila, detto Totila che vuol dire ‘immortale’, dopo il breve regno di Ildibald, uno zio di Baduila che presto era rimasto ucciso e dopo Erarico, eletto re ma poi contrastato ed ucciso dopo soli cinque mesi di regno. Con il rientro a Costantinopoli di Belisario, l’Italia rimase in mano al generale Costanziano, debole e poco carismatico, mentre il potere di fatto lo esercitavano i vari comandanti militari regionali, corrotti e pessimi amministratori, propensi a gravare fiscalmente i ricchi proprietari e a sprHmere i miseri contadini, facendo in breve tempo rimpiangere un po’ a tutti il governo goto. Totila, invece, da subito promosse una politica intelligente e, seguendo l’esempio del suo antecessore Teodorico, gravò i grandi proprietari


favorendo contadini e coloni. Quindi si dedicò a organizzare la riscossa, e contando con il favore delle popolazioni procedette a riconquistare gradualmente i territori già controllati dai Bizantini e a rioccupare le regioni più meridionali del regno, che non avendo subito le devastazioni della guerra costituivano territori ottimi per i rifornimenti di vettovaglie. Era così iniziata la seconda fase della guerra, fase questa che coinvolse da vicino anche la Puglia, il Salento – cioè l’antica Calabria – e quindi Brindisi. Presa Napoli, nell’aprile del 543, Totila si diresse ad assediare Roma e al contempo inviò una parte dell’esercito verso Sud, su Otranto, sapendo che quella città con Brindisi e Taranto costituiva un triangolo chiaramente strategico per la logistica bizantina, che da quei tre porti dipendeva primordialmente per mantenere attivi ed agili gli indispensabili collegamenti militari e mercantili con la capitale e con il resto dell’impero. A quel punto, Giustiniano, preoccupato dal precipitare degli eventi, nell’estate del 544 riaffidò a Belisario il comando in Italia, e questi, in attesa dei rinforzi da destinare alla difesa di Roma, nel 545 inviò Valentino a Otranto evitandone giusto in tempo la resa ai Goti, que abbandonarono l’assedio. Però vi ritornarono, e nel 547 fu lo stesso Belisario che dirottato con la sua flotta su Otranto, li mise in fuga. E da Otranto, i Goti si recarono a Brindisi, che trovarono priva di mura, giacchè le vechie muraglie romane, ormai superate dallo sviluppo urbanistico, erano in rovina non essendo state né mantenute né riedificate, anche perché durante secoli, dagli scontri tra Marco Antonio e Ottaviano, a Brindisi non si erano più registrati scontri armati. Salpando da Otranto, Belisario si diresse con un ridotto esercito alla volta di Roma assediata dai Goti, mentre Giovanni, l’altro generale bizantino, preferendo spostarsi verso Roma per via terrestre, si attardò con i suoi soldati in Calabria e riuscì a sorprendere i Goti che custodivano Brindisi, attaccandoli di sorpresa grazie alla cattura e al tradimento di uno di loro e obbligandoli a fuggire dalla città. «A Giovanni, che l’interrogava in che modo lasciandolo vivo potrebbe giovare ai Romani ed a lui, questi rispose che lo avrebbe fatto piombar sui Goti mentre men se l’aspettavano. Giovanni disse che quanto chiedeva non gli sarebbe negato, ma che prima ei doveva mostrargli i pascoli dei cavalli [dei Goti che custodivano Brindisi]; ed avendo anche in ciò acconsentito il barbaro, andò egli con lui, e dapprima trovati i cavalli de' nemici che pascolavano, saltaron su di essi tutti quelli di loro che trovavansi a piedi, ed erano molti e valorosi, quindi di galoppo corsero contro il campo nemico. I barbari, trovandosi senz’armi, del tutto impreparati e stupefatti pel subitaneo attacco, senza dar niuna prova di coraggio, furono in gran parte uccisi e alcuni pochi scampati recaronsi presso Totila.» [PROCOPIO] Belisario non riuscì a liberare Roma dall’assedio di Totila e questi il 17 dicembre del 546 – corrotte le sentinelle della Porta Asinaria – penetrò in città mentre i Greci già stremati dall’assedio, imprendevano una disordinata fuga. Quindi, lasciato in Roma un limitato contingente di forze, Totila si diresse verso Sud per affrontare le forze del generale Giovanni. Que-

Belisario, a cavallo, conquista Roma nel 536. Nella pagina accanto il re goto Totila sti, saputolo, pensò bene di non affrontarlo e, rinunciando di fatto a raggiungere Roma per dar manforte a Belisario, preferì tornare a rifugiarsi a Otranto. E così tutto il paese ‘al di qua del golfo’, ad eccezione di Otranto, tornò nuovamente sotto i Goti di Totila. Nella primavera del 547, sorpresivamente Belisario riprese Roma, che era rimasta sguarnita di truppe gotiche e, per poter proseguire la guerra, richiese insistentemente nuovi rinforzi a Costantinopoli, da cui finalmente partirono alcuni contingenti alla volta dell’Italia, seguendo la rotta più breve che portava direttamente a

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Otranto. Un primo rinforzo, che giunse costituito da trecento Eruli comandati da Vero, appena sbarcato si diresse su Brindisi, accampandosi nelle vicinanze della città. Vero era un poco di buono ed era anche un formidabile bevitore, il vino lo rendeva temerario fino all’inverosimile e quando Totila lo attaccò, massacrò molti dei suoi soldati e lui si salvò in estremis solo grazie alla vicinanza sulla costa di una flotta imperiale comandata dall’armeno Varazze, diretta a Taranto per unirsi alle forze di Giovanni, che lo riscattò. (1 - Continua)


CULTURE

)3:88<>18:2; 1;7=2<# +8=65=4=6= 6:9>+<8<78; Economia agricola danneggiata e devastazioni nei campi: per secoli la città subì le conseguenze di quel conflitto 5=> (*$ #*$ ') %##(

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ntrata la guerra nel pieno, con eventi ormai così estesi da interessare praticamente tutto il territorio peninsulare, il Salento, per la sua strategica posizione, si trovò di fatto al centro del conflitto e il re dei Goti, Totila, impegnò le sue forze per prendere Taranto – che nel mentre era stata fortificata dal generale bizantino Giovanni – per poter meglio ostruire la via ai rinforzi imperiali richiesti dal comandante bizantino Belisario che li aspettava asserragliato dentro Roma assediata. Dopo aver conquistato Taranto, infatti, Totila tentò di riprendersi Roma, ma non ebbe successo giacchè Belisario riuscì a respingere i suoi tre attacchi. Seguirono due anni in sostanziale situazione di stasi, finchè, nell'autunno del 549 Totila pose nuovamente l’assedio a Roma. Si trattò anche questa volta di un lungo assedio, nel mezzo del quale Belisario vanamente tentò di farsi mandare rinforzi dall’imperatore Giustiniano, inviando persino la propria moglie a Costantinopoli a perorare le sue richieste, ma questa solo ottenne che il marito potesse ritornare a casa. Poi, nuovamente, gli Isaurici tradirono aprendo la Porta di San Paolo al nemico e Totila entrò di nuovo a Roma, dove, con il Senato già trasferito quasi al completo a Costantinopoli, restavano ormai solo pochi sopravvissuti dei duecentomila cittadini che vi abitavano prima della guerra. E con Roma, i Goti di Totila consolidarono il loro dominio su gran parte dei territori italiani, con la sola eccezione di alcune poche città, tra cui Otranto. Nel 552, Giustiniano – spinto anche dal papa Vigilio, dai senatori e dagli altri esuli italiani con lui rifugiatisi a Costantinopoli – decise di ravvivare la guerra e ne affidò il comando a Narsete, comes sacri erari, ministro del tesoro e prepositus sacri cubiculi, gran ciambellano di corte, eunuco armeno, ultrasettantenne, grande organizzatore e grande politico, il quale si rivelò essere anche uno straordinario e vincente stratega militare. Narsete, con un nutrito ed eterogeneo esercito entrò in Italia dal Veneto, spostando così nuovamente il teatro delle operazioni della guerra nelle regioni centro-settentrionali e, muovendosi lungo la costa verso Sud, raggiunse rapidamente Ravenna, evitando le forze del giovane comandante goto Teia, che si erano appostate a Verona per inteccertarlo.

Totila quindi abbandonò Roma, ma raggiunto, fu sconfitto nella ‘battaglia dei giganti’ a Tagina, tra Gubbio e Gualdo Tadino, dove cadde ucciso alla fine di giugno 552, dopo aver regnato per undici anni. Nel 553, Narsete con i suoi soldati entrò a Roma accolto come un eroe. Poi, anche Teia, il giovane successore di Totila, proclamato a Pavia ultimo re dei Goti, che si era diretto a Sud, fu intercettato assediato e sconfitto, e dopo aver combattuto strenuamente fu ucciso tra i monti Lattari, presso il Vesuvio, nel marzo del 553, mentre il resto dei caposaldi gotici rimasti nel Meridione, si arrese in rapida successione alle truppe imperiali. La guerra greco-gotica era, in principio, finita e gli imperiali bizantini di Giustiniano avevano sconfitto i Goti, il cui regno d’Italia era stato definitivamente cancellato. Restavano comunque alcune sacche di resistenza e di rivendicazione gotica, una delle quali, presso i confini nordici dei territori veneti, faceva in qualche modo riferimento al regno di Teodebaldo, re dei Franchi d’Austrasia, presso il quale chiesero aiuto i Goti d’oltre Po, mostrandosi disposti a compensarlo lautamente. Teobaldo, in posizione di formale neutralità rifiutò, ma favorì l’entrata in campo di due Alemanni Suavi, fratelli e condottieri inescrupolosi, Leutari e Boccellino, disposti a fornire “a titolo personale”

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l’aiuto militare richiesto. I due Alemanni predisposero con la massima celerità una spedizione militare, che nella primavera del 553 attraversò le Alpi, entrò in Italia e si diresse rapidamente verso il fiume Po. All’ingresso dei due duchi in Italia, l’assetto della penisola era parecchio instabile: alcune città o fortezze erano tenute da Goti passati all’ossequio dell’Impero, altre da Goti indipendentisti, certe altre erano ancora sotto attacco o assedio romaico. Alle prime favorevoli manovre dell’esercito franco-alamanno, qualche roccaforte ostrogota della Tuscia che si era già arresa, insorse col proposito di riunirsi ai connazionali transpadani e alle forze d’invasione. L’attacco franco-alemanno si rivelò da subito potenzialmente assai insidioso, anche perché molti Goti sbandati della Liguria e dell’Emilia vi si unirono: da Parma la spedizione toccò l’Etruria e nella primavera del 554 si spinse verso Roma, oltrepassata la quale e giunti nel Sannio, gli invasori si divisero in due colonne d’attacco, ciascuna capitanata da uno dei fratelli: Buccelino discese lungo la costa tirrenica, saccheggiando la Campania, la Lucania e il Bruzzio, fino allo stretto di Messina, mentre Leutari, lungo la costa adriatica infestava l’Apulia e il Salento. Leutari, che certamente passò da Brindisi,


giunse fino a Otranto, e si racconta che tutti queli che con lui “erano della stirpe dei Franchi, con grande religiosità e riverenza risparmiarono gli edifici sacri per ubbidire alle giuste e rette volontà divine, anche perché essi avevano sulla fede le stesse convinzioni religiose dei Romani”. Sulla via del ritorno, in piena estate 554, la colonna di Lutari si scontrò duramente con la piccola ma ben guidata guarnigione bizantina di Pesaro, perdendo in quella circostanza buona parte di quel bottino che cercava di mettere in salvo in territorio sotto controllo Franco. Poi, attraversato il Po giunse nel Veneto e accampò a Ceneda, dove fu colta da una mortale epidemia, e vi morì lo stesso Leutari. Poco dopo, anche Buccellino, inseguito e intercettato da Narsete, morì annientato con le sue schiere nei pressi del Volturno. Anche se la lunga ed articolata guerra grecogotica coinvolse tutta l’Italia, dal Veneto alla Sicilia, e danneggiò seriamente la maggior parte della penisola, lo fece comunque con intensità e modalità diverse a seconda delle aree che interessò nei differenti momenti del suo percorso, non dovendosi pertanto necessariamente accettare del tutto la pur stereotipata lettura di un’Italia uscita completamente distrutta dal conflitto, con le campagne devastate e le città rase al suolo, la popolazione immiserita e deportata, quando non uccisa o decimata dalle epidemie. Brindisi, nel lungo “De bello Ghotico” di Procopio di Cesarea completato da Agazia di Mirina, è citata pochissime volte, meno che le dita di una sola mano e ciò, in tale circostanza, potrebbe forse assumere un significato positivo, nella misura in cui “a meno fatti di guerra da raccontare, meno morti e meno distruzioni da contabilizzare”. «Durante il ventennale conflitto greco-gotico, Brndisi fu occupata in varie occasioni dai contendenti, ma i fatti si svolsero senza colpo ferire… Sembra che durante il conflitto fra Goti e Bizantini, i Brindisini, per proteggere i loro interessi economici, abbiano seguito una politica ambigua parteggiando, di volta in volta, per l’occupante di turno, consentendo alla città di uscire dalla guerra col minimo dei danni... Si sa che i danni più considerevoli la guerra li arrecò con la devastazione delle campagne, battute dagli opposti eserciti. Tale devastazione dovette provocare, di riflesso, squilibrio nell’economia brindisina che contava molto, allora, sull’esportazione dei prodotti agricoli.» [G. CARITO] In effetti, dall’analisi delle fonti pervenute, sembrerebbe che le azioni di guerra abbiano interessato più direttamente da vicino il territorio del brindisino e meno la propria città e, comunque, di fatto solo durante la seconda fase della guerra, quella corrispondente al regno goto di Totila e del suo effimero successore Teia, a partire dal ritorno in Italia di Belisario nell’estate del 544, e quindi per circa un decennio. Se dunque la causa dell’indubbio profondo e prolungato decadimento che soffrì Brindisi nei secoli che seguirono a quell’evento bellico non fu tutta semplice e diretta conseguenza della guerra, e se inoltre – come è ben documentato anche da Cassiodoro – quel decadimento non si era manifestato prima dell’evento e magari – como farebbe presumerlo la “Pragmatica Sanctio” emanata da Giustiniano alla fine della guerra – neanche immediatamente dopo, allora

Belisario assedia Roma nel 536. Nella pagina accanto Giustiniano e la sua corte in un mosaico cosa realmente lo determinò? Quale ne fu la reale causa? Molto probabilmente, la spiegazione è da ricercare direttamente nel cambiamento indotto dal risultato della guerra e quindi, il decadimento fu determinato dalla sconfitta dei Goti e dalla vittoria dei Greci; in definitiva, dalla nuova conduzione politica e amministrativa del territorio: quella bizantina dei vincitori, i Greci, nuovi dominatori della regione. Di fatto, l’avvento dei Bizantini conseguente alla guerra greco-gotica – con il fiscalismo eccessivo, con lo spopolamento delle campagne

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per le inumane condizioni di vita dei contadini, con le vie terrestri di comunicazione mantenute insicure e quasi impraticabili, con il declassamento del porto a favore di quello otrantino, e quant’altro – per Brindisi inaugurò una profonda depressione che, iniziatasi in quel periodo, rimarrà costante per più di quattro secoli, fino alla fine del primo millennio, fino al cesse definitivo del dominio bizantino e all’arrivo di quello dei Normanni, con l’incorporazione della città al nuovo stato unitario del Meridione italiano: il regno di Sicilia. (2 - Fine)


LA STORIA

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e ne parlò l’amico Enrico Sierra dieci anni fa, in occasione del trentesimo anniversario della morte del suo compagno di studi, il colonnello dei carabinieri Antonio Varisco, comandante del reparto Carabinieri Servizi Magistratura, ucciso dalle brigate rosse in un agguato sul Lungotevere a Roma il 13 luglio del 1979, nel pieno dei cupi anni di piombo, e insignito della Medaglia d’oro al valore civile. E il Comune di Roma gli ha intitolato una strada nei pressi del Tribunale penale di piazzale Clodio. Enrico, un meritevole brindisino che ci ha lasciato qualche anno fa, me ne parlò per chiedere il mio sostegno alla sua iniziativa – mossa da Rimini dove abitava da tanti anni – di far apporre una targa commemorativa di Varisco nella sua scuola, la loro scuola, lo storico Istituto Commercial Guglielmo Marconi, in cui Antonio Varisco si diplomò nel 194748, mentre era ospitato nel Collegio Navale Tommaseo di Brindisi assieme ai tanti altri giovani – i circa trecento auto denominatisi ‘Muli del Tommaseo’ – esuli istriani dalmati e giuliani. «Nel 1946 arrivarono da Pola, Fiume e Zara, tanti giovani che erano stati mandati via dalle loro case per accordi politici (sic). Venivano a Brindisi per studiare ed erano alloggiati nel Collegio Tommaseo al Casale. Ricordo il giorno che il preside del nostro Istituto Marconi li accompagnò in classe, presentandoceli. Si guardavano attorno incuriositi ed attoniti e nei loro occhi c’era tanta nostalgia e tanta tristezza. Era come se guardando intorno, vedevano solo i loro cari e poi il vuoto. A casa ne parlai con mia madre e con mio padre. Mia madre disse solo, con un velo sugli occhi: "chissà cosa dicono il cuore e gli occhi delle loro madri". Allora capii che noi eravamo fortunati e che dovevamo dare tutto il nostro affetto a Decio, Antonio, Ottavio ed a tutti gli altri. Dovevamo far sentire il nostro calore e la nostra amicizia. In città li chiamavano ‘i

profughi giuliani’ ma noi amichevolmente li indicavamo come ‘i Giuliani’. Certamente non fu facile per loro ambientarsi e adattarsi a noi, ma ci riuscirono presto: impararono a mangiare “la puddica, lu pani cu lu pumbitoru, la frisedda, li pettuli e poi… izza comu si strafucavunu!”.» [Enrico Sierra, 2009]

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Il colonnello Antonio «…Nel 1946, noi vi Varisco. In alto con approdammo in 300 compagni di classe e giovani studenti proinsegnanti dell’istituto fughi, e l’accoglienza Marconi di Brindisi, che vi ricevemmo fu nel 1947. In alto a de- meravigliosa. A Brinstra il Collegio navale disi abbiamo concluso in cui fu ospitato in- i nostri studi superiori sieme ad altri esuli e ne siamo usciti stiistriani. Al centro un mati cittadini. Abmomento dei funerali biamo forgiato il nostro carattere, dando amore e ricevendo amore dai Brindisini. Quando andavamo in libera uscita in città, in divisa e in fila per sei, i Brindisini ci guardavano con ammirazione e affetto. In periferia, la gente stava seduta fuori dalle porte di casa e si chiamavano l’un l’altro per godersi lo spettacolo dei ‘Giuliani che passavamo cantando’. La Accademia Navale di Livorno, che nel 1943 era stata spostata da Venezia a Brindisi, finita la guerra riportò i cadetti alla sede originale lasciando libero un Collegio nuovo e di prima classe. Così, in tanti trovammo un banco di


scuola dove finire le elementari e le superiori, invece che perderci negli ozi dei campi profughi. I posti previsti erano 250, ma al Tommaseo finimmo per essercene 330 di allievi, perché il bravo direttore Pietro Troili, non se la sentiva proprio di mandar via gli esuberi, nonostante la pochezza delle risorse disponibili. Così, a Brindisi si formò una generazione sana e preparata. Comandanti di nave e direttori di macchina, ragionieri, artisti, dottori, generali, magistrati e finanche ambasciatori: questi alcuni dei tanti buoni frutti del Collegio Tommaseo.» [Rudi De Cleva, 1991] «…Resterà per sempre presente nella nostra memoria quella Brindisi del 1946, pulita e ordinata, dal clima mite d’inverno e caldo e ventilato d’estate, con quegli abitanti cordiali e generosi, con un grandissimo senso dell’ospitalità che solo le genti del mezzogiorno hanno nel loro patrimonio genetico. Gli allievi del Tommaseo ricorderemo per sempre il passeggio domenicale al Corso, che solo in seguito sapemmo chiamarsi ‘struscio’. Non dimenticheremo mai né i bagni a Forte a mare, né le varie osterie ove si beveva un favoloso Malvasia. E come obliare i leggendari fichi del Casale: sfarinati al forno, mandorlati a collana, pressati. E c’era anche un altro vino che si trovava all’Osteria Monaco, ed era l’Aleatico. E poi, un posto d’onore era riservato ai ceci, che costituivano la nostra primaria fonte di proteine vegetali.» ["Il ricordo più lungo" di Ennio Milanese, 2006] Grazie anche alla caparbietà di Enrico Sierra, quella nobile ed emotiva iniziativa, giunse a buon fine e l’11 maggio di dieci anni fa la targa ricordo fu scoperta nell’Aula Magna dell’Istituto dal sindaco Domenico Mennitti nel corso di una bella manifestazione. Peccato che quella storica sede della prestigiosa scuola brindisina di via Cortine, sia ormai chiusa da anni – dal 2011 – e pertanto, sarebbe opportuno che quella targa in ricordo del suo studente eroe sia preservata per evitare che faccia una ingloriosa fine, come è purtroppo già accaduto a tante altre targhe storiche di Brindisi.

Ecco il testo della targa: « Istituto tecnico Commerciale G. Marconi Brindisi, In ricordo del Tenente Colonnello dei Carabinieri Antonio Varisco Medaglia d’oro al valore civile. Sacrificatosi per la difesa della collettività e delle istituzioni democratiche a Roma in data 13 Luglio 1979 – Brindisi 11 maggio 2009 » Antonio Varisco era nato a Zara il 29 maggio del 1927 ed era entrato nell’Arma nel 1951. Comandava il "Reparto Servizi Magistratura di Roma" in precedenza denominato "Nucleo traduzione e scorte del Tribunale", per decenni nelle mani di Varisco, divenutone comandante già dal 1957, appena nominato Capitano. In quella mattina di 40 anni fa, da un’auto che lo seguiva con 5 persone a bordo e che poi si affiancò alla sua vettura, mentre venivano lanciati alcuni fumogeni spuntò un fucile a canne mozze da cui furono esplosi 18 colpi che uccisero l’alto ufficiale con inaudita ferocia. L’omicidio, dopo fu da subito rivendicato dalle brigate rosse che annunciarono che Antonio Varisco era stato ucciso quale "simbolo"

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dello Stato, poiché ex collaboratore del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa ed elemento di raccordo tra la magistratura, le forze dell’ordine e le carceri. Nel 1982, il brigatista romano Antonio Savasta, si proclamò autore dell'attentato e nel 2004, anche Rita Algranati, coinvolta nel rapimento di Aldo Moro, confessò la sua partecipazione all’omicidio. Enrico Sierra però, di quel suo caro amico Antonio Varisco – dai compagni di scuola e di collegio chiamato affettuosamente Tonci – mi raccontava solo e semplicemente questo: «Era un ragazzone biondo, alto e simpatico, uno studente esemplare, un amico, un buontempone che si distingueva nello sport e negli studi senza essere un secchione, sempre seduto all’ultimo banco della nostra aula, con quei suoi capelli biondi che, anche se tirati all’indietro, non stavano mai fermi. Ci raccontava le sue barzellette senza né capo né coda, che duravano minuti, minuti e minuti, mentre la sua allegria ci contagiava. Tutti noi, brindisini e non, che lo conoscemmo, lo ricordiamo sempre con tantissimo affetto».


CULTURE Pagine di storia

(4:75:2:;367&6$9459 -84;5.8;28063:; 97192'9 Al 680 all’880 la città visse probabilmente il periodo peggiore della sua storia. I Bizantini la risollevarono 5:;

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onclusa nel 553 la rovinosa ventennale guerra greco-gotica con la vittoria dei Bizantini e la sottomissione dell’intera penisola, l’imperatore Giustiniano ne affidò l’amministrazione al generale vincitore Narsete il quale, coadiuvato dai suoi comandanti militari distribuiti sul territorio, organizzò un governo estremamente esoso, affidato a burocrati incapaci e del tutto corrotti. Ma quella vittoria si rivelò essere stata del tutto pirrica, giacché dopo pochissimi anni, a partire dal 568, i nordici Longobardi penetrarono in Italia dal Friuli sotto la guida del re Alboino e dilagarono occupando Pavia, che divenne la loro capitale. Quindi, si infiltrarono nel Sud, insediandosi a Spoleto e a Benevento, fondando due potenti ducati. A differenza dei Goti, i Longobardi non perseguirono obiettivi di collaborazione con i vinti, ma li assoggettarono senza neanche tentare di dar vita a forme di organizzazione statale. Eliminarono la residua aristocrazia di origine romana, si spartirono terre e genti e, da ariani quali erano, non risparmiarono neanche atti di persecuzione ai danni della Chiesa cattolica. I Bizantini organizzarono la difesa in prossimità delle coste e intorno ad alcune città fortificate, riuscendo inizialmente a conservare la Sicilia, la Sardegna, la Corsica, Roma, l’esarcato di Ravenna con la Pentapoli, la Calabria, parte della Campania e la Apulia et Calabria, quest’ultima l’attuale Salento in cui sarebbero poi sopravvissute solo Taranto, Gallipoli, Ugento, Castro, Otranto, e Brindisi, sottoposte però a un progressivo impoverimento con il quasi totale ripiegamento dell’iniziativa economico-produttiva, privata e statale. Solo Otranto, a differenza di tutto il resto del Salento, elevato a centro del potere regionale bizantino, divenne un polo dinamico di rilievo affermandosi come emporio della regione. Il ducato longobardo di Benevento fu fondato intorno al 570 e ne fu primo duca Zottone che nel 591 fu succeduto da Arechi I il quale, durante il mezzo secolo che durò, estese verso sud il già consolidato territorio del ducato, sottraendo ai Bizantini anche le importanti città di Capua Salerno e Crotone. Alla sua morte nel 641, i presidi meridionali bizantini si erano notevolmente ridotti, essenzialmente limitati a Napoli, Amalfi, Gaeta, Sorrento, la Sicilia, parte della Calabria e alcune città costiere pugliesi e salentine: Trani, Bari,

Un duca longobardo a cavallo, nella pagina accanto il Ducato di Benevento nella sua massima estensione

Brindisi, Otranto, Gallipoli e Taranto. Nel 647 divenne duca di Benevento Grimoaldo I che, quando nel 661 fu nominato re dei Longobardi, lasciò il ducato al figlio Romualdo, poco prima che l’imperatore d’Oriente Costante II salpasse in armi da Costantinopoli per intraprendere la riconquista dell’Italia. Costante II sbarcò a Taranto nel 663 e risalì la Puglia seminando distruzioni: saccheggiò Oria, Ceglie, Conversano, Monopoli, Bari, e via di seguito. Poi s’inoltrò nel Sannio senza però riuscire a impadronirsi di Benevento e giunse a Napoli. Di lì si recò a Roma e quindi vi ritornò per poi raggiungere via mare la Sicilia, dove la spedizione si concluse nel luglio del 668 con il suo assassinio. Poco dopo la morte di Costante II, il duca di Benevento Romualdo conquistò nuovi spazi e in Puglia giunse stabilmente fino a Taranto Oria e Brindisi, che divenne longobarda intorno

il7 MAGAZINE 26 6 settembre 2019

al 680. Da quel momento, la linea di frontiera in Puglia tra territori longobardi e bizantini si stabilì nel Salento settentrionale, intorno alla direttrice Taranto-Oria-Brindisi, anche se le tracce dell’effettivo stanziamento longobardo rimasero alquanto evanescenti, non essendoci riscontri dell’esistenza di un fronte militare lineare ed ermetico, ma solo evidenze di contiguità di influenze non arginate da frontiere stabili e durature. I Longobardi, la cui influenza si stemperava nel Salento settentrionale e svaniva del tutto da Otranto in giù, di fatto non furono in grado di riempire il vuoto di potere che in quella fascia intermedia pur lasciava la debole amministrazione bizantina. Di conseguenza, Bisanzio non cessò di considerare la situazione pugliese come una guerra interrotta, programmandone e, infine, completandone la riconquista nell’885, al culmine della campagna


del generale Niceforo Foca, quando anche Brindisi tornò ad essere bizantina. Durante due interi secoli dunque – da circa il 680 a circa l’880 – Brindisi restò ‘formalmente’ longobarda. E che ne fu di Brindisi in tutto quel tempo? Ebbene: ben poco, a giudicare dalla carenza estrema di fonti storiche pervenute, solitamente indizio di mancanza di eventi, circostanze e personaggi da riferire e quindi, forte indizio di marcata decadenza, associata, anche e certamente, ad un progressivo processo di depopolamento ed alla conseguente perdita della stessa fisionomia urbana della città. Del resto, come accennato anche prima, già durante i cent’anni precedenti la conquista longobarda, Brindisi aveva sofferto un progressivo decadimento socioeconomico che, innescato dalla guerra greco-gotica, era proseguito e si era aggravato sotto la disastrosa amministrazione – inefficiente, esosa e corrotta – del governo bizantino. Quando poi i Longobardi di Romualdo presero la città – ormai in gran parte già abbandonata dai suoi abitanti in fuga – non sapendo come gestire quel porto che i Bizantini avrebbero potuto utilizzare per aprirsi una comoda testa di ponte sul territorio peninsulare a nord di Otranto, decisero di non recuperarla e, anzi: fecero l’opposto. Preferirono quindi, elevare a loro caposaldo regionale la vicina Oria, già roccaforte bizantina, localizzata in posizione strategica e facile da difendere in quanto lontana dalla costa e arroccata su una altura. E benché non ci siano elementi del tutto certi per stabilire la data in cui anche il vescovo brindisino trasferì la sua sede a Oria, è probabile che ciò avvenne in quello stesso frangente storico e, forse, furono gli stessi Longobardi, convertitisi intorno a quegli anni al cristianesimo romano, a favorire l’instaurazione per la prima volta in quella città di una cattedra episcopale tra fine ‘600 e primi ‘700. «Alla fine del VII secolo era vescovo di Brindisi Prezioso, a noi noto solo dal 1876, quando fu scoperto in contrada Paradiso il suo sarcofago, in un sepolcro che si può attribuire ad una fase di sbandamento della cittadinanza, sia per il luogo del ritrovamento, in una contrada lontana dalla città e dalla necropoli romana, sia per le caratteristiche dell’epigrafe. Egli fu l’ultimo vescovo residente in Brindisi, prima che la sede episcopale si trasferisse in Oria a ulteriore prova della volontà longobarda di distruggere Brindisi. I Longobardi, quindi, fecero di Oria un loro caposaldo, che divenne anche sede dei vescovi di Brindisi, come conferma l’epigrafe rinvenuta nei pressi del castello di Oria, che riporta il nome longobardo del vescovo Megelpotus, erettore di una chiesa dedicata alla Vergine e, probabilmente, primo vescovo a risiedere in Oria… La documentazione epigrafica indica che ai margini di Brindisi solo rimasero alcuni gruppi di Ebrei, parte stabiliti presso il seno di levante del porto interno e parte presso l’attuale via Tor Pisana dove vi fu anche un loro sepolcro, con qualche altro sparuto gruppo di cittadini stabiliti intorno al vecchio martyrium di San Leucio, ubicato prossimo all’attuale chiesa Cappuccini» [Giacomo Carito]. Ad ulteriore riprova dell’estrema debolezza sociale, oltreché politica ed economica, in cui si trovò a versare con quei suoi superstiti abitanti la città divenuta longobarda, un cronista tranese – in una delle rare eccezioni alla citata carenza di fonti documentarie su Brindisi – la descrive “eversa vero atque diruta” e senza guida morale,

nel suo racconto del trafugamento delle spoglie del protovescovo brindisino San Leucio, effettuato nottetempo da un gruppo di Tranesi, proprio in quel finire di VII secolo. In seguito, il ducato di Benevento sopravvisse anche all’arrivo dei Franchi di Carlo Magno che, sceso in Italia nel 771 e sconfitti i Longobardi nel 774, rinunciò ad estendere il proprio controllo sulle longobarde terre meridionali, preferendo mantenere in vita quello stato longobardo in qualche modo a lui sottomesso, piuttosto che intraprendere impegnative campagne militari che avrebbero potuto stimolare imbarazzanti richieste di ampliamento territoriale da parte pontificia, nonché attivare pericolose frizioni con il confinante impero bizantino, proprio lungo quel labile limes della direttrice Taranto-Oria-Brindisi. E così, Brindisi restò ancora formalmente longobarda, pur se quasi ‘di fatto, come inesistente’. Di Brindisi, infatti, nelle cronache dell’epoca se ne riparla solo nell’838, quando sullo scenario meridionale d’Italia, affianco ai tre preesistenti contendenti, bizantini, longobardi e imperiali sacro-romani, comparve un quarto litigante: i Saraceni, musulmani nordafricani provenienti dalla loro nuova vicina base, la Sicilia, che da poco più di una decina d’anni avevano cominciato ad occupare sottraendola ai Bizantini, e da cui avevano cominciato a guardare all’Italia peninsulare come ad una meta di facili scorrerie, in una delle quali risalirono per la prima volta l’Adriatico e s’impadronirono indisturbati di Brindisi. Il duca Sicardo, appena saputolo, accorse da Benevento con numerose forze per respingerli, ma fu bloccato da un banale tranello: gli assalitori, scavata una trincera in prossimità dell’ingresso alla città, la ricoprirono con rami e con zolle di terra e vi attirarono il nemico che cadde nella trappola subendo gravissime perdite; lo stesso Sicardo riuscì solo fortunosamente a salvarsi. I Saraceni poi, avuta notizia che dopo lo scacco il duca Sicardo preparava la rivincita, non esitarono a dar fuoco alla città e a ritirarsi, non senza averla depredata del poco ancora depredabile. Quindi, alcuni di loro si stabilirono una quindicina di chilometri più a nord, nella strategica e protetta baia di Guaceto, ove costruirono un campo trincerato che utilizzarono a lungo come base per le loro scorrerie di mare e di terra.

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Nell’840 i Saraceni risalirono le coste della Calabria ed occuparono Taranto e qualche anno dopo, nell’847, ritornati sull’Adriatico, espugnarono anche Bari. Così, oltre che dalla Sicilia, anche da Taranto e soprattutto da Bari – città che divennero sedi di emirati – partirono per anni le incursioni arabe dirette sulle città e sui territori appartenenti ai domini bizantini residui in Italia, nonché a quelli longobardi. Nell’864, una flotta veneziana, battuti i Saraceni, permise per qualche anno la restaurazione del dominio bizantino su Taranto, mentre nell’866, il sacro romano imperatore dei Franchi, Ludovico II, disceso in Puglia per scacciare i Saraceni da Bari, riuscì solo a liberare dall’occupazione araba Matera Canosa e Oria, nel trascorso di una lunga campagna in cui i Franchi – circa l’867 – occuparono momentaneamente anche Brindisi. Dopo qualche anno, Ludovico II ritornò su Bari, conquistandola finalmente il 3 febbraio dell’871, liberandola dal trentennale dominio arabo e facendo prigioniero l’emiro. E nell’880, i Bizantini dell’imperatore Basilio I liberarono anche Taranto dai Saraceni. Infine, sbarcato sulla punta dello stivale nell’885, l’abile stratega bizantino Niceforo Foca estese l’offensiva su quasi tutto il Meridione continentale, riconquistando sia le città ancora rimaste in mano araba e sia gran parte dei territori occupati dai Longobardi, per poi – nell’886 – rientrare a Costantinopoli, imbarcandosi con tutto il suo esercito a Brindisi dopo avervi lasciato liberi gli schiavi catturati lungo l’offensiva. I limiti territoriali di quella conquista non sono definiti con esattezza nelle fonti, ma è verosimile che i Bizantini abbiano rioccupato tutta la regione che si estende dalla valle del Crati fino a Taranto, la Lucania orientale con le vallate del Sinni e del Bradano, nonché tutta la costa salentina, risultando più arduo definire dove essi siano arrivati a nordovest di Bari. Certo è, comunque, che fu nel contesto di quella campagna che Brindisi tornò sotto il formale controllo dei Bizantini, i quali, dopo i duecento anni della parentesi longobarda, la ritrovarono in condizioni pietose, persino peggiori di quelle in cui l’avevano lasciata e probabilmente all’apice negativo della sua già più che millenaria esistenza. La Brindisi dei Longobardi, infatti, altro non era stata, che una ‘città fantasma’.


CULTURE

Da Madrid le imprese del militare brindisino Simonetta +B<< 4@= E-ECF:?C@E=CF>EF)9D0ADFD11ED7CF?@C-D?C >;BF>C=;7BA?EF8E@7D?EFAB<F)BE=BA?CF>D<FAC1E<B

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ell’Archivio Storico Nazionale di Spagna, in Madrid – Calle de Serrano 115 – ho rintracciato due documenti, datati 13 novembre 1676 e 3 maggio 1677, firmati da “Don Juan Antonio Simonetta Ponce de Leòn, Marquès de S. Christina, Cavallero de la Orden de Alcantara del Consejo Colateral, General de la Artillería, Governador de las Armas de la Plaza de Armas de Rijoles y fronteras de Calabria”. Ebbene, il Simonetta firmatario dei due documenti in questione, altri non è che un nobile brindisino vissuto nel ‘600, affermatosi in Spagna e ritornato in patria all’apice della sua lunga e brillante carriera militare, intrapresa e condotta al servizio della corona spagnola in epoca vicereale, quando cioè Brindisi apparteneva al Viceregno di Napoli (15091713) direttamente soggetto al potente Regno di Spagna. La ricerca l’ho condotta qui, a Madrid, dopo aver recentemente scoperto dell’esistenza di questo nostro concittadino sulla “Guida di Brindisi” di Don Pasquale Camassa, pubblicata nel 1897 dalla Tipografia Mealli: un libro sempre piacevole da rileggere e da riscoprire, e che per ogni nuova rilettura ha in serbo una qualche sorpresa. A Giò Antonio Simonetta, infatti, non è intitolata alcuna via di Brindisi, né il suo nome o le sue gesta costituiscono soggetti ricorrenti nella cultura favolistica brindisina. Eppure, credo che ben valga la pena ricordarlo, quale illustre rappresentante che è, di quel contesto storico corrispondente a un’epoca che indubbiamente marcò Brindisi e i Brindisini: quanto meno per la sua prolungata durata – ben due secoli – o, comunque, per quei suoi tanti risvolti socio-culturali che certamente incisero – e credo profondamente, nel bene e nel male – sulla formazione della nostra brindisinità. Il 28 marzo dell’anno 1624 – Filippo IV re di Spagna; Antonio Àlvarez de Toledo viceré di Napoli; Pedro Aloysio de Torres governatore di Brindisi – nasceva in Brindisi Giò Antonio Simonetta Ponce de León, Marchese di San Crispieri detto di Santa Cristina, figlio di Mario – Barone di Carosino, San Crispieri e altre terre salentine – e di Giulia Ponce de León, nobildonna

spagnola. Giò Antonio intraprese da giovane la carriera militare e a trent’anni, nel 1654, ricevette il suo battesimo di guerra. Come ‘Capitán del Tercio de Infanteria Napolitana’, Simonetta giunse via mare a Barcellona in Catalogna, dove dal giugno 1640 era in corso una sollevazione indipendentista sostenuta dai Francesi e dove, nonostante già dal 1652 Barcellona fosse tornata sotto il controllo della corona spagnola, nel contesto della lunga guerra franco-spagnola (1635-1659) restavano ancora molti territori catalani in aperta ribellione. Il Capitano Simonetta, per le sue capacità militari e la sua grande risolutezza, si distinse fin dalle prime azioni di guerra e poi, ancora e ripetutamente, campeggiò nei numerosi episodi bellici in cui partecipò, fino

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Sopra un capitano al fronte del suo Tercio spagnolo-Secolo XVII, a destra Filippo IV di Spagna - Olio di Velasquez 1635-Museo del Prado. Sotto la firma di Giovanni Antonio Simonetta in uno dei due documenti

all’azione di Campo Rotondo del 1658 quando, già promosso a ‘Capitán de Cavallos Corazas del Trozo de Rosellón’, intervenne con una singolare mossa strategica rompendo le forze nemiche già vicine alla vittoria: «Attendatosi l’esercito spagnuolo e appena formatasi la linea d’assedio alla Piazza presa dai ribelli, i Francesi giunsero numerosi in soccorso degli assediati ponendo in rotta e superando le schiere dei fanti spagnuoli e, ormai senza ostacoli avanzandosi a tutta fretta, portavano alla Piazza col soccorso la libertà. Ma Simonetta, trovandosi di vanguardia, dato di sproni al cavallo, seguito dalla sua Compagnia e da tutto il Trozo, si scagliò sopra i Francesi, che sostenuti da altre truppe e già quasi sicure della vittoria, resistettero al principio senza ritrarre il piè dal terreno acquistato, ma dopo l’impeto della Cavalleria avanti alla quale combatteva intrepido il Simonetta, cederono ritirandosi più frettolosi di quello eransi avanzati, con che, la Fanteria spagnuola rimessasi e secondando il valore del battaglione del Trozo a cavallo impegnato nell’atroce conflitto, dierono sul tergo dei fuggitivi, e la Piazza non soccorsa si rese» [Fra’ Raffaele Maria Filamondo 1694]. Il Marchese di Mortara, al comando dell’esercito spagnolo in quel fronte della guerra, impressionato dal coraggio mostrato da Simonetta in quel frangente bellico, lo riportò al re Filippo IV e questi, con regio dispaccio, decretò: “Habiéndome avisado el Marqués de Mortara que en la ocasión que mis armas ocuparon la plaza de Camp-rodón, el Capitán de Caballos, Barón de Santa Cristina, fue uno de los que rompieron la infantería del enemigo procediendo en esta ocasión con todo valor, he resuelto hacerle merced de seis escudos de Ventaja particulares sobre cualquier sueldo”. In seguito, conclusa nel 1659 la guerra franco-spagnola con il Trattato dei Pirenei, avendo nel 1661 la corte in Madrid deciso di riprendere con vigore l’intiepidito conflitto con i Portoghesi che nel 1640 avevano proclamato la secessione del loro regno da Madrid, sul fronte nord del confine portoghese fu nominato Capitano Generale dell’esercito spagnolo di Estremadura Francesco Tuttavilla, Duca di San Germano, il quale volle avere Giò Antonio Simonetta come Capitano della Compagnia di Cavalli Archibugieri destinata alla sua Guardia. E qui Simonetta, nuovamente, si distinse sui vari fronti di guerra, rimanendo nel 1663 ferito gravemente alla caviglia sinistra nella battaglia di Estremoz nel corso di una rischiosa azione ordinata dal Capitano della Cavalleria Castigliana, Don Diego Pedro Correa Pantoja, il quale in quell’occasione costatò di persona il grande valore di Giò Antonio e volle testimoniarlo al re Felipe

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IV con un esteso rapporto in cui descrisse in dettaglio la lunga e meritoria traiettoria militare di quel valoroso capitano napoletano. Ed in seguito, nel 1664, il re Felipe IV, in una cedola reale colma di lodi, promosse Giò Antonio Simonetta a “Maestre de Campo del Tercio Viejo de Napolitani de la Real Armada” e gli confermò il titolo di Marchese sulle terre salentine di San Crispieri, conosciuto in Spagna -probabilmente solo per traduzione fonetica- con il titolo di ‘Marqués de Santa Cristina’. Quindi, con quel prestigioso grado, per Simonetta venne la volta dell’Andalusia, dove servì presso Ayamonte sul fiume Guadiana vicino al confine sud portoghese al comando del Duca di Medina Cœli, Generale dell’Armata dell’Oceano e, distinguendosi da subito, sconfisse ferì e quindi catturò – il 21 di aprile 1666 – il governatore portoghese Salamon, che aveva impunemente assalito e saccheggiato la villa spagnola di San Benito – il borgo di San Benedetto nel municipio El Cerro de Andévalo nella provincia andalusa di Huelva. Firmata la pace con il Portogallo, il 13 febbraio 1668, gli eserciti si ritirarono dalle frontiere e qualche anno dopo, Don Juan Antonio Simonetta poté finalmente usufruire di una licenza premio di ben quattro mesi da spendere in Napoli, godendosi i suoi tanti titoli riconoscimenti e privilegi ricevuti per i suoi preziosi servizi militari resi alla corona di Spagna, ai quali in quell’occasione si sommò quello – molto prestigioso – di Consigliere del Collaterale di Napoli. Quella breve licenza in terra patria, dopo quasi un ventennio dal distacco, era però destinata a trasformarsi in un rientro quasi permanente. Infatti, quando nel 1674 scoppiò la rivolta di Messina, il viceré di Napoli chiamò Simonetta ad integrare la Giunta di Guerra e, con il grado di Generale di Artiglieria ad honorem conferitogli dal re, il Marchese di Santa Cristina operò – tra Napoli e Reggio (Rijoles in spagnolo antico) fino alla resa di Messina nel 1678 – come ‘Governador militar de Rijoles y fronteras de Calabria’. Quindi, Simonetta, già maritatosi e stabilitosi in Napoli, rimase al servizio della corona per il resto degli anni a venire, assolvendo alle varie importanti missioni che i viceré di Napoli continuarono ad assegnargli in virtù della sua grande e virtuosa esperienza. E così, Don Juan Antonio Simonetta Ponce de León, Marqués de Santa Cristina, visse soggiornando tra Napoli e Madrid fino agli inizi dell’anno 1685 quando, già sessantenne e stando in casa a Napoli, fu colto da una violenta apoplessia che in pochi giorni lo condusse – il 6 febbraio – alla morte, spirando vicino ai suoi tre ancor giovani figliuoli: Mario, Annibale e Giovan Tommaso Simonetta.


BRINDISI

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Q

ualche lettore forse ricorderà quando, recentemente, a proposito del nobile militare brindisino vissuto nel XVII secolo, Giovanni Antonio Simonetta, scrissi che non gli era stata intitolata strada cittadina alcuna. Ebbene, quella affermazione non era del tutto corretta. Infatti, benché non ci sia nell’attuale stradario brindisino una via con quel nome, ho scoperto che una c’è stata: era l’attuale via Cesare Battisti, quella che costeggia 'la chiazza' tra via San Lorenzo e piazza Vittoria, così intitolata con delibera del 19-11-1921. Ma non solo: quella stessa via, prima di essere – con delibera dell’8-11-1900 – intitolata a Simonetta, aveva un ben più antico storico toponimo, quello di Strada delle Ferrarie, perché fin dal medioevo aveva ospitato varie officine di fonditori di bronzo e di abili fabbri che battevano il ferro e forgiavano armi e arnesi di lavoro. Quell’intitolazione 'delle Ferrarie' manteneva viva una pagina importante della storia di Brindisi, e quella strada altro non era che l’antichissima 'magna ruga scutariorum'. Gli 'scutari' erano i fabbricanti di scudi, gli armaioli, gli spadari. Ancora nel 1417, vi era in Brindisi un’armeria con armi di tutti i tipi ed in quantità tale da poter armare un intero esercito. Ed intorno alla metà del ‘700, in quella strada 'delle Ferrarie' vi era l’officina di un famoso 'focilaro' – un fabbricante di fucili – rinomato fin anche ben lontano dalla nostra città. Un vezzo non certo recente, quindi, quello degli amministratori di Brindisi, che in molti da qualche tempo si sono rivelati incapaci di resistere alla tentazione di cancellare le antiche denominazioni delle vie cittadine e, purtroppo, per parecchi di loro, non solo quelle. Eppure, e per fortuna, non sempre fu così: quando nel 1871, poco dopo l’Unità d’Italia, fu emanato l’ordine ministeriale di riordinare i nomi dei rioni e delle vie delle città seguendo i nuovi rigorosi – ma per molti aspetti discutibili – criteri di ammodernamento ed efficientamento, il sindaco di Brindisi, Mariano Monticelli, rispose che «per la nominazione delle singole vie cittadine, si è

seguito il loro corso naturale e per come venivano precedentemente riconosciute, in guisa che il portarvi delle varietà sarebbe un frastornare, anziché regolarne l’ordine… le denominazioni inoltre delle vie quali oggi esistono, giovano immensamente alla interpretazione degli antichi catasti e delle scritture di antichissima data, mentre le innovazioni che si vorrebbero introdurre pregiudicherebbero al riscontro di cui trattasi». Poi però, negli anni successivi, a Brindisi cominciò a imperversare l’abitudine di cambiare il nome delle strade cittadine. Il 4 maggio 1894, un regio commissario – l’antica maledizione del commissariamento – a nome Vincenzo Nicolardi, probabilmente preda di un improvviso raptus patriotico-risorgimentale, emise 'd’urgenza' una delibera con cui ribattezzò in un colpo solo ben 29 vie. E così, le varie regine e i vari re savoiardi, le varie battaglie vinte, l’indipendenza, i patrioti, le date, Mazzini, Garibaldi – il cui corso già nel 1882 aveva sostituito la strada Carolina, a sua volta ricostruita nel 1797 sull’antica strada della Mena – eccetera eccetera, fecero incetta di tabelle stradali, naturalmente cancellando quelle precedenti.

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Nel novembre del 1900 fu poi la volta di una copiosa commissione comunale che oltre a più di qualche sproloquio, come quello già citato della Strada delle Ferrarie, più o meno giustificatamente introdusse spostò e scambiò moltissime intitolazioni, includendone tra tante anche alcune ‘sollecitate da ineffabili presunte glorie familiari’ [Alberto Del Sordo]. Quindi, giunse il momento della commemorazione dei personaggi luoghi ed avvenimenti della Prima guerra mondiale seguito, durante il ventennio mussoliniano, da quello dell’esaltazione della retorica nazionalistica e dell’improbabile gloria imperiale, poi puntualmente e quasi integralmente ribaltato dai sopraggiunti nuovi amministratori repubblicani, i quali da subito si preoccuparono di non essere da meno degli antecessori in fatto di 'innovaLa targa stradale in corte Capozziello, rione Sciabiche, recentemente sovrapposta, a destra Piano delle demolizioni del rione Sciabiche eseguito in due fasi H


zione' dell’odonomastica cittadina. Certamente in tutti questi corsi e ricorsi ci furono anche doverose intitolazioni ad insigni personaggi e ad importanti fatti, d’Italia e della stessa città, però forse sarebbe stata miglior pratica riservare loro le tante nuove vie anonime, invece di sostituire o spostare le precedenti denominazioni, specialmente quando richiamanti antiche storie o tradizioni. E comunque, i casi di sostituzioni, traslazioni ed eliminazioni, quanto meno 'inopportune' sono veramente tanti. Dalla piazza Santa Teresa ribattezzata – temporalmente, per vent’anni – piazza dell’Impero, alla via Giudea sostituita – temporalmente, fino a pochi anni fa – da via Tunisia, passando per l’ecatombe delle tante, in precedenza già sofferte, intitolazioni di vie, strade, vichi, larghi e piazze dell’abbattuto storico rione Sciabiche, con la propria via Sciabiche sostituita da via Lenio Flacco e, prima di essere demolita, spostata al posto di via Forno sciabiche, il largo Monticelli eliminato nel 1924 con la demolizione della stessa casa in cui nel 1759 era nato il celebre scientifico Teodoro e della adiacente via che nell’appena trascorso novembre 1900 era stata intitolata all’Abate Monticelli. Inoltre, sempre alle Sciabiche, via Dorotea sostituì nel 1921 il toponimo Margarito da Brindisi – Margaritone – e nel 1933 via Zara sostituì quello di Ruggero Flores, entrambi famosi personaggi brindisini in qualche modo pertinenti allo storico quartiere sciabicoto, le cui denominazioni stradali furono 'capricciosamente' spostate al rione Casale, contraddicendo di fatto la delibera di soli pochi anni prima, quella stessa già più volte citata del novembre 1900 che le aveva istituite. Caso singolare è quello del vico – o corte – Capozziello: uno degli anonimi vicoli ciechi delle Sciabiche che nel 1921 fu intitolato vico Capozziello, in memoria dei due fratelli, Giovanni e Carmelo, marinai sciabicoti periti nell’affondamento del piroscafo Palatino il 23 novembre 1915, nel corso di una delle prime operazioni di salvataggio dell’esercito serbo. Già destinato alla demolizione pianificata per tutto il rione Sciabiche nel 1934, nella prima fase degli abbattimenti fu risparmiato e in parte si salvò anche dalla seconda ondata demolitrice del

1956. Poi, come conseguenza di uno dei frequenti errori commessi nel corso di una delle campagne di rifacimento delle targhe stradali, la sua targa fu apposta con il nome di 'Pompeo Azzolini' confondendo la via con quella dell’adiacente via Pompeo Azzolino e distorcendone comunque la dicitura all’inserire la 'i' al posto della 'o' come ultima vocale. Finalmente, molto di recente, quella stessa targa è stata ricoperta – forse su iniziativa di privati – da una targa tipologicamente del tutto inusuale intitolata piazzetta Giacomo Alberione. E così si potrebbe continuare ancora a lungo, quasi all’infinito. Per esempio: la famosa ruga Magistra – l’unica denominazione medievale rimasta viva nella tradizione orale con il nome di via Maestra, fu la principale arteria urbana che attraversando tutta la città congiungeva porta Mesagne a porta Reale sul porto – spezzettata e sostituita, inizialmente da via Carmine e quindi, cancellandola imperdonabilmente del tutto nel 1900, da via Ferrante Fornari e via Filomeno Consiglio; e nello stesso anno: largo Cittadella sostituita da largo Della Volta, largo Duomo sostituito – temporalmente, fino al 1920 – da piazza Antonio Balsamo e via Giovanni Tarantini e via Piertommaso Santabarbara in sostituzione della via Scuole Pie; nel 1921 invece, via dell’Orologio fu sostituita – sostituzione nefastamente premonitrice della demolizione della settecentesca Torre dell’Orologio – da via Raffaele Rubini e, nello stesso anno, via San Giuliano sostituita con via Giulio Cesare Vanini; nel 1927 piazza Sottoprefettura fu sostituita da piazza Dante e la adiacente via Marco Pacuvio in sostituzione di via Sottoprefettura; nel dopoguerra via Municipio e strada Sedile furono sostituite da piazza Giacomo Matteotti e vico Romano ribattezzato vico Municipio; nel 19 via Foggia fu sostituita da via Giovanni XXIII e, recentemente, via San Nicolicchio è stata sostituita da via Felice Assennato; eccetera eccetera. Non c’è dubbio alcuno che quella di Brindisi è stata, ed è tuttora, una odonomastica molto sofferta, i cui antichi toponimi troppo spesso non sono stati dovutamente mantenuti e rispettati. Sicché, dal periodo romanico al barbarico, dal normanno allo svevo, dall’angioino all’arago-

il7 MAGAZINE 11 8 novembre 2019

nese, dal borbonico all’attuale, la toponomastica cittadina ha subito non poche mutazioni. Così, infatti, ben lo segnalò lo storico Alberto Del Sordo nel suo libro 'Toponomastica brindisina del centro storico' del 1988 e, a tale proposito aggiunse: «Sentimentali a fior di pelle come siamo, facili agli entusiasmi e per nulla freddi nel considerare le cose, abbiamo accolto, attraverso i secoli, le ventate di novità, come ci giungevano, e siamo incorsi, anche in materia di onomastica stradale, in errori, che si sarebbero potuti evitare. Ed è così che l’antico degno di essere mantenuto e rispettato, semmai valorizzato, sia stato travolto dall'irruenza del nuovo, non sempre bello e valido. Intendiamo dire che spesso, senza giustificato motivo, si è tagliato corto con ciò che era anima del passato per far posto al presente, sotto l’etichetta di una maggiore rispondenza a discutibili esigenze culturali e spirituali e di cervellotici aggiornamenti, quando invece presente e passato potevano convivere, dal momento che il presente s’aggancia ineluttabilmente al passato». E per concludere: sarà poi così difficile capire che non ha alcun senso civico cambiare il nome originale di una via o piazza, per magari sostituirlo con quello di un qualche personaggio o un qualche avvenimento della storia più prossima oppure più affine ad una qualche ideologia più o meno di moda, o più o meno condivisa? Eppure, tanto difficile non dovrebbe esserlo, se già alla fine dell’800 Ferdinand Gregorovius, il riconosciuto storico medievista tedesco, in occasione del suo viaggio nelle Puglie, scrisse che «i nomi antichi delle strade sono come tanti capitoli della storia della città e vanno mantenuti e rispettati, quali monumenti storici del passato». Che sperare quindi? Non certo di poter ripristinare i toponimi antichi originali, ma quanto meno di interrompere in via definitiva la malsana pratica della sostituzione dei toponimi storici esistenti e, magari, per i casi più eclatanti, apporre in calce alle attuali targhe stradali un complemento che ne indichi il toponimo originale. Ad esempio: via Cesare Battisti “già strada delle Ferrarie” oppure, via Filomeno Consiglio “già via Magistra”, via Raffaele Rubini “già via dell’Orologio”, eccetera.


CULTURE

L’avvicendamento sul trono di Napoli dopo 200 anni di Spagna fu festeggiato anche nella nostra città dove giunse Caraffa :BC!./* +/*#,- )++.

I

l 20 luglio 1707 giunse a Brindisi la notizia dell’ingresso dei soldati austriaci in Napoli i quali, in realtà, al comando del feld-maresciallo Wirich Philipp von Daun dell’imperatore Giuseppe I, vi erano entrati già da qualche giorno – il 7 luglio – giungendovi senza quasi colpo ferire, mentre il viceré spagnolo del sovrano borbonico Felipe V – Juan Manuel Fernández Pacheco – s’imbarcava per tornare in patria e il viceré austriaco – Georg Adam von Martinitz – prendeva possesso del palazzo reale. [Era accaduto che il re Carlo II di Spagna della dinastia Asburgo, che era morto nel 1700 senza eredi diretti, aveva designato a succedergli Filippo D’Angiò – nipote di sua sorellastra la regina Maria Teresa moglie del re Luigi XIV di Francia – il quale s’incoronò come Filippo V di Spagna, il primo della dinastia Borbonica. Così, quando nel 1703 a Vienna, Carlo, figlio di Leopoldo I d’Asburgo e fratello di Giuseppe I, venne acclamato re come Carlo III di Spagna, scoppiò la lunga guerra di successione spagnola, nel contesto della quale, nel 1707, il Regno di Napoli passò dal dominio spagnolo a quello austriaco, che doveva poi durare solo ventisette anni, fino al 1734]. A Napoli ci fu festa e la statua di Filippo II di Spagna, elevata dal popolo solo cinque anni prima, fu abbattuta, anche se nel complesso le cose non volsero al peggio. «A Brindisi, con Gregorio Lanza sindico, il castellano di terra, subito senza dispaccio inalberò bandiera imperiale con salva reale, quale durò tre giorni e, per esser che il castellano di mare non si voleva dichiarare a favore di Carlo III stante non aveva ancora ricevuto dispaccio, li pose l’assedio alla torretta con l’ajutanti, e non faceva passare nessuno dalla detta fortezza, e lo tenne così assediato sei ore, e doppo si dichiarò e mandò a dire farò tutto quello che farà la città. A dì 24 detto, tutta la città fece la sua grande festa che durò otto giorni… In tutti questi otto giorni e notti mai sono mancati luminationi e lontananze in diverse case, specialmente

in casa del signor Montenegro, conventi di regolari, e monache, tutti illuminati con gran quantità de lumi; in detti giorni, e notti, si sono sparati più di quaranta cantara di polvere senza quella dell’artiglieria, e si sono gettati più di duecento docati, e più di seicento libre di confettura.» “Cronaca dei Sindaci di Brindisi 1529÷1787”. Un comportamento decisamente festoso – quello dei sudditi di fronte all’evento epocale della caduta del bicentenario dominio spagnolo ad opera dei nuovi arrivati austriaci e del loro conseguente insediamento nel governo del regno – giacché a quella data i sentimenti del popolo, nobili a paUte, infondo non erano molto dissimili da quelli che solo qualche decina d’anni prima avevano provocato le rivolte popolari – del pescivendolo amalfitano Masaniello a Napoli il 7 luglio 1647 e, ancor prima, dei pescatori brindisini del rione marinaro delle Sciabiche il 5 giugno 1647, e poco dopo in Si-

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cilia il 15 agosto 1647 – scoppiate sotto la spinta della miseria che da tantissimo astringeva il popolo caricandolo di disperazione e di odio. Un odio popolare che, anche se esternato soprattutto verso la nobiltà, percepita a buona ragione come principale dissanguatrice, non risparmiava di certo il governo che, mentre accontentava il popolo con concessioni di qualche rappresentanza nelle amministrazioni locali come per esempio gli eletti al Sedile–e OR appoggiava in alcune dispute spicciole con i nobili, nello stesso tempo lo sottoponeva alle strette mortali di un fisco spietatamente esoso. Ma anche i nobili videro di buon occhio quell’avvicendamento reale sul trono di Napoli, proprio perché memori che i governanti spagnoli erano stati spesso pronti, nel ricordo della tradizionale riottosità e prepotenza baronale, a favorire, naturalmente entro limiti ben stretti, le aspirazioni popolari nei confronti del ceto nobile, al duplice scopo di diminuire il prepotere nobilesco e


Sopra, prospetto del Palazzo del Seminario – Incisione di Mauro Manieri, 1720 – Biblioteca M. Gatti, Manduria. A destra la rivolta di Masaniello del 7 luglio 1647 a Napoli. Sotto il titolo La Rivolta in Piazza Mercato tener buona e in pace la massa popolare. Da cui le numerose congiure dei nobili contro il governo, come avvenuto anche nel settembre 1701 all’inizio del governo di Filippo V, e le improbabili e circostanziali associazioni popolo-nobiltà contro il comune nemico governante, come avvenuto anche all’inizio della rivolta di Masaniello. Certo è, che il lungo domino spagnolo era stato penetrante, e nel regno già da tempo imperversavano il pervertimento e la corruzione, passata dalle corti alla nobiltà e da questa allo stesso popolo. L’economia era quasi svanita e con i terreni rimasti incolti le rendite erano cessate. L’abitudine al lavoro era disprezzata, mentre con il fasto e il lusso imperanti si coltivava più l’apparenza che la sostanza. Il clero e la nobiltà comandavano senza remore, beneficiando d’immunità e privilegi, e i prelati di rango più elevato rivaleggiavano con la nobiltà per sfoggio di ricchezza. I viceré di turno non miravano ad altro che a radunar danari con le imposte che crescevano e crescevano, mentre le entrate, oltre che al papa di Roma, passavano – fino a due terzi del totale – in Spagna per pagare soldati e spese di guerra. Guerre a parte, la logica con cui la monarchia spagnola del ramo Asburgo aveva governato, era stata quella del compromesso politico dello scambio, col quale vennero riconosciuti alla classe dominante una serie di privilegi in cambio dell’impegno di fedeltà, e pertanto, durante tutto quel lungo periodo di governo spagnolo, si rafforzarono l’aristocrazia feudale e il grande latifondo, che non consentendo l’adeguamento delle strutture agricole causarono l’impoverimento delle popolazioni rurali, la cui produzione fu quasi per intero assorbita dal consumo familiare, poco avanzando per i mercati, dove fu inoltre sottoposta a una rigorosa stagnazione dei prezzi. Si imposero, quindi, un’agricoltura e una pastorizia di rapina che portarono al depauperamento generalizzato riducendo allo stremo i contadini.

La precaria situazione delle campagne finalmente, indusse le popolazioni agricole a inurbarsi senza riuscire a inserirsi nei canali produttivi, e tutto ciò contribuì a sottoporli a uno stato di disagio che divenne insostenibile con la pressione fiscale che, tralasciando i patrimoni, fu essenzialmente focalizzata sulle imposte indirette che riguardarono i generi alimentari di largo consumo. E così nei centri urbani, una plebe di bottegai, pescatori, barcaioli, facchini, eccetera, si fu affiancando al popolo basso, già per sé costituito da una moltitudine cenciosa e affamata che viveva di espedienti. Mentre, lentamente, alcuni patrimoni iniziarono a scivolare dalle tasche della nobiltà a quelle del ceto medio, rappresentato, oltre che dagli appaltatori di gabelle, dagli strozzini mercanti di pochi scrupoli, nonché dagli avvocati che si arricchirono sfruttando la litigiosità della classe abbiente. La giustizia infine, era lenta, la magistratura venale e, con il diffuso brigantaggio, la vita e le proprietà divennero poco sicure. Un fenomeno quello del brigantaggio, che andò assumendo su tutto il territorio del regno napoletano una consistenza ampia e duratura, nonostante la spietata repressione dello Stato, sferrata da parte dell’esercito

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e della polizia. «Il 31 marzo 1664 a Brindisi, con sindico Giacomo Pascale e governatore il sargente maggiore napoletano Onofrio Mormile, furono giustiziati Martino Sumarano di Martina e Donato Capasa di Brindisi ‘pubblici ladri e scorridori di campagna’.» “Cronaca… E quegli anni che precedettero l’arrivo degli imperiali austriaci nel regno di Napoli, a Brindisi furono anche anni di continue e temutissime scorribande turche, nella più grave delle quali fu saccheggiato Torchiarolo nel 1673 e, nel luglio 1681, Specchiolla, malgrado la resistenza opposta dai terrazzani, fu saccheggiata: «A dì 5 agosto 1673 giorno di sabato su la mezza notte, fu saccheggiato dalli Turchi Torchiarolo, con morte di quattro persone di detto casale, e ottantaquattro ne furono fatti schiavi. Con Lorenzo Ripa sindico a Brindisi, a dì 10 ottobre 1676 una galeotta turchesca fece sbarco tra la torre della Penna e la torre delle Teste, e fece dodici schiavi dalle masserie vicine e a Brindisi. Perciò, in questo sindicato si fece la muraglia, o vero cortina, che sta attaccata tra il torrione dell’Inferno con quella della porta di Mesagne.» “Cronaca… E a Brindisi quelli furono anche tempi di carestie, la più grave delle quali si verificò nell’anno 1694, una carestia generale di grano, di vino, d’orzo, di fave, nonché di tanti altri commestibili. E poi, per colmo delle sventure, l’8 settembre di quello stesso anno: «Con Francesco VillanoYa sindico, alle ore 18 circa, stando l’aria ventosa, successe in questa città un orrendo terremoto, che durò per spatio di un Credo posatamente recitato, con aver tre volte una dopo l’altra scosso la terra, e tremare le mura delli abitanti, e il mare si scommosse come se fosse stata una fontana rotta, con aver apportato una puzza di fango che durò più di mezz’ora continua, con terrore e spavento di tutti li cittadini. Per gratia di nostro signore Gesù Cristo non successe danno alcuno.» “Cronaca… E non finì lì: il seguente 29 settembre, si produsse un disastroso incendio nel monastero di San Benedetto che ne distrusse una buona metà, obbligando le monache negre di clausura a uscire in piena notte con l’abbadessa donna Cecilia Pilella, per rifugiarsi nel vicino monastero di Santa Maria degli Angeli. Ebbene, presagi o non presagi, nel luglio del 1707 il governo spagnolo sul regno di Napoli era cessato e i nuovi governanti si cominciarono ad insediare, nella capitale e sul resto del territorio, Brindisi inclusa: «Con Giacomo Pignaflores sindico, il 21 aprile 1708 giunse il generale imperiale conte di Caraffa con settanta soldati, tra ussari e tedeschi, e questi andavano con armi bianchi, e visitò tutti due castelli, li torrioni, e cortine, e il mare, e al dì 23 partì.» “Cronaca… Carlo d’Asburgo fu quindi re di Napoli dal 1707 al 1734 e fino al 1711 governò da Barcellona, ove risiedeva come re di Spagna nell’attesa della fine della guerra di successione spagnola. Poi, passato nel 1711, per la morte del fratello Giuseppe I, sul trono imperiale di Vienna col titolo di Carlo VI, continuò a governare il Regno di Napoli da quella nuova sede, ma non vi mise mai piede e di Napoli e del suo regno non seppe mai altro se non quello che gli veniva riferito. E come andarono le cose, lo vedremo nel prossimo capitolo. (1 - Continua)


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otto anni di vacanza seguiti all’arcivescovo Barnaba De Castro, un nuovo arcivescovo, lo spagnolo Paolo de Villana Perlas, il quale trovò l’episcopio opo una lunga transizione più o meno guerreggiata, iniziata nel in stato di grande abbandono e si apprestò al suo ricondizionamento. Decise 1707 con l’entrata in Napoli dell’esercito austriaco e l’uscita dei inoltre, di far costruire sul terreno adiacente all’episcopio, un Seminario segovernanti spagnoli, nella primavera del 1714 si firmò il trattato condo il progetto del leccese Manieri, la cui prima pietra fu posata il 27 di Rastadt che venne a legittimare il definitivo passaggio del maggio 1720. Peccato che per la costruzione del Seminario l’arcivescovo regno di NapolDi dagli Spagnoli – che lo avevano dominato per ordinò impiegare materiali estratti dall’antichissimo tempio di San Leucio, circa due secoli – agli Austriaci. Carlo VI d’Asburgo, imperatore del sacro che si trovava in stato di deterioro, commettendo con ciò un gran torto alla romano impero e kaiser d’Austria, assunse il titolo di re di Napoli con il memoria storica della città. A Perlas, nel dicembre 1724, seguì l’arcivescovo nome Carlo III di Spagna, e nominò viceré il conte Wirich Philipp von Andrea Maddalena. Daun. Poi, in Europa ricominciarono a soffiare i venti di guerra e la guerra, quella In Brindisi, gli Austriaci in veste di nuovi governati vi giunsero formalmente della successione polacca, non tardò a riscoppiare. Da una parte si schieranel 1715: «Con Nicolò Brancasi sindico, a dì 4 giugno 1715 vennero di pre- rono i paesi della triplice alleanza, Russia Prussia e la Casa d’Austria con sidio in questa città centocinquanta Tedeschi, col di loro capitano, tenente Carlo VI d’Asburgo, il nostro re di Napoli. Dall’altra, La Francia di Luigi ed officiali e a dì 13 detto venne il dispaccio, che restino appuntate le piazze XV e la Spagna di Filippo V, entrambi Borbone e già da tempo alleati. Fia tutti gli artiglieri, tanto a quelli delle due fortezze, quanto a quelli della lippo V entrò trionfante a Napoli il 17 maggio del 1734 e, con la battaglia città. A 18 detto dalli sopraddetti Tedeschi centocinquanta, cento col di loro di Bitonto del 25 maggio, defenestrò dopo 27 anni Carlo VI d’Austria dal capitano andarono nel Forte e cinquanta con il tenente passarono al castello trono, nominando re Carlo di Borbon, figlio suo e della duchessa di Parma di terra. La sera dell’istesso giorno venne in questa città il generale tedesco Elisabetta Farnese. Nel mentre, il 7 maggio, di fatto in fuga, era giunto da Valles e il giorno seguente 19 andò nel castello di terra e sbarrò le piazze Taranto a Brindisi il viceré austriaco, conte Giulio Borroneo Visconti, per alli Spagnoli, però li vecchi che andassero al Montone in Napoli, se voles- poi – il 15 – dirigersi con tutta la sua corte a nord per abbandonare il regno sero servire, e li giovani all’Ungheria, se anche volessero servire; e il giorno napoletano. E il 10 settembre 1734 capitolò la fortezza di mare e gli Spa20 andò al Forte e fece il medesimo. Discesero dal Forte in questa città set- gnoli presero Brindisi. tecento anime e cento in circa dal castello di terra, mentre nessuno volse Or dunque, chiusa in tal modo dopo 27 anni la parentesi austriaca, cos’altro andare a servire [preferendo, pur se in miseria, rimanere a Brindisi, nono- nel Regno di Napoli, oltre alle carestie e ai terremoti, era rimasto immutato stante l’antipatia dei brindisini maturata per quel momento nei loro con- con gli Austriaci al governo rispetto a quando al governo c’erano stati gli fronti, come manifestata anche quando nessuno volle prestarsi per il trasloco Spagnoli? E, invece, oltre alle uniformi dei soldati inviate direttamente da delle loro famiglie e le loro masserizie]. Poi però, a dì 24 luglio 1715, venne Vienna, cosa – se pur ben poca – c’era stato di diverso? Ebbene, si può anun nuovo dispaccio da S.E. e tutti gli artiglieri spagnoli furono reintegrati ticipare che molto, anzi moltissimo, non cambiò. Del resto, 27 anni non son nelle loro piazze, ed officiali, eccetto però due vecchi, come inabili a ser- poi tanti, specialmente se rapportati agli altri, circa duecento, del dominio vire.» “Cronaca dei Sindaci di Brindisi 1529÷1787”. spagnolo e se si considera che in buona parte – quanto meno i primi 6 o 7 Nell’anno 1716, il 15 marzo, l’arcidiocesi di Brindisi ebbe finalmente, dopo – furono di fatto ancora anni di guerra. In pratica quindi, si trattò di circa

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un solo ventennio di governo effettivo austriaco. E comunque, in quel pur breve governo non mancarono alcune poche buone intenzioni. «Dopo le criticità dei primi anni, dovute alle condizioni di estrema dissolutezza in cui gli Austriaci incontrarono l’economia del regno e alle necessità comunque impellenti e improrogabili della guerra, Vienna ricorse allo strumento fiscale – pur incappando nelle difficoltà frapposte dalle forze locali opposte ai tentativi riformistici finanziari – stimolando e rinnovando le finanze con l’istituzione del Banco di San Carlo preposto al riordino del debito pubblico napoletano, anche se gli strumenti e gli incentivi destinati allo sviluppo delle attività minerarie, manifatturiere, mercantili, marittime non valsero a superare il profondo stato di arretratezza del regno. Si ridusse – a esplicita richiesta dei sudditi del regno – l’eccessiva autorità del viceré, dando maggior importanza al Collaterale, una specie di Parlamento nominato tra la classe baronale e nobilesca che affiancava il viceré nell’amministrazione del potere esecutivo, senza che però in alcun modo divenisse minimamente vincolante. Si crearono una ‘Giunta di Commercio’ e una ‘Giunta delle Arti’ che risultarono essere di una certa utilità. Si tentò di eliminare i monopoli, esautorando però con ciò le corporazioni artigiane. Si adottò verso il clero una politica ostile nei principi e tra il 1710 e il 1722 Sopra il seminario di Brindisi, a destra Carlo III di Borbone entra a Napoli il 17 maggio 1734

si sospesero i lauti benefici concessi al papato [a Brindisi, l’11 luglio 1735 si informò la città che “tutti li familiari dell’arcivescovo, cursori, sagrestani e preti, pagassero le gabelle e non fossero più franchi] anche se, di fatto, i beni ecclesiastici in tutto il regno rimasero nella sostanza liberi da imposte. Fu istituita una ‘Giunta del Buon Governo’ per riordinare l’economia dei Comuni, che rimase però inoperante all’urtare i privilegi della feudalità baronale e clericale.» “Il Regno di Napoli fra Spagna ed Austria” G. Garofalo, 1964. A Brindisi, lo si legge nella Cronaca dei Sindaci in relazione ai relati dell’anno 1729 con Francesco Basimeo sindaco, le condizioni economiche in cui versava il Comune [l’Università come si diceva allora] erano così misere «per nulla ristorate dal meschino sussidio quadrimestrale concessole dalla Real Corte» e le finanze talmente stremate, che non si poteva far fronte alle esigenze più modeste «onde, quando l’orologio [della vecchia torre cinquecentesca che, danneggiata dal terremoto del 1743, fu nel 1764 sostituita dalla settecentesca nuova torre dell’orologio, poi imperdonabilmente abbattuta dagli amministratori cittadini nel 1956] non sona essendo sconcertato, il sindaco non l’accomoda de proprio, ma s’aspettano li quattro mesi e la città è diventata una massaria, non sapendosi che ora sia e specialmente quando non vi è il sole, essendo l’aria nuvolata.» Ma comunque, il punto dolente sul quale caddero tutte le buone intenzioni e i buoni propositi del nuovo governo fu quello fiscale: le tasse continuarono a crescere e crescere, per incrementare al massimo le entrate dello Stato, rapace per sé e necessitato per le immancabili guerre, di fatto, esattamente – né più né meno – come al tempo dei tanti governi spagnoli precedenti. D’altra parte, una gran parte della struttura amministrativa dello Stato austriaco si appoggiò direttamente sulle risorse umane spagnole, cioè sugli Spagnoli che non vollero emigrare e rimasero nel regno a collaborare – come nulla fosse avvenuto – con i nuovi dominatori, e da questi furono ampiamente ricompensati e mantenuti come impiegati, funzionari, nobili, feudatari, eccetera. Naturalmente, quanti avevano patteggiato sin dalla prima ora per gli Austriaci si trovarono in una posizione di forza; più delicata era la situazione per quanti, invece, avevano sostenuto apertamente i Borbone: alcuni di questi abbandonarono il regno e qualcun altro salì sul carro dei vincitori. La gran parte dei sudditi napoletani, di praticamente tutti i ceti medio-elevati, osservando gli eventi non si era tuttavia schierata apertamente e, quindi, si adattò senza grosse con-

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seguenze ai nuovi governanti d’oltralpe: «la città pensò bene di restare quieta e non mostrarsi contraria, ma chi era più potente e restava vincitore, a quello si dovesse plaudire…». Sfogliando, in effetti, le circa centocinquanta pagine che nella ‘Cronaca dei Sindaci di Brindisi 1529-1787 di Pietro Cagnes e Nicola Scalese’ sono riservate ai ventisette anni del governo austriaco 1707-1734, i cognomi dei sindaci, degli eletti, dei nobili, nobili viventi e di quanti altri facoltosi che contavano, continuano ad essere più o meno gli stessi nomi presenti nelle pagine corrispondenti agli anni precedenti, e più o meno gli stessi presenti anche in quelle degli anni successivi: «Leanza, Montenegro, Pignaflores, De Castro, Perez, Scolmafora, Pizzica, Baccaro, Vavotici, Stea, Mugnozza, Falces, Ripa, Palma, Cuggiò, Monticelli, Villanova, Santabarbara, Brancasi, Basimeo, Tarantino, Latamo, Cantamessa, Baoxich, Ernandez, D’Adamo, Tarandafilo, Mezzacapo, Armengol, Marzolla, Scalese, Reijes, Ferreijra, De Dominici, Pinto, Scatiolo, Dell’Aglio, Sala, Amorea, Latamo, Rascaccio, Greco, Terribile, Blasi, Marzo, Lubelli, Granafei, eccetera.» E comunque, l’aver praticamente lasciato una buona parte dell’apparato amministrativo e della feudalità nelle stesse mani di coloro che ne fruivano già da tempo, fece sì che si perpetuasse il mal costume caratteristico dell’amministrazione e della feudalità spagnole, con tutti i tanti suoi relativi difetti e malanni. L’esosità fiscale non era diminuita, anzi si era accentuata. La decadenza universale della morale pubblica era continuata anch’essa e la giustizia era divenuta quasi un’utopia. L’amministrazione della cosa pubblica era del tutto scandalosa e, infine, il dissanguamento del popolo aveva raggiunto limiti inverosimili. Per cui, inevitabilmente, la miseria e lo scontento del popolo, anche durante quel trentennio, continuarono e si consolidarono. «Cosa dunque lasciò dietro di sé di buono il dominio austriaco? Fu ricordato nel seguito dei tempi, pur nelle delusioni che il nuovo dominio borbonico portò ancora un volta ai sudditi del regno napoletano? No! Pur nel non brevissimo lasso di tempo della sua durata, esso non accese alcun entusiasmo nei sudditi di quel viceregno, non promosse nessun interesse, non legò a sé nessuna particolare classe, non beneficiò in particolare modo nessuno: nessuno amò, da nessuno fu amato. E nessuno lo rimpianse, E quando passò, fu come se esso non ci fosse mai stato.» “Il Regno di Napoli fra Spagna ed Austria” G. Garofalo, 1964. (2 - Fine)


CULTURE

Il trasferimento del vescovo a Oria: inizi di un conflitto )@>@C:@=CB>C<B8@<=@C;?>>AC;B@:?9BC;BC&<B=;B9B A>>AC,-B?9AC>A8B=AC9BC<B6<B98B= C>AC9?;?C ;BC &($ #($ '% !##&

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ul volgere della fine del VII secolo, Brindisi versava in condizioni deplorevoli, dopo una graduale e costante decadenza che, iniziata con la ventennale guerra greco-gotica (535553), si era via via accentuata durante i cento e più anni di dominio bizantino, sotto l’amministrazione di quei Greci risultati vincitori, i quali da Otranto – assurta a capitale del Ducato di Calabria cui Brindisi apparteneva – esercitavano il malgoverno con esosi patrizi e inetti funzionari, stimolando il diffondersi di una corruzione imperante, mantenendo un precario stato di sicurezza sulle vie di comunicazione terresti infestate dal brigantaggio e, soprattutto, provocando la miseria generalizzata e lo spopolamento della città e del suo entroterra. Già alla fine del VI secolo, la situazione di Brindisi era così tanto degenerata che la città, già sede di una delle prime comunità cristiane costituitesi in Italia, non era neanche riuscita ad eleggersi un vescovo proprio, come si evince dalla missiva del 595 in cui il papa Gregorio Magno chiede a Pietro, vescovo di Otranto, di "provvedere alla chiesa di Brindisi priva di una guida dopo la morte del suo ultimo presule, per farne eleggere uno e vigilando affinché non sia elevato un laico alla dignità vescovile". Una vacanza che perdurava ancora nel 601 e che deve essersi prolungata per vari decenni ancora, fino a ben entrato il secolo VII. «…Alla fine del VII secolo era vescovo di Brindisi Prezioso, a noi noto solo dal 1876, quando fu scoperto, in contrada Paradiso, il suo sarcofago con epigrafe. Egli è l’ultimo vescovo residente in Brindisi prima del trasferimento della

sede episcopale in Oria. Questa è la diretta dimostrazione della volontà longobarda di distruggere Brindisi, città per essi difficile da difendere contro i Bizantini… Ad una fase di sbandamento della cittadinanza si può attribuire questo sepolcro, sia per il luogo del ritrovamento, in una contrada lontana dalla città e dalla necropoli romana, sia per le caratteristiche dell'epigrafe… La distruzione della città a opera dei Longobardi di Benevento determina il trasferimento della cattedra episcopale in Oria… I Longobardi, distrutta Brindisi intorno al 674, fecero di Oria il loro caposaldo facile da difendere grazie alla sua posizione sopraelevata. Allora fu anche sede dei vescovi di Brindisi come conferma l'epigrafe che riporta il nome del vescovo Magelpoto…» [G. Carito, 2007]. Prezioso, è scritto sul suo sarcofago, morì un venerdì 18 agosto – forse del 685 o, più probabilmente, del 674 – poco dopo quindi, o poco prima, della conquista longobarda della città e fu comunque assente nel marzo del 680 al Concilio romano indetto da papa Agatone, in cui Brindisi non fu rappresentata. I Longobardi, in effetti, già da più di un centinaio d’anni – nel 568 – erano penetrati in Italia attraverso il Friuli e in poco tempo avevano strappato ai Bizantini gran parte del territorio peninsulare. Posero la loro capitale a Pavia e raggrupparono tutte le terre sottomesse in due grandi aree: la Langobardia Maior, dalle Alpi all’odierna Toscana e la Langobardia Minor, costituita dai territori immediatamente a est e a sud dei possedimenti centro nordici rimasti bizantini i quali, attraverso parte delle attuali Umbria e Marche, si stendevano da Roma a Ravenna. Mentre la Langobardia Maior fu spezzettata in numerosi ducati e tanti gastaldati, la Minor si

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articolò in solo due potenti ducati, quello di Spoleto a nordest di Roma e quello di Benevento, che al sudest di Roma comprese i territori della Lucania e buona parte di quelli della Campania del Bruzio e della romana Apulia. I Bizantini allora, incentrarono il loro potere residuo nell’Esarcato di Ravenna, dove concentrarono il loro controllo nominale su tutti i territori italiani inizialmente risparmiati dall’invasione longobarda: la Venezia e l'Istria; la Liguria; la Pentapoli; il Ducato romano; il Ducato di Napoli e il Ducato di Calabria; con inoltre la Sicilia, la Sardegna e la Corsica. E, inevitabilmente, sul Ducato di Calabria si riversarono e si concretizzarono presto le mire e le pressioni espansioniste dei Longobardi di Benevento. Nel 605, dopo aver già allargato i confini del proprio territorio a scapito dei Bizantini, Arechi I, duca di Benevento, stipulò con quelli un’instabile tregua, che durò fino a quando l’imperatore bizantino Costante II sbarcò a Taranto nel 663, liberando temporalmente quasi tutto il meridione dalla presenza longobarda, senza però poter espugnare Benevento, energicamente difesa dal duca Romualdo I. Dopo l’omicidio dell’imperatore Costante II però, avvenuto a Siracusa nel 668, i Longobardi del duca Romualdo I recuperarono gran parte dei territori e delle città del meridione d’Italia, occupando anche parte dello strategico Ducato di Calabria, in particolare Taranto Oria e, intorno al 680, anche Brindisi, una città già in profonda crisi, che “abbandonarono essendo un porto per essi inutile e comunque difficile da di-


Sopra il seminario di Brindisi nella prima parte del Novecento, in basso Urbano II, papa dal 1088 al 1099. Nel 1089 consacrò il perimetro della cattedrale di Brindisi e ordinò all’arcivescovo Godino di trasferire la sede da Oria a Brindisi

fendere contro gli abili navigatori bizantini” i quali, in effetti, avrebbero potuto evidentemente utilizzarlo in qualsiasi momento per riaprire una testa di ponte sul territorio peninsulare. Eventualmente furono proprio gli stessi Longobardi che, distrutta Brindisi, conquistata Oria – già roccaforte bizantina ed elevata a caposaldo principale di tutto il territorio adiacente – e convertitisi al contempo al cristianesimo romano, favorirono l’instaurarsi in quella città della cattedra episcopale, forse con il longobardo Megelpolto, primo ves c o v o , eventualmente tra fine ‘600 e primi ‘700: nel concilio indetto a Roma dal papa Agatone nel 680, infatti, neanche Oria fu rappresentata. Poi, sui nomi e sui fatti degli eventuali immediati successori di Megelpolto non ci sono notizie e bisogna attendere il finire del secolo IX per sapere di un nuovo vescovo con sede in Oria. Si tratta dell’oritano Teodosio, il quale fu vescovo per trent’anni – dall’865 all’895 – nel mezzo dei quali, muovendo da Otranto e Gallipoli, i Greci riacquisirono il controllo su Oria. Teodosio ottenne la restituzione a Brindisi di una parte delle reliquie del primo vescovo di Brindisi, san Leucio – che erano state trafugate nottetempo da un gruppo di Tranesi sul finire del VII secolo – le quali furono riposte nella basilica che lo stesso Teodosio fece costruire e che fu consacrata dal suo successore, vescovo Giovanni. Questa circostanza è per sé sufficiente prova del fatto che Teodosio si considerava essere vescovo non solo di Oria, ma anche di Brindisi, nonché vescovo di Brindisi con sede in Oria. Dopo Teodosio, morto nell’895, la successione dei vescovi di Oria e di Brindisi con sede in Oria presenta una nuova lacuna, mentre il debole equilibrio da lui intessuto tra la chiesa di Roma e quella di Costantinopoli fu radicalmente sconvolto da quando i Saraceni, nel 925 dopo aver devastato Brindisi, giunsero una prima volta – e non sarebbe stata l’ultima – a Oria, razziandola e deportando in Sicilia molti dei suoi abitanti. L’organizzazione ecclesiastica fu da allora condizionata direttamente dalle vicende politiche e militari intercorse fra Bizantini e Longobardi in lotta per il controllo del territorio, cosicché la stessa area fu di fatto spesso regolata da due giurisdizioni differenti, quella latina e quella bizantina. In tali circostanze, fu il vescovo di Canosa a coagulare e guidare i latini da Bari, dove aveva trasferito la sua sede e dove di fatto esercitava da metropolita con l’obiettivo di contrastare

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e contenere l’azione del metropolita di Otranto. «…La successiva egemonia di Bisanzio sul Salento determina il tentativo di comprendere le diocesi salentine nel patriarcato di Costantinopoli. Roma, a salvaguardia dei propri diritti, attribuisce il titolo della sede di Brindisi ai vescovi di Canosa. Si hanno così vescovi residenti la cui elezione è confermata da Bisanzio e vescovi nominali cui il titolo è conferito da Roma… Così, vescovo di Brindisi fu Giovanni, arcivescovo di Canosa e Brindisi dal 952 al 978, risiedeva in Bari e si sottoscriveva Archiepiscopus Sancte Sedis Canusine et Brundusine Ecclesie. Gli successe Paone, dal 978 al 993, anch’egli arcivescovo di Canosa e Brindisi, anch’egli risiedeva in Bari e anch’egli si sottoscriveva Episcopus Sancte Sedis Kanusine et Brundisine Ecclesie… II rito greco, comunque, si affiancò più che sostituirsi a quello latino, anche perché in quel periodo è possibile vi siano stati vescovi latini eletti dal popolo e dal clero, poi confermati dal patriarca di Bisanzio» [G. Carito, 2008]. Parallelamente, ma in Oria, vi era Andrea, episcopus oritanus riconosciuto da Costantinopoli, il quale in pieno agosto del 979 era stato ucciso dal protospatario imperiale Porfirio, autorità bizantina dimorante in Oria, a conseguenza di un aspro litigio sorto per strada tra quelle due figure del potere cittadino. Trascorsi otto anni dall’assassinio di Andrea, l’imperatore bizantino nominò Gregorio vescovo di Brindisi, Oria, Ostuni e Monopoli, e questi esercitò il suo presulato dal 987 al 996 dalle sedi di Monopoli e Ostuni. Certo è, che la confusione regnava sovrana nelle chiese dei territori del Tema bizantino della Langobardia – fondato nell’892 e poi unificato nel 975 con quello di Calabria nel Catepanato d’Italia – in cui i vescovi eletti dal clero locale venivano consacrati dal pontefice esercitando in diocesi considerate tutte suburbicarie ed in cui, con la sola eccezione di quella di Otranto il cui vescovo sempre riconobbe l’autorità del patriarca di Costantinopoli, i vescovi latini cercavano di mantenere certa indipendenza dall’ingerenza del patriarca e dei funzionari bizantini. Giovanni, successore di Gregorio, trascorso già un ventennio dalla morte di Andrea, tornò a risiedere in Oria, elevato alla dignità di arcivescovo di Brindisi e Oria. Sia Giovanni (996-1038) che i suoi successori, quali il greco Leonardo (1038-1051), il latino Eustachio (1051-1074) e l’altro greco Gregorio (10741080), continuarono a risiedere in Oria. Poi, nel 1085 fu nominato arcivescovo di Brindisi Godino, un benedettino originario di Acerenza, il quale iniziò anch’egli a esercitare il suo episcopato nella sede di Oria. Ma era finalmente giunto il momento di voltare pagina, con l’archiviazione della secolare controversia tra Costantinopoli e Roma per il controllo delle chiese del meridione italiano ed in particolare di quelle pugliesi, tra le quali la brindisina. Completata la conquista normanna nel corso del secolo XI, infatti, le chiese ritornano tutte alle dipendenze della Chiesa latina, e da Roma si riorganizzarono le diocesi: le metropolite e le rispettive suffraganee. Così, il nuovo clima politico, determinatosi con la scomparsa dei domini greci in Italia e con la conquista normanna di tutto il meridione italiano, provocò il ritorno della diocesi di Brindisi alla chiesa latina. Dopo questa lunga ma necessaria premessa, la seconda parte di questo racconto proseguirà con le vicissitudini legate direttamente alle aspre controversie che per cinque secoli animarono le relazioni tra la chiesa brindisina e quella oritana, alla ricerca della definizione circa la supremazia dell’una sull’altra e viceversa. (1 - Continua)


CULTURE

Gregorio XIV e il via libera all’arcivescovo di Brindisi &=4=@ @?::>@6>@?74;>@5=:9;?79>@ 9;?@8?@5%><7?@/;>:6>7>:?@<@ 0<88?@=;>9?:? 6>@ ('# "'#!&% $""(

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onquistata definitivamente Brindisi nel 1070, i Normanni procurarono di riscostruire e ripopolare la città e Goffredo, "dominus" normanno di Brindisi, ottenne che l’arcivescovo Godino (1085-1099) tornasse a fissare la cattedra arcivescovile nella sede originaria. Il pontefice Urbano II, infatti, il 3 ottobre 1089 scrisse da Trani una lettera, ingiungendo al vescovo Godino – il quale, omesso il titolo di Brindisi, si considerava solo vescovo di Oria – che non si trattenesse oltre in Oria e che trasferisse la sede episcopale a Brindisi "per ristabilirne la sede originaria". Nello stesso 1089, il papa – il primo nella storia della città – venne a Brindisi ove consacrò il perimetro della Cattedrale e dispose che alla stessa chiesa fosse restituita la dignità episcopale. Tutto ciò costituì il detonante ultimo che innescò la – secolare – diatriba su quale dovesse essere la sede protocattedra. In un primo momento Godino si rifiutò di attuare le disposizioni del papa e furono necessarie altre due lettere pontificie in cui si minacciava la scomunica, per indurre il presule a trasferirsi a Brindisi. Così il ricalcitrante Godino, finalmente e comunque di malavoglia, si trasferì a Brindisi e, per prima volta nel mese di luglio del 1098, si sottoscrisse Archiepiscopus Brundusinus. Quel trasferimento da Oria a Brindisi fu però inevitabilmente estremamente sofferto, e la lacerazione che causò fra il clero delle due città fu così grave e profonda che perdurò nei cinque secoli successivi, durante i quali non si placò mai del tutto la

contesa per la residenza del vescovo e la titolarità della diocesi. Già nel 1099, fu necessario per il nuovo pontefice, Pasquale II, continuare ad insistere su Godino per ricordargli che la chiesa di Oria era soggetta a quella di Brindisi. E fu necessaria una bolla papale del 23 marzo 1101 al nuovo presule Nicola, subentrato a Baldovino arcivescovo di Brindisi dopo Godino, per riaffermare la titolarità metropolita di Brindisi sulle suffraganee Oria, Ostuni e Mesagne. Poi, lo stesso pontefice Pasquale II, ancora e più volte, dovette intervenire: nel comunicare al clero e al popolo di Oria la consacrazione di Guglielmo, nuovo arcivescovo di Brindisi e di Oria dopo Nicola, e nello scrivere una lettera al duca Ruggero per confermare essere Oria soggetta al presule brindisino. Alla sua morte, il papa Callisto II deve riaffermare la subordinazione di Oria a Brindisi e indicare che il nuovo arcivescovo, il cardinale Bailardo, fisserà la sua dimora nell’antica sede della diocesi: Brindisi. Il 24 dicembre 1165, il pontefice Alessandro III intima alla chiesa oritana di non ledere i diritti dell’arcivescovo di Brindisi Lupo, succeduto a Bailardo e il 28 giugno 1178 intima di obbedire all’arcivescovo di Brindisi, Guglielmo, succeduto a Lupo. Anche il seguente papa, Lucio III, il 2 gennaio 1182 si dirige al clero e al popolo oritani affinché riconoscano la supremazia del nuovo arcivescovo di Brindisi, Pietro di Bisiniano succeduto a Guglielmo e, nuovamente il 31 luglio 1183, deve reiterare loro di obbedire all’arcivescovo Pietro. Ed ancora, il 16 dicembre 1199, Innocenzo III interviene per indurre Gerardo, succeduto a Pietro, a rientrare a Brindisi, sede della sua

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diocesi. Poi, verso la fine del secolo XIII, l’arcivescovo Adenolfo – succeduto dopo Pellegrino, a Giovanni di Trajecto, Giovanni di Santo, Pietro Paparone e Pellegrino di Castro – in forma polemica si sottoscrive Horitane et Brundusine Sedis Archiepiscopus, facendo riaffiorare le antiche aspirazioni del clero oritano e i contrasti, in realtà rimasti sempre vivi, tra le due città. Sotto i regni angioini e aragonesi, sia Brindisi che Oria attraversarono lunghi periodi di relativo declino economico, culturale e demografico, tanto da non essere più considerate sedi arcivescovili troppo ambite, rimanendo comunque sempre giuridicamente unite sotto lo stesso presule, residente in Brindisi quale Brundusinus et Uritanus Archiepiscopus, anche se per gli oritani trattavasi di Uritanus et Brundusinus Archiepiscopus. Lo scisma d’occidente consumatosi tra il 1378 e il 1417, creò forte disorientamento e i vescovi, per evitare opposizioni e contrasti, preferirono risiedere lontano dalla diocesi. Al loro ritorno il clero trascorreva la sua esistenza nel ristretto ambito del paese di origine e della chiesa di appartenenza, limitandosi al culto e celebrando le più importanti feste liturgiche nelle rispettive cattedrali di Brindisi e Oria, le quali rimasero comunque sempre fortemente antagoniste. Gli arcivescovi, infatti, si sottoscrivevano come vescovi di Brindisi e Oria se i provvedimenti erano presi per la sede brin-


Sopra la sede della curia vescovile di Oria, sotto Gregorio XIV, papa dal 1590 al 1591. Decretò la separazione delle due chiese con Brindisi sede arcivescovile e Oria sede vescovile suffraganea di Taranto

disina, e di Oria e Brindisi se riguardavo la zona della diocesi di competenza oritana. Con il secolo XVI iniziò il lungo periodo vicereale del regno di Napoli e dopo la pace di Cambrai del 5 agosto 1529, Carlo V – sacro romano imperatore e re di Napoli – si arrogò il diritto di nominare nel regno 18 vescovi e 7 arcivescovi, tra i quali quello di Brindisi. Da quel momento la chiesa brindisina, che fino ad allora era appartenuta ai pontefici, divenne regia, garantendo al regno, con la nomina di prelati spagnoli o comunque filospagnoli, l’affidabilità di una città strategicamente importante. Nel 1518, era stato nominato arcivescovo di Brindisi il cardinale Gian Pietro Carafa, il quale però non dimorò mai in città e quando nel 1524 rinunciò, per poi – nel 1555 – divenire papa con il nome di Paolo IV, gli succedette Girolamo Aleandro. Questi, divenuto in seguito anche cardinale, non risiedette quasi mai nella sua diocesi, perché occupato ad assolvere all’incarico di nunzio apostolico. Alla sua morte, nel 1542, Carlo V nominò il nipote Francesco Aleandro quale Brundusinus et Uritanus Archiepiscopus. Quando il nuovo presule visitò Oria – feudo del marchese Gian Bernardino Bonifacio, in annosa vertenza con la Mensa arcivescovile – la città gli si mostrò ostile, permettendogli l’accesso nella chiesa solo dopo lunghe trattative a seguito delle quali Aleandro dovette giurare che nei suoi atti si sarebbe sottoscritto Uritanus et Brundusinus Archiepiscopus. Rientrato a Brindisi però, il 23 marzo del 1542 l’arcivescovo fece compilare dal notaio Nicolò Taccone e dal giudice Nicola Monticelli, copia della bolla del 1144 con la quale il pontefice Lucio II indicava la giurisdizione che si estendeva, oltre che sulla città di Brindisi, anche su Oria, Ostuni, Carovigno e Mesagne. Quindi chiese l’intervento del pontefice e Paolo III, con bolla del 20 maggio del 1545, richiamandosi anche alle bolle di Alessandro III e di Lucio III, ribadì la supremazia del vescovo di Brindisi e che a questi, "Brundusinus et Uritanus Archiepiscopus", clero e popolo di Oria dovevano "debitam obedientiam et honorem". Ma gli oritani, imperterriti, continuarono a non darsi per vinti e continuarono a cercare di replicare e di contrastare in ogni modo anche quell’ennesimo esplicito dettame pontificio, con l’obiettivo di provare la preminenza della loro chiesa su quella brin-

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disina, coinvolgendo nell’ormai plurisecolare controversia, i loro eruditi, studiosi e cronisti, per contrapporli a quelli brindisini. A Francesco Aleandro, nel 1564, succedette il brindisino Gian Carlo Bovio, già arcidiacono della cattedrale di Monopoli e già vescovo di Ostuni. Dopo un paio d’anni dalla sua elezione all’episcopato brindisino, Bovio ebbe una disavvenenza con gli amministratori della sua città, si racconta a causa di un malinteso e, comunque, per una questione futile, una questione di vino: il crescere in Brindisi, su sollecitazione veneziana, della produzione viti-vinicola e, successivamente, il venir meno dei mercati d’esportazione con la conseguente necessità di riversare in città le eccedenze, resero troppo zelanti – nell’applicazione della regola che in città si potesse consumare unicamente vino locale – i responsabili della civica amministrazione, i quali ruppero nella piazza alcuni vasi del vino che l’arcivescovo aveva fatto venir da fuori, per uso personale. Dopo quell’episodio, e pur sanato il malinteso, l’arcivescovo Bovio cominciò a prediligere dimorare in Oria, dove fece edificare un nuovo e suntuoso palazzo vescovile, vi trasferì la sua cattedra e, finalmente, si stabilì in permanenza. Inoltre, stando in Oria incoraggiò la ricognizione di tutti gli antichi diplomi e dei privilegi riguardanti la sede oritana, per far intraprendere – in realtà riprendere – al clero oritano il percorso del reclamo dell’indipendenza dalla chiesa di Brindisi. Poi, nel 1570, l’arcivescovo Bovio, ancora relativamente giovane, morì in Ostuni e, per sua espressa volontà, fu sepolto a Oria. In questo stesso frangente storico, s’inserisce la famosa "Epístola apologetica ad Quintinium Marium Corradum", scritta in data 1°dicembre 1567 dal brindisino Iohannis Baptistae Casimirii al suo amico Quinto Mario Corrado, vicario generale del clero oritano, noto umanista dell’epoca. Un importantissimo ed esteso documento destinato a diventare una pietra miliare per la storiografia brindisina, un manoscritto conservato nella biblioteca De Leo, che è stato recentemente – 2017 – finalmente pubblicato, nella sua versione originale in latino, da Roberto Sernicola. Il successore di Gian Carlo Bovio fu Bernardino Figueroa, arcivescovo di Brindisi dal 1571 al 1586, con il quale ebbe inizio la serie dei vescovi spagnoli che si susseguirono sulla cattedra brindisina fino al 1723. Figueroa risiedette sempre in Brindisi e si schierò apertamente con il clero brindisino sostenendo la supremazia di Brindisi su Oria. Naturalmente, con ciò, ravvivò nuovamente il malcontento nel clero oritano che, guidato dal vicario generale Quinto Mario Corrado, si rivolse sia alla Sede Apostolica sia alla Corte spagnola, per accelerare la causa della definitiva separazione. Dopo la morte di Figueroa, e certamente a causa della ravvivata e inasprita irrisolta controversia, la sede episcopale rimase vacante per ben cinque anni, fino a quando, con bolla del 10 maggio 1591, il pontefice Gregorio XIV sciolse definitivamente l’unione delle due diocesi di Brindisi e Ostuni. Il papa ordinò la divisione delle due chiese: Brindisi avrebbe mantenuto la sede arcivescovile e la sede vescovile di Oria – senza i casali di Leverano, Cellino, Guagnano, Salice e Veglie, assegnati a Brindisi – sarebbe diventata suffraganea della metropolia di Taranto. E così fu, in secula seculorum! C’erano però voluti ben cinque secoli di controversie e di aspri contrasti. (2 - Fine)


CULTURE

Il capitano Monticelli alla battaglia di Lepanto / X =2=<6;>,8=74=5=79>9::;77;#>)8< =; <66;>53;>=*18;5;#>6<>1<:;7:;>4=>79,=6: 4=> *+& $+&#() '$$*

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a battaglia di Lepanto ebbe luogo il 7 ottobre 1571 tra le flotte musulmane dell’Impero ottomano e quelle cristiane della Lega Santa promossa dal papa Pio V, costituita dalla Repubblica di Venezia, l’Impero spagnolo con il Regno di Napoli e Sicilia, la Repubblica di Genova, lo Stato pontifico e Malta. Una battaglia epocale, combattuta nel contesto della lotta per il controllo del Mediterraneo, minacciato dal crescente espansionismo dell’Impero ottomano giunto all’apice della sua potenza. Ai primi di settembre la flotta della Lega con più di 200 navi da guerra si fu adunando nel porto di Messina al comando di Don Giovanni d’Austria e il 4 ottobre si concentrò nel porto di Cefalonia. La lunga e combattutissima battaglia si concluse con la morte del comandante ottomano Alì Pascià e la vittoria delle forze alleate, e suscitò un enorme impatto emotivo in ogni angolo d’Europa. La sua importanza, infatti, dato che i musulmani avevano vinto tutte le principali precedenti battaglie contro i cristiani, fu perlopiù psicologica, mentre nella sostanza, a causa della scarsa coesione tra i vincitori, la battaglia non segnò una svolta vera né definitiva, nel processo di contenimento dell’espansionismo turco. Ben 30 delle galere della potente flotta cristiana che combatté a Lepanto appartenevano allo spagnolo regno di Napoli e su quelle navi s’imbarcarono migliaia di combattenti provenienti da tutte le province del meridione italiano, e molti di loro – quali sudditi e uomini

d’arme del re Felipe II – furono assoldati in Terra d’Otranto. Per quell’epoca, Brindisi, pur mantenendo la sua strategicità dentro del viceregno napoletano, pativa un accentuato impoverimento economico determinatosi in buona parte proprio a causa di quell’espansione turca che stava impedendo o quanto meno limitando drasticamente i traffici marittimi con le dirimpettaie regioni dell’Illiria, la Grecia e l’Egitto, riducendo il commercio e gli scambi a piccolissimi termini. E in quelle così avverse circostanze, per molti Brindisini l’esercizio delle armi costituiva uno sbocco professionale per nulla secondario, ed in pratica interessava tutte le classi sociali, dalle popolari fino alle nobiliari. Del resto, la domanda di risorse umane militari era sempre attiva, giacché dopo il guerreggiato quarantennale regno dell’imperatore Carlo V, suo figlio Felipe II succeduto sul trono di Spagna e quindi di Napoli, dal 1556 al 1600 durante i suoi altrettanti quarant’anni e più di regno, non gli fu per nulla da meno in quanto a guerre: annesse con le armi il Portogallo e guerreggiò a lungo con la Francia, i Paesi Bassi, l’Inghilterra e contro i Turchi. Pertanto, era abbastanza comune ritrovare sui tanti fronti delle tante battaglie combattute in quasi tutt’Europa dagli eserciti spagnoli durante quel XVI secolo, militari brindisini occupando attivamente vari gradi e vari ruoli, spesso di rilievo. Però, non era altrettanto comune per un militare brindisino dell’epoca emergere per meriti propri a fianco e persino al disopra degli stessi spagnoli, naturalmente più numerosi e più favoriti. Eppure, ce ne fu-

il7 MAGAZINE 22 7 febbraio 2020

rono alcuni e tra loro, in primis in quel XVI secolo, Giovanni Battista Monticelli, intrepido capitano che spiccò accumulando meriti formalmente riconosciuti e finanche premiati dallo stesso sovrano Felipe II, distinguendosi su vari fronti fino a partecipare anche in quella storica battaglia che fu Lepanto, il 7 ottobre 1 1. Giovan Battista nacque in Brindisi il 2 gennaio 1541, da Colella Monticelli ed Elisabetta Carbo. Fin da giovane fu attratto dal mestiere delle armi e nel 1563 cominciò a servire nella sua stessa città, da soldato venturiero sotto il conte di Montecalvo. Già nel 1565, prese il largo per combattere contro i Turchi, partecipando agli ordini di Don Garcia de Toledo alla liberazione dell’assediata Malta. Nel 1570, mentre era di presidio a Taranto, passò da quel porto l’ammiraglio Giovanni Andrea Doria diretto con la sua flotta al soccorso di Cipro contro i Turchi, e Monticelli senza indugiare s’imbarcò agli ordini del già rinomato ammiraglio genovese. L’anno seguente, stando di presidio a Crotone, in cui era capitano Francisco Alcorcia, passò di lì Don Giovanni d’Austria comandante dell’armata della Lega Santa diretto al raduno di Messina e Monticelli, alfiere del battaglione ‘Brindisi’, s’imbarcò con tutta la sua compagnia su una delle galere di Giovanni Ambrogio Negrone giunte da Napoli, per di lì a poco partecipare – il 7 ottobre – alla battaglia più emblematica della sua vita:


Sopra la compagnia italiana dei Tercios spagnoli in battaglia a Lepanto, sotto Allegoria della battaglia di Lepanto di Paolo Veronese del 15721573 - Gallerie dell'Accademia di Venezia

Lepanto. Testimoniò il Cap. Giovan Vincenzo Pagano: «Imbarcammo in Napoli con le galere di detta città per andare, sì come andammo, per la giornata navale del 1571, et essendo in Cotrone ritrovammo il Cap. Giov. Battista il quale era Alfiere del battaglione de Brindisi e stava al presidio di detta città, et lassando detto presidio imbarcò con tutta la sua compagnia sopra le galere di Giov. Ambrosio Nigrone, et andò in detta giornata donde combatté molto onoratamente e con soddisfazione de li superiori. Nella quale giornata essendo stati feriti molti soi soldati, et non avendo denari, fu forzato ditto Capitano soccorrerli de soi propri dinari per servitio della Maestà Sua». L’avvocato brindisino Baldassarre Terribile, in un suo articolo del 1898 – da cui sono tratte molte delle notizie qui riportate – commenta aver conosciuto un discendente di Giovan Battista, tale Franco Monticelli già deputato al Parlamento italiano, il quale conservava la corazza e la spada utilizzate a Lepanto dal suo glorioso antenato. Nel 1579, il capitano Giambattista Monticelli è di nuovo in guerra al servizio del re Felipe II, questa volta in Portogallo, al comando di una compagnia di fanteria italiana appartenente al ‘Tercio’ del ‘Maestre de Campo’ Carlo Spinello, il quale testimoniò: «Dato che conoscevo il Capitano Giovan Battista, et che sapevo la sua qualità, et esperto en le cose militari, lo elessi come uno dei miei oficiali, il quale fè una compagnia molto fiorita de più di duecento persone, soldati eletti et de qualità, alli quali fu necessario darli, sì come li diede, quantità di denari più de l’ordinari, a tale venissero servire de buena voluntà. A tempo di detta guerra, si infermarono molti soldati in Gibilterra donde morirono, e Giovan non poté recuperare quello che l’aveva pagato anticipato. Detto Cap. Giov. Battista, in tutte dette occasioni si è portato valorosamente in servitio di Sua Maestà ammaestrando li soi soldati in bene servire, et castigandoli di non commettere bottino né altro in diservitio di Sua Maestà. Specialmente nella battaglia data sul ponte d’Alcantara, detto Capitano si segnalò e si portò da honorato et valoroso soldato, dando soddisfazione di sua persona ai superiori». Poco dopo, in un’altra guerra, questa volta in Fiandra, il capitano Giovanni Monticelli riscuote ancora gli encomi del suo comandante Carlo Spinello: «Portosi sempre valorosamente, et all’ultima scaramuccia si fè li giorni appresso Alpen, essendo della prima fila, fu ferito d’una moschettata nel braccio sinistro della quale resta stroppeato con essersi in essa scaramuccia portato valorosamente come conviene a gentiluomo, et soldato d’honore». Dopo quella seria ferita, con quarant’anni compiti e non potendo più servire sui fronti di guerra, pur restando in servizio Giambattista Monticelli rientrò a casa sua, a Brindisi, e da lì – nel 1583 – inoltrò alla Corona la richiesta formale di un compenso consono con i suoi tanti servizi prestati in armi. Come da prassi, si diede corso a una lunga e dettagliata indagine per corroborare la veridicità e la qualità di quei servizi e, raccolte una gran varietà di testimonianze risultate tutte concordi, fu finalmente emessa un’Ordinanza Reale con la quale si assegnò al richiedente la somma vitalizia di quindici scudi al mese ‘de entretenimiento’, cioè: per suo ricreo. Nel 1585, Monticelli presentò istanza alla Gran

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Corte della Vicaria per essere aggregato nella ‘piazza dei nobili’ della città di Brindisi, ossia per essere riconosciuto quale nobile, adducendo essere ‘gentiluomo’ e che i suoi predecessori, specialmente Pietro suo avo e Colella suo padre, fossero vissuti nobilmente e avessero servito onoratamente e fedelmente Sua Maestà nel 1528 contro l’esercito francopapale-veneziano invasore di Brindisi, e poi in altre occasioni di guerre occorse nel regno di Napoli e fuori. E nella Cronaca dei Sindaci di Brindisi dall’anno 1529 al 1787 di Cagnes e Scalese, è riportato che nel 1597 “Giovanni Battista Monticelli, brindisino, con sentenza definitiva ottiene per la sua famiglia e per sé la patente di nobiltà, nonostante che i procuratori della nobiltà brindisina Sebastiano del Balzo e Teodoro Pando, che dicevano che il suo avo Pietro fosse stato ‘ortista e maestro d’ascia seu mannense esercitando pubblicamente detta arte de lavorare legname et era povero e vile’, si erano opposti alla concessione della patente”. Non è dato di sapere se Giovan Battista Monticelli abbia avuto figli, né si conosce la data della sua morte, mentre all’anno 1603 della stessa Cronaca dei Sindaci di Brindisi, è registrato che “il 5 settembre il capitano Giovanni Battista Monticelli e la sua compagnia ricevono il soldo dei mesi di luglio e agosto per la custodia dei castelli della città”. Aveva Monticelli, a quella data, quasi 62 anni, un’età abbastanza ragguardevole per l’epoca, specialmente in considerazione del fatto che, evidentemente, era ancora in servizio. Quasi certamente finì i suoi giorni in Brindisi, la sua città natale, tra familiari, rispettato dal popolo e, formalmente, da cittadino nobile. Eppure, ci sarebbe da scommetterci, i tradizionali nobili brindisini, nonostante la sentenza della Gran Corte Vicaria, nel loro intimo non credo abbiano accolto da pari quel ‘nobile’ capitano, loro valoroso concittadino. Fu quella, infatti, un’epoca in cui nell’impoverita e provinciale Brindisi, gli appartenenti alle classi abbienti, e soprattutto quelli della classe nobile, vivevano perlopiù una vita frivola, tutta di formalità e piena di litigi, di agitazioni, di ripicchi e pettegolezzi. Litigava l’arcivescovo col Capitolo e talvolta con la città, litigavano i diversi ordini monastici fra di loro, con la civica amministrazione, col Capitolo, coi privati, litigavano i nobili con i nobili viventi. Litigi, che oltre su interessi poggiavano spesso su futili motivi, come quelli di precedenza e di distinzione; e molti dei rapporti erano esternati attraverso formalità di ossequio, espressioni verbali, spalliere o poggioli alle varie sedie riservate negli atti ufficiali, e quant’altro di simile. Basti pensare che durante ben quattro anni, tra il 1558 e il 1562, si prolungò il litigio tra i nobili e i nobili viventi – i discendenti non primogeniti di nobili e coloro che si erano nobilitati esercitando le professioni liberali o militari – a proposito del ceto a cui doveva appartenere il sindaco, finché la lite giunse al Consiglio Collaterale in Napoli, che deliberò salomonicamente stabilendo che per ogni 3 anni, in 2 doveva essere scelto tra i nobili viventi e in 1 tra i nobili. «Fra le mura cittadine di Brindisi, sacerdoti e milizie erano le classi che facevano parlare di sé, mentre la nobiltà, sfaccendata, tronfia e inframmettente, contrastava con la massa degli artigiani, contadini e pescatori, laboriosi sì, ma alle prese col disagio e tenuti estranei alla vita cittadina». [S. Panareo, 1942]


CULTURE

BRINDISINI ARCIVESCOVI: A BRINDISI E ALTROVE .=<@ @38=:>7?@4>@3;5#?@<>7?/?@9?@ 2? ?<@2<>@9?;5=6?@4=<;@><7?5>@6;:;@9?@);4> 9?@ (+% $+%#)* &$$(

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ella ormai più che bimillenaria storia della Chiesa, Brindisi è stata presente fin dai primissimi tempi, di fatto fin dalle origini. Dionigi, vescovo di Corinto nel II Secolo, racconta che l’apostolo Pietro, in viaggio dall’Oriente a Roma sotto l’impero di Claudio, quindi tra il 41 e il 54, si sarebbe imbarcato a Corinto e sarebbe approdato a Brindisi, oppure nella vicinissima Egnathia, portando il messaggio evangelico in terra salentina. «Nei primi decenni della predicazione cristiana, il nuovo messaggio per raggiungere Roma quasi certamente passò da Brindisi. Di conseguenza, la nostra città fu, se non la prima meta, almeno la prima tappa occidentale degli evangelizzatori. La sede vescovile di Brindisi può pertanto risalire a una data anteriore alla pace di Costantino ed è probabile che Brindisi sia la sede vescovile più antica dopo Roma.» [O. Giordano, 1970] Sono stati, infatti, tantissimi – più di cento – i vescovi di Brindisi: 102, per la precisione, quelli dei quali ci è pervenuto il nome secondo la cronotassi ufficiale dell’arcidiocesi, compreso l’attuale arcivescovo Domenico Caliandro e senza computare quei tanti dei quali, probabilmente esistiti nei secoli iniziali della cristianità, non si è tramandato il nome. Eppure, solamente tre, o tutt’al più quattro, di loro sono stati ‘Brindisini’. In compenso, ci sono stati nella storia molti Brindisini vescovi di altre diocesi, e tra di loro ben cinque arcivescovi. Se pur tradizionalmente si attribuisce a Leucio

di Alessandria essere stato il primo vescovo di Brindisi, è possibile che ce ne siano stati anche altri in precedenza, quanto meno uno giacché è documentato che al concilio di Nicea del 325 abbia partecipato, unico vescovo procedente dall’Italia, Marcus Calabriensis, cioè Marco di Calabria, antico nome della regione salentina di cui a quel tempo Brindisi era la città più importante. San Leucio, invece, di cui non è comunque del tutto certa l’epoca in cui visse, dovrebbe essere stato vescovo di Brindisi iniziando il V Secolo e precedendone altri cinque: Leone, Sabino, Eusebio, Dionisio e Giuliano. I primi due, sacerdoti che si sarebbero uniti a Leucio in una delle tappe del suo viaggio a Brindisi e i due seguenti, arcidiaconi partiti con Leucio in quel suo stesso viaggio da Alessandria a Brindisi. Di Giuliano, invece, il primo del quale è formalmente documentata la sua elezione a vescovo di Brindisi in una lettera decretale del pontefice Gelasio I scritta nel 494 e indirizzata al "clero et ordini et plebi Brundusii", non si conosce la provenienza d’origine. Poi, per tutto il VI Secolo, la cronotassi brindisina registra una lunga vacanza che, per il 595 e il 601 è certificata da due missive del pontefice Gregorio Magno. Una vacanza che per molto tempo si immaginò essersi addirittura estesa a tutta la seconda metà del Secolo VIII, fino a quando fu vescovo – per trent’anni, dall’865 all’895 – l’oritano Teodosio preceduto da tale vescovo Paolo. Nel 1881 fu invece scoperto a Brindisi, in contrada Paradiso, un sarcofago con l’epigrafe sepolcrale del vescovo Prezioso, morto un venerdì 18 agosto, datato da R. Jurlaro al declinare del VII secolo in probabile coincidenza con la conquista longobarda di Brindisi: l’ultimo vescovo di Brindisi prima

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del trasferimento della sede episcopale a Oria. Inoltre, G. Carito ha recentemente considerato che i tre vescovi di Brindisi, Proculo Pelino e Ciprio, comunque anteriori a Prezioso, si siano succeduti in sequenza durante quello stesso VII Secolo. Poi, nel 1932, fu ritrovata nei pressi del castello di Oria un’epigrafe dedicatoria citando il vescovo Magelpoto quale promotore della costruzione di una chiesa mariana, attribuita da R. Jurlaro al VII secolo: probabilmente, dunque, il primo vescovo con sede in Oria e comunque il solo conosciuto prima dell’avvento di Teodosio e del suo poco noto predecessore Paolo. Dopo la morte di Teodosio la successione dei vescovi di Brindisi presenta una lacuna di una cinquantina d’anni fino a Giovanni, che nel 952 fu nominato dal papa di Roma vescovo metropolita di Canosa e Brindisi, residente in Bari come il suo successore Paone, metropolita fino al 993. Parallelamente in Oria risiedeva, riconosciuto da Costantinopoli, il vescovo Andrea, assassinato nel 979. Quindi, da Costantinopoli si nominò Gregorio vescovo di Brindisi, Oria, Ostuni e Monopoli, il quale esercitò il suo presulato dal 987 al 996 dalle sedi di Monopoli e Ostuni. Nel 996 lo seguì Giovanni, che fu il primo ad essere elevato dal patriarca di Costantinopoli alla dignità di ‘arcivescovo’ di Oria e Brindisi, e sia lui che i suoi successori, Leonardo, Eustachio e Gregorio, continuarono a risiedere in Oria fino al quinto arcivescovo Godino, il numero 23 della crono-


Un ritratto di monsignor Setttimio Todico a in basso un busto che raffigura San Leucio

tassi, che nel 1098, obbedendo alle reiterate intimazioni del papa Urbano II, finalmente riportò – dopo quattro secoli – la sede episcopale a Brindisi, dov’è rimasta ininterrottamente fino ad oggi, con Caliandro arcivescovo numero 102 della cronotassi. Quali dunque, i soli quattro Brindisini ad essere stati nominati arcivescovi di Brindisi? Proculo nel VII Secolo, Bernardino Scolmafora nel 1529, Giovanni Carlo Bovio dal 1564 al 1570 e Settimio Todisco dal 1975 al 2000. Sul primo, Proculo, causa l’antichità dell’epoca in cui visse, sono pochissime le notizie pervenute e, tra l’altro, sussiste anche qualche dubbio sulla sua effettiva origine brindisina. Ecco quanto su di lui scrive G. Carito, 2007: «Venerato come beato, secondo l’Ughelli sarebbe stato ‘romano di nazione’; diversamente, Guerrieri lo ritiene brindisino “ma di famiglia romana qui stabilitasi e che il suo nome fosse stato di A. Proculo – Aulo Proculo – ma che per incuria degli amanuensi siasi scritto Aproculo. Infatti, in una lapide sepolcrale qui esistente, tra gli altri nomi su di quella scolpiti si legge PROCULUS V. A.”. Le poche notizie che si hanno su questo vescovo si ricavano dalla biografia di San Pelino, suo immediato successore. Proculus, ‘jam aetate grandaevus’ avrebbe designato Pelino quale suo successore recandosi con lui a Roma ad ottenere conferma

della nomina. Sulla via del ritorno, dopo dodici anni di episcopato, sarebbe stato colto da morte e sepolto a poca distanza da Anzio.» Bernardino Scolmanfora, invece, non riuscì neanche ad insediarsi come arcivescovo di Brindisi – di fatto non è compreso tra i 102 della cronotassi ufficiale – giacché, quando nel 1529 il papa Clemente VII lo nominò arcivescovo di Brindisi come premio alle sue virtù e alla sua dottrina, non fece in tempo a prendere possesso della sua sede arcivescovile, perché fu colto da morte improvvisa in Castro, dov’era vescovo. Bernardino era nato nel seno di una delle famiglie brindisine più importanti dell’epoca e, intrapresa fin da giovane la carriera ecclesiastica, era stato vicario generale di Taranto e poi vescovo di Lavello, ove dimorò fino al 19 gennaio 1504 quando, appena passato il regno di Napoli sotto la Spagna del re Ferdinando il cattolico, venne trasferito dal nuovo papa Giulio II al vescovato della Chiesa di Castro e da lì, il dotto vescovo Scolmafora, intervenne al Concilio di Laterano V, indetto da Giulio II e celebrato tra il 1512 e il 1517 da Leone X. Giovanni Carlo Bovio nacque a Brindisi il 5 gennaio 1522, figlio di Andrea, nobile bolognese e di Giulia Fornari, nobile brindisina. Fu mandato a Bologna presso i parenti paterni per frequentare l’università. Laureatosi con lode in diritto, andò a Roma dove abbracciò lo stato ecclesiastico e si dedicò allo studio della teologia e delle lingue classiche e orientali. Fu arcidiacono della cattedrale di Monopoli e nel 1557, sotto il pontificato di Paolo IV, venne nominato vescovo di Ostuni, succedendo allo zio paterno Pietro Bovio. Nel 1562 partecipò, distinguendosi non poco, ai lavori del Concilio di Trento indetto da Pio IV e il 21 giugno 1564 fu nominato arcivescovo di Brindisi e Oria dallo stesso papa. Nel 1565, arcivescovo appena insediato, visitò tutta la diocesi e quindi diede formali disposizioni, con ordinamenti e sante prescrizioni, per riformare e stabilire la morale e la disciplina – tutte cose che rilevò essere alquanto carenti – tra il clero della diocesi.

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Nel 1566 chiamò a Brindisi i Padri Cappuccini, che costruirono il loro convento nei pressi dell’attuale chiesa della Pietà, e nel 1568 concesse ai Minori Osservanti di San Francesco la chiesa di Santa Maria del Casale. Ebbe poi qualche disavvenenza con gli amministratori della città per motivi, in principio, futili – una questione di vino – e cominciò a prediligere con sempre più frequenza dimorare in Oria, dove edificò un nuovo palazzo vescovile a sue spese, vi trasferì la sua cattedra, e finalmente vi dimorò in permanenza. Il crescere, su sollecitazione veneziana, della produzione viti-vinicola e, successivamente, il venir meno dei mercati d’esportazione nel levante e la conseguente necessità di riversare in città le eccedenze, resero troppo zelanti nell’applicazione del privilegio i responsabili della civica amministrazione i quali ruppero nella piazza alcuni vasi di vino che l’arcivescovo fece venir da fuori per uso personale. L’arcivescovo Bovio morì ancora abbastanza giovane a Ostuni nel settembre del 1570, e per sua esplicita volontà, fu sepolto a Oria. A Brindisi non pochi coltivarono un certo rancore nei suoi confronti, e così: «Alla morte di questo benemeritissimo arcivescovo, sebbene in Brindisi, per l’insolenza e la nequizia di pochi, si fossero suonate le campane a festa, pure da tutti gli onesti cittadini e dal pubblico magistrato s’intese col massimo dolore; e gli si celebrarono solenni funerali.» [V. Guerrieri, 1846]. Certo è, comunque, che Bovio arcivescovo di Brindisi e Oria, dalla sua nuova sede in Oria, si dedicò per anni a resuscitare e sostenere alacremente le mai del tutto sopite aspirazioni del clero oritano alla supremazia sulla chiesa di Brindisi. E dovevano trascorrere quattro lunghi secoli prima che un altro Brindisino fosse elevato alla Cattedra brindisina: Settimio Todisco, nato a Brindisi il 10 maggio 1924 – ordinato presbitero il 27 luglio 1947, ordinato vescovo titolare della spagnola Chiesa di Bigastro il 15 dicembre 1989 e vescovo di Ostuni il 15 febbraio 1970 – fu promosso dal papa Paolo VI arcivescovo di Brindisi il 24 maggio 1975 e dopo 25 anni di presulato, il 5 febbraio del 2000, per raggiunti limiti d’età, divenne emerito arcivescovo. Giovanissimo studiò nel Seminario diocesano di Ostuni ed in quello regionale di Molfetta. Fu poi docente e vicedirettore nel Seminario di Ostuni, dove insegnò religione nelle classi del ginnasio, e nell’ottobre del 1950, trasferito il Seminario nella rinnovata sede di Brindisi, con la nomina di rettore, tornò nella sua città natale. Settimio Todisco, amatissimo pastore e uomo riservatissimo, è il vescovo numero 100 della cronotassi ed è stato l’ultimo arcivescovo di Brindisi a ricevere il Sacro Pallio della diocesi metropolitana nonché, al contempo, dal 30 settembre 1986, il primo ad essere stato arcivescovo della nuova arcidiocesi di Brindisi-Ostuni. Tocca adesso raccontare dei tanti Brindisini che nella storia della Chiesa sono stati vescovi di altre diocesi, ed in particolare di cinque di loro, che sono stati nominati arcivescovi: Bartolomeo Pignatelli, Giovanni Granafei, Alberto Capobianco, Domenico Guadalupi e Giuseppe Satriano. (1 - Continua)


CULTURE

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entre si conoscono solo quattro nomi di Brindisini che nel trascorso della bimillenaria storia della Chiesa sono stati nominati arcivescovi di Brindisi e sono appena cinque i Brindisini che sono stati elevati alla carica di arcivescovo in un’arcidiocesi distinta da quella di Brindisi, è un po’ più corposo l’elenco dei Brindisini che hanno rivestito la carica di vescovo in una delle diocesi sparse in tutta Italia – le attuali sono oggi circa 150 – ed è pertanto possibile che alcuni di loro, specialmente se vissuti in epoche lontane, siano sfuggiti al preposto tentativo di citarli tutti. Eccone, intanto, diciassette (8 dei quali sono poi stati anche arcivescovi): Francesco Cavalerio, vescovo di Ostuni nel 1337; Bernardino Scolmafora, vescovo di Lavello l’1 gennaio 1504 e di Castro il 19 gennaio 1504; Giovanni Carlo Bovio, vescovo di Ostuni il 7 dicembre 1557; Cesare Bovio, vescovo di Nardò il 15 aprile 1577; Fabio Fornari, vescovo di Nardò il 9 marzo 1583; Lucio Fornari, vescovo di Oria il 16 settembre 1601; Giovanni Granafei, vescovo di Alessano il 9 giugno 1653; Giuseppe Cavalerio, vescovo di Monopoli il 9 giugno 1664; Giuseppe Passanti, vescovo di Montemarano il 23 luglio 1753; Dionisio Latamo, vescovo di Alessano il 16 dicembre 1754; Francesco De Los Reyes, vescovo di Oria il 5 aprile 1756; Giuseppe Monticelli, vescovo di Ugento il 16 dicembre 1782; Alberto Capobianco, titolare di Colossi il 18 giugno 1792; Settimio Todisco, titolare di Bigastro il 15 dicembre 1989 e vescovo di Ostuni il 15 febbraio 1970.

I cinque Brindisini che invece sono stati arcivescovi in diocesi diverse da quella di Brindisi, sono i seguenti: Bartolomeo Pignatelli arcivescovo di Amalfi di Cosenza e di Messina, Giovanni Granafei arcivescovo di Bari, Alberto Capobianco arcivescovo di Reggio Calabria, Domenico Guadalupi arcivescovo di Salerno e Giuseppe Satriano attuale arcivescovo di Rossano-Cariati. Bartolomeo Pignatelli, di nobile famiglia napoletana, nacque ‘verosimilmente’ a Brindisi intorno al 1200 e fu, infatti, quasi sempre chiamato ‘de Brundisio’. Nel 1239 fu chiamato da Federico II a insegnare Decretali presso l’Università di Napoli. Nel marzo del 1254 fu nominato arcivescovo di Amalfi dal papa Innocenzo IV e il 4 novembre successivo arcivescovo di Cosenza. I primi tempi da arcivescovo, seguiti alla morte di Federico II, di cui Pignatelli era diventato personale consigliere ricavandone agio notorietà prestigio e potenza, segnarono il suo passaggio dall’essere prosvevo all’essere pro-angioino, forse motivata tale drastica metamorfosi da un lungo contrasto con Manfredi – figlio illegittimo divenuto successore di Federico II dopo la repentina morte di Corrado IV – sorto per la confisca dei beni subita dal fratello Cesario Pignatelli. L’instabilità del contesto politico calabrese condizionò l’azione pastorale del presule Pignatelli che, quando l’11 agosto 1258 Manfredi s’incoronò re di Sicilia, dovette lasciare la Calabria e riparare presso la Curia papale a Roma, dove Urbano IV lo nominò nunzio apostolico e il 7 maggio 1264 lo mandò in Francia, quale abile diplomatico che aveva dimostrato essere, per trattare con i d’Angiò l’ingarbugliata concessione della corona siciliana. Nel settembre del

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1266, dopo la battaglia di Benevento in cui Manfredi perse la vita, Bartolomeo Pignatelli fu trasferito alla sede episcopale di Messina. E proprio in concomitanza con quella nomina ebbe luogo l’episodio per il quale Pignatelli alla lunga doveva essere maggiormente ricordato: è lui, infatti, il dantesco ‘pastor di Cosenza’ che mentre da Roma si recava a Messina profanò il cadavere di Manfredi. Dissotterrò il corpo dal tumulo di pietre sotto il quale i Francesi lo avevano sepolto presso il ponte Valentino di Benevento e, trasportandolo a candele rovesciate e spente come si faceva con gli scomunicati, ne disperse i resti in terra sconsacrata presso il fiume Liri. Vicenda immortalata, con evidente disappunto, da Dante nel Purgatorio. Nel rinnovato clima di distensione tra Papato e Corona, Pignatelli arcivescovo di Messina si occupò del riassetto dei monasteri della diocesi e, avvalendosi dei buoni rapporti con la Curia regia, reclamò la restituzione di alcuni beni feudali appartenuti alla mensa episcopale. Al contempo, divenne consigliere particolare del re Carlo I d’Angiò e nel 1269 ebbe in compenso dei suoi servigi la signoria di Caserta. Morì agli inizi del 1272. Giovanni Granafei nacque a Brindisi nel 1603 in seno alla nobile famiglia Granafei dei Marchesi di Carovigno, figlio di Scipione e di Orsola Salimento. Sentendo propensione allo stato ecclesiastico, si fece ascrivere al clero brindisino. A Roma conobbe il nobile Fabio Ghigi e quando questi nel 1635 fu nominato vescovo di Nardò, volle che Giovanni Granafei fosse suo


Un ritratto di Alberto Mara Capobianco, brindisino che fu arcivescovo di Reggio Calabria, sotto Giuseppe Satriano, attuale arcivescovo di Rossano Calabro vicario generale per quella diocesi, mentre egli non vi si recò mai perché occupato ad assolvere l’incarico di ‘Inquisitore di Malta’. In Nardò Granafei rimase fino al 9 giugno 1653, quando fu nominato vescovo di Alessano dal papa Innocenzo X, alla cui morte, nel 1655, fu elevato al trono pontificio Fabio Chigi col nome di Alessandro VI. Papa dal quale, l’11 ottobre del 1666, Giovanni Granafei fu promosso arcivescovo di Bari. Nella sua sede arcivescovile di Bari, Granafei arricchì di lampade ed arredi la cattedrale, nel 1672 ne consacrò l’altare in onore del Santissimo Sacramento e nel 1674 commissionò all’argentiere napoletano Andrea Finelli un busto argenteo di San Sabino ad arredo della sacrestia. Nel 1675, inoltre, celebrò un sinodo e l’anno seguente, a Venezia, ne pubblicò gli atti intitolati Costitutiones Diocesanae. Durante la sua prolungata permanenza a Nardò in qualità di vicario generale della diocesi, all’arcidiacono Giovanni Granafei toccò di essere presente durante i gravissimi fatti accaduti in quella città nell’estate del 1647, nel contesto delle sommosse popolari che in varie città del regno napoletano seguirono alla rivolta degli Sciabicoti brindisini del 5 giugno ed alla più famosa rivolta di Masaniello scoppiata in Napoli il 7 luglio. Il popolo contadino di Nardò si sol-

levò il 24 luglio e la prolungata sommossa fu appoggiata anche da alcuni sacerdoti. Nella feroce repressione che ne seguì ad opera del tristemente famoso Giovan Girolamo Acquaviva d’Aragona – il crudele conte di Conversano e duca di Nardò, detto ‘Guercio di Puglia’ – moltissimi furono trucidati barbaramente e tra di loro, il 20 agosto, anche sei ecclesiastici. Ebbene vari storici, tra i quali l’avvocato neretino Giovanni Siciliano, hanno ripetutamente segnalato il riprovevole comportamento che in quella tragica circostanza avrebbe tenuto il responsabile della diocesi, Granafei «anch’egli nobile e che per viltà e partigianeria nulla fece per salvare gli ecclesiastici dall’arbitrio e dall’assassinio…» [S. Siciliano, 1959]. E fu proprio mentre – recatosi a Roma per difendersi nella causa aperta dalla curia su quell’episodio – era sulla via del ritorno a Bari, l’arcivescovo Granafei giunto a Napoli si ammalò e in quella città morì il 18 marzo 1863 e vi fu sepolto. Alberto Maria Capobianco – il suo nome anagrafico Leonardo Antonio Pasquale – nacque a Brindisi il 13 marzo 1708, da Santoro e Beatrice Rodriguez. A quindici anni entrò a studiare con i Padri Domenicani nel convento della SS. Annunziata di Brindisi e fu ordinato sacerdote il 23 marzo 1732. Fu professore di filosofia e teologia nel Seminario arcivescovile di Brindisi, poi in quello di Taranto e, nel 1754, in quello di Napoli. Sostenuto dal suo concittadino Carlo De Marco, che a Napoli era il ministro per gli affari ecclesiastici del re Ferdinando IV, il 7 marzo 1767 fu nominato arcivescovo di Reggio Calabria dal Papa Clemente XIII e la sua attività pastorale si volse al regolamento del culto, al riordinamento delle parrocchie e soprattutto alla cura della predicazione e dell’insegnamento. Durante e dopo i terremoti che dal febbraio al marzo del 1783 colpirono disastrosamente la Calabria, l’arcivescovo Capobianco si prodigò assai generosamente: «A tanto strazio prima che il governo accorresse, diede soccorso il buon arcivescovo Capobianco, prelato pieno così di umanità come di religione. Per procurar sollievo al suo misero gregge, dispose in suo

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pro degli ornamenti superflui della Chiesa e i suoi cavalli e le carrozze e il mobile più prezioso e inoltre, nella pia operazione usò il danaro che in pronto avea. Un caso sopra modo lagrimevole trovò una pietà condegna.» [C. Botta, 1835]. In seguito, nel 1788, istituì in Reggio ben quattro scuole pubbliche per l’istruzione civile e cattolica, specialmente per le classi meno abbienti e diseredate. Nel dicembre del 1789 fu nominato da Ferdinando IV, sempre col sostegno del ministro De Marco, cappellano maggiore del regno, ma conservò il titolo di arcivescovo di Reggio fino al 1792 e ottenne dal re che fosse sospesa la nomina del successore finché, con le rendite della mensa vescovile, non si fosse proceduto alla ricostruzione del duomo. Il 18 giugno 1792 fu nominato vescovo titolare della Chiesa di Colossi e – dopo aver ricoperto le cariche di prefetto degli studi, presidente del Tribunale misto, elemosiniere della Suprema Giunta degli abusi, capo della Giunta dell’Albergo dei poveri – nel 1797 rinunciò alla carica di cappellano maggiore. Alberto Maria Capobianco morì a Napoli il 7 febbraio 1798 e fu sepolto nella chiesa di San Domenico. Domenico Guadalupi nacque a Brindisi il 17 settembre 1811 da Domenico e Caterina Lopez. Iniziò gli studi ecclesiastici a Brindisi e li completò a Roma. Nel 1848 a Palermo ricoprì la carica di primo uditore del cardinale Ferdinando Maria Pignatelli e poi a Roma fu protonotario apostolico. A Palermo, Domenico Guadalupi s’imbatté nella famosa mappa spagnola di Brindisi, realizzata intorno al 1739 dal cartografo e generale militare spagnolo Poulet; la recuperò dallo stato di abbandono in cui la scoprì e la portò a Brindisi. Nel 1868 fu designato vescovo di Lecce, ma rifiutò la carica sentendosi inadeguato. Poi, il papa Pio IX il 7 marzo 1872 lo nominò arcivescovo di Salerno e nel suo episcopato si dedicò al riscatto del Seminario che aveva incontrato in una condizione di povertà e precarietà a causa delle leggi eversive. Poi, nel marzo 1877 rinunciò e l’11 maggio 1878 morì e fu sepolto a Salerno nella cattedrale San Matteo. Giuseppe Satriano è nato a Brindisi l’8 settembre 1960 da Luigi e Giovanna Mastropierro. Dopo la maturità scientifica al Monticelli è entrato nel Seminario regionale di Molfetta. Nel 2012, presso il Pontificio ateneo Regina Apostolorum di Roma, ha conseguito la licenza in bioetica. L’arcivescovo di Brindisi Settimio Todisco lo ha ordinato diacono il 19 aprile 1984 e presbitero il 28 settembre 1985. Rientrato in Italia dopo tre anni di missione nella diocesi di Marsabit in Kenya, nel 2001 è stato nominato rettore del Seminario diocesano di Ostuni, incarico che ha mantenuto fino al 2003 quando è stato nominato vicario generale dell’arcidiocesi di Brindisi-Ostuni e vicario episcopale per il clero e la vita consacrata. Il 15 luglio 2014 papa Francesco lo ha nominato arcivescovo di Rossano-Cariati e il successivo 3 ottobre ha ricevuto l’ordinazione episcopale nella cattedrale di Brindisi dal cardinale Salvatore De Giorgi, arcivescovo emerito di Palermo e co-consacranti Domenico Caliandro e Rocco Talucci, rispettivamente arcivescovo e arcivescovo emerito di Brindisi. Ha preso possesso canonico dell’arcidiocesi di Rossano-Cariati il 26 ottobre 2014. (2 - Fine)


CULTURE

Brindisi, contro Miami: difficile il confronto? Eppure... 2?A7@:: A7>9 A6@3?;9?$A5=A7><A!2?88= >;@1@<?A?:@5>8>1@7=A@<A7>52<? 6@A (%# "%# '& $""(

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lorida, sono stato avvicinato da una giornalista che mi ha fatto una breve intervista in cui, dopo aver costatato la mia origine italiana e aver domandato quale fosse la mia città di origine, mi ha chiesto di commentarle quali fossero, a mio avviso, le cose in comune tra Brindisi e Miami. Le ho risposto che sarebbe stato certamente più facile dirle quali fossero le differenze: in primis le dimensioni, sideralmente distanti – la sola città di Miami copre un’area di circa 150 chilometri quadrati abitata da circa mezzo milione di abitanti – e poi l’età, smisuratamente diversa – il prossimo anno Miami compirà 125 anni, praticamente una neonata al confronto di Brindisi. Poi, per non essere scortese, le ho anche commentato che Miami e Brindisi erano comunque accomunate dal fatto d’essere entrambe città marinare ed avere entrambe un bellissimo porto naturale, nonché accomunate dall’avere le due città un clima solare ed una luce speciale “una luce che dardeggia sulla città come se l’acqua marina, limpida e ferma, riverberi la sua luce sulla città; una luce che alle volte sembra come trovarsi entro pareti di cristallo, nella lanterna d’un faro” [esattamente come nel 1954, a proposito di Brindisi, lo scrisse Cesare Brandi nel suo bel libro – Viaggio nella Grecia antica]. Dopo qualche giorno, son tornato inconsapevolmente sull’argomento chiedendomi: Qual è la storia di Miami? Ci sarà mai qualcosa che la possa accomunare a Brindisi? La ricerca delle possibili risposte non è stata impervia: non ci vuole tantissimo, infatti, a documentarsi su 125

anni storia! E la riassumo qui in poche righe, non senza prima anticipare che di similitudini tra Miami e Brindisi ne ho, alla fine della storia e con una qualche fatica, trovate due: una decisamente graziosa e l’altra, molto meno. A circa 2.000 anni fa sembrano risalire le tracce dei primi insediamenti umani nell’area dell’attuale Miami, rinvenute nelle adiacenze della foce del fiume – Miami river – che, quando i primi spagnoli agli ordini di Juan Ponce de León la avvistarono nel 1513, era abitata dai Tequesta: pescatori, cacciatori e collettori indigeni che non praticavano alcuna forma di agricoltura. Anni dopo, nel 1566, gli spagnoli del governatore Pedro Menéndez de Avilés vi sbarcarono formalmente e con il padre Francisco Villareal costruirono una missione gesuita per poi, dopo un anno, abbandonarla e rientrare alla base, nel nord della Florida, a San Agustìn. La Florida rimase comunque tutta sotto il formale dominio spagnolo per circa tre secoli – con una breve parentesi inglese tra 1767 e 1787 – finché non fu, forzosamente, venduta agli Stati Uniti nel 1821. A quell’epoca, l’area di Miami era stabilmente occupata dai Seminole, nativi americani appartenenti a varie tribù che nel trascorso del secolo precedente erano immigrate dal nord e avevano finito per costituire una popolazione ben radicata e molto agguerrita, contro la quale per vari decenni – dal 1816 al 1858 – l’esercito statunitense dovette guerreggiare duramente, fino a quasi annientarla e finalmente confinarla a sud, nella riserva pantanosa degli Everglades. E fu in quella prima metà dell’800 che i primi bianchi iniziarono a colonizzare la regione, acquistando dallo Stato vaste estensioni di ter-

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reno, portandovi schiavi e creando piantagioni di canna da zucchero, banane, mais e frutta. Per il 1850 i residenti registrati nella Contea di Dade – la provincia di Miami – erano 96, la maggior parte dei quali proprietari di case, attratti dagli incentivi governativi che includevano anche l’assegnazione gratuita di terre da edificare e da coltivare. Tra i padroni di case c’erano William B. Brickell, che venuto da Cleveland aveva creato una posta commerciale sulla foce del Miami river e Julia D. Tuttle, una ricca vedova anche lei del Cleveland, che nel 1891 aveva acquistato una grande piantagione di agrumi. I due cercarono a lungo di convincere il magnate delle ferrovie Henry M. Flagler a estendere verso sud la sua Florida East Coast Railroad, offrendogli in cambio vaste estensioni di terre, ma questi rimase scettico fino a quando, tra il 1894 e il 1895 la Florida fu colpita da una gelata che distrusse l’intero raccolto di agrumi nel centro nord dello stato. A differenza del resto della Florida, la regione intorno alla foce del Miami river non fu colpita e quelli della Tuttle furono gli unici agrumi superstiti. Quell’evento convinse Flagler della potenzialità del progetto di sviluppo dell’area e, accettata l’offerta dei terreni, decise di prolungare la ferrovia e di costruire al capolinea un lussuoso albergo, il Royal Palm Hotel. Il 24 ottobre 1895 si firmò il contratto e iniziarono i lavori. Il 7 aprile 1896 i binari giunsero alla meta – Fort Dallas – e il primo treno vi arrivò il 13 aprile. Il 28 luglio 1896, contando con il deciso appoggio dei residenti nell’area, fu la data fissata dalla Tuttle per l’atto di nascita della nuova


città. Riscontrata la presenza del numero legale di elettori, fu fondata la città, furono stabiliti i suoi confini e fu nominato il corrispondente governo cittadino con John Reilly primo sindaco. Al momento di stabilire il nome della nuova città qualcuno propose chiamarla Flagler, ma di fronte all’inamovibile rifiuto dell’interessato, si approvò chiamarla Miami. Gli elettori registrati furono 502, inclusi 100 elettori neri. Da quella data in poi, la crescita di Miami fu per lungo tempo inarrestabile. Nel 1900, la popolazione raggiunse le 1.681 unità; nel 1910, 5.471; nel 1920, 29.549 e nel 1923, un boom, quasi 60.000. Ma il 1926 fu l’anno del catastrofico Great Miami Hurricane. Secondo la Croce rossa ci furono 373 morti, con decine di migliaia di senzatetto e con un numero imprecisato di dispersi. E poi, all’uragano seguì la ‘grande depressione del 29’. A metà degli anni '30 comunque, la ricostruzione era in marcia e fu allora che a Miami Beach si sviluppò il poi divenuto famoso quartiere Art Deco, nel contesto di un boom edilizio che si protrasse fino all’inizio della seconda guerra mondiale: in vent’anni, tra il 1923 e il 1943, si costruirono ben 800 tra edifici e strutture varie, dall’architettura reputata quale moderna espressione del neoclassico, caratterizzata da forme geometriche e da edifici con facciate a colori vivaci su cui abbondano gli ornamenti con funzione più decorativa che funzionale e le insegne di luci a neon, con all’interno motivi esotici di flora e fauna, pavimenti in porcellana o terracotta e modanature sui soffitti, insieme a imponenti opere strutturali come fontane o statue, sempre geometriche.

Miami Beach è tuttora la città con la più alta concentrazione di edifici Art Deco al mondo. All’inizio degli anni '40 anche Miami City si stava ormai riprendendo acceleratamente dalla grande depressione, ma la crescita subì un brusco freno con lo scoppio della seconda guerra mondiale, durante la quale in città operarono il Comando Orientale ed il Settimo Distretto Navale. La marina militare prese il controllo di tutti i moli, mentre l’Air force stabilì la stazione aerea di Opalocka e l’idroscalo di Dinner Key, già terminal Pan Am. La rivoluzione castrista del 1959 in Cuba, nel giro di pochi anni provocò l’esodo massivo degli isolani, e già alla fine degli anni '60 quasi mezzo milione di rifugiati cubani viveva nella Contea di Dade, mentre Miami si avviava a diventare una città bilingue. L’esodo cubano proseguì a ondate, una sola delle quali nel 1980 portò 150.000 rifugiati, la maggior parte dei quali – a differenza dei loro predecessori – di estrazione sociale povera. Nel 1960, la popolazione bianca di Miami al 90% era non ispanica, mentre nel 1990 solo lo era il 10% circa. Nel 1985, Xavier Suarez fu eletto sindaco di Miami, diventando il primo cubano ad occupare quella carica. Negli anni '90 non cessarono gli arrivi massivi, tanto da indurre il governo statunitense a decretare misure restrittive che previdero finanche il rimpatrio forzato e che limitarono a 20.000 per anno le accoglienze legali. Attualmente in tutta la Florida ci sono ben più di un milione di abitanti nati nell’isola di Cuba. Ma i cubani non sono certo gli unici abitanti di origine straniera stabilitisi a Miami dove, infatti, convivono altre importanti comunità

il7 MAGAZINE 23 13 marzo 2020

estere: latinoamericane, europee e asiatiche. Attualmente, del mezzo milione degli abitanti della città di Miami, il 60% circa non è nato negli USA ed il 30% non ha la nazionalità statunitense. In quanto all’origine etnica: per circa il 74% è ispana, 13% afroamericana, 11% bianca non ispana, 1% asiatica e 1% altra. Negli anni '80 Miami divenne uno dei maggiori centri degli Stati Uniti per il transito della cocaina proveniente dalla Colombia e dalla Bolivia. Quel voluminoso traffico portò con sé miliardi di dollari che finirono in gran parte lavati nell’economia locale attraverso tutti i vari possibili generi di gran lusso: auto, barche, alberghi, sviluppi condominiali e commerciali, discoteche, night clubs e quant’altro. Furono quelli gli anni del popolare programma televisivo Miami Vice, che presentando una idilliaca interpretazione della vita dell’alta borghesia di Miami, diffuse nel mondo l’immagine di una città americana subtropicale, paradisiaca e piena di glamour. E con il denaro, inevitabilmente giunse un’ondata di violenta criminalità che perdurò fino entrati gli anni '90, raggiungendo il culmine nel 1998 con faide e battaglie mortali tra le più agguerrite bande criminali della città. Con tanto denaro e tanta criminalità diffusa, non tardarono ad arrivare gli scandali finanziari e la corruzione delle amministrazioni locali, fino a mandare in bancarotta la città: nel 1997 Miami fu commissariata dallo Stato federale. Il rigido commissariamento politico amministrativo e giudiziario dette in breve i suoi frutti e la città cambiò decisamente volto, lasciandosi alle spalle il baratro dentro del quale era precipitata. Dalla seconda metà degli anni '2000 ad oggi, Miami ha generato un nuovo boom urbanistico incentrato sulla costruzione di edifici sempre più alti, dalle architetture avveniristiche e dotati di servizi all’avanguardia della funzionalità, del confort e, sempre più spesso, del lusso; parallelamente al recupero e alla ristrutturazione di zone periferiche semi-industriali, nonché di alcune vecchie aree residenziali. Il tutto accompagnato dal costante e frenetico rinnovamento e ampliamento dei servizi e delle infrastrutture urbane: viarie, aeree, portuali, eccetera. Questo boom ha trasformato in meno di vent’anni l’aspetto di Miami, il cui skyline è diventato uno dei più impattanti ed estesi degli Stati Uniti, seguendo a ruota quelli di New York City e di Chicago… Ebbene è tempo di concludere e quindi, di rivelare le due similitudini già preannunciate tra Miami e Brindisi. Quella non certo piacevole da constatare è legata al parallelismo degli anni '80-'90, caratterizzati per entrambe città da una malavitosa e criminale presenza: dei narcotrafficanti americani in una, e della sacra corona unita nell’altra. La similitudine decisamente simpatica è invece quella legata all’etimologia stessa del nome Miami: secondo l’Encyclopedia Britannica ‘Mayaimi’ erano i nativi insediati intorno al lago di Miami, l’Okeechobee, ed il significato della parola in lingua indigena era «acqua dolce»… proprio come la nostra bellissima cala di Guaceto il cui nome le fu assegnato dagli arabi ‘gaw sit’ che nella loro lingua significa «acqua dolce». Curioso!


CULTURE

«Juni» Romano nobile brindisino controverso sindaco di Lecce nel 1768 .<=31=8:498;<7=<.6<19;-:<;<7=<7.;<396;44= 2';<=896=##:,:69<3.55;<3.;</:53;<189-;33; 7=< )*& %*&"'+ (%%)

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a Juneide” è un poema dialettale di anonimo leccese in dodici canti – rinvenuto in un volume manoscritto che contiene anche una ‘sciunta’ – il cui titolo completo è “La luneide, o sia Lecce strafurmata, culle laudi de lu Juni. Puema eroecu dedecatu alli signuri curiosi”. Nella ‘sciunta’ ci sono anche due sonetti scritti in italiano con il titolo ‘Composizioni altre dell'istesso autore in occasione dell'elezzione del Sindico nel 1768, cascata in persona del sig. Juni’, scritti evidentemente prima del poema, che infatti prende spunto proprio da episodi accaduti durante l’esercizio dello Juni come sindaco di Lecce. L’aggettivo ‘strafurmata’ riferito a Lecce, vuol significare stravolta, nel senso di cambiata di forma e di connotati. E chi fu mai questo sindaco Juni, meritevole – o comunque ispiratore – di due sonetti e di un intero poema? Giuseppe Romano, tale era il suo vero nome. Barone di Surbo ed ex percettore della Provincia di Terra d’Otranto, cioè esattore provinciale. Brindisino vissuto nel secolo XVIII, nato e cresciuto a Brindisi, e per ragioni sconosciuteci trapiantatosi a Lecce. Genetico precursore settecentesco, aimè, di non proprio pochissimi tra i pubblici amministratori succedutigli nelle nostre città. «Uomo di meschino ingegno e di ristretta fortuna, ma non privo di furberia e di altri mezzi necessari ad aprirsi una strada, passato a Lecce prese ad aspirare al sindacato, facendosi sostenere dal popolo a cui promise mari e monti, nonché di render Lecce la fontana de' comme-

stibili.» [Francesco Antonio Piccinni Cronache Leccesi] Anche nella Cronaca dei Sindaci di Brindisi 1529-1787 di P. Cagnes e N. Scalese è citato Giuseppe Romano, proprio in funzione di precettore della provincia: «…il dì 20 gennaro 1745, il sindaco di Brindisi Sisto Greco cogli eletti Demetrio Tarantino e Obbedienzo Vavotici, furono carcerati in castello per ordine del precettore Giuseppe Romano, perché era rimasta la città debitrice alla Corte in ducati tremilacinquecento circa, e perché si supponeva che i suddetti governanti avevano dissipato ed occupato il peculio universale. Il suddetto Tarantini, povero e miserabile, dopo il suo governo si vide in varia auge e, soprattutto, scandalizzava i cittadini perché con vari sotterfugi non voleva dare i conti dell’amministrazione, mentre gli altri due carcerati furono inetti…» Nel 1757 Giuseppe Romano aveva acquistato il feudo di Surbo dal nobile napoletano Livio Pepe, che poi passò in proprietà della famiglia Patrizi, anch’essa di Brindisi, fino a che nel 1806 il re di Napoli Giuseppe Bonaparte abolì il feudalesimo in tutto il regno. Qualche tempo prima, come altri nobili e altri sindaci di Lecce, Romano era stato tumulato nel convento di Santa Maria del Tempio – sito nei pressi della piazza Tito Schipa – alla fine adibito a caserma e finalmente demolito nel 1971. In quella seconda metà del secolo XVIII, tornato il regno di Napoli sotto gli Spagnoli dopo la trentennale parentesi austriaca, e lasciato Carlo III il trono di Napoli per quello di Spagna, l’amministrazione cittadina di Lecce attraversava anni convulsi, caratterizzati da una lotta aspramente combattuta tra i due ceti urbani, quello dei civili e quello dei nobili, che

il7 MAGAZINE 28 3 aprile 2020

se ne disputavano il controllo, con avvicendamenti incerti, e non sempre indolori. L’una e l’altra fazione avevano finito con colmare la città di violenze, di arbitri e di vendette, tanto che era dovuta intervenire la Regia Corte per poter ammansire la situazione, riuscendo infine ad imporre una equa ripartizione delle cariche amministrative fra i rappresentanti dei due ceti. Per l’anno 1767 la nomina a sindaco era ricaduta su Giuseppe Saverio Libetta, appartenente al numericamente dominante ceto civile. Per subentrare al Libetta, il 25 maggio 1768 fu designato in qualità di appartenente al ceto nobile Giuseppe Romano, la cui elezione però, poiché a tenore degli statuti cittadini egli avrebbe dovuto appartenere alla nobiltà leccese, fu impugnata a causa della sua notoria origine brindisina. Ma finalmente, la sua assunzione al sindacato di Lecce nell’agosto di quel 1768 fu imposta dal popolo, specialmente dagli operai, e fu salutata con esuberanti festeggiamenti, premonitori dei tempi – pomposamente promessi dal Romano in campagna elettorale – di benessere diffuso e di tranquillità che per l’afflitta città sarebbero giunti d’immediato. Non passò molto però, e cominciarono le disillusioni quando si vide come il Romano nei suoi atti si facesse guidare più dal proprio interesse che da quello dei suoi amministrati. Il tutto in un’annata che, data la scarsezza dei raccolti, era stata tristissima. Ciò nonostante, Romano tanto seppe manovrare e manipolare che scaduto il termine del suo mandato riuscì a farsi riconfermare per un secondo anno. E sembra che fu proprio allora che si moltiplicarono le sue stravaganze e le sue scrocconerie, scontentando anche quelli che lo avevano favorito,


Brindisi e Lecce: mappe pubblicate nel “Regno di Napoli in prospettiva” dell’abate Giovanni Battista Pacichelli - 1703

tanto che alla fine fu costretto a rinunciare alla carica di sindaco, che riassunse il suo stesso predecessore Libetta. Ebbene “La Juneide” è un poema dialettale satirico che ha per protagonista il sindaco Romano, non si sa come mai soprannominato Juni, scritto da un contemporaneo dei fatti che sfoga il suo probabile disappunto contro quel sindaco ‘forestiero’ facendolo oggetto di una lunga e prolissa satira, molto probabilmente stimolata e facilitata dalle di lui frequenti e risapute birbonate e malefatte. L’opera è stata pubblicata, parzialmente, su due numeri della Rivista Storica Salentina del 1908: ANNO V, il NUM. 5-6 e il NUM. 10-11-12. «Dal punto di vista artistico-letterario, la parte episodica del poema – in cui si sciorinano aneddoti, sciocchezze e bricconerie che si riferiscono al balordo e interessato amministratore di Lecce – è di un pallore sconfortante, né a ravvivarla riesce lo stile dialettale non indegnamente adoperato dall’autore. La rende insopportabile la prolissità che domina tutto il componimento. Eppure, dalla lettura di questo si è indotti a pensare che al nostro anonimo non mancavano tutte le qualità per essere un buon poeta vernacolo: il colorito scherzoso è talvolta felicemente adoperato; né mancano nella composizione tratti di umorismo che provocano il riso, sebbene di tanto in tanto, per lo sforzo di ottenere a ogni costo un effetto di comicità, si cada nel puerile: il verso scorre senza contorcimenti e chiuso da rime non ricercate. Si di-

rebbe infine d’esser quasi innanzi a un improvvisatore, con la naturalezza e la fluidità, ma anche col disordine e le lungaggini proprie di chi parla più che di chi scrive. Un merito non si può contestare al nostro anonimo: la fedeltà con cui egli ha riprodotto il dialetto nelle sue frasi caratteristiche e nella sua vera pronunzia. E inoltre d’interesse notare come a circa un secolo e mezzo di distanza, l'aspetto del dialetto leccese non appare affatto mutato: togliendo alcune frasi che non s'odono più ai nostri giorni, il resto pare fresco come se fosse stato scritto ieri da uno dei nostri poeti popolari. Dal punto di vista storico, il poema è un documento eloquente dei pettegolezzi, degli intrighi e dei difetti ond’era accompagnata la vita municipale leccese nella metà del secolo XVIII, e completa bene il quadro che di quei tempi ci ha lasciato nelle sue cronache interminabili il Piccinni. Ma, a parte ogni melanconia, si deve riconoscere che pettegolezzi, intrighi e difetti non erano una particolarità di quei tempi soltanto, riscontrandosi anche oggi nelle nostre città di provincia.» [Salvatore Panareo Rivista Storica Salentina - Anno V, 1908] In quanto più concretamente al contenuto del poema, a mo’ d’introduzione si lamenta la prevalenza dei forestieri, cioè dei non Leccesi, negli uffici pubblici, la corruzione nella vita amministrativa e la miseria generale – e non solo materiale – dei tempi. E quindi, si commenta come lo Juni si atteggiasse più che a sindaco, a signore di Lecce e facesse a meno di qualsiasi consiglio eccetto di quelli della sua donna. Al voler poi tentare una qualche selezione, la variegata parte episodica del poema comporta solo l’imbarazzo della scelta: Si racconta che nella carestia che imperversò in Lecce dopo la sua elezione, poiché gli premeva di rifarsi presto delle spese occorse alla sua elezione, Juni si dedicò a fare concorrenza ai mercanti comprando da essi il grano per rivenderlo a carissimo prezzo. Segue il racconto di un curioso e rapace sequestro di carne che il sindaco, ritenutala un contrabbando, fece a danno di un povero diavolo il quale, accompagnato da un

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avvocato, reclamò invano la restituzione della carne per poi lo Juni, malgrado le sue smargiassate e per paura di qualche guaio, accettare di risarcire il proprietario della carne, venendo così fuori dalla faccenda con non poca vergogna. Annusando odore di guadagno facile nell’ospedale comunale, con procedere leguleio il sindaco furbetto impedì la nomina dei rettori e rimase amministratore unico dell’istituto, facendo e disfacendo tutto per secondare il proprio interesse. Quando venne a mancare l’esattore comunale, lo Juni pensò bene di coprire anche quella carica, acquistando sempre più pratica nel maneggio degli affari e nello sfruttare la cosa pubblica a suo interesse. Si racconta anche del tentativo fatto dallo Juni di concorrere a una cattedra d’insegnamento, della sua rinuncia al momento dell’esame e dell’aria di dottore che si diede per giustificarla. Eccetera, eccetera. Alla vittoria dello Juni per la rielezione a sindaco però, nonostante le feste proclamate – racconta il poema – i Leccesi non s’abbandonarono a dimostrazioni gioiose e mancarono i fuochi d’artificio e le scampanate che avevano accolto la sua prima elezione, e persino l’aria volle protestare cominciando a piovigginare. Juni poi, lo testimonia la storia a proposito del sindaco Romano, dovette rinunciare a completare il suo secondo mandato. Mentre il poema, così si chiude: “De Sindecu lu Juni cchiui no fface; recumeterna all'arma e schatta 'm pace”. In quel 1768-69 a Brindisi era sindaco Gregorio Lanza del ceto nobile, era governatore lo spagnolo Giuseppe Moghetano ed era arcivescovo Giuseppe De Rossi. La città contava 6.609 abitanti, in decrescita a causa delle critiche condizioni sanitarie conseguenti al progressivo impaludamento del porto interno: 2.989 nell’area della parrocchia della Cattedrale, 1.074 in quella di Santa Lucia o Trinità, 1002 in quella dell’Annunziata già Santa Maria del Monte e 1.544 in quella di Sant’Anna; ne contava inoltre altri 700, tra monaci e monache regolari, militari, massari, giardinieri, passeggeri e pellegrini. I maschi erano in tutto 3.120 e le femmine 3.489.


CULTURE

Quando la peste portò via la seconda colonna Che finì a Lecce &;<2367:;<498<1653923;36<37;2+97:/9536 4:< 0988;<1 9<4:$9559<8;<168655;<4:< 765(6 4:<"/0, +0,*.1 -++/

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orreva l’anno 1656 e nei primi giorni di marzo scoppiò una terribile peste a Napoli, che ne risultò decimata. La peste durò circa diciotto mesi e tutte le dodici province peninsulari del regno furono presto infettate, meno solo quella di Terra d’Otranto. All’interno del Regno di Napoli la prima località a essere colpita in pieno fu la capitale e il morbo, che molto probabilmente giunse a Napoli via mare, si diffuse rapidamente in tutta la città, favorito dal grave ritardo con cui i governanti riconobbero il carattere contagioso della malattia e adottarono provvedimenti. Così, l’epidemia infuriò a Napoli e nel resto del regno fino all’agosto successivo, anche se già l’8 dicembre del 1656, festa dell’Immacolata, la capitale fu dichiarata ufficialmente libera dalla peste; ma le paure e anche le restrizioni, di fatto, non cessarono. Frattanto l’epidemia dalla capitale si era già ampiamente propagata in tutto il regno, con molti napoletani che si erano allontanati mentre a nulla erano servite le disposizioni volte a limitare i movimenti di individui non autorizzati sul suolo meridionale: il cordone sanitario, imposto intorno alla capitale al fine di vietare l’ingresso e l’uscita dal centro cittadino a chiunque fosse sprovvisto dei bollettini di sanità, venne continuamente violato, spesso e volentieri con la complicità non gratuita degli stessi ufficiali incaricati di controllarne l’osservanza. Così, già nell’estate del 1656 il morbo aveva attaccato le numerose province meridionali. Sul versante adriatico in particolare, dalle vicine province infette di Contado di Molise e Principato Ultra, la peste aveva colpito anche la Puglia e il

morbo era penetrato in Capitanata ed aveva poi attaccato anche Terra di Bari. La peste però risparmiava completamente Terra d’Otranto, l’unica provincia del regno che, “grazie a un efficiente sistema di controlli predisposti a livello provinciale e nonostante la fuga di individui dalla capitale infetta, riuscì a preservarsi.” [Peste demografia e fiscalità nel Regno di Napoli del XVII secolo – di Idamaria Fusco, 2007]. Alla fine di quell’epidemia, e alla fine dei conti, il tasso complessivo di mortalità per l’intero regno è stato recentemente stimato, con un totale di 1.250.000 vittime, aver superato il 40% .“ [La

il7 MAGAZINE 28 10 aprile 2020

peste del 1656-58 nel Regno di Napoli: diffusione e mortalità – di I. Fusco, 2009]. In quel contesto altamente epidemico in cui le notizie, oggettivamente terrificanti, si spargevano in tutto il regno a macchia d’olio alla stessa velocità dell’infezione, non ci dovette esser certo bisogno di ricorrere a troppa immaginazione né a troppa persuasione affinché dal capoluogo Lecce si diffondesse a tutta la popolazione della provincia, Brindisi inclusa, la convinzione che fosse stato “per l’intercessione di Sant’Oronzo ed altri santi protettori che tutta la sola Terra d’Otranto fosse rimasta miracolosamente libera dal contagio”. E così, il farmacista Carlo Stea, che per quell’epoca – tra il 1657 e il 1658 – era sindaco di Brindisi, offrì inconsultamente alla città di Lecce i pezzi della colonna romana crollata centotrenta anni prima, affinché li si usassero per erigere una colonna su cui apporre una statua di Sant’Oronzo, in segnale di devozione e di riconoscimento per la grazia ricevuta. E così effettivamente avvenne. E così i cronisti e gli storici leccesi l’hanno raccontata da allora e la raccontano tuttora, magari in franca buona fede e magari anche elogiando la spontaneità di quel gesto dei Brindisini, e comunque sempre pronti a sottolinearne l’assoluta – ed in effetti oggettivamente certa – legittimità. La realtà storica, tuttavia, fu un po' diversa: il nuovo sindaco entrato in esercizio nel maggio 1568, Giovanni Antonio Cuggió, non acconsentì ad avallare quell’offerta del suo predecessore. E anche il seguente sindaco, Carlo Monticelli Ripa, restò opposto all’idea e a fronte delle insistenti richieste che provenivano da Lecce, accordò inviare a Napoli, al viceré Gaspar de Bracamonte, la supplica di annullare la disposizione già emanata di consegnare i pezzi della colonna crollata


Le colonne fotografate da Antonio Palma, in basso la colonna di Sant’Oronzo a Lecce, nella pagina accanto la colonna romana fotografata nel 1875 alla città di Lecce, ma non ci fu nessun riscontro alla supplica. «Il 2 novembre 1659, avendo ricevuto la città ordine dall’Eccellenza del Regno per la consegnatione delli pezzi della caduta colonna alla città di Lecce, stante la privatione di una cosa sì importante a questa città, fu proposto cercar dal reverendo procuratore don Carlo d’Arsenio canonico la difesa di causa sì importante. Et per esso reverendo capitolo unanimiter et pari voto fu concluso che si dovesse inviare corriero a posta in Napoli a monsignor nostro arcivescovo con supplicarlo d’avanzar ordine in contrario del signor vicirè, con farli buoni al procuratore il dispendio che farà in trovare il corriero dove è necessario e stantiarlo come meglio potrà.» [Cronaca dei Sindaci di Brindisi 1829-1787 – di P. Cagnes & N. Scalese]. Al nobile Carlo Monticelli Ripa succedette come sindaco di Brindisi il notaio Andrea Vavotico il quale, previo ordine perentorio ricevuto dal governo di Napoli, dovette consegnare a malincuore i sette pezzi con incluso il capitello: correva l’anno 1661 e i Leccesi impiegarono un anno intero e continuo per trasportarli, deteriorandone parte di essi e, inoltre, rompendo irreparabilmente il capitello di cui presto si perse ogni traccia, mentre i rocchi dovettero essere rastremati per eliminarne i danni procurati dal crollo e dal trasporto. I lavori per la collocazione della colonna nella piazza principale di Lecce furono ultimati nel 1686, con l’erezione di una statua di Sant’Oronzo alta quattro metri, in legno veneziano ricoperto di

rame. Durante i festeggiamenti del santo nell’agosto del 1737, un razzo colpì e bruciò la statua che venne totalmente rifatta, con ossatura di legno rivestita in bronzo, e ricollocata sulla colonna nel 1739. Recentemente la statua è stata rimossa per poterla sottoporre a radicale restauro e si è in attesa della sua risistemazione sulla sommità della colonna. «Per la colonna romana in piazza Sant’Oronzo si prospetta il proseguimento di un lungo periodo di impacchettamento, inutile e dannoso in quanto ne nega la visibilità e fruibilità. È assurdo che questa sia una variabile dipendente del restauro della statua. Ne viene sminuita l’importanza: il monumento viene così ancor più ridotto solo alla funzione di basamento per la statua. È assurdo che il principale monumento romano presente in città, pur se traslato da Brindisi, sia così sminuito nella sua importanza rispetto alla statua del '700, ancorché del Santo Patrono di Lecce. Ciò denota una inadeguata attenzione culturale dei beni presenti in città, con conseguente mancata valorizzazione. È auspicabile rimuovere teloni e impalcature che impediscono di poter apprezzare una delle due colonne terminali della via Appia; aspetto che andrebbe evidenziato, esaltando così l’importanza del monumento, che finora è stata ignorata.» [M. Fiorella & G. Seclì, Lecce 2019] E quando e perché crollò la colonna romana di Brindisi? Correva l’anno 1528 e Brindisi se la stava passando decisamente male, anzi ‘malissimo’. Nel contesto della lunga guerra che nel trascorso della prima metà del XVI secolo vide in Europa lo scontro tra l’imperatore Carlo V, re di Spagna Napoli eccetera, e Francesco I re di Francia, nel 1528 ebbe luogo la cosiddetta ‘Impresa di Puglia’ volta alla conquista dello spagnolo regno di Napoli da parte della Lega di Cognac, promossa dal re di Francia, avallata dal papa Clemente VI e integrata da Francia, Venezia, Firenze, Milano e l’Inghilterra. Venezia inviò sulle coste pugliesi una considerevole flotta al comando di Pietro Lando, il quale quando costatò l’impossibilità di prendere Brindisi dal mare perché molto ben difesa, sbarcò le sue milizie a Guaceto per da lì, via terra, raggiungere la vicina Brindisi. Il 29 aprile 1528 la città

il7 MAGAZINE 29 10 aprile 2020

si arrese alle forze veneziane, ma gli uomini atti alle armi si ritirarono nei due castelli, di terra e di mare, rimanendo leali al regno spagnolo di Napoli. Le milizie veneziane, occupata ferreamente la città, attaccarono i due castelli, ma a metà di maggio, senza essere riuscite a espugnarli nonostante i tanti e ripetuti attacchi sferzati sia da mare che da terra, rinunciarono all’impresa quando Lando – inviato con le sue galee a Napoli per rafforzarne l’assedio – partì lasciando le sue milizie d’occupazione in una città ridotta allo stremo. Una città in effetti già abbastanza malridotta fin da prima dell’arrivo dei Veneziani, non essendosi affatto ripresa dalla peste che nel 1526 aveva interessato il regno e che nella sola città di Brindisi aveva mietuto ben 800 vittime, quasi un terzo dei suoi abitanti. A fine agosto, gli assedianti di Napoli, dopo la morte del loro comandante il francese conte di Lautrec, tolsero l’assedio e, inseguiti dagli imperiali, furono intercettati e sconfitti ad Aversa. In seguito, anche da Brindisi gli Spagnoli – in qualche modo pur senza che siano pervenuti dettagli al rispetto – riuscirono a scacciare gli occupanti veneziani, mentre per il resto di quell’anno 1528 la guerra si protrasse per inerzia fra la stanchezza delle due parti, non aliene dalle trattative di pace, ma neppure disposte a interrompere le operazioni di guerra. A Brindisi, unico fatto riportato: il 20 novembre 1528 nottetempo, una delle due colonne romane che avevano sfidato per tanti secoli le intemperie dei tempi, cadde senza apparente ragione: «Il pezzo supremo restò sopra l’infimo, mentre quelli compresi fra la base e il capitello, caddero a terra. Nessuna disgrazia successe, i pezzi caduti rimasero a terra e il pezzo supremo vedesi ancora al giorno d’oggi con meraviglia rimanere attraversato sull’infimo.» [Memoria historica dell’antichissima e fedelissima città di Brindisi – A. Della Monaca, 1674]. In assenza di documenti o altri elementi relativi al crollo, si è appunto supposto un improvviso cedimento statico che, teoricamente, è sempre possibile che sia potuto realmente accadere senza alcuna causa apparente. Però tale teorica possibilità, quanto meno, non può del tutto impedire il sorgere di qualche dubbio né può nascondere l’oggettiva stranezza del fenomeno, accaduto in piena notte, in una città poco abitata ed eventualmente mal protetta dalle truppe spagnole che di notte certamente erano per lo più arroccate nei due castelli, in un tempo comunque di guerra: Veneziani e collegati, infatti, erano tutt’intorno alla città asserragliati nelle loro vicine roccaforti e non abbandonarono mai il progetto, né tantomeno i tentativi, di riprendersi Brindisi, cosa che di fatto fecero l’anno seguente, pur senza mai riuscire a far capitolare i due castelli. E se avessero tentato una qualche sortita proprio quella notte? E se fossero quindi penetrati in qualche modo in città? E se, scoperti, fossero stati fatti oggetto di cannonate spagnole? E se una sola palla capricciosa avesse impattato il suolo proprio in prossimità della colonna? Il castello di terra dista dalle colonne circa 800 metri, uno spazio non assolutamente incompatibile con la gittata di un potente cannone dell’epoca. Certo, sempre di un improvviso cedimento pseudostatico si sarebbe trattato, ma in tal caso non più senza causa apparente. Naturalmente si tratta solo di una semplice supposizione, evidentemente molto remota e da far quindi sorridere. Però!...


CULTURE

ACCADDE A BRINDISI DURANTE

IL DECENNALE REGNO

FRANCESE

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uando Napoleone seppe che il re di Napoli Ferdinando IV, oltre ad aver festeggiato – influenzato come solito dalla regina Carolina – la vittoria del 21 ottobre 1805 dell’armata inglese a Trafalgar, era entrato ancora una volta nella coalizione antifrancese rimangiandosi completamente la parola data al rispetto, s’indignò tanto che subito dopo Austerliz decise di regolare definitivamente i conti con Napoli: promosse l’occupazione del regno, che fu condotta con successo dai generali Gouvion Saint-Cyr e Jean Reynier, e dichiarò decaduta la dinastia borbonica. Ferdinando IV con tutta la sua corte, il 23 gennaio 1806 si rifugiò a Palermo sotto la protezione della marina inglese e l’imperatore dei francesi, il 13 febbraio del 1806 proclamò nuovo re di Napoli il proprio fratello Giuseppe Bonaparte il quale, quando dopo due anni fu destinato a regnare sulla Spagna, sul trono di Napoli fu succeduto da Gioacchino Murat, ammiraglio francese e cognato di Napoleone, incoronato re il 1º agosto 1808. Il suo regno durò fino al 19 maggio 1815, quando fu deposto dopo che il 2 maggio il suo esercito era stato sconfitto a Tolentino. Con la sua deposizione finì il regno francese, quello del Decennale, e tornarono i Borbone. Oltre a promulgare radicali riforme politiche – eversione della feudalità, soppressione dei privilegi agli ordini ecclesiastici, istituzione dell’imposta fondiaria, impianto di un nuovo catasto onciario, separazione della giustizia dall’amministrazione, eccetera – il nuovo governo napoleonico di Napoli stabilì, sulla falsa riga del modello francese, un sistema di amministra-

zione del territorio a organizzazione civile, basato gerarchicamente sulla divisione in province, distretti e comuni, con rispettivamente a capo un intendente, un sottintendente e un sindaco. Le nuove province del regno furono inizialmente 14 e tra esse Terra d’Otranto, con capoluogo Lecce e tre distretti (Lecce, Taranto e Mesagne, che fu poi sostituito con quello di Brindisi) che nel 1813 aumentarono a quattro con l’aggiunta di quello di Gallipoli. Il distretto di Brindisi, con 16 comuni compresi in 8 circondari (Brindisi, Ceglie, Francavilla, Mesagne, Oria, Ostuni, San Vito e Salice) per l’anno 1815 aveva in totale 65.450 abitanti, di cui 6.114 nel capoluogo Brindisi più 295 nella frazione di Tuturano (nel 1811 erano 6.630). I sindaci – alla fine nominati dal re o dall’intendente, a seconda della taglia demografica del comune – erano affiancati da due eletti e da un consiglio decurionale composto da un numero di individui variabile tra dieci e trenta in rapporto alla popolazione del comune. Il sindaco, gli eletti e i decurioni venivano selezionati dagli stessi decurioni in carica – all’interno di liste di elegibili da loro compilate sulla base di criteri che privilegiavano per l’ascrizione il possesso di una rendita annua non inferiore ai 48 ducati o l’esercizio di professioni liberali – e alla fine venivano sottoposti ognuno all’approvazione dell’intendente. Funzionario al quale, inoltre, erano sottoposti tutti i provvedimenti deliberati dalle amministrazioni comunali, per essere infine approvati o meno. Eliminate tutte le forme di giurisdizione particolare e abolita la feudalità, le riforme napoleoniche delle amministrazioni municipali produssero un certo imborghesimento della classe dirigente pubblica locale, promuoven-

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done una nuova – formata soprattutto da proprietari terrieri, impresari e professionisti – che riceveva la legittimazione non più dal possesso di titoli, ma dal censo. Il fatto che la legge non riconoscesse più come nel passato l’appartenenza ai ceti per l’esercizio delle cariche civiche, segnò – dapprima in teoria e poi gradualmente anche in pratica – il tracollo del vecchio regime di quei gruppi e quelle famiglie che del controllo del governo locale avevano fatto fino ad allora l’elemento principale della loro rilevanza sociale. A Brindisi, quando a Napoli s’insediò il nuovo re napoleonico, era sindaco Teodoro Vavotici e ci rimase per più di un anno ancora. Lo seguirono, negli anni del Decennale, altri sei sindaci: Giuseppe Nichitich 1807-1808, Cosimo Laviano 1808-1809, Lorenzo Ripa 1810, Francesco Sala 1811-1813, Baldassarre Terribile 1814 e Giacomo Capodieci 1815-1816 che, ritornati


Sotto da sinistra Giuseppe Bonaparte re di Napoli 1806-1808 e Gioacchino Murat re di Napoli 1808-1815 i Borbone sul trono di Napoli, restò in carica fino a tutto il 1816. Ultimo preside di Terra d’Otranto, invece, fu il marchese Della Schiava e per sostituirlo, il 7 marzo 1806 fu nominato intendente Francesco Anguissola che già il 22 marzo annunciò il restauro della via Egnazia, da Napoli fino alla Puglia. Poi, il 5 marzo del 1808, il re Bonaparte emanò il decreto per la costruzione di una strada rotabile da Bari a Lecce: “Il primo tratto da Bari a Monopoli. Il secondo tratto da Monopoli ad Ostuni passerà, abbandonandovi l’attuale via della marina, per Fasano. Il terzo tratto da Ostuni a Lecce si condurrà per Brindisi, e poi, passando per Tuturano, San Pietro Verno-

tico, Torchiarolo e Surbo, perverrà a Lecce.” Tra fine marzo e primi d’aprile del 1807, il re Giuseppe Bonaparte visitò varie città pugliesi e in quell’occasione passò anche da Brindisi. Il 2 aprile, infatti, da Lecce comunicò al fratello imperatore Napoleone d’aver personalmente visitato il porto di Brindisi, raccomandando che si assegnassero le necessarie risorse finanziarie per metterlo in adeguato assetto difensivo e farlo ridiventare il porto più bello del mondo e in seguito, da Taranto confermò al fratello d’aver ordinato la pianificazione di lavori a vantaggio oltre che di Taranto anche di Brindisi. Quando poi nel novembre di quello stesso anno 1807 l’imperatore comunicò al re Giuseppe la necessità di attrezzare il porto di Brindisi militarizzandolo per meglio ostacolare le azioni inglesi, il re vi inviò il suo aiutante di campo Aimè M. Gaspard duca di Clermont Tonnerre, con l’incarico di redigere un rapporto sullo stato delle fortificazioni da inviare all’imperatore. All’inizio dell’anno seguente, nel febbraio del 1808, l’imperatore ordinò il rafforzamento militare di Otranto e Brindisi perché fungessero da retroterra logistico per il sostegno di Corfù, essenziale sia per la difesa dell’Adriatico che per un’eventuale penetrazione nei Balcani. «Sollecitò quindi il trasferimento a Corfù via Otranto e Brindisi di rinforzi, nonché di rifornimenti militari e alimentari. Quelle operazioni in supporto di Corfù si protrassero per anni, durante i quali l’invio dei rifornimenti per la guarnigione di quell’isola continuò a costituire un problema a causa dell’assidua presenza di navi inglesi che lungo le coste orientali e occidentali dell’Adriatico tentavano di impedire ai bastimenti di raggiungere l’isola, e quelli carichi erano spesso costretti a stazionare nei porti di Brindisi e Otranto per timore di essere predati.» [G. Carito, 2019] Nel mentre, sulle coste brindisine continuavano anche le scorrerie dei barbareschi: «il 1° ottobre 1809, alle 9 della mattina, un corsaro nemico accostandosi con una lancia verso la torre di Santa Sabina, sbarcò sul lido 6 uomini armati, nell’idea di predare una barca pescareccia, ch’era ivi ancorata. Il corsaro protesse lo sbarco col fuoco della sua artiglieria, col quale pretese trasportar via la preda, ma i suoi tentativi furono vani, essendo accorse alla difesa le guardie provinciali.» [Giornale Italiano, 4 novembre 1809] Agli inizi del 1811 il governo, per ispezionare i porti della costa adriatica del regno, inviò il principe Cariati che si accompagnò con il signor Maurin, costruttore di vascelli e il signor Vincenzo Tironi, il quale presentò la proposta tecnica e di spese per le opere da eseguire per il risanamento del porto di Brindisi: “Le operazioni da eseguire dovranno essere impiegate per far ricevere qualunque flotta navale numerosa, oltre quel numero di bastimenti mercantili che col tempo potranno pervenire per un florido e ricco commercio. Ma prima di tutto, le operazioni dovevano distruggere tutte le cause mandanti aria malsana.” E il 24 aprile, il colonnello del genio De Ferdinandi inviò al ministro della guerra generale Tugny, un rapporto sulle spese preventivate da Tironi. «…Il 22 aprile 1813 il re Murat fu a Brindisi, proveniente da Lecce, dove era giunto il giorno prima e da dove decretò la requisizione in Brindisi, per pubblica utilità, di alcuni locali e di enti

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ecclesiastici. I conventi degli agostiniani, dei teresiani, dei conventuali e dei paolotti, furono usati dal comune, mentre quelli dei domenicani, della Maddalena e del Crocefisso, furono ai militari. E nello stesso giorno, il 21 aprile 1813, istituì un quarto distretto nella provincia di Terra d’Otranto con capoluogo in Gallipoli e volle mutare nome e sede della sott’intendenza di Mesagne trasferendola in Brindisi, che da allora diventava capoluogo del distretto omonimo. E nel maggio di quell’anno fu trasferita, nei locali dell’ex convento dei francescani in San Paolo, la sott’intendenza ch’era stata per un decennio nell’ex convento dei celestini in Mesagne, e si portò da Mesagne a Brindisi anche il comando di battaglione. Stando in Brindisi, il 22 aprile, il re Murat firmò il decreto con cui l’arcivescovo di Brindisi – De Leo – è autorizzato a stabilire in quel comune una pubblica biblioteca dotata co’ particolari suoi fondi, la qual vien posta sotto l’immediata direzione degli arcivescovi pro tempore della Chiesa di Brindisi, nella dipendenza dal ministro dell’interno. E firmò anche un decreto per accettar l’offerta de’ negozianti di pagare una sovraimposta sul dazio dell’olio, al fine di costruire un fondo da utilizzare per costruire due ponti e la strada per Lecce. Avviò quindi, almeno allo stato di proponimento, il riattamento del porto e poi convertì in Bagno penale “per aver più centinaia di servi della pena che si credeano indispensabili per isfangar quei porti con i cavafango ordinarj a sandali ed cucchiaroni” LO FDVWHOOR 6YHYR…» >&URQDFD GHL 6LQdaci di Brindisi 1787-1860] Annibale De Leo fu arcivescovo di Brindisi dal 1798 al 1814 e resse quindi la diocesi in momenti alquanto difficili, subendo rammaricato tutte le iniziative anticlericali dello stato napoleonico, e Vito Guerreri, a tale proposito, scrisse: “Quel che però lo trafisse nel cuore e a non darsene pace infin che visse, fu la general soppressione degli ordini religiosi eseguita tra il 1808 e il 1809 dagli invasori. Zelantissimo qual era del suo pastoral ministero, non senza sospirarne, vide tolte alla sua Chiesa ben nove case religiose che ne avevan formato la più bella decorazione, tanto per l’istruzione morale e scientifica, quanto pe’ soccorsi giornalieri che ne riceveva la povertà, e quanto finalmente, per la perdita di soggetti, de quali valersi poteva da ottimi, laboriosi e assidui collaboratori della vigna di Gesù Cristo affidata al suo ministero.” [V. Guerrieri, 1846] Non molto dopo la morte dell’arcivescovo De Leo, sopraggiunse anche la fine per l’impero di Napoleone e per il regno di Murat. E a Brindisi nei giorni del precipitare degli eventi, sul finire di aprile del 1815, ripararono nel porto varie navi della flotta murattiana in attesa di ricevere ordini: la fregata Cerere, la corvetta Fama, la fregata Carolina e il brigantino Calabrese. Ma dopo la sconfitta delle truppe di Murat del 2 maggio a Tolentino, quelle quattro le navi furono bloccate dalla squadra inglese del commodoro Campbel. Seguì poi, alla disfatta il caos: “A intiere compagnie, i disertori laceri e affranti scorrevan le Puglie. Sbandata la gendarmeria, disarmate le guardie, intercettate le vie da innumeri predoni, intendenti e sottintendenti obbligati ad abbandonar le loro sedi, galantuomini e proprietari sbigottiti dall’infuriar del brigantaggio e dall’anarchia”. [A. Lucarelli, 1951]


CULTURE

CHURCHILL A BRINDISI PER TRE VOLTE CON LA VALIGIA DELLA INDIE -9B16;6>=B4>A5=B5A<A:;>=B8?9B'?3<=B <A;= >@77=<; BAB:6=AB>A7=>8ABA<B6<B9A >= 8AB ,/' */'&-. (**,

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ra il 26 di luglio e il 2 agosto del 1897, nella Swat Valley – attuale Pakistan – sul confine tra l’India britannica e l’Afganistan, una tribù Pashtun il cui territorio era rimasto a cavallo di quel confine insorse contro le forze inglesi d’occupazione e, guidati dal fachiro Saidullah, 10.000 guerriglieri assediarono i presidi delle guarnigioni inglesi di Malakand che, se pur a stenti, riuscirono a resistere durante quei sei giorni fino all’arrivo delle tre brigate inglesi che erano state inviate al loro riscatto agli ordini del generale Sir Bindon Blood, il quale in poco più di due mesi provvide a domare del tutto la ribellione. La notizia di quella rivolta rimbalzò immediatamente fino a Londra dove la new fu diramata dalle prime pagine dei principali giornali il 28 luglio. Winston Churchill non aveva ancora compito 23 anni e da solo qualche anno – dal dicembre 1894 – aveva completato i suoi studi nel Royal Military College at Sandhurst da cui era uscito con il grado di sottotenente di cavalleria ed era stato assegnato al 4° Ussari della Regina, in Hounslow, una guarnigione sita a ovest di Londra. Nel settembre del 1896 era stato inviato con il suo reggimento in India, che aveva raggiunto il 4 ottobre dopo 23 giorni di navigazione sulla SS Britannia coprendo la

rotta Southampton-Bombay. Però, in quel fine luglio 1897, già da qualche settimana – dopo essere stato in vacanza a Roma – Churchill era a Londra completando la licenza premio che in India si era guadagnato per meriti sportivi: era un eccellente giocatore di polo a cavallo. Al leggere la notizia della ribellione Pashtun, il giovane ed irrequieto Churchill, sempre ansioso di sperimentare quanto di più eccitante gli riuscisse di poter concretizzare, ricordò benissimo quando all’incirca un anno prima, conosciuto in un evento sociale proprio quel generale Blindon Blood, era riuscito a strappargli la promessa di, qualora fosse stato incaricato di una qualche missione di guerra, portarlo con sé al fronte. A quel punto, senza tergiversare neanche per un momento, Churchill inviò un telegramma al generale Blood ricordandogli quella promessa e chiedendogli di chiamarlo a partecipare alla missione. Quindi, pur non avendo ricevuto risposta alcuna dal generale, in 48 ore, rinunciando alle due restanti settimane della sua licenza, abbordò il treno che il venerdì 30 di luglio partiva dalla Charing Cross Station di Londra per Brindisi: era l’Indian Mail Train, il treno della Valigia delle Indie. [Churchill a biography di Roy Jenkins, New York 2002] “Io semplicemente abbordai il treno per Brindisi; e lo abbordai con il mio migliore animo, nonostante fosse la stagione più calda dell’anno e sapessi bene che il mar Rosso già doveva star bollendo, e che i grossi ventagli di

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piume dondolati avanti e indietro dagli incaricati nei saloni da pranzo affollati del piroscafo mi avrebbero agitato tutt’intorno l’aria maleodorante a cibo caldo. Ma il pensiero di tutti quei disagi fisici che mi attendevano non era nulla al confronto della mia ansia di andare.” [My early life 1874-1904 di Winston Chur-


Due immagini di un giovanissimo Churchill.

Sotto la Valigia delle Indie che collegava Londra e Bombay attraverso Brindisi chill, London 1930] Il viaggio in treno da Londra a Brindisi sarebbe durato le 43 ore stabilite e giunto Brindisi, lo avrebbe aspettato il piroscafo della

Peninsular and Oriental Steam Navigation Company che già da vari anni in servizio regolare, settimanalmente e puntualmente ogni domenica salpava per Bombay. E, magari, lo avrebbe anche aspettato all’ufficio postale presso il Great Eastern India Hotel di Brindisi, l’ansiata risposta del generale Bindon Blood. Non fu così, quel telegramma non c’era ad aspettarlo, ma dopo qualche ora trascorsa a Brindisi, Winston Churchill s’imbarcò ugualmente – sul piroscafo Rome – per Bombay: era il 1° agosto del 1897, domenica. Il piroscafo inglese Rome di 5.010 tonnellate e lungo 131 metri, prestò servizio durante molti anni per la famosa Valigia delle Indie. Era stato varato il 14 maggio 1881 ed aveva una capacità passeggeri di 168 in prima classe e 146 in seconda, mentre la capacità cargo era di 3.731 metri cubi. Nel settembre del 1894 aveva trasportato proprio sulla rotta BrindisiBombay, Lord Victor Bruce conte di Elgin, appena nominato viceré dell’India. L’ansiato telegramma del generale Blood non c’era ad attendere Churchill neanche allo scalo di Aden – attuale Yemen – ma a Bombay il 20 agosto si: “molto difficile, non ho un posto libero da assegnarti, vieni su come corrispondente di guerra e poi vedrò come sistemarti. B.B.” E così fu: da Bombay, e dopo 36 ore di treno, il 24 agosto Churchill si presentò a rapporto dal suo comandante in Bangalore e il 2 settembre, ottenuto il necessario permesso, dopo altri 5 giorni di viaggio in treno raggiunse la base del generale Blood, e poté così partecipare in prima linea alla campagna della Task Force del Malakand, in qualità di corrispondente del Daily Telegraph. [The Story of the Malakand Field Force: an episode of fron-

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tier war di Winston Churchill, London 1898] Anche per la terza – e ultima – volta in cui Winston Churchill si recò in India, la rotta che seguì fu quella del treno fino a Brindisi, poi della nave fino a Porto Said in Egitto e prosecuzione fino a Bombay, sempre via mare: partì da Londra il 30 novembre 1898 e da Brindisi il 2 dicembre. Per Churchill – che nel mentre aveva partecipato, nuovamente da volontario e nuovamente da corrispondente di guerra in prima fila, alla famosa carica di cavalleria a Omdurman il 2 settembre 1898 nel corso della campagna del Sudan – si trattò di un viaggio, se pur meno ansiato, certamente molto più rilassato del precedente: la meta principale in cuor suo era infatti – legata alla sua grande passione per il polo a cavallo – quella di partecipare con la squadra del suo 4° Ussari della Regina al torneo inter-regimentale in programma per il febbraio 1899 a Meerut, vicino Delhi. Da Brindisi, quella volta, salpò con il piroscafo Osiris e in India si trattenne due mesi, fino a metà marzo 1899. Il piroscafo inglese Osiris di sole 1728 tonnellate e lungo 91 metri era nuovo, varato il 6 giugno 1898 con una capacità passeggeri di soli 78 tutti in prima classe e con una ridotta capacità cargo. Era stato specialmente commissionato dalla Peninsular and Oriental Steam Navigation Company per effettuare un servizio espresso tra Brindisi e Porto Said, praticamente un servizio shuttle: il 18 ottobre del 1898 aveva completato il percorso Brindisi-Porto Said di 1.600 Km in sole 26 ore e 49 minuti. La durata dell’intero viaggio tra l’Inghilterra e l’Egitto si riduceva a soli 4 giorni invece dei 12 giorni necessari per farlo, come da tradizione, tutto via mare. Per il rientro a Londra – dopo aver vinto quel suo ultimo torneo di polo a cavallo – il viaggio di Churchill, intrapreso da Bombay dopo aver già maturato l’intenzione di lasciare la carriera militare per intraprendere quella politica, incluse una sosta di un paio di settimane al Cairo prima di riprendere mare su una piccola imbarcazione francese che lo portò a Marsiglia, per poi da lì raggiungere Londra a metà aprile di quel 1899. Anche al ritorno dall’India nel suo precedente viaggio – quello in cui aveva partecipato alla campagna di Malakand – Churchill, nel giugno del 1898 fece breve sosta al Cairo per perorare la sua partecipazione alle operazioni militari in Sudan e poi, via Marsiglia, raggiunse Londra agli inizi di luglio. Nel primo viaggio invece, quello in cui nel 1896 con il suo regimento era partito con la SS Britannia, quando ottenuta la licenza premio rientrò a Londra, molto probabilmente lo fece via Brindisi, visto che in quel maggio 1897 racconta aver trascorso a Roma quindici giorni da turista prima di raggiungere Londra. [My early life 1874-1904 di Winston Churchill, London 1930] I tre qui raccontati, furono gli unici viaggi di Winston Churchill in India, come tre furono le volte in cui Churchill vide Brindisi: quelle due volte quando s’imbarcò sui piroscafi della Valigia delle Indie e quell’unica volta in cui, proveniente dall’India, vi sbarcò per recarsi a Roma prima del rientro a Londra.


CULTURE

QUANDO TRA BRINDISINI E TARANTINI NON CORREVA BUON SANGUE ;719< <966;< 9<4:<:0;1 :<*9559-4;: 1 :<087597868<4:<3.:<1;55 <9<3:25;6;<800825; 3;<#/0,!*0,(-."+**/

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nche se si potrebbe partire da ancor prima, provo a farlo da un numero rotondo, per esempio: più di mille anni prima della venuta di Cristo. E già… perché a quell’epoca Brindisi già esisteva, visto che l’aveva fondata nientemeno che Brento, figlio di Eracle, il quale deve esser passato dalle nostre parti tra il 1200 e il 1100 a.C. Taranto, invece, ha una data di nascita ben precisa: 706 a.C. e fu fondata da fuoriusciti spartani guidati da Falanto, il quale poi subì un vero e proprio ostracismo per cui dovette andare in esilio e rifugiarsi a Brindisi, dove morì e fu onorato con una splendida tomba dai Brindisini, che non vollero mai restituire ai Tarantini il suo corpo. Ebbene, quei Lacedemoni giunti da Sparta e sbarcati sulla costa ionica presso la foce del fiume Taras, di fatto invasero un territorio già abitato: un territorio appartenente alla Messapia – la cui città principale era proprio Brindisi – che si estendeva da sopra l’istmo Taras-Brunda verso sudest, fino al Capo. In quel 1000 a.C., a nordovest della Messapia c’era la Peucezia e più a nord ancora la Daunia, per costituire tutte e tre quelle subregioni la Japigia, su di un territorio pressoché coincidente con quello dell’attuale Puglia. E tutte le genti che l’abitavano già da secoli, gli Japigi, avevano avuto anche loro origine orientale, illirica tra le ipotesi attualmente più accreditate, si erano insediate a più ondate e si erano poi gradualmente differenziate in Dauni, Peucezi e Messapi. Questi ultimi, i popolatori della parte peninsulare della Japigia, comprendevano due gruppi per i quali si usarono due etnici distinti:

i Calabri stanziati più a nord e a est, intorno a Brindisi, e i Salentini stanziati nel restante territorio, più a ovest e a sud fino a tutto il Capo. In quel contesto, gli invasori Lacedemoni di fine VIII secolo a.C., in numero probabilmente limitato a poche centinaia, poterono inserirsi con relativa facilità tra gli indigeni che, se pur più numerosi, erano civilmente tecnicamente e militarmente meno evoluti e a quel tempo non curavano troppo le coste ioniche, svolgendo i loro scambi commerciali prevalentemente sull’Adriatico. Quei Messapi pertanto, in quel settore ionico della penisola più Calabri che Salentini, a fronte dei ripetuti attacchi iniziali dei nuovi arrivati, indietreggiarono senza opporre grande resistenza, mentre gli invasori necessitati di terreno per pascoli e per coltivi, forzarono per anni la loro avanzata sulla terraferma, spingendosi lungo la fascia litoranea dello Ionio: a nordovest fino ai limiti del territorio metapontino, dove già vi era insediata una colonia di Achei, e a sudest fino a distanza di sicurezza dall’importante centro messapico di Manduria. Nel mentre, Taras cresceva e prosperava, sia economicamente che urbanisticamente, sfruttando a pieno il già vasto e ricco territorio occupato nell’entroterra e, soprattutto, grazie alla particolare posizione geografica del suo porto, divenendo in breve punto obbligato di crocevia per i ricchi traffici marittimi tra Oriente e Occidente. Si sa poco degli scontri dei primi tempi tra Tarantini e Messapi, anche se i contrasti dovettero sorgere fin dai primi momenti e dovettero presto raggiungere livelli elevati di asprezza, nella misura in cui i locali, finalmente organizzatisi, riesumarono il loro spirito combattivo, che non

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era propriamente scarso. Come scarsi a quel tempo non erano neanche i loro allevamenti di bestiame, la loro agricoltura estensiva, la loro arte della navigazione e il loro commercio d’ampia portata. Verso la fine del VI secolo a.C. le frizioni tra Tarantini e Messapi – ma anche tra i Tarantini e gli ugualmente contigui Peucezi – continuarono ad accentuarsi come conseguenza diretta del desiderio e della necessità degli ellenici di allargarsi finché, durante il primo trentennio del V secolo, tra il 500 a.C. e il 470, le operazioni militari deflagrarono ripetutamente. Dapprima, nel 500 a.C., i Tarantini sconfissero sul campo i Messapi e quindi occuparono la loro città di Carbina – attuale Carovigno, a 28 Km da Brindisi – commettendo atrocità d’ogni tipo sulla popolazione inerme finché… “per intercessione divina, i colpevoli furono tutti fulminati e la loro memoria consacrata a Zeus fulminatore”. «Cresciuti in potenza e ricchezza i Tarentini, e con ciò divenuti insolenti nella loro prospera fortuna, urezza dandosi ad opprimere la libertà dei loro vicini, assaltarono i Carbinati probabilmente per impadronirsi delle loro terre, e la città ne distrussero. Né a ciò contenti, i fanciulli, le vergini e le matrone dei vinti congregarono nei tempi, dove le lasciavano ignude così a chi voleva vederle, come a chi piaceva abusarne. Tutti fulminati dal nume caddero quegli autori di tanta nefandigia e sino al tempo del cipriota Clearco di Soli – il quale nella seconda metà del IV secolo a.C. lo scrisse nel suo IV libro delle Vite – si vedevano a Taranto, davanti le case di quegli scellerati, alcune colonne su cui ne erano scolpiti i nomi per i quali non si offrivano sacrifici né libazioni, ma si sacrifi-


A sinistra, dall’alto le mura messapiche-romane a Brindisi in via Camassa e a ManduriaQui sopra una scena della battaglia di Maleventum cava a Giove fulminatore, che tutti li aveva uccisi.» In seguito, ci fu una altrettanto aspra guerra dei Tarantini contro i Peucezi, anche questa vinta dai primi, e finalmente – nel 473 a.C. – i Tarantini con i Greci di Reggio accorsi in loro aiuto, subirono da parte dei Messapi e Peucezi coalizzati, una gravissima sconfitta: al dire di Erodoto “il più grande massacro di Greci mai accaduto”. Dapprima furono massacrati i Reggini, bloccati sul fronte ionico intorno a Ginosa prima che si potessero unire con i Tarantini, poi toccò agli stessi Tarantini che correvano al loro incontro lungo la stessa costa. L’orrore del massacro fu enorme e come tale si diffuse nel mondo greco, e a Taranto provocò la caduta del governo aristocratico della città a seguito dello scoppio di una rivoluzione interna pro-partito democratico. Nella seconda metà del secolo V a.C., all’inasprimento dei rapporti con Taranto i Messapi contrapposero più stretti rapporti di alleanza con Atene in chiave anti-tarantina, nel contesto del perpetuarsi anche nella Magna Grecia delle lotte per la supremazia tra le genti dei Dori e quelle degli Achei. Durante la guerra del Peloponneso, i Messapi militarono apertamente a favore di Atene con i centocinquanta lanciatori messapici che a Brindisi furono imbarcati sulle navi ateniesi dall’allora re dei Messapi, Arta, mentre Taranto riusciva a mantenersi in status di pro-spartana neutralità. Nel 425 a.C. la messapica Ceglie accorse in difesa di Eraclea contro i Tarantini, e nella guerra di Sicilia, tra 420

a.C. e 413, i Messapi si schierarono apertamente con Atene, accorsa in aiuto di Segesta in lotta contro la dorica Selinunte, protetta da Siracusa, alleata di Taranto e Sparta. Con il nuovo secolo, il IV a.C., Taranto, sotto il nuovo governo anti-aristocratico raggiunse l’apice della sua potenza economica culturale e politica, soprattutto grazie all’affermarsi della figura di Archita, personaggio prestigioso, eletto dal 367 al 361 a.C. a capo del governo cittadino, il quale tra tanto altro riuscì anche a far assumere alla polis tarantina l’egemonia della lega italiota, l’alleanza politico-militare formata dalle città greche dell’Italia meridionale per fronteggiare le continue incursioni dei Lucani. La morte di Archita però, creò un vuoto incolmabile. L’instabilità economica e soprattutto politica e militare che ne conseguì, unita alle risorte discordie interne, implicò per Taranto la scelta – suicida – di rivolgersi a milizie mercenarie guidate da condottieri stranieri per fronteggiare l’ormai incombente minaccia dei Lucani ed il risorto antagonismo dei vicini Messapi, che non disdegnarono allearsi circostanzialmene coi Lucani. E proprio quella reiterata politica di ricorrere agli aiuti militari esterni doveva, infatti, costituire uno dei principali motivi di declino della città giacché, oltre a richiedere enormi risorse finanziarie, la pose in balia di strateghi stranieri, più o meno velatamente mossi da ambiziosi progetti di dominio personale. Prima – nel 344 a.C. – fu la volta Archidamo di Sparta, che morì nel 338 a.C. durante l’assedio alla messapica Manduria. Poi Taranto si rivolse a Molosso dell’Epiro il quale, sbarcato sull’Adriatico con mal celate pretensioni di conquista, fu accolto senza ostilità dai Messapi e

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strinse alleanze con varie città apule. Dopo aver liberato Eraclea dai Lucani, scese verso sud attaccando i Bruttii presso Cosenza, ma fu sconfitto, trovando in seguito – nel 330 a.C. – la morte tra i monti della Sila, ucciso da un sicario lucano. Liberatisi dall’ambizioso Molosso, trent’anni dopo i Tarantini ricaddero nella tentazione di ricorrere a uno straniero e nel 303 a.C. fu la volta dello spartano Cleonimo, chiamato a combattere i Lucani allora alleatisi con i Romani: Taranto con le sue navi trasportò il suo ingente esercito di alcune decine di migliaia di unità e reclutò anche numerose truppe tra i Messapi, i quali per l’occasione pensarono bene di fare causa comune con i Tarantini contro il nuovo temibile nemico comune: Roma. Cleonimo vinse i Lucani sul campo, ma ben presto si rivelò tutt’altro che amico dei Tarantini e dei Messapi, finendo per essere obbligato al ritiro. In quello stesso frangente – 303 a.C. – Taranto, in mezzo alle notevoli difficoltà politico-commerciali che l’attanagliavano, concluse un trattato di non ingerenza con Roma, ottenendo a cambio della sua neutralità l’impegno della nascente potenza a non oltrepassare il Capo Lacinio. Dopo vent’anni però, Roma violò la clausola provocando la guerra, e Taranto ricorse per l’ennesima volta ad un dinasta straniero: Pirro, il re dell’Epiro che sbarcò a Brindisi nel 280 a.C. e si cimentò in una guerra quinquennale in cui, nonostante le sue conclamate vittorie – prima quella di Eraclea con la partecipazione dei famosi elefanti – i Romani conservarono sempre il controllo e alla fine vinsero, a Maleventum GD DOORUD %HQHYHQWXP FRVWULQJHQGR 3LUUR DOOD ULtirata. I Romani, finalmente, espugnarono la greca Taranto nel 272 a.C. e pochi anni dopo completarono la conquista della penisola italica vincendo in due successive campagne l’ultima resistenza, quella della messapica Brindisi: nel 267 trionfarono sui Sallentini e nel 266 a.C. sui Sallentini et Messapii. Da allora in avanti le due sole città rimaste tali nella regione – Brindisi e Taranto – ormai romanizzate, seguirono destini differenti. Taranto, che durante la guerra annibalica si schierò con il cartaginese, a guerra finita nel 202 a.C. fu sottoposta dai Romani a gravi condizioni, quali la confisca di una parte del territorio, il divieto di battere moneta, eccetera. Brindisi, invece, già sede di colonia latina e rimasta fedele a Roma, assurse a città di primaria importanza strategica, militare e non solo, già per la Roma repubblicana e successivamente per quella imperiale: la città più popolosa della Regio II Apulia et Calabria, che raccoglieva Hirpinos, Apuliam, Calabriam et Sallentinos. Brindisi fu il più grande e attivo centro commerciale della regione, con un precisa fisionomia che andava anche ben al di là dell’orizzonte regionale. Di una regione che comunque era, tra le undici, seconda solo alla Regio I Latinum et Campania, tanta era la considerazione in cui era tenuta quella nostra terra di frontiera.


CULTURE

QUANDO I BRINDISINI EMIGRARONO A ELLIS ISLAND (a NEW YORK) (6329<>5<>6:7:>4<>=772:6=7:9:>9;66';4;73<8: =/;7<3=9:>3:/ =88;95:>6=>-7=95;>02;77= 5<>#/0* ,0*(-."+,,/

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al 1892 al 1954, oltre dodici milioni di emigranti da tutto il mondo entrarono legalmente negli Stati Uniti sbarcando su Ellis Island, una piccola – poi divenuta molto famosa – isola nella baia di New York, al cospetto della Statua della Libertà. Nel 1954 la struttura cessò di operare come centro d’immigrazione e nel 1965 fu dichiarata monumento nazionale. Nel 1990, nelle sue strutture riconvertite, fu aperto al pubblico l’Ellis Island Immigration Museum, già visitato da più di 40 milioni di persone, compreso me e – certamente – molti di voi. Nel 2011 iniziò ad essere riordinata e pubblicata una raccolta di documenti riguardanti gli oltre 25 milioni, tra passeggeri e membri degli equipaggi delle navi, arrivati al porto di New York tra il 1820 e il 1957, registrati nell’Ellis Island oppure, prima e dopo gli anni del suo operare, nelle altre strutture portuali: principalmente Castle Garden in Manhattan, dove tra 1855 e 1890 operò il centro d’immigrazione registrando in totale 8 milioni di arrivi. Quasi 10 milioni di immagini relative ai documenti dei passeggeri transitati nel porto di New York in quei 130 anni, e che erano già state conservate su microfilm, sono state elaborate da un esercito di volontari per trascriverne i contenuti, poi ordinati digitalizzati e indi-

cizzati. Il risultato è un enorme database contenente decine di milioni di dati: nomi cognomi età origini destini date e quant’altro disponibile su tutte quelle persone. I quanto ai numeri relativi all’emigrazione italiana nel mondo durante il primo secolo di esistenza della nazione, quindi all’incirca tra 1861 e 1961, si parla di un totale di quasi 25 milioni di persone. Nella seconda metà dell’800' emigrarono circa 5.250.000 italiani provenienti prevalentemente dalle re-

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gioni settentrionali, mentre nella prima metà del 900' il primato migratorio, caratterizzato da numeri così alti da puntare ai 20 milioni, passò gradualmente alle regioni meridionali, soprattutto Campania Sicilia e Calabria. Dalla Puglia emigrarono circa in 50.000 negli ultimi 40 anni dell’800' – meno dell’1% del totale – e nei primi 60 anni del 900' ne emigrarono circa 600.000, intorno al 3% del totale. Di quel totale di quasi 25 milioni di emi-


In alto gli arrivi al centro di immigrazione dell’isola Ellis di New York dal 1892 al 1954, a sinistra il Foglio del registro immigranti nel porto di New York provenienti da Brindisi imbarcati sulla nave francese S.S. Alesia nei porti di Napoli e Palermo - 1822

granti italiani nel mondo, poco più della metà andarono in paesi europei e più del 20% – cioè più di 5 milioni – emigrarono negli Stati Uniti d’America, dove l’esodo nell’800' fu di circa 770.000 emigranti raggiungendo poi un accumulato di 5.500.000 negli anni del 900' fino al 1957. Fu un esodo che conobbe picchi e rallentamenti: raggiunse le 50.000 unità annue nell’ultimo decennio dell’800'; crebbe moltissimo con l’inizio del secolo XX fino allo scoppio della prima guerra mondiale, con vari picchi annui di più di 350.000 unità; riprese con la fine della guerra registrando subito un picco annuo di 350.000 per poi durante tutti gli anni 20' mantenere una media annua intorno alle 50.000 unità; nel decennio degli anni 30' ci fu una drastica riduzione con valori medi annuali di poco superiori alle 10.000 unità fino allo scoppio della seconda guerra mondiale; finalmente il primo decennio del dopoguerra registrò in media 20.000 unità all’anno. Ebbene, di quei più di 5 milioni di Italiani emigrati negli USA, la maggior parte giunse a New York ed i più sbarcarono sull’isola Ellis, dopo un viaggio in piroscafo durato tra quindici e venti giorni e iniziato a Ge-

nova o – per chi partiva dal meridione – più comunemente a Napoli. Perciò, i dati relativi alla maggior parte di tutti quei milioni di Italiani emigrati negli Stati Uniti, nell’800' e fino al 1957, sono contenuti nel già citato database che recentemente è stato reso parzialmente disponibile online. Peccato però che la consulta online non sia molto agile, né si presti a una facile elaborazione, anche perché in realtà si tratta di un assieme di vari databases non strutturalmente compatibili ed integrabili: non è – ad esempio – permesso poter estrarre tutti i nominativi sulla sola base del luogo d’origine. In principio, infatti, il database online è essenzialmente concepito per facilitare la ricerca di una qualche persona in particolare, sulla base del nome e cognome, ottenendo una prima lista dalla quale poi poter via via restringere in base alla data dell’emigrazione, nome della nave, paese e luogo d’origine, eccetera: e così, con una qualche dose di fortuna è possibile rintracciare un particolare soggetto cercato. Con l’obiettivo di riuscire a rintracciare i dati dei Brindisini presenti in quell’enorme database, ho contattato i responsabili dell’organizzazione che lo cura, i quali mi hanno celermente e gentilmente suggerito alcune delle possibili tortuose strade da seguire per ottenere online un qualche risultato utile alla mia ricerca, confermandomi tuttavia l’impossibilità di poter estrarre direttamente quello di cui avevo realmente bisogno. Inoltre, mi hanno comunicato che se

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io mi recassi in loco, con sufficiente tempo a disposizione e con tanta buona volontà, loro potrebbero aiutarmi a costruire la mia lista: quella di tutti gli emigranti Brindisini giunti al porto di New York tra il 1820 e il 1957. Ci andrò, quando le circostanze della mobilità aerea saranno tornate alla normalità. Nel frattempo, mi ritengo comunque soddisfatto per essere riuscito dopo qualche giornata di tanta pazienza ad ottenere un primo risultato, anche se certamente ancora solo parziale, estraendo elaborando e combinando alcuni dei principali gruppi di dati disponibili online: principalmente quelli relativi al file degli emigranti registrati a Castle Garden tra 1855 e 1890, quelli relativi al file degli emigranti sbarcati a Ellis Island tra 1892 e 1924, e quelli di un file globale ma meno sistematico relativo alla totalità degli immigrati giunti a New York tra 1820 e 1954. Ho, tra tanto altro, rintracciato anche una lista integrata da quasi una ventina di Brindisini che nella prima guerra mondiale combatterono, alcuni da americani e la maggior parte da italiani, nell’esercito statunitense. Catalogando tutti i dati estratti in base agli anni in cui ebbe luogo l’emigrazione – prima o dopo il 1892 – ho quindi compilato due liste per un totale di poco più di 700 emigranti brindisini giunti a New York nell’arco dei cent’anni anni compresi tra 1855 e 1954: poco meno di 200 quelli arrivati prima e registrati a Castle Garden, e FLUFD 00 quelli arrivati dopo e sbarcati a Ellis Island: alcuni dei nomi sono corredati dalla data di nascita, altri dall’età, alcuni altri anche dalla data di morte e alcuni altri ancora anche dal luogo di destino scelto negli USA. Nella mia lista di Brindisini emigrati nel secolo XIX, cioè nella seconda metà degli anni 800' fino al 1892, il 38% erano donne, il 15% bambini con meno di 11 anni d’età e il 5% aveva un’età superiore ai 50 anni; il 50% si stabilirono a New York, il 26% a Chicago, il 15% a Filadelfia e il 10% in altre città. Nella mia lista di Brindisini emigrati nel secolo XX, tra 1892 e 1954, cioè nei sessant’anni in cui operò l’isola Ellis come centro d’immigrazione, quasi tre quarti emigrarono nei primi trent’anni fino al 1924 – pressoché cioè fino all’avvento del fascismo – e quasi un quarto emigrò nel decennio successivo alla seconda guerra mondiale, dopo la drastica riduzione che c’era stata durante il ventennio preFHGHQWH Tra gli emigrati nel primo WUHQWHQQLR OH


LE IMMAGINI A destra l’elenco dei brindisini arruolati nell’esercito degli Stati Uniti d’America durante la prima guerra mondiale, sotto il centro di immigrazione dell’isola Ellis di New York dal 1892 al 1954

trentennio le donne erano il 40%, mentre tra quelli emigrati nel dopoguerra erano il 30%. I primi si stabilirono prevalentemente a Chicago e i secondi prevalentemente a New York. Anche se non sono disponibili online dati sufficienti a poter trarre conclusioni quantitative certe, in base all’analisi qualitativa dei vari databases consultabili si evince che in termini generali i volumi che hanno caratterizzato l’emigrazione brindisina negli Stati Uniti nei cent’anni a cavallo tra i due secoli scorsi sono decisamente bassi, sia se rapportati a quelli dei comuni della stessa provincia di Brindisi – in realtà ‘circondario’ o ‘distretto’ prima del 1927 – sia ancor più se rapportati a quelli di altri comuni della regione Puglia, a sua volta mai in prima fila per emigrazione tra le regioni italiane. Se tale impressione qualitativa dovesse poi rivelarsi verosimile, si spiegherebbe – perlomeno in parte – l’apparentemente troppo esiguo numero di emigranti brindisini giunti a New York che sono riuscito a rintracciare online: solamente alcune centinaia. Forse, eventuali possibili spiegazioni per quei numeri così ridotti potrebbero però essere rintracciate, sia tra i dati anagrafici e sia tra le circostanze storico-economiche che in quegli anni caratterizzarono la vita cittadina. Quanto ai primi: «…Nel meridione, l’ordinamento amministrativo del territorio non cambiò molto con l’annessione al regno italiano e a livello regionale Brindisi continuò ad appartenere alla vasta provincia di

Lecce, che solo mutò il suo nome da quello precedente di provincia di Terra d’Otranto suddivisa in 4 circondari, del più piccolo dei quali Brindisi restò capoluogo con 16 comuni, tra i quali era solo al quinto posto per numero di abitanti, contandone nel 1861 solo 9.137, meno di Francavilla, Ceglie, Ostuni e Fasano. Poi, nel 1901, Brindisi raggiunse i 23.106 abitanti, diventando la città più popolosa del circondario che in totale giunse ai 152.861. Popolazione quella di Brindisi, che nel nuovo secolo fu destinata a incrementarsi notevolmente, non solo per un accentuato aumento delle nascite e per l’assenza del fenomeno emigratorio verso l’America che in quell’inizio di secolo prevalse invece in tutta Italia, meridione incluso, ma anche per l’immigrazione regionale, dapprima temporale e poi permanente, favorita dalla positiva congiuntura economica legata all’auge della coltivazione viticola, nonché dell’olio e della frutta, auge conseguente anche all’avvenuto risanamento di molte delle vaste aree palu-

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dose che per secoli avevano circondato la città.» Quanto alle seconde: «…Il nuovo regno deliberò la costruzione della ferrovia AnconaFoggia-Brindisi il cui tronco finale, Bari-Brindisi, fu aperto nel gennaio 1865 – la tratta ferroviaria Brindisi-Lecce fu aperta un anno dopo e dopo altri venti anni toccò alla linea Brindisi-Taranto – Quell’opera completò la linea ferroviaria adriatica, una delle principali arterie d’Europa, destinata ad avere grandissima importanza nei traffici con l’Oriente, permettendo materializzare l’idea di attraversare la penisola italiana con la ferrovia e quindi imbarcare nel porto di Brindisi la ‘Valigia delle Indie’, il collegamento Londra-Bombay. Nel 1869 fu avviata la costruzione della strada tra stazione ferroviaria e porto, e nel 1870 fu inaugurato il Great Eastern India Hotel di fronte al molo dove sarebbero attraccati i piroscafi della Peninsula and Oriental Steam Navigation Company, il primo dei quali salpò da Brindisi il 25 ottobre del 1870. Il collegamento costituì per la città un’importante risorsa e si mantenne attivo ininterrottamente per più di 40 anni, fino allo scoppio della prima guerra mondiale. Sulla scia della ‘Valigia delle Indie’ si realizzarono in città importanti infrastrutture: Nel 1869 si completò la diga di Bocche di Puglia che unì la terraferma all’isola di Sant’Andrea e si realizzò il pennello del castello Alfonsino. A fine 1870 si inaugurò la tratta ferroviaria urbana che collegò la stazione centrale con la marittima e nel 1887 si completò la banchina centrale del porto. Inoltre, nel 1872 furono iniziati i lavori di bonifica di Fiume grande e quelli di Fiume piccolo vennero eseguiti fra il 1870 e il 1880. Altre importanti bonifiche, riguardanti le zone di Ponte Grande nel Cillarese e di Ponte Piccolo nel Patri, furono attuate dal 1880 al 1890. Nel 1880 sorse l’ospedale civile di Brindisi, nelle adiacenze del Duomo, sull’area attualmente occupata dal


museo provinciale Ribezzo, situato in locali che una volta fecero parte di un più grande ospedale civile edificato dai cavalieri dell’ordine di San Giovanni di Gerusalemme, di cui rimane ancora in piedi un portico. Nel 1890, fu eletto sindaco di Brindisi Engelberto Dionisi, che nel 1891 deliberò la progettazione del teatro comunale Verdi inaugurato il 17 ottobre 1903. Con l’inizio del nuovo secolo, a Brindisi si sviluppò una promettente industria orientata alla lavorazione dei prodotti agricoli, o comunque connessa con tale produzione. Si moltiplicarono gli stabilimenti vinicoli e oleari e si svilupparono le fabbriche di botti che per anni fornirono anche parte degli altri paesi mediterranei. Conseguenza di quello sviluppo agricolo e industriale fu il rifiorire dell’attività portuaria che nel 1903 segnò un record, con 2.656 navi di cui 2.355 piroscafi e 301 velieri, con un traffico commerciale di circa duecentomila tonnellate che fino al

LE IMMAGINI Sopra la nave transatlantico “Conte Biancamano” alla fonda nel porto di Brindisi varata nel 1925 operò innumerevoli traversate sulle rotte tra Italia e America, sotto l’isola Ellis dall’esterno con in primo piano la statua della libertà

1914 crebbe fino a quasi duplicarsi. Nel 1905 si ultimò l’edificio della dogana, sul lungo mare, affianco alla stazione marittima, anch’essa costruita in quei primissimi anni del secolo, nel 1902. S’importava essenzialmente carbone e si esportano vino, olio, granaglie, ortaggi, frutta secca e le citate botti. Anche il movimento passeggeri marittimi fu notevole in quegli anni: già nel 1910 si raggiunsero i 16.000 passeggeri e nel 1912 la cifra raddoppiò, per segnare il massimo di 55.000 passeggeri nel 1914.» Dopo la prima guerra mondiale, che colpì duramente l’economia brindisina e dopo l’iniziale ondata che la seguì, l’emigrazione

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verso gli Stati Uniti non fu favorita dal nuovo regime ventennale nella stessa misura in cui fu poi privilegiata quella diretta alle colonie africane. Invece, con la fine della catastrofica seconda guerra mondiale che prostrò Brindisi e la nazione intera, l’emigrazione transoceanica riprese con forza e si prolungò durante un decennio, fino all’inizio del boom economico italiano e dell’industrializzazione del meridione, che a Brindisi fece sorgere il petrolchimico con il conseguente assorbimento di tutta la mano d’opera disponibile. Ma cos’altro ancora è rintracciabile nei databases a proposito di quei nostri concittadini emigranti negli USA? Alcuni dei files riportano anche il mestiere degli immigrati adulti maschi con indicazione della loro capacità o meno di leggere e scrivere. La maggior parte dei Brindisini emigrati tra fine 800' e primi 900' erano contadini analfabeti, altri erano muratori e in minoranza artigiani, quali barbieri falegnami e calzolai. Gli emigrati nel secondo dopoguerra, invece, erano quasi tutti alfabetizzati e i loro mestieri equamente ripartiti tra contadini muratori operai e artigiani. E infine: Quali i loro nomi? E i loro cognomi? Di certo non c’è spazio per riportarli tutti, né del resto avrebbe alcun senso farlo in questo contesto, ma magari è simpatico elencare i nomi più ricorrenti tra quei nostri concittadini di 1 e 2 secoli fa: tra gli uomini, al primo posto Nicola, seguito da Vincenzo, Michele, Rocco, Giuseppe, Giovanni e Luigi; tra le donne, al primo posto ed assolutamente prevalente Maria, seguito da Teresa e Rosa, ma anche Lucia, Angela, Antonia e Carmela. E tra i cognomi, ecco qui i più frequenti: Guerrieri, Allegretti, Destefano o De Stefano, Amato o D’Amato, ma anche Devita, Gentile, Larocca, Mariano o Marino, Marotta, Martorano, Matteo, Pecora, Pisani, Potenza, Romano, Tarantini, Tito, Truppa, eccetera.


CULTURE

Giovanni De Marco, capitano brindisino del 600 )X QRQQR GL &DUOR LO PLQLVWUR FKH PRUu ODVFLDQGR XQ SDOD]]R 9?@!1/- */-'.0 +**1

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ben risaputo che il salentino padre carmelitano Andrea Della Monaca plagiò clamorosamente lo scritto del brindisino Giovanni Maria Moricino intitolato “Antiquità e vicissitudini della città di Brindisi dalla di lei origine sino all’anno 1604” pubblicandolo nell’anno 1674 con il titolo “Memoria historica dell’antichissima e fedelissima città di Brindisi”. Del Della Monaca infatti, risultano verosimilmente originali solo le ultime pagine del libro, quelle che narrano gli avvenimenti accaduti dopo la morte del Moricino – 1628 – e di fatto contemporanei del frate carmelitano, nato all’inizio del XVII secolo e morto nel 1679, cinque anni dopo la pubblicazione del libro. Ebbene, tra quella cinquantina di pagine originali di Della Monaca, si può leggere anche una biografia del capitano Giovanni De Marco, nato a Brindisi ben entrata la seconda metà del XVI secolo e morto a metà del XVII. Quindi, per la maggior parte della sua vita contemporaneo, e probabilmente conosciuto, al Della Monaca. In seguito, il cognome De Marco nella storia di Brindisi avrebbe occupato un capitolo ancor più importante: quello di Carlo De Marco, illustre uomo di stato nato a Brindisi nel 1711, nominato – nel 1759 – dal re Carlo III di Borbone ministro di Grazia e Giustizia e ministro degli Affari Ecclesiastici del novello Regno di Napoli: due incarichi che ricoprì ininterrottamente per oltre trenta anni, abbinandoli spesso con altre mansioni di rilievo. Con il re Ferdinando IV, infatti, nel 1786 entrò a far parte del Consiglio di Stato e nel 1789 divenne titolare di un terzo importante dicastero, quello della Casa Reale. E quei due eminenti brindisini De Marco altri non erano che nonno – il capitano Giovanni – e nipote – il ministro Carlo [CARITO G. Brindisi Nuova guida - 1994]. Tra loro due un altro Carlo De Marco – senior – figlio del capitano Giovanni e padre del ministro Carlo De Marco – junior. Il capitano Giovanni, sposato con Francesca Ripa, di figli ne ebbe

due, Giovan Battista e Carlo senior che sposò Anna Baoxich, figlia di Andrea e sorella di Carlo e Jacopo Antonio, mentre il ministro Carlo junior – come i suoi zii Baoxich – di figli non ne ebbe. Giovanni De Marco nacque nel palazzo di famiglia – Palazzo De Marco – fatto edificare dal suo omonimo nonno sulla Rua Maestra «… a tramontana affacciava su questa via, a levante sull’altra che portava alla chiesetta di Santa Maria del Monte, demolito pochi anni addietro…» [della pubblicazione del libro di A. Della Monaca]. Giovanni De Marco senior, il nonno del capitano, aveva fatto ergere la Cappella del Crocefisso nella vicina chiesa della Maddalena in cui il 9 giugno del 1650 fu sepolto il capitano, nonché anche il suo figlio minore Carlo senior il 10 settembre del 1711 e dove, solo qualche giorno dopo, il 12 novembre 1711, fu battezzato il figlio postumo Carlo junior, il futuro ministro, che ereditò dalla famiglia della madre il Palazzo Baoxich in piazza Duomo, già fatto ristrutturare dal padre e poi conosciuto come Palazzo De Marco. Il palazzo, quando l’ex ministro Carlo de Marco nel 1804 morì senza eredi diretti – in accordo con quanto Carlo Baoxich, lo zio materno del ministro, aveva stabilito nel suo testamento del 1746 – fu ereditato dalla famiglia Salsedo, che ne fu proprietaria per parecchi anni, prima con il medico Giacinto e poi con suo figlio Andrea, farmacista. Acquistato dai Balsamo, il palazzo nel 1887 fu infine ceduto – con un contributo dell’arcivescovo Luigi Maria Aguilar – alla Comunità delle suore Vincenziane, costituitasi a Brindisi il 3 dicembre del 1879, che tuttora ne è la proprietaria e che, inspiegabilmente, da qualche anno ha fatto asportare la storica targa marmorea che sul lato destro del portone d’ingresso lo identificava come “Palazzo De Marco”. La chiesa della Maddalena, invece, apparteneva al complesso conventuale fatto ergere nel 1304 dal re Carlo II d’Angiò nei pressi della piazza principale della città e divenne un punto di riferimento per la ricca borghesia locale. Lunga circa 42 metri e larga 14 ospitava, infatti, numerose cappelle padronali ossia di pertinenza diretta di varie preminenti famiglie brindisine tra le quali, appunto, quella cui apparteneva il capitano Gio-

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In alto palazzo De Marco in piazza Duomo, sotto Carlo De Marco, Ministro di Carlo III e di Ferdinando IV, nipote del capitano Giovanni De Marco

vanni De Marco. Nel decennio francese il complesso fu sottratto ai Domenicani e nel 1888 il Comune di Brindisi acquistò gli edificati che poi, danneggiati nel corso della seconda guerra mondiale, furono abbattuti per dare spazio al nuovo e attuale Palazzo di Città, la cui costruzione fu ultimata nel 1961. In quella stessa chiesa della Maddalena vi era il venerabile altare del Santissimo Rosario, che era stato eretto alla fine del XVI secolo per volontà del capitano Giovan Battista Monticelli – rinomato uomo d’armi brindisino che nel 1571 aveva partecipato alla famosa battaglia di Lepanto – delle cui gesta il giovane Giovanni De Marco certamente ebbe modo di ascoltare – forse anche dalla viva voce del protagonista – gli epici racconti. Allo stesso modo in cui – certamente – lo stesso capitano De Marco ebbe modo di raccontare le proprie gesta di guerra a un altro brindisino, nato nel 1624 ed anch’egli destinato al successo nell’esercizio delle armi: il capitano Giovanni Antonio Simonetta. Una trilogia quindi, il racconto della vita dei cittadini brindisini – Monticelli-De Marco-Simonetta – vissuti tra il XVI e il XVII secolo che, al servizio della corona spagnola cui all’epoca apparteneva il viceregno di Napoli, intrapresero la carriera militare e la esercitarono distinguendosi come ufficiali di grande professionalità e valore, conseguendo, ognuno dei tre, prestigio e riconoscimenti sui tanti campi di battaglia che al loro tempo infestavano la maggior parte delle regioni d’Europa. Del resto, non era raro che sudditi del viceregno napoletano – così come degli altri possedimenti della corona spagnola – prestassero volontariamente servizio militare nelle file degli eserciti reali spagnoli. Un fenomeno che proprio in quegli anni raggiunse dimensioni veramente importanti, con migliaia di militari coinvolti quando, dopo quelli spagnoli, erano proprio gli italiani ad essere notoriamente i più apprezzati a Madrid, sia dall’Alto Comando che dallo stesso Consiglio di Stato. E anche l’aristocrazia brindisina partecipò numerosa, spesso stimolata dalle laute ricompense monetarie e dai privilegi che ai più meritevoli la corona concedeva al rientro in patria, facilitando ad esempio agli ex ufficiali l’ingresso e la carriera nella pubblica amministrazione, mentre ad alcuni altri conferiva premi di carattere onorifico, quali ad esempio il titolo di un qualche grado nobiliare. L’ufficiale brindisino Giovanni De Marco raggiunse l’alto grado di “Maestre de campo” militando al servizio del re Filippo IV di Spagna – III di Napoli – in Fiandra, in Alemagna e in Italia nel vasto contesto della lunga Guerra dei trent’anni, una serie di conflitti armati che dilaniarono quasi tutta l’Europa centrale tra il 1618 e il 1648 nella quale la Spagna, interessata a piegare i ribelli olandesi, intervenne con il pretesto di aiutare l’Austria, suo alleato dinastico, mentre la Francia, temendo l’accerchiamento da parte delle due grandi potenze asburgiche, entrò nella contesa a fianco dei territori protestanti tedeschi per contrastare la stessa Austria. «Giovan di Marco, da Capitano, Sargente Maggiore & Aggiutante, si ritrovò in molti assedi e giornate campali, & in particolare nel soccorso di Stein, presa di Reteslauter, assedio di Francdal, assedio e presa Dilsem, nell’assedio di Berghesobron, nella presa di Casellauter, nella battaglia di Florù con Mansfeld, & altre occasioni, che per brevità si lasciano. Dopo l’assedio e presa di Breda fu mandato a Genova dal marchese Spinola per servire nella guerra che aveva quella Repubblica col Serenissimo Duca di Savoia dove si portò con grandissimo suo valore e gloria &

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in un fatto d’armi fu ferito da una moschettata nella coscia sinistra, per la quale non potendosi ritirare fu fatto prigione da' nemici, che lo trattennero ventotto mesi alle carceri del Castello nella città di Torino con gran patimento. E dopo liberato di là, fu mandato da Consalvo di Cordova a militare nell’assedio di Casal Monferrato, dove in molte occasioni si portò col solito suo valore, e sotto la tenaglia di Casale facendo un giorno l’inimico una gran sortita, fu ordinato al Capitan Giovan di Marco che sortisse con una manica di moschettieri contra l’inimico, il che eseguì sì onoratamente, che lo fè ritirare, restando però egli ferito nel braccio sinistro d’una moschettata. Ritornato finalmente alla patria carico d’onore, con l’occasione dell’assedio d’Orbitello fu dichiarato e nominato Mastro di Campo, dove andò a servire con detta carica per tutto il tempo di quella guerra, come appare dalle patenti e fedi de' suoi servigij.» [DELLA MONACA A. - 1674] La battaglia di Fleurus, nell’attuale Belgio, si svolse il 29 agosto 1622 e vide coinvolti, da una parte forze protestanti tedesche comandate da Brunswick e da Mansfeld giunte in soccorso degli ugonotti delle Fiandre assediati dalle truppe spagnole del generale genovese Ambrogio Spinola nella città olandese di Bergen, e dall’altra un’armata spagnola al comando di Gonzalo Fernández de Córdoba che le intercettò. Lo scontro si risolse in una vittoria tattica per gli Spagnoli, che inflissero perdite molto pesanti agli avversari, ma che tuttavia dovettero finalmente abbandonare l’assedio della città olandese. Qualche anno dopo, nell’agosto del 1624, sullo stesso scenario, le forze spagnole di Spinola cinsero d’assedio la città di Breda, poco a Est di Bergen. Nonostante la città fosse pesantemente fortificata, difesa da una folta guarnigione e ritenuta inespugnabile, Spinola ne attaccò ripetutamente le difese, respinse un esercito olandese che sotto il comando di Maurizio di Nassau tentava di tagliare le sue linee di rifornimento e finalmente, nel giugno del 1625, clamorosamente la conquistò. In seguito, tra 1625 e 1626, le truppe spagnole ancora sotto il comando dello stesso genovese Spinola, frustrarono il tentativo di Carlo Emanuele I di Savoia d’annettere Genova ai propri possedimenti e qualche anno dopo, quando nel contesto della Guerra di successione di Mantova si accordò tra la Spagna e la Savoia la spartizione del Monferrato, nella primavera del 1628 le truppe di Spinola, per rendere effettiva quella spartizione, posero assedio a Casale e lo mantennero fino alla pace di Cherasco del 6 aprile 1631. Nel 1646, dal 9 maggio al 20 luglio, sul finire della Guerra dei trent’anni, Orbetello, enclave strategico spagnolo nel centro d’Italia sul Tirreno limitrofe con lo Stato della Chiesa, fu assediata da forze francesi giunte via mare comandate dal principe Tommaso di Savoia e fu strenuamente difesa da forze spagnole e napoletane al comando del generale Carlo Della Gatta, che resistettero fino a ricevere aiuti e finalmente riuscire a frustrare l’attacco. Qualche anno dopo quella sua ultima missione militare in soccorso a Orbetello, il capitano De Marco, che con i proventi della sua lunga carriera militare – nel trascorso della quale era stato ferito due volte e rimasto in prigione per più di due anni – aveva investito in Brindisi acquistando nel 1633 la masseria Albanesi e nel 1641 la masseria Palazzo, spirò il 9 giugno 1650 tra i suoi familiari e amici, e fu sepolto nella Cappella del Crocifisso nella chiesa della Maddalena, nei pressi della stessa casa in cui – all’incirca sessant’anni prima – era nato.


CULTURE

A metà ‘700 Brindisi contava 8.000 abitanti e 10 conventi /6=.< =:84<7;= 2966;=5<=$:8= 9895944; 6 264<+;=595<7:4;=:=$ = 3:87917;=5<= :;6:

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el Libro delle Anime di Brindisi 1754 a cura di Loredana Vecchio si documenta che in quell’anno la città contava con 8604 abitanti, di cui 500 ecclesiastici; ed erano attivi 10 conventi, quindi ben più di uno ogni 1000 abitanti. Un po’ come se oggi di conventi a Brindisi ce ne fossero 100. Una città decisamente molto povera, in uno dei suoi momenti storici più tristi, così come la descrissero e la documentarono vari viaggiatori, anche stranieri, che la visitarono intorno a quell’anno. Tra di loro Antoine Laurent Castellan, letterato e pittore francese obbligato nel 1797 a una quarantena nella rada di Brindisi, che scrisse pagine e pagine sulla città e sui suoi cittadini e che, tra tanto altro, ebbe modo di commentare anche quell’insolito proliferare di ecclesiastici e di conventi, abbozzando peraltro, alcune possibili cause di quel fenomeno: «Dal fondo delle acque, che contengono un ammasso di materie putride in disfacimento, ci sono continue esalazioni di un gas fetido, i cui globuli giungono a scoppiare alla superficie del mare e sembrano farlo ribollire. Le malattie hanno spopolato intere strade, il popolo si nutre poco e male, e stuoli di mendicanti premono alle porte di chiese e conventi, dove si distribuisce minestra. Gli ammalati son tanto numerosi che un solo ospedale non è più bastato, e ce n’è voluto un secondo. La maggior parte dei bambini che vi nascono non raggiunge la pubertà; gli altri, pallidi e senza forza, trascinano un’esistenza dolorosa che termina molto spesso con spaventose malattie. Gli abitanti in città diminuiscono giorno per giorno, soprattutto durante i grandi caldi. Senza esagerare, la metà

degli abitanti popola i conventi: in un luogo in cui mancano le industrie, il commercio, e quindi ci sono poche ricchezze, si preferisce la vita in comunità a quella di una normale famiglia; essa è meno costosa e offre risorse ben maggiori. D’altronde i monasteri hanno un reddito e proprietà, le quali, essendo inalienabili, sono al sicuro dalle occasioni che spesso depistano la fortuna dei privati. L’esiguità dei mezzi della maggior parte delle famiglie, le pone nell’impossibilità di dedicarsi ai dispendiosi piaceri della società. Nei conventi si è accolti; qui si trova una certa compagnia; si fanno parecchi tipi di giochi; si fa musica; i parlatori divengono veri e propri salotti e in alcuni si fa a meno persino della ruota e della grata. Per ciò, giovani allevati sin dall’infanzia in un luogo che di convento ha il nome senza averne l’austerità, lo preferiscono al mondo che non conoscono e persino alla casa paterna. Qui non godrebbero infatti dei piaceri offerti da quei ritiri religiosi, dei quali si fa loro apprezzare ogni fascino per convincerli a pronunciare, fin dall’età di quattordici anni, dei voti che procureranno loro, per il resto della vita, un’esistenza almeno assicurata, se non assolutamente indipendente. Il figlio maggiore della famiglia, che anche tra le classi sociali più elevate è destinato a perpetuarne il nome, eredita la totalità del patrimonio e i cadetti, ridotti a una legittima ancor più esigua, entrano in qualche comuna religiosa, o partono con cappa e spada a cercar fortuna. E anche le donne che non trovano marito, specialmente tra le classi sociali più elevate, vanno in convento.» [CASTELLAN A. L. Lettres sur l´Italie - Paris 1819] Ancor più esplicite ragioni, circa le cause del proliferare a Brindisi dei conventi, si possono ritrovare sul Brindisi ignorata di Nicola Vacca, quando l’autore commenta l’argomento a proposito del –

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per motivi rimasti sconosciti, iniziato ma non realizzato – nuovo convento di San Pelino. «Visto che in Brindisi vi erano solo i due conventi femminili di S. Benedetto e di S. Chiara, il primo limitato a 74 monache e il secondo a 34, ed avendo di molto superato questo numero non potevano contenerne di più, per rinverdire la memoria di S. Pelino nel 1604 monsignor Giovanni De Pedrosa promosse la erezione di un monastero di monache da dedicare a quel santo, mentre i padri coscritti giustificavano la cospicua spesa in non perspicua prosa per le seguenti ragioni: "Una quantità di zitelle figlie di persone onorate et principali cittadini quali li loro padri non possono maritare secondo le loro qualità per occasione della loro povertà che per rimedio di dette zitelle, per non trovarsi un altro migliore, han determinato di far costruire un nuovo monastero". Erano tempi quelli, infatti, durati fino alla fine del '700 ed oltre, in cui quello di maritare le zitelle figlie di nobili ed onorate famiglie era considerato un vero e proprio problema sociale ed evidentemente tanto assillava la classe dirigente di allora, quanto oggi preoccupa la disoccupazione operaia e la tubercolosi. Il primogenito delle principali famiglie, non soltanto nobili, era il naturale ed esclusivo erede dell’asse familiare e quasi tutte le donne, in obbedienza alla ferrea legge feudale, erano destinate dalla nascita al monastero, perché non avevano dote per maritarsi, mentre gli uomini cadetti, anche loro finivano frati o nelle milizie. Ed il problema del pulzellaggio si risolveva erigendo e dotando monasteri com’oggi noi erigiamo sanatori e ospizi.» [VACCA N. Brindisi In alto una mappa spagnola del 1739 con indicati i conventi. Sotto uno tra i ignorata - Trani 1954] Quell’auge delle istituzioni religiose conventuali più famosi, quello di San Benedetto in Brindisi, come del resto in tutto il regno spagnolo di Napoli, non era però destinato a perma https://bit.ly/2ZtgPZ2 nere molto oltre quel XVIII secolo, e i primi segnali dell’approssimarsi di una tempesta su

tutto quello che per secoli era stato il consolidato sistema religioso monastico, si avvertirono a partire dal 1734 con l’avvento di Carlo Borbone sul trono del nuovo indipendente regno di Napoli, e con il suo concordato del 1741, il cosiddetto Trattato di Accomodamento. In quel nuovo corso politico, si affermarono le prerogative della regia giurisdizione sopra-minente, si restrinsero i tradizionali privilegi civili dei religiosi e si proibì la fondazione di nuove chiese e di nuovi conventi. Parallelamente, andò affermandosi, e poi crescendo in tutto il regno, anche l’avversione ecclesiastica dei ceti colti, dei giuristi e dei nobili. Il sistema intero doveva poi precipitare fragorosamente con gli inizi dell’800, in seguito all’avvento dei sovrani francesi napoleonici sul trono di Napoli – Giuseppe Bonaparte prima e Gioacchino Murat dopo – durante quel decennio che doveva sradicare per sempre lo stato feudale dal Meridione italiano. Il 13 febbraio 1807, appena insediato, il re Giuseppe Bonaparte promulgò la legge n.36 con la quale si soppresse la maggior parte degli ordini religiosi delle regole di San Benedetto e di San Bernardo e si chiusero ed espropriarono quasi tutti i loro conventi. Fu quello l’inizio della fine di tutto un mondo, che era stato secolare. Di tutti i conventi espropriati, alcuni pochi furono ripristinati nel clima restaurativo che seguì al ritorno dei monarchi borbonici sul regno di Napoli dopo il 1815 e con il nuovo concordato del 1818. Però la storia era destinata a ripetersi, e quando nel 1860 l’antico regno meridionale fu occupato dalle truppe garibaldine e dall’esercito piemontese e, quindi, annesso al proclamato regno d’Italia, nuovamente si ripropose la soppressione delle comunità e degli ordini religiosi con, in primis, l’espropriazione di molti dei loro conventi residui. Il decreto del 17 febbraio 1861 di Eugenio di Savoia, ministro luogotenente generale delle province napoletane, formalizzò quella politica sostenendo il principio della “libera Chiesa in libero Sato” e perseguendo l’obiettivo di laicizzare tutta la società meridionale. Quali erano dunque quei dieci conventi operativi in Brindisi a metà del XVIII secolo? Eccoli qui brevemente descritti seguendo l’ordine cronologico relativo alla loro fondazione: dal più antico, il Convento di San Benedetto (1) all’ultimo edificato, il Convento di San Francesco di Paola (10), passando per quello dei Domenicani del Crocifisso (2), quello dei Domenicani della Maddalena (3), quello San Paolo Eremita (4), quello del Carmine (5), quello dei Cappuccini (6), quello delle Clarisse (7), quello delle Scuole Pie (8) e quello di Santa Teresa (9). La numerazione è quella utilizzata nella rappresentazione grafica che della ubicazione dei conventi è riportata sulla base della Mappa spagnola di Brindisi del 1739. Per approfondire https://bit.ly/2ZtgPZ2

il7 MAGAZINE 31 3 luglio 2020


CULTURE

Quando le epidemie scoppiavano d’estate e sparivano d’inverno M

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entre si è un po’ tutti contenti di poter costatare il totale controllo estivo della pandemia da covid-19, a Brindisi e nel resto d’Italia in tanti continuano a pensare con trepidazione all’arrivo del prossimo inverno, per il timore che la stagione fredda riporti in auge questa pericolosa peste. Ebbene, forse a molti potrà sembrare strano, ma per Brindisi dal punto di vista storico questa circostanza rappresenta una anomalia: in passato infatti, accadeva esattamente il contrario con i Brindisini che temevano oltremodo il caldo ben memori delle gravissime e frequenti pandemie pestifere che avevano messo in ginocchio la città, quasi sempre scoppiate con estrema virulenza durante la stagione calda: giugno luglio e agosto erano comunemente i mesi in cui la peste deflagrava e faceva enormi stragi tra la popolazione, per poi rientrare ed eventualmente scomparire del tutto con l’inverno. I riferimenti storici riscontrabili a questo proposito sono numerosi ed abbastanza documentati: basterebbe per esempio sfogliare la "Cronaca dei Sindaci di Brindisi dal 1529 al 1860" scritta da Pietro Cagnes e Nicola Scalese, per scoprire che in quasi una dozzina d’occasioni vi si racconta della peste, a cominciare proprio dalla primissima pagina: «Nel 1529 e 1530 fu sindaco di Brindisi il nobile Domenico Casignano. Non si è potuto aver memoria dell’altri sindici predecessori per diverse cause e flagelli successi in questa città, e precisamente nel 1526 il 24 del mese di luglio – vigilia dell’apostolo San Giacomo – incominciò la peste con tanta violenza che in pochi giorni uccise gran numero di cittadini – 800 su un totale di circa 3000 abitanti.» Probabilmente, per quelle epidemie genericamente chiamate pestifere, per lo più non si trattava di patologie legate all’apparato respiratorio quanto, molto più comunemente, di patologie legate all’apparato digestivo, come quelle coleriche, oppure conseguenti alle azioni di virus e

parassiti di varia natura, che in carenza di igiene erano trasmessi dagli umani, o da animali, o da insetti, come ad esempio le molto comuni pandemie malariche. Tra quei racconti post-medievali di pandemie, uno era destinato a diventare tristemente rinomato per Brindisi, quello della famosa peste del 1656 che, se pur risparmiò miracolosamente la città dalla sua virulenza mortale, decretò di fatto la perdita dei rocchi della famosa seconda colonna romana, quella che il 20 novembre del 1528 era crollata nottetempo: «Nel marzo del 1656 scoppiò una terribile peste a Napoli. Durò fino a ottobre e tutte le province del regno ne furono infettate, meno quella di Calabria e quella di Terra d’Otranto. Brindisi con tutta la provincia "per l’intercessione di Sant’Oronzo ed altri santi protettori, fu liberata da detto contagio". E Carlo Stea, che per quell’epoca era sindaco di Brindisi, offrì in omaggio i rocchi della colonna romana crollata cento anni prima, alla città di Lecce affinché erigesse una nuova colonna con sopra la statua di Sant’Oronzo». La psicosi intorno alle pandemie era così diffusa a quell’epoca in Brindisi, che nel 1692 aveva provocato addirittura la scomunica, da parte dell’arcivescovo Francesco Ramirez, del sindaco Teodoro Ripa e del regio governatore Agostino Montalvo, perché colpevoli di aver violato il principio dell’immunitii ecclesiastica, allorché entrambi – preoccupatissimi – avevano osato ordinare alle guardie la stretta sorveglianza di un sospetto di peste che si era rifugiato in San Leucio, violando quindi con quell’ordine le disposizioni allora vigenti che impedivano alle forze di polizia poter permanere a una distanza inferiore ai 40 passi dalla chiesa. Dopo il famoso terremoto del 20 febbraio 1743 "giacché le disgrazie sempre s’accompagnano" in quello stesso anno, mentre Brindisi si trovava ancora sotto l’incubo della disgrazia patita, giunse una forte carestia di grano. «Mancava solo la peste, e quella giunse puntualmente nel

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Miniatura del XIV secolo. Sepoltura delle vittime della Peste Nera. Sotto Federico II e Gregorio IX

mese di giugno, provenendo – via mare con i marinai della nave genovese Maria della Misericordia – dalla città di Messina che ne era stata abbondantemente colpita.» Nel novembre del 1810 si diffuse a Napoli la notizia che fosse in atto una pandemia di peste in Brindisi: «Corse voce che si fosse sviluppata la peste nel regno e che il contagio fosse di provenienza da Brin-

il7 MAGAZINE 23 10 luglio 2020

disi. Molti forestieri desideravano partire, fra i quali il tenore del teatro San Carlo di Napoli, il signor Crivelli di fama europea, ma a tutti furono negati i passaporti. E solo nell’aprile del 1811 si chiarì che la notizia di quella peste era risultata essere falsa, giacché si era trattato di febbre petecchiale, che pur aveva mietuto molte vittime in Brindisi.» Se poi si vuol andar più indietro dell’inizio della Cronaca dei Sindaci di Brindisi, basterà provare a sfogliare la "Memoria historica dell’antichissima e fedelissima città di Brindisi" scritta dal padre carmelitano Andrea Della Monaca nel 1674 oppure la "Storia di Brindisi scritta da un marino" di Ferrando Ascoli scritta nel 1886, e così si scoprirà che la sequela pestifera imperversò su Brindisi da ben prima del XVI secolo. E infatti, anche tra la montagna di pagine di quei due libri ci si potrà di nuovo imbattere nei racconti della peste: dei secoli del basso e dell’alto medioevo, del tardo impero e, sempre più indietro, fino Giulio Cesare, che nel De Bello civili racconta di quando, ritornato a Brindisi nell’ottobre del 49 a.C. e accantonate le sue stanche legioni in attesa dell’imbarco a caccia del fuggitivo Pompeo, molti vi si ammalarono a causa di un “gravis autumnus circumque Brundisium”. Ritornando invece al meno remoto e un po’ meglio documentato periodo medievale, e procedendo a ritroso nel tempo, la presenza della peste a Brindisi la si ritrova in concomitanza con un altro tristemente famoso evento storico: L’11 agosto 1480, dopo due settimane di tenace resistenza, l’armata turca riuscì ad aprire un varco tra le mura di Otranto e da lì si riversò nel centro, avanzando con razzie e crudeltà indicibili. Quell’armata era giunta da Valona sulle coste salentine all’alba del 28 luglio, ed allora fu abbastanza accreditata l’idea che l’ammiraglio ottomano Gedik Ahmet Pascià avesse deciso puntare su Brindisi prima di dirottare su Otranto, giacché Brindisi era infestata da una temibilissima peste di cui si era avuta tempestiva notizia a Costantinopoli. Qualche anno prima, sullo scorcio di dicembre del 1456, un terribile terremoto interessò gran parte del regno di Napoli, e Brindisi fu tra le città più colpite, e la rovina coprì e seppellì quasi tutti i suoi abitanti, e restò totalmente disabitata. E dopo mesi, con il caldo estivo, al terremoto seguì inevitabilmente la peste, la quale dall’entroterra invase la città e troncò la vita a quel piccolo numero di cittadini ch’erano sopravvissuti al primo flagello. E quella stessa peste si ripresentò, più virulenta ancora, nel 1463, colpendo Brindisi duramente, insieme con Lecce ed altre città del Salento. Stessa epidemia infine, che imperversò in Puglia con alterne vicende di riaccensioni e di remissioni, sin oltre la metà del XVI secolo. Ma anche prima, morta la regina Giovanna II d’Angiò e finalmente conquistato il regno gli Aragonesi con il re Alfonso, nel 1446 nuovamente la peste in Brindisi inaugurò il nuovo corso reale, apertosi tristemente con la criminale ostruzione che del canale d’ingresso al porto interno ordinò il principe di Taranto Giovanni Antonio Orsini del Balzo: evento che certamente molto, e per secoli, pesò negativamente sulla situazione sanitaria della città, contribuendo non poco al continuo ripetersi delle pestifere epidemie


CULTURE

Il trionfo della morte di Pieter Bruegel-1563-Museo del Prado di Madrid

estive. E prima ancora, dopo l’arrivo di Giovanna I d’Angiò nel 1343 sul trono di Napoli, alla carestia del 1345 e alla desolazione delle cruente lotte cittadine tra i potentati familiari dei Cavallerio e dei Ripa, che nel 1346 si trasformarono in aperta guerra civile, nel 1348 si unì la terribile pandemia della peste nera europea – in cui morì anche l’arcivescovo Galardo – che ridusse alla miseria totale l’intera città. E con un altro salto di poco più di cent’anni a ritroso – l’ultimo di questo breve excursus – eccoci a Brindisi in piena età sveva, con il carismatico Federico II, sacro romano imperatore e re di Sicilia, impegnato nell’organizzazione della sua crociata – la sesta – dopo anni di tergiversazioni e rinvii. Fu quella l’unica crociata – ebbe luogo tra il 1228 e il 1229 – risolta per vie diplomatiche, l’unica gestita da un solo re Federico II, l’unica ad essere ostacolata e persino scomunicata da un papa Gregorio IX, l’unica partita interamente da Brindisi, anche se probabilmente la città ne avrebbe fatto volentieri a meno. Una gravissima epidemia di peste colericomalarica, infatti, scoppiò in città nell’agosto del 1227 a causa dell’enorme concentrazione di cibarie uomini e animali pronti all’imbarco, ammassati per mesi in condizioni igieniche impossibili: «Le cronache raccontano di un’estate torrida, di un caldo insopportabile, quell’anno più del

solito, e della folla sterminata – che mossa dal desiderio di servire la Croce aveva attraversato le Alpi e si era riversata per le strade e sulle banchine del porto brindisino, provenendo da tutto l’Occidente e dalle terre più settentrionali del continente – aveva spinto le condizioni igieniche al limite del sostenibile. Di lì a poco, nella città, priva dei mezzi e dello spazio sufficiente ad accogliere una simile massa di soldati, pellegrini, nobili, prelati e comuni sudditi, si sarebbe scatenata un’epidemia di febbre malarica che avrebbe causato la morte fra dolorose convulsioni della maggior parte di quanti – migliaia – già erano pronti a salpare. Colpito dal morbo sarebbe morto un prelato di Nevers e avrebbero perso la vita il vescovo di Augusta Sigfrido e Ludovico di Turingia, marito di Elisabetta d’Ungheria, che già febbricitante aveva voluto imbarcarsi. E i detrattori dell’imperatore non tardarono ad accusare: aveva trattenuto troppo a lungo l’esercito cristiano in quella città dove il caldo soffocante, la siccità, il cibo avariato e il marciume che infestava l’aria avevano scatenato la tragedia, mentre lo stesso Gregorio IX indicava come l’imperatore fosse stato troppo superficiale nella scelta del sito in cui radunare i partecipanti alla spedizione, una leggerezza che era costata la vita a tanti innocenti e che forse non era neanche stata una disgrazia del tutto accidentale, ma premeditata. Eppure, l’imbarco dal porto di Brindisi si im-

il7 MAGAZINE 24 10 luglio 2020

poneva per gli ovvi vantaggi logistici che la traversata offriva in corrispondenza di questo tratto dell’Adriatico. Pochissimi giorni di navigazione separavano Brindisi da Durazzo, e una volta approdate nella città dalmata, le schiere di armati avrebbero potuto proseguire via terra lungo il percorso della via Egnazia fino a Costantinopoli, riducendo in questo modo costi e rischi connessi a un trasporto marittimo di lunga durata. Oltretutto il bacino portuale di Brindisi per le sue caratteristiche naturali costituiva l’approdo più protetto e spazioso dell’intera costa, qualità che, unite alla sua collocazione geografica, non era possibile ritrovare in nessun altro scalo del Salento. E perciò, di fronte alla scomunica papale l’imperatore avrebbe difeso la sua scelta forte del fatto che nonostante i problemi di impaludamento, l’insalubrità dell’aria, il periodico manifestarsi di epidemie mortali, Brindisi restava comunque lo scalo più vantaggioso del regno per salpare verso le rotte orientali.» [Immagini da una frontiera - R. Alaggio, 2005] Infine, comunque sia andata nei dettagli tutta l’intricata faccenda della sesta crociata, certo è che un’ennesima terribile pestilenza estiva si era consumata a Brindisi. Di fatto una pandemia, giacché con il rinvio della partenza per la crociata all’anno seguente, i crocesegnati rientrarono ai loro paesi d’origine portando con se la peste e diffondendola per tutta l’Europa.


L’imbarco dei cavalieri crociati a Brindisi nel 1228 DFTXDUHOOD GL 6DELQD &LDPSD I protagonisti della VI crociata

Federico II

Gregorio IX

Malek Al-Kamil


CULTURE

Nel XIII secolo il porto base strategica degli ordini religiosi militari N

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el saggio “Gli Ordini religioso-militari e i porti pugliesi” pubblicato da Vito Ricci nel 2014, richiama l’attenzione l’elevato numero di volte – 67 in 58 pagine – in cui è citata Brindisi. Cosa certamente del tutto naturale in considerazione della conosciuta e riconosciuta importanza storica del porto di questa città, non solo nel contesto adriatico, ma anche in quello ben più ampio mediterraneo. Eppure, è inevitabile osservare come quell’importanza strategica di Brindisi diventa primaria quando si tratta della storia intorno al XIII secolo, degli anni in cui – con gli Svevi prima sul trono di Palermo e con gli Angioini dopo sul trono di Napoli – i porti pugliesi divennero il principale legame dell’Europa con il Levante, tra l’Occidente e l’Oriente, tra Roma e Gerusalemme. Da quei porti infatti, partivano le navi con i pellegrini, le derrate alimentari, i cavalieri, i cavalli, gli equipaggiamenti militari e quant’altro, con destinazione l’Oltremare, cioè Siria e Palestina. All’epoca, infatti, nel porto di Brindisi erano di casa tutte e tre le principali tipologie di imbarcazioni che solcavano i mari mediterranei: le galere o galee, navi lunghe e strette a vela e remi, eminentemente militari e da combattimento; le navis, navi tonde a vela, usate per i traffici mercantili, caratterizzate da leggerezza e velocità; e gli uscieri, navi specializzate nel trasporto dei cavalli. E a Brindisi, oltre che in transito, le flotte dei monaci guerrieri si recavano per svernare e dar corso – nei suoi attrezzati cantieri – a riparazioni e manutenzioni. Ebbene, molte delle navi che all’epoca frequentavano i porti pugliesi appartenevano agli ordini religioso-militari, anche detti monasticocavallereschi, dei Templari e degli Ospitalieri – i Teutonici non eb-

bero una flotta propria – che erano sorti in Terrasanta: inizialmente, come gli altri ordini gerosolimitani, con il fine principale di proteggere e aiutare i pellegrini, ed in seguito – militarizzatisi – con anche l’obiettivo di combattere apertamente contro i Musulmani, in terra e in mare. Nati come corpi militari terrestri, nel corso del XII secolo i tre Ordini necessitarono sempre più ricorrere alla navigazione e alla marina, avvalendosi dapprima delle navi delle repubbliche marinare italiane e quindi creando – gli Ospitalieri e i Templari – una marina propria: dapprima con navi da trasporto e con navi da guerra dopo, a partire da quando il 30 dicembre 1187 si impadronirono di 11 galere egiziane nei pressi del porto di Tiro. Così si andò conformando una flotta anche armata; e nella VI Crociata, partita interamente da Brindisi nel 1228, non mancarono le navi degli Ordini, mentre nel corso della VII Crociata, l’ammiraglia sulla quale nel 1250 trovò rifugio il re di Francia, il futuro San Luigi IX, era una nave da guerra templare. In quanto al trasporto civile, tuttavia, le imbarcazioni degli Ordini dovettero spesso risultare insufficienti per tutti i viaggi necessari a Oltremare, giacché spesso si dovette ricorrere all’utilizzo di imbarcazioni noleggiate a armatori locali. In Oriente il porto principale fu quello di Acri, lì nel 1291 si trovava il Falcone del Tempio comandato dal brindisino Ruggero Flores impegnato nelle operazioni d’imbarco dei profughi dopo la sconfitta dei Cristiani ad opera dei Mamelucchi. In Italia, i porti adriatici pugliesi furono gli scali più trafficati dalle navi degli Ordini per i collegamenti con le loro basi in Terrasanta, nonché quelli considerati più strategici: Manfredonia, Barletta e soprattutto Brindisi, oltre a quelli minori di Trani, Bari e Otranto. Sia i Templari che gli Ospitalieri ebbero nel porto di Brindisi una propria darsena e un proprio arsenale, giacché, quando nei primi decenni del XII secolo – subito dopo la fondazione stessa degli Ordini

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nave Galea giovannita e sotto nave tonda templare

– i primi insediamenti in Italia si stabilirono lungo la costa adriatica, le loro basi principali furono create nei porti di Barletta e Brindisi. Ospitalieri, Templari e Teutonici, fondarono domus proprie in queste due città costiere per poter usufruire dell’utilizzo del porto per la comunicazione via mare con l’Oriente, e Brindisi in particolare, divenne il

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loro centro portuale strategico fin da quando, in epoca normanno-sveva, i primi frati-guerrieri si stabilirono in città. Gli Ospitalieri di San Giovanni – detti anche Giovanniti – a Brindisi fin dal 1156, possedevano una chiesa con un grande ospedale nei pressi dal porto, la chiesa era sulla via Marina angolo via Santa Chiara con a fianco, di fronte al mare, l’ospedale con sul retro altre varie strutture di cui sussistono tuttora importanti evidenze. Nel 1244 a Brindisi era precettore frate Egidius. Nel 1289, il gran maestro degli Ospitalieri Jean de Villiers giunse a Brindisi in cerca di soccorsi per San Giovanni d’Acri che il 1291 sarebbe poi caduta nelle mani dei Mamelucchi. Nel porto gli Ospitalieri ebbero il loro arsenale, con cale, portici e grandi magazzini, mentre in città e in campagna possedevano numerosi beni. Dopo la soppressione dell’Ordine templare, anche a Brindisi i Giovanniti – poi divenuti Cavalieri di Rodi, conquistata con una spedizione partita da Brindisi nel 1310, e infine Cavalieri di Malta – ereditarono i loro beni, tra cui il casale di Maruggio e tutti gli altri che erano nel leccese. I Templari si insediarono a Brindisi probabilmente intorno al 1169, e nel 1196 era precettore il frate Ambrogio. Nel 1244 il frate Bonesigna era precettore della domus militiae templi in Brundisio, presso la chiesa di San Giorgio de Templo. Non è completamente chiaro dove tale domus fosse ubicata, e infatti si sono ipotizzate due possibili locazioni: una vicino l’attuale stazione ferroviaria, nei pressi del bastione San Giorgio, quindi praticamente ai limiti urbani, l’altra nelle vicinanze di San Giovanni al Sepolcro, in posizione un po’ più centrale e funzionale, più vicina al porto dove i Templari ebbero il loro arsenale, le cale e i magazzini. Nel 1269 era precettore il frate Ginardo. Intorno al 1289 nella domus brindisina era precettore il frate Guglielmo de Noset e vi si effettuarono cerimonie di ricezione per il miles Guglielmo de Beriant e i servienti frati Jacobo de Ancona e Vassilio de Marsilio. Ultimo precettore dei Templari di Brindisi fu il serviente frate Hugo de Samaya, che comparve come testimone nel famoso processo che si tenne nel 1312 in predio Santa Maria del Casale. Per quanto infine concerne il terzo degli ordini militari, quello dei Teutonici – ultimo a insediarsi in Brindisi – già nel 1191, quindi fin della fondazione stessa dell’Ordine, esisteva in città un Hospitalis Alamannorum di Santa Maria dei Teutonici – cui fu anche annessa chiesa con cimitero – ad uso dei pellegrini, che fu guidato dal magister Guinandus, con i frati Artimon, Elbert, Meinbert e Ugo. Molto importante fu poi la donazione fatta dallo svevo Federico II a favore dell’Ordine germanico nel 1215: si trattava della famosa domus appartenuta all’ammiraglio Margarito – sita dove fu poi edificata la chiesa di San Paolo eremita – che comprendeva diverse


scudo giovannita

scudo templare

scudo teutonico


CULTURE

Porto di Brindisi. Incisione su rame del 1764. Rappresenta la carta nautica del Porto e della costa di Brindisi in Puglia, sono segnate le misure della profondità del mare in leghe. In ottime condizioni, su carta vergata priva di filigrana. Incisa da Joseph Roux.

superfici e pertinenze sino al mare, in cui i monaci guerrieri tedeschi installarono la loro sede. L’Ordine possedeva anche altri beni in città, tra cui un feudo nei pressi della località San Leucio sul Seno di Ponente e dall’imperatore Enrico VI aveva avuto la concessione del castello di Mesagne. Con la caduta degli Svevi e l’avvento degli Angioini, i Teutonici si ritirarono da Brindisi, ma il loro ospedale continuò ad operare a lungo “sul principio della piazza grande d'attorno al castello grande, sulla riva alta che mira il destro corno del porto“. La politica angioina, ancor più di quanto lo era stata quella precedente sveva, fu in genere favorevole agli Ordini – soprattutto agli Ospitalieri, ma all’inizio anche ai Templari, e molto meno ai Teutonici, naturalmente più fedeli agli Svevi – e permise loro di esportare dai porti pugliesi in esenzione di imposta, almeno sino a tutto il secolo XIII. Infatti, anche se non è possibile quantificare le dimensioni delle flotte templari e ospitaliere, sono abbastanza numerose le attestazioni pervenute relative alle loro navi e, a maniera di esempio per il solo porto di Brindisi – certamente il più importante in funzione strategica e militare, affiancando allo stesso tempo Manfredonia e Barletta in funzione mercantile – il Ricci cita gli episodi seguenti: «Nell’inverno 1269-70 nel porto di Brindisi

si trovava ormeggiata la nave degli Ospitalieri Santa Lucia per subire delle riparazioni. Nel febbraio 1270, per richiesta del maestro venerabile di Acri, furono prelevate con autorizzazione regia, trecento salme di frumento da Barletta e duecento d’orzo da inviare a Brindisi dove analogo quantitativo di frumento ed orzo con sedici cavalli e muli doveva essere imbarcato per Acri, per la casa giovannita, sulle navi dell’ordine che si trovavano alla fonda nel porto brindisino. Nel febbraio 1278 la nave Bonaventura degli Ospitalieri sostava nel porto di Brindisi, diretta ad Acri con un carico di varie derrate alimentari, tra cui legumi, formaggi, carne salata, vino, olio, e vari animali vivi, suini e galline. Molte personalità religiose e diplomatiche viaggiavano dalla Terrasanta per l’Occidente sulle navi degli Ordini, facendo scalo e sosta nel porto brindisino: Nel 1272 in occasione dell’elezione di Gregorio X al soglio pontificio, Carlo I d’Angiò mandò in sua rappresentanza ad Acri Stefano de Sissy, precettore delle domus templari del regno di Sicilia, e Fulcone de Podio Riccardi, che si imbarcarono da Brindisi su una barca che lo stesso re aveva noleggiato per il trasporto i due Templari in Terrasanta. Nel 1274, Guglielmo de Corcelle dell’Ospedale di Acri, Arnolfo del Tempio e Giacomo Vital, vi sostarono in at-

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tesa di riprendere il viaggio per Lione dove li attendeva il conclave indetto da Gregorio X finalizzato al sostentamento finanziario della crociata. Nel 1276 raggiunse Brindisi e vi sostò, la nave di Pontius de Fay, priore dell’Ospedale d’Ungheria, con i suoi familiari, quattro cavalli e otto muli. Nell’anno 1278 si attesta che fossero presenti a Brindisi per essere riparate, sia la nave templare Santa Maria di Simone di Belvedere viceammiraglio del regno di Sicilia, e sia la nave Bonaventura degli Ospitalieri. Nel 1282 un’imbarcazione templare era a svernare e a fare manutenzione nel porto al comando di fra' Vassayl da Marsiglia [occasione in cui il piccolo Ruggero Flores s’imbarcò, affidato dalla madre a quel templare]. Nell’aprile 1307, quando l’Ordine giovannita era impegnato nella conquista di Rodi, Roberto d’Angiò ordinava al capitano e custode del porto di Brindisi di mettere a disposizione dell’Ordine due galee in assetto di guerra, la Sant’Agna e la Pazza, già riparate e ancorate nel porto di Brindisi e altre due la Santa Margherita e la San Cataldo, da riparare con urgenza.» Nel 1312, dopo la condanna e l’estinzione dei Templari, le navi dei Cavalieri del Tempio passarono agli Ospitalieri e la loro potenza navale crebbe e si consolidò, operando per secoli dalla base di Rodi e poi di Malta.


CULTURE

E il chirurgo francavillese volle restare in Argentina

Fuga di cervelli già nel 1880 di Gianfranco Perri ditorialisti e politici, da un po’ di tempo a questa parte ci commentano periodicamente, con toni per lo più allarmistici, il fenomeno della “fuga dei cervelli” – dall’Italia o da una qualche specifica città o regione, a secondo della circostanza o del commentatore in essere – e lo fanno con la supposizione di starci segnalando un fenomeno nuovo, oltre che ovviamente ben diverso dallo quello storico dell’emigrazione massiva di cui gli italiani furono protagonisti a più ondate sull’arco di circa un secolo: dalla nascita stessa dello Stato Italia e fino a tutto il lungo secondo dopoguerra. Ebbene tale fenomeno dei supposti “cervelli in fuga” – cioè dei tanti italiani non poveri e ancor meno poco istruiti, ma al contrario colti più che laureati e magari anche benestanti, che decidono trasferirsi all’estero – non è invece per niente nuovo, e di esempi per dimostrarlo se ne potrebbero citare moltissimi, a partire nientemeno che dal famoso inventore del telefono: Antonio Meucci, l’ingegnere elettromeccanico fiorentino che nel 1835 si trasferì a Cuba e poi nel 1850 a New York, dove poté perfezionare la più straordinaria delle sue invenzioni. Ma, pur essendo l’argomento della “fuga dei cervelli” interessante, nonché alquanto complesso e certamente meritevole di una più estesa articolazione, l’affrontarlo non è obiettivo centrale di questo scritto giacché, invece, è qui solo il pretesto introduttorio per un tema molto più specifico: il racconto della vita e soprattutto dell’opera di un nostro “comprovinciale”, come lo appellava il titolo di un articolo comparso su “La Provincia di Lecce” del 20 novembre 1904, annunciandone il decesso avvenuto qualche settimana prima a Buenos Aires e suggerendo ai francavillesi l’intitolazione di una via a quel loro illustre concittadino – suggerimento poi accolto. Centocinquanta anni fa, il venticinquenne francavillese Cesare Milone prendeva la laurea di medico chirurgo nella prestigiosa Università Federico II di Napoli. Era il 2 agosto 1869, agli albori della nuova nazione

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Il dottore Cesare Milone, chirurgo e accademico di Francavilla

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Nuova sede della Facoltà di Medicina di Buenos Aires inaugurata nel 1895, sotto Francavilla Fontana in festa nel settembre del 1904. A sinistra il dottore Cesare Milone, chirurgo e accademico francavillese

italiana la cui capitale era stata provvisoriamente posta a Firenze in attesa dell’ormai imminente liberazione di Roma. Cesare Milone era nato il 13 giugno del 1844 a Francavilla d’Otranto, quando la sua città natale non era ancora diventata Francavilla Fontana – sarebbe ac-

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caduto nel 1864 – e apparteneva, appunto – come anche Brindisi – all’allora Provincia di Terra d’Otranto che aveva Lecce come capoluogo. E Francavilla, allora capoluogo di circondario, era il comune più popolato del distretto di Brindisi cui apparteneva: nel primo censo del nuovo Regno d’Italia, quello del 1861, Francavilla registrò ben 15.844 abitanti mentre Brindisi ne registrò solo 9.137. Cresciuto a Francavilla nel seno di una tradizionale famiglia borghese e diplomatosi nello storico Real Collegio Ferdinandeo, quando decise di intraprendere gli studi di medicina, Cesare non ebbe dubbi su quale dovesse essere l’università, e Napoli – la colta e scientificamente avanzata capitale del regno in cui era nato – fu la scelta indiscussa: era lì che, infatti, confluivano allora a studiare le migliori menti dell’intero Meridione italiano. Cesare fece molte conoscenze tra cui, in particolare, quella di un coetaneo che divenne suo compagno di studi: Francesco Durante, neurochirurgo messinese che quando nel 1879 fu nominato ordinario della cattedra di Patologia chirurgica nell’Università di Roma, volle al suo fianco il bravo amico e collega Cesare Milone. Milone peraltro, dopo aver esercitato da maggio 1871 a novembre 1874 come medico municipale di Grotta Ferrata, era già da alcuni anni attivo presso l’Università di Roma, giacché aveva intrapreso la carriera universitaria ed era stato aiutante di Anatomia del professor Francesco Todaro, con il quale ebbe modo di perfezionare la tecnica della dissezione e l’arte dell’imbalsamatura, nonché di fare pratica presso il Museo francese di Anatomia Orfila. In quell’occasione, a Parigi, Milone conobbe l’anatomista francese Marie Philibert Constant Sappey, rinomato esperto nel drenaggio linfatico cutaneo con il quale instaurò fruttiferi rapporti di collaborazione e, sempre a Parigi, fu premiato per un suo innovativo procedimento di dissezione dell’orecchio. In seguito, durante il triennio 1876-1878, Milone fu assistente di Clinica chirurgica del prestigioso professore Costanzo Mazzoni, il quale in una comunicazione all’Accademia medica di Roma del 24 giugno 1877 presentò due innovativi strumenti chirurgici messi a punto dal suo assistente dott. Milone. Sono inoltre di quegli anni diversi articoli scientifici del dottore Cesare Milone, di cui due pubblicati negli Atti della Accademia Nazionale dei Lincei: “Cellula gigantesca del tubercolo - 1877” e “Anatomia comparata della pterotrachea - 1879”. E nel Museo di Anatomia dell’Università di Roma, presso l’Ospedale Santo Spirito dove funzionava la Clinica di Anatomia, rimasero esposti per molti anni i disegni originali e un campione anatomico di paternità Cesare Milone, relativi alla dissezione chirurgica dell’udito, andati dispersi nel bombardamento del 19 luglio 1943 a San Lorenzo durante la Seconda guerra mondiale. Ebbene, quando nel 1880 il governo argentino sollecitò all’Università di Roma poter contare – per un limitato periodo di tempo – su un professore di medicina per l’istituzione di una cattedra di Anatomia pratica e di un Museo anatomico presso l’Università di Buenos Aires, fu il professore Todaro, divenuto senatore, che indicò quale miglior candidato per quell’importante compito, il bravo dottore Cesare Milone. E così, l’idea di quel prestigioso e delicato incarico docente, e il desiderio di scoprire nuovi orizzonti professionali e di vita, si coniugarono a favore della decisione del trentacinquenne Cesare di accettare quella sfida. Quelli che seguirono, furono anni che dovevano registrare importanti eventi univer-


(Q HO FLUXMDQR GH )UDQFDYLOOD &pVDU 0LORQH HVFRJLy TXHGDUVH HQ $UJHQWLQD DTXHOOR GH ORV MyYHQHV FHUHEURV HQ IXJD SRU OR WDQWR QRQ HV XQ SUREOHPD VRODPHQWH DFWXDO Gianfranco Perri

El doctor César Milone, cirujano y académico de Francavilla


sitari nella città di Buenos Aires, eventi destinati a diventare iconici per la storia della scuola medica argentina, in buona parte segnata proprio dall’azionare del dottore Cesare Milone, che a Buenos Aires rimase per il resto degli anni della sua vita, lavorando da rispettato e ammirato docente di Anatomia, nonché da rinomato e benvoluto professionista della chirurgia. E mettendo su famiglia, con la moglie argentina, Maria Gonzales, dalla quale ebbe quattro figli. Ed è proprio grazie a quella famiglia, ormai di fatto argentina – a quei tempi la scelta di Cesare implicava, quasi per certo, di tagliare praticamente del tutto i ponti con l’Italia – che il caso mi ha fatto incontrare con Cesare Milone, tramite Santiago Vega, suo pronipote che abita a Buenos Aires e che, stimolato dai ricordi trasmessigli dalla madre Giustina Milone, ha avviato in Argentina una fruttuosa ricerca per ricostruire la vita e l’opera del suo bisnonno, il medico chirurgo professore di anatomia, originario di Francavilla Fontana: una vita e un’opera quindi, dalle indubbie radici brindisine. Il giovane Santiago mi ha raccontato e mi ha ampiamente documentato, con diplomi, premi, attestazioni, medaglie, articoli e riconoscimenti vari, l’encomiabile e fruttifera opera professionale del suo avo francavillese: Nella Facoltà di medicina dell’Università di Buenos Aires, Milone insegnò Anatomia descrittiva e topografica per vent’anni, contribuendo alla formazione di varie generazioni di medici argentini, con le sue magistrali lezioni e le sue seguitissime pratiche sulla tecnica della dissezione e sull’arte dell’imbalsamatura. Nel 1884 si inaugurò l’Hospital de Clinicas di Buenos Aires e iniziò a costruirsi la nuova sede della Facoltà di medicina, progettata dall’architetto italiano Francesco Tamburini amico di Cesare Milone – erano giunti in Argentina assieme – che fu inaugurata nel 1895 assieme al suo primo Istituto medico: quello di Anatomia pratica, diretto da Cesare Milone. Nel 1892 Milone ottenne dalla Regione Tucumán la medaglia d’oro di medicina per aver messo a punto uno speciale strumento per il trattamento delle occlusioni intestinali, e dal Collegio dei medici argentini fu premiato con una medaglia d’argento per i suoi studi pratici sulla chirurgia dell’udito. Ma, oltre ai tanti premi e alle tante attestazioni ufficiali, ad illustrare l’opera professionale di questo eminente medico francavillese, è forse più giusto ricordare alcune poche espressioni di quanti lo conobbero da vicino e che dai suoi insegnamenti impararono, professione e non solo: «Era Milone un uomo gentile e di grande bontà, un insegnante senza alcuna riserva, mai infastidito dalla curiosità dei suoi tanti studenti... Dall’aspetto piacevole, di statura media e con folti baffi neri, era miope, con gli occhiali legati ad una corda di seta nera che gli pendeva attorno al collo, e parlava con tonalità e pronuncia italiane che non poté mai cambiare... All’inizio della lezione pratica, si toglieva gli occhiali e cominciava a dissezionare, ordinatamente ed in modo perfetto, ottenendo preparazioni degne di un museo; nelle brevi pause della pratica, parlava, ed emergevano, senza che lui se lo proponesse minimamente, l’ampia cultura generale, la sensibilità e l’autentica bontà del personaggio... Fu Milone a cambiare radicalmente il me-

todo di insegnamento dell’anatomia in Argentina, con dimostrazioni oggettive e con pratiche realizzate sotto la vista diretta e particolareggiata degli studenti. Fu lui che, sostituendo quella descrittiva, introdusse l’anatomia topografica su piani sovrapposti, con cui scomponeva l’organismo in sistemi e studiava in ciascun sistema, uno ad uno, tutti gli organi del settore in esame...» [Avelino Gutierrez et Al.] Tra i tanti documenti pervenuti, non ci sono tracce certe delle ragioni che determinarono la decisione di Cesare Milone di non rientrare più al suo posto, nell’allora Regia Università di Roma. Però, forse, non è impossibile immaginarne alcune, tra le quali non dovette certo essere secondaria quella che ha per nome “Maria Gonzales”. E poi: a Buenos Aires stava esplodendo quella che in Argentina sarà ricordata come “l’età dorata 1880-1910”, mentre a Roma si continuava a dibattere da anni sulla necessità di costruire un’unica sede per la scuola medica, “che fosse all’altezza delle più celebri scuole estere” e non si continuasse con una facoltà in gravi difficoltà, frammentata com’era in cliniche distribuite tra ben cinque ospedali – il funzionamento del finalmente costruito Policlinico universitario romano iniziò nell’agosto del 1904, proprio in concomitanza con la morte di Milone. E a Roma, inoltre, la farraginosa mac-

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china burocratica che governava la carriera universitaria, della docenza e della ricerca, era già allora abbastanza appesantita da, probabilmente, non stimolare troppi entusiasmi tra chi, non più molto giovane, sprizzava ancora tante energie e tante idee innovatrici. I dati ISTAT indicano che nel 2018 si sono trasferiti all’estero quasi 30.000 italiani laureati, circa un terzo degli espatri, in netto aumento rispetto agli anni precedenti di un totale di 180.000 laureati negli ultimi 10 anni. Sorge spontaneo il dubbio: è un dato negativo? Segno che dopo oltre 150 anni dall’Unità, lo Stato non è ancora riuscito a creare stimoli ed opportunità sufficienti ad evitare l’emorragia? O è un dato positivo? Segno dei tempi che avanzano nell’inarrestabile contesto della globalizzazione? Difficile formulare una risposta definitiva al quesito. Più facile è invece affermare che, senza ombre di dubbio, con il nostro “comprovinciale” francavillese Cesare Milone, l’Italia perse uno dei migliori del suo tempo, uno dei suoi più bravi e promettenti medici e accademici, anche se consola il fatto che lo perse a beneficio di un Paese, se pur lontano, comunque vicino anche a tantissimi italiani che, per loro sorte, poterono conoscerlo e poterono giovarsi delle sue grandi doti umane e professionali.


cultuRe

BRINDISI E VENEZIA TRA ACCORDI SOLENNI E SEVERE DISPUTE di Gianfranco Perri

ella prima metà del X secolo, i lagunari avevano già iniziato ad estendere il loro raggio d’azione e Venezia aveva cominciato a perseguire il controllo dell’Adriatico a sostegno e difesa dei propri interessi mercantili. Inoltre, grazie alla rinomata abilità della sua marina, la città di San Marco già manteneva una relazione privilegiata con l’impero romano d’oriente dal quale aveva ricevuto importanti riconoscimenti e alla fine dell’XI secolo i Veneziani erano di fatto diventati i principali clienti e i fornitori preferiti di Costantinopoli. A diretta conseguenza di quell’espansione, Venezia rafforzò i contatti con tutte le regioni costiere adriatiche e in special modo con i più importanti porti pugliesi, tra cui quello di Brindisi, strategica città per secoli contesa da Bizantini, Longobardi, Arabi e Franchi e successivamente, dalla fine dell’XI secolo, integrata al regno di Sicilia, dei Normanni prima e degli Svevi, degli Angioni, degli Aragonesi e degli Spagnoli dopo. Con le prime crociate, Venezia consolidò la propria posizione sullo scacchiere del Mediterraneo orientale, accumulando notevoli ricchezze con le razzie e, soprattutto, con il controllo dei commerci su vaste aree del Levante. E con la IV crociata la Repubblica di San Marco si inserì decisamente nel novero delle potenze marittime dell’epoca quando, nel 1204, guidò la presa di Costantinopoli e concretizzò il possesso di tutta una serie di strategiche isole porti e fortezze costiere nello Ionio e nell’Egeo. Dopo qualche centinaio d’anni di potere marittimo, l’invasione francese dell’Italia nel 1494 ed il gioco di alleanze che ne seguì per contrastarla, permise a Venezia di ottenere tre strategici avamposti portuali in Puglia – Trani, Brindisi e Otranto – regione chiave per il controllo di Adriatico e Ionio. Poi però, nel 1509, una poderosa lega internazionale sorta in funzione anti-veneziana, costrinse la Serenissima a rinunciare all’occupazione di quei porti pugliesi a favore della corona spagnola di Carlo V, già detentrice del resto del Regno di Napoli.

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Nel 1669 l’impero turco conquistò la veneziana Creta, e Venezia si rifece qualche anno più tardi strappando ai Turchi il Peloponneso, ma nel 1714 i Turchi se lo ripresero e tentarono – comunque senza esito – di prendere anche Corfù, che restò così ultimo baluardo di quello “Stato da mar” che era stata Venezia. L’Adriatico già non era il “Golfo di Venezia” demarcato dall’asse Brindisi-Corfù, ed in quel mare ormai le flotte straniere operavano tranquillamente senza il permesso di Venezia. La potenza veneziana dominatrice dell’Adriatico era un ricordo lontano e la un tempo temibile flotta da guerra veneziana stentava finanche a proteggere i convogli dagli attacchi corsari. E a chiudere la parabola della Serenissima, sopraggiunse infine l’uragano napoleonico. Ebbene, nel contesto della parabolica evoluzione veneziana s’inserirono gli interessi di Venezia per le relazioni commerciali con i porti pugliesi – con i carichi di vino, di olio, di grano, di frumento, di lana e di legumi, che le navi di san Marco esportavano in grande quantità e con le tante merci che le stesse navi vi portavano da Venezia, da molti scali mediterranei e da porti ancor più lontani d’Oriente – interessi commerciali che si allargarono alla sfera politico-militare, quando Venezia, oltre all’acquisizione di vantaggiose esenzioni fiscali e di molti altri privilegi e monopoli, cominciò ad ambire alla conquista di quelle stesse città già per secoli trattate per lo più amichevolmente e quindi molto ben conosciute. Così, nel 1496 Brindisi fu, non conquistata, ma in qualche modo comprata da Venezia, e i Veneziani la governarono – discretamente bene – per tredici anni, fino al 1509, quando passò ad integrare il viceregno spagnolo di Napoli, senza che comunque Venezia abbandonasse da subito l’idea di una eventuale riconquista, aspirazione certamente ancora viva perlomeno fino a quell’ultimo tentativo concreto effettuato durante la cosiddetta “Campagna di Puglia” del 1528 e 1529. Poi, finalmente, cessarono le secolari aspirazioni veneziane di conquista su Brindisi e scemarono le dispute militari tra le due città, senza che comunque cessassero le relazioni commerciali destinate, invece, a perdurare tra alti e bassi

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una galea veneziana del XVi secolo

molto a lungo: per sempre. Dettagliando, in ordine cronologico e sintetizzando al massimo, si può iniziare dal primo formale approdo militare dei Veneziani in Terra d’Otranto quando, già ben entrato il IX secolo, giunsero con una flotta a Taranto – che come Bari era stata conquistata dai Saraceni – riuscendo a restaurare il dominio bizantino su quella città, e poi, qualche anno dopo, parteciparono anche alla liberazione di Bari dall’emiro Sawdan. Quindi, le relazioni tra Venezia e la Puglia vissero per un secolo vicissitudini alterne, con i tanti vantaggiosi scambi specialmente favorevoli a Venezia quando sembravano prevalere i Bizantini, e con le continue tensioni quando gli Arabi, occupata stabilmente la Sicilia, scorribandavano sistematicamente sulle coste adriatiche del tacco peninsulare. Poi, tra l’XI e il XII secolo, tutto cambiò quando sopraggiunsero i Normanni e fondarono il regno di Sicilia, integrando in uno stato unitario tutti quei territori laddove si erano avvicendati e sistematicamente combattuti per secoli i Bizantini, i Longobardi, i Franchi e gli Arabi. Venezia, temendo per i propri interessi nell’Adriatico, cercò vanamente di osteggiare la conquista normanna della Terra d’Otranto e iniziando il secolo XII, alleatasi con l’Ungheria, impulsò un’incursione navale dalla Dalmazia su Monopoli e su Brindisi, che fu brevemente occupata. In seguito, quando i Normanni si ritirarono dalla dirimpettaia costa adriatico-ionica, le relazioni commerciali tra la Repubblica e il Regno migliorarono e i commerci fiorirono con le flotte mercantili veneziane che recandosi in Oriente, poggiavano sempre a

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Otranto o a Brindisi. Con gli Svevi sul trono di Palermo, nei primi tempi le relazioni commerciali con Venezia si mantennero, giacché l’imperatore Enrico VI riconfermò i diplomi emanati dai Normanni e, poco dopo la morte dell’imperatore, quando ancora era in corso la confusa transizione politica tra Normanni e Svevi, nel settembre 1199 a Brindisi si stipulò un solenne patto di pace e di mutua difesa con Venezia, con cui seguirono alcuni anni di rinnovate fruttifere relazioni commerciali. Poi però, i rapporti tra Venezia e Federico II si incrinarono a causa dell’alleanza di Venezia con Genova e col pontefice Gregorio IX, il quale nel 1240 indusse la Repubblica veneziana a inviare una sua armata in Puglia, per assediarla e tentare di prendere un suo porto, magari Brindisi: l’impresa non riuscì, ma l’armata veneziana attaccò varie città costiere e diversi convogli di regie navi mercantili, tra cui un’enorme nave che proveniente dalla Siria affondò proprio nei pressi di Brindisi con a bordo mille marinai. Federico II comunque, nei suoi ultimi anni rinnovò buone relazioni con Venezia e Manfredi, suo figlio e successore, li ratificò concedendo inoltre a Venezia di pagare un dazio minimo sui prodotti acquistati e di esportare diecimila salme di grado da alcuni dei porti pugliesi, tra cui Brindisi. E con le relazioni commerciali notevolmente incrementate, si aprì il consolato veneziano a Trani, con viceconsoli a Barletta, Manfredonia e anche a Brindisi. Con gli Angioini sul trono di Napoli, il re Carlo I, senza abrogare né riconfermare i diplomi svevi, permise comunque i rapporti con Venezia e il porto di Brindisi continuò a svolgere un ruolo nell’esportazione granaria e soprattutto olearia verso Venezia e nella redistribuzione dei prodotti industriali in arrivo da quella Repubblica. Con la guerra dei Vespri però, il ruolo commerciale di Brindisi cominciò a ridimensionarsi e la città iniziò a impoverirsi tanto che, a causa dei privilegi vecchi e nuovi a favore di Venezia ritenuti dai Brindisini eccessivi al confronto delle enormi fiscalità imposte loro, iniziarono a manifestarsi da parte dei cittadini rappresaglie a danno di navi veneziane, con conseguenti pesanti reazioni. Dopo reiterati reclami formali di risarcimento fatti giungere persino al re di Napoli Roberto, il senato repubblicano nel giugno 1342 ordinò la rottura di ogni relazione della Repubblica con i Brindisini e il sequestro, ovunque possibile, dei prodotti e dei beni di questi. Poi, sotto il regno di Giovanna I, dopo la carestia del 1345 e la peste del 1348, Brindisi – nonostante l’importante diploma che con enormi concessioni a Venezia aveva emesso nel 1357 il principe di Taranto – imboccò decisamente la via di un prolungato ed accelerato processo di immiserimento, tanto che nel 1381, il re successore, Carlo III, per provare a far rivivere la città, estese al porto di Brindisi le franchigie già godute dai Veneziani nel porto di Trani, privilegio poi riconfermato e nuovamente ampliato nel 1410 dal re Ladislao e quindi anche dalla regina Giovanna II nei trattati dell’aprile 1419. Con l’arrivo degli Aragonesi sul trono di Napoli, la situazione per Brindisi peggiorò ancor più, sia perché le relazioni del Regno con Venezia si deteriorarono fino a sfociare nel 1449 in guerra aperta, e sia a causa della malaugurata idea che ebbe il principe di Taranto Giovanni Antonio Orsini del Balzo, di chiudere l’accesso al porto interno, ostruendone il canale per impedire l’ingresso alla città di eventuali forze invasori veneziane. Poi, con il trascorrere degli anni e con l’evolvere delle complesse interrelazioni politiche tra gli Stati, in particolare con la caduta di Costantinopoli nel 1453, i


Galeazza veneziana del XVI secolo

Venezia

Brindisi

Gli Srtadioti al servizio di Venezia


rapporti cambiarono ancora e si avviò una nuova, anche se breve, stagione di fruttiferi scambi commerciali tra Venezia e Napoli, di cui beneficiò anche Brindisi che vide gradualmente ristabilire e intensificare i suoi contatti diretti con la Serenissima. Però, tra Venezia e Napoli sorsero nuove tensioni che raggiunsero l’apice nel 1480 a seguito della caduta di Otranto in mano ai Turchi. Ferdinando I – il re Ferrante – considerò, pur senza averne prove certe, che Venezia in quel frangente avesse parteggiato per gli Ottomani, quanto meno per omissione. E i rancori sfociarono in ostilità nel 1482, quando Ferdinando I, parente del duca Ercole di Ferrara, volle tutelarne gli interessi contro la Serenissima nella disputa sorta intorno ai confini di quei due stati limitrofi. E la guerra ebbe un’importante eco anche in Puglia, che fu razziata e devastata dagli Stradiotti dell’armata veneziana che al comando del loro capitano Giacomo Marcello sbarcarono a Guaceto e, depredate San Vito e Carovigno, si diressero su Brindisi. La città fu difesa da Pompeo Azzolino e Marcello decise dirigersi su Gallipoli, ritenuta essere una presa più facile. Sul finire del 1494, approfittando della critica situazione interna in cui – in seguito della congiura dei baroni – versava il regno napoletano, il re di Francia Carlo VIII discese in armi in Italia e senza incontrare resistenza militare alcuna, il 22 febbraio del 1495 si sedette sul trono di Napoli con mira a procedere da lì, alla conquista del Sud, mentre il re Ferrantino si era rifugiato in Sicilia. Allarmati per quella troppo veloce e facile conquista francese in territorio italiano, gli altri stati europei costituirono la Lega Santa a cui aderirono il papa Alessandro VI, il sacro romano imperatore Massimiliano I, Ludovico Sforza di Milano e la Repubblica di Venezia. A quel punto Carlo VIII preferì lasciare Napoli e battere in ritirata mentre Ferrantino ritornava sul trono di Napoli. Ovviamente, il determinate intervento di Venezia a favore del Regno di Napoli contro l’invasione francese, non era stato disinteressato e neanche gratuito. Il prezzo, inizialmente stipulato per un semplice prestito e poi per la protezione armata, fu il pignoramento alla Repubblica di: Brindisi, Otranto e Trani. E il 30 di marzo 1496 nella cattedrale di Brindisi si formalizzò la consegna. Nonostante la diffidenza e anzi l’aperto malcontento che caratterizzò l’animo dei Brindisini a fronte della cessione della propria città ai Veneziani, la nuova situazione doveva rivelarsi alquanto positiva: Venezia non solo confermò tutti i privilegi concessi a Brindisi dai governanti aragonesi, ma ne aggiunse altri importanti, fra cui quello che tutte le galere veneziane, dovendo passare nei paraggi di Brindisi, dovessero entrare in porto e rimanervi per tre giorni. I Brindisini esternarono presto la loro soddisfazione e Brindisi conobbe anni di benessere e di espansione dei propri commerci, traffici e industrie. L’11 novembre del 1500 si stipulò un accordo, tra il re di Spagna Ferdinando il Cattolico e il re di Francia Luigi XII, per spartirsi il regno aragonese di Napoli e l’accordo, nel 1504, sfociò in guerra aperta tra i due paesi alla fine della quale gli Spagnoli ebbero la meglio e Ferdinando il Cattolico divenne il nuovo sovrano di Napoli. Venezia rimase neutrale in quella guerra

e dei benefici di quella neutralità poté usufruire anche Brindisi, ma la prosperità della città doveva durare ancora poco. Venezia fu, nel 1508, attaccata da una Lega di innumerevoli nemici coordinati dal papa Giulio II e guidati dall’imperatore Massimiliano I d’Austria ed alla fine dovette soccombere, e per salvare il salvabile sacrificò una buona parte dei propri possedimenti, tra cui Brindisi. E nel 1509 i Veneziani, dopo soli tredici anni di formale possesso, consegnarono la città agli Spagnoli. Nel maggio 1526, promossa dal re di Francia Francesco I, si costituì la Lega di Cognac contro Carlo V, sacro romano imperatore e re di Spagna e quindi di Napoli, a cui aderirono Firenze, Milano, l’Inghilterra, Venezia e il papa Clemente VI. Nell’agosto del 1527 i collegati decisero portare la guerra al sud e ai primi di marzo 1528 entrarono in Puglia conquistando varie città per poi dirigersi su Napoli, mentre i Veneziani, con l’obiettivo di riprendersi i porti perduti nel 1509, proseguirono con la flotta ancora più a sud. L’ammiraglio veneziano Pietro Lando però, nonostante i ripetuti attacchi sferzati, non riuscì a espugnare i due castelli di Brindisi e dovette rinunciare temporalmente all’impresa lasciando a Brindisi seicento soldati e tre galee al comando di Camillo Orsini, per mantenere l’assedio i castelli. Dopo la sconfitta subita a Napoli dai collegati, Brindisi fu riconquistata dagli imperiali e solo l’anno seguente, 1529, i Veneziani vi tornarono per ritentare la conquista dei castelli. Il 12 agosto, Orsini, sbarcate le sue truppe a Guaceto, rioccupò la città e, non riuscendo a espugnare i castelli, chiese rinforzo al capitano papalino Simone Tebaldi, detto Romano, il quale, giunto a Brindisi con i suoi 16.000 soldati, in una ricognizione intorno al castello di terra, il 28 agosto trovò la morte per un fortunoso colpo di artiglieria degli assediati, proprio quando – con la notizia che a Cambrai il 5 agosto era stata firmata la pace – giungeva la disposizione di togliere l’assedio alla città. Ma per Brindisi era ormai troppo tardi: l’uccisione del capitano Romano aveva già scatenato l’inferno, il tristemente famoso sacco di Brindisi del 1529. La pace di Cambrai, firmata alle spalle di Venezia, per quel che riguardava la Puglia stabiliva la cessione delle terre occupate dalle forze

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della Lega e così, Brindisi, dopo apprensive consultazioni indugi e ripensamenti, i primi di settembre fu finalmente abbandonata dai Veneziani, che dopo quell’ultimo tentativo di penetrare in Puglia e conquistare Brindisi, rinunciarono per sempre al loro disegno. E a Brindisi, con il ricordo del pur breve buon governo, rimase anche l’idea che, magari indirettamente e solo per interesse proprio, Venezia aveva in qualche modo preservato le terre pugliesi dall’invasione turca: senza la potenza marittima di Venezia, fu facile presumere che il Canale d’Otranto sarebbe stato varcato dai Turchi ben più in forze di come lo fu, e che l’Adriatico tutto sarebbe divenuto un lago ottomano. Eppure resterà, comunque e forse per sempre, il dubbio sulla eventualità che un diverso atteggiamento di Venezia – magari con meno ragion di stato e con un po’ più di solidarietà cristiana – avrebbe potuto evitare agli Otrantini la tragedia del 1480. Non essendoci invece dubbi che la ragion di stato, e forse ancor più il portafoglio di stato, fu per Venezia, nel bene e nel male, il costante life motive, il suo vero motore propulsore, durante tutti i secoli che accompagnarono la sua sfolgorante parabola. Altrettanto o ancor più difficile sarebbe, infine, tentar di emettere un giudizio completo e definitivo sulle plurisecolari relazioni intercorse – e qui passate sommariamente in rassegna – tra la plurimillenaria Brindisi e la potente Venezia. Relazioni che per così tanti secoli si susseguirono complesse e articolate, la cui evoluzione – con frequenza involuzione – fu molto spesso controllata, quando non direttamente dettata, dalla personalità dei principi di turno che la storia via via pose a governare la città più orientale d’Italia, nonché dagli aggrovigliati scenari internazionali nel contesto dei quali la città si trovò, diretta o indirettamente, coinvolta. Relazioni, infine, destinate a proseguire nei secoli e le cui tracce in Brindisi e nei Brindisini si sarebbero rivelate indelebili, sopravvivendo alla fine della Serenissima Repubblica e del Regno di Napoli a mano di Napoleone, nonché alla fine del restaurato Regno delle Due Sicilie e dell’austriaca occupazione del Veneto, e giungendo fino alla comune e solidaria appartenenza al Regno prima e alla Repubblica d’Italia dopo.


CULTURE Dopo l’attentato di Sarajevo l’Italia si dichiarò inizialmente neutrale per poi schierarsi con la Triplice alleanza. L’eroico sacrificio di cinque giovani italiani in Bosnia, primi caduti della Guerra

grande guerra: la prima azione armata italiana partì da brindisi nell’estate 1914 di Gianfranco Perri n mese dopo l’attentato di Sarajevo del 28 giugno 1914 in cui furono uccisi l’arciduca Francesco Ferdinando erede al trono austroungarico e sua moglie Sofia, l’impero dichiarò guerra alla Serbia. L’Italia, formalmente legata all’Austro-Ungheria e alla Germania dalla Triplice Alleanza, inizialmente si dichiarò neutrale per poi, quasi dieci mesi dopo, il 24 maggio 1915, schierarsi con la Triplice Intesa di Francia, Regno Unito e Russia. Fin dallo scoppio iniziale della guerra però, in tutta Italia cominciarono a sorgere voci, anche di peso, e movimenti di opinione a favore dell’immediato intervento in difesa della Serbia, al fianco di Francia, Regno Unito e Russia. Una tra le più rimbombanti e carismatiche di quelle voci fu quella del generale Ricciotti Garibaldi, il già sessantasettenne quartogenito di Giuseppe e Anita, arci-famoso per le sue tante conclamate gesta militari condotte durante tutto il corso della sua vita, sia in Italia che all’estero, nei Balcani in primis. Volontari garibaldini infatti, avevano partecipato alle varie rivolte antiturche: a quella del 1866-1867 in Creta con l’appena ventenne Ricciotti, a quella in Bosnia Erzegovina del 1875-1876, alla guerra serbo-turca nel 1876 e soprattutto, alla guerra greco-

U

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Sopra il Cimitero italiano di Belgrado con all'ingresso l'epigrafe commemorativa dei cinque caduti italiani. A sinistra a rotta di circa 2000 km Brindisi, Patrasso, Atene, Salonicco, Skopje. Kragujevacka, Babina Glava

turca quando, nell’aprile del 1897 nonostante le varie difficoltà interposte dalle autorità italiane ufficialmente neutrali, Ricciotti Garibaldi raggiunse la Grecia e con poco più di un migliaio di volontari – esattamente 1323 – il 17 maggio guidò a Domokos lo scontro con i Turchi. Quella battaglia contro forze soverchie costò la vita a ventidue dei garibaldini, molti dei quali erano salpati da Brindisi con la Cariddi il 28 aprile, e tra loro anche il deputato Antonio Fratti. Per fortuna, i tre volontari garibaldini brindisini, Achille De Pace – ferito – Giordano Barnaba – ferito e promosso tenente – e Ricciotti D’Amelio, riuscirono a rientrare a Brindisi il 1º giugno a bordo dell’Urania assieme a centinaia di atri garibaldini e con il comandante Ricciotti. E anche più di recente, meno di due anni prima nel 1912, nel contesto della prima guerra balcanica, Ricciotti accompagnato da ben cinque dei suoi dieci figli aveva guidato una spedizione internazionale in appoggio alla Grecia e il 14 dicembre con i suoi volontari a Drisko aveva affrontato i Turchi con un buon successo iniziale. In se-

guito però, non poté resistere alla controffensiva turca e dopo aver disciolto il corpo dei volontari rientrò a Brindisi il 28 dicembre 1912 a bordo del piroscafo Ismene, dichiarando di aver comunque “assolto il compito di dare alla Grecia un attestato di simpatia per la guerra intrapresa nella soluzione finale della questione balcanica secondo le idee di Mazzini e di Garibaldi”. E così, nello stesso giorno della dichiarazione di guerra dell’Austria alla Serbia, Ricciotti lanciò un proclama incoraggiando i giovani a sostenere il popolo serbo e, stigmatizzando le azioni asburgiche come potenzialmente pericolose per l’unità e la libertà d’Italia, invitando la gioventù italiana ad agire, in nome di Garibaldi, per difendere Trento e Trieste, con lo slogan: “Ogni nazione padrona a casa sua. Lunga vita al popolo serbo!” A Firenze, il comitato costituito dai circoli repubblicani per arruolare volontari disposti a raggiungere la Serbia e combattere a fianco dell’esercito di quel paese attaccato dall’impero fu immediatamente sciolto dalle autorità governative, e il ministro degli interni ordinò ai prefetti delle principali città adriatiche – Venezia, Ancona, Bari e Lecce (cui apparteneva Brindisi) – il monitoraggio dei porti per impedire qualsiasi tipo di spostamento di uomini e armi verso la Serbia e i Balcani. Mentre anche a Roma, Milano e in altre città, tutti quei gruppi che

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manifestarono le loro simpatie verso l’idea dell’interventismo volontario al fianco della Serbia, furono contrastati dalla polizia e obbligati alla clandestinità. Di fatto, pur non mancando importanti manifestazioni di appoggio da parte degli esponenti politici del partito repubblicano e nonostante Ricciotti avesse anche intrapreso un viaggio nelle capitali europee incontrando alcuni tra i maggiori statisti del tempo e prospettando loro la possibilità di formare un corpo di volontari per intervenire nei Balcani, per il veto del governo e l’ostilità dello stato maggiore in Italia, l’idea non progredì e il proclama non raccolse troppe entusiastiche adesioni, con la maggior parte dei giovani democratici italiani che, stimando minime le prospettive di essere messo in atto, decise di attendere gli ulteriori sviluppi della situazione. Ma ci fu una eccezione che, se pur numericamente limitata, era destinata a divenire storicamente emblematica della partecipazione italiana alla Grande guerra: una primissima azione armata che ebbe inizio proprio da Brindisi. Un gruppo di giovani volontari italiani lasciò le proprie case per unirsi all’esercito serbo, mossi dall’entusiasmo e dal convincimento di poter essere primi ed esempio per i tantissimi altri che presto li avrebbero seguiti. Furono solo sette, piccolo-borghesi, la maggior


Epigrafe commemorativa dei caduti di Babina Glava a Marino parte di loro provenienti dalla provincia di Roma, uno siciliano e uno appartenente a una importante famiglia di Salerno. Ideologicamente tra repubblicani e anarchici, erano comunque tutti profondamente idealisti e già legati al movimento garibaldino. Questi i nomi dei sette: Mario Corvisieri, i fratelli Cesare e Ugo Colizza, Arturo Reali, Nicola Goretti, Vincenzo Bucca e Francesco Conforti. Quest’ultimo, Corvisieri e Cesare Colizza, avevano partecipato alla battaglia di Drisko. Per non destare sospetti, giunsero a Brindisi alla spicciolata e il venerdì 31 luglio s’imbarcarono per il Pireo sul piroscafo greco Miksea, il cui comandante favorì l’imbarco clandestino, non mancando però di riscuotere il regolare biglietto. Arrivarono in Grecia il 3 agosto e da Atene raggiunsero a marce forzate Salonicco il sabato 8, e da lì poterono comunicare con Roma ricevendo la notizia che due giorni prima Ricciotti aveva dato disposizioni per la sospensione del progetto e per il rientro a casa di coloro i quali fossero già partiti. Ma i sette decisero unanimemente di non tornare indietro e si spostarono in treno da Salonicco a Skopje, poi a Nech e a Kragujevacka, dov’era il comando generale serbo, per da lì raggiungere la linea di combattimento sulla frontiera bosniaca inquadrati in una compagnia eterogenea composta da 500 uomini, tra serbi, montenegrini, disertori austriaci, studenti slavi e altri volontari. Il 20 agosto, raggruppati in una unità di cinquanta uomini armati solo di fucili, ricevettero l’ordine di presidiare l’altura di Borna Gora e difenderla in attesa dell’arrivo dell’esercito regolare. Respinto l’assalto austriaco, passarono a presidiare la posizione dell’adiacente collina di Babina Glava. Il nuovo attacco austriaco fu più serrato, e per ore i volontari riuscirono a tenere la posizione, finché nella foga dell’attacco gli italiani scesero di corsa la collina e dopo qualche ora due pattuglie serbe li ritrovano crivellati di colpi. Il primo a cadere, colpito al petto e ucciso all’istante, fu Francesco Conforti. Poco distante Cesare Colizza, già ferito e prima di essere raggiunto da una seconda scarica che lo uccise, riuscì a ordinare al fratello Ugo di tornare indietro giacché per lui non c’era più nulla da fare. Caddero anche Bucca, Corvisieri e Goretti, uno ad uno senza voltare le spalle e con il fucile ancora in mano: “i primi cinque caduti italiani della Grande guerra”. Rimasero vivi solo in due, Ugo Colizza e Arturo Reali, che lottando all’arma bianca riuscirono a disimpegnarsi e a raggiungere il gruppo di fuoco alle loro spalle e così poterono testimoniare l’accaduto.

A Babina Glava – nell’attuale Montenegro – quella cinquantina di combattenti infine, mantenne impegnata un’intera brigata di montagna austriaca fino all’arrivo dell’esercito regolare serbo, il cui comandante Popovitch ordinò che ai cinque caduti italiani fossero resi tutti gli onori militari. Ugo Colizza tornò in seguito a cercare il corpo del fratello che aveva sepolto temporaneamente in un canneto, ma non riuscì mai più a ritrovare i resti dei caduti e quando il 24 maggio 1915 l’Italia entrò in guerra contro gli imperi centrali, partì volontario assieme a Arturo Reali. Entrambi sopravvissero all’ecatombe, anche se Arturo Reali si procurò una mutilazione. In Italia, l’eco del sacrificio dei cinque giovani fu enorme ed impattante, specialmente a Roma, dove ci furono pubbliche manifestazioni di commemorazione e cordoglio. Furono i primi volontari e i primi caduti italiani della prima guerra mondiale: “I primissimi” come li chiamò il giornalista Giovanni Ansaldo in un suo articolo pubblicato sul Mattino di Napoli del 21 agosto 1964 – nel cinquantesimo anniversario della loro impresa – chiedendosi cosa li avesse spinti a lasciare la comoda Roma per andare a morire in qualche disperata sassaia serba in una guerra nella quale il loro paese non era ancora coinvolto. Finita la guerra, nel cimitero di Belgrado fu eretto un monumento a ricordo dei cinque volontari garibaldini caduti a Babina Glava

con testo bilingue italo-serbo e in Italia, nella piazza del Municipio di Marino fu affissa un’epigrafe commemorativa e finalmente, nel 1838, fu loro conferita la Croce al Merito di Guerra alla memoria: forse troppo poco e forse troppo tardi, così come in seguito è stata troppo poco raccontata quell’incredibile e assolutamente emblematica quanto nobile impresa di quei sette giovani patrioti italiani che, circostanza volle, partisse proprio da Brindisi. Ma probabilmente non fu solo il caso a determinare quel protagonismo di un porto, quello di Brindisi, che se pur arci-famoso per esser passato alla storia quale punto di partenza delle tantissime armate romane, repubblicane e imperiali, volte all’inarrestabile conquista di tutte le terre orientali conosciute, seguite dalle più modeste ma ugualmente offensive armate dei Normanni e degli Angioini anch’esse salpate alla conquista delle coste prospicenti, fu nel tempo anche il porto di partenza e di arrivo per numerose missioni di solidarietà con tutte quelle genti, così orientali e così vicine, di fatto dirimpettaie: da tutte quante quelle già qui citate in aiuto all’emancipazione dei Greci, degli Albanesi dei Bosniaci e dei Serbi, alle tante altre non qui citate, fino a quella epica passata alla storia come “il salvataggio dell’esercito serbo” nell’inverno 1915-1916, al cui perenne ricordo è la grande epigrafe marmorea apposta sul lungomare brindisino.

[1] KALLIVRETAKIS L. I Garibaldini nell’insurrezione cretese del 1866-67.Risorgimento greco e filellenismo italiano, 1986 [2] TERZUOLO ERIC R. The Garibaldini in the Balkans 1875-1876. International History Review IV-1, 1982 [3] GARIBALDI R. La Camicia rossa nella guerra greco-turca 1897. Tipografia Cooperativa Sociale, 1899 [4] ANADSTASOPOULOS N. A. Voluntary action in Greece during the Balkan wars. Ricerche storiche XLVII, 2017 [5] ONORATI U. E SCIALIS E. Eroi in camicia rossa combattenti nel 1914 per la libertà dei popoli. ANPI, 2017 [6] D'ALESSANDRI A. Italian volunteers in Serbia in 1914. Institute for Balkan Studies Balcanica XLIX, 2018 [7] VIDEO: https://www.raicultura.it/storia/articoli/2019/01/I-primissimi-1b4a19d5-723e-4025-8056-1bb877af83b2.html


Circa 2000 km: Brindisi – Patrasso – Atene – Salonicco – Skopje – Kragujevacka – Babina Glava

il7 MAGAZINE 24 21 agosto 2020


CULTURE Tra il 26 e il 31 agosto 1970 lo straordinario evento musicale: L’appassionato racconto di quei giorni di Gianfranco Perri

cinquant’anni fa l’isola di Wight: partecipammo in 600 mila e fu la storia di Gianfranco Perri ra il 26 e il 31 agosto 1970, Joan Baez, Joni Mitchell, Jimi Hendrix, Donovan, Jethro Tull, Miles Davis, Mungo Jerry, Arrival, Cactus, Family, Taste, The Doors, The Who, Spirit, The Moody Blues, Chicago, Procol Harum, e tantissimi altri si esibirono sul palcoscenico del terzo Festival dell’Isola di Wight. Il primo si era tenuto nel 1968 e il secondo, che nel 1969 aveva registrato la partecipazione di Bob Dylan con presenze stimate tra 150.000 e 250.000, si era tenuto circa due settimane dopo l’arci-famoso Festival di Woodstock, in New York. L’evento del 1970 però, il terzo di Wight, fu di gran lunga il più grande e destinato a restare per sempre il più famoso di tutti i tempi per l’Europa: si disse fosse stato uno dei più grandi raduni umani al mondo, con presenze stimate in oltre 600.000, superando quindi anche quelle di Woodstock. Quando quasi dieci anni fa con il mio amico Nicola Poli – il popolarissimo musicista brindisino che fin dai primissimi anni ’60 non ha mai lasciato di coltivare la sua passione e la sua professione musicale a beneficio di quanti lo abbiamo ascoltato e lo continuiamo tuttora ad ascoltare nelle sue esibizioni – organizzammo il gruppo Facebook che intitolammo “Musicisti Brindisini”, fummo intervistati dalla redazione di “SENZACOLONNE” e in data 2 agosto 2011 fu pubblicato un servizio intitolato “Io brindisino catapultato nella mitica isola di Wight”.

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il7 MAGAZINE 20 28 agosto 2020


Sopra il palco del terzo Festival di musica dell’Isola di Wight, a destra Gianfranco Perri in una Londra del 1970, nella pagina accanto sbarco dal foto ferry a Yarmouth-Wight Isle il 27 agosto 1970 Ebbene, quel brindisino ero io e così oggi, in esatta coincidenza con il cinquantesimo anniversario di quel famoso Festival, ho accolto con piacere l’invito del Direttore a riproporre quel racconto nella convinzione che possa destare interesse, o quanto meno curiosità, tra i tanti lettori che quei tempi dei mitici anni ‘60 – se pur non ancora lontanissimi – non hanno vissuto in prima persona e tra quelli che, invece, li hanno vissuti e li ricordano con, probabilmente, un po’ di comprensibile nostalgia. Ecco qui quel mio racconto di 50 anni fa: «… Brigid era partita in volo per Francoforte, un’ultima tappa prima di rientrare a casa nel Wisconsin al termine della sua lunga estate europea. Durante le ultime tre settimane avevamo attraversato mezza Europa in autostop: da Como, dove c’eravamo fortunosamente e fortunatamente incontrati, a Dublino tappa obbligata del nostro girovagare per la sua natale e “sempreverde” Irlanda, e sui traghetti, prima da Calé a Dover, poi da Swansea a Rossiare e quindi da Dublin fino al porto di Holyjead, da dove finalmente ridiscendemmo fino a Londra, meta finale di quello che era iniziato con la prospettiva di essere un fugace percorso comune e che invece si doveva poi rivelare essere stato un episodio pieno di contenuti così intensi da aver possibilmente segnato le nostre giovani

personalità e da aver inciso il tragitto stesso della nostra maturità. Ma questa è tutta un’altra storia, tanto emozionante e bella, quanto incredibilmente venturosa. Avevo accompagnato Brigid all’aeroporto di Gatwick, sia perché non avevo in assoluto molti altri impegni da adempiere, sia perché era il meno che potessi fare dopo i tanti giorni in cui c’eravamo simbioticamente accompagnati, e sia perché volevo fare un riconoscimento diretto del territorio, visto che dopo qualche

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giorno, il 1° settembre, sarei dovuto partire io da quell’aeroporto per Milano. Fin dalla mia partenza da Brindisi in autostop un mese prima infatti, quel volo di ritorno aveva costituito il mio unico ed improrogabile impegno. Tutto il resto avevo deciso che dovesse essere un’agenda assolutamente aperta e anzi, meglio, un’agenda aperta ad accogliere ogni eventuale esperienza che potesse contribuire ad appagare l’incontenibile voglia di allargare ed allungare quei miei ancora troppo limitati orizzonti di “quasi” ventenne. Da Brindisi ero partito in autostop da solo, ma con il chiaro obiettivo di non trascorrere neanche un solo giorno del mio viaggio da solo, e così era stato fin dall’inizio e quindi, quando lo stesso giorno della partenza di Brigid incontrai un ragazzo tedesco che come me faceva l’autostop, cominciammo a chiacchierare e impiegammo non più di dieci minuti a decidere di fare un pezzetto assieme. Quel ragazzo, Franz, mi aveva infatti da subito impattato positivamente. Avendo riconosciuto che ero italiano dal distintivo che era cucito ed in bella mostra sul mio zaino, dopo solamente un primo saluto e con espressione gioviale, non aveva esitato a chiedermi se avessi visto in televisione la memorabile semifinale del Mondiale di Messico 70 tra la Germania e l’Italia, si si proprio quella partita che solo poco più di un mese prima aveva vinto rocambolescamente l’Italia di Riva Rivera e Mazzola per 4 a 3 ai tempi supplementari. Era stato lui a parlarne e non io! E lo aveva fatto per raccontarmi della sua desolazione di quella lunghissima


notte per la sconfitta della sua Germania e, mantenendo sempre la stessa espressione solare, per congratularsi con me per la vittoria della mia Italia, e per commentarmi con allegra eccitazione ed abbondanza di dettagli tutti gli episodi più esaltanti di quella partita. Che bella lezione da quel giovane coetaneo tedesco! Ebbene, senza portarla ancora per le lunghe, arrivo al dunque: Franz era diretto a Southampton, perché doveva imbarcarsi per l’Isola di Wigth, perché voleva andare al “festival”, che sarebbe stato un festival cento volte più bello di quello che l’anno prima c’era stato a Woodstok negli States, che ci sarebbero stati Jimi Endrix, Jim Morrison, Joan Baez, e ... A me quel nome “Wigth” in quel momento non mi aveva detto nulla, ma quello di Woodstok si, e naturalmente quelli di Hendrix, Morrison e Baez, ancor più. Ed allora, ... Ma quando finisce sto festival? Il 30 o il 31. Ma il 1° settembre devo essere all’aeroporto! Perfetto, allora posso lasciare l’Isola di Wigth il 30 e quindi, ... Franz ci vengo anch’io! Quella notte dormimmo in sacco a pelo nella sala d’aspetto di una stazione ferroviaria a un po’ di chilometri da Southampton, dove ci aveva scaricato l’ultimo passaggio della giornata. Il giorno dopo ci imbarcammo per l’isola. Il 30 al mattino, prima che il festival finisse, tornai indietro, ed il 1° settembre abbordai il mio volo da Gatwick per Linate: il mio primo volo commerciale dopo quei voli che su aeroplani militari ad elica avevo fatto da bambino di 7 e 8 anni, dall’aeroporto di Brindisi accompagnato da mio padre, militare dell’aereonautica. Il mio amico Franz si volle fermare fino alla chiusura del festival. Si diceva che alla fine avrebbero anche cantato I Beatles. Non fu così, anche se sembra che alcuni di loro ci siano stati mimetizzati tra il pubblico. Franz dovette aspettare ben tre giorni prima di potersi imbarcare per Southampton e, dei più di cinquecentomila che c’eravamo stati, non fu certo tra gli ultimi a poter lasciare l’isola. E per riassumere in poche immagini quell’ East Afton Farm di fine agosto 70 sull’isola di Wight: “campi aperti, spazi immensi, tende e sacchi a pelo, bandiere insegne e simboli, capelli lunghi e grande varietà di barbe, nudità esibite, fumo e fumi, notti in bianco e… tanto verde tutt’attorno e per tutti noi”. Io, poco più che adolescente, italiano di provincia e con solamente un primo anno di università nella nordica metropoli torinese, quella straordinaria stagione di “musica pace e amore” degli anni 60 l’avevo vissuta per alcuni dei suoi aspetti un po’ dalla periferia. E comunque, nel variopinto scenario di tutta quella gioventù incontrata in quel mio primo viaggio per l’Europa, non mi ritrovai quasi mai posizionato troppo indietro e mi ritrovai invece, il più delle volte, abbastanza all’altezza ed in controllo delle tante situazioni. Con i miei capelli lunghi, con la mia collana della pace, con il mio zaino con dentro il sacco a pelo, con il mio eskimo verde, ... Però con anche freschi e ancora vivi i ricordi delle manifestazioni per la pace in Vietnam nel 1967 e poi contro l’invasione della Cecoslovacchia ed a favore della Primavera di Praga nel 1968, delle

occupazioni nelle scuole superiori a Brindisi nel 1969, delle assemblee fiume nelle enormi aule affollate e affumicate del Politecnico nel 1970. E finalmente, con la passione per la musica, ascoltata, suonata e ballata. Specialmente la musica infatti, avevo imparato a conoscerla ed a viverla con passione, coinvolto come anch’io lo ero stato, dalla febbre che anche a Brindisi ci aveva contagiato in tanti: il mio “I Marines” era stato uno di quella dozzina e forse più di gruppi musicali, “complessi musicali” come si chiamavano allora, che sorsero spontanei negli scantinati e sulle terrazze del centro e della periferia brindisina fin dai primi anni 60, facendo eco ai Beatles e Rolling Stones d’oltre Manica ed ai più vicini Equipe 84, Nomadi, Camaleonti, Giganti, ...

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Con I Marines avevamo esordito, Luigi Sciarra, Enzo Macchi, Sergio Serse ed io con il contrabasso, alla Sciaia a mare dei fratelli Aldo Lilli e Antonio Malcarne nel Carnevale del 1965, mentre per il Carnevale del 1967 eravamo già in trasferta a Torre Canne, con anche il cantante Antonio Volpe che nel frattempo si era integrato al gruppo, nella Taverna del boscaiolo dell’Hotel del Levante. Carnevale in quell’anno cadde a cavallo tra gennaio e febbraio, contemporaneamente a quel triste festival di Sanremo segnato dal suicidio di Luigi Tenco. In quelle serate danzanti l’ospite d’onore che accompagnavamo con i nostri strumenti musicali era Achille Togliani – Sì! cantava ancora - e ricordo che fu lui, molto colpito ed a notte avanzata, a darci la notizia di Tenco. Poi, fino alla mia partenza per il Politecnico di Torino nell’ottobre 1969, suonammo ancora, ... alla Sciaia a mare, al Desirè, all’Estoril, a Torre Canne, a Campomarino, ... Però, e peccato! non facemmo in tempo a cantare “L’isola di Wigth”, la splendida cover di “Wight is Wight” del francese Michel Delpech, incisa in 45 giri dai Dik Dik proprio nel 1970. La musica è molto bella e il testo italiano, di Claudio Daiano, un inno a quella nostra gioventù dei mitici anni 60: “… Sai cos’è l’isola di Wight, è per noi l’isola di chi ha negli occhi il blu della gioventù, di chi canta hippy hippy hippyyy...” In quanto al Festival, definitivamente non si trattò solo di una grande rassegna musicale, e certo di talenti non ne mancarono, né in quantità né in qualità, ma si trattò soprattutto di un evento destinato ad assurgere a vero e proprio manifesto di una generazione, di quel periodo in cui i sogni di libertà viaggiavano anche lungo i binari della musica. Gli anni 60, vissuti all’insegna della terna “music peace and love”, non avevano potuto incontrare un miglior palcoscenico per il proprio atto conclusivo. Sintomatici di quella fine dovevano infatti rivelarsi le tragiche morti, di Jimi Hendrix da lì a pochi giorni, di Joplin Janis nell’ottobre dello stesso 70, e di Jim Morrison solamente un anno dopo.»


East Afton Farm, Wight Isle - Agosto 1970

Wight Isle: “la generazione beat Anni ’60” Brigid & Gian - London, Agosto 1970


CULTURE Due storie parallele: da una parte la disavventura del generale francese Dumas, dall’altra gli entusiasmi libertari dei brindisini

Tra il XvIII e il XIX secolo Brindisi fu al centro di un drammatico conflitto di Gianfranco Perri cco qui due storie parallele: da una parte, la disavventura del generale francese Alex Dumas, fatto prigioniero dai Sanfedisti a Taranto nel marzo 1799 e poi trasferito a Brindisi fino alla sua liberazione nel marzo 1801; dall’altra, le incalzanti vicende occorse a Brindisi durante quegli stessi due anni, quando la città fu scenario del conflitto tra la difesa del conservatorismo borbonico e le azioni, sentimenti ed entusiasmi libertari. Il 7 marzo 1799 il generale francese Alexandre Dumas lasciò l’Egitto diretto in Francia, dopo aver partecipato alla campagna napoleonica. Durante la navigazione però, la sua nave cominciò a fare acqua e dovette rifugiarsi nel porto di Taranto, nel Regno di Napoli, dove Dumas si aspettava un ricevimento amichevole, avendo saputo che il regno era stato rovesciato dalla Repubblica Partenopea instaurata sul modello della Francia repubblicana. Ma quella repubblica, costituita a Napoli il 21 gennaio 1799, era risultata precaria e aveva ceduto alle forze filoborboniche dell’esercito della Santa Fede del cardinale Ruffo. La cattura dei naufraghi fu inevitabile e le autorità sanfediste, che da una settimana ricontrollavano la piazza di Taranto, imprigionarono Dumas. Per il generale Dumas, era così iniziata una lunga e penosa prigionia, che doveva concludersi a Brindisi due anni dopo. Due anni di grandi sofferenze per il generale prigioniero

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Sopra Il castello Svevo nell'800 prigione del generale Dumas che è ritratto nell’opera a sinistra. A destra la copertina del libro «Il Conte di Montecristo»

e due anni di eventi, che a momenti furono veramente incalzanti, trascorsi in una Brindisi ignara di quell’appuntamento con la leggenda – quella del conte di Montecristo – che la storia gli aveva posto in serbo. Il generale Dumas, infatti, oltre ad essere “un militare sperimentato, un fervente repubblicano, un uomo di grandi convinzioni e spiccato valore morale, famoso per la sua forza fisica la sua destrezza con la spada il suo coraggio e la sua naturale capacità a districarsi con disinvoltura dalle situazioni più difficili, conosciuto per la sua impertinenza arrogante e per i suoi problemi con le autorità, generale tra soldati temuto dai nemici ed amato dai suoi uomini, un eroe in un mondo in cui tale appellativo non si attribuiva alla leggera” fu anche il padre del prestigioso romanziere Alexandre Dumas, autore dei Tre moschettieri e del Conte di Montecristo, i due arci famosi romanzi per i quali l’indubbio ispiratore fu proprio quel padre generale con la sua rocambolesca esistenza: quella di Thomas Alexander Davy de la Pailleterie, o più semplicemente Alex Dumas, come preferì firmarsi dopo essere asceso per merito proprio fino al grado di generale di divisione. Ebbene, all’incirca quegli stessi due anni in cui il generale Dumas rimase prigioniero del

regno napoletano, videro Brindisi, dove quella celebre prigionia si concluse, spettatrice e protagonista di tutta una serie di eventi rilevanti, che la resero partecipe – a volte attiva e passiva altre volte – della convulsa storia d’Italia e d’Europa trascorsa a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo, riflesso dell’uragano napoleonico piombato alla ribalta della storia

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universale al seguito della Rivoluzione francese. Due anni vissuti a Brindisi da una città che, anche se con i suoi meno di seimila abitanti non attraversava certo uno dei suoi tempi migliori con i lavori di restauro del porto nuovamente sospesi, si pregiava comunque di avere come arcivescovo l’illustre Annibale De Leo e di contare due eminenti cittadini della levatura di Teodoro Monticelli e Carlo De Marco. L’8 febbraio del 1799 a Brindisi si seppe che nella capitale del regno napoletano, occupata dalle truppe napoleoniche del generale Championnet dopo la fuga del re a Palermo, era stata proclamata la Repubblica partenopea, mentre già da qualche giorno erano giunte da Napoli le principesse francesi Adelaide e Vittoria accompagnate da nobili e alti prelati fuggendo dagli invasori napoleonici e in cerca di un imbarco per Corfù. E nella notte tra il 13 e il 14 febbraio il popolo si rivoltò in difesa dei Borbone e contro i supposti giacobini brindisini, rinchiudendo nel castello di terra quasi tutti i notabili della città e finanche l’arcivescovo De Leo. Al mattino seguente però, la rivolta cambiò piega quando si sparse la voce che tra un gruppo di forestieri giunti in città in cerca di un imbarco a Corfù in fuga dai rivoluzionari francesi, ci fossero anche il principe ereditario Francesco Borbone, il fratello del re di Napoli e il duca di Sassonia. Si trattava invece di tre fuggitivi corsi, Casimiro Raimondo Corbara, Giovanni Francesco Boccheciampe e Giovan Bat-


tista De Cesari, i quali furono consigliati dalle due principesse e dall’eclettico sindaco Francesco Gerardi di secondare l’errore per poter così placare i tumultuosi e far liberare tutti gli arrestati della notte. Così la rivolta rientrò ed il supposto principe “onde ottenere soccorsi dalle potenze alleate” s’imbarcò per Corfù, mentre De Cesari e Boccheciampe si improvvisarono capipopolo organizzando le forze pugliesi antifrancesi. Boccheciampe, sorto a capo delle forze sanfediste della provincia di Lecce, la riconquistò quasi tutta alla corona borbonica e i primi di marzo, fatti arrestare i ministri del tribunale di Lecce in fama di giacobini, li mandò al Forte a mare di Brindisi tra turbe fanatiche che per poco non li uccisero, mentre Giuseppe e Pietro Montenegro di Brindisi, padri celestini in Lecce, considerati anch’essi giacobini, rischiarono anch’essi di essere linciati dalla plebe. Il 9 aprile però, il vascello di guerra francese “Généreux” seguito da quattro trasporti con mille uomini, entrò nel porto di Brindisi e intraprese una cruenta battaglia contro le forze sanfediste asserragliate nel Forte di mare, riuscendo infine a sopraffarle e a catturare il loro capo, Boccheciampe. I Francesi quindi, invitarono ed accolsero benignamente sul Généreux il sindaco Gerardi con l’arcivescovo De Leo e le altre autorità civili della città, le quali finalmente non mostrarono ostilità verso gli invasori e le truppe francesi poterono sbarcare ed occupare militarmente la piazza. “La notte del 10, ebbero un attacco dalla truppa a massa sanfedista venuta in sotto le mura, la quale avendo conosciuto inutile ogni tentativo di scacciare il nemico retrocedé nella vicina Mesagne, ove si sciolse”. Il giorno 13 aprile il popolo fu convocato nella Cattedrale per un Te Deum officiato dall’arcivescovo e quando il giorno 14 le autorità militari francesi nominarono i nuovi ufficiali municipali, il sindaco, Francesco Gerardi, fu confermato nella carica repubblicana. Con i Francesi a Brindisi, i repubblicani salentini si adoperarono per schiacciare la controrivoluzione ancora capeggiata da De Cesari, e da Lecce si adoperarono per ridare libertà ai prigionieri politici ancora detenuti nel Forte di mare di Brindisi. L’arcivescovo De Leo, invece, dovette subire l’invadente presenza delle truppe repubblicane francesi “che abusando della licenza militare, tennero il di lui Episcopio non sol come locanda, ma come taverna aperta incessantemente a lor discrezione, e dove gli ufficiali superiori arbitrariamente s’intrudevano con eccessiva insolenza a spese del prelato, dilapidando così il patrimonio de' suoi poveri”. Dopo solo qualche giorno però, il 16 aprile, “inaspettatamente tutti i militari francesi lasciarono Brindisi, parte per mare e parte per terra, e non si poté subito capire se per un ordine ricevuto o per il sentore percepito che stessero per giungere le navi russe da Corfù nonché gli eserciti sanfedisti dalla Calabria: da replicati ordini del generale di Bari, inchiodati i cannoni e buttata in mare la polvere della fortezza, evacuarono la città partendo per quella

volta” e portandosi via Boccheciampe, che nei pressi di Trani fu fucilato quale disertore. Poco dopo la partenza delle truppe francesi d’occupazione, giunsero nel porto di Brindisi tre fregate russe e una turca; e su una corvetta napoletana, giunse anche il cavaliere Antonio

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Micheroux, ministro plenipotenziario borbonico presso l’armata russo-turca, il quale si trattenne in città per un paio di giorni, lasciandola poi guarnita di un contingente russo. “Subito scesi dalle tre navi moscovite i soldati hanno fatta la carcerazione di cinque intere


A sinistra il re Ferdinando IV abbandona Napoli il 22 dicembre 1798 - Oleo di Jacob Philipp Hackert, sotto il vascello francese “Généreux” che il 9 aprile 1799 attaccò e espugnò Forte a mare difeso dai Sanfedisti

famiglie, cioè una del castellano Giovanni Bianchi, l’altra dell’arcivescovo De Leo ed altre. E solo il tempestivo e personale intervento del preside della provincia di Terra d’Otranto, Tommaso Luperto, poté far sospendere la giustizia che li moscoviti volevano fare di fucilare tutte quelle cinque famiglie da loro carcerati”. Molti però furono i repubblicani giacobini, o presunti tali, della Terra d’Otranto che furono imprigionati e processati a Lecce e, nelle carceri napoletane di Portici e Granili, tra le migliaia di prigionieri della repressione borbonica del 1799, risultarono essere di Brindisi il militare Giovanni Pagliara, nato nel 1777 figlio del dottor fisico Giacinto e di Saveria Carasco figlia del notaio Pasquale, e lo studente Cherubino Balsamo, nato nel 1776 figlio di Domenico e di Grazia Maiorano di Piano di Sorrento. Dopo il consolidamento – a metà giugno – della vittoria dei conservatori nella capitale del regno, effimera per chi sapeva leggere il futuro nei fatti correnti, la restaurazione s’impose, pur senza eccessivo scalpore, anche a Brindisi e sul finire di quell’anno, il 23 novembre 1799, l’arcivescovo Annibale De Leo fece celebrare una messa di requiem nella chiesa cattedrale di Brindisi, per la morte del papa Pio VI avvenuta qualche mese prima, in agosto, in Francia, dove era stato forzosa-

mente condotto dalle truppe repubblicane francesi. Poi, il 3 gennaio del 1800, prevedendo quel che avvenne, mediante rivalsa cautelativa l’arcivescovo affidò al notaio Pasquale Giaconelli gli atti con i quali, il 10 ottobre dell’anno 1798, erano stati consegnati gli argenti della Chiesa alla regia corte, una cessione patriottica destinata a divenire, per l’insolvenza della corte, un’inutile opera di carità. Il 6 maggio 1800, lasciò Lecce l’ultrareazionario preside della provincia di Terra d’Otranto, Tommaso Luperto, che nel marzo del precedente anno era stato insediato dal fantomatico corso Boccheciampe e che per più di un anno aveva sostenuto la rivalsa giudiziaria borbonica in tutta la provincia e così, il giorno seguente, giunse “colla grazia del signore Iddio” il nuovo e meno vendicativo preside, Vincenzo Maria Mastrilli marchese della Schiava, proveniente da Taranto, dove era stato anch’egli insediato dalla Santa Fede come capo politico. Nel mentre dalla Francia, Napoleone, che aveva conquistato il potere con il colpo di stato del 18 brumaio, aveva intrapreso la seconda campagna d’Italia e dopo la battaglia di Marengo del 14 giugno 1800 aveva rifondato la Repubblica cisalpina. Poco dopo, a settembre, per disposizione del marchese Della Schiava il generale Dumas fu trasferito da Taranto a Brindisi, dove fu recluso nel castello svevo – o forse nell’Alfonsino – mantenuto, questa volta, in una situazione di gran lunga migliorata. Durante la durissima prigionia a Taranto, infatti, Dumas era rimasto malnutrito e ancor peggio curato per circa diciotto mesi e così, quando giunse a Brindisi, era zoppo, con la guancia destra paralizzata, quasi cieco dall’occhio destro e sordo dall’orecchio sinistro. Il suo fisico era quasi distrutto e arrivò a convincersi che tutti quei suoi malanni si produssero perché sottoposto a un lento e sistematico avvelenamento, al quale era sopravvissuto solo perché aiutato da un gruppo locale filofrancese segreto, che gli aveva fornito alimenti, medicine, libri e altri conforti. In seguito, l’effimera pace conclusa tra i Napoletani e i Francesi sul finire dell’inverno 1800-1801 – prima a Foligno il 18 febbraio 1801 e poi a Firenze a marzo – e la sorveglianza permessa a questi ultimi sui porti delle coste adriatiche usati dagli inglesi per le rotte verso l’Oriente salpando o approdando ora da Trieste ora da Venezia, resero nuovamente Brindisi campo di contese e di battaglie: un campo che i Francesi si guardarono bene dal lasciare troppo tempo sguarnito, magari ufficiosamente, quando non potevano farlo ufficialmente. Episodio esemplificativo della situazione politico-militare, che regnava in quei primi mesi del 1801, fu quello accaduto il 13 giugno: “Verso le quattro del pomeriggio, un brigantino borbonico, il Lipari, che recava a bordo sessantaquattro soldati al comando del te-

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nente di vascello Ruggero Settimio, ed era seguito da una polacca sorrentina carica di frumento, entra nel porto di Brindisi. Erasi quivi appena ancorato, quando appaiono quattro vascelli britannici, i quali prendono a cannoneggiare con violenza le due navi, che gravemente colpite minacciano di affondare. Accorrono quindi gl’inglesi con una squadra di lancioni, e catturate le artiglierie insieme col comandante e col pilota, tentano di trascinar seco i legni pericolanti. Intervengono a questo punto i francesi, e divampa una furiosa mischia, a cui partecipano le forze brindisine e in cui granatieri francesi e marinai britannici trovano la morte nel conflitto”. Da recluso a Brindisi, Dumas poté conversare regolarmente con un sacerdote di nome Bonaventura Certezza, una specie di cappellano dei castelli, con il quale finì con istaurare una sincera amicizia. E anche con Giovanni Bianchi, il suo carceriere – castellano di Brindisi, nonché già sospetto giacobino – Dumas mantenne durante i circa sei mesi della sua permanenza nella prigione del castello di Brindisi una costante e, per quello che le circostanze potevano permettere, cordiale relazione personale e anche epistolare. Una relazione insomma, che se pur non esente da qualche screzio, andò migliorando con il passare dei mesi, probabilmente anche a riflesso degli eventi militari che, in corso e sempre più prossimi alle porte del regno napoletano, lasciavano facilmente presagire una imminente evoluzione pro-francese della situazione. E così, subito dopo le vicende dell’inverno 1800-1801 – che avevano registrato la sconfitta dell’esercito napoletano e la tregua concessa dal generale francese Gioacchino Murat al generale napoletano Damas – alla fine del mese di marzo del 1801 si produsse, finalmente, la liberazione del generale Dumas, nel contesto di una situazione politico-militare estremamente confusa: Brindisi, ufficialmente sotto il re di Napoli che però era rifugiato a Palermo, dipendeva dalla provincia di Lecce presieduta dal borbonico marchese della Schiava, mentre a Mesagne – capoluogo di distretto – era insediata nel castello una consistente guarnigione francese composta da circa 350 militari comandati da Barraire, senza uno status formale riconosciuto e ufficialmente in via di smobilitazione, ma comunque sempre mantenuti dalle esigue casse pubbliche locali. Quella presenza militare francese – unita a quella delle navi repubblicane rimaste nel basso Adriatico per far rispettare le clausole marittime della pace – probabilmente aveva in qualche misura influito sulla liberazione del prigioniero Dumas, liberazione alla quale non doveva neanche essere rimasto estraneo lo stesso generale Murat, che ben conosceva il collega Dumas e che forse non a caso volle che tra le clausole dell’armistizio si inserisse quella relativa alla liberazione dei prigionieri francesi.


CULTURE Una pagina poco conosciuta della nostra storia: i soldati ex borbonici in difesa di un altro sud, l’America

Quei nonni dei nostri nonni combattenti nella guerra civile americana di Gianfranco Perri na pagina abbastanza poco conosciuta della storia d’Italia, dell’Italia meridionale, corrispondente all’immediato dopoguerra unitario quello cioè successivo alla spedizione dei Mille ed alla conseguente annessione de regno di Napoli a quello di Sardegna per poi costituire il nuovo regno d’Italia - racconta che nel 1861, all’indomani della disfatta, quasi duemila reduci del disciolto esercito del regno delle Due Sicilie si trovarono a dover combattere per un altro Sud, quello della Confederazione americana d’oltre Atlantico, dove proseguirono la loro guerra contro altri Nordici e dove s’imbatterono in una nuova catastrofica sconfitta. La storiografia, conseguenza inevitabile dell’assioma “la storia la scrivono i vincitori”, nel contesto di quella famosa lunga e sanguinosissima guerra, si è occupata con relativa prolificità degli italiani combattenti tra le fila nordiste dell’Unione e così, molti dei loro nomi e delle loro gesta sono facilmente reperibili nella copiosa bibliografia inglese e italiana dedicata alla Guerra civile - o di secessione - americana. A cominciare da quanto relativo all’eventuale ingaggio, finalmente non concretizzatosi, dello stesso Giuseppe Garibaldi da parte del presidente americano Abraham Lincoln. Sui combattenti italiani tra le fila sudiste della Confederazione invece, si è scritto molto meno, anzi veramente ben poco, e così i loro nomi, pur abbastanza numerosi, e le loro gesta, pur spesso meritorie, hanno ricevuto molta poca attenzione e ancor minore diffusione, rischiando pertanto di rimanere arroccati per sempre nel dimentica-

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toio della storia. Venerdì 12 aprile 1861 scoppiò in America la guerra fra nordisti e sudisti, ovvero e per semplificare, fra gli yankees degli stati antischiavisti dell’Unione nordista e i dixies degli stati schiavisti della Confederazione sudista. Il conflitto deflagrò quando - casus belli - l’artiglieria sudista aprì fuoco per impedire il rifornimento del presidio nordista di Fort Sumter, vicino Charlotte in Carolina del Sud.

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Mentre nel Nord i volontari italiani che decisero di andare a combattere quella guerra si arruolarono perlopiù nell’unità che fu popolarmente chiamata Garibaldi Guards, nel Sud la maggior parte dei combattenti italiani si arruolarono in Luisiana, molti di loro nella Garibaldi Legion al comando del maggiore Gianbattista Della Valle che poi, agli ordini del capitano Giuseppe Santini, nel 1862 divenne la European Brigade del 6° Louisiana Infantry Regiment; e alcuni altri si arruolarono nel Bourbon Dragoons Battalion del 5° Louisiana Cavalry Regiment. A quel tempo, infatti, così come nel Nord dell’America lo era New York, tra gli stati del Sud il porto principale di approdo per gli emigranti italiani era quello di New Orleans, città in cui il censimento del 1860 aveva registrato 900 residenti italiani, quasi il 10% dei 10.000 totali registrati su tutto il territorio degli Stati Uniti. Allo scoppio della guerra, quei primi volontari italiani arruolatisi nelle fila dei confederati poche centinaia - furono gli immigrati ed i loro discendenti, ma poco dopo il loro numero crebbe notevolmente con l’arrivo dal Sud d’Italia di più di un migliaio di nuovi combattenti: ex soldati del disciolto esercito borbonico appena sconfitto in patria da Garibaldi e dai Piemontesi. E fu proprio con il loro arrivo e dopo le loro reiterate proteste che fu eliminata l’intitolazione a Garibaldi della già citata unità dei combattenti italiani. Oltre che nella European Brigade e nel Bourbon Battalion, gli ex soldati borbonici furono inquadrati nella Compagnia I del 10° Louisiana Infantry Regiment e nella Compagnia H del 22° Louisiana Infantry Regiment. E comunque,


Sopra i Confederati lanciano sassi nella Seconda Battaglia di Bull Run-1862. Nella pagina accanto Giuseppe Bixio padre geusita confederato molti altri italiani, sia residenti americani che ex soldati borbonici, furono distribuiti tra quasi tutti i trenta reggimenti confederati della Louisiana e nel corso della lunga guerra molti di loro passarono da un reparto all’altro in seguito al susseguirsi di scioglimenti e formazioni di unità combattenti. Ma come e perché quasi duemila ex soldati borbonici finirono a combattere in America? Ebbene, furono reclutati da un ufficiale confederato con il benestare del governo piemontese interessato a liberarsi di parte dei tantissimi prigionieri mantenuti in custodia dopo aver vinto la guerra contro i Borboni delle Due Sicilie. L’origine della presenza di molti dei numerosi soldati del disciolto esercito borbonico nelle file confederate è infatti riconducibile alla relazione personale tra il generale Giuseppe Garibaldi e Chatham Roberdeau Wheat, un avventuriero ed ex capitano dell’esercito degli Stati Uniti originario della Virginia che aveva conosciuto Garibaldi a New York nel 1850 e che, recatosi poi in Italia, aveva partecipato alla campagna per la conquista del Sud, nella battaglia del Volturno con il grado di generale conferitogli dallo stesso Garibaldi. Le attività per il reclutamento iniziarono subito dopo, già nell’ottobre del 1860, con l’arrivo di Chatham Roberdeau Wheat a Napoli, accompagnato ed assistito dal capitano Bradford Smith

Hoskiss, veterano dell’esercito britannico. Wheat chiese a Garibaldi di poter reclutare prigionieri e sbandati dell’esercito borbonico da inviare a combattere in America e Garibaldi, alle prese con l’enorme problema rappresentato dal crescente numero di prigionieri proveniente dai campi di battaglia, acconsentì. In quel momento i prigionieri borbonici erano in gran numero tanto che era stata perfino avanzata l’ipotesi di deportarli in Australia. E così, con l’avallo del governo piemontese venne incaricato Liborio Romano, l’ex ministro degli Interni del regno delle Due Sicilie che aveva cambiato bando, di assistere il Capitano Hoskiss nelle operazioni di reclutamento. Specificamente, in quella prima occasione si trattò di alcune decine veterani, tutti soldati borbonici che erano stati fatti prigionieri nella battaglia del Volturno, i quali accettarono posti davanti all’alternativa di essere internati nelle carceri piemontesi oppure di arruolarsi volontariamente nell’esercito piemontese, che dopo la frettolosa liquidazione delle forze garibaldine aveva assunto il completo controllo del potere civile e militare del Meridione. In seguito, a partire dal dicembre del 1860 e per i primi mesi del 1861, si è stimato che all’incirca 1.800 ex soldati borbonici furono trasportati a New Orleans con varie navi salpate da Palermo o da Napoli: Elisabetta, Utile, Olyphant, Charles & Jane, Washington e Franklin. Le navi giunsero a New Orleans tra gennaio e maggio del 1861, prima che il blocco navale del Nord riducesse considerevolmente il traffico di bastimenti nei porti del Sud e prima che le partenze venissero sospese del tutto a seguito della protesta al governo di Cavour del console statunitense a

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Napoli, Joseph Chandler. Tutti quei volontari italiani furono utilizzati principalmente in attività di polizia locale ed ebbero modo di distinguersi nel controllare la città, proteggendone i beni e gli abitanti, specialmente tra il 25 e il 30 aprile 1862, allorché New Orleans fu abbandonata dalle truppe sudiste ed occupata da quelle nordiste. Poi, nei seguenti giorni del mese di maggio, tutte le unità straniere confederate della Luisiana furono sciolte, ed allora quasi tutti gli italiani - ex soldati borbonici ed immigranti - che ne avevano fatto parte, si aggregarono alle varie altre unità sudiste ancora combattenti, privilegiando quelle due in cui erano già presenti altri soldati italiani. Alcuni di loro andarono a combattere nel poi divenuto famoso 10º Regiment Louisiana Infantry, chiamato anche Legione Straniera di Lee, organizzato a Camp Moore dal colonello Mandeville De Marigny. Un reggimento che includeva stranieri di 22 nazionalità ed era composto da due compagnie di cittadini della Louisiana, cinque di Irlandesi, una di Francesi e Tedeschi, una di Ispanici e una, la Compagnia I, a maggioranza italiana. E così quella compagnia, con i nuovi arrivati e con lo scioglimento della European Brigade divenne, nello schieramento confederato, l’unità con la maggior presenza di soldati italiani. Questo reggimento, inviato in Virginia, si era molto presto guadagnato fama di unità particolarmente valorosa. Con un ruolo primario nella Prima battaglia di Bull Run combattuta il 21 luglio 1861, aveva ottenuto una contundente vittoria sulle truppe nordiste. E stesso risultato lo riottenne nel 1862, nella Seconda battaglia di Bull Run combattuta dal 28 al 30 agosto in cui,


rimasti a corto di pallottole, gli ex borbonici della Compagnia I si distinsero per aver continuato a combattere lanciando sassi contro il nemico. L’episodio divenne uno tra i più famosi della guerra civile americana e fu anche ritratto da alcuni pittori. Qualche mese prima, il 25 maggio 1862, il reggimento era intervenuto anche nella Prima battaglia di Winchester e in quell’occasione aveva messo in fuga le truppe unioniste. E dopo, nella battaglia di Harpers Ferry del 15 settembre 1862, il 10º fece prigioniera un’intera guarnigione nordista di ben 12.000 uomini, e tra quelli anche buona parte dei combattenti unionisti italiani del 39º New York Infantry Regiment. Quando a fine battaglia venne concordato lo scambio dei prigionieri, quelli italiani del 39º New York furono scortati da quelli del 10º che li avevano catturati. Il comandante generale Stonewall, vedendoli sfilare, chiese allora al capitano Santini chi fossero quegli italiani con le piume in testa che indossavano la divisa blu nordista. “Sono yankees homemade - fatti in casa” fu l’ironica risposta. In seguito, il 10º Regiment Louisiana Infantry partecipò a tutta un’altra serie di altri scontri finché, alla fine della guerra, in Appomattox, ricevette l’onore delle armi dal generale Grant. Aveva un totale di 976 effettivi nel 1861, e nel corso delle tantissime battaglie sostenute restò del tutto falcidiato nei ranghi, tanto che al momento della resa del generale Robert Lee ad Appomatox, il 10 aprile 1865, restavano solo 18 sopravvissuti, fra cui Salvatore Ferri, nativo di Licata - già soldato dell’esercito borbonico - unico sopravvissuto della Compagnia I, quella composta maggioritariamente da italiani. L’altra unità confederata in cui convogliarono molti degli italiani, sia ex soldati borbonici che immigrati, fu la Compagnia H del 22° Regiment Louisiana Infantry che l’8 aprile 1864 partecipò al vittorioso scontro di Mansfield vicino Sabine Crossroad in cui proprio i soldati della Compagnia H si distinsero per il grande valore. Il 22º continuò a combattere anche dopo la capitolazione di Lee, fino alla resa definitiva del comandante generale Edmund Kirby Smith, uno degli ultimi confederati a capitolare, avvenuta il 26 maggio 1865 a Shreveport. Il generale Smith prima di arrendersi bruciò tutti gli incartamenti del 22° Louisiana Infantry Regiment e pertanto non si sono conservati documenti alcuni relativi ai suoi numerosi soldati italiani. Quali allora i nomi degli italiani che combatterono da Sudisti quella guerra americana? Eccone alcuni pochi: Quando nell’aprile del 1862 fu catturata New Orleans dall’esercito nordista dell’Unione, al momento della dismissione delle brigate dell’European Legion, per i componenti della brigata italiana furono registrati 341 nomi. L’elenco originale è custodito negli archivi della New Orleans Public Library ed è consultabile online. Tutti i nomi sono accompagnati dal grado militare e in alcuni casi dal domicilio quest’ultimo per alcuni degli italiani già residenti in Luisiana al momento dello scoppio della guerra - mentre i nomi senza il domicilio di certo appartengono in buona parte ad ex soldati borbonici. Tra gli ufficiali: il colonnello Giuseppe Della Valle; il maggiore Gianbattista Della Valle; i capitani Giuseppe Paoletti, Enrico Piaggio e Giuseppe Villiot; e i tenenti Angelo An-

Gli Zuavi di Avegno alla "Perryville battle" nel Kentoky l'8 ottobre del 1862

selmi, Giuseppe Mizzi, Vincenzo Pappalardo, Dario Piaggio, Ferdinando Pini, Angelo Socola, Luigi Torre e Rosolino Tramontano; poi i diciassette sergenti, quindi i diciassette caporali e i 294 soldati semplici. Pierluigi Rossi si è dedicato a ricercare e classificare i nomi dei soldati italiani che militarono negli altri reparti confederati e li ha poi pubblicati in una pagina web. Per alcuni dei nomi, oltre che il grado militare è indicata anche la città o regione italiana d’origine: 159 nominativi appartengono al Bourbon Dragoons Battalion del 5º Louisiana Cavalry Regiment: i capitani Tommaso Avendano, Giovanni Brunosso e Giuseppe Santini, il già citato ufficiale poi divenuto comandante della European Legion; i tenenti Carlo Antonini, Ernesto Baselli, Liborio Dura, Antonio Lanata, Ulisse Marinoni e Polo Rivera; sei sergenti, tre caporali e 141 soldati semplici. 48 nominativi corrispondono a soldati italiani confederati arruolati nei vari altri reparti delle brigate europee. 216 nominativi appartengono agli italiani arruolati in varie unità di fanteria di artiglieria e di cavalleria, tra quelli, gli ufficiali: colonnello Gaspare Tagliaferro; maggiore Leone Batoli; i capitani Giovanni Carrico, Fulvio Trapani, Andrea Veroni, Giovanni Viglini, Ugo Larossini e Giacomo Lupo; i tenenti Liborio Caspari, Fulvio Costanzi, Alfonso Molinari e Antonio Lacomero. 55 nominativi infine, sono quelli del 10° Louisiana Infantry Regiment: il capitano Carlo Fassadalto, il sergente Francesco Brescianini e il già citato soldato Salvatore Ferri, l’unico superstite della Compagnia I alla resa del generale Robert Lee. Raffaele Agnello, il secondo nel registro dei

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341, esperto uomo d’armi dell’esercito borbonico, dapprima entrò nell’Italian Guards Battalion del 6° Reggimento ed in seguito fu arruolato nell’esercito regolare confederato, 3ª Compagnia del 7° Louisiana Infantry Regiment. Sopravvisse alla guerra e si stabilì a New Orleans. Angelo Anselmi è il numero 9 del registro dei 341. Soldato di professione appartenente ad una famiglia di contadini della provincia di Bari, dopo la disfatta dell’esercito borbonico prese la via dell’esilio e fu imbarcato con altri commilitoni verso New Orleans. Fu arruolato con il grado di sottotenente nell’esercito confederato e venne inquadrato nella 4ª Compagnia del 6° Reggimento. Angelo fu accompagnato dal fratello Pietro - il numero 11 del registro - che fu arruolato nella 2ª Compagnia nello stesso reggimento con il grado di sergente e dal fratello minore Giovanni Battista - il numero 10 del registro - soldato semplice della 1ª Compagnia. Il numero 99 del registro dei 341 è Francesco D’Angelo, nato a Salerno nel 1843, ex soldato delle Due Sicilie, costretto ad arruolarsi nelle fila dell’esercito confederato. Piccolo di statura, di carnagione olivastra e capelli neri, mostrò una notevole dose di audacia e coraggio, che evidenziò durante le varie battaglie alle quali partecipò, guadagnandosi la fiducia degli ufficiali. Nel novembre del 1864 gli fu comandato di scortare un gruppo di prigionieri e durante il tragitto fu intercettato da una colonna di cavalleggeri nordisti che lo catturarono e lo rinchiusero nella famigerata fortezza di Martinsburg. E Francesco, la stessa notte, con un abile stratagemma riuscì ad evadere ed a raggiungere il suo reparto. Alla fine della guerra fu congedato con il grado di sergente e si stabilì in Virginia come impiegato al Ministero dell’Agricoltura e, pensionato, nel 1929, morì. Il numero 283 del registro dei 341 è Donato Scontrino, figlio di contadini della provincia di Foggia che, giunto volontariamente da emigrato


in Louisiana nel 1860 poco prima dello scoppio della guerra, condivise il destino di parecchi degli ex soldati dell’esercito borbonico. Arruolatosi nell’Italian Battalion Louisiana Militia, fu inquadrato come fante nella 3ª Compagnia. Alla fine della guerra prestò giuramento all’esercito dei riunificati Stati Uniti e fu arruolato, come marinaio, su una nave da guerra statunitense. Altri pochi nomi di emigranti italiani - ante bellum - combattenti nelle file confederate sono pervenuti da fonti differenti, le più disparate. Emblematico, anche per il suo cognome, fu un Garibaldi, Gianbattista, che militò come sergente confederato nella compagnia C del 27° Virginia Infantry Reggiment. Nato nel 1831 a Lavagna in provincia di Genova, emigrato negli States nel 1858, si arruolò, sopravvisse alla guerra, e rimase in America. Morì il 28 ottobre del 1921 e volle essere seppellito vicino al generale Lee, nel cimitero monumentale di Lexington. È passato alla storia per le sue numerose lettere scritte in italiano dai vari fronti di guerra alla fidanzata, poi moglie: uno spaccato interessantissimo della guerra vista con gli occhi acuti di un soldato italiano. Altri due combattenti liguri furono Giovanbattista Vaccaro e Anatole Placido Avegno. Il primo, nato vicino Genova, giunse nel Tennessee nel 1851 e allo scoppio della guerra si arruolò nel 3° Tennessee Cavalry Reggiment. Sopravvisse alla guerra e morì già settantenne a Memphis, nel 1919. Avegno invece, è una località ligure prossima a Genova e da lì emigrò Giuseppe Avegno alla volta di New Orleans. Ebbe 10 figli, uno dei quali, l’avvocato ventiseienne Anatole Placido, formò un battaglione multietnico di volontari di fanteria che costituì il primo nucleo del 13° Louisiana Infantry Reggiment. Con il grado di maggiore comandò il suo battaglione divenuto celebre col nome Avegno’s Zouaves e il 7 aprile 1862 partecipò alla battaglia presso Fort Donelson Shiloh, una delle più sanguinose della guerra, combattendo strenuamente e subendo numerose perdite. Lo stesso maggiore Avegno fu colpito e subì l’amputazione della gamba, morendo qualche giorno dopo. E ancora un ligure - in effetti tra gli italiani del settentrione, sono proprio i liguri ad essere maggioranza assoluta tra gli emigranti giunti negli stati sudisti d’America - ed ancora un altro cognome emblematico, Giuseppe Bixio, fratello del famoso generale garibaldino. Giuseppe, da sacerdote gesuita andò a fare il missionario negli Stati Uniti e allo scoppio della Guerra di secessione si arruolò come cappellano militare nell’esercito confederato. Da capitano e per le sue spericolate azioni condotte fin tra le file nemiche, divenne presto una specie di leggenda vivente per i soldati sudisti. L’episodio più clamoroso, nel 1864, nella Atlanta assediata dai nordisti, travestito da cappellano dell’Unione passò le file nordiste e, ingannando il generale Sherman in persona, trafugò un ingente carico di vettovaglie portandolo nella città assediata. Sopravvisse alla guerra e processato, si salvò dimostrando di aver sempre operato soccorrendo i feriti, indistintamente sudisti e nordisti. Anche Angelo Vaccaro, nato a Trani nel 1837 e già soldato dell’esercito borbonico, fu tra coloro che prima dello scoppio della guerra s’imbarcarono volontariamente per l’America e raggiunse un suo fratello che era precedentemente emigrato a Menphis. Successivamente, si arruolò

nelle schiere confederate e fu inquadrato nella Compagnia B del 3° Tennessee Cavalry Reggiment, reparto d’élite che partecipò a varie battaglie, tra cui quella di Shiloh. Per il meritorio comportamento nella battaglia di Munfreesboro, ottenne il grado di sergente. Ferito in modo serio nella battaglia di Chicamauga, trascorse diverse settimane in ospedale e poi, in battaglia nei pressi di Franklin, fu fatto prigioniero e rinchiuso nella fortezza di Nashville. Lì gli fu offerta la libertà a condizione di prestare giuramento di fedeltà all’esercito nordista, ma rifiutò e venne internato nelle prigioni di Camp Chase in Ohio, dove vi rimase sino alla fine delle ostilità. Quindi si fermò negli Stati Uniti, si stabilì a Front Row, sposò Celestina Sturla e divenne padre di cinque figli. Carlo Patti, di famiglia siciliana, era nato a Madrid nel 1842, dove suo padre tenore e sua madre soprano si erano trasferiti per il loro lavoro. La sorella Adelina divenne una famosissima soprano e anche lui studiò musica al conservatorio e divenne direttore d’orchestra. La sua famiglia emigrò poi negli Stati Uniti e quando scoppiò la guerra civile abitava nel Tennessee. Carlo si unì ai Maury Rifles, i confederati comandati dal capitano John G. Anderson, e rimase con la compagnia fino a Shiloh, e poi passò al Signal Corps. Sopravvisse alla guerra, ma morì ancora giovane in Francia nel 1873 e fu sepolto nel mausoleo di famiglia a Saint Luis nel Missouri. *** Pur se i nomi italiani rintracciati finora son parecchi - 825, con qualche duplicato e più di qualche cognome distorto nel corso delle trascrizioni - quelli dei quasi 2.000 ex soldati borbonici confederati pervenuti continuano ad essere una minoranza, probabilmente meno di una quarta parte del totale. Eppure, che siano conosciuti o meno, forse poco importa: di certo sono nomi di uomini comuni, meridionali semplici, soldati, alcuni dei quali riuscirono a sopravvivere - pochissimi rientrarono in Italia e gli altri faticosamente si costruirono una nuova vita in America - mentre i più caddero forse inconsapevoli del

loro ruolo e finanche della stessa realtà storica che gli era toccato - in cattiva sorte - di vivere. Quei pochissimi nomi degli ex soldati borbonici deportati e qui commentati senza che per nessuno di loro ci sia un volto da mostrare o una storia particolareggiata da raccontare, come anche tutti gli altri loro nomi rintracciati intercalati con quelli degli italiani precedentemente emigrati e qui non commentati e, infine, tutti quei loro nomi ancor più numerosi rimasti del tutto sconosciuti, rappresentano diretta e indirettamente tutto ciò che resta della realtà tragica di questa parte molto poco nota della nostra storia. «La storia di quei tanti italiani comuni le cui vicende terrene dipesero da interessi e forze più grandi di loro. Uomini comunque sorretti dalla loro dignità, sfruttata e spesso offesa dalle miserie umane. Uomini sconfitti, come i due mondi per i quali si batterono; uomini che si salvarono o che, in gran numero, perirono; uomini che in ogni caso morirono due volte: in patria prima e lontano dalla loro patria dopo. Uomini a cui rendere, almeno in sede storica, l’onore delle armi; uomini di cui rispettare il ruolo - pur se sempre e tenacemente dalla parte perdente ricoperto nel divenire storico e nella costruzione di questo nostro mondo, pur se attraverso la stesura di pagine cruente della civiltà umana.» [P. Greco] Si tratta, infine, di una storia di speranze e di sconfitte, di illusioni e di frustrazioni, di infelice coraggio, di libertà inseguite e mai abbracciate; una storia di uomini trovatisi a calcare il palcoscenico delle umane vicende dalla parte perdente; una storia di italiani, di italiani meridionali prigionieri del proprio destino, un destino piagato dalle asprezze di una vita vissuta in un tempo particolarmente sfortunato, una vita iniziata in una terra bella ma al contempo maltrattata da quella storia, lontana e forse non ancora del tutto superata: terra di Sicilia e di Calabria, di Campania e di Puglia: da Foggia a Trani e da Bari alla Terra d’Otranto, come allora si chiamava questa nostra terra dell’estremo levante peninsulare.

Un dipinto raffigurante la C.S.S. Alabama

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San Francesco di Paola nella splendida cripta del Monumento Il Santo dei naviganti, dopo 200 anni ritorna a Brindisi, ma sull’altra sponda.

Già patrono del Regno di napoli, a Brindisi venerato nel complesso posto nei pressi della Porta Reale, dal 1943 viene proclamato “Celeste Patrono della gente di mare” Realizzata da Cosimo Marinò una statua che lo raffigura a grandezza naturale di Giancarlo Sacrestano e Gianfranco Perri onumento” a Brindisi è uno solo, l’alto e possente Monumento Nazionale al Marinaio d’Italia. Fra qualche settimana celebrerà il suo 87° compleanno, ancora giovene, ma senza di lui Brindisi, non sarebbe la stessa città, tanto è entrato nel costume cittadino. Come se sia stato tratto dalla radice più profonda della città è germogliato, sulla sponda opposta, al miracolo naturale che è il porto interno, là nei pressi del decantato “pozzo di Plinio” su un tratto di costa anticamente noto come “Posillipo” (in greco: che fa cessare il dolore), per testimoniare, di Brindisi, l’antica vocazione, d’ essere approdo sicuro – da sempre - per i naviganti. Domenica 27 settembre, nella Cripta-sacrario durante la cerimonia di commemorazione della tragedia della corazzata “Benedetto Brin” che esplose nell’avamporto della città 105 anni fa, sarà svelata la statua che raffigura San Francesco di Paola, patrono della Gente di Mare ed insieme a Santa Barbara, patrona della Marina Militare, già presente nella Cripta, custodiranno la memoria di quanti, troppi, sono morti negli abissi degli oceani. Questa rubrica torna, dopo due settimane, a parlare ancora della Cripta e del Monumento perché proprio il 27 settembre si rende manifesta ed evidente la radice più antica e solida, che attraversa i secoli, le mode e le persone, per offrire al contemporaneo ragioni solide per comprendere il va-

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LE IMMAGInI Il video di presentazione del nostro Giancarlo Sacrestano, a sinistra la statua di San Francesco Di Paola e lo scultore che l’ha realizzata, Cosimo Marinò. A destra attraversamento dello Stretto - Dipinto di Benedetto Luti Museo di Messina

lore di una città, il suo territorio. Per ricostruire il filo della memoria, che ci rende leggibile il significato di un evento che si gioca tra la sua storicità e lo straordinario concerto di coincidenze, che se ne possono raccontare, questa rubrica si avvale della scrittura e due mani, con l’amico e collega Gianfranco Perri a cui è affidata la ricostruzione storica della figura del Santo e la testimoniata presenza a Brindisi dell’Ordine dei Minimi” o anche detti “Paolotti”. Quando nel 1579 i padri di San Francesco di Paola giunsero a Brindisi, l’amministrazione cittadina assegnò loro come sede il convento dell’Annunziata – presso l’attuale chiesa della Pietà – che era appena stato liberato dai Cappuccini trasferitisi alla loro nuova sede edificata fuori le mura. Quella prima sede dei Minimi però, non risultò adeguata a causa dell’estrema insalubrità di tutta l’area adiacente al convento, circondata com’era alle paludi che lambivano il vicino bastione di San Giacomo. E meno di cent’anni dopo, nel 1669, su perentoria richiesta del generale dell’Ordine in visita a Brindisi, il padre Sebastiano Quinquet, la città assegnò ai frati una nuova collocazione

presso le strutture frettolosamente risistemate contigue all’antichissima chiesa di San Giacomo, che era sita presso la marina, vicino la Porta detta Reale, dove i padri vi trasferirono l’immagine del loro Santo. Si trattò di una sistemazione temporale – fino al 21 ottobre 1687 – in attesa del completamento dei lavori di risanamento e ristrutturazione dell’Annunziata, intrapresi grazie

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alle offerte di privati. Quella chiesa di San Giacomo fino al 1173 era stata di rito greco ed era passata al culto latino con il vescovo Lupo. In seguito, divenuta proprietà della municipalità, per un tempo le sue strutture furono utilizzate per svolgervi la cerimonia di giuramento delle autorità cittadine elette di anno in anno e poi erano state de-


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stinate a deposito dell’archivio municipale. Perdurando tuttavia l’insalubrità dell’Annunziata, nel 1712 i Minimi si ritrasferirono presso San Giacomo e, acquistata la contigua casa dei coniugi Teodora Gravile e Giuseppe Sant’Arcangelo, procedettero a far ristrutturare e ingrandire il convento che, divenuto ormai sede definitiva dei Minimi in Brindisi, fu da allora ufficialmente intitolato a San Francesco di Paola congiuntamente alla chiesa. Fra il 1747 e il 1748 la vecchia chiesa, ormai fatiscente, venne demolita e ricostruita per intero molto più ampia della precedente. Ma la vita del convento e quella della nuova chiesa di San Francesco di Paola non erano destinate a durare ancora per molto. In conseguenza dei provvedimenti eversivi napoleonici del 1808 infatti, i Minimi furono sloggiati con il loro Santo e il complesso ebbe svariate utilizzazioni a beneficio pubblico, sia civili che militari. Ancor oggi gli edificati siti nel recinto che aveva compreso il giardino e il chiostro del convento sono occupati da una unità della Guardia di Finanza, mentre un ufficio delle Poste funziona proprio sull’area che fu della chiesa di San Francesco di Paola. Si trattò per Brindisi e per i brindisini di una perdita triste e sofferta: la perdita di un Santo per molti aspetti speciale. Ebbene, grazie alla felice coincidenza – esattamente un anno fa – che ha visto protagonisti, Don Sergio Vergari, il compianto presidente di ASSOARMA Generale Giuseppe Genghi, Giancarlo Sacrestano e Gianfranco Perri, dopo più di 200 anni, San Francesco di Paola ritorna a Brindisi e vi ritorna con la pregevolissima opera scultorea del bravo artista oritano, il maestro profes-

LE IMMAGInI La cripta alcova dove saràcollocata la statua del Santo patrono della gente di mare, e il nostro Gianfranco Perri, promotore del ritorno di San Francesco di Paola. Sotto l’area in cui sorgeva il convento dell’ordine dei minori

sor Cosimo Marinò. E quale miglior sede in Brindisi per il “Santo patrono della gente di mare” se non propriamente la solenne e maestosa Cripta del Monumento al Mari-

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naio d’Italia? Del resto, siamo certi che il Santo sarà sicuramente contento e d’accordo. Ritornerà infatti, praticamente al suo posto originale in riva al mare del porto di Brindisi, solo sull’altra sponda, e senza che neanche ci sia bisogno di ricreare il miracolo dell’attraversamento dello stretto. E quale la miglior ricorrenza per concretizzare questo felice ritorno?


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LE IMMAGInI Sopra il lungomare e il piccolo tratto del cammino durato 200 anni, a destr ala clessidra sulla parete, della sede della capitaneria di Porto di Brindisi

Una coincidenza che non trova spiegazione nella ragione degli eventi, ha visto l’incontro casuale di persone, già citate, in qualche modo legate al Santo di Paola. Dall’offrirsi reciproca fiducia nella possibilità di realizzare una statua alla sua concretizzazione, né la distanza, la malattia, la pandemia, la morte hanno rallentato la tabella di marcia e in un anno esatto e la bravura artistica dello scultore oritano, devoto anche lui al Santo ed abitante nei pressi della Chiesa che ad Oria è dedicata al Santo calabrese, la statua sarà svelata nella cripta a memoria della “Gente di Mare” che ha perduto la propria vita per salvarne altre, per lanciare un messaggio di speranza supremo a chi li onora e li ricorda, che la libertà è un patrimonio di valori che anche al costo della vita deve essere tutelata. Vale specificare che l’opera corale di chi si è prodigato perché tanto si realizzasse è ritenuto da tutti omaggio a ricordo del maestro di vita ed esempio di virtù militari e civili, che è stato Giuseppe Genghi, Generale dell’Aeronautica, presidente di ASSOARMA, la Federazione che raggruppa ben 42 associazioni d’arma e combattentistiche della provincia di Brindisi, ma amico di Brindisi a cui ha offerto il massimo impegno, anche quando ne divenne, molti anni orsono, amministratore. Le contingenti costrizioni anti COVID non

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LE IMMAGInI A sinistra il Cap. di Fregata Claudio Mazzola vice presidente assoarma, accanto il defunto gern Giuseppe Genghi pres Assoarma, qui a destra un altro particolare della statua

consentiranno il giusto rilievo alla manifestazione di svelamento e di ricordo della gente di mare caduta a principiare dalle vittime della tragedia della Benedetto Brin. Lo scultore Cosimo Marinò, già autore della statua di Santa Barbara presente nella Cripta, maestro indefesso e laborioso, che si innamora delle idee creative e le sposa sino a realizzarle, sottolinea che: “L’opera è tridimensionale, è alta 1 metro e 75 cm, ha un diametro di 60 cm ed è stata realizzata con una malta cementizia speciale con patina bronzata. . La mano sinistra del santo posta sul petto manifesta una grande spiritualità, mentre il braccio destro piegato all’altezza del gomito regge sia un lembo del mantello, che il bastone che termina in alto con la scritta charitas”. La parola Charitas, richiama il valore intenso dell’amore e della sua gratuità, della vita che si fa servizio ma non si serve della vita altrui. “è vero! Anche quest’opera, gesto di servizio amorevole, da questo momento non appartiene solo all’artista che l’ha realizzata o al committente, ma appartiene a tutti i cittadini e come tale, tutti devono essere osservatori, fruitori e protagonisti. L’arte è cultura per cui non va solo letta, ma va anche ammirata ed apprezzata”.

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Il Santo protettore della gente di mare Fra i numerosi miracoli di Francesco tramandati dalla tradizione, il più emblematico è quello del passaggio dello stretto di Messina il 4 aprile del 1464: “Gli fu chiesto di avviare una comunità a Milazzo in Sicilia e con due confratelli si accinse ad attraversare lo stretto di Messina. Giunto nei pressi dell’imbarcadero, chiese ad un pescatore la cortesia d’essere traghettato all’altra sponda con i suoi due fratelli, ma questi rifiutò quando seppe che non potevano pagarlo. Francesco si appartò a pregare in riva al mare e quindi, legò un bordo del suo mantello al bastone, vi salì sopra con i due frati e attraversò lo stretto con quella barca a vela miracolosa. Il racconto dell’episodio, confermato da vari testimoni oculari compreso il pescatore Pietro Colosa del piccolo porto calabrese di Catona, si diffuse rapidamente fino a divenire il più famoso e il più celebrato dei miracoli del Santo”. Luigi XI di Francia, gravemente ammalato, informato dei miracoli, lo chiamò alla sua corte. Francesco tergiversò e finalmente vi si recò nel 1483 avutone ordine da papa Sisto IV ed aiutò quel re a morire cristianamente. Non gli riuscì di rientrare in Italia e dovette trattenersi in Francia, dove rimase per venticinque anni, svolgendo anche delicati incarichi diplomatici per conto della chiesa di Roma e promuovendo gli aiuti necessari alla diffusione del suo Ordine in tutta Europa. E nel 1501 ottenne dal papa Alessandro VI l’approvazione formale per il suo Ordine penitenziale con il nuovo e definitivo nome “Fratres Minimi Francisci de Paula”. Francesco, raccontano le cronache biografiche, visse una vita lunga e del tutto austera: non mangiò mai carne, uova, latte o formaggio; solo nella tarda età ingerì pesce e vino. Morì novantunenne nel 1507, il 2 aprile, giorno in cui ad oggi lo si commemora. Il pontefice Giulio II lo dichiarò beato nel 1513, e papa Leone X lo fece santo nel 1519. Subito dopo la sua canonizzazione furono erette in suo onore basiliche reali a Parigi, Torino, Palermo e Napoli e il suo culto divenne popolarissimo in tutto il mondo cristiano, e specialmente nel Meridione d’Italia. Nel gennaio del 1562 il corpo del Santo venne bruciato dagli ugonotti e le poche reliquie conservatesi furono finalmente portate, nel 1935, nella sua basilica in Paola dove da allora riposano venerate dai pellegrini di tutto il mondo. Il Santo prima invocato come patrono del Regno di Sicilia, divenne in seguito anche patrono del Regno di Napoli, infine, il 27 Marzo 1943 Papa Pio XII con il Breve Apostolico “Quod Sanctorum Patronatus” ha proclamato San Francesco di Paola “Celeste Patrono della Gente di Mare della Nazione Italiana”.

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Francesco D’Alessio nacque a Paola, in provincia di Cosenza il 27 marzo 1416. Appena dodicenne si ritirò a vita eremitica vivendo in penitenza, in preghiera e del lavoro manuale. Acquisita fama di taumaturgo, attirò l’attenzione di persone appartenenti a ogni ceto sociale e alcuni giovani vollero farsi suoi discepoli. L’eco della sua fama di eremita e di vemente difensore dei ceti più umili contro le vessazioni dei potenti – ai quali parlò spesso con fierezza apostolica – e contro l’esosa riscossione delle imposte, giunse presto alla corte napoletana del re Ferrante D’Aragona. Dapprima Francesco venne considerato con atteggiamento ostile, per cui gli fu contestata l’apertura dell'eremo avvenuta senza autorizzazione del re, ma presto l’atteggiamento nei suoi confronti cambiò e Ferrante concesse all’eremita e ai suoi seguaci la regia protezione. Anche con la chiesa locale e con quella di Roma, le relazioni furono buone e nel 1474 giunse il riconoscimento pontificio formale di Sisto IV agli eremiti di Paola. Fra i numerosi miracoli di Francesco tramandati dalla tradizione, il più emblematico è quello del passaggio dello stretto di Messina il 4 aprile del 1464: «Gli fu chiesto di avviare una comunità a Milazzo in Sicilia e con due confratelli si accinse ad attraversare lo stretto di Messina. Giunto nei pressi dell’imbarcadero, chiese ad un pescatore la cortesia d’essere traghettato all’altra sponda con i suoi due fratelli, ma questi rifiutò quando seppe che non potevano pagarlo. Francesco si appartò a pregare in riva al mare e quindi, legò un bordo del suo mantello al bastone, vi salì sopra con i due frati e attraversò lo stretto con quella barca a vela miracolosa. Il racconto dell’episodio, confermato da vari testimoni oculari compreso il pescatore Pietro Colosa del piccolo porto calabrese di Catona, si diffuse rapidamente fino a divenire il più famoso e il più celebrato dei miracoli del Santo.» Luigi XI di Francia, gravemente ammalato, informato dei miracoli, lo chiamò alla sua corte. Francesco tergiversò e finalmente vi si recò nel 1483 avutone ordine da papa Sisto IV ed aiutò quel re a morire cristianamente. Non gli riuscì di rientrare in Italia e dovette trattenersi in Francia, dove rimase per venticinque anni, svolgendo anche delicati incarichi diplomatici per conto della chiesa di Roma e promuovendo gli aiuti necessari alla diffusione del suo Ordine in tutta Europa. E nel 1501 ottenne dal papa Alessandro VI l’approvazione formale per il suo Ordine penitenziale con il nuovo e definitivo nome “Fratres Minimi Francisci de Paula”. Francesco visse una vita lunga e del tutto austera: non mangiò mai carne, uova, latte o formaggio; solo nella tarda età ingerì pesce e vino. Morì novantunenne nel 1507, il 2 aprile, giorno in cui ad oggi lo si commemora. Il pontefice Giulio II lo dichiarò beato nel 1513, e papa Leone X lo fece santo nel 1519. Subito dopo la sua canonizzazione furono erette in suo onore basiliche reali a Parigi, Torino, Palermo e Napoli e il suo culto divenne popolarissimo in tutto il mondo cristiano, e specialmente nel Meridione d’Italia. Nel gennaio del 1562 il corpo del Santo venne bruciato dagli ugonotti e le poche reliquie conservatesi furono finalmente portate, nel 1935, nella sua basilica in Paola dove da allora riposano venerate dai pellegrini di tutto il mondo. Nel 1943 papa Pio XII, in memoria della famosa traversata dello Stretto di Messina, lo nominò formalmente “Protettore della Gente di Mare”.


GIANCARLO SACRESTANO IOCLANDESTINO

LA CRIPTA E SAN FRANCESCO GIANFRANCO E IO Brindisi rinasce dal dialogo intimo e profondo tra passato e presente guardando al futuro possibile

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l “Monumento” a Brindisi è uno solo, l’alto e possente Monumento Nazionale al Marinaio d’Italia. Il prossimo novembre, si celebrerà il suo 88° compleanno, ancora giovane, ma senza di lui Brindisi, non sarebbe la stessa città, tanto è entrato nel costume cittadino. Come se sia stato tratto dalla radice più profonda della città è germogliato, sulla sponda opposta, al miracolo naturale che è il porto interno, là nei pressi del decantato “pozzo di Plinio” su un tratto di costa anticamente noto come “Posillipo” (in greco: che fa cessare il dolore), per testimoniare, di Brindisi, l’antica vocazione, d’ essere approdo sicuro – da sempre - per i naviganti. Domenica 27 settembre 2020, nella Cripta-sacrario durante la cerimonia di commemorazione della tragedia della corazzata “Benedetto Brin” che esplose nell’avamporto della città 105 anni fa, è tata svelata la statua che raffigura San Francesco di Paola, patrono della Gente di Mare ed insieme a Santa Barbara, patrona della Marina Militare, già presente nella Cripta, custodiscono la memoria di quanti, troppi, sono morti negli abissi degli oceani. Ome ogni prima domenica di mese, il primo agosto, ASSOARMA BRINDISI ha riunito i fedeli nella riflessione “Dialogo con la Memoria” ed il Santo rito della Messa per ricordare il servizio svolto da Brindisi per l’assistenza alla insurrezione di Varsavia del 1944.’incontro preannunciato, in Cripta con l’amico fraterno Gianfranco Perri, emoziona e rinnova un profondo senso di rispetto ed augurio per gli studi e l’attenzione rivolti alla storia della città. Siamo reduci di un abbraccio che avevamo custodito nel tempo e che lo scorso anno, mancò, per cause COVID. Il 27 settembre, in Cripta veniva celebrato il rito di benedizione della statua riguardante San Francesco di Paola. Qual è stata la miglior ricorrenza per concretizzare il ritorno a Brindisi del Santo? Perdurando l’insalubrità dell’Annunziata, nel 1712 i Minimi (i frati francescani detti pure Paolotti) si ritrasferirono presso San Giacomo e, ac-

quistata la contigua casa dei coniugi Teodora Gravile e Giuseppe Sant’Arcangelo, procedettero a far ristrutturare e ingrandire il convento che, divenuto ormai sede definitiva dei Minimi in Brindisi, fu da allora ufficialmente intitolato a San Francesco di Paola congiuntamente alla chiesa. Fra il 1747 e il 1748 la vecchia chiesa, ormai fatiscente, venne demolita e ricostruita per intero molto più ampia della precedente. Ma la vita del convento e quella della nuova chiesa di San Francesco di Paola non erano destinate a durare ancora per molto. In conseguenza dei provvedimenti eversivi napoleonici del 1808 infatti, i Minimi furono sloggiati con il loro Santo e il complesso ebbe svariate utilizzazioni a beneficio pubblico, sia civili che militari. Ancor oggi gli edificati siti nel recinto che aveva compreso il giardino e il chiostro del convento sono occupati da una unità della Guardia di Finanza, mentre un ufficio delle Poste funziona proprio sull’area che fu della chiesa di San Francesco di Paola. Si trattò per Brindisi e per i brindisini di una perdita triste e sofferta: la perdita di un Santo per molti aspetti speciale. Ebbene, grazie alla felice coincidenza – esattamente un anno fa – che ha visto protagonisti, Don Sergio Vergari, il compianto presidente di ASSOARMA Generale Giuseppe Genghi, Giancarlo Sacrestano e Gianfranco Perri, dopo più di 200 anni, San Francesco di Paola ritorna a Brindisi e vi ritorna con la pregevolissima opera scultore del bravo artista oritano, il maestro professor Cosimo Marinò. E quale miglior sede in Brindisi per il “Santo patrono della gente di mare” se non propriamente la solenne e maestosa Cripta del Monumento al Mari Fra i numerosi miracoli di Francesco tramandati dalla tradizione, il più emblematico è quello del passaggio dello stretto di Messina il 4 aprile del 1464: “Gli fu chiesto di avviare una comunità a Milazzo in Sicilia e con due confratelli si accinse ad attraversare lo stretto di Messina. Giunto nei pressi dell’imbarcadero, chiese ad un pescatore la cortesia d’essere traghettato

all’altra sponda con i suoi due fratelli, ma questi rifiutò quando seppe che non potevano pagarlo. Francesco si appartò a pregare in riva al mare e quindi, legò un bordo del suo mantello al bastone, vi salì sopra con i due frati e attraversò lo stretto con quella barca a vela miracolosa. Il racconto dell’episodio, confermato da vari testimoni oculari compreso il pescatore Pietro Colosa del piccolo porto calabrese di Catona, si diffuse rapidamente fino a divenire il più famoso e il più celebrato dei miracoli del Santo”. Il primo agosto 2021, Gianfranco Perri, rientrato a Brindisi dalla sua residenza estera, ha potuto godere della visione diretta della Statua, in compagnia di Giancarlo Sacrestano ed insieme lo scambio di saluti e di buon cammino per la visita a Paola, città natale del Santo a cui Gianfranco e la sua famiglia portano grande devozione. Ci concediamo il breve ma intenso tempo per uno scatto fotografico, vero momento di partenza per un viaggio nel “Cammino” alla sequela del Santo e del Suo Significato che attraversa la Regione Calabria. Avvicinati al Sacro Mantello del Santo, nel mentre attraversa il mare pericoloso, da cui salva e protegge, ci sentiamo come a casa. Come a bordo della nave più sicura. È gesto antico e vivo. È gesto che si carica dell’antica e profonda religione della memoria, che si avvalora di ricorso e di ripercorsi lenti e profondi, su passi lenti e meditati, che approcciati proprio davanti al Santo, vien voglia di ricordare a noi e a tutti, il caro scultore il Maestro, prof. Cosimo Marinò che all’inaugurazione disse: “ Anche quest’opera, gesto di servizio amorevole, da questo momento non appartiene solo all’artista che l’ha realizzata o al committente, ma appartiene a tutti i cittadini e come tale, tutti devono essere osservatori, fruitori e protagonisti. L’arte è cultura per cui non va solo letta, ma va anche ammirata ed apprezzata”. Buon cammino Gianfranco, amico via da Brindisi. Buon cammino a tutti, col pensiero che vi abbraccia e vi stringe all’aula riparata e sicura della Cripta, nella cittàche tutti ospita e tutti accoglie.

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CULTURE La ricostruzione storica e il ritratto di un personaggio particolare

ricciotti Garibaldi nel 1912 salpò da brindisi per la Grecia: l’ultima spedizione di Gianfranco Perri opo la conquista di Costantinopoli nel 1453 e l’assedio – senza successo – a Vienna nel 1683, l’impero turco dopo aver toccato l’apogeo della sua potenza iniziò il suo, pur se lento, inarrestabile declino. In Europa, la Grecia fu la prima che dopo quasi mezzo millennio di dominio turco, tra il 1829 ed il 1832 riuscì a ricostituire un’entità statale indipendente, su di un territorio ancora mutilato e dopo anni di rivolte e di lotte cruente. E le rivendicazioni greche non cessarono durante tutto quel XIX secolo, raccogliendo in tutta Europa – in Italia in primis, ma non solo – le simpatie romantiche o tangibili, di singole personalità e di interi movimenti, intellettuali libertari e di azione – anche militare – che determinarono l’insorgere del detto “ellenismo”, la riscoperta cioè e la mitizzazione dell’antichità preclassica e classica della Grecia: la sua cultura, l’arte, la tradizione letteraria. E in quel secolo XIX era stata in particolare Creta – Candia, la grande isola dell’Egeo meridionale abitata da Greci e Turchi – ad essere periodicamente scossa da rivolte antiturche che in più occasioni avevano innescato formali conflitti armati tra Grecia e Turchia. Era accaduto, in particolare, nel 1866-67 e nel 1897. «Nel 1866, l’isola di Creta essendo insorta, oltre 2.000 volontari italiani e 80 ufficiali vi si recarono, partendo alla spicciolata dai porti adriatici con piccoli velieri e con i due vapori ‘Panhellenion’ e ‘Idra’… Fra l’altre, a principio del 1867, una spedizione di una quarantina circa di Toscani partì da Livorno e avendo toc-

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cato Caprera, a questa si unì il non ancora ventenne Ricciotti Garibaldi» [da un articolo di Ettore Socci]. Alcuni dei gruppi formati da volontari italiani parteciparono a vari combattimenti sull’isola e tra loro ci furono numerosi caduti, all’incirca una trentina in tutto tra i quali il ventisettenne tenente Achille De Grandi. Alcuni altri gruppi armati di italiani si diressero

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sulla terra ferma di Grecia in vista dell’attacco dell’esercito greco sulla frontiera epirota tra Joannina Prevesa e Arta, ma finalmente le pressioni diplomatiche delle potenze europee – in primis Austria e Russia – obbligarono il governo greco a desistere e così l’intera rivolta rientrò, e il giovane Garibaldi con il suo gruppo toscano comandato dal colonnello Andrea Sga-


Sopra il generale Ricciotti Garibaldi con suo figlio Peppino a Atene nel novembre 1912, sotto Manifesto commemorativo della La battaglia di Driskos del 9 dicembre 1912, nella pagina accanto la battaglia di Domokos del 17 maggio 1897 vista dai Turchi

ciale…» [La Camicia Rossa nella Guerra Greco-Turca 1897 di Ricciotti Garibaldi, 1899]. Ad Atene Ricciotti ricevette l’ordine dal comandante delle forze greche, il principe Costantino, di raggiungerlo a Domokos in

rallino lasciò Atene e rientrò in Italia, via Brindisi. Nel 1897, nuovamente in seguito ad una insurrezione di Creta e questa volta nel contesto di una guerra formalmente dichiarata dalla Turchia alla Grecia, nonostante le varie difficoltà interposte dalle autorità italiane ufficialmente neutrali, il generale Ricciotti Garibaldi – all’epoca già cinquantenne – salpato con un gruppo di volontari da Brindisi il 21 aprile con la nave Peloro, raggiunse la Grecia via Corfù per porsi al comando di poco più di un migliaio di volontari – esattamente 1.323 distribuiti in 4 battaglioni – accorsi al suo proclama da tutte le regioni d’Italia, e non solo. «…Così, la mattina del 21 aprile 1897, partii per Brindisi solo e all’insaputa di tutti, fuor che di mio fratello Menotti, d’Ettore Ferrari, di Gattorno e di qualcun altro. Arrivato a Brindisi mi furono prodighi di gentilezze i signori Giustino Durano, direttore dell’Indipendente, il cavaliere Dell’Aira, il signor Cocotò, console greco, i signori Mariani, Vittale e altri vecchi garibaldini; e sino l’egregio delegato gentilmente si mise a mia disposizione! Qui assistei a una delle solite scene di quei giorni: una quantità di giovani che volevano imbarcarsi, fra i quali ricordo il bravo Giuliano Bonacci, figlio dell’ex ministro, e Carnacina che poi risultò un eccellente uffi-

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Tessaglia e lì, il 17 maggio, si consumò il duro scontro con i Turchi. «Nella battaglia a Domokos, 850 Camice rosse respingevano tutta la divisione turca di Hairi Pascià salvando, se non altro, l’onore delle armi greche» [Ricciotti Garibaldi]. Quella battaglia contro forze soverchie costò la vita a ventidue dei garibaldini, molti dei quali erano salpati da Brindisi e tra loro anche lo sfortunato deputato Antonio Fratti. Dopo una difficile ritirata, seguì la firma dell’armistizio tra Grecia e Turchia e la guerra terminò. La spedizione italiana, ringraziata con onori dal governo e dal popolo greco, fu quindi prosciolta e il 1º giugno a bordo dell’Urania un centinaio di garibaldini rientrò a Brindisi con il comandante Ricciotti. «…Finalmente, verso le dieci antimeridiane del primo giugno, ci venne incontro la lancia a vapore di un vecchio pilota, il quale si scoperse gridando: viva l’Italia! viva la Grecia! E venne a bordo della nostra Urania per condurla all’ancoraggio entro il magnifico porto di Brindisi. Avvicinandosi il vapore alla banchina, vennero a bordo il rappresentante del sottoprefetto, il capitano dei carabinieri e qualcun altro. Per poter discutere più liberamente li portai nella cabina del nostro buon capitano. Questi signori si mostravano alquanto impensieriti per lo sbarco di tanti volontari vestiti di rosso e volevano prendere delle misure per impedire possibili disordini. Ma i volontari decisero la questione per conto loro. Intanto che nella cabina si discuteva, il vapore si era avvicinato alla banchina. In quella cabina faceva un caldo da forno e il capitano dei carabinieri che non ne poteva più, stretto com’era nel su uniforme, aprì la porta e mise fuori la testa per prendere una boccata d’aria. Ma subito la ricacciò indietro, dicendo con aria costernata: “Intanto che noi di-


CULTURE Ricciotti nel 1870, nella pagina accanto il

libro di Ricciotti sulla spedizione del 1912 in Grecia

scutiamo, i volontari sono già scesi!” Questa scenetta mi fece molto ridere. E così era veramente. Usciti tutti dalla cabina, si videro i nostri volontari in mezzo alla folla delirante che li abbracciava e li acclamava, entusiasmata di quella splendida gioventù che così altamente aveva onorato la nostra Italia…» [La Camicia Rossa nella Guerra Greco-Turca 1897 di Ricciotti Garibaldi, 1899]. Quindici anni ancora, ed ecco giunto il 1912, con il generale Ricciotti Garibaldi sessantacinquenne, invecchiato nel fisico ma non certo nello spirito, uno spirito romantico e battagliero che si era inoltre ampiamente effuso anche tra tutti i suoi figli, sette maschi e due femmine: Peppino, Ricciotti jr, Menotti jr, Sante, Bruno, Costante, Ezio, Rosa e Italia. In quell’anno la situazione politica nei Balcani ritornò a fermentare: nel 1908 a Istambul avevano preso il potere i ‘giovani turchi’ e la Turchia entrò in guerra con l’Italia, che era sbarcata in Tripolitania ed in Cirenaica con l’obiettivo poi concretizzato di costituire la sua colonia di Libia. Tra 1910 e 1911 nelle regioni turche di popolazione maggioritaria albanese – Scutari, Giannina, Kossovo – riprese la rivolta indipendentista e nel settembre 1912 quelle province ottennero una limitata autonomia. Infine, a ottobre, iniziò la Prima guerra balcanica, dichiarata da Serbia Montenegro Bulgaria e Grecia alleatesi contro la Turchia, mentre l’impero ottomano era ancora impegnato contro l’Italia. Scoppiata la guerra, Ricciotti decise che bisognava partecipare con un corpo di volontari garibaldini in aiuto della Grecia. La Grecia, entrata in guerra il 18 ottobre, il 2 novembre assediò e prese Prevesa, puntando sulla molto ben difesa Joannina, dove l’esercito turco resistette a lungo e dove furono concentrate le Camicie Rosse di Ricciotti con a capo di stato maggiore Peppino Garibaldi, il suo figlio primogenito. I garibaldini parteciparono dapprima ad alcuni scontri minori e poi, il 9 dicembre e per altri due giorni, a quello molto impegnativo di Driskos, una piccola località collinare di fronte a Joannina che continuò a resistere anche quando iniziarono, a metà dicembre, le trattative per l’armistizio e, finalmente, capitolò il 5 marzo 1913, segnando di fatto la fine della guerra. Radunati i volontari presso l’università di Atene, in otto giorni – durante la prima metà di novembre – il corpo dei garibaldini del generale Ricciotti Garibaldi fu pronto per raggiungere le quasi mille Camicie Rosse greche che al comando del colonnello Alexandres Romas erano già da giorni partite per il fronte. Poi però, si dovette attendere ancora qualche giorno affinché arrivasse ad Atene il materiale bellico inviato dall’Italia che aveva subito vari disguidi e, finalmente, con più di mille Camice Rosse – 1.166 – Ricciotti e suo figlio Peppino partirono per il fronte, a Nord verso Joannina, che dopo vari giorni di ogni sorta di ostacoli, di neve e di marce forzate, raggiunsero i primi di dicembre. Intorno a Driskos, strappata ai Turchi che l’avevano fortificata e munita di numerose bocche da fuoco, si consumò la grande battaglia delle Camice Rosse, 27 ore effettive di duri combattimenti su tre giorni continui: 9, 10 e 11 dicem-

bre. Vi parteciparono tutti i battaglioni della spedizione garibaldina, i due di Alexandres Romas, quello di Gerolamo Bianchini e quello di Brown Frank Cooper, appoggiati dai riparti Ambulanza Genio e Treno, e coordinati – tutti – da Ricciotti Garibaldi, costantemente presente sul campo. Poi, con le forze turche sopraggiunte in numero assolutamente soverchiante, a metà del terzo giorno per i circa 1.400 uomini rimasti in armi dopo i caduti e le varie centinaia di feriti, giunse dal comando generale greco l’ordine d’evacuazione graduale delle strategiche posizioni conquistate a Driskos: tra l’assediata città di Joannina e le sua cintura di fortificazioni “così vicini ad essa, che, con i cannocchiali, vedevamo la gente circolare nelle sue vie”. Le perdite della Legione garibaldina furono circa 400 a fronte delle 2.000 stimate per quelle delle le forze turche. L’obiettivo di distogliere il grosso delle truppe ottomane per dare la possibilità e il tempo all’esercito regolare greco di conquistare gli obiettivi strategici dell’area, era stato pienamente raggiunto dalle azioni affidate

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alle Camice Rosse e così, il 14 dicembre, in coordinazione con il governo e con lo stato maggiore greco, il generale Ricciotti dichiarò formalmente disciolta la Legione, ordinandone il disciplinato rientro. Il percorso di ritorno dei garibaldini verso Atene non fu meno accidentato di quello di andata, e anzi fu enormemente complicato dal trasporto dei numerosi feriti, ma infine, superando anche le nuove difficoltà, si compì abbastanza ordinatamente. E il governo, lo stato maggiore e il popolo greco, seppero, riconobbero ed esaltarono “la splendida figura fatta dal piccolo corpo di spedizione di circa duemila uomini con soli tre cannoni, che per tre giorni con ventisette ore di fuoco sostenne l’urto di un bravo nemico, forte da otto a diecimila uomini e venti o trenta bocche da fuoco, perdendo un quinto del suo effettivo.” Il 28 dicembre, Ricciotti Garibaldi con un gruppo dei suoi volontari rientrò a Brindisi a bordo del piroscafo Ismene. Ricciotti Garibaldi volle raccontare quella sua “ultima spedizione armata” in un libro che fu pubblicato nel 1915 “La Camicia Rossa nella


Guerra balcanica. Campagna in Epiro 1912” e dalla lettura, interessante e amena del suo racconto – un memoriale, una specie di rapporto tecnico particolareggiato corredato da varie appendici documentarie – ho estratto, e qui trascrivo, i simpatici episodi in cui racconta della sua partenza da Brindisi. Il 22 ottobre 1912, ricevuta finalmente dal suo amico, il deputato greco e garibaldino di vecchia data conte Alexandres Romas, la notizia dell’autorizzazione del governo greco alla partecipazione di 2.000 Camicie Rosse – 1.000 delle quali già in Grecia organizzate dal colonnello Romas – Ricciotti, che già da qualche tempo fremeva, ultimò i preparativi e in pochissimi giorni: «…Accompagnato dalla mia signora [l’inglese Costance Hopcraft] e da mia figlia Italia [poi lo raggiunse in Grecia anche l’altra figlia Rosa] che venivano anch’esse come infermiere, partii per Brindisi… Giunti felicemente a Brindisi, perdemmo un giorno, per mancanza di vapore. L’indomani mattina [31 ottobre], andati a fare colazione in un ristorante, fui raggiunto da tre signori che si qualificarono come Autorità prefettizie e di polizia, ed entrarono in amichevole conversazione. Ma ben presto si rivelarono nel loro vero carattere, e mi fecero capire che non mi sarebbe stato consentito l’imbarco per la Grecia. Io intanto, in previdenza di quello che poteva succedere, avevo pregato in inglese, lingua che essi non capivano, la mia signora, di recarsi a bordo del vapore con bagagli, e di non muoversi sinché non venivo io. Infatti, recatasi al vapore insieme a nostra figlia, e vedendo la scala principale guardata a vista, da agenti e carabinieri, facendo finta di nulla, andarono verso la prua del vapore, ove in un attimo, trovata la scaletta dell’equipaggio, salirono a bordo, e riuscirono a far montare anche il bagaglio. Mi-

Ricciotti Garibaldi nel 1870

nacce e blandizie di ogni genere furono impiegate per persuadere le due signore a scendere, ma ben presto prevalse la loro ostinazione anglosassone, e furono lasciate in pace. Si tentò anche di ritrasportare a terra il bagaglio, ma anche questo dovette restare dov’era. Intanto io ero rimasto al ristorante cercando di persuadere i tre illustri uomini, che infine io avevo tutto il diritto, non essendovi nulla che per legge me lo impedisse, di andarmi a far ammazzare, ove più mi piaceva. Ma essi, non so se nel codice o nelle loro istruzioni, scovarono un articolo che diceva che si dovevano impedire le partenze anche a chi si poteva sospettare d’intenzione di contravvenire la legge! Io, finalmente, perduta alquanto la pazienza, intimai che all’ora stabilita sarei andato a bordo, ed avrei proceduto a vie di fatto contro chiunque avesse tentato d’impedirlo, perché siccome ciò doveva necessariamente provocare il mio arresto, la questione sarebbe stata portata avanti al pubblico. Questa minaccia mise alquanto in orgasmo il rappresentante del sottoprefetto ed allora io espressi un parere, cioè che forse il metodo più logico era di domandare nuove istruzioni a Roma. La fisionomia delle Autorità si rischiarò subito, e tutti e tre si allontanarono per mettere in esecuzione il suggerimento. Però li trattenni, annunziando che già fin d’allora avrei potuto dire quale sarebbe stata la risposta del Governo. Grande meraviglia: “Quale sarà la risposta?” Il Governo – risposi – non vi risponde! E fui profeta! Per dare tempo alle Autorità di ricevere la nota risposta, si era rimasti d’intesa anche con l’agente della navigazione, che il vapore sarebbe partito la sera, e andai a salutare gli amici, tra i quali il buon scultore [Edgardo] Simone che tanto si prestò ad aiutare alcuni dei volontari a partire. Non incontrai difficoltà per mon-

tare sul vapore Epiro, ove poco dopo fui raggiunto dal carissimo amico l’onorevole [Pietro] Chimienti, deputato di Brindisi, con altri conoscenti e i corrispondenti di diversi giornali che si divertono un mondo per le mie peripezie. In questo frattempo, non venendo alcuna risposta da Roma e dovendo il vapore partire per forza, mi fu rivelato un piccolo complotto escogitato per farmi rimanere sino all’indomani a Brindisi. Siccome prima della partenza a bordo non si provvedeva pel pranzo; per mangiare era giocoforza andare a terra, e si contava su questa nostra assenza momentanea, con una scusa o l’altra per fare ripartire il piroscafo. Naturalmente si mandò a prendere il cibo necessario, e non si mancò di utilizzare questa circostanza, essendovi diversi giovani a terra che volevano partire, ma che ne erano impediti dalla forza pubblica. Uno di questi, il dottore Carlo De Rei, fu camuffato da facchino e portò lui la cesta, contenente il nostro cibo. Però, una volta a bordo, fu nascosto nella nostra cabina. Giunta l’ora stabilita, o che le Autorità non avessero ricevuto risposta da Roma – come pare – o che fosse riuscita efficace la protesta del nostro bravo capitano B. Gentili, fermo nel dichiarare che ad ogni costo intendeva partire se non fermato con la forza, fatto sta, che vedemmo con molto piacere il vapore staccarsi gradatamente dal molo, e prendere la via di Corfù. Via Vallona perché – convinto che in tempo di guerra sia bene vedere quanto si può del nemico – prima di partire da Brindisi avevo rivolto preghiera di ciò all’egregio e cortese agente signor Teodoro Titi della Società Puglia… Così, lasciato il magnifico porto di Brindisi, l’indomani mattina all’alba entrammo nel porto di Vallona, che è un porto da fare invidia a chi sia…»

Partenza di Ricciotti dal porto di Brindisi per Corfù il 21 aprile 1897

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CULTURE Così la città cambiò per sempre il suo aspetto

brindisi spagnola: duecento anni

che lasciarono il segno, tra arte ... e architettura e 'altro' di Gianfranco Perri alla sua fondazione – nell’anno 1130 – ad opera del normanno Ruggero II d’Altavilla, fino alla sua estinzione – nell’anno 1861 – dopo la spedizione dei Mille e l’annessione al regno di Sardegna per poi costituire il nuovo regno d’Italia, il regno di Napoli – prima di Sicilia e poi delle Due Sicilie – nel trascorso dei suoi 730 anni di esistenza perse la sua indipendenza durante poco più di 200 anni, dal 1504 al 1734. Nel 1504, in conseguenza della pace di Blois, con cui Luigi XII di Francia e Ferdinando il cattolico di Spagna si spartirono l’Italia, riservandosi il primo il possesso della Lombardia, il secondo quello del regno di Napoli. Nel 1734, in conseguenza della sconfitta subita dall’esercito austriaco ad opera di quello spagnolo di Filippo V che insediò come re sul trono di Napoli Carlo di Borbone, figlio suo e di Elisabetta Farnese duchessa di Parma e Piacenza. Durante tutti quei 200 anni, quello di Napoli era rimasto declassato a viceregno, a provincia dell’impero spagnolo – e di quello austriaco nei soli ultimi 27 anni. Due lunghi secoli in cui il meridione italiano fu governato da una folta serie di – 40 – viceré spagnoli, che di volta in volta venivano insediati a Napoli dai vari re succedutisi sul trono di Spagna: Ferdinando, Carlos V, Felipe II, Felipe III, Felipe IV, Carlos II e Felipe V. Dopo i primi convulsi decenni della dominazione spagnola, caratterizzati da una forte instabilità militare e politica, diretto riflesso della congiuntura internazionale completamente dominata dalla mai del tutto assopita lotta tra l’im-

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peratore spagnolo Carlo V e il re francese Francisco I, solo con la pace di Cateau-Cambrèsis del 1559, perduta ufficialmente la dignità regale, il viceregno di Napoli iniziava la sua nuova vita di provincia. E per Brindisi, proprio quei primi decenni convulsi di dominio spagnolo sul regno di Napoli, non poterono essere di un inizio di peggiore: con la terribile peste

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nel 1526, con il crollo senza apparente causa della colonna romana nel novembre del 1528, e con il devastante sacco della città nel 1529. «Precisamente nel 1526, allì 24 del mese di luglio, incominciò la peste in questa città e durò un anno continuo, dove ne morirono ottocento persone... Allì 20 novembre del 1528 il pezzo supremo restò sopra l’infimo, mentre quelli


Sopra il Chiostro di Santa Maria Casale costruito nel 1635, sotto il soffitto centrale in Santa Maria degli Angeli del 1612, nella pagina accanto Forte a mare costruito a partire dal 1558 compresi fra la base e il capitello, caddero a terra. Nessuna disgrazia successe, i pezzi caduti furono poi portati a Lecce e il supremo vedesi ancora al giorno d’oggi con meraviglia rimanere attraversato sull’infimo… Allì 28 di agosto 1529, cominciò a darsi sacco di notte per celar forse col buio delle tenebre, la crudeltà ch’usavano. Non perdonarono a cosa alcuna, umana o divina, furono gl’infelici vecchi, e l’innocente vergini tratti per barba e per crine, acciò rivelassero le nascoste ricchezze, furono abbattuti i chiusi claustri, e fracassate le caste celle delle spose di Dio. Restò per qualche conforto alla depredata città il cadavere del general nemico, che fu seppellito nella chiesa di Santa Maria del Casale nell’entrar della porta principale della chiesa, dove fino a tempi nostri si lesse quest’iscrizione nel sasso: Hic iacet Simeon Thebaldus Romanus, imperator exercitus.» Quando il castellano Hernando de Alarcón rientrò a Brindisi da Napoli, incontrò la città “povera e disfatta, con i due castelli molto maltrattati dalle batterie nemiche”. Alarcòn, che apprezzò il valore con cui i difensori dei due castelli avevano resistito con successo gli attacchi delle forze francesi veneziane e papaline, conosceva bene le strutture difensive di Brindisi da quando, nel 1516, nominato castellano generale, aveva dato inizio alla costruzione del

bastione di San Giorgio, alla ristrutturazione di quello di San Giacomo e, tra i due bastioni nelle adiacenze di Porta Mesagne, all’edificazione di un terzo bastione intitolato a Carlo V, nonché al completamento delle cortine murarie di Porta Lecce e della stessa porta. Da subito, infatti, i governanti spagnoli ebbero ben chiara la strategicità di Brindisi, una strategicità militare che ne marcò e condizionò anche la funzionalità politica durante tutto il periodo vicereale, a partire

dal trattato di Cambrai del 5 agosto 1529 con cui Carlo V si arrogò il diritto di nominare nel viceregno di Napoli 18 vescovi e 7 arcivescovi, tra i quali quello di Brindisi. E così la chiesa brindisina, che fino ad allora era appartenuta ai pontefici, divenne regia, garantendo ai re di Spagna, con la nomina di tutta una serie di prelati spagnoli, la fedeltà della strategica città. Certo è, che nello scorcio di quel difficilissimo anno 1529, dopo la terribile peste, dopo il crollo improvviso della colonna romana, dopo l’assalto e il saccheggio delle truppe papali, Brindisi era ormai giunta allo stremo e la sua popolazione si era ridotta a meno di 400 fuochi, circa 2000 abitanti, un minimo da allora mai più toccato. E i trent’anni che seguirono sotto il trono di Carlo V non cambiarono il passo delle cose per l’impoverita città, laddove il timido tentativo di ripopolamento affidato ad una colonia di Coronei nel 1536, non compensò certo l’espulsione degli Ebrei decretata alla fine del 1539. A causa del rinnovato timore di nuove scorrerie turche, il nuovo re Filippo II dispose il rafforzamento delle difese di Brindisi, e nel 1558 si cominciò a costruire Forte a mare. Sull’isola di Sant’Andrea la nuova fortezza, assecondando la geometria del terreno, assunse la forma di un triangolo isoscele il cui vertice era sull’antico castello. In ognuna delle due cortine che dalla fortezza si distendono lateralmente fino agli angoli alla base, furono creati due baluardi e dalla parte interna delle mura furono fabbricate grandi caserme adatte all’alloggio di soldati e ricoperte da solida volta ridotta a strada utile per il passaggio delle artiglierie. Si convenne poi di lasciare le due fortezze disunite, ingrandendo e approfondendo il fosso già praticato al momento della costruzione del castello e trasformandolo in una darsena di collegamento tra le due strutture, per poter così impedire al nemico che avesse eventualmente conquistato una fortezza di passare facilmente sull’altra. I lavori per la costruzione del forte du-


CULTURE Il Chiostro di Santa Teresa costruito nel 1670, sotto la Chiesa di San Sebastiano costruita nel 1669, nella pagina accanto Palazzo Seripando del '600 in via Tarantini

rarono ben 46 anni, sia a causa dell’indisponibilità dei materiali e di altre varie difficoltà tecniche, e sia a causa delle molteplici modifiche ed aggiunte apportate al progetto iniziale e, parallelamente all’esecuzione degli impegnativi e complessi lavori di costruzione del forte dell’isola, si elaborò e quindi si materializzò anche un piano completo volto al rafforzamento delle difese costiere di Brindisi. E così, lungo il litorale furono edificate in serie ben quattro nuove torri: Torre Testa, Torre Penna, Torre Mattarelle e Torre Guaceto, che vennero ad affiancare la preesistente angioina Torre Cavallo. Sul fronte civile, stabilizzatasi finalmente nel 1559 la situazione internazionale ed in conseguenza anche quella del viceregno, a Brindisi – che continuò ad appartenere alla provincia d’Otranto la cui capitale Lecce era sede del regio governatore della provincia e della regia camera della sommaria – lo status amministrativo della città durante tutta l’età vicereale non subì cambiamenti sostanziali rispetto a quelli che erano stati stabiliti durante il precedente regno aragonese, specificamente quello del re Ferrante che ne approvò lo Statuto nel 1485. A Brindisi erano di nomina reale e perlopiù spagnoli, il giudice e il governatore militare, che oltre ad essere il comandante della piazza militare coadiuvato dai castellani, anch’essi di nomina reale, sovrintendeva l’azionare dell’amministratore locale: il Sindaco, l’elemento più rappresentativo del governo citta-

dino, che invece era di Brindisi ed aveva attribuzioni molto ampie, coprendo tutto l’ambito amministrativo. Dal controllo della polizia, al controllo sui pesi e le misure, alla manutenzione delle mura cittadine, alle competenze specifiche in campo finanziario con la vigilanza sulle spese e sugli introiti la vendita dei dazi e delle cose pubbliche, eccetera. Secondo lo Statuto del 1485, il sindaco e tre auditori venivano segnalati dagli uscenti e nominati dal re o dal governatore di Terra d’Otranto; gli eletti, in numero di dodici, di cui quattro nobili, sei gentiluomini e due stranieri abitanti in

Brindisi, venivano scelti su ventiquattro segnalati ai parlamentari, dagli stessi amministratori uscenti. La carica durava un anno: dal primo di settembre alla fine di agosto. L’elezione avveniva quindici giorni prima, ossia a metà di agosto. Si giurava sul Vangelo nella cappella di San Teodoro, in cattedrale. Regnando sul trono di Spagna il nuovo re Felipe II, nel 1560 la popolazione di Brindisi è tassata in più di 1600 fuochi ed è avviata a crescere ancora fino a raggiungere nel 1618 i 10000 abitanti. Una città che aveva quindi, quanto meno, recuperato la sua popolazione: un buon segno certo, anche se purtroppo non tutto stava procedendo per il meglio, tant’è che quel limite demografico non era destinato a mantenersi a lungo e dopo un nuovo e pronunciato decadimento sarebbe ritornato solo sul finire della esistenza dello stesso stato, nel 1860. Il prolungato domino spagnolo, infatti, doveva rivelarsi – politicamente economicamente e socialmente – deplorevole: I viceré di turno non miravano ad altro che a razzolare introiti con le imposte che crescevano mentre le entrate, oltre che al papa di Roma, passavano – fino a due terzi del totale – in Spagna, per pagare soldati e spese di guerra. I nobili, insieme al clero, erano proprietari fondiari e comandavano senza remore beneficiando d’immunità e privilegi, con i prelati di rango più elevato che rivaleggiavano con la nobiltà per sfoggio di ricchezza. La logica di governo della monarchia spagnola, infatti, era stata quella del compromesso politico e dello scambio, riconoscendo al clero e alla classe dominante una serie di privilegi in cambio di una supposta fedeltà e così, durante tutto quel lungo periodo, si rafforzarono l’aristocrazia feudale e il grande latifondo, portando le campagne a una situazione precaria e i contadini al depauperamento generalizzato. «Fra le mura cittadine di Brindisi, sacerdoti e milizie erano le classi che facevano parlare di sé, mentre la nobiltà, sfaccendata, tronfia e inframmettente, contrastava con la massa degli artigiani, contadini e pescatori, laboriosi sì, ma alle prese col disagio e tenuti estranei alla vita cittadina. Pel resto, la vita brindisina di quei tempi è tutta piena di litigi, di agitazioni, di ripicchi e pettegolezzi, i quali talvolta si manifestavano con epigrammi e pasquinate. Litigava l’arcivescovo col Capitolo e con la città, litiga-


vano i diversi ordini monastici – Teresiani, Cappuccini, Riformati, Conventuali, Zoccolanti, Domenicani – fra di loro, con la civica amministrazione, col Capitolo, coi privati. E tali litigi, oltre che su interessi, poggiavano talora su frivoli motivi, come quelli di precedenza e di distinzione, e molti dei rapporti erano esternati attraverso formalità di ossequio, espressioni verbali, spalliere o poggioli alle varie sedie riservate negli atti ufficiali, e quant’altro di simile. E in più d’una volta tali urti sboccarono in gravi provvedimenti, come la scomunica lanciata dagli arcivescovi contro i sindaci.» In tutto il regno cominciarono presto a dilagare il pervertimento e la corruzione, passata dalle corti alla nobiltà e da questa al popolo. L’abitudine al lavoro cominciò ad essere disprezzata, mentre con il fasto e il lusso imperanti si finì col coltivare più l’apparenza che la sostanza. L’economia andò svanendo e con i terreni rimasti incolti le rendite nobiliari andarono scemando. L’ozio, la voglia di primeggiare e costruire di palazzi portò non poche famiglie alla rovina, mentre cresceva la ricchezza del ceto civile del quale facevano parte avvocati, notai, appaltatori, banchieri, medici e prestatori di denaro. Lentamente, alcuni patrimoni iniziarono a scivolare dalle tasche della nobiltà a quelle del ceto medio, rappresentato, oltre che dagli appaltatori di gabelle, dai mercanti di pochi scrupoli, nonché dagli avvocati e i notai che si arricchirono sfruttando la litigiosità della classe abbiente. Basti pensare che a Brindisi per ben quattro anni, tra il 1558 e il 1562, si prolungò il litigio tra i nobili e i nobili viventi – i discendenti non primogeniti di nobili e coloro che si erano nobilitati esercitando le professioni liberali o militari – a proposito del ceto a cui doveva appartenere il sindaco, finché la lite fu portata addirittura al Consiglio Collaterale in Napoli, che alla fine deliberò salomonicamente stabilendo che per ogni 3 anni, in 2 doveva essere scelto tra i nobili viventi e in 1 tra i nobili. La giustizia del resto era lenta, la magistratura venale e inoltre la vita e le proprietà divennero poco sicure a causa del diffuso brigantaggio, che andò assumendo su tutto il territorio del regno napoletano una consistenza ampia e duratura, nonostante la spietata repressione dello Stato sferrata da parte dell’esercito e della polizia. En fu in quel clima che inevitabilmente maturarono le rivolte popolari – del pescivendolo amalfitano Masaniello a Napoli il 7 luglio 1647 e ancor prima, dei pescivendoli brindisini Donato e Teodoro Marinazzo delle Sciabiche il 5 giugno 1647 e poco dopo, in Sicilia il 15 agosto 1647 – scoppiate tutte sotto la spinta della miseria che da tantissimo assillava il popolo caricandolo di disperazione e, verosimilmente, di odio. Un odio popolare che, anche se esternato soprattutto verso la nobiltà, percepita a buona ragione come principale dissanguatrice, non risparmiava neanche il governo che, mentre accontentava il popolo con concessioni di qualche rappresentanza nelle amministrazioni locali – come, per esempio, gli eletti al Sedile – e lo appoggiava in certe dispute spicciole con i nobili, nello stesso tempo lo sottoponeva alle strette mortali di un fisco spietatamente esoso. E quegli anni vicereali a Brindisi furono anche anni di continue e temutissime scorribande turche, nella più grave delle quali fu saccheggiato

Torchiarolo nel 1673. Il 10 ottobre 1676 una galeotta turchesca fece sbarco tra la torre della Penna e la torre delle Teste, e fece dodici schiavi dalle masserie vicine e a Brindisi. Nel luglio 1681, Specchiolla, malgrado la resistenza opposta dai terrazzani, fu saccheggiata. E non mancarono numerose le carestie, la più grave delle quali a Brindisi si verificò nell’anno 1694: una carestia generale di grano, di vino, d’orzo, di fave, nonché di tanti altri commestibili. Poi, per colmo delle sventure, l’8 settembre di quello stesso anno ci fu un forte terremoto con relativo maremoto. E non finì lì: il seguente 29 settembre si produsse un disastroso incendio nel monastero di San Benedetto che ne distrusse una buona metà, obbligando le monache nere di clausura a uscire in piena notte per rifugiarsi nel vicino monastero di Santa Maria degli Angeli. I 200 anni spagnoli, cominciati per Brindisi nel peggiore dei modi e sotto i più tetri auspici, stavano avviandosi alla conclusione in un clima non certo migliore, e così non desta troppa meraviglia che né il popolo e né i nobili si preoccuparono di contrastare l’avvicendamento reale – tra Spagnoli e Austriaci – sul trono di Napoli, che dopo due secoli di dominio spagnolo si consumò agli inizi del ‘700. Il popolo perché del tutto immiserito stanco e senza prospettive, e i nobili perché memori che i governanti spagnoli erano stati spesso pronti, conoscendo la riottosità e prepotenza baronale, a favorire, anche se entro limiti ben stretti, le aspirazioni popolari nei confronti del ceto nobile, al duplice scopo di limitare il prepotere nobilesco e tener buona la massa popolare. «A dì 4 giugno 1715 vennero di presidio a Brindisi 150 soldati tedeschi col di loro capitano, tenente ed officiali, e a dì 18 andarono nel Forte e cinquanta con il tenente passarono al Castello di terra. La sera dell’istesso giorno venne in questa città il generale tedesco Valles e il giorno seguente 19 andò nel Castello di terra e sbarrò le piazze agli Spagnoli e il giorno 20 andò al Forte e fece il medesimo. Discesero dal Forte in questa città settecento anime spagnole e cento in circa dal Castello di terra, mentre nessuno di loro volle andare a servire a Napoli e in Ungheria il nuovo impero». Quasi tutti quei

soldati spagnoli infatti, preferirono, pur se in miseria, rimanere a Brindisi, nonostante l’antipatia dei brindisini maturata per quel momento nei loro confronti, come manifestata anche quando nessuno volle prestarsi per il frettoloso trasloco delle loro famiglie e le loro masserizie. Ma era stato tutto così irrimediabilmente negativo? Null’altro che formidabili strutture militari avevano lasciato a Brindisi gli Spagnoli? No, per ventura e per fortuna di Brindisi e dei Brindisini: no. Gli Spagnoli han lasciato anche molto altro, sia nel tangibile e sia nell’animo della città. Nel tangibile: imponenti strutture religiose, con chiese superbe; solide masserie in campagna e importanti palazzi d’epoca in città; la mappa spagnola di Andrea De Los Coves con una diffusa toponomastica e, in centro, l’originale fontana voluta nel 1618 dal governatore Aloysio De Torres. Nell’animo, e nella cultura, han lasciato probabilmente molto di più: costumi, linguaggio, e la copiosa eredità costituita dai cognomi e dal proprio DNA dei tantissimi Spagnoli che in quei 200 anni da Brindisi passarono, che a Brindisi vissero e, soprattutto, che a Brindisi misero solide e profonde radici. In quel già ricordato anno 1618 – essendo re di Spagna Felipe III, viceré di Napoli Pedro Giròn, governatore il capitano Pedro Aloysio De Torre, arcivescovo Juan Falces e sindaco Cesare D’Aloysio – mancava solo un anno alla conclusione della costruzione, iniziata 1609, della meravigliosa chiesa di Santa Maria degli Angioli con l’annesso monastero delle Clarisse – poi demolito nel ‘900 per far posto alle scuole elementari – opere entrambe promosse dall’illustre brindisino Lorenzo Russo, il futuro San Lorenzo da Brindisi, già generale dell’ordine dei Cappuccini, che doveva morire a Lisbona l’anno seguente, nel giorno del suo compleanno 60. E già prima, l’arcivescovo Giovanni Carlo Bovio aveva chiamato a Brindisi i frati Cappuccini, che nel 1588 costruirono il loro convento con l’annessa chiesa di Santa Maria della Fontana – da tutti detta dei Cappuccini – che, al contrario del convento ormai anch’esso demolito, è giunta fino ai nostri giorni ed è stata mirabilmente restaurata e restituita al culto poco più di dieci anni


CULTURE LE IMMAGInI A destra la Chiesa di Santa Teresa costruita nel 1697, sotto Palazzo Granafei del '500 in via Duomo orsono. Miglior sorte è invece toccata a un altro monastero edificato nell’era spagnola, quello di Santa Teresa, originalmente intitolato ai santi Gioacchino e Andrea, attualmente sede dell’Archivio di Stato, accorpato alla splendida chiesa omonima, di Santa Teresa, completata poco prima, nel 1697, originalmente intitolata a San Gioacchino e ubicata nel quartiere che già allora si chiamava “degli spagnoli”, contiguo a quello di San Pietro degli Schiavoni, lo storico quartiere di cui restano poche tracce e anch’esso consolidatosi nel periodo spagnolo. Le Clarisse, prima del trasferimento al nuovo convento cappuccino degli Angioli, erano state in quello adiacente alla chiesa di Santa Chiara prossima al Duomo, un complesso edificato circa il 1580 dall’arcivescovo spagnolo Bernardino Figueroa. Convento poi adattato a orfanatrofio femminile e in seguito più volte ristrutturato e modificato per assolvere altre funzioni, tra cui quelle di istituto professionale femminile e quindi nuovamente di orfanatrofio vincenziano. La proprietà del complesso finalmente, con il regno d’Italia passò al Comune e, sconsacrata la chiesa, è stato successivamente rimpiegato a vari fini, educativi sociali e culturali. Sono tuttora conservati, invece, chiostro e convento edificati circa il 1635 a ridosso della trecentesca chiesa di Santa Maria del Casale dai padri Minori Osservanti Riformati. Mentre solo poche strutture sopravvivono di quello che fu il convento delle Scuole Pie, che l’arcivescovo spagnolo Francisco Estrada fondò nel 1664 a proprie spese – acquistando ampliando e restaurando integralmente l’antica chiesa di San Michele Arcangelo, ora sconsacrata, che con l’annesso dormitorio apparteneva ai padri Ce-

lestini di Mesagne – e dove per molti anni funzionò la scuola dei padri Scolopi. Convento e scuola che per la città costituirono un importante riferimento culturale, tanto che la strada che l’ospitava e che portava al Duomo, fino a tutto l’800 si intitolò alle Scuole Pie. Un’altra bella chiesa di Brindisi, infine, perfettamente conservatasi dall’epoca spagnola, è quella intitolata a San Sebastiano, detta anche delle Anime, la cui costruzione fu promossa nel 1668 dall’Arciconfraternita del Purgatorio e fu aperta al culto dal già citato arcivescovo Francisco Estrada, il 13 agosto dell’anno 1671. I palazzi a Brindisi d’epoca spagnola, naturalmente, sono ancor più numerosi – quasi una ventina in tutto – più o meno nobiliari, più o meno ben conservati e più o meno conservatisi con i caratteri originali e, comunque, certa-

mente tra quelli più antichi tuttora presenti in città: il Palazzo Granafei in via Duomo, il Fornari in via Palma, il Delle Donne-Pignaflores in via San Benedetto, il Ripa-Lacolina, l’Orlandini e il Greco in via Lata, il De Marzo in largo Concordia, il Pennetta-Laviano su largo Laviano, il Perez in via San Nicolicchio, lo Scolmafora e il Perez in via Colonne, il Baoxich-De Marco in piazza Duomo, il Ripa e il Cafaro in via Carmine, il Mezzacapo in via Seminario, il Seripando-Leanza in via Tarantini, il Montenegro in viale Regina Margherita. E quale eredità culturale più significativa ci può essere, se non la propria lingua? Ebbene, posso assicurare per personalissima cognizione, che il dialetto brindisino è intriso di una eredità spagnola decisamente notevole. Ecco qui, su uno spazio necessariamente limitato e solo per dare l’idea, alcuni esempi di parole brindisine, alle volte rigorosamente uguali a quelle spagnole, altre volte foneticamente simili e comunque di uguale significato: cuchiara- fùciri- malascampari- cincu- mughieri- menzatìa- vientumuertu- scarfari- suennu- sparagnari- còsiriscundutu- mustazzi- jertu- laianaru- ntruppicari. Ed eccoci infine a commentare quella che è probabilmente a Brindisi l’eredità spagnola più significativa: i cognomi, i Brindisini cioè certamente discendenti diretti di quei tanti Spagnoli – popolarmente al tempo chiamati “Iannizzi” probabilmente per il loro incedere spavaldo proprio dei giannizzeri, le guardie del corpo di personaggi potenti – che qualche centinaia d’anni orsono vennero a Brindisi e qui scelsero di mettere radici: Lopez, Martinez, Piliegos, Arellianos, Lafuentes, Diaz, Cafarellas, Pincas, Canillas, Perez, Rodriguez, Scivales, Sierra, Fernandez, Caravallos, Garcia, Serrano e altri ancora. Qualcuno dei cognomi ha magari con il tempo perso la “s” finale, o ha subito qualche altra distorsione fonetica, e qualche altro invece si è estinto o si è trasferito in altre parti d’Italia. Alcuni, infine, si sono probabilmente mimetizzati, e comunque, certo è, che di sangue spagnolo tra i Brindisini d’oggi deve star scorrendone ancora parecchio.


Il Torrione San Giacomo

Il Torrione Carlo V


CULTURE Dopo la chiusura del bagno penale nel 1909 fu creata una base navale nel porto interno: da qui partì la spedizione per la Grecia

ALLA CONQUISTA DI rODI: NEL 1912 IL bATTESIMO

PER LA BASE NAVALE

DI BRINDISI di Gianfranco Perri aturata, dopo qualche anno di gestazione, la decisione di creare una base navale a Brindisi, nel febbraio del 1909 il castello di terra – ribattezzato nell’occasione “Castello Vittoria” – venne ceduto formalmente alla Marina Militare dopo la chiusura del bagno penale che lì aveva operato durante l’ultimo secolo. Agli inizi del Novecento infatti, il mare Adriatico aveva assunto un’importanza primaria nella geo strategia del Regno d’Italia e la creazione di una nuova base navale nel Basso Adriatico era divenuta prioritaria per fare da contraltare alle minacciose installazioni della Marina dell’impero austro ungarico presenti nella base di Cattaro. Nel 1905 il viceammiraglio Camillo Candiani aveva presentato uno studio che prevedeva la fortificazione del porto di Brindisi, secondo un articolato progetto che il 26 maggio 1905 venne approvato anche dal consiglio comunale, perché “la trasformazione di Brindisi in porto militare, sede di una stazione di cacciatorpediniere e base di rifornimento navale, avrebbe avuto senz’altro delle ricadute positive sull’economia della città”. Tre anni dopo, quando l’Austria intervenne nei Balcani incorporando al suo impero la Bosnia e l’Erzegovina, il progetto tornò alla ribalta e l’ammiraglio Giovanni Bettolo, nuovo capo di Stato Maggiore della Regia Marina, nel mese di febbraio1908 si recò personalmente a Brin-

M

disi a bordo della corazzata Dandolo al fine di ultimare gli studi e quindi dare un forte impulso ai lavori già in corso, stabilendo proprio in quell’occasione di destinare il castello svevo a sede del Comando Marina. Quando poi, il 28 dicembre di quel 1908, la città di Messina fu sconvolta dal terremoto, nel 1909 la Marina decise di trasferire a Brindisi il Comando Torpediniere. «Ieri mattina alle 11, la moderna corazzata veloce Vittorio Emanuele, al comando di Paolo Thaon di Revel, manovrando con le macchine, senza aiuto di cima e di rimorchiatore, è entrata con brillante manovra nel porto interno

il7 MAGAZINE 24 30 ottobre 2020

di Brindisi, prendendo due boe di prua ed una di poppa. È questa la prima volta che una nave da battaglia del tonnellaggio della Vittorio Emanuele, di circa 13 mila tonnellate, della pescagione di metri 8,40 e della lunghezza, di metri 133, entra nel porto interno.» [Gazzetta ufficiale del Regno d'Italia del 14 maggio 1909] Con il regio decreto del 28 aprile 1910 fu emanato l’Ordinamento e regolamento delle Difese Marittime Italiane al cui primo articolo erano elencate le piazzeforti che dovevano avere comandi marittimi permanenti; e fra quelle, Brindisi. Subito dopo, il ministro della


Sopra la stazione torpedieniere nel porto di Brindisi nel 1910, sotto il castello di Rodi e a sinistra una veduta della città fortificata

marina Carlo Mirabello annunciò l’elevazione a capitaneria dell’ufficio circondariale di porto di Brindisi. E il 22 giugno 1911, alla vigilia del conflitto italo-turco, il porto di Brindisi fu elevato a elemento di prima categoria nei riguardi della difesa militare dello Stato, ferma restando l’iscrizione del porto stesso nella prima classe nei riguardi del commercio. Così, scoppiato il conflitto alla fine di settembre, la base navale di Brindisi – in cui i servizi logistici erano stati ormai approntati – fu messa in stato di guerra costituendosi da subito in rilevante riferimento strategico e operativo per le forze militari italiane. Nel contesto di quella guerra, provocata dall’Italia con l’obiettivo – finalmente concretizzato – di strappare la Libia alla Turchia, stante l’impasse militare determinatosi in Cirenaica e Tripolitania, il governo italiano decise di portare attacchi quanto più possibile prossimi al centro nevralgico del nemico, per costringerlo a cedere le regioni nordafricane rinunciando a ulteriori resistenze. L’obiettivo iniziale individuato a tal fine furono le isole Sporadi meridionali – meglio conosciute come Dodecaneso – la più grande delle quali è Rodi. L’eventuale occupazione di quelle isole, almeno secondo le intenzioni iniziali ufficiali, sarebbe stata provvisoria, ma poi in realtà, una volta compiuta, si sarebbe invece protratta fino

al termine del secondo conflitto mondiale. Furono quindi stabilite le direttive di massima per una prima azione solo navale: quattro le divisioni previste, ripartite in due gruppi: il primo, composto da tre divisioni, avrebbe operato nell’alto Egeo, mentre il secondo raggruppamento, con una sola divisione, si sarebbe concentrato nella zona meridionale. Originariamente infatti, la strategia non prevedeva alcuna azione territoriale e l’attività della flotta si sarebbe dovuta limitare al bombardamento delle coste, al sabotaggio delle linee ferroviarie e dei cavi subacquei e all’intercettazione di sottomarini e imbarcazioni turche: azioni tutte

che si sperava inducessero la Turchia alla resa in Africa. E così, a metà aprile di quel 1912 il Duca degli Abruzzi Luigi di Savoia, che era il titolare dell’ispettorato siluranti, partì dalla base navale di Brindisi con l’incrociatore corazzato Vettor Pisani, sua nave ammiraglia, al comando della 4ª squadriglia cacciatorpediniere, formata dalle unità Aquilone, Borea, Nembo e Turbine e della 2ª squadriglia torpediniere d’alto mare, composta dalle unità Calipso, Climene, Pegaso, Perseo e Procione, portandosi nell’Egeo meridionale e puntando inizialmente sull’isola di Stampalia, dove il duca prevedeva incontrare un informatore della compagnia di navigazione Khediviale, che avrebbe dovuto guidare la sua flottiglia nel tortuoso percorso minato dei Dardanelli. Contemporaneamente, appena un po’ più a nord, in quella stessa notte tra il 17 e il 18 aprile iniziavano le azioni offensive italiane con i bombardamenti navali e gli attacchi alle unità turche: presso l’isola Samos fu affondata la cannoniera turca Ircanich e venne bombardata una caserma, mentre altre unità italiane si portavano a ridosso dell’isola di Imbros, nei pressi dell’imboccatura dei Dardanelli, con l’obiettivo di sostenere l’azione delle siluranti che sarebbero giunte il giorno seguente, nonché per eventualmente impegnare la flotta turca qualora fosse uscita dallo stretto. Per il giorno successivo erano attese un’ulteriore squadriglia di cacciatorpediniere ed un’altra di torpediniere d’alto mare, che però arrivarono troppo tardi. Quindi Luigi di Savoia ed il suo capo di Stato Maggiore, capitano di vascello Enrico Millo – futuro eroico protagonista della Prima guerra mondiale – si trovarono a dover avviare l’operazione con metà delle forze previste inizialmente. Si decise di disporre la flotta su due file parallele, ma il mare agitato non favorì il mantenimento della formazione e dopo un iniziale rinvio, la prevista azione delle siluranti fu annullata e si optò per l’alternativa di provocare le corazzate turche per così attirarle in mare aperto: la divisione al comando del


CULTURE A destra l’ingresso principale del Castello di Rodi, sotto una cartina con i luoghi in cui si svilupparono gli eventi storici del 1912

contrammiraglio Ernesto Presbitero, si presentò dinanzi all’imboccatura dei Dardanelli, mentre le due divisioni guidate dai contrammiragli Camillo Corsi e Paolo Thaon di Revel – futuro capo di Stato Maggiore della Marina e comandante in capo delle forze navali del Basso Adriatico nella Prima guerra mondiale – rimasero fuori vista, pronte ad intervenire, coperte dall’isola di Imbros. Dalla riva asiatica il forte turco Orhanié aprì il fuoco e l’intera squadra italiana d’immediato rispose al fuoco. Il duello di artiglieria si prolungò per circa due ore, provocando il grave danneggiamento dei due forti turchi Kum Kalé e Sed Ul Bahr finché, poco dopo le 13, fu ordinata l’interruzione dell’attacco e tutte le unità italiane si allontanarono dai Dardanelli. Nel bombardamento, che coincise con l’inaugurazione della nuova Camera nella capitale ottomana, furono sparati 545 colpi dalle navi italiane e il Daily Chronicle telegrafò da Costantinopoli che il cannoneggiamento aveva seminato ben 300 vittime tra gli artiglieri turchi. Una notizia che destò grande emozione tra la popolazione e indignò il governo turco appena riconfermato al potere: si era infatti diffusa la consapevolezza che ormai il centro nevralgico dell’impero ottomano non fosse più al sicuro. L’obiettivo iniziale dell’azione italiana era stato quindi, in buona parte raggiunto… però, non sarebbe risultato sufficiente! Si decise pertanto di procedere all’occupazione dei territori, e si progettò la denominata “Operazione Bomba”. Il 28 aprile, la 2ª divisione della 1ª squadra prendeva possesso in modo pacifico di Stampalia per crearvi una prima base. Il 4 maggio le prime squadriglie italiane si avvicinarono alla costa di Rodi e,

effettuato lo sbarco, i primi contatti con le truppe ottomane avvennero all’altezza del colle di Koskino, quando un distaccamento di 400 soldati turchi attaccò rallentando l’avanzata, e al crepuscolo le truppe sbarcate arrivate a mezz’ora di marcia da Rodi città, si attestarono per la notte. Quando la mattina del 5 maggio gli attaccanti si mossero alla volta di Rodi accerchiandola e intimando la resa, scoprirono che la guarnigione militare turca si era ritirata e appostata sul promontorio di Psithos più difficilmente espugnabile e così, all’ingresso nella città le truppe italiane non incontrarono alcuna resistenza e furono ben accolte dalla popolazione greca, ostile al dominio turco e fiduciosa in una prossima riannessione alla madrepatria. Alle ore 14, la bandiera italiana venne issata sul castello dei Cavalieri di San Giovanni di Gerusalemme, la famosa fortezza rodense simbolo secolare dell’isola. All’alba del 16 maggio, le truppe italiane inerpicandosi per sentieri scoscesi colsero di sor-

presa i soldati turchi, che comunque opposero una dura resistenza che si protrasse fino alla sera, quando finalmente optarono per la ritirata imbattendosi nel fuoco di sbarramento dei bersaglieri e, quindi, arrendendosi. Sulle altre isole del Dodecaneso la resistenza turca fu pressoché assente e ciò permise ai marinai italiani di prendere immediatamente il controllo dei vari posti di guardia, in attesa dell’avvicendamento con militari e carabinieri. L’Italia, di fronte allo sconcerto internazionale, ribadì che l’occupazione del Dodecaneso sarebbe stata temporanea, finalizzata alla resa turca e al controllo definitivo delle regioni libiche, e che le truppe sarebbero state ritirate dopo la fine della resistenza turca in Africa. Poi però, l’Italia riuscì a conservare il possesso dell’arcipelago grazie all’ambiguità e alla notevole abilità dei suoi diplomatici, che seppero ben approfittare delle precarie e caotiche condizioni generali della situazione politica e militare allora imperante in Europa. Con l’occupazione di Rodi e del Dodecaneso, l’Italia assumeva il controllo dell’Egeo, bloccando le attività marittime turche e restringendo il flusso di rinforzi e rifornimenti in Libia e così, finalmente, nel luglio del 1912 la Turchia accettò di avviare, ufficiosamente e nella massima segretezza, i preliminari per le trattative di pace che si prolungarono poi per mesi in Svizzera, a Losanna, e si conclusero solo alla fine dell’anno. Nel mentre, non cessarono le pressioni militari italiane sulla Turchia, portate avanti in prima linea dalla marina militare e alle quali la recentemente creata base navale di Brindisi con la sua stazione torpediniere, continuò a partecipare attivamente, al tempo stesso in cui continuava ad ampliarsi e a rafforzarsi, in vista, aimè, del ben più difficile e duro impegno bellico che, da lì a pochissimi anni, sarebbe stata chiamata ad adempiere, quando alle torpediniere si sarebbero affiancati anche i sommergibili e i famosi MAS, che con le loro gesta avrebbero scritto tante pagine brindisine di gloria e di dolore. Ma questa è tutta ben altra storia!



IL PERSONAGGIO

LA DIVERTENTE NARRAZIONE DI CRAVEN A BRINDISI NEL1818 Il celebre viaggiatore inglese, membro della Society of Dilettanti, pubblicò racconti e disegni dei luoghi visitati. A Brindisi dedicò 15 pagine e una incisione nel libro A tour through the southern provinces of the Kingdom of Naples di Gianfranco Perri ichard Keppel Craven fu un nobile inglese della prima metà dell’800. S’innamorò del sud d’Italia quando nel 1814 lo conobbe in un viaggio da ciambellano della duchessa del Galles ed in seguito ci ritornò più volte per visitarlo in dettaglio finché, nel 1834, acquistò un ex convento tra le colline presso Salerno e lo adattò a sua residenza. Morì all’età di 72 anni a Napoli il 24 giugno 1851 e fu sepolto nel cimitero di Santa Maria della Fede, noto come Cimitero degli inglesi. Scrisse vari libri raccontando dei suoi viaggi, uno dei quali – pubblicato a Londra nel 1821 con il titolo A Tour through the Southern Provinces of the Kingdom of Naples corredato con numerose incisioni di vedute ottenute dai suoi schizzi – racconta il viaggio che, iniziato da Napoli il 24 aprile del 1818, lo portò anche a Brindisi. E a Brindisi, che Craven visitò dal 24 al 26 maggio del 1818, sono dedicate una quindicina di pagine e una delle incisioni – Castle of Brindisi – del libro. In quelle quindici pagine, Craven commenta le sue impressioni su Brindisi e descrive amenamente alcuni dei posti e dei monumenti più emblematici della città. Però, la narrazione diventa divertente quando l’autore si dilunga a raccontare di quanto – troppo – cortesemente fu trattato: dal sottintendente, dal comandante militare, dal suo ospite – il nobile Carlo Pizzica – e soprattutto dalla sorella di questi, suor Maria Eleonora Pizzica badessa del monastero delle cappuccine di Santa Maria degli Angeli. Di Brindisi, Craven si sofferma a commentare il porto «…per il quale la città era così rinomata nei tempi antichi e mantiene ancora i suoi vecchi confini così come la particolare forma che dà il nome alla città: capacità e sicurezza restano inalterate, ma la poca profondità dell'entrata rende inutili questi vantaggi. Dei restauri di Andrea Pigonati ci si aspettava che un più libero ricambio delle acque del mare con quelle del porto avrebbe limitato o al limite mitigato le noiose esalazioni che si suppone abbiano contribuito allo spopolamento della città, ma la speranza fu frustrata»

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s E poi descrive anche il porto esterno con le fortezze dell’Isola «…che nonostante non sia riparato dai venti, è spazioso ed offre un buon ancoraggio alle navi più grandi. È formato sul lato nord da un'estesa catena di rocce basse alla cui estremità su un'isola s’innalza un forte usato come faro, cittadella e stazione telegrafica, e sul lato opposto da un arcipelago di piccole isole rocciose, Pedagne, che smorza la forza del vento e delle onde. Sotto le mura del forte l'acqua è molto profonda ma non lo è ugualmente per tutta l'ampiezza del canale ed è perciò necessario per le navi in entrata, essere guidate da un esperto timoniere. Il forte è in buono stato


Un ritratto di Keppel Richard Craven, a destra il Castello di Brindisi - Incisione di Charles Heath su disegno di R. Keppel Craven - 1821. Sotto la fontana Tancredi

e sebbene non sia ampio, è fornito di ogni requisito per una resistenza prolungata, ad esempio vi sono delle magnifiche cisterne. La fortezza usufruisce di una piccola guarnigione di 18 uomini, assistiti da 10 galeotti. In passato una parte era usata come Lazzaretto per la posizione particolarmente adatta. Dall'alto della cittadella si gode un curioso panorama della città che occupa l'esatta ampiezza del canale ricavato per l’entrata al porto interno: la rigida regolarità di linee crea un effetto prospettico». Quindi, scrive del castello svevo «…una delle più belle costruzioni del genere che abbia mai visto, situato a circa mezzo miglio dalla città, tra questa e il ponte sul ruscello che chiude il lato nord-occidentale del porto, le di cui acque qui sono maggiormente profonde e bagnano le fondamenta di un'immensa torre circolare che fiancheggia questo edificio che sul lato della terraferma è difeso da un profondo fossato. La vista del maestoso castello che si staglia tra i boschetti ed è riflesso nella calma superficie dell'acqua, con quella delle costruzioni in lontananza, formano uno dei panorami più imponenti mai visto. Ora è una prigione per malfattori e questi 180 miserabili fanno risuonare i loro ferri al ritmo più scordato che mai abbia colpito l'orecchio umano». Segue la fontana Tancredi «…su ciascuno dei due lati vi è una nicchia da cui scorrono due esigui ruscelli di acqua molto buona, che si riversano in un bacino di riserva più grande, ora così pieno di terra e pietre che il terreno sottostante è diventato una pozza di fango. Questo impedisce una ricognizione più da vicino, per cui effettuai una prova buttandovi delle grosse pietre. Su richiesta del mio cicerone andai ad osservare la differenza di gusto che esiste tra le due fonti, a riprova del fatto che derivano da due sorgenti separate. Sapevo che il mio palato non era in grado di notare la differenza di gusto, ma come in molti altri casi, acconsentii per prevenire quella pressante insistenza, familiare alla memoria della maggior parte dei viaggiatori». Poi è la volta delle colonne romane «…uno dei più significativi resti antichi di Brindisi. Una colonna di marmo alta circa 50 piedi, compresi basamento e capitello i cui angoli sono ornati da busti di varie divinità marine mentre al centro sono scolpiti i volti di Marte, Pallade, Nettuno e Giove. La particolarità di questi ornamenti ha portato gli archeologi a immaginare che fossero stati concepiti come fari per guidare la rotta delle barche in mare. Essi pensano che il vaso circolare di marmo che la colonna ancora sorregge contenesse del fuoco, ma siccome le colonne erano

due, altri immaginavano che il fuoco fosse posto su entrambe, o sospeso tra loro. Dell’altra colonna, il basamento e la base del pilastro di accompagnamento sono ancora al loro posto, la parte superiore, crollata al suolo nel 1528 senza una causa apparente, rimase lì fino al 1663 quando si decise di portarne i pezzi a Lecce per ricomporla con il proposito di sostenere la statua di sant'Oronzo». E della Cattedrale solo dice che «…è un grande e brutto edificio, non possiede nulla di notevole tranne un mosaico pavimentale della stessa epoca e dello stile di quello di Otranto; ed alcuni seggi nel coro, intagliati in modo particolare. Questa parte della costruzione ristette alle scosse di un terremoto che ne distrusse il resto». Ed ecco il racconto della visita alla bellissima chiesa degli Angioli: «…A Brindisi vi sono diversi monasteri e fui indirizzato dal mio ospite verso la chiesa chiamata Santa Maria degli Angeli, che appartiene ad uno di questi, per visitarla ed ammirare uno splendido lavoro di intagli in avorio. Dopo aver dato il mio tributo di lode a questo pezzo di abilità umana e al pulpito dorato e riccamente decorato con buon gusto, un prete mi chiese di salutare attraverso una grata la madre abbadessa ed alcune sue consorelle. Accondiscesi e dopo una breve conversazione in cui mi fu dimostrata nei modi più straordinari la gioia di vedermi, il rispetto per la mia persona e la gratitudine per la mia famiglia, fui invitato ad entrare dal cancello esterno del convento per partecipare ad un rinfresco. Il mio ospite, fratello della badessa, e il sottintendente della città che ci accompagnava assieme al comandante militare, mi fecero notare che non potevo fare a meno di accettare questa cortesia. Mentre mi avviavo mi fu spiegata l'inaspettata cordialità di questa accoglienza: questo convento doveva la sua fondazione all'illustre casa di Baviera, e siccome era noto che il legittimo erede al trono era stato ultimamente a Brindisi per imbarcarsi per la Grecia, era possibile che la badessa avesse scambiato il primo straniero che forse aveva mai visto nella sua vita per il regale personaggio ai cui progenitori l'intera comunità doveva rispetto e gratitudine. Avendo raggiunto le pie sorelle nel cortile esterno del loro monastero, la mia prima preoccupazione fu di disilluderle e scusarmi per avere involontariamente accettato gli onori dovuti ad un rango cosi superiore al mio. Sebbene visibilmente deluse, non venne meno la loro gentilezza; ci vennero serviti con molta grazia dalle giovani

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educande del convento, la cui bellezza e i cui modi semplici erano molto piacevoli, il caffè e i pasticcini che avevano preparato. Avendo intuito che avevo l'onore di conoscere il principe che esse avevano cosi ansiosamente aspettato, mi fecero molte domande su di lui e sembravano soddisfatte della maniera in cui rispondevo; subito dopo mi congedai perché era quasi buio, e tornammo a casa del mio ospite. Il giorno seguente decisi di partire per Mesagne subito dopo cena, in quanto avrei terminato il giro della città e la visita di tutto quello che potesse essere interessante, e così avrei anche evitato la calura. Durante il pasto fece la sua comparsa lo stesso prete che mi aveva avvicinato in chiesa il giorno precedente, con un secondo invito a recarmi prima di partire dalla badessa e dalle sue consorelle per partecipare ad un rinfresco. Cercai di declinare l'invito pensando che sarebbe stato causa di ritardo, ma mi fu risposto che avrei mortificato, se non insultato le consorelle. Poiché il monastero si trovava sulla strada per recarsi fuori città, avrei potuto lasciare i cavalli alla porta del convento e perdere al massimo dieci minuti. Accettai e mi diressi verso il monastero, sempre accompagnato dal mio gentile ospite nella cui casa ero stato alloggiato, dal sottintendente e dal comandante militare, con i quali tre avevo cenato. Il cancello esterno era aperto ed avevamo appena superato la soglia, quando la badessa e le sorelle più anziane della comunità si affrettarono dal cortile e mi guidarono, potrei dire quasi mi trascinarono, nei chiostri interni, chiedendo ai miei attoniti compagni di seguirci in quanto era giorno di gioia per il monastero e si era dispensati da ogni divieto o regolamento. Era chiaro che una luce di regalità splendeva ancora una volta sulla mia fronte, e nonostante il mio desiderio di mantenere il più stretto incognito e la mia aria di umiltà, le onorificenze e gli onori dovuti al sangue di Otto di Wittelsbach dovevano essere resi al suo (?) discendente, almeno in questo caso. Questa decisione

fu dimostrata in molti modi e con tale insistenza, che la piacevole sensazione creata in un primo momento fu subito seguita da un senso di impazienza e di noia. Prima che potessi esprimere una protesta contro la sequela di noiose onorificenze, che vidi incombere sulla mia devota testa, fui circondato da ogni lato da trenta educande che si presentarono a me con dei fiori, mentre si accapigliavano per avere la precedenza nell'onore di baciare la mia principesca mano. Questa non fu affatto la cerimonia meno penosa cui fui sottoposto, e per un attimo sentii il desiderio di esercitare le prerogative reali per proibire l'esercizio di questo costume o per renderlo più congeniale, modificandone l'applicazione. Colsi la prima opportunità per chiedere ai miei compagni di interferire a favore della mia veridicità, assicurando di essere solo un viaggiatore inglese, ma i miei ascoltatori mi risposero con un sorriso di buon umore incredulo; non mettevano in dubbio le mie parole, ma non potevano privare le suore di una gioia che avrebbe contraddistinto un giorno da ricordare negli annali della fondazione. Aggiunsero che sarebbe stato inutile contestare le prove inconfutabili che avevano sul mio lignaggio e la mia nascita, come l'aria di dignità che invano cercavo di celare o la visibile emozione che provavo nel guardare gli stemmi e i ritratti dei miei antenati nella loro chiesa, o il mio continuo parlare in italiano, nonostante avessi affermato di essere inglese: devo ammettere che fui ammutolito non sapendo se ridere o essere serio. Il mio ospite mi pregava di continuare ad essere cortese e di non oppormi ai loro desideri, anche perché sarebbe stato più breve se mi fossi sottomesso piuttosto che opposto; quindi mi rassegnai, dopo una solenne protesta, a visitare l’intero monastero a cominciare dal campanile al quale fui condotto da una pia consorella che cantava un inno di lode in latino. Mi ero appena affacciato, quando ebbe luogo un'improvvisa esplosione di campane, non

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posso chiamarla in altro modo; erano state messe in movimento dalle suore che ci avevano preceduto. Fui condotto in cucina, nel refettorio, nel dormitorio, negli appartamenti della badessa, nel giardino ed infine nella sacrestia dove mi fu chiesto di rimanere. Mi guardavo intorno per chiedere l'aiuto e la compassione dei miei compagni, quando mi trovai seduto su un'immensa sedia di velluto cremisi, riccamente dorata e sormontata da una corona reale. Mostrai diversi sintomi di ribellione, ma fu necessario soffocarli, quando vedendo aprire diverse casse, mi resi conto che stava per avere luogo un'esposizione di tutte le reliquie. Erano numerose, e mi fu detto che si trattava per lo più di doni del mio bisnonno, al tempo in cui il convento era stato fondato, sebbene alcune reliquie fossero state inviate dai miei progenitori meno remoti. Passavano a ruota sotto i miei occhi ossa e teschi di santi i cui nomi mi erano sconosciuti. Di solito le reliquie erano conservate in sacchetti di velluto color porpora, ricamati con perle, vessilli ed ornamenti usati nei riti della chiesa cattolica; erano dei più costosi materiali e di squisita manifattura, e tutti, a turno, mi furono offerti come doni. Tra le reliquie che mi furono mostrate, ricordo alcuni frammenti del velo e della camicia della Vergine Maria, un pollice di sant'Anastasio ed alcuni carboni che furono usati per bruciare san Lorenzo. Mi fu offerto di baciare molte di queste reliquie; gli ultimi oggetti menzionati furono accompagnati dall'osservazione che erano stati i mezzi per convertire uno scettico rendendo le sue labbra incollate e ricoperte di vesciche. Sentivo una momentanea esitazione man mano che mi venivano presentate, cosi mi ritraevo con una prontezza difficilmente comparabile con l'incredulità. Le forti emozioni che avevo provato in un primo momento erano svanite: seguì un'astiosa impazienza che non fu rimossa dalla presenza del vicario, un personaggio vecchio ed infermo che, credo, avessero chiamato dal letto di


LE IMMAGINI A destra La colonna miliare di Brindisi- Disegno di Francesco Wenzel - 1828. Nella pagina accanto «inchino»

morte, per dare alla scena più solennità. Egli si congiunse alle sante sorelle nel coro di preghiere che profondevano alla mia famiglia e nei titoli che accordavano a me, tra i quali "maestà" era il più frequente. Dopo questa manifestazione di devozione mi furono offerti caffè, rosolio, brandy e dolci e le mie tasche furono riempite di arance e limoni, tra i quali in seguito scopersi con mia grande costernazione un paio di calze di cotone e due paia di guanti di lana. Dopo un'ora di tentativi mi fu concesso di partire tra le benedizioni della comunità, ma la mia pazienza fu messa di nuovo a dura prova a causa di un vicino convento di suore benedettine, sotto la speciale protezione del vicario, che mi fu assicurato, sarebbero morte di gelosia e mortificazione se avessi loro negato lo stesso onore che avevo conferito a quelle della Madonna degli Angeli. Fortunatamente l'ordine di queste monache nere era povero e poiché non avevo gli stessi diritti alla loro gratitudine e reverenza, me la scampai con poche cerimonie e la perdita di poco tempo. In questo monastero non vi era nulla di notevole, eccetto le colonne che circondavano il chiostro; erano tra le più piccole e più fantastiche che abbia mai ammirato ed erano molto antiche. Lasciando questa costruzione trovai i miei cavalli in strada e mentre mi congedavo dai miei compagni cominciavo a prender fiato al pensiero di essermi liberato da tutti quei gravosi oneri di cui ero stato vittima e a pregustare il piacere di una cavalcata in una fresca serata. Il mio fastidio invece, fu rinnovato da un discorso che il comandante pronunciò con solennità di tono e voce forte per meglio produrre una profonda impressione su una folla di circa 500 persone radunate intorno ai miei cavalli: tra tanto altro, comunicò che egli si sentiva obbligato a dar luogo ad una pubblica dichiarazione di sentimenti di venerazione e rispetto per 1a mia famiglia e di gratitudine che avrebbe sempre nutrito per la sincera e dignitosa condiscendenza con la quale lo avevo trattato. Le sue parole si conclusero con una genuflessione e un bacio rispettosamente impresso sulla mia mano. Frettolosamente montavo a cavallo e mi allontanavo da questa scena di comico tormento, ma mentre lasciavo la porta della città vidi ai miei lati il mio ospite ed il sottintendente, e capii che erano decisi ad accompagnarmi fino a Mesagne. Dopo aver raggiunto 1a pianura aperta, mi decisi a fare un ulteriore tentativo per 1iberarmi da questa romanzesca persecuzione, che per quanto potessi intuirne si sarebbe estesa per il resto del viaggio. Dopo un'ulteriore solenne protesta contro il nome e il titolo che mi avevano forzatamente imposto, scongiurai i due seguaci con tutti gli argomenti utili per distoglierli dal progetto di accompagnarmi: dicendo che il giorno era inoltrato, che difficilmente avremmo raggiunto Mesagne prima del buio, e che il loro ritorno sarebbe stato difficile se non pericoloso. Capii allora che il mio ospite aveva liberamente partecipato all'omaggio offertomi da sua sorella nella seducente forma di rosolio e liquori ed era perciò assolutamente deciso a non essere ac-

condiscendente: alle mie rimostranze rispose solo con un'energica ripetizione delle parole "altezza è inutile". Conclusi che ogni appello a lui sarebbe stato inutile e mi rivolsi al suo compagno, le cui involontarie espressioni del volto e le torsioni del corpo mi indussero a sospettare che non cavalcasse da molto tempo. Quando osservai che egli era diventato pallido da quando avevamo cominciato a cavalcare, rispose che non montava a cavallo da diversi anni che non era in buono stato di salute e l'andatura degli animali che montava era per lui pericolosa; ma aggiunse che conosceva molto bene il suo dovere e non avrebbe permesso che tali insignificanti inconvenienti potessero impedirgli di portarlo a termine. Aggiunse che non avrebbe seguito il mio consiglio di tornare indietro a meno che non fosse stato imposto in forma di comando perentorio, al quale non avrebbe potuto disobbedire, provenendo da labbra regali. Per una volta decisi di assumere un tono dittatoriale di autorità principesca, e con l'espressione del volto tanto più grave quanto mi fu possibile, gli ordinai di tornare a Brindisi. Egli si levò il cappello, mi baciò la mano e dopo aver espresso i suoi ringraziamenti per la mia accondiscendenza, augurandomi buon viaggio, mi permise di proseguire ed invertì la direzione del suo ca-

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vallo, mentre io affrettai il mio ad un trotto veloce, nella speranza di raggiungere Mesagne prima di notte. Dopo un po’ arrivò sorridendo uno dei miei servi per farmi osservare che il mio ospite non era più visibile e doveva essere entrato in uno di quei boschi chiamati macchie, frequenti in questo tratto di terra incolta. A questo punto devo confessare che la mia pazienza era completamente esaurita e la piacevole sensazione di essermi liberato anche di lui superò ogni altra e, lasciandolo alla protezione di quella divinità che si dice protegga esclusivamente i bambini e gli ubriachi, continuai la mia strada ed arrivai a Mesagne senza sapere altro di lui. Qui trascorsi la notte nello stesso palazzo che era stato la mia dimora poco tempo prima mentre andavo a Lecce. Il giorno seguente, mentre raccontavo al sindaco e ad altri abitanti del palazzo le mie avventure brindisine, fui sorpreso nel vedere il mio ospite che, sembra, aveva trascorso la maggior parte della notte sotto un cespuglio di lentischio. Egli espresse le sue scuse per la maniera in cui si era comportato e si disse mortificato per avermi lasciato andare da solo cosi brutalmente. Ero rimasto troppo sbalordito per fargli delle domande sull'accaduto, e così presi velocemente congedo da tutti e ripresi il mio viaggio, verso Taranto.»


CULTURE

MOTI DEL 1820: 200 ANNI FA LE RIVOLTE CHE MUTARONO LA STORIA molti brindisini parteciparono alle insurrezioni: durante il Corpus Domini del 1821, colpi a salve vennero esplosi per spaventare il cavallo del vescovo Nel 1822 il re decretò l’indulto per numerosi rivoluzionari di Gianfranco Perri ur se consolidatasi in tutta Europa la restaurazione postnapoleonica, i germi liberali della rivoluzione francese erano ormai penetrati nell’animo di vari settori delle società e, impulsate da un forte spirito libertario, erano presto sorte un po’ ovunque sette cospirative segrete – cui aderirono perlopiù membri della borghesia, della nobiltà liberale e dell’intellettualità progressista – miranti alla sovversione del nuovo ordine restaurato. In Italia, il movimento sovversivo era costituito da massoni, ufficiali ex-murattiani, carbonari e altri settari inizialmente prolificatisi nel Regno delle Due Sicilie e successivamente anche nello Stato Pontificio, in Piemonte, in Toscana, a Parma, Modena e nel Lombardo-Veneto. Il lato debole – causa primaria del fallimento delle azioni rivoluzionarie – sarebbe poi risultato essere stata l’assenza quasi assoluta di legami organizzativi e strutturali con le masse popolari, quelle contadine in particolare. Dopo una serie di tentativi insurrezionali falliti sul nascere – alcuni proprio in Puglia – nella notte tra il 1º e il 2 luglio 1820, una ventina di carbonari, tra cui il prete Luigi Minichini, si unirono ad un gruppo disertore del reggimento borbonico di stanza a Nola – 127 soldati comandati dal tenente Michele Morelli e dal sottotenente Giuseppe Silvati – e si diressero su Avellino, riuscendo rapidamente a controllare la città e chiedendo al re Ferdinando I di Borbone la concessione della Costituzione sul modello di quella di Cadice del 1812, già nel marzo ripristinata in Spagna.

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Qualche giorno dopo, il generale Guglielmo Pepe fece insorgere due reggimenti di cavalleria e uno di fanteria di stanza a Napoli e si diresse verso Avellino congiungendosi con gli altri insorti e assumendo il comando di tutte le forze ribelli. Il 6 luglio, Ferdinando I acconsentì alla formazione di un governo costituzionale e nominò il principe ereditario Francesco duca di Calabria, vicario del regno, e questi decretò la pretesa costituzione. Ben presto però, il re Borbone fu protagonista di un clamoroso voltafaccia e


Sopra l’abate Luigi Minichini entra a Napoli nel luglio del 1820, a destra il brindisino Giovanni Crudomonte 1792-1872: irriducibile lottatore antiborbonico. Sotto la rappresentazione di uno dei moti meridionali

invocò l’aiuto austriaco, dichiarando di essere stato costretto a concedere la costituzione con la forza, e per gli Austriaci non fu difficile marciare su Napoli, occupare la città e poi il resto del regno. Così, la fragilissima esperienza democratica durò meno di un anno e sotto la pressione politica e militare delle corti d’Europa la costituzione fu abrogata nel marzo del 1821. Seguì una dura repressione, voluta da re Ferdinando I – per estirpare fin dalle radici tutte le sette cospiratrici – con il ritorno a capo della polizia del regno del già famigerato Antonio Capece Minutolo, principe di Canosa. La Puglia fu pienamente coinvolta in quel processo insurrezionale. Foggia fu una delle prime città del regno ad insorgere e nella vicina San Severo venne creato un deposito d’armi e un centro di collegamento con gli insorti. Anche a Brindisi, ed in tutta la provincia di Terra d’Otranto, gli echi della rivolta trovarono immediato riscontro. Francesco Palma era il sindaco, Giuseppe Maria Tedeschi era l’arcivescovo e il sottintendente era Ciriaco Andreace, con Giuseppe Ceva-Grimaldi marchese di Pietracatella intendente della provincia di Terra d’Otranto. Il 16 gennaio di quell’anno era stato incarcerato nel bagno penale di Brindisi il sovversivo Alessandro Romano di Patù e il 5 aprile era stato scoperto un libello rivoluzionario sotto un av-

viso teatrale, mentre altri ne erano stati affissi clandestinamente sulla Rua Maestra: solo gli ultimi di una lunga serie di fatti che negli anni immediatamente precedenti – successivi agli eventi del 1817 in cui si era distinto l’ancor giovane Giovanni Crudo – erano stati sintomatici del clima e del sentimento politico che in città si respiravano in segretezza. Così, quando l’11 luglio vi fu la lettura della costituzione concessa dal re con cerimonia in Cattedrale e discorso dell’arcivescovo Tedeschi, Giuseppe Capece – già distintosi nelle agitazioni del 1817 – fece cucire una bandiera tricolore con gli emblemi carbonari che fu issata sul Forte a mare dal vecchio Carlo Marzolla accompagnato da Francesco d’Oria capitano del Lazzaretto del porto, scalmanato settario come il suo compagno Giovanni Crudo, all’epoca aderente alla setta dei Decisi, Maestro dei Liberi Piacentini e capo setta dei Filadelfi di Brindisi, e in in tale veste non rinunciò mai alle sue azioni sovversive: un attacco – con violenza e due soldati feriti – a una pattuglia del reggimento Real Corona, avvenuto in Brindisi nella notte del 17 novembre 1820, fu attribuito a Giovanni Crudo, Luigi D’Amico e Nicola Moricchio. Altri Brindisini indicati essere stati alla ribalta nelle manifestazioni di giubilo, furono Vito Montenegro, Pietro Magliano e Domenico Nervegna.

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Quando nello stesso mese di luglio da Napoli si decretò istituire giunte provvisorie protettive della libertà di pensiero in modo che ogni individuo fosse libero di scrivere stampare e pubblicare le sue idee politiche, per la provincia di Terra d’Otranto fu nominato delegato di Brindisi Giuseppe Montenegro, figlio di Leonardo e Carmela Monticelli Cuggiò. Nelle elezioni indette a fine agosto per il parlamento costituzionale del regno, alla provincia di Terra d’Otranto d’accordo con il numero di abitanti – Lecce 83.661, Taranto 78.366, Gallipoli 78.167 e Brindisi 65.450 – spettarono in totale sei deputati, e per il Distretto di Brindisi risultò eletto il padre domenicano Vito Buonsanto di San Vito, antico agitatore del ‘99. Quel parlamento però, avrebbe avuto vita molto breve, giacché l’esercito costituzionale napoletano guidato dal generale Guglielmo Pepe e rafforzato da numerosi volontari giunti da ogni parte, Brindisi inclusa, venne battuto e sbandato il 7 marzo 1821 dall’esercito austriaco del principe di Metternich. Mentre a Brindisi proprio il giorno prima, il 6 marzo ultimo giorno di carnevale, in casa del notaio Oronzo Nisi si era organizzata una mascherata al fine di risollevare il morale dell’esercito costituzionale in lotta contro gli invasori austriaci. Il precedente 9 gennaio, ancora sindaco Francesco Palma, c’era stata una sottoscrizione volontaria tra i cittadini per far fronte ai bisogni della guerra che si approssimava, specificamente per il vestiario

LE IMMAGINI A sinistra il generale Guglielmo Pepe nel 1820 , sopra la ricostruzione di una delle insurrrezioni del 1820

dei legionari che avrebbero dovuto combattere l’esercito austriaco invasore, inviato dagli stati della Santa Alleanza appena riunitisi a Lubiana per mettere argine alla costituzione concessa a Napoli. Congresso a cui aveva partecipato lo stesso Ferdinando I, ingannando sfacciatamente i suoi sudditi con la richiesta dell’intervento armato straniero. Il 19 marzo si riunirono in parlamento 26 dei 98 deputati eletti e sottoscrissero una protesta contro l’invasione straniera, ma il 22 marzo gli Austriaci entrarono a Napoli e ristabilirono il governo assoluto borbo-

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nico. Nello stesso marzo, il ritorno in funzione dei ministri fedeli al re comportò condanne immediate per i liberali compromessi che avevano propugnato la costituzione; molti esularono e tra questi il brindisino Francesco Pennetta. Poi, il 7 maggio, l’intendente di Terra d’Otranto Vincenzo Guarini, informò del decreto reale secondo cui “in vista delle perplessità in cui si trovavano alcuni abitanti di ciascun comune, i quali presero parte alle passate vicende, si assicurava che qualora fossero dimentichi delle passate vertigini e fossero vissuti da onesti cittadini, non avrebbero sofferta molestia alcuna”. Ma la realtà fu, naturalmente, alquanto diversa. In Terra d’Otranto, dove non v’erano gruppi in armi, si perseguirono le opinioni e il pensiero. Trentatré ufficiali e cento trentuno impiegati sarebbero stati destituiti: sacerdoti, notai, magistrati e altri funzionari amministrativi. Quando il 20 giugno 1821 il consiglio decurionale di Brindisi deliberò la formazione del corpo delle guardie civiche, precisò che, allo stesso modo che per qualsiasi altra nomina per impiegati comunali, non avrebbero potuto farne parte coloro che fossero appartenuti alle proscritte società segrete. E a Brindisi di settari evidentemente ce n’erano ancora parecchi: il 21 giugno,


LE IMMAGINI A destra Ferdinando I re delle Due Sicilie

festa del Corpus Domini, mentre il vescovo monsignor Tedeschi – notoriamente filoborbonico e reazionario – andava a cavallo in processione, un gruppo di carbonari fece sparare due salve di cannone per spaventare il cavallo, sapendo di porre in tal modo in seria difficoltà il vescovo e potersi quindi burlare apertamente di lui. La notte del 26 giugno, un gruppo di quattro carbonari molto compromessi con i fatti del 1820 – i brindisini Francesco Del Buono, Luigi D’Amico, il sacerdote Santo Chimienti e il gallipolino Francesco Bianchi – aveva pianificato di fuggire da Brindisi su un’imbarcazione greca battente bandiera inglese, ma qualcuno aveva fatto da spia e la polizia aveva teso loro un’imboscata. Mentre in piena notte i fuggiaschi si avviavano all’appuntamento con il bastimento che li avrebbe espatriati preceduti da Antonio – fratello del sacerdote che seguito da un contadino con un asino carico di bagagli faceva da battistrada – e questi s’imbatté per primo nelle guardie e lanciò l’allarme facendo sì che tutti potessero darsi alla fuga dileguandosi nella notte, imbarcazione compresa. Invano le autorità si adoperarono per far parlare l’unico arrestato Antonio Chimienti il quale, infine, dopo quattro mesi di prigionia, fu liberato. In ottobre a Lecce, la giunta di scrutinio della provincia di Terra d’Otranto condannava sommariamente decine di funzionari rei d’aver parteggiato per la costituzione liberale, e di Brindisi furono immediatamente destituiti: Francesco D’Oria capitano del Lazzaretto, Oronzo Nisi notaio, Giuseppe Domenico Resta cancelliere del giudicato, Lucio Alessano chirurgo della Regia Marina, Antonio d’Ippolito ricevitore del registro, Giuseppe De Cesare cancelliere comunale. Il 28 febbraio 1822, finalmente, il re decretò l’indulto per i politici compromessi, che per certo doveva ancora riguardare non pochi Brindisini, per lo meno a giudicare da quanto rapportava il sottintendente Luigi De Marco il 14 giugno di quell’anno: “Giovanni e Gennaro Del Giudice, Raffaele De Angelis, Cosimo Guadalupi esattore della fondiaria, Agostino Fedele caffettiere, Giuseppe e Salvatore Tadisi, Giuseppe Domenico Resta ex cancelliere del giudicato, Francesco De Pace, Bartolomeo Braico, erano tutti faziosi sorvegliati dalla polizia”.

Nelle linee precedenti, all’incirca una trentina di nomi brindisini e certamente altri, forse almeno altrettanti, quelli che non trapelarono: non pochi per una città di provincia che allora contava con solamente 6.000 abitanti. Come se ad oggi di settari se ne contassero a Brindisi quasi un migliaio. Ed in effetti, quei sentimenti liberali progressisti e persino rivoluzionari, erano stati solo momentaneamente acquietati, ma non certo debellati, come ebbe modo di relazionarlo direttamente al nuovo re Francesco I lo zelante funzionario regio Giovan Luca Vezii il 22 dicembre 1825: “…Nelle province del regno si riorganizzano e si estendono le fila settarie e quella diffusa in Terra d’Otranto è dominata dagli edennisti, detta delle otto lettere o dei quattro colori. Ha per oggetto di abbattere la religione, il trono reale, ed ergere il governo repubblicano… Quella vasta e interessante provincia ha la disgrazia di non avere buoni sottintendenti, giacché quello di Brindisi Luigi De Marco, oltre ad essere vecchio, è anche poco esperto, per cui dovendosi fare

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manodurre da altri, accade che si fa illudere e porta un silenzio sopra gli affari più rilevanti, e ciò pregiudica al vostro real servizio”. In effetti, a Brindisi nel 1826 furono operate perquisizioni nelle case di Giovanni Crudo, sorvegliato speciale, Antonio De Marzo, Giovanni Giaconelli, Vincenzo ed Antonio De Pace, del notaio Oronzo Nisi e di altri. Nonché nella farmacia di Vito Montenegro e Carlo Berardi, secondo il sottintendente frequentata da settari di ogni condizione, e nei caffè di Francesco Palmisano, Federico Provenzano e Francesco Manes “nei quali oziava più di qualche conoscenza della polizia e dove fra una partita e l’altra si sparlava del governo”. E così, tra una sedizione e l’altra, e tra una repressione e l’altra, anche a Brindisi sarebbe arrivato il 1830-31 e poi il 1848, con i suoi protagonisti, vecchi e nuovi, e con le loro gesta rivoluzionarie ancora una volta finalmente e spietatamente represse dall’assolutismo. Tutte storie che però, esulano dal racconto di questo episodio.


CULTURE

QUANDO LA MARINA MILITARE SI APPROPRIÒ DI BRINDISI

dopo un primo tentativo fallito nel 1650 ad opera del Regno di napoli, nel 1905 Brindisi fu elevata al rango di Porto militare. La Marina non lo ha mai più lasciato di Gianfranco Perri el 1650 Alfonso Guerrero, presidente della Regia Camera della Sommaria in Napoli, propose al re di Spagna Felipe II, di stabilire in Brindisi una base navale della Regia armata, per arginare il pericolo turco sul viceregno di Napoli, sopportando dettagliatamente la sua proposta in base alla evidente strategicità del porto di Brindisi. Quella base navale però, non fu installata finché, 260 anni dopo… agli inizi del Novecento, l’Adriatico assunse un’importanza primaria nella geo strategia del Regno d’Italia e, per poter controbilanciare la base di Cattaro della marina austro ungarica, divenne prioritaria la creazione di una base navale nel Basso Adriatico: a Brindisi. La creazione in Brindisi di una base navale si suppose che avrebbe avuto ricadute positive sull’economia della città, e il 26 maggio 1905 il consiglio comunale approvò unanimemente una risoluzione che auspicava la realizzazione del progetto che era stato appena elaborato dal viceammiraglio Camillo Candiani per elevare quello di Brindisi a porto militare, con sede di stazione torpediniere e base di rifornimento navale. Invero, nonostante l’entusiastico sostegno dell’onorevole brindisino Pietro Chimienti in Parlamento, quel progetto fu per qualche anno mantenuto “in studio” mentre nel porto solo giunsero a stazionare alcune modeste navi da guerra e, nel 1907, alcune torpediniere cominciarono ad essere ancorate alla banchina delle Sciabiche, inizialmente nel tratto dell’attuale via Paolo Thaon di Revel. Poi, nel 1908 qualcosa cominciò a smuoversi quando il capo di Sato maggiore della Marina, viceammiraglio Giovanni Bettolo, visitò Brindisi con la nave corazzata Dandolo e nel gennaio 1909 presentò una sua particolareggiata relazione al ministro della Marina, Carlo Mirabello, in cui con-

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fermò la necessità – e al contempo la fattibilità – di creare a Brindisi una base navale “alle cui funzioni nessun altro punto della costa adriatica si prestava”. E, nel contesto del piano previsto, indicò come sede del Comando Marina il castello di terra, all’epoca adibito a reclusorio. Durante i precedenti cent’anni infatti, il grande castello svevo altro non era stato che “il bagno penale” di Brindisi. «Circa il 1810, regnando in Napoli Gioacchino Murat, si pensò di trasformare questo Castello in uno stabilimento penale e, all’incirca verso il 1813, pas-


Sopra Area Marina Militare e Caserma Ederle – Foto aerea del 1918 circa, a destra il Castello di Terra, sotto la Stazione Sottomarini nel seno di Ponente durante la Prima Guerra mondiale

sarono ad abitarlo i condannati» [Giovanni Tarantini, 1870]. Con i Borboni ritornati sul trono di Napoli la destinazione che era stata data al castello non cambiò e, come gli altri stabilimenti penali del tempo, passò alle dipendenze della Real Marina per poi, nel 1857, essere trasferito al Ministero dei lavori pubblici. Neanche l’Unità d’Italia mutò il destino del castello, quando i bagni penali furono riassegnati temporalmente al Ministero della marina e in quello di Brindisi variarono le truppe assegnate alla custodia dei prigionieri: da quelle del Real esercito, a quelle della Guardia nazionale. Poi il 1º gennaio 1867 ci fu il trapasso dal Ministero della marina a quello dell’interno. Nel 1892 i “bagni penali” furono aboliti per legge e continuarono a funzionare come “case di reclusione”. Tra febbraio e marzo 1909, dopo il trasferimento dei reclusi a Lecce, la Marina Militare prese possesso del castello e predispose i lavori di adattamento. Durante tutti quegli ultimi anni in cui il castello funzionò come prigione, l’agibilità delle aree tutt’intorno era rimasta sostanzialmente impedita alla popolazione di Brindisi, per cui erano sorte non poche controversie tra l’amministrazione carceraria e il Comune. Il demanio infatti, oltre alla Piazza d’armi, si era riservato anche tutto il resto dell’area sottesa dalla cinta muraria nel tratto dal torrione Inferno vecchio al castello, i cui terreni agricoli erano in usufrutto dell’Orfanatrofio militare di Napoli – che in parte li faceva coltivare ai carcerati ed in parte li subaffittava – così come anche quelli circondanti il castello sul lato del mare, dove era proibito il passaggio alla popola-

zione e nelle cui adiacenze non si poteva neanche pescare. E la controversia si era particolarmente estesa proprio in riferimento alla fascia di terra che ai piedi del castello bordeggiava il mare. Fin dal 1893 infatti, il sindaco Engelberto Dionisi aveva chiesto al Ministero dei lavori pubblici la costruzione di una via sul sentiero detto “strada delle canne di monsignore” che congiungeva la contrada Sciabiche con la contrada Ponte grande, sulla via provinciale per San Vito e quindi con il Casale. In quell’occasione la richiesta non fu accolta per via della relazione negativa di tale ingegnere Achille Somma della sezione Brindisi del Genio Civile, che considerò quella via “essere priva d’interesse e di non imprescindibile bisogno”. In seguito alle insistenze del Comune però, la strada fu finalmente autorizzata, contro la diffidenza della direzione del carcere che comunque impose l’edificazione di un muro di cinta dalla parte del mare, per impedire la fuga dei reclusi. Si procedette all’esproprio dei terreni e il 16 ottobre 1904 fu ultimato il progetto, la cui costruzione, a causa di ritardi amministrativi, iniziò nel 1907 a carico dell’impresa Edoardo Almagià di Bari, che la completò nel 1910, senza però costruire il famigerato muro. Nel mentre, infatti, il carcere aveva cessato di funzionare e nei primi giorni di aprile del 1909 il castello era passato alla Marina Militare che, agli inizi del 1911 e ancor prima che la strada fosse inaugurata, semplicemente dispose impedire “temporalmente” il transito al pubblico. E si era solo agli inizi di un lungo e persi-

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stente processo di pacifica invasione e più o meno coatta appropriazione di spazi brindisini da parte della Marina Militare. Un processo destinato a estendersi ed amplificarsi con lo scoppio della Grande guerra, e di fatto persistere fino al termine della Seconda guerra mondiale per poi, e ancora a tutt’oggi a più di cent’anni dal suo inizio, lentamente e comunque solo parzialmente, stentare a rientrare. Concluse le trattative con l’Orfanatrofio militare di Napoli, praticamente tutti i terreni adiacenti al castello “necessari per bisogni militari” passarono in proprietà alla Marina Militare la quale iniziò d’immediato ad edificare su quei terreni, recintati da un alto muro, le strutture necessarie alla base navale: la palazzina comando – che dopo l’8 settembre 1943 avrebbe alloggiato il re Vittorio Emanuele III con la sua famiglia durante i mesi di Brindisi capitale – e la biblioteca sul settore a sudest; la stazione distillatori e la centrale elettrica con il capannone da lavoro e officina riparazioni lungo la fascia est della

LE IMMAGInI Sopra la Stazione Idrovolanti sulla costa Guacina tra canale Pigonati e Fontanelle – 1918 circa, sotto numerose unità della Marina Militare ormeggiate sulle due sponde del seno di Ponente - 1960

banchina; piazzale e fabbricato per la stazione sommergibili lungo la fascia ovest della banchina. In seguito, furono costruite la strada inclinata per l’accesso veicolare dal castello alla banchina ovest e tutta una densa serie di fabbricati con varie destinazioni d’uso nella vasta area ad ovest del castello, ampliata con pezzi di terreno via via dalla Marina Militare acquistati al Comune. È il caso ci citare a questo punto anche il destino che fu assegnato alla Piazza d’armi, anche detta Piazza castello, antistante appunto al lato sud del castello dalla Marina Militare ribattezzato “Vittoria”, pur se in questo caso l’esproprio del demanio fu inizialmente fatto in nome del Real esercito. Il Comune, nonostante tanti sforzi e varie proposte avanzate per una localizzazione alter-

nativa della caserma che era stato deciso costruire in città, non riuscì ad ottenere l’uso della piazza e nel 1912 fu completato il progetto della caserma poi intitolata Ederle, ubicata sul lato del piazzale prospicente la via di accesso al castello. Le proteste del Comune presso il Ministero della pubblica amministrazione, allora competente in materia di tutela dei beni monumentali, solo riuscirono a far spostare l’ubicazione del fabbricato sul lato opposto del piazzale “per così conservare la visuale del castello Vittoria”. L’intera area però, fu comunque recintata con un alto muro ostruendo del tutto la vista panoramica su castello e mare ed in seguito, sull’area non occupata dalla caserma, fu edificato l’enorme palazzo del Comando Marina: quello che chiamavamo “lu prisidiu” quando, alla fine Seconda guerra mondiale, fu per anni e anni adibito a ricovero “temporale” di tante famiglie sfollate dai bombardamenti. Nel mentre, anche le zone occupate dalla Marina Militare nel porto interno ben presto esularono ampiamente dai limiti del castello e dello specchio d’acqua limitrofo: sulla banchina delle Sciabiche, dove già ancoravano sempre più numerose le torpediniere, si requisì il capannone che sulla banchina Lenio Flacco era stato costruito per il riparo delle merci, per destinarlo a materiali ed attrezzi necessari alle torpediniere; tutto l’ampio settore della detta “riva Posillipo”, sul lato ovest del canale Pigonati – tuttora inaccessibile – fu adibito a deposito navale; la vasta area nel fondo del seno di levante fu occupata da enormi serbatoi di nafta – tuttora lì – per solo uso militare, e per proteggerli fu sospeso l’accesso al ponte Piccolo. E nell’avamporto, oltre a Forte a mare e all’intera isola di Sant’Andrea, dove fu impiantata una batteria


di cannoni, fu militarizzata anche Punta Fiume grande, quando vi si installò una batteria di cannoni analoga a quella sull’isola dirimpettaia. Infine, dopo che il porto di Brindisi fu iscritto “nella prima categoria nei riguardi della difesa militare dello Stato”, il 26 maggio 1913 i vari tratti di spiagge e banchine e specchi d’acqua già dichiarati di 1ª categoria, furono formalmente consegnati dalla Capitaneria di porto al Comando difesa marittima della piazza di Brindisi. La necessità strategica di disporre anche nel Basso Adriatico di un servizio aeronautico di supporto alle operazioni navali – l’aviazione militare era all’epoca una divisione della Marina Militare – portò nel 1915 all’installazione nel porto di Brindisi di una stazione idrovolanti, per la quale la Marina Militare selezionò la vasta area del porto medio localizzata subito a sinistra uscendo dal canale Pigonati, sulla costa detta “Guacina”. Nel 1916, per poter contrastare l’aviazione austriaca di base a Durazzo, la stazione fu potenziata divenendo stabile: era così nato l’Idroscalo Militare di Brindisi, sorto sull’area costiera compresa tra il canale Pigonati e Fontanelle, da sempre punto di attracco di navigli imbarcazioni e battelli vari in quanto riparata dalle correnti marine. Furono necessari anche impegnativi lavori di sterro per portare al livello del mare parte dell’area della costa che in origine fu topograficamente sopraelevata e quindi furono costruite le autorimesse, ben sei hangars per gli idrovolanti da bombardamento progettati dall’ingegnere Luigi Bresciani. Adiacenti e a nord degli hangars Bresciani, si costruirono anche tre enormi hangars per dirigibili i quali però, per ragioni di sicurezza, furono presto dismessi e trasferiti al campo aereo di San Vito. Lo scoppio della Grande guerra, inevitabil-

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LE IMMAGInI La stazione Torpediniere con capannone attrezzature requisito nel seno di Ponente – 1918 circa, sotto Area attualmente occupata dalla Marina Militare e area ex Piazza Castello poi Caserma Ederle

mente, non fece altro che peggiorare la già compromessa situazione, estendendo l’occupazione militare, restringendo gli spazi agibili e sospendendo del tutto ogni rimostranza della comunità cittadina nei confronti dell’autorità militare marina. Poi, venne il tempo di rimarginare le tante dolorose ferite, molte certamente prioritarie al recupero degli spazi cittadini e così, la Marina restituì ai cittadini solo quelle aree che erano state requisite in

chiara funzione bellica. Il ventennio fascista da parte sua, non ritenne certo urgente sottrarre spazi e prerogative agli ambiti militari – anzi tutt’altro – contando del resto su amministrazioni comunali e cittadini perlopiù accondiscendenti. Poi un altro ed ancor più nefasto conflitto, che alla città arrecò solo pesanti lutti e grandi distruzioni, situandola quindi di fronte ad una difficilissima e sofferta ricostruzione che vide nuovamente le amministrazioni comunali impegnate a contendere gli spazi di sempre alla Marina Militare, in un continuo procedere a singhiozzi, tra sporadici – ed alle volte dubbiosi – successi e più o meno volontarie rinunce, o più o meno sofferti rinvii. Il resto è nelle cronache cittadine dei nostri giorni.


CULTURE

100 ANNI FA BRINDISI DETERMINANTE PER ‘LIBERARE’ L’ALBANIA nel 1920 manifestazioni militari contro l’ulteriore invio di soldati italiani a Tirana: nell’estate l’Italia rinunciò al protettorato e firmò un protocollo d’amicizia con il governo albanese

di Gianfranco Perri ntrato il ‘900, l’Albania era ancora tutta sotto il dominio turco che si era instaurato più di cinque secoli prima, quando nel 1385 gli Ottomani l’avevano conquistata e gradualmente islamizzata. Nel 1870 però, era iniziato il risorgimento nazionale albanese che nel 1912 doveva culminare con la dichiarazione dell’indipendenza di un popolo ancora diviso in tribù, principalmente in Gheghi a nord ancora in parte cattolici, e in Toschi a sud prevalentemente musulmani. D’altra parte, proprio nella prospettiva dell’evoluzione geopolitica che con il nuovo secolo tutta la regione balcanica si apprestava a intraprendere come conseguenza diretta dell’imminente sgretolamento del plurisecolare impero ottomano, quella regione dirimpettaia al meridione italiano, strategicamente ubicata all’imbocco dell’Adriatico, aveva già da tempo attratto l’attenzione dei governi italiani, specialmente dopo che nel 1908 l’Austria si era annessa la Bosnia e l’Erzegovina. Già nell’autunno del 1903, l’addetto militare italiano a Costantinopoli, colonnello Vittorio Trombi, aveva effettuato un’ispezione delle coste albanesi, con anche la ricognizione di circa cinquanta chilometri dalle foci del fiume Boiana alla città di Scutari sull’omonimo lago dell’entroterra oggi confine tra Montenegro e Albania, al fine di individuare ed esaminare i potenziali punti di sbarco per un conseguente attacco italiano finalizzato al controllo dell’Albania, ed aveva elaborato un dettagliatissimo rapporto che l’11 maggio 1904 fu trasmesso all’allora Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, Tancredi Saletta. Nel febbraio del 1911, ancor prima dello scoppio della guerra italo-turca provocata dall’Italia per sottrarre la Libia al dominio ottomano, il governo di Roma aveva prospettato uno sbarco in Albania, ma il generale Luigi Cadorna, Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, si era opposto adducendo l’insufficienza dei mezzi messigli a disposizione. E nel maggio dello stesso anno, fallì pure il tentativo di organizzare una spedizione di volontari garibaldini in soccorso dei nazionalisti albanesi entrati aperta-

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mente in ribellione armata contro il governo turco. Ricciotti Garibaldi non riuscì infatti a coordinarsi con gli esuli albanesi in Italia, e poi si scontrò con l’aperta opposizione degli ambienti ufficiali italiani ormai tutti concentrati sulla grossa partita della guerra italo-turca. E fu proprio quella guerra libica, vinta dall’Italia, che aprì il varco alla prima guerra balcanica: l’8 ottobre 1912 il Montenegro dichiarò guerra all’impero ottomano e fu seguito dalla Bulgaria, la Serbia e la Grecia. Poco dopo lo scoppio di quella guerra, la minaccia greca e serba contro l’Albania indusse l’Italia e l’Austria a incoraggiare la costituzione di una nazione albanese e così, il 28 novembre 1912 in un’assemblea riunita a


Sopra e sotto domenica 1° giugno 1913: “Rivista” del Distaccamento Speciale dell’Esercito Italiano approntato a Brindisi in attesa di essere imbarcato per le missioni di Albania e di Libia

Valona, 83 delegati musulmani e cristiani proclamarono l’indipendenza dell’Albania, eleggendo a capo del nuovo stato Ismail Kemal Bey. Il 7 dicembre 1912 la nuova nazione venne riconosciuta e quindi attivamente sostenuta dal gruppo delle sei potenze – Austria, Italia, Germania, Francia, Russia, Gran Bretagna – e la conferenza dei sei ambasciatori riunita il 29 di luglio a Londra, la riconobbe formalmente nella forma di un principato costituzionale e nominò una commissione internazionale per la delimitazione dei confini territoriali del nuovo stato. Così, quando i primi di maggio del 1913 le forze internazionali entrarono nella nordica città albanese di Scutari dopo averla fatta sgomberare agli occupanti Montenegrini, dal distaccamento speciale costituito a Brindisi il 5 maggio 1913 con il fine di essere inviato in Libia – imbarcò il 10 luglio – al comando del colonnello Maurizio Gonzaga, furono staccati uomini e materiali per la costituzione di un altro “distaccamento speciale” che al comando del colonnello Alessandro Vigliani fu inviato in Albania per sostituire il drappello di marinai che era stato posto provvisoriamente nel presidio di Scutari. Di quel distaccamento, partito da Brindisi alla fine di giugno, fecero parte trenta ufficiali con incluso il cappellano militare don Achille Arcioni, una banda musicale e una stazione radiotelegrafica. Il 26 settembre, inoltre, giunse a Brindisi proveniente da Udine, un distaccamento dell’8° Reggimento Alpini destinato al rafforzamento del servizio di scorta della commissione internazionale di delimitazione dei confini settentrionali e salpò per l’Albania il giorno seguente, sabato 27 settembre.

Intanto, dopo che nel trascorso della prima guerra balcanica l’esercito ottomano era stato ripetutamente sconfitto, il 30 maggio 1913 era stato firmato il trattato di Londra che aveva posto fine a quella guerra e che aveva sancito per l’impero ottomano la perdita di quasi tutti i territori europei, che furono spartiti – e non proprio amichevolmente, anzi tutt’altro – tra i vari stati balcanici. I lavori della commissione internazionale per la definizione dei confini albanesi, infatti, erano risultati ardui e complicati proprio per le difficoltà frapposte dagli stati limitrofi interessati tutti a cedere quanto meno territorio possibile alla nuova nazione, in particolare il Montenegro a nord e specialmente la Grecia al sud. Così, quando la conferenza degli ambasciatori terminò i suoi lavori – e il 10 aprile 1914 approvò a Valona lo statuto dell’Albania erigendola a regno con la garanzia delle sei potenze che a marzo avevano posto sul trono il principe Guglielmo di Wied appartenente all’aristocrazia della Prussia renana – parte della frontiera meridionale restò fissata imperfettamente perché la Grecia rimase riunente a sgomberare. Poi, l’assassinio di Sarajevo sconvolse ogni cosa e il 1º agosto 1914 provocò lo scoppio della guerra. In quel precario contesto albanese rimasto così indefinito, nello stesso agosto il distaccamento italiano di Scutari fu ritirato con il resto della presenza internazionale e, dopo che il 3 settembre 1914 il principe Wied dovette abbandonare Durazzo lasciando il paese in preda all’anarchia, il 30 ottobre il governo italiano – che aveva dichiarato la neutralità – ordinò occupare preventivamente l’isola di Saseno posta all’imboccatura della baia di Valona e progettò una spedizione militare “a protezione” dell’Albania, per cui dispose anche approntare a Brindisi un corpo di spedizione composto da un reggimento di bersaglieri da imbarcare sui piroscafi Valparaiso e Re Umberto. Infine, il generale Cadorna – incalzato dal ministro degli esteri Sidney Sonnino, che sostenne l’azione in ragione di contropartita al fatto che le truppe greche il 6 luglio erano entrate a Coriza e avevano già posto la mira su Valona – autorizzò lo sbarco affidando il comando dell’ammiraglio Giovanni Patris, il quale il 25 ottobre a Brindisi aveva innalzato la sua insegna sulla nave corazzata Dandolo. La mattina del 25 dicembre 1914 un battaglione di marinai sbarcò dalla nave Sardegna alla fonda nella baia di Valona ed occupò la città, mentre al largo presso Saseno rimasero allerta altre due navi italiane, Etna e Piemonte, il cui intervento non fu però necessario. Lo sbarco fu diretto dall’allora tenente di vascello Costanzo Ciano, che entrò a Valona alla testa dei marinai armati mentre altre pattuglie occuparono le colline circostanti. Il 29 dicembre i marinai furono sostituiti dai tre battaglioni del 10º Reggimento Bersaglieri giunti il 28 da Brindisi. Un battaglione rimase a Valona e gli altri due furono distaccati a Tirana e Arta. «…I battaglioni di bersaglieri scendevano a terra fra il plauso della popolazione festante che si era tutta raccolta allo sbarcatoio e lungo la strada che va a Valona. Si notavano il governatore della città, tutti i notabili, i preti e le associazioni locali italiane e indigene con le relative bandiere, mentre la gendarmeria albanese presentava le armi…» [Giovanni Patris]. Entrato il nuovo anno, il presidente del consiglio Antonio Salandra e il ministro degli esteri Sonnino trattarono in segreto l’ingresso in guerra dell’Italia dalla parte dell’Intesa e il 26 aprile 1915 firmarono a Londra un patto con Inghilterra, Francia e Russia in cui, tra altro, fu previsto che all’Italia toccassero l’isola di Saseno, il porto e la

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LE IMMAGInI A destra Castello di Argirocastro giugno 1917: Rivista delle truppe italiane, prima dell'entrata in città. nella pagina accanto la mappa dell’Albania indipendente - fine 1920

baia di Valona, nonché il protettorato sulla nuova nazione albanese. Il 24 maggio del 1915 l’Italia entrò in guerra, e per le truppe italiane e quelle austriache – che si combatterono incessantemente con alterne vicende durante gli anni del conflitto – tutta l’Albania divenne un importante e strategico fronte di guerra in cui parteciparono anche i francesi e gli inglesi, nonché praticamente tutti gli stati balcanici, inclusi Bulgaria e Grecia. A metà del 1917, il 3 giugno, si produsse l’occupazione militare italiana dell’importante città meridionale di Argirocastro e l’operazione fu perfezionata politicamente con la diffusione di un rimbombante proclama con cui il comandante della piazza, generale Giacinto Ferrero annunciava, in nome del re Vittorio Emanuele III, l’instaurazione del protettorato italiano sull’Albania. Nella primavera del 1918, il XVI Corpo d’Armata al comando del generale Settimio Piacentini riprese le operazioni in Albania e dopo l’armistizio bulgaro del 30 settembre le truppe austriache incalzate da quelle italiane e francesi abbandonarono i fronti albanesi ritirandosi in sbandata verso il Montenegro, mentre gli italiani occupavano buona parte del territorio centrale, entrando a Durazzo e a Tirana. Coriza a sud, fu occupata dai francesi e Scutari a nord, fu messa nuovamente sotto amministrazione internazionale. Finita la guerra, il governo italiano si presentò alle trattative di pace a Parigi deciso a far valere il patto – non già più segreto – di Londra del 1915 in relazione al protettorato sull’Albania, e di fronte alle difficoltà sorte al rispetto, Italia e Grecia stipularono il 29 luglio 1919 un nuovo accordo segreto con cui si impegnavano a sostenersi reciprocamente nelle rispettive rivendicazioni che avevano sull’Albania in base l’accordo di Londra: il protettorato e Valona con un territorio circostante adeguato alla difesa della base navale, all’Italia; l’Albania del sud, quello che era l’Epiro settentrionale, alla Grecia. In reazione alla pericolosa situazione di stallo che vedeva il nord del paese minacciato dalle pretese territoriali iugoslave e il centrosud compromesso dal patto italo-greco maldestramente svelato dai greci, in Albania nacque e in breve si andò rafforzando un movimento di liberazione nazionale, che il 20 gennaio 1920 a Lushnjë approvò uno nuovo statuto provvisorio e proclamò un governo autonomo. La capitale provvisoria fu fissata a Tirana e gli albanesi si dichiararono pronti a combattere con tutte le loro forze perché i loro diritti venissero riconosciuti e la loro indipendenza e integrità territoriale venissero effettivamente prese in considerazione rinunciando tutti a qualsiasi mandato o protettorato straniero. Quindi, militarmente, oltre a contrastare la presenza militare iugoslava nel settentrione del paese, gli albanesi iniziarono a minacciare sia le truppe francesi che occupavano Coriza nel

meridione costringendole ad andarsene, e sia le truppe italiane, che tra aprile e maggio del 1920 furono indotte a ritirarsi dalle località interne centrali e a ripiegare tutte sulla costa, concentrandosi soprattutto nella regione di Valona. I primi di giugno si produsse una violenta sollevazione generale che, per assicurare la tenuta della città di Valona, costrinse il comando italiano a ricorrere all’intervento delle navi da guerra presenti nella baia e indusse il comandante della piazza, generale Settimio Piacentini, a sollecitare rinforzi al governo di Roma. Un governo, quello di Francesco Saverio Nitti, che entrò in crisi cedendo il posto a Giovanni Giolitti, il quale si trovò a dover affrontare lo scottante problema albanese, e lo fece così maldestramente che alla fine dovette rinunciare a mantenere l’occupazione militare in quel paese. L’11 giugno di quel 1920 a Trieste, mentre gli “Arditi” del 1° Reggimento d’assalto destinato all’Albania erano in procinto d’imbarcarsi, si svolse una manifestazione di popolo contro la partenza provocando incidenti anche tra i militari della caserma Rossol, dove rimase mortalmente ferito l’ufficiale di picchetto Giovanni Spano. Poi, il 13 giugno, in un clima molto teso i soldati s’imbarcarono sui piroscafi e partirono

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per Valona. Tra il 25 e il 26 giugno ad Ancona, invece, in previsione di un imminente imbarco per l’Albania di un battaglione di “bersaglieri” appartenente all’11° Reggimento, si produsse nottetempo un grave e confuso episodio di ammutinamento nella caserma Villarey, appoggiato da manifestazioni civili che degenerarono in vari episodi di violenza armata e che fu finalmente controllato e sedato dopo tese trattative di resa condotte con i militari ammutinati, ai quali fu assicurato che non ci sarebbe stata una partenza per l’Albania. Però, c’erano state alcune vittime ed in conseguenza tra i civili coinvolti ci furono numerosi arresti, perlopiù di anarchici, che furono in seguito processati e condannati. La posizione del governo di Roma sulla questione Albania cominciò allora a diventar ancor più problematica: alla già critica situazione politico-militare creatasi nella dirimpettaia sponda adriatica, si sommava in casa il diffondersi di un clima ostile e sempre più teso apertamente fomentato dalle opposizioni, in parlamento, nelle piazze e persino tra i militari di truppa, ancora troppo freschi delle sofferenze della lunga e difficile guerra e riluttanti


pertanto all’idea di nuovi sacrifici. In parlamento il capo del governo Giolitti cominciò ad avanzare l’ipotesi della rinuncia al protettorato, mantenendo tuttavia fermo il proposito dell’annessione di Saseno e Valona con il suo hinterland. Ed in seguito, incalzato dagli eventi, dovette anche dichiarare di non star considerando l’invio di nuove truppe in Albania, riaffermando comunque la necessità di mantenere Valona. Ovviamente però, non sarebbe stato possibile conservare Valona senza mandare nuove truppe e, probabilmente, il governo pensò bene di mandarle per vie traverse ricorrendo a qualche sotterfugio, per esempio alla figura dei volontari. Perlomeno questo è quello che farebbe supporre quanto dichiarato in parlamento dal ministro della guerra Ivanoe Bonomi a proposito dei fatti di Brindisi: «l’Associazione palermitana degli ex Arditi aveva manifestato il desiderio dei suoi componenti di essere riammessi in servizio per partire come volontari per l’Albania e avendo molto insistito, il comando del corpo d’armata di Palermo li aveva inquadrati in un reparto di volontari, li aveva assegnati all’intendenza di Taranto per l’invio a destinazione, e li aveva quindi inviati a Brindisi per l’imbarco sul piroscafo Molfetta.» In effetti, il 29 giugno giunsero a Brindisi 120 “Arditi” comandati da un capitano e altri cinque altri ufficiali. Alle nove della sera, gli arditi incolonnati si avviarono al porto per essere imbarcati sul piroscafo Molfetta della società di navigazione Puglia. Dopo che sull’imbarcazione erano già saliti una quarantina di militi, due arditi, rompendo le righe rifiutarono l’imbarco e arringando i commilitoni dichiararono di non voler partire per Valona. Nello stesso momento, dalla folla che nel mentre si era assembrata nei pressi del molo, si cominciarono a levare grida di protesta contro l’imbarco dei militari, esortando inoltre quelli già imbarcati sul piroscafo a scendere. Presto però scoppiarono seri incidenti fra soldati, ufficiali, carabinieri e borghesi, e finalmente cominciarono a echeggiare colpi d’arma da fuoco provenienti sia da terra che dalla nave, e questa finalmente, poco prima della mezzanotte, procedette allo stacco dalla banchina ed all’immediata partenza per Valona. Gli scontri violenti in città però, continuarono durante tutta la notte. Ci furono due morti tra i civili – Vincenzo Stillo e Leonardo Fusco – oltre a numerosi feriti, e per ristabilire l’ordine pubblico furono chiamati anche i soldati del Comando militare marittimo. Poi, mentre gli arditi rimasti a terra cominciarono a sbandarsi, a costituirsi alcuni e a darsi alla fuga verso le campagne altri, i carabinieri e gli agenti della polizia iniziarono i rastrellamenti per tutta la città eseguendo numerosi arresti: trentacinque in tutto, tra i quali Arturo Sardelli, allora segretario della Camera del lavoro, che fu poi sindaco di Brindisi per un breve periodo nel 1945. All’alba del 30 giugno, i due morti furono portati al cimitero comunale e nove feriti furono portati all’ospedale di campo allestito dal personale medico militare in corso Garibaldi, proprio di fronte al caffè Limongelli. Tutti i fermati furono inviati sotto scorta alla procura di Lecce, mentre da quel capoluogo di provincia giungevano in città, per presidiarla, 300 militari e 100 carabinieri.

Evidentemente, a quel punto la situazione a Brindisi era ritornata “sotto controllo”. Ma altrettanto evidentemente, Brindisi, quel 29 giugno del 1920, era stata la goccia che avrebbe presto fatto traboccare il vaso: le manifestazioni contro la presenza militare italiana in Albania prolificarono, nelle piazze e soprattutto in parlamento, dove già lo stesso 30 giugno fu resa palese la contradizione del governo che solo pochi giorni prima aveva sostenuto di non intendere mandare altre truppe in Albania. La pressione parlamentare quindi proseguì incalzante, e mise in serio imbarazzo il ministro della guerra Bonomi e lo stesso capo del governo Giolitti, costringendolo a considerare e poi finalmente ad accettare l’idea del ritiro di tutte le truppe dall’Albania. Il 20 luglio a Tirana si firmò un protocollo preliminare, e il 2 agosto si firmò solennemente la

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convenzione di amicizia italo-albanese. L’Italia rinunciò al protettorato sull’Albania, riconobbe il nuovo governo di Tirana, l’indipendenza e l’integrità dell’Albania nei confini del 1913. Il protocollo previde inoltre che le truppe italiane dovessero essere rimpatriate da Valona e dalle altre località dell’Albania, ad eccezione dell’isola di Saseno che rimaneva all’Italia a garanzia che la baia non sarebbe stata utilizzata da altra potenza. Per quanto quella di Brindisi del 29 giugno 1920 fosse stata solo l’ultima, e non certo la più eclatante, delle manifestazioni militari poste in atto in aperta avversione a ogni ulteriore invio di soldati italiani in Albania, fu quasi certamente l’atto che contribuì a mettere la parola fine a una faccenda italiana molto controversa e che di fatto si era disorganicamente estesa sull’arco di tutto un decennio.


CULTURE

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L’epoca vicereale iniziò a Brindisi a metà del 1509 quando la città venne consegnata alla Spagna dai Veneziani. un’epoca durata due secoli interi sino a quando in Italia arrivarono gli Austriaci n di Gianfranco Perri epoca vicereale per Brindisi iniziò a metà del 1509, quando la città venne consegnata alla Spagna dai Veneziani – sconfitti dalla Lega di Cambrais nella battaglia di Agnadello del 14 maggio – i quali ne avevano tenuto il possesso durante soli tredici anni, dopo averla ricevuta il 30 marzo del 1496 dal re di Napoli Ferdinando II d’Aragona in compenso per l’aiuto finanziario e militare che gli era stato prestato dalla Serenissima contro l’invasione del regno – finalmente frustrata – da parte del re di Francia Carlo VIII. Un’epoca durata due secoli completi, fino al 1707 quando gli Austriaci di Carlo III estromessero da Napoli gli Spagnoli del re Felipe V. Nel luglio 1509, governatore e castellani veneziani abbandonarono Brindisi prima dell’arrivo degli Spagnoli trasferendosi a Monopoli e nottetempo il barone di Rocca, Raffaello Delli Falconi, giunse da Lecce con mille fanti ed occupò la città e il castello Alfonsino. Poi, fu il marchese Della Palude, governatore della provincia di Terra d’Otranto, a prendere in consegna la città e le sue due fortezze – il castello Svevo di terra e quello di mare, l’Alfonsino – su mandato del viceré spagnolo di Napoli, Juan de Aragòn conte di Ribagorza ed in nome di Ferdinando il Cattolico, il reggente di Spagna che già dal 1504 aveva occupato il regno di Napoli, dopo averlo sottratto al cugino Federico I d’Aragona e averlo conteso alla Francia di Luigi XII. Nel 1516, appena salito sul trono di Spagna e quindi di Napoli, Carlo V, succeduto al nonno materno Ferdinando il Cattolico morto il 15 gennaio di quell’anno, avvertì l’importanza strategica

L’

di Brindisi e immediatamente inviò lo sperimentato Hernando de Alarcòn ad ispezionare le condizioni difensive del porto e della città, nominandolo, il 22 di dicembre, Castellano di Brindisi e al contempo responsabile delle fortificazioni dell’intera provincia di Terra d’Otranto. «Castellani dell’Isola in epoca vicereale risultano essere stati i seguenti: fino al 1540 Hernando de Alarcòn; dal 1576 al 1592 Lorenzo Carrillo de Melo; tra il 1592 e il 1601 Melchiorre Barrios de Los Reyes, Jerònimo de Herrera e Juan de La Reja; del 1602 al 1627 Juan Ortiz de Mestanza; nel 1679


Da sinistra, lo stemma del Ferreira nella chiesa di Santa Teresa e a destra la ricostruzione grafica dell’armi del Ferreira. Sotto il castello Alfonsino

Diego de Sagredo; fino al 1689 Luis de Monroy e dal 1690 al 1710 Aloysio Ferreyra.» [Introduzione di R. Jurlaro alla “Cronaca dei Sindaci di Brindisi 1529-1787” di P. Cagnes e N. Scalese] Trascorsi poi i due secoli… «Fu il 20 luglio del 1707, quando giunse a Brindisi la notizia che l’esercito austriaco era entrato a Napoli e che sul trono si era insediato Carlo III d’Austria. Il castellano del Castello di terra, senza aver ricevuto alcun ordine o disposizione in merito, inalberò la bandiera imperiale degli Asburgo. Il castellano del Forte a mare – Aloysio Ferreyra – non fu invece dello stesso avviso e trascorsero giorni di tensione che videro persino lo scambio di qualche cannonata tra le due guarnigioni. Tutta la città finalmente si schierò con l’impero d’Austria e festeggiò il nuovo re sfrenatamente durante ben otto giorni, con manifestazioni festose d’ogni genere, alle quali, finalmente, si associò anche il Forte a mare.» [“Cronaca dei Sindaci di Brindisi”] Dopo l’ingresso degli Austriaci a Napoli però, la situazione militare a Brindisi rimase di fatto in stallo fino all’anno seguente quando, il 21 aprile 1708 e per soli due giorni, si videro per la prima volta in città soldati tedeschi, una settantina in tutto, arrivati con il generale imperiale conte di Caraffa, il quale visitò i due castelli, i torrioni e le cortine. Poi, null’altro per ancora altri cinque anni, durante i quali le guarnigioni

spagnole continuarono a permanere nei due castelli. Tra il 4 e il 15 di dicembre 1713 giunsero in porto una ventina di grosse navi napoletane cariche di soldatesca spagnola, portando anche un buon numero di mogli e figli. Erano uniformati alla tedesca giacché, sfrattati da Napoli, sarebbero passati a prestare servizio in Ungheria. Si trattava in totale di tremila cinquanta militari e circa mille tra mogli e figli, e il 10 giugno 1714 tutte le navi partirono per Fiume. Nella primavera del 1713, infatti, era stata firmata la pace di Utrecht e il 6 marzo 1714 il trattato di Rastadt che aveva legittimato il definitivo passaggio del regno di Napoli agli Austriaci. Carlo VI d’Asburgo, imperatore del sacro romano impero e kaiser d’Austria, assunse quindi ufficialmente anche il titolo di re di Napoli con il nome di Carlo III e nominò viceré il conte Wirich Philipp von Daun. E a Brindisi, infine, gli Austriaci in veste di nuovi governati vi giunsero formalmente verso la metà del 1715. «A dì 4 giugno 1715 vennero di presidio a Brindisi centocinquanta soldati tedeschi col di loro capitano, tenente ed officiali e a dì 18 andarono nel Forte e cinquanta con il tenente passarono al Castello di terra. La sera dell’istesso giorno venne in questa città il generale tedesco Valles e il giorno seguente andò nel Castello di terra e sbarrò le piazze [fece cedere le armi] agli Spagnoli e il giorno 20 andò al Forte e fece il medesimo. Discesero dal Forte in questa città settecento anime spagnole e cento in circa dal Castello di terra, mentre [quasi] nessuno di loro volle andare a servire a Napoli o in Ungheria il nuovo impero, preferendo, pur se in miseria, rimanere a Brindisi. Poi però, a dì 24 luglio 1715, tutti gli artiglieri spagnoli furono reintegrati nelle loro piazze, eccetto due vecchi perché inabili a servire.» [“Cronaca dei Sindaci di Brindisi 1529-1787” di P. Cagnes e N. Scalese] Ebbene, durante tutta quella lunghissima transizione dagli Spagnoli agli Austriaci, era castellano dell’Isola, cioè del Castello Alfonsino e del Forte a mare, Aloysio Ferreyra, il quale era stato nominato castellano dopo la morte – nel 1689 – del predecessore, Luis De Monroy. «Patrizio di Lisbona, Don Aloisio Ferreyra militò sotto le insegne dei re spagnoli Carlo II e Filippo V. Alfiere nell’esercito delle Fiandre, Capitano d’infanteria, e Mastro di campo nel vicereame delle due Sicilie, dopo aver ricoperto importanti incarichi militari fu inviato a Brindisi e nel 1690 fu destinato al comando del presidio del Castello Alfonsino. In conseguenza del trattato di Ultrech e della pace di Rastadt, passato il Napoletano dalla Spagna alla Germania, il 18 giugno 1715 il castellano Ferreyra – già dal 1710 ritiratosi volontariamente a vita privata – insieme a 700 Spagnoli, lasciò il R. Forte che venne occupato dai soldati tedeschi del generale Valles. In luogo di tornare in patria o passare in Ungheria al servizio del nuovo sovrano, come molti della guarnigione spagnola di Napoli, tutti i soldati con le loro famiglie preferirono restare a Brindisi, la di loro

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LE IMMAGINI A destra la Cappella del Carmine fatta costruire da Aloysio Ferreyra nella chiesa di Santa Teresa, sotto la lapide funeraria di Aloysio Ferreyra nella Cappella del Carmine della chiesa di Santa Teresa. Nella pagina accanto la facciata della chiesa

seconda patria.» [“Tipi di Benefattori: Aloisio Ferreyra” di P. Camassa in ‘Il Prossimo Tuo’ N.2, febbraio 1908] Così, improvvisamente, molti di quei soldati spagnoli, già da anni senza paga, si trovarono anche senza dimora, nonché esposti al pubblico ludibrio della popolazione brindisina il cui risentimento aveva già maturato una lunga stagionatura. «I tronfi Giannizzeri furono costretti, buttati alle ortiche i loro morioni impennacchiati e gli stendardi di Castiglia e Leòn, a reclinare mestamente il capo ad un ineluttabile, umiliante destino. La mano che impugnava salda l’elsa, si trovò protesa ed esitante alla richiesta di un obolo. Il destino dei militari spagnoli e delle loro famiglie divenne un problema molto sentito dal Ferreyra che, sotto la dura scorza dell’uomo d’arme, conservava la sensibilità e la nobiltà d’animo di un vero filantropo.» [“Delle insegne che ancora veggonsi nella città di Brindisi” di G. Maddalena e F. P. Tarantino, 1989] Quale nobile facoltoso e quale credente e praticante religioso che era, infatti, nel 1698 Don Aloysio, dopo alcuni anni di servizio a Brindisi aveva fatto costruire una cappella dedicata alla Vergine del Carmine nella appena ultimata chiesa detta di San Gioacchino – nel quartiere che allora si chiamava ‘degli spagnoli’ e successivamente intitolata a Santa Teresa – esprimendo la volontà di esservi a suo momento seppellito. Il 25 febbraio 1711, con atto pubblico del notaio Giuseppe Matteo Bonavoglia di Brindisi, Aloysio Ferreyra istituì un “Monte dei poveri” a suffragio dell’anima sua e di quella di suo fratello Michele, da poco deceduto. Il “Monte” fu fondato con un capitale di 9000 ducati che fruttavano una rendita annua di 600 ducati, da cui si dovevano detrarre annualmente: 50 ducati, da destinare ad aumento di capitale; ducati 180, come assegno di due cappellanie con l’obbligo per ciascuna della celebrazione di una messa quotidiana nella Cattedrale; e il rimanente – inizialmente quindi 370 ducati – da distribuire alle vedove e ai figli dei soldati spagnoli poveri del Regio Forte e, in loro mancanza, ai poveri della città di Brindisi. Inoltre, il 20 settembre 1715, con atto del notaio Giacinto Ernandez di Brindisi, istituì un “Monte di maritaggio” con cui assegnare la dote a quattro ragazze povere e onorate discendenti da soldati spagnoli,

annualmente scelte per sorteggio il giorno della festa del Carmine alla presenza del priore dei Carmelitani scalzi del convento di Santa Teresa. Il “Monte” fu fondato con un capitale di 5000 ducati, dalla cui rendita annua di 400 ducati si dovevano prelevare 200 ducati per l’acquisto delle quattro doti di 50 ducati ciascuna, mentre altri 200 du-

cati dovevano essere assegnati ai padri Carmelitani, per solennizzare maggiormente la festa de Carmine, che si doveva celebrare nella sua cappella della chiesa di Santa Teresa. Il 13 maggio 1719, Don Aloysio volle riformulare il suo testamento, nominando suo erede universale il Capitolo della Cat-


tedrale di Brindisi e disponendo che alla sua morte l’erede facesse l’inventario di tutti i suoi beni e procedesse alla loro vendita, il cui frutto era da destinare al capitale di un unico “Pio Monte” la cui la rendita sarebbe stata così destinata: 50 ducati per l’aumento del capitale; 180 ducati per le due cappellanie; 50 ducati per la degenza dei poveri nell’ospedale cittadino; e il rimanente da dispensare ai soldati poveri del Regio Forte e del Castello dell’Isola, agli orfani e vedove dei soldati spagnoli abitanti nella città di Brindisi con esclusione dei discendenti del mulinaro, del barbiere, del macellaio, del fornaio, del servitore e del marinaio addetto all’imbarcaturo di Santa Maria del Casale. In mancanza di sufficienti poveri spagnoli, le restanti terze dovevano essere concesse ai poveri, orfani e pupilli di detta città di Brindisi. Il 3 ottobre 1724 Don Aloysio Ferreyra passò a miglior vita nella sua casa, sita nella Ruga Magistra nelle adiacenze della chiesa domenicana della Maddalena. Non fu sepolto nella chiesa di Santa Teresa come avrebbe desiderato, ma nella Cattedrale, però nella sua cappella in Santa Teresa fu comunque creato un cenotafio con lapide marmorea – rimasta tuttavia incompleta della data di morte – recante inciso l’epitaffio da lui stesso composto, poi sormontata da uno stemma in gesso con cimiero ornato da lambrecchini piumati. Lo stemma familiare, che era inciso su di una lastra marmorea, invece è andato perduto durante lavori di ristrutturazione. Il Capitolo della Cattedrale procedette a dare esecuzione al testamento, e la vendita

di tutti gli immobili, delle suppellettili, delle argenterie e degli ori, accrebbe il fondo iniziale del Monte a 17000 ducati, una cifra decisamente considerevole – la paga di un capitano del Forte era di 15 ducati al mese – e fu redatto un primo elenco di poveri spagnoli ai quali fu distribuita anno per anno la rendita del “Pio Monte Ferreyra”. Un documento ancora conservato nell’archivio del Capitolo relativo all’anno 1739, riporta 290 persone beneficiate, ognuna delle quali ricevette 25 grana e il fondo continuò ad essere elargito secondo le disposizioni testamentarie per quasi due secoli fin quando, con la caduta del regno di Napoli e sua conseguente annessione al regno d’Italia, l’amministrazione del fondo fu laicizzata e passò alla Congregazione di Carità del Comune di Brindisi il cui consiglio di amministrazione in data 15 giugno 1912 deliberò “la revisione dello statuto del Monte Ferreyra nel senso di devolvere i suoi introiti principalmente alla beneficenza ed alla cura degli infermi della città di Brindisi, non esistendo da tempo guarnigione spagnola nel Forte, non esistendo in conseguenza vedove e orfani di soldati spagnoli e, per mutate condizioni, non esi-

stendo una categoria di poveri del Forte”. «Le famiglie povere beneficiate in una delle ultime distribuzioni delle rendite del Pio Monte Ferreyra, per l’anno 1940, furono 279 per un totale di 737 persone; la somma erogata fu di lire 2310 e ogni persona ricevette 3 lire. I cognomi delle persone beneficiate che componevano i vari gruppi familiari erano i seguenti: Arigliano, Cafarella, Caravaglio, Carrasco, Castiglia, Colonna, Consales, De Pegnas, Di Mueta Fari, Lafuenti, Livera, Lopez, Martinez, Piliego, Pilo, Pina, Romano, Rodriguez, Scivales, Siena, Titi, Versienti, Vitale. Non figuravano più diversi altri cognomi, come Albanese, Carrera, De Pegnas, Fuente, Funtò, Sierra, che, invece, erano inclusi negli elenchi del Settecento e dell’Ottocento». [“Il Pio Monte Ferreyra e i Giannizzeri di Brindisi” di Giuseppe A. Andriani in ‘Archivio Storico Pugliese’ N.44, 1991] Così Don Pasqualino Camassa concluse il suo articolo del 1908 sul Ferreyra: «Sinceramente compianto, Don Aloysio moriva il 1724. L’iscrizione lapidaria lo chiama ‘padre dei poveri e degli orfani’ a lui applicando il biblico ‘Tibi derelictus est pauper; orphano tu eris adjutor’».

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CULTURE

Novanta anni e 27 aviatori brindisini decorati: la città e l’Aeronautica

- TFUUFNCSF DFTTÛ EJ FTJTUFSF M BFSPQPSUP militare - nel 1993 avevano lasciato la città gli aerei del 32° Stormo: il passaggio alla Base ONU sndiBrdi

fu la naturale evoluzione di quell’esperienza di Gianfranco Perri

olto diverso, certamente molto più funzionale e probabilmente anche più bello sarebbe risultato l’impianto urbanistico della Brindisi del XX secolo se non fosse mai esistito l’aeroporto militare, diretto epigono dell’idroscalo militare e diretto precursore dell’odierno aeroporto civile, la cui presenza ha irrimediabilmente bloccato ogni possibile sviluppo della città verso nord: iniziando dalla costa interna al porto fino a Materdomini, e poi proseguendo sulla costa esterna da Materdomini a Punta del Serrone e quindi eventualmente fino a Punta Penne, e poi dalla costa estendendosi via via verso l’interno. Eppure, da ormai varie generazioni, i brindisini c’eravamo abituati a quell’ingombrante e rumorosa presenza. Faceva di fatto parte della nostra brindisinità, e non solo per l’inoccultabile vastità degli spazi fisici occupati o per la troppo invasiva spettacolarità del continuo sfrecciare delle formazioni aeree, ma anche – e forse soprattutto – per la radicata compenetrazione di tanti uomini in divisa azzurra nel tessuto sociale della città. In molti avevamo un nonno, un padre, uno zio, un fratello, un cugino o un caro amico aviatore di base all’aeroporto di Brindisi; molte giovani brindisine avevano sposato un aviatore di servizio a Brindisi, e molte mamme brindisine avevano un figlio in aeronautica. Una prova inconfutabile di quest’ultima affermazione? Ebbene, nell’Albo degli eroi decorati al valor militare dell’Aeronautica Militare Italiana dal 1929 al 1945, sono ben 27 i brindisini presenti – ufficiali, sottufficiali e avieri – tra i quali: la medaglia d’oro S. Tenente Leonardo Ferrulli; le 7 medaglie d’argento: Antonio

M

Caravaggio, Aristide Caroppo, Filippo Guarnaccia, Luigi Brancasi, Luigi Zito, Mario Mauro, Nicola Titi; le 16 medaglie di bronzo: Annibale Pagnotta, Cosimo Prete, Donato Caputo, Efisio Panzano, Giuseppe Ponzetta, Giuseppe Santerini, Mario Laguercia, Raffaele Ippolito, Roberto Consiglio, Rodolfo De Giorgi, Santo Coppola, Torquato Mandriota, Vincenzo Todisco, Vittorio Di Bello, Vittorio Gallo, Vittorio Marinazzi; e le 4 croci di guerra: Edoardo Giordano, Franco Grieco, Teodoro Gigante, Teodoro Grasso.


I G-91 del 32° Stormo di Brindisi in volo lungo la costa e sulla città

Sarà certamente per tutto questo e per molto altro ancora, che la notizia della soppressione dell’aeroporto militare di Brindisi decretata in data 11 settembre 2008 fu colta con molta sorpresa e con non poco rammarico da una gran parte dei brindisini. Dallo status di “aeroporto militare aperto al traffico civile”, quello di Brindisi passò allo status di “aeroporto civile appartenente allo Stato e aperto al traffico civile” con il trapasso dei beni del demanio militare aeronautico, a cominciare dalle piste non più funzionali ai fini militari, al demanio aeronautico civile in quanto strumentali all’attività del trasporto aereo civile. Una parte della storia degli ultimi 90 anni – e più – di Brindisi era stata troncata, e alcune famiglie brindisine dovettero separarsi o trasferirsi. In effetti, anche se l’Aeronautica Militare fu creata il 28 marzo 1923, l’aeroporto militare di Brindisi, iscritto alla Marina Militare, esisteva da già vari anni come idroscalo militare. Le sue più lontane origini risalivano agli albori della stessa aviazione italiana, coincidendo con gli anni iniziali della prima guerra mondiale. Il suo primissimo nucleo fu una stazione provvisoria per idrovolanti creata il 6 dicembre 1914, quando della ventina di apparecchi dei quali disponeva allora la Regia Marina, a Brindisi furono assegnati 3 idrovolanti Curtiss. Erano apparecchi di legno e tela, e furono inizialmente

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depositati sulla nave Elba e successivamente sulla nave Europa, in attesa che si completasse la costruzione di un apposito hangar in un’area al confine tra le due zone costiere denominate “Posillipo” e “Costa Guacina” sul lato ovest dell’avamporto. Nel 1916 la stazione fu potenziata divenendo l’Idroscalo Militare di Brindisi, sito in località Costa Guacina, appena fuori dal porto interno a sinistra, sulla fascia costiera compresa tra il canale e Fontanelle, con di fronte uno specchio d’acqua dalle condizioni naturali ideali, dal quale si levarono in volo gli idrovolanti delle tre squadriglie operanti durante gli anni della Grande guerra. Una squadriglia era guidata da Orazio Pierozzi, eroico aviatore deceduto in volo di addestramento nel 1919 dopo aver guidato innumerevoli azioni di guerra vittoriose, ed a lui, dopo la tragica morte, fu intitolato l’idroscalo. Le altre due squadriglie erano guidate da altrettanti formidabili aviatori, Umberto Maddalena e Francesco De Pinedo, piloti entrambi divenuti celebri per le loro straordinarie imprese aviatorie, e anche loro deceduti in volo, nel 1931 e nel 1933 rispettivamente. Nel corso del 1916 furono costruite sei aerorimesse per gli idrovolanti da bombardamento progettati dall’ingegnere Luigi Bresciani, morto in un incidente di volo ed il cui nome fu dato agli hangars. Adiacenti e a nord degli hangars Bresciani, si costruirono anche tre hangars per dirigibili, i quali però per ragioni di sicurezza furono dismessi e trasferiti a San Vito. Gli hangars Bresciani invece, con muratura di tufi e cemento e con copertura a botte con sesto ribassato in solaio latero-cementizio, sono ancora oggi in situ, utilizzati dall’ONU. Negli anni Venti Brindisi divenne sede dell’86° Gruppo Idrovolanti dotato di apparecchi Macchi M.24 e poi Marchetti S.55 e sorse così la necessità di nuovi hangars la cui costruzione, predisposta a nord degli hangars Bresciani, fu commissionata alla Società Officine Savigliano di Torino. I quattro hangars Savigliano, ognuno a pianta rettangolare di circa 54x60 metri, furono completati intorno al 1930: ossatura reticolare metallica a una campata e rivestimenti in lamiere ondulate zincate, cupolino centrale di aereazione a doppia falda in materiale policarbonato, con quattro accessi verso la banchina di circa 51 metri d’apertura e più di 12 metri di altezza. L’ottima struttura metallica, nonostante la sua vicinanza al mare è rimasta pressoché intatta ed è tuttora funzionale, tant’è che anche questi quattro enormi hangars sono oggi gestiti dall’ONU. All’inizio degli anni Trenta, con l’auge dell’aeronautica, fu decisa la costruzione dell’aeroporto terrestre in contiguità con l’idroscalo. Si procedette all’esproprio ed acquisto dei terreni agricoli necessari, e alla fine del 1931 iniziarono i lavori di costruzione. Il campo militare entrò in funzione nel 1933, inaugurato da Mussolini il 30 luglio, con pista di lancio in asfalto orientata N10°W con 50 metri di larghezza e lunghezza iniziale di 600


LE IMMAGINI A destra ancora aerei del 32° Stormo in volo su Brindisi, in bassoun G-91 Yankaee, nella pagina accanto l’aeroporto militare di Brindisi visto dall’alto

metri successivamente portata a 850 metri, attualmente non più operativa. L’aerostazione civile fu completata nel 1937 e nel 1938 fu intitolata ad Antonio Papola, in memoria del comandante di aeromobile civile deceduto il 13 febbraio 1938 per incidente di volo, mentre l’aeroporto militare mantenne la denominazione Orazio Pierozzi e su di esso, il 15 marzo del 1937 si formò il 35° Stormo con aerei SM.55 e l’anno seguente, 1938, si formò il Gruppo 95° con idrovolanti CANTZ.606, gli stessi che andarono in dotazione anche al Gruppo 86°. Nel corso della Seconda guerra mondiale fu realizzata dai tedeschi una nuova pista in asfalto orientata N55°E con 1500 metri di lunghezza e si intensificò l’attività militare a scapito di quella civile, finché questa si esaurì del tutto nel settembre del '43, quando l’aeroporto divenne base dei reparti aerei alleati di occupazione, sotto il comando inglese che nel 1944 costruì una terza pista in terra stabilizzata orientata N45°W e lunga 1800 metri, sulla cui traccia fu poi creata la principale pista di lancio attuale lunga 2600 metri. Dopo la Seconda guerra mondiale, l’attività aeronautica militare riprese gradualmente. Nel 1947 a Brindisi fu destinato l’83° Gruppo Soccorso Aereo con idrovolanti CANTZ.506 sostituiti a partire dal 1958 con idrovolanti HU.16A. Poi, con l’entrata nel 1949 dell’Italia nella NATO, arrivarono in dotazione i primi aerei militari americani. Tra il 15 e il 18 settembre 1950 la portaerei americana Mindoro sbarcò i primi 40 aerei Curtiss Helldiver 52.C. E nel giugno del 1952 dalla portaerei americana Corregidor furono sbarcati i primi aviogetti da caccia, gli aeroplani a reazione F84.G, mentre gli idrovolanti continuarono ad operare fino a tutti gli anni '60. Il 1° settembre 1967 sull’aeroporto militare di Brindisi fu ricostituito, con il 13° Gruppo caccia bombardieri ricognitori, il 32° Stormo che era stato originalmente costituito il 1° dicembre 1936 e che era stato sciolto il 27 gennaio 1943. Fu intitolato alla memoria del capitano Armando Boetto e dotato di aerei Fiat G.91R, rimpiazzati nel 1974 con i bireattori G.91Y fino alla loro sostituzione, entrati gli anni Ottanta, con gli AMX Ghibli. Il 32° Stormo rimase di base a Brindisi per quasi trent’anni, fino al luglio del 1993, e in tutti quegli anni compì un’intensa continua e

produttiva attività addestrativa e operativa nell’ambito dell’Alleanza Atlantica, acquisendo anche lo Status NATO di “combat readiness”, cioè di prontezza al combattimento. Nel 1993 il 32° Stormo fu dislocato ad Amendola – Foggia – diventando uno

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Stormo da interdizione, e fu così che “in una afosa mattina di luglio” la Bandiera di Guerra dello Stormo ricevette per l’ultima volta gli onori nell’aeroporto di Brindisi. Lo spostamento “d’ordine superiore dello Stato Maggiore” conseguì – perlomeno ufficialmente – a ragioni strategiche legate


ai cambiamenti geopolitici avvenuti nel Mediterraneo Orientale. «Rimane la consolazione che l’area aeroportuale – già sede del glorioso Idroscalo “Orazio Pierozzi” e dell’aeroporto civile “Antonio Papola” – e le piste da cui decollarono i Maddalena e i De Pinedo non siano state fagocitate dalla speculazione edilizia. Al posto dei G.91, infatti, continuano a operare i velivoli cargo con cui, dalla Base Logistica delle Nazioni Unite, il Deposito del WFP-UNHRD smista nel mondo gli aiuti alimentari e i farmaci alle popolazioni colpite da calamità naturali o guerre. E poi… Chi ha detto che la Bandiera del 32° sia andata via? Essa continuerà a sventolare negli occhi e nei cuori di quanti, in quegli anni, hanno avuto modo di apprezzare il valore e la generosità degli uomini dello Stormo». [‘Il 32° Stormo a Brindisi’ di Guido Giampietro] Ed è certamente vero; però è anche vero che nel 2008 – quindici anni dopo il trasferimento del 32° Stormo – l’aeroporto militare di Brindisi cessò di esistere e di esso oggi rimane solo un Distaccamento dell’Aeronautica, il cui pur esiguo personale militare garantisce comunque ininterrottamente l’assistenza logistica, la sicurezza e la difesa delle strutture e del personale dell’UNGSC (United Nations Global Service Centre) e dell’UNHRD (United Nations Humanitarian Response Depot), coadiuvando i voli cargo umanitari del WFP (World Food Programme) al quale proprio quest’anno è stato assegnato il Premio Nobel per la Pace. Brindisi e i brindisini, pertanto, ben possiamo sentirci ancora

orgogliosi del nostro aeroporto, già non più popolato di uomini in divisa azzurra, ma tuttavia ancora palese artefice di tante encomiabili gesta umane attuate su ali che furono gracili, di legno e tela, per poi

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divenire portentose, di acciaio e alluminio. Pertanto, probabilmente… non fu del tutto vana quella rinuncia ad un miglior impianto urbanistico della città, che cent’anni fa, fu imposta ai brindisini.


CULTURE

Brindisi e i brindisini quando in Italia

(e in tutta Europa)

successe un ‘48

Cesare Braico fu il più famoso tra i nostri concittadini antiborbonici: fu protagonista di una clamorosa evasione mentre stava per essere deportato in america di Gianfranco Perri uella prima volta nella storia in cui “successe un 48”, Brindisi apparteneva alla provincia di Terra d’Otranto del borbonico Regno delle Due Sicilie, così come era risultato dalla restaurazione post-napoleonica del 1815: in quel bisestile 1848 successe di tutto, e quella volta tutto partì proprio dall’Italia, dalla Sicilia in particolare, per dilagare in tutta l’Europa restaurata. È da allora che, quando si susseguono eventi caotici confusionari un po’ difficili da spiegare e spesso premonitori di grandi cambiamenti, si usa ricorrere a quel “è successo un 48”. 12 gennaio: scoppia la rivoluzione siciliana che proclama l’indipendenza dell’isola. 29 gennaio: Ferdinando II concede la Costituzione al Regno Delle Due Sicilie. 11 febbraio: a Londra è pubblicato il Manifesto del Partito Comunista di Karl Marx e Friedrich Engels. 15 febbraio: Leopoldo II concede lo Statuto al Granducato di Toscana. 17 febbraio: Carlo Alberto firma lo Statuto Albertino che ha concesso al Regno di Sardegna-Piemonte. 22 febbraio: a Parigi scoppia la rivoluzione che proclama la Seconda repubblica e Luigi Filippo fugge a Londra. 13 marzo: a Vienna scoppia la rivolta antiasburgica con occupazione studentesca dell’Università. 14 marzo: a Roma il Papa Pio IX concede lo Statuto per gli Stati di Santa Chiesa. 15 marzo: a Budapest scoppia la rivoluzione antiasburgica per l’indipendenza d’Ungheria. 15 marzo: a Berlino scoppia la rivolta popolare che è repressa nel sangue e che porta alle dimissioni di Metternich e alla concessione della Costituzione e del suffragio universale maschile nella Confederazione germanica. 17 marzo: a Venezia scoppia la rivolta che guidata da Manin porta alla proclamazione della Repubblica di San Marco. 18-22 marzo: Milano insorge Cinque Giornate contro gli occupanti austriaci, costringendoli a evacuare con il loro comandante Radetzky. 23 marzo: il Regno di Sardegna dichiara guerra all’Austria. 24 marzo: Papa Pio IX invia, contro l’Austria, un contingente pontificio sotto gli

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Il busto dedicato a Cesare Braico in corso Roma, a sinistra la lapide in un suo onore nel cimitero di Brindisi

ordini del generale Giovanni Durando e un contingente di volontari universitari al comando del generale Andrea Ferrari. Anche il Granducato di Toscana e il Regno di Napoli inviano alcuni contingenti di militari in appoggio alla guerra contro l’Austria.19 aprile: scoppia la guerra della Prussia contro i polacchi che lottano, vanamente, per l’indipendenza del proprio paese. 29 aprile: Pio IX rinnega la volontà di portare guerra all’Austria e richiama l’esercito pontificio. 29 maggio: le truppe napoletane e toscane in appoggio all’esercito piemontese di Carlo Alberto, fermano l’offensiva austriaca a Curtatone e Montanara. 27 luglio: dopo un continuo e logorante susseguirsi di sorti belliche alterne, le truppe austriache di Radetzky alla fine sconfiggono i piemontesi a Custoza costringendoli alla perdita di Milano e alla firma dell’armistizio. 12 settembre: la Svizzera adotta la Costituzione federale e nasce il moderno stato liberale. 16 novembre: a Roma il popolo assedia il Quirinale obbligando Pio IX a nominare un governo democratico, presto rinnegato dallo stesso papa il quale fugge e si rifugia a Napoli. 2 dicembre: a Vienna Ferdinando I è convinto ad abdicare in favore del nipote Francesco Giuseppe I, nuovo imperatore d’Austria. 10 dicembre: Luigi Napoleone Bonaparte, prossimo imperatore Napoleone III, è eletto presidente della Repubblica francese. 29 dicembre: a Roma si convocano elezioni a suffragio diretto e universale per scegliere i rappresentanti all’Assemblea costituente. Le prime notizie dei vertiginosi eventi sorti il 12 gennaio a Palermo – l’insurrezione antiborbonica – e riflessisi formalmente a Napoli il 29 gennaio – la

concessione della Costituzione – nella Terra d’Otranto e quindi a Brindisi, giunsero il 1º di febbraio. Dopo qualche momento di titubanza delle autorità, colte di sorpresa, la cronaca cittadina di quei giorni, abbastanza simile per tutte le città dell’intera provincia, registrò feste e tripudi con l’affissione alle cantonate dei manifesti della Costituzione. Tutto quanto avvenne a Lecce si ripeté a Brindisi, a Taranto, a Gallipoli, a Francavilla, a Manduria, a Martina e altrove. S’improvvisarono dimostrazioni al re e a Pio IX, s’inneggiò alla libertà, e tutti per moda si fregiarono il petto e i berretti di coccarde tricolori. «… Purtroppo però, quei bei gesti non corrispondevano alla realtà delle cose, perché il grosso della provincia giaceva nell’indifferenza e dopo i primi scoppi d’entusiasmo tutto era tornato allo stato primiero e le plebi dei paesi rimasero fredde – non comprendendo il significato della libertà ottenuta e forse meravigliandosi del troppo chiasso che facevano i pochi liberali – e spettatrici passive e diffidenti, non vedendo per loro alcun bene reale.» [“Gli avvenimenti del 1848 in Terra d’Otranto. Narrazione storico-critica” di Saverio La Sorsa, 1911]. Brindisi era capoluogo di distretto e quindi sede di sottintendenza, contava – nel 1847 – con 8529 abitanti ed era sindaco Pietro Consiglio. In città erano in auge i lavori – gli ennesimi – per la bonifica del porto, anche in vista della decretata istituzione della Scala franca, il tutto sotto il diretto auspicio del re Ferdinando II il quale, nel solo 1847 e acclamato da tutti i brindisini, aveva visitato ben due volte la città proprio per supervisionare l’andamento di quei lavori da lui promossi. «… E subito dopo che fu concessa dal re la Costituzione, a Brindisi Maria Grazia Della Corte fu madrina di due bimbe illegittime: una delle due fu chiamata Maria Giuseppa e di cognome Costituzione e l’altra Giovanna e di cognome Italia.» [“Cronaca dei Sindaci di Brindisi 1787-1860”]. Con la legge n.91 del 13 marzo 1848 fu istituita la Guardia nazionale per sostituire in ogni Comune del regno la gendarmeria nella tutela dell’ordine pubblico e la difesa dello Statuto. L’articolo 9 della legge affidava ad una commissione composta di quattro decurioni, presieduta dal sindaco, il compito di formare le liste dei candidati a far parte della Guardia nazionale. Tali liste comprendevano i cittadini con domicilio legale nel Comune, i quali, avendo le qualità indicate nell’articolo 2, avessero un’età non minore di anni venti compiuti. L’articolo 2 disponeva che la Guardia doveva essere composta da proprietari, professori, impiegati, capi d’arte e di bottega, agricoltori, ed in generale da tutti coloro che, avendo i mezzi di vestirsi a proprie spese, presentassero per la loro probità conosciuta, sicura guarentigia alla società. L’elezione degli ufficiali, sottufficiali e caporali doveva essere effettuata tra i membri della Guardia, a voti segreti e scrutinio pubblico. Quando in Terra d’Otranto Filippo Laudolina barone di Rigilifi, intendente di Lecce, ordinò la formazione della Guardia nazionale, a Brindisi fu nominata la commissione composta da Giuseppe Carrasco, Francesco Bianchi, Gioacchino Giaconelli e Antonio De Castro per la stesura della lista. La Guardia nazionale, composta da 400 individui, fu divisa in due compagnie e l’elezione delle cariche ebbe luogo il 6 e il 9 aprile nel recinto della Scala franca, risultando eletti gli ufficiali: per la prima compagnia il capitano Pasquale Perez, il primo tenente Pietro Magliano e i secondi tenenti Stefano Montaldo e Felice D’Errico; per la seconda compagnia il capitano Cosimo Tarantini, il primo tenente Giuseppe Catanzaro e i secondi tenenti Antonio Palumbo e Luigi Nervegna. Promulgata il 29 febbraio la legge elettorale,


LE IMMAGInI A destra la la lapide posta sulla casa di Cesare Braico in via Ferrante Fornari. nella pagina accanto l’abitazione e in basso Ferdinando II re delle due Sicilie

i comizi parlamentari furono indetti per il 20 aprile in primo grado e per il 3 maggio, in secondo. Gli elettori dovevano possedere ventiquattro ducati di rendita e gli eleggibili ben duecento cinquanta. Per protesta di popolo e parte della stessa borghesia, il 20 aprile le elezioni andarono deserte e il 3 maggio, scrutinati i 44 collegi di Terra d’Otranto, su un totale di 9 eletti non risultò alcun brindisino. Un certo fervore animò ovunque l’attesa della prima riunione del Parlamento fissata per il 15 maggio, ma quella si doveva convertire in una giornata di sangue. Mentre nel nord Italia era già in corso la guerra contro gli assolutisti austriaci, a Napoli i dissensi sorti tra i 164 eletti riuniti a Monte Oliveto e il re circa i poteri reali della stessa Camera, alla fine fecero degenerare le proteste cittadine in scontri armati portando alle barricate e all’urto violento dei liberali più radicali contro le forze regie. E sulla barricata di Santa Brigida, difesa principalmente dagli studenti, combatterono anche molti salentini, tra i quali in prima linea il brindisino Cesare Braico. L’entusiasmo dei giovani combattenti non valse però a fronteggiare la superiorità delle milizie borboniche, e queste riportarono presto una completa vittoria. La Camera dei deputati e la Guardia nazionale di Napoli furono sciolte dal re e furono indette nuove elezioni per il 15 giugno, fu sospesa la libertà di stampa e furono richiamate le truppe dall’Italia settentrionale, mentre i liberali più ragguardevoli scelsero darsi alla fuga nel tentativo di mantenere acceso lo spirito rivoluzionario nelle provincie. E così, quando il 19 i primi di loro portarono le notizie, a Lecce si elesse un comitato per la tutela delle libertà e dei diritti, si proclamò un governo provinciale provvisorio, si promosse la costituzione di commissioni di salute pubblica per ogni città della provincia e, tra altre azioni più radicali, finanche vi fu la “difformazione del telegrafo di Lecce e nei giorni 19 e 20 maggio 1948 avvenne un tentativo di simile reato in Mesagne e in Brindisi”. Parallelamente però, nelle campagne le masse contadine vivevano da tempo un avanzato deterioro delle condizioni di vita, comune invero a tutti i ceti popolari più poveri. E cosi, mentre il governo borbonico e le forze liberali si scontravano per definire i limiti e la portata dell’esperimento costituzionale, in varie province del regno cominciarono a registrarsi invasioni di terre demaniali e anche assalti alle proprietà. In Terra d’Otranto tutto ciò accadde in diversi centri agricoli, sia minori che maggiori, tra i quali Ginosa, Calimera, Galatina, Lizzano, Leporano, Manduria, Avetrana, Pulsano, Martina, Cellino San Marco e Francavilla. A quel punto, stretta fra i propositi di restaurazione di Ferdinando II ed i timori creati dalle agitazioni contadine, anche la borghesia liberale brindisina si divise e, così come accadde prima o dopo nel resto della provincia e dell’intero regno, la parte più numerosa e rappresen-

tativa di essa ripiegò su posizioni sempre più moderate, chiedendo infine che fosse restaurato l’ordine e che venissero garantiti le persone e i beni. Il sindaco di Brindisi, Pietro Consiglio, il 28 giugno dichiarò «… che nella sua città, meno pochi sventati, tutti vivono secondo lo Statuto della Costituzione e conseguentemente si uniformano alle leggi vigenti, rispettano le autorità costituite ed attendono la conservazione della tranquillità pubblica dalle truppe di linea e dalla Guardia nazionale.» [Archivio Provinciale in Lecce - S. IV, 527]. Gli antiborbonici irriducibili invece, nelle varie province del regno resistettero per ancora parecchi mesi tra mille difficoltà e tra le tante contradizioni sorte al loro interno, incapaci come furono di accordarsi su un unico percorso – pragmatico pur se non ideologico – su cui perseverare nella lotta, mentre gli eventi politici e militari precipitavano in tutta la penisola: fra settembre 1848 e agosto del 1849 fu debellata l’insurrezione siciliana con il bombardamento di Messina; nel Nord, fu battuto l’esercito piemontese e la Prima guerra d’indipendenza fu definitivamente persa e infine; si spensero a Roma e Venezia le ultime fiamme dei moti rivoluzionari. In Terra d’Otranto, una unità militare mobile di 4000 uomini al comando del generale Marcantonio Colonna, partita i primi d’agosto del ’48 da Napoli per la Puglia e giunta il 15 a Bari, il 13 settembre, dopo essere transitata per Manduria e Francavilla, raggiunse Lecce, ostacolando in tutta la provincia ogni minima resistenza liberale. Ferdinando II quindi, sciolse la Guardia nazionale e, sciolta il 13 marzo del 1949 anche la Camera dei deputati eletta nelle elezioni del 15 giugno ‘48, impulsò la dura repressione poliziesca militare e giudiziaria, di fatto iniziata fin dallo stesso ‘48. Il ministro Giustino Fortunato, nel tentativo di dare un volto legale alla soppressione della Costituzione, sul finire del 1949 cominciò a inviare da Napoli emissari nelle provincie

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affinché raccogliessero petizioni che la volessero abolita. Ne fece stilare un buon numero – 2283 in tutto il regno – e non mancarono quelle di Brindisi dove, comunque, neanche mancarono coloro che si rifiutarono di firmare. La prima petizione fu sottoscritta il 2 marzo 1850 da 200 notabili e il 6 marzo anche la Chiesa di Brindisi testificò la volontà del popolo, marinai e contadini, a volere che il re abrogasse lo Statuto. Il 13 dicembre infine, il decurionato di Brindisi deliberò inviare a Napoli una deputazione guidata dal sindaco Pietro Consiglio per chiedere al sovrano il ripristino dell’ordine pubblico con l’abrogazione della Costituzione già concessa nel ’48. “Confidenti nella clemenza di V.M. noi veniamo a deporre ai piedi vostri i rispettosi omaggi e ringraziamenti della nostra popolazione che ha potentemente inteso il bisogno di esternarle la viva gratitudine che si nutre per V.M. per averci salvati dall’anarchia, e fedeli nello eseguire il ricevuto incarico noi osiamo rispettosamente supplicare V.M. perché quello statuto costituzionale, che dato per la felicità de’ suoi popoli è stato convertito in pubbliche calamità perché si è voluto far servire alle private passioni, sia rivocato.” Napoli, 9 gennaio 1851. Alcuni dei sovversivi più esposti nei fatti del ’48-49, trovarono scampo nella fuga all’estero e molti partirono da Brindisi per Corfù. Tra loro, Vespasiano Schiavoni e Pasquale Gigli con passaporti procurati dall’arcidiacono Tarantini, raggiunti dopo alcuni giorni da Pietro Tarantini Troiani, Giovanni Schiavoni Carissimo e Carmine Caputo, e più tardi ancora seguiti da Oronzo De Donno, Gennaro Simini, Bonaventura Mazzarella e atri ancora, mentre Giuseppe Fanelli riuscì a fuggire – sempre via Brindisi – a Malta. «… A Brindisi facevano capo, infatti, per i frequenti approdi di legni, le corrispondenze con gli esuli napoletani in Grecia e in Francia, grazie a un gruppo alacre di brindisini antiborbonici, tra i quali gli attivissimi fratelli Catone e


Francesco Crudomonte, figli di Giovanni [un terzo figlio, avvocato Pietro, era da poco morto nel bagno penale di Brindisi, incarcerato per le sue idee sovversive] che assistevano preparavano e proteggevano le imbarcazioni clandestine, coadiuvati da Giacomo Santostasi, Angelo Miccoli, Giacomo Catanzaro, Nicola Perrone, e da altri. Si riunivano nel retrobottega di liquori di Vito Lisco, o nel caffè di Francesco Palmisano detto Cicciotto. Giorgio Prinari di Corfù serviva loro da intermediario coi capitani dei legni esteri, tra cui si distinse Gustavo De Martino, il giovane comandante del trabaccolo Elisa. Anche il viceconsole di Francia Leuvrier proteggeva gli attendibili. L’ispettore di polizia del porto chiudeva gli occhi e la dogana, che era diventata inefficace, lasciava fare…» [“Risorgimento salentino (1799-1760)” di Pietro Palumbo, 1911]. Decine di altri salentini invece, furono tratti in arresto e processati dalla Gran Corte Speciale che fu insediata a Lecce presieduta dall’avellinese Giuseppe Cocchia e che, dopo un’istruttoria durata due anni, ne condannò molti: alcuni alla pena del capestro poi commutata in ergastolo, e tanti perirono nelle terribili carceri borboniche. Giovanni Laviani di Brindisi fu processato nello stesso 1848 incriminato di “cospirazione avente per oggetto di cambiare la forma del governo, avvenuta nel corso del 1848 in Gallipoli”. Il 19 marzo 1849 in Brindisi fu arrestato il cittadino Teodoro Camassa, reo di portare al cappello una coccarda tricolore, e quindi processato. Nel 1850 furono processati e condannati Giovanni e Francesco Crudomonte – padre e figlio – in relazione a “discorsi e voci allarmanti fatte in pubblico a Brindisi verso i principi di agosto, avendosi in mira di spargere il malcontento contro il Real governo”. Il pluri-recidivo Giovanni Crudomonte, condannato a ventiquattr’anni di ferri e chiuso nel bagno di Procida, fu poi graziato nel 1859. E Cesare Braico – il più famoso brindisino an-

tiborbonico, futuro ufficiale medico garibaldino dei Mille, deputato del Regno d’Italia e autore di “Ricordi dalla galera” pubblicato nel 1881 – fu coinvolto nel processo alla setta “Unità Italiana” da cui il 1º febbraio 1851 uscì condannato a ben venticinque anni di carcere duro. Nel marzo del 1859 però, dopo dieci anni di carcere durissimo, sarebbe giunto avventurosa-

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mente a Londra con altri salentini – Luigi Settembrini, Sigismondo Castromediano, Nicola Schiavoni e Achille Dell’Antoglietta – quando il mercantile nordamericano David Stewart capitanato da Prentiss, noleggiato dal governo borbonico per trasportare sessantasei galeotti politici destinati all’esilio perpetuo in America, rocambolescamente fu fatto deviare su Cork in Irlanda, grazie all’intraprendenza del figlio di Settembrini – Raffaele – che si era imbarcato clandestinamente come cameriere. Ma di brindisini antiborbonici, a vario titolo processati e condannati dalla Corte di Lecce in relazione agli eventi iniziati nel ’48 e proseguiti negli anni successivi, ce ne furono anche parecchi altri, così come documentato negli atti dei “Processi Politici nella Corte Criminale e Speciale di Terra d'Otranto” classificati da Michela Pastore e pubblicati nel 1960 e 1961. Ecco i loro nomi: Giuseppe Nisi, Ignazio Mele, Cesare Gioia, Domenico Balsamo, Giuseppe Camassa, Cesare Chimienti, Giovanni Bellapenna, Tommaso Quarta, Francesco Daccico, Oronzo Ciampa, Pasquale Calabrese, Eugenio Raffaele De Cesare, Francesco Marinaro, Vitantonio Calò. Inoltre, ci furono anche quelli processati dalle corti di altre province e principalmente da quella di Napoli. In quel frangente storico di metà ‘800, quindi, furono varie decine i brindisini che pagarono molto pesantemente – alcuni di loro con la vita – la loro decisa adesione agli ideali della libertà e della giustizia e alla lotta contro l’oppressione e l’ingiustizia. Coraggiosi brindisini che, seguendo da vicino quei loro concittadini che solo mezzo secolo prima avevano iniziato quella stessa battaglia contro quello stesso nemico, dovevano ben presto – molti di loro – presenziare quella che nel 1861 sembrò essere la vittoria. Purtroppo, però, si trattò di una vittoria molto dubbia, forse finanche pirrica e, comunque, non certo risolutiva per le sorti del meridione italiano.


CULTURE

L’immaginario castello Angioino a Brindisi: una «storica» cantonata

due noti studiosi di storia brindisina ne ipotizzarono l’esistenza nella zona della chiesa del Monte: un errore frutto probabilmente di un equivoco di Gianfranco Perri

rendere una cantonata, nel passato significava letteralmente colpire con una ruota del carro uno dei cantoni, angoli di pietra presenti a delimitare un incrocio o un cambio netto del percorso. Oggi, invece, considerato che di carri e cantoni non se ne usano più tanti, quel dire riconduce all’idea di un’errata valutazione che porta a sbattere. Un qualcosa quindi, di meno netto di un banale errore e che, inoltre, presuppone l’involontarietà di chi quella cantonata la prende, cioè di chi quell’errore commette, magari a causa di un semplice equivoco o di un “palese fraintendimento”. E dato che la storia non è certo una materia immune a tali umane contingenze, succede che oltre ai falsi e ai rimaneggiamenti, non sia neanche tanto raro imbattersi in qualche cantonata, magari ripresa e reiterata da più di un accreditato autore. È questo il caso, credo, di quanto relativo al “castello angioino di Brindisi”. Nella “Storia di Brindisi scritta da un marino” di Ferrando Ascoli pubblicata nel 1886, alla pagina 106 e seguenti si riporta quella che è la descrizione dettagliata della struttura d’insieme del castello angioino di Brindisi con integrato il palazzo reale. Descrizione di fatto deducibile dalle disposizioni date nel 1277 da re Carlo I

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D’Angiò [il nuovo sovrano francese che aveva definitivamente sottratto agli Svevi della casa Hohenstaufen il Regno di Sicilia] al giustiziere della Terra d’Otranto in relazione ai lavori che in quel castello e palazzo reale annesso, dovevano essere ancora completati. Indicazioni tutte molto particolareggiate e che poco dopo, il 5 settembre dello stesso anno, furono integrate da altre relative specificamente al fossato in costruzione. Il tutto chiaramente documentato e conservato nei Registri Angioini conservati nell’Archivio di Stato di Napoli. Scrive Ascoli: «Oltre il castello, dov'è oggigiorno il bagno penale di Brindisi, conosciuto sotto il nome di castello di terra [quello Svevo], un altro castello era dalla parte opposta, nelle vicinanze dell'attuale ufficio di porto… Quest'altro castello doveva essere assai importante, a giudicarne dai lavori che il re, l'8 maggio del 1277, stando personalmente a Brindisi, stabiliva vi si dovessero eseguire dai costruttori brindisini Ruggero De Ripa e Nicolò di Ugento. Ed eccoli per disteso tutti quei lavori: …» Dal contenuto di quelle disposizioni si può dedurre che il castello era costituito da ben sei torri rotonde merlate: una dal lato del mare, che gira 17 canne dalla parte esterna e 9 canne e mezza dalla parte interna, con il parapetto dei merli alto 5 palmi e grosso 2 palmi, con i merli alti 10 palmi e larghi una canna e con distanza tra merlo e merlo di 5 palmi, e con anche l’astrico; una seconda di uguali dimensioni e caratteristiche dal lato dell’adiacente Arsenale, che era sull’area oggi occupata dalla stazione ferroviaria del porto; una terza presso la porta, che gira canne 17 e palmi 5 e mezzo dalla parte esterna e 8 canne e palmi 2 e mezzo da quella interna, con parapetto e merli uguali a quelli delle prime due torri; una quarta, più grande su uno degli angoli delle mura di cinta, che gira 24 canne esternamente e 12 canne e mezzo internamente; e le altre due torri, di caratteristiche architettoniche simili alle anteriori, disposte sul lato orientale. Tutte e sei le torri erano collegate da mura con parapetti merlati e con meniani, ognuno dei quali aveva decine di saettiere. D’accordo con Ascoli, inoltre, il castello era in parte protetto da un ampio fossato che andava dalla torre dell’Arsenale alla fontana Asiana o Patricia: era largo 5 canne e profondo 3 canne e mezza, era discosto 2 canne dalle mura delle torri ed era lungo 81 canne dal lato interno e 93 canne dal lato esterno. In quanto al palazzo reale, contiguo e di fatto integrato al castello, non sono deducibili dettagli circa le sue caratteristiche strutturali ed architettoniche. Nella citata comunicazione costruttiva, infatti, in relazione al palazzo solo si menziona la necessità di “presto completarvi tutte le porte e finestre, nonché gli altri lavori da maestro d’ascia”. Aggiunge Ascoli: «Questo castello era di molto giovamento a Carlo I: vi faceva alloggiare milizie, deporre armi e vettovaglie che abbisognavano per gli eserciti d’Oriente, vi teneva custoditi prigionieri, eccetera. Dal 7 aprile al 1° novembre del 1274 vi fu prigione Guidotto De Valencourt. Il re il 6 febbraio, dello stesso anno, ordina a Calcherio di Tolone di consegnare al castellano di Brindisi le armi e li arnesi da guerra che avevano servito all'armata di Acaja… Il 1º di dicembre, avendo ratificato la pace con gli Albanesi, ordina il 2 maggio dell'anno prosRappresentazione del luogo in cui sarebbe sorto l’ipotetico castello angioino Mappa di Brindisi disegnata da P. Camassa e B. D’Ippolito - Editata nel 1910, Sotto, l’immaginario castello angioino di Brindisi – Rappresentazione di Eugenio Corsa – 2021

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simo, per potere forse più facilmente mandare in patria i prigionieri, al giustiziere di Basilicata che li mandi a quello di Bari sotto custodia, e che questi li consegni al castellano del castello di Brindisi, dove debbono essere rinchiusi… A Brindisi, e probabilmente nel castello, nel maggio del 1277, v'erano fanti e cavalieri comandati dal milite Eustasio d'Ardicourt, e balestrieri a piedi e a cavallo col maestro dei balestrieri Enrico De Monti pronti a partire per l'Acaja.» Nella “Brindisi ignorata” di Nicola Vacca pubblicata nel 1954, alla pagina 155 e seguenti, si riprende e si integra lo stesso tema: «Sulla collina di Santa Maria del Monte Carlo I D'Angiò nel 1268 fondò il regio palazzo e il castello. Per distinguerlo dal vecchio castello di Brindisi, si chiamava castello di Santa Maria del Monte…» Segue la descrizione del castello e poi, Vacca aggiunge: «Con molta probabilità architetto del castello e del palazzo reale fu il famoso Pietro D'Angicourt che, essendo protomastro di corte, aveva ricostruito il castello di Lucera e assai verosimilmente fu l'architetto di Castelnuovo di Napoli [dove Carlo I D’Angiò aveva trasferito la capitale del regno, divenuto Regno di Napoli] infatti, come risulta dai Registri Angioini il re ordina di proseguire celermente il completamento dei lavori del castello di Brindisi seguendo rigorosamente i disegni del maestro Pierre D’Angicourt… Probabilmente una delle 6 torri era il poi denominato “Torrione del sangue” rappresentato già diruto e identificato con il numero 12 nella mappa di Blaeu del 1650, che però lo denomina “Belvedere”. Stessa denominazione “Belvedere” che è ancora presente nella pianta di Brindisi – disegnata da P. Camassa e B. D’Ippolito edita da V. Masciullo in Lecce nel 1910 – riportata quasi a ridosso e a sud della chiesa di Santa Maria del Monte… Non sappiamo con precisione quando, castello e palazzo, furono demoliti…

È facilmente intuibile che il castello di Santa Maria del Monte dovette essere disarmato e demolito dopo la costruzione del castello dell'Isola [l’Alfonsino] edificato, com'è noto, dagli Aragonesi dopo l'evacuazione di Otranto da parte dei Turchi nel 1481, giacché il nuovo castello difendeva più razionalmente del primo il porto e la città dalla parte del mare.» Disarmato e demolito? Un castello così imponente? E senza, di fatto, lasciare traccia materiale alcuna di sé? Senza che nessun altro – durante i 500 anni anteriori al libro di Ascoli – ne abbia mai più parlato esplicitamente? Un po’ troppo strano vero? Ebbene, ecco quanto a questo proposito Giacomo Carito commenta nel suo saggio “Il castello nelle fonti manoscritte e a stampa per i secoli XIII-XV” in “Il castello, la marina, la città: mostra documentaria” Editore Mario Congedo, Galatina 1998, pp. 30-44: «Pare da escludersi, per il periodo angioino, l’esistenza di un secondo castello in Brindisi proposta dall’Ascoli e dal Vacca. In realtà i documenti citati dai due studiosi sembrano riferirsi ad interventi sul castello grande di Brindisi [lo Svevo]. La supposta titolatura angioina di Santa Maria de Monte si deve a ‘palese fraintendimento’ del senso di una regia disposizione del 1273. In quell’anno Carlo I D’Angiò scrive ai castellani dei castelli di Brindisi e Santa Maria de Monte, invitandoli a favorire Roberto de Santoyn, procuratore di Gueredus De Gualtiero, nell’accertamento dell’ammontare dei capitali investiti dal suo assistito e nella riscossione dei relativi interessi. Qui per Santa Maria de Monte deve chiaramente intendersi, facendo riferimento ai valori di contesto, Castel del Monte e non un qualche castello prossimo alla chiesa di Santa Maria del Monte in Brindisi.» Chiesa questa – sita sull’attuale via De’ Flagilla che in salita giunge sullo slargo, l’antico “Belvedere”, che fa da raccordo con via Mattonelle – la

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cui esistenza è già documentata sia nel 1224 che nel 1231 e che, pur se in versione fisicamente alquanto ridotta, esiste tuttora come rimasta ristrutturata dopo essere stata colpita dai bombardamenti aerei del 1941. «Essa benché in quei tempi angioini fosse stata magnifica, per le rovine non di meno patite nella città si è ridotta in piccola forma, comoda però per celebrarci il santo sacrificio della Messa» [in “Memoria historica dell’antichissima e fedelissima città di Brindisi” di Andrea Della Monaca, Lecce 1674]. Un vero peccato però che quel “castello angioino di Brindisi” non sia mai esistito e sia solo riconducibile al frutto di una “storica cantonata” di due, comunque bravi e rispettabili, studiosi della storia di Brindisi, indotti fuori strada da un equivoco finalmente, anche se dopo ben più di cent’anni, identificato e del tutto chiarito. Peccato, perché se di un equivoco non si fosse trattato ed invece il castello fosse realmente esistito, quasi certamente non sarebbe andato distrutto e farebbe oggi bella mostra di se come la fanno gli altri castelli angioini di Puglia, quello di Lucera in primis e poi quelli a noi più vicini, di Manfredonia, Mola di Bari, Castro, Gallipoli, Copertino, Maglie e altri ancora. Per il resto poi, anche se l’immaginazione pura non dovrebbe proprio essere una caratteristica molto spiccata negli storici, bisogna riconoscere che tra i comuni mortali la capacità d’immaginare anche quello che non esiste o che non è mai esistito, è ciò che sta alla base di molte delle realizzazioni umane. E così, grazie alla bravura e alla disponibilità di Eugenio Corsa, entusiasta e poliedrico artista brindisino, di quell’immaginario castello angioino riusciamo finanche a disporre di un disegno, bello ed interessante, che ci illustra artisticamente come sarebbe apparso contestualizzato nella Brindisi del quattordicesimo secolo.


L’immaginario castello angioino di Brindisi – Rappresentazione di Eugenio Corsa – 2021 -

Dettaglio -


CULTURE

L’AVVENTURA COLONIALE: PRIMO PASSO, DA BRINDISI Il 12 ottobre 1869 l’ammiraglio Acton e il professor sapeto salparono verso la baia di Assab, in Eritrea di Gianfranco Perri on era stata completata del tutto l’unità del Paese – mancava ancora, tra altro, nientemeno che Roma – e già nel corso degli anni ’60 i governanti del giovane regno d’Italia avevano cominciato a volgere lo sguardo aldilà dei propri confini, convinti della necessità di dover provvedere con urgenza alla consolidazione ed all’espansione economica del Paese, anche in senso internazionale. Attraverso, quindi, l’apertura di nuovi traffici transeuropei, sia per l’importazione che per l’esportazione, soprattutto in vista delle nuove rotte commerciali – e marinare più in particolare – che si sarebbero create e rapidamente sviluppate con l’ormai prossima apertura del Canale di Suez che fu, infatti, inaugurato il 17 novembre 1869. Presidente del Consiglio in quell’anno era il generale Luigi Federico Menabrea, capo di governo per il quale “non prendere posto nelle nuove vie di comunicazione, per l’Italia sarebbe stata una grave iattura”. Ed in tale atmosfera di desiderio moda e volontà espansionistica, commerciale nonché territoriale, erano maturate varie iniziative italiane, private o pseudo-governative e alcune finanche non prive di stravaganza, che si erano però rivelate tutte poco fortunate in quanto a risultati concreti. Finché una ebbe esito! Un’iniziativa legata a un personaggio molto peculiare: Giuseppe Sapeto, ligure nato nel 1811 e morto nel 1895. Missionario dei Lazzaristi di San Vincenzo, andò prima in Libano e poi, nel 1838, in Egitto, da dove passando da Massaua penetrò in Abissinia e si aggregò alla missione che monsignor Justino De Jacobis vi aveva istituito. [De Jacobis, nacque nel 1800 a San Fele-Potenza e fu ordinato sacerdote a Brindisi il 12 giugno 1824 dall’arcivescovo Giuseppe Maria Tedeschi. Divenne vicario apostolico in Etiopia e vescovo ti-

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tolare di Nilopoli. Morì nel 1860 a Massaua e il 26 ottobre del 1975 fu da Paolo VI proclamato santo]. Svestito infine l’abito religioso, nel 1860 Capeto lasciò le missioni e andò in Francia e poi, dopo un paio d’anni, si trasferì a Firenze come professore di arabo nel Reale Istituto di Studi Superiori, finché nel 1864 passò al Reale Istituto Tecnico Vittorio Emanuele II di Genova, dove continuò a insegnare l’arabo fino al 1891. Il suo ventennale soggiorno in Etiopia e le ripetute perlustrazioni compiute lungo le coste del Mar Rosso lo indussero a convincersi della convenienza di una presenza dell’Italia su quelle coste e di quell’idea si fece fervente sostenitore presso il governo italiano, al

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LE IMMAGInI A sinistra da Brindisi a Assab per piantare in Africa il primo germe dell'avventura coloniale italiana-1869-70, sotto Assab 11 marzo 1870Particolare di un disegno di Walter Molino del 1965. nella pagina accanto Giuseppe Sapeto e Guglielmo Acton

quale la presentò più volte fin dal 1863 finché, alla vigilia dell’apertura del Canale di Suez, i primi di settembre del 1869, si recò all’allora capitale Firenze per concretamente proporre al governo l’acquisto di un lembo della costa africana del Mar Rosso, precisamente nella Baia di Assab, nella futura Eritrea. Evidentemente, fu convincente ed incontrò il favore del capo del governo Menabrea e soprattutto dello stesso re Vittorio Emanuele II. Il 2 ottobre 1869 fu firmata una convenzione segreta con il governo, nella quale il professor Sapeto dichiarò: «…Dal Regio governo italiano ricevo incarico di comperare sulle coste dell’Africa dei terreni, spiagge, rade, porti o seni di mare che mi sembrino adatti allo scopo indicatomi, e che per le spese occorrenti mi vengono dal Governo medesimo somministrati i fondi necessari… Conseguentemente mi obbligo di fare le dette compere a conto e per mandato del governo italiano, chiarendo che ogni terreno, spiaggia, eccetera che io acquisterò devo cedere in proprietà del medesimo, obbligandomi a rinunziare, come con la presente rinunzio, a ogni diritto di cui venissi investito per effetti dei contratti di acquisto i quali, sebbene firmati da me, si intendono stipulati per incarico e conto del governo medesimo, non essendo io in ciò che un semplice mandatario…» Firmato l’accordo con l’ex-missionario lazzarista, il governo italiano affidò all’allora capitano di vascello Guglielmo Acton – che proveniva dalla marina napoletana, aveva combattuto valorosamente a Lissa nella terza guerra d’indipendenza e conosceva la lingua araba – l’incarico di giudicare, in qualità di tecnico marino, la convenienza del progettato acquisto, nonché il compito di decidere in definitiva se autorizzare il completamento dell’operazione, accompagnando in situ – in incognito – l’acquirente designato, Giuseppe Sapeto. «…L'ammiraglio Acton ed io partimmo il 12 d’ottobre 1869 da Brindisi e arrivammo a Aden il 6 novembre, avendo attraversato il Basso

Egitto da Alessandria a Suez, dove imperatrici, principi, principesse, ministri e infiniti signori, più o meno o niente celebri, già erano accorsi all’apertura del Bosforo… Ad Aden noleggiammo una Saiah araba, una specie di tartana di un solo albero a calcese con una sola vela latina e, tagliato il golfo, passammo sulla sponda africana, dove nei giorni seguenti scrutinammo idrograficamente e commercialmente la costa e finalmente giungemmo ad Assab, che ha la rada di Buia al suo lato sud e quella di Lumah al lato nord. Poiché quelle terre e le due rade erano state dall’ammiraglio Acton giudicate idonee allo scopo più volte indicato, deliberai subito procedere alla compra. Pertanto, mandai a cercare i sultani, fratelli Ibrahim e Hassan ben Ahmad proprietari del luogo, i quali venuti da Margableh a Lumah e saliti sul nostro sciabecco, non furono restii a vendermi il loro sultanato, benché soltanto dopo uggiose lungaggini e stiracchiature senza fine acconsentissero a sottoscrivere il compromesso, con cui si obbligavano sul corano a vendermi Assab, al prezzo di sei mila talleri di Maria Teresa, ch’io avrei dovuto sborsare in capo di cento giorni, passati i quali, se non avessi stipulato il contratto definitivo di compra e pagatone il prezzo convenuto, sarei scaduto da ogni diritto datomi dal compromesso, e avrei oltracciò perduto i duecentocinquanta talleri dati per caparra ai venditori. Questo compromesso succedeva ai 15 di novembre 1869, e con esso nel portafoglio facevamo vela per Mokha, non avendo voluto l’ammiraglio andare a Massaua sopra il nostro trabaccolo, né si potendo per i venti contrari tornare in Aden per prendervi passaggio sopra un piroscafo europeo alla volta di Suez... In Alessandria d’Egitto mi separai dal mio socio, che con l’ammiraglio Isola, il commendatore Negri ed altre persone ragguardevoli intervenute quel 17 novembre all’apertura dell’Istmo, prese la via di Napoli, ed io poco dopo quella di Brindisi sopra il piroscafo della Compagnia Adriatica…» [Assab e i suoi critici di Giuseppe Sapeto - Genova, 1879] In quel mentre a Firenze era caduto il governo Menabrea e poi, il 14 dicembre 1869, succedette come primo ministro Giovanni Lanza, il quale per evitare anche la più remota possibilità di una qualche complicazione diplomatica, ricorse a un privato disposto a far apparire l’avvenuto acquisto come frutto della propria iniziativa. Lo trovò nella Società di navigazione genovese di Raffaele Rubattino e così, il 14 febbraio 1870 con a bordo

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LE IMMAGInI A sinistra Baia di Assab-mappa allegata al libro 'Assab e i suoi critici' di Giuseppe Sapeto-1879, sotto Assab-The first italian settlement in Africa-1880

Giuseppe Sapeto, salpò da Livorno il piroscafo Africa, nel suo viaggio inaugurale a Bombai attraverso il nuovo canale di Suez. Il 9 marzo, quasi alla scadenza dei termini contrattuali stipulati per la compra, Sapeto arrivò ad Assab e, superate le ultime difficoltà contrattuali, l’11 riuscì a perfezionare l’acquisto, ampliandolo alla strategica isola di Omm el-Bahar, che era sita proprio di fronte alla baia di Assab. Il 13 marzo, salutata da 21 colpi di cannone, la bandiera italiana fu issata su quel primo minuscolo possedimento italiano in Africa – un territorio costiero lungo circa 6 km e profondo circa 4 km tra il capo Lumah e il monte Ganga – comprato pacificamente e legittimamente come qualunque proprietà privata, e agli estremi nord e sud della zona acquistata furono apposti i cartelli con scritto: “Proprietà Rubattino comprata agli 11 marzo 1870”. Erano quelli, anni in cui Brindisi, nel nuovo contesto storico apertosi con la nascita del regno italiano, stava cercando di avviare un percorso proprio alla modernità. Nel 1862 il parlamento aveva approvato la costruzione della linea ferroviaria Ancona-Foggia-Brindisi e il tronco finale, Bari-Brindisi, fu aperto il 29 gennaio 1865 e completato con la tratta Brindisi-Lecce il 15 gennaio del 1866. Quell’opera completò la linea ferroviaria adriatica, una delle principali arterie d’Europa, destinata ad avere grandissima importanza nel commercio con l’Oriente, favorita come fu dalla Valigia delle Indie,

il collegamento diretto Londra-Brindisi-Bombay divenuto realtà nel 1870, a sua volta favorita dall’apertura del Canale di Suez nel 1869, nonché dal completamento del traforo ferroviario del Moncenisio, che dal 17 ottobre del 1871 comunicò l’Italia con il nord d’Europa. In tale contesto a fine 1870 si inaugurò la tratta ferroviaria urbana che collegò le stazioni Brindisi centrale e Brindisi marittima, mentre si completò la strada centrale creata per congiungere stazione ferroviaria e porto. Venne costruito il Great Eastern India Hotel, inaugurato nel 1870 di fronte al molo dove sarebbero attraccati i piroscafi dell’inglese Peninsula and Oriental Steam Navigation Company che il 25 ottobre del 1870 effettuò il viaggio inaugurale transitando attraverso tutta la penisola e imbarcando a Brindisi sul piroscafo Delta. Inoltre, nel 1869 si completò la diga di Bocche di Puglia che unì la terraferma all’isola di Sant’Andrea, e si realizzò il pennello del castello Alfonsino. Nel 1872 furono progettati e parzialmente iniziati i lavori di bonifica di Fiume grande, mentre quelli di Fiume piccolo, già progettati in epoca preunitaria, vennero eseguiti fra il 1870 e il 1880. In quanto ad Assab, per dieci anni il possedimento fu praticamente dimenticato finché, nel dicembre 1879, il piroscafo Messina della Rubattino, scortato dall’avviso Esploratore e dalla goletta Ischia della Regia Marina, sbarcò nella baia di Assab una squadra di operai per costruire una serie di infrastrutture portuali, dei pozzi ed un distillatore. A protezione dei lavoratori venne fatto scendere a terra anche un picchetto armato di 17 marinai al comando del tenente di vascello Martini. Nell’agosto dello stesso anno il possedimento fu ingrandito con l’acquisto dell’isolotto di Sennabor, a nord della baia, e di un tratto di costa a settentrione di Assab. Il 9 gennaio 1881 la bandiera del regno d’Italia fu solennemente inalberata, sancendo così l’inizio formale della dominazione coloniale, e il 10 marzo 1882 infine, Assab e la sua baia furono ufficialmente acquistati dall’Italia alla Rubattino. Aveva in tal modo preso l’avvio quella che dal 1° gennaio 1890 divenne la Colonia Eritrea, il primo territorio coloniale italiano, dopo che il 5 febbraio 1885 era stata occupata l’importante città portuale di Massaua che divenne capitale provvisoria del possedimento d’oltremare, e dopo che nel 1889 il controllo era stato esteso nell’entroterra con l’occupazione di Asmara. Un’avventura italiana che giunse al termine nel corso della seconda guerra mondiale: settantacinque anni dopo quel 12 di ottobre 1869, quando su un piroscafo della Compagnia Adriatica salparono da Brindisi con destino finale Assab, il visionario professore Giuseppe Sapeto e il futuro contrammiraglio Guglielmo Acton.

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CULTURE

QUANDO LA STORIA PASSAVA DA BRINDISI

nel 1943 anche l’epilogo dell’avventura coloniale italiana fece scalo nel porto di Gianfranco Perri ertamente, come del resto è naturale che sia, nella storia di ogni città e ogni paese si alternano gli alti e i bassi, tempi gloriosi e tempi che gloriosi lo sono un po’ – o molto – meno. E Brindisi, nella sua più che bimillenaria storia, di tempi veramente gloriosi ne ha avuti molti ed altrettanto numerosi sono stati i suoi tempi veramente tristi. Quindi, non è certo il caso di continuare a lamentarsi troppo e tanto meno di auto commiserarsi per star attraversando un prolungato periodo in cui rammaricano le tante evidenze della… diciamo, decadenza in corso. Soprattutto perché – e i dubbi in proposito certamente non mi assillano – le colpe non bisogna cercarle lontano, ed ancor più non bisogna cercar che da lontano possano giungere spontanee le soluzioni. Ci si deve rimboccare le maniche e, come già accaduto in tante altre occasioni più o meno remote, far invertire la rotta al corso della tribolata storia cittadina, a suon di lavoro, creatività ed entusiasmo. Son certo che si può e che, più presto che tardi, risuccederà e allora la città ancora una volta tornerà ad essere protagonista attiva della “Storia”. Riflessioni queste, che sorgono spontanee ogni volta che leggendo ascoltando o studiando “di storia” è del tutto naturale ed oltremodo frequente, imbattersi in Brindisi, a proposito delle epoche più diverse dell’umanità e a proposito delle circostanze più variegate. Qualche anno fa ebbi motivo di commentare «…E in quanti son passati da Brindisi nell’arco degli ultimi tremila anni? Tanti, tantissimi, un’infinità: da Brindisi e dal suo porto infatti, sono passati “tutti”, si proprio tutti. Da ben prima della nascita di Gesù Cristo fino a qualche decennio fa: ai tempi della classicità, della Roma repubblicana e poi imperiale, quindi in quelli delle crociate e poi, dopo la lunga pausa dei secoli bui di quello che era stato il porto più bello e il più sicuro del Mediterraneo, ai tempi moderni di fine

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‘700 e in quelli a cavallo tra ‘800 e ‘900 con la Valigia delle Indie, e anche dopo, ininterrottamente e nonostante le due grandi guerre del secolo scorso...». Ebbene, a quel commento oggi aggiungerei: oltre ad esserci passati “tutti”, nei tempi andati da Brindisi è passata anche “tutta la storia”. E così, ad esempio, solo qualche settimana fa, nel documentarmi per la stesura di un mio articolo sulla nascita dell’avventura coloniale italiana che – come scrissi su il7 MAGAZINE n.187 – mosse il 12 ottobre 1869 il primo passo proprio da Brindisi, di lettura in lettura giunsi a scoprire che anche l’epilogo di quell’avventura, di fatto conclusasi poco più di settanta anni dopo quel suo inizio, nel corso della seconda guerra mondiale, fu testimoniato da Brindisi, nel gennaio del 1943, naturalmente e ancora una volta dal suo porto. Era accaduto che agli inizi del 1941, le forze inglesi avevano intrapreso una travolgente avanzata sull’Africa Orientale Italiana e le residue truppe italiane al comando di Amedeo d’Aosta – una forza di 7000 uomini composta da carabinieri, avieri, marinai della base di Assab e circa 3000 truppe militari indigene – si erano ritirate sulle montagne etiopi, asserragliandosi dal 17 aprile al 17 maggio 1941 sull’Amba Alagi sotto l’assedio dalle truppe del generale Alan Cunningham. I soldati italiani, inferiori per numero e per mezzi, dopo una tenace resistenza si dovettero arrendere ai 39000 britannici i quali, in riconoscimento alla fermezza mostrata, resero gli onori delle armi ai superstiti, facendo conservare agli ufficiali la pistola d’ordinanza [un suggestivo filmato inglese registrò quel

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LE IMMAGInI 12 gennaio 1943, Stazione Marittima di Brindisi. Il ministro dell'Africa Italiana, generale Attilio Teruzzi, accoglie le navi Duilio e Giulio Cesare, sotto nave ospedale Duilio gemella della Giulio Cesare. Stazza lorda 22.000 tonnellate lunghezza 193 metri e poteva raggiungere la velocitàdi 20 nodi

nobile episodio di guerra: The Duke of Aosta Surrenders]. Poi, sgombrato il campo da ogni presenza militare italiana, gli inglesi in poco tempo completarono l’occupazione di tutti i territori e delle città dell’A.O.I. imprigionando tutti gli italiani uomini e concentrando donne vecchi e bambini in vari campi ad hoc. E fu dopo più d’un anno da quei fatti che, tra il 12 e il 13 gennaio del 1943 nel pieno della guerra mondiale, i piroscafi Duilio e Giulio Cesare giunsero nel porto di Brindisi provenienti da Gibilterra e diretti a Venezia. Erano salpati il 7 dicembre da Massaua in Eritrea, ed avevano circumnavigato l’Africa carichi di civili italiani – donne, vecchi, invalidi, feriti e tantissimi bambini – tutti ormai ex coloni di Etiopia Eritrea e Somalia che, dopo essere stati prelevati dalle loro case in seguito l’occupazione inglese di Adis Abeba – 6 aprile 1941 – e mantenuti nei campi di internamento britannici nel bassopiano somalo, venivano finalmente riportati in Patria. Erano parte dei quasi trentamila italiani che tra aprile del 1942 e agosto del 1943 condivisero quella sorte nel corso di tre missioni

di rimpatrio portate a felice compimento da quattro grandi unità della marina mercantile italiana – Saturnia, Vulcania, Giulio Cesare e Duilio – passate poi alla storia come “le quattro navi bianche”. Quattro grossi bastimenti, opportunamente attrezzati anche dal punto di vista sanitario, dipinti interamente di bianco con sulle fiancate vistose croci rosse e muniti di un lasciapassare speciale, accordato in seguito alle lunghe ed estenuanti trattative intercorse tra l’Italia e il Regno Unito con l’intermediazione iniziale degli Stati Uniti – curatori degli interessi britannici in Italia e a cui, fino al loro ingresso in guerra, erano anche affidati gli interessi italiani nei territori dell’A.O.I. occupati dagli inglesi – e poi della Svizzera. Dato lo stato di guerra tra Italia e Regno Unito, infatti, non fu facile definire i termini dell’accordo con cui alla fine si stipulò che i convogli navali con bandiera italiana avrebbero circumnavigato l’Africa – gli inglesi non permisero attraversare il canale di Suez costringendo a effettuare un viaggio di 23000 miglia – per giungere sino a Berbera, nella Somalia britannica, stabilendo la rotta, i porti neutrali, come e dove fare rifornimento ed altri dettagli operativi: le navi Duilio e Giulio Cesare avrebbero imbarcato nel porto di Massaua e per il rifornimento in viaggio del carburante fu concordato di utilizzare le due navi cisterne italiane, Arcola e Taigete, che trovandosi fuori dal Mediterraneo all’atto della dichiarazione di guerra dell’Italia, si erano rifugiate nel porto neutrale di Santa Cruz di Tenerife, nelle Canarie. Le quattro navi salparono da Genova e Trieste seguendo la rotta “Gibilterra, Sao Vicente, Capo di Buona Speranza, Port Elizabeth, canale di Mozambico, capo Guardafui, golfo di Aden e, infine, Berbera e Massaua”. La prima missione salpò agli inizi d’aprile del 1942 per giungere dopo circa un mese a destinazione, imbarcare i profughi e tornare subito in Italia, ripercorrendo le 23000 miglia attraverso mari spesso infestati da mine vaganti e da sommergibili potenzialmente ostili. Ognuno dei tre viaggi, la cui complessa organizzazione e realizzazione andò via via perfezionandosi, tra andata e ritorno durò circa tre mesi: aprile-giugno 1942, ottobre 1942-gennaio 1943 e maggio-agosto 1943. All’incirca 9500 coloni italiani furono rimpatriati ad ogni viaggio. Le quattro navi, noleggiate dalla croce rossa italiana alle rispettive società di navigazione – i piroscafi Duilio e Giulio Cesare al Lloyd Adriatico e le motonavi Saturnia e Vulcania alla Società di Navigazione Italia – furono radicalmente modificate per renderle adatte ad alloggiare i moltissimi bambini e le tante persone duramente provate dalla prigionia. La capienza fu aumentata, modificando gli spazi comuni e le cabine, fino a raggiungere 2500 posti per i passeggeri e per i marinai, le crocerossine, le suore, i medici, i tecnici vari e la scorta inglese che imbarcava e sbarcava a Gibilterra. Furono creati un reparto ospedaliero con più di un centinaio di posti letto, una sala parto, due sale operatorie, un laboratorio di batteriologia, un gabinetto dentistico, una farmacia, un reparto di isolamento per gli infettivi, un ufficio postale, due sportelli bancari, due bar, parrucchiere, calzolaio, biblioteca, cinema, eccetera. Ad ogni ripartenza infine, si provvide ad imbarcare giocattoli, cibo, indumenti e quant’altro utile per un viaggio così lungo e così peculiare. «…Trentamila persone circa rientrarono in Patria dall’A.O.I, tra il 1942 e il 1943: la società italiana che avevano lasciato vent'anni prima, e per alcuni anche molti di più, ormai non esisteva e quella attuale che li accolse aveva valori molto diversi; loro stessi – quelli che in Africa non erano addirittura nati – erano diversi da quando si erano allontanati dall'Italia. Il fascismo non era più la garanzia certa di una vita di lavoro, quel fascismo che, nella maggior parte dei casi, li aveva spinti a cercare fortuna in terre lontane o a migliorare comunque le proprie condizioni di vita con agi a volte per loro impensabili in Italia. Grandi delusioni, ricordi e amarezze accompagnarono ognuno di quei tanti viaggia-

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CULTURE

tori: la guerra sarebbe ancora continuata, mentre l'Italia assistendo all'epilogo della sua avventura coloniale si avviava verso l'apice della disastrosa guerra in cui s'era lanciata…» [“Il rimpatrio degli italiani dall’A.O.I.: le navi bianche” di Maria Gabriella Pasqualini, 1993] «Donne smunte, lacerate, accaldate, affrante dalle fatiche e scosse dalle emozioni. Bimbi sparuti che le lunghe privazioni e l’ardore del clima hanno immiserito e stremato fino al limite…» Si presentavano così alcuni dei coloni dell’ormai “ex impero” agli occhi di Zeno Garroni, uno dei regi commissari di quella missione speciale. Eppure, alla fin fine, quasi tutti si rinfrancavano e confortavano nella prospettiva del viaggio con destino Italia. «Il personale sanitario, che aveva frequentato un corso di Medicina tropicale e di igiene tenuto all’Università di Roma, per ogni nave era composto dal preesistente medico di bordo civile con i suoi infermieri, da un direttore sanitario e 6 medici della croce rossa e del Ministero dell'Africa Italiana, un farmacista, 14 infermiere volontarie ed un cappellano. I profughi imbarcarono nel numero di 700 al giorno per un totale di 2500 per nave. Venivano prima registrati, seguiva la bonifica con doccia, disinfezione, eventuale spidocchiamento, eccetera. Poi era stato istituito un punto di ristoro con bevande e panini,

LE IMMAGInI 17 maggio 1941-Amba Alagi. Gli inglesi rendono gli onori delle armi agli italiani, nella pagina accanto 2ª Missione rimpatrio-il periplo. Più in basso 17 maggio 1941-Amba Alagi. Il principe Amedeo duca d'Aosta comandante dell'esercito italiano in A.o.I. rassegna le truppe inglesi che gli hanno reso gli onori delle armi seguito dal generale vincitore Alan Cunningham

infine la destinazione nelle cabine o nei dormitori o nei reparti ospedalieri o in isolamento. Diversi erano, tra gli altri, i casi di tubercolosi, ma anche di alienati…» [“Il rimpatrio dei civili dopo la caduta dell'Impero: la complessa missione di quattro navi bianche durante la 2ª guerra mondiale” dell’ammiraglio Vincenzo Martines, 2018] Sulla via del rientro, all’arrivo a Gibilterra, come da accordi, gli inglesi a bordo si ritiravano in buon ordine con una cerimonia semplice ma pur significativa. Scendevano dalle navi con le autorità italiane e a terra si salutavano scambiandosi il saluto militare di prammatica. Alla ripresa del viaggio s’imboccava il mare nostrum ed aerei italiani sorvolavano i convogli facendo cadere sulle navi volantini di saluto, tra la gioia e l’emozione di tutti gli imbarcati che cominciavano a sentirsi a casa, e quindi protetti e al sicuro. Il governo italiano in effetti, si adoperò per prevenire le ripercussioni politiche

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che il rientro di una tale massa di italiani e soprattutto di italiane avrebbe potuto comportare, anche per le potenziali ricadute psicologiche di un rimpatrio imposto, affrettato e in difficili condizioni che, invece, ufficialmente, doveva essere considerato un temporaneo esodo “perché l’Italia sarebbe rientrata, al più tardi alla fine della guerra, in quei territori”. L’operazione doveva risultare un fatto positivo e non negativo, e l’organizzazione delle navi, la sistemazione di bordo, l’allestimento sanitario, i rifornimenti, costituirono uno sforzo, economico e organizzativo, imponente. Giudizi dei diretti interessati infine, se ne sono raccolti numerosi quanto tra di essi disparati, sia quelli privati che quelli via via resi pubblici. Del resto, le fasce sociali emigrate nell’impero erano di varia composizione e così la popolazione, che era stata internata dagli inglesi e che salì a bordo delle navi italiane, era di varia estrazione, per cui le reazioni alla vicenda del rimpatrio e il comportamento a bordo, così come le sensazioni e le valutazioni personali sull’andamento dell’intera operazione furono inevitabilmente molto diversificate, spesso – e naturalmente – fortemente condizionate dalle proprie e più intime esperienze. La prima missione ritornò in Italia il 21 giugno 1941, approdando nel porto di Napoli accolta da una grande folla e dalla principessa Maria Josè di Piemonte accompagnata dal ministro dell’Africa Italiana, Attilio Teruzzi. E poco dopo, inaspettatamente, salirono a bordo anche il re Vittorio Emanuele III e la regina. Per il rientro della seconda missione invece, per le navi Duilio e Giulio Cesare l’approdo selezionato fu il porto di Brindisi. Era l’alba di un freddo martedì di gennaio, il giorno 12 del 1943, quando iniziarono le manovre di ormeggio dei due maestosi transatlantici al molo principale della fiammante Stazione marittima di Brindisi, mentre tutta la città ancora dormiva. Sulla banchina all’interno della Stazione era già stato approntato un lungo convoglio ferroviario formato da vagoni passeggeri alcuni vagoni letto ed anche carri merci, ed il mattino seguente sarebbe cominciato il trasbordo di quei passeggeri il cui destino finale

era previsto nelle varie località del centro-sud. Tutti gli altri passeggeri avrebbero proseguito il loro viaggio in mare, fino a Venezia o Trieste. Poco prima di mezzogiorno, finalmente ammainata una fastidiosa ed insistente pioggerella, al cospetto di una folla di infreddoliti curiosi brindisini che si era a poco a poco radunata sul marciapiede antistante i giardinetti e la Capitaneria di porto, ecco giungere dall’interno della Stazione marittima un folto gruppo di ufficiali d’alto rango diretti di buon passo ad abbordare la nave Giulio Cesare. Erano appena scesi dalla nave Duilio che avevano già visitato e si accingevano a ripetere la cerimonia di solenne benvenuto ai passeggeri della nave Giulio Cesare. Erano guidati dal generale Attilio Teruzzi, il ministro dell’Africa Italiana giunto appositamente da Roma, e saliti a bordo furono ricevuti dalle bandiere, dai saluti militari con i classici fischi del nostromo e finalmente dalle note dell’inno di Mameli, tra gli applausi degli entusiasti passeggeri. In realtà c’era ben poco da applaudire e ancora meno da festeggiare. Si stava “celebrando” quella che era di fatto la fine della vicenda coloniale italiana, una fine triste e per molti aspetti drammatica, specialmente per i tanti che tra quelle decine di migliaia di italiani tornavano con il bagaglio pieno solo di ricordi rimpianti delusioni amarezze e ansie per i parenti e gli amici che non erano potuti tornare o, ancor peggio, tornavano con in cuore e in gola il dolore per coloro che già si sapeva non sarebbero mai più ritornati. Meno male che anche i bambini erano tanti, veramente tanti, e per tutti loro la vita sarebbe comunque ripresa e rifiorita, se non da subito, da lì a solo qualche altro anno ancora. E Brindisi con il suo porto, ancora una volta, era stata chiamata a testimoniare un passaggio fondamentale della storia. La storia questa volta, dell’avventura coloniale italiana, quella stessa avventura che proprio da Brindisi – esattamente settantatré anni e tre mesi prima – il 12 ottobre 1869 era iniziata quando su un piroscafo della Compagnia Adriatica salparono con destino finale Assab in Eritrea, il visionario professore Giuseppe Sapeto e il futuro ammiraglio G. Acton.

il7 MAGAZINE 31 5 marzo 2021


CULTURE

AERONAUTICA BRINDISINO IL PRIMO GENERALE

ricordando oronzo andriani nel 90° anniversario della sua morte di Gianfranco Perri

l 16 marzo, è ricorso il novantesimo anniversario della morte di Oronzo Andriani. Era nato a Brindisi in Via Conserva il 20 maggio del 1878, figlio di Pasquale Andriani, maresciallo dei Carabinieri Reali, e di Concetta Zaccaria. Alla sua morte, sopraggiunta nel 1931, non aveva ancora compito i 53 anni, eppure la sua carriera militare era stata straordinaria: era iniziata in giovanissima età – nel 1890 – nella prestigiosa Scuola militare della Nunziatella di Napoli ed era giunta al suo apice nel 1925, con la promozione al grado di Generale di Brigata Aerea che gli fu conferito non ancora compiti i 47 anni. Fu infatti proprio Andriani, il primo italiano in assoluto ad indossare la divisa azzurra di Generale dell’Aeronautica Militare Italiana, dopo che il 28 marzo 1923 era stata formalmente costituita la nuova arma: la Regia Aeronautica. Fino ad allora, i piloti e gli arei militari appartenevano all’Esercito, mentre gli idrovolanti e i rispettivi piloti appartenevano alla Marina Militare: per tale motivo, fu della Marina Militare il primo nucleo dell’aeroporto di Brindisi, la stazione per idrovolanti creata il 6 dicembre 1914 con tre velivoli Curtiss. Dalla Nunziatella Andriani, passò a frequentare la Regia Accademia Militare dell’esercito di Modena, da cui uscì nel 1898 – a vent’anni – con il grado di sottotenente e fu assegnato al corpo dei bersaglieri: al 12º Reggimento con sede a Milano. Erano quelli gli anni in cui l’aviazione in Italia e nel mondo cominciava a dare i primi passi e Andriani, appassionatosi da subito al volo e agli aerei, iniziò a frequentare la scuola di volo a Malpensa dove, nel 1909 gli industriali Giovanni Agusta e Gianni Caproni ave-

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vano realizzato un campo d’aviazione per far volare i loro prototipi, ed in seguito vi avevano creato anche una scuola di pilotaggio. Nel gennaio del 1912 il già pilota brevettato Andriani entrò a far parte, da comandante della scuola di volo, dell’appena costituito Battaglione aviatori del Real esercito italiano e nel settembre di quello stesso anno fu asceso a capitano e quindi nominato comandante del battaglione: “Primo Battaglione di Aviatori Malpensa”. Tra i piloti del battaglione, tanti diverranno assi ed eroi della Grande guerra, tra loro anche Francesco Baracca. «Il 26 novembre 1912, in una notte alquanto nebbiosa, il capitano Andriani, i tenenti De Rossi, Lampugnani, Venanzi e Baracca, ognuno sul proprio aereo, effettuarono una serie di voli tendenti a sperimentare i fari ad acetilene posti sugli aerei per il riconoscimento del terreno di atterraggio. In volo notturno si spinsero a grandi altezze, discendendo poi con impressionanti voli librati nelle tenebre… Il 16 marzo 1913, Oronzo Andriani esperimentò il primo collegamento aereo di telegrafia senza fili. Alzatosi in volo con il suo aereo Nieuport, su cui era stato montato un apparecchio ideato da un allievo di Guglielmo Marconi, raggiunse la città di Novara e da una quota di mille metri si inviarono cinque telegrammi che furono ricevuti tutti regolarmente e chiaramente alla base di Malpensa.» [“La base navale di Brindisi durante la Grande guerra” di G. T. Andriani - 1993].

il7 MAGAZINE 36 26 marzo 2021


LE IMMAGINI A sinistra il generale di Brigata aerea Oronzo Andriani, qui sopra presso l’Aerodromo di Taliedo, Andriani sul bimotore da bombardamento, il Triplano Caproni

All’inizio della Grande guerra Andriani, al commando della 6ª Squadriglia di stanza sul campo d’aviazione di Campoformido presso Udine, si distinse subito per coraggio e valore, tanto che gli fu conferita la Medaglia di bronzo al valor militare con la motivazione seguente: “Andriani Oronzo, da Brindisi, capitano dei bersaglieri, battaglione aviatori. Compì numerose ed importanti ricognizioni, azioni offensive e segnalazioni del tiro alle nostre artiglierie, dando prova di grande ardire e noncuranza del pericolo. Fatto segno a vivo fuoco avversario, ebbe varie volte il velivolo colpito. Regione Carsica, 24 maggio - 24 agosto 1915”. Meno di un anno dopo, avendo nel mentre assunto – dal febbraio al maggio 1916 – il comando della 5ª Squadriglia Caproni di stanza a Tombetta presso Verona, Andriani meritò una seconda Medaglia di bronzo: “Pilota aviatore militare e comandante di squadriglia, fu costante esempio di intrepidezza e di slancio al proprio reparto. Eseguì numerose ardite ricognizioni sul nemico ed azioni di bombardamento, mandando sempre a termine, con sereno ardimento e fermezza di volere, gli incarichi affidatigli, spesso navigando a bassissima quota, nonostante avesse l’aeroplano colpito da intenso e

ben aggiustato fuoco avversario. Trentino, 25 novembre 1915 - 7 maggio 1916”. Personalmente dal duca d’Aosta, il generale Emanuele Filiberto comandante della 3ª Armata, nel 1917 Adriani fu promosso da maggiore a tenente colonnello per meriti di guerra ed assunse il comando del corpo aeronautico della 3ª Armata destinata nelle zone di operazioni del Carso e di Trieste, mantenendo in quel periodo alle sue dipendenze numerosi virtuosi piloti, tra i quali i famosi Francesco Baracca e Gabriele D’Annunzio. Di quest’ultimo, oltre che istruttore di volo e comandante – nel 1º Gruppo volo – Andriani fu amico personale, ed il vate in occasione della festa dei bersaglieri, il 18 giugno del 1917, compose e volle personalmente declamargli la seguente entusiastica orazione: “Compagni, oggi è il Natale dei bersaglieri; è la commemorazione dell’origine: festa vera di giovinezza; ché l’Arma piumata è perpetuamente nella giocondità, nell’ardimento, nell’impeto e nella prepotenza. Ma per noi, oggi è la festa del nostro comandante Oronzo Andriani, ammirabile ed adorabile, del bersagliere esemplare che fu tra i primissimi a volgere i passi di corsa in volo temerario; a convertire la sua piuma ondeggiante in ala rombante, a trasferire sull’altezze le qualità sovrane della sua arma, rimanendole fedele in cielo come in terra; che del Primo gruppo di squadriglie ha saputo fare una delle penne maestre dell’alea della nostra vittoria”.

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CULTURE

Anche il celebre volo su Vienna IMMAGINI Oronzo Andriani nel 1925 in uniforme di generale di Brigata aerea aquell’aerodromo che era sorto nel 1910 vicino Milano in occasione della mattina del 9 agosto 1918, aerea Locanquando in piena guerra sette bi- Locandina coppa Schneider 1927 organizzata dal generale Andriani del primo Circuito Aereo Internazionale, la poi rinomata gara di veplani italiani guidati dal D’Annunlocità aerea. In quei primi anni che zio sorvolarono la capitale austriaca distribuendo migliaia di volantini propagandistici riscuo- seguirono alla fine della guerra, il pluridecorato ed esperto pilota Antendo risonanza mondiale, fu pianificato assieme a Oronzo Andriani, driani fu anche eletto presidente dell’Associazione Nazionale Piloti Aeronauti. il quale ne autorizzò l’esecuzione. Nel 1918, infatti, durante l’ultimo periodo del conflitto mondiale, il Con la costituzione della Regia Aeronautica nel 1923, Oronzo Antenente colonnello Andriani fu nominato comandante generale del- driani fu richiamato in servizio attivo e nel 1924 fu promosso colonl’Armata Aerea Interalleata presente sul fronte italiano, per cui co- nello assumendo il comando dell’Arma nella strategica regione ordinò direttamente tutte le missioni belliche aeree, incluse quelle milanese, quella che dal 1º gennaio 1931 divenne la 1ª Zona Aerea delle squadriglie inglesi francesi giapponesi e americane, fino alla Territoriale. Nel 1925 fu promosso generale di brigata aerea, primo aviatore italiano a raggiungere il grado di generale. Nel 1927 orgafine della guerra. Mancando pochi giorni al termine della guerra, con Regio decreto nizzò la prestigiosa Coppa Jacques Schneider, che quell’anno si didel 19 ottobre del 1918 ad Andriani fu conferita la prestigiosa Croce sputò a Venezia tra il 25 e il 26 settembre, e fu vinta dal pilota inglese di Cavaliere dell’Ordine Militare di Savoia con la seguente motiva- Sidney N. Webster su idrovolante Supermarine S.5 alla velocità rezione: “Comandante di un gruppo di aeroplani sul fronte della Giulia cord di 453 Km l’ora, mentre il colonnello dell’Aeronautica Mario per oltre un anno, svolse la difficile azione di Comando con illumi- De Bernardi – che nell’edizione anteriore, a Hampton Roads negli nato criterio, con attività instancabile, con interessamento e grande Stati Uniti, era stato il vincitore su Macchi M.39 – fu secondo con abilità, così da trarre dalle dipendenti squadriglie un intenso e utile 479 Km l’ora su idrovolante Macchi M.52. lavoro. Esempio di salda virtù militare, di entusiasmo costante e di A dicembre del 1927, sulla soglia dei 50 anni d’età, Oronzo Andriani fede sicura, precorse tutti i suoi dipendenti con l’esempio della pro- si congedò dall’Aeronautica militare, tornando ad occuparsi a pieno dezza e dell’alto spirito di sacrificio. Fronte Giulia, giugno 1916 - dell’aviazione civile italiana. E il 26 marzo del 1928 fu tra i fondatori luglio 1917”. della SAM, la Società Aerea Mediterranea – di cui ricoprì la carica Conclusasi vittoriosamente la guerra, Andriani decise congedarsi per di Consigliere Delegato – poi confluita nell’Ala Littoria nel 1934 e dedicare tutta la sua esperienza e le sue energie allo sviluppo del- nell’Alitalia nel 1946. l’aeronautica civile. Ricoprendo un alto incarico in seno alla Lega Il Comune di Brindisi, in onore ed in memoria di Oronzo Andriani, Aerea Nazionale Italiana – la rivista mensile di aeronavigazione che ha deliberato intitolare al nome del suo illustre cittadino una via nel era nata nell’ottobre del 1912 – nel 1919 fu l’organizzatore della Mo- quartiere del Casale, sita in prossimità dell’aeroporto militare Orazio stra Aeronautica di Taliedo, tenutasi tra maggio e agosto presso Pierozzi. L

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earrTacini (presidente del’Assemblea Costiuente)a,ccanto la

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L’Arengario del 1-15 luglio 1971


CULTURE

Mezzo secolo fa il Battaglione San Marco sbarcò a Brindisi Con un bagaglio ricolmo di battaglie, sacrifici e caduti, medaglie, eroi e gloria di Gianfranco Perri na storia avvincente e gloriosa quella della nostra Brigata San Marco, le cui origini risalgono a più di trecento anni fa: a quando nel 1713 Vittorio Amedeo II di Savoia – appena assurto al titolo regale come re di Sicilia – istituì il “Reggimento Marina” a salvaguardia delle coste siciliane infestate dai pirati barbareschi, nonché del collegamento navale tra la capitale Palermo e la sabauda Nizza. Nel 1815, con la restaurazione postnapoleonica, il reggimento divenne “Brigata Marina” del ristabilito regno di Sardegna, partecipando nel 1848 alla prima guerra di indipendenza e poi, il 20 luglio 1866, con le forze armate già appartenenti al giovane regno d’Italia, alla sfortunata battaglia di Lissa nella terza guerra d’indipendenza. Tremila uomini imbarcati ad Ancona, agli ordini dell’ammiraglio Carlo Persano, tentarono lo sbarco a Lissa. Un’azione sfortunata, ma il coraggio dei fucilieri impressionò il nemico come ben testimoniato dalle parole dell’ammiraglio austriaco Wilhem Togetthoff: “Non è possibile non riconoscere negli italiani un coraggio straordinario, che giungeva fino al suicidio. Allorquando la ‘Re d'Italia’ affondava, i suoi Fanti di Marina si arrampicavano sulle alberature e con le carabine contro l'ammiraglia austriaca ferirono ed uccisero 80 marinai. Quelli che militavano sotto la bandiera dell'ammiraglio Persano erano certo animati dal più vivo amor di Patria”. In realtà, quando il 21 marzo 1861 – all’indomani della creazione del regno d’Italia con l’incorporazione del regno di Napoli al regno di Sardegna – Cavour stabilì la creazione della “Fanteria Reale Marina”, volle far tesoro della notevole esperienza che in tal campo aveva maturato la marina napoletana incorporandone tutto quanto poté alla nuova unità. Esperienza quella, che si era consolidata durante un lungo percorso iniziato nel 1734 con la fondazione stessa dell’auto-

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nomo regno di Napoli del re Carlo III di Borbone. Il 10 dicembre 1735 era stato creato da quel re il “Battaglione di Marina delle Galere” che poi, nel 1785, con il re Ferdinando I di Borbone era divenuto il “Real Corpo della Fanteria di Marina”, che rimase attivo fino alla fine del regno. Quando nel marzo 1878 il parlamento approvò la legge Benedetto Brin – l’ammiraglio e più volte ministro della Marina tra il 1876 e il 1896 – per il riordinamento del personale della marina militare, che stabiliva le norme di reclutamento dei vari corpi unificando nell’accademia navale di Livorno le due scuole di Genova e di Napoli, della sciolta Brigata Marina rimasero solo i “Fucilieri di Marina”: marinai d’élite, particolarmente abili col moschetto, che a bordo delle navi da guerra su cui erano in servizio si addestravano allo sbarco armato. Senza appartenere ad un corpo organico specifico, quei Fucilieri di Marina furono impiegati nella crisi greco-turca di Creta nel 1889 e poco dopo in Cina, nel corso della rivolta dei Boxer: una pagina di storia anche italiana, poco conosciuta però intimamente legata alla tradizione della San Marco, tant’è che la stessa caserma brindisina Ermanno Carlotto, costruita a fine anni ’80 a Brancasi – così come quella costruita nel 1926 a Tientsin – porta il nome del sottotenente di vascello Ermanno Carlotto, medaglia d’oro al valor militare alla memoria, che il 19 giugno 1900 venne mortalmente ferito a Tientsin durante un cruento assalto di Boxer, mentre era impegnato a difendere una scuola nel quartiere internazionale con i suoi venti fucilieri appena sbarcati dalla nave Elba.

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LE IMMAGINI La Brigata San Marco in piazza San Marco a Venezia il 30 marzo del 2019 nel centenario della fondazione del corpo dei Fucilieri di Marina Negli scontri con gli insorti a Tientsin, caddero anche altri sei marinai italiani, ed in altre località cinesi ne caddero anche altri undici degli ottanta che – con un contingente internazionale di marinai russi, inglesi, francesi, statunitensi, tedeschi, giapponesi, austriaci – erano sbarcati in Cina per proteggere le rispettive delegazioni, subito dopo le prime violenze scoppiate a Pechino contro gli occidentali e i cinesi convertiti al cristianesimo. In seguito a tali avvenimenti, d’accordo con le altre potenze occidentali, il successivo 5 luglio il Parlamento italiano decise un intervento militare con l’invio di un corpo di spedizione di 2000 uomini che al comandato del colonnello Vincenzo Garioni si andarono a sommare ai Fucilieri di Marina già presenti in Cina. Salparono da Napoli il 19 luglio a bordo dei piroscafi Minghetti, Giava e Singapore, appoggiati dagli incrociatori Ettore Fieramosca e Vettor Pisani e le regie navi Vesuvio e Stromboli, al comando dell’ammiraglio Camillo Candiani che andarono a sommarsi alle regie navi Elba e Calabria, già presenti nel porto di Schangai. La coalizione internazionale sommò un totale di circa settantamila uomini, che a più riprese sbarcarono in Cina per via via raggiungere i vari nuclei occidentali e le varie missioni cristiane sotto assedio e che in molti luoghi erano ormai allo stremo sotto i costanti attacchi dei Boxer e delle

truppe regolari imperiali cinesi. A metà agosto, fuggita da Pechino la corte imperiale, disintegrato il governo, dissolte le armate cinesi, spariti i boxers, le truppe alleate eliminarono ogni sacca armata e liberarono tutti gli occidentali e i cristiani cinesi della capitale cinese. Molte erano state le vittime di quei due mesi di terrore e molte furono le vittime della conseguente rappresaglia. I combattimenti proseguirono per ancora vari mesi sul resto del territorio cinese e il 21 gennaio 1901 le truppe italiane parteciparono all’occupazione di Tientsin. I negoziati di pace durarono a lungo e le trattative concluse nel settembre del 1901 imposero alla Cina una serie di pesanti condizioni, tra cui il diritto per le potenze occidentali di conservare ed eventualmente ampliare le preesistenti concessioni, nonché di mantenere guarnigioni permanenti armate a difesa delle rispettive legazioni e comunità. In base a tali clausole, l’Italia mantenne in concessione a Tientsin la fascia territoriale di mezzo chilometro quadrato che aveva occupato alla fine del gennaio 1901 sulla sinistra del fiume Pei-Ho, chiaramente delimitata da una lunga banchina eretta per circa 900 metri. Il governo di Roma quindi, ritirò la maggior parte dei militari mantenendo in Cina un corpo di occupazione costituito da 619 bersaglieri a Pechino e da 400 Fucilieri di Marina a Tientsin. Successivamente, nel 1902, il contingente fu ridotto a 440 uomini e 32 ufficiali. Nei primi mesi del 1905 infine, anche quell’ultimo contingente d’occupazione, agli ordini del suo comandante colonnello Giovanni Ameglio, partì verso

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CULTURE

l’Italia a bordo del piroscafo Perseo scortato dall’incrociatore Puglia. A sostituirli in via permanente, provvide un distaccamento di 250 Fucilieri di Marina appoggiati da una unità di carabinieri. Dalla Cina, i Fucilieri di Marina passarono ad azionare in Libia per lo scoppio del conflitto italo-turco del 1911 e le loro unità con la loro bandiera di guerra furono decorate di Medaglia d’Oro per le meritorie azioni effettuate. Con un corpo di 1605 uomini al comando del Capitano di Vascello Umberto Cagni, infatti, furono proprio i marò a conquistare i porti di Tripoli, Bengasi, Derna e Homs. Le stesse unità dei Fucilieri di Marina, nuovamente inquadrate nel 1915 nella “Brigata Marina” del regno d’Italia, si distinsero in più occasioni nel corso della Prima Guerra Mondiale, specialmente quando le loro capacità anfibie tornano vantaggiose nell’offensiva del Piave del 1918 e, soprattutto, per l’eroica difesa della città di Venezia, tanto che i veneziani manifestarono voler onorare il valore di quei fanti di marina, nientemeno che con l’attribuzione del nome e dello stemma – il leone alato dorato – del loro santo patrono: San Marco. Finita la guerra, il 17 marzo 1919 con decreto N.444 del re Vittorio Emanuele III, venne solennemente costituito in Venezia il “Reggimento Marina San Marco” su quattro battaglioni: Bafile, Grado, Caorle e Golametto. In seguito ai gravi disordini verificatisi in Cina nel 1924 nel contesto della lunga guerra civile, il distaccamento italiano con sede a Tientsin fu rafforzato con l’invio di altri 300 Fucilieri di Marina che giunsero al porto di Shangai con la regia nave Libia, e il 5 marzo 1925 ci fu la cerimonia ufficiale d’insediamento del così costituito “Battaglione Italiano Regia Marina in Cina”. Dopo un anno, ad aprile del 1926, fu inaugurata la nuova caserma intitolata a Ermanno Carlotto, una grande solida e funzionale struttura tuttora attiva come sede di uffici pubblici. Per il Natale di Roma, il 21 aprile 1932, Edda Ciano visitò il battaglione dei fucilieri San Marco e il 13 aprile 1928 il battaglione ricevette la visita del giovane ex-imperatore della Cina Pu-Yi – il famoso ultimo imperatore – che allora viveva a Tientsin e per l’occasione tutti i Fucilieri di Marina sfilarono in magnifica parata. Al momento dell’entrata dell’Italia nella seconda guerra mondiale, il 10 giugno 1940, la concessione italiana di Tientsin era presidiata da 300 marinai del San Marco e dopo Pearl Harbour, quando i giapponesi completarono l’occupazione della Cina disarmando e prendendo in consegna tutti i presidi stranieri, l’unica eccezione fu la concessione italiana di Tientsin. Dopo l’8 settembre però, la maggior parte dei marò italiani fu-

LE IMMAGINI Il 10 giugno 1971 il Battaglione San Marco sfila al corso di Brindisi: inizia una storia che continua tutt’ora. A destra la Caserma Ermanno Carlotto dei Fucilieri di Marina fondata a Tientsin nel 1926 rono fatti prigionieri dai giapponese e furono internati in Manciuria per poi, alla fine della guerra, essere trasferiti in Giappone e mantenuti prigionieri dagli americani fino al 1947. Quell’epopea della seconda guerra mondiale vide i Fucilieri del San Marco operare principalmente nell’Egeo e soprattutto in Nord Africa. La bandiera del Reggimento San Marco fu l’ultima bandiera militare dell’Asse ad abbassarsi in Africa, a Biserta il 9 maggio 1943. Il generale tedesco Hans-Jürgen Armin, successore di Rommel a capo dell’Afrika korp, affermò che il San Marco aveva i migliori soldati che avesse mai comandato. Dopo l’8 settembre alcuni reparti andarono a combattere per la RSI mentre il reggimento con molti dei suoi battaglioni si unì alle forze Alleate, e nel 1945 furono ancora i marò a liberare Venezia sbarcando per primi in laguna. Il 1º gennaio 1965 la Marina Militare ricostituì il San Marco come battaglione, inquadrandolo nella 3ª divisione navale la cui base venne stabilita a Taranto, presso i Baraccamenti Cugini. E la bandiera di combattimento fu solennemente riconsegnata al battaglione il 10 giugno 1965 a Napoli, a bordo della nave Garibaldi, alla presenza del capo del governo Aldo Moro e del ministro della difesa Giulio Andreotti. Nel giugno del 1971 – cinquanta anni fa – il “Battaglione San Marco” si trasferì da Taranto a Brindisi presso lo storico castello Svevo, dove risiede formalmente tutt’oggi, anche se dalla fine degli anni ’80 è accasermato nella nuova sede Ermanno Carlotto appositamente co-

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struita nella vicina contrada Brancasi. Nel 1992 il Battaglione San Marco divenne Raggruppamento Anfibio San Marco e nel 1999 prese la denominazione di Forza da Sbarco della Marina Militare. Il 1º marzo 2013 infine, riacquisì la sua storica denominazione di “Brigata Marina San Marco” conservando il suo motto originale “per mare, per terram”. E dal 2008, proprio all’interno del castello Svevo di Brindisi trova degna e consona ospitalità la suggestiva “sala storica” del San Marco, in un grande fabbricato prospicente alla piazza d’armi che negli anni ’70 e ’80 era adibito a dormitorio dei marò del battaglione. La sala offre un emotivo percorso tra foto, illustrazioni, video, armi, mezzi, uniformi, bandiere, medaglie, trofei, cimeli, documenti, fatti e personaggi che nei secoli hanno plasmato la storia della venturosa vita dei fucilieri di marina italiani. La storia moderna del San Marco – che è la storia del San Marco brindisino – dovette registrare la prima vittima militare italiana in una missione di pace all’estero: la missione in Libano partita da Brindisi il 21 agosto del 1982, in cui il fuciliere Filippo Montesi rimase mortamente ferito il 15 marzo 1983. Dopo il Libano, il Medio Oriente e l’Oceano Indiano divennero i nuovi orizzonti dei fucilieri del San Marco brindisino. Nel Golfo Persico a difesa delle navi attaccate dalle incursioni dei barchini dei pasadarn iraniani. In Kurdistan a protezione delle popolazioni curde investite dai gas iracheni. In Somalia per coprire l’evacuazione del personale delle Nazioni Unite. Nuovamente vicino casa, attraverso le acque dell’Adriatico nei tribolati paesi balcanici dilaniati da una prolungata guerra civile. Poi in Iraq e quindi in Afghanistan, sia con attività di addestramento e sorveglianza e sia di combat. Inoltre, sulle navi mercantili a difesa del commercio contro i pirati che infestano il Golfo di Aden e l’Oceano Indiano. Missioni che continuano, nono-

stante l’amara esperienza che, iniziata il 15 febbraio 2012 sulla petroliera italiana Enrica Lexie al largo delle coste indiane di Kelala, si è appena giuridicamente conclusa. Adesso, la Brigata San Marco, basata su tre reggimenti, sul gruppo mezzi da sbarco, unitamente al quartier generale e al battaglione scuole Caorle, con un totale di circa 3800 marinai è al comando di un contrammiraglio – dal 20 giugno 2020 il contrammiraglio Luca Anconelli – e conta su tre navi d’assalto anfibio LPD Fincantieri, San Giorgio - San Marco - San Giusto, con supporto aereo degli elicotteri Agusta-Westland e AugustaBell. Una Brigata in grado di svolgere sul territorio nazionale e in ambito internazionale azioni che vanno dalla difesa delle installazioni e dei siti sensibili del territorio, al raid anfibio, al concorso in ambito antipirateria fino al supporto combat in qualità di forza speciale, per far fronte in maniera sempre più efficace alle dinamiche esigenze operative delle forze armate italiane, sia in contesti di pace e sia nei malaugurati contesti di guerra. Ma Brigata vuol dire soprattutto uomini che quotidianamente con serietà e abnegazione si preparano e si addestrano alla prontezza e durezza d’intervento, alla flessibilità e mobilità d’impiego, nonché allo stesso tempo a potenziare e forgiare le proprie qualità tecniche ed umane nella moderna ottica della cooperazione nazionale e multinazionale in campo umanitario. A solo esempio, l’operazione del 2009, quando il San Marco supportò nel giro di poche ore la popolazione civile dell’Aquila e di Amatrice colpite dal devastante sisma o, ancor più recentemente, il supporto del San Marco alla popolazione di Brindisi in emergenza sanitaria per il covid-19. E con quegli uomini della “Brigata Marina San Marco” tutto ciò avviene, anche a riflettori spenti, costantemente tutti i giorni in terra di Brindisi, da sempre e per sempre terra di mare e terra di marinai. Tutti a Brindisi abbiamo avuto ed abbiamo più di un parente e più di un amico marinaio, quando marinai non lo siamo anche stati in prima persona. Certo, i tempi son cambiati e continueranno a cambiare, i nostri marinai sono ormai tutti professionisti altamente qualificati e dagli orizzonti sicuramente più vasti e più aperti di quelli che scrutarono coloro che li hanno preceduti negli anni e nei secoli indossando quella loro stessa divisa. Però, quel voluminoso bagaglio raccolto di volta in volta negli angoli più disparati del mondo – e dopo secoli di storia portato fino a Brindisi cinquanta anni fa colmo di battaglie sacrifici caduti medaglie eroi e gloria – con tutto il suo prezioso carico sicuramente continua e continuerà allo stesso modo di sempre ad animare sostenere e foggiare i tanti bravi fucilieri del San Marco, orgoglio brindisino.

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LA COPERTINA

Quando a 18 mesi il principe Filippo giunse a Brindisi in un cartone d’arance

La sua famiglia era fuggita da Corfù a bordo di un incrociatore britannico di Gianfranco Perri rince Philip: An extraordinary man who led an extraordinary life”. Questo il titolo di un articolo comparso sulla BBC News subito dopo la notizia della morte – lo scorso 9 aprile – del principe Philip duca di Edimburgo: “Un uomo straordinario che ha condotto una vita straordinaria”. Un articolo naturalmente abbastanza lungo, che passa in rassegna i tratti più emblematici di quella interessante ed intensa vita sulla quale sono stati già scritti non solo centinaia di articoli, ma interi libri e molti altri – certamente – ne saranno ancora scritti. Una vita centenaria che ha attraversato quasi per intero il turbolento secolo scorso densissimo di storia e di cambiamenti radicali, ed un quinto dell’attuale ventunesimo secolo. Una vita di affascinanti contrasti e contraddizioni, di servizio al suo paese di adozione e di un certo grado di solitudine.» Nato a Corfù come principe di Grecia il 10 giugno 1921 – figlio del principe Andrea fratello del re Costantino I di Grecia, e della principessa Alice di Battenberg, pronipote tedesca della regina Vittoria e sorella dell’ultimo viceré dell’India Louis di Battenberg, poi divenuto Mountbatten – sposò nel 1947 Elizabeth Windsor, poi incoronata regina d’Inghilterra, Elizabeth II, nel 1953. Questo, in sintesi, quanto raccontato nelle prime righe dell'articolo della BBC: Un uomo complesso, intelligente, eternamente irrequieto. Di lingua pungente e spesso irascibile, un uomo che raccontava barzellette di colore e faceva commenti politicamente scorretti, un eccentrico prozio che era stato in giro da sempre e verso il quale la maggior parte delle persone provava affetto, ma che troppo spesso metteva in imbarazzo se stesso e gli altri con cui si accompagnava... I suoi primi anni furono trascorsi a vagabondare, poichè il suo luogo di nascita lo espulse, poi la sua famiglia si disintegrò e si trasferì da un paese all'altro, nessuno dei quali era il suo...

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Q Il principe Filippo di Edimburgo, marito della regina Elisabetta. Nella pagina accanto il principe Philip da bambino a Parigi, poco dopo il suo passaggio da Brindisi, più sotto la HMS Calypso che nel dicembre 1922 riscattò da Corfù il principino e la sua famiglia portandoli a Brindisi

... Suo nonno paterno era stato Giorgio I re di Grecia. Sua madre nel 1901, al funerale della bisnonna la regina Vittoria, conobbe suo padre. La sua prozia Ella fu assassinata dai bolscevichi insieme allo zar russo Nicola II a Ekaterinburg nel 1918. Le sue quattro sorelle avrebbero sposato tedeschi e tre di loro avrebbero sostenuto attivamente la causa nazista, mentre Philip avrebbe combattuto per la Gran Bretagna nella Royal Navy.

Questo, invece letteralmente, il paragrafo dello stesso articolo della BBC che fa riferimento a " "Brindisi": « Quando Philips aveva solo un anno, lui e tutta la sua famiglia furono riscattati da un cacciatorpediniere britannico che li prelevò dalla loro casa sull’isola greca di Corfù dopo che suo padre, principe Andrea, era stato condannato a morte. Furono quindi trasportati e depositati in Italia, e così uno dei suoi primissimi viaggi internazionali Philip lo trascorse gattonando sul pavimento del treno abbordato in una città portuale italiana: era lui infatti “il bambino sudicio su quel treno desolato che una notte di dicembre partì da Brindisi” che la sorella Sophia avrebbe in seguito descritto nelle sue memorie.» l


Era accaduto che in seguito al colpo di stato militare del 11 settembre 1922, lo zio di Philip, il re Costantino XII di Grecia, era stato costretto ad abdicare e a lasciare il paese esiliandosi in Italia mentre suo fratello, il principe Andrea padre di Philip, era stato arrestato dal governo militare insediatosi in Atene. In quel turbolento frangente, il comandante dell’esercito reale, il generale Georgios Hatzianestis, e cinque importanti politici della deposta monarchia furono passati per le armi e si temette anche per la stessa incolumità del principe Andrea. Nel dicembre di quell’anno però, il tribunale rivoluzionario decise di bandirlo dal suolo greco e l’incrociatore britannico HMS Calypso, più o meno rocambolescamente, permise alla famiglia principesca di lasciare la Grecia e raggiungere Brindisi: Philip, di diciotto mesi d’età, fu trasportato a bordo in una cassa di arance e da Brindisi tutta la famiglia – padre, madre, Philip e le sue quattro sorelle – si trasferì in treno in Francia e si stabilì in un sobborgo di Parigi. Il principe Filippo durante la sua lunga esistenza sarebbe tornato più volte in Italia – la prima volta nel 1943 da ufficiale della Royal Navy partecipando allo sbarco Alleato in Sicilia come comandante in seconda della HMS Wallace con il grado di tenente di vascello – ma non più a Brindisi.

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CULTURE

ACCADDE A BRINDISI AL TEMPO DI DANTE

La città a cavallo tra il ‘200 e il ‘300 partendo dalla casa di Virgilio di Gianfranco Perri ante Alighieri – Durante Alagheriis – universalmente conosciuto come “Dante” il sommo poeta, nacque a Firenze a metà dell’anno 1265 e morì a Ravenna il 14 settembre del 1321. Visse quindi i quaranta anni della sua maturità a cavallo tra i secoli XIII e il XIV, mentre il calendario della storia vuole che il 25 marzo del 1300, Venerdì Santo – nel mezzo del cammin di sua vita – si perse nella “selva oscura, che la diritta via era smarrita”. Nella sua opera maestra “La Divina Commedia” Dante menziona esplicitamente Brindisi, a proposito del corpo del poeta Publio Virgilio Marone traslato da Brindisi – dove era morto il 21 settembre del 19 a.C. – a Napoli: nel Canto III del Purgatorio (…) "lo corpo dentro al quale io facea ombra; Napoli l’ha, e da Brandizio è tolto". Ed ancora nel Purgatorio – Canto V – nel momento in cui Dante si attarda ad ascoltare le anime dei pigri che continuavano a indicarlo, Virgilio lo scuote da quel suo indugiare con un’esortazione che è tutto un monito: "Perché il tuo animo si lascia distrarre sì punto di rallentare il cammino? Che importa di ciò che si mormora qui? Vien dietro a me, e lascia dir le genti: sta come torre ferma, che non croll già mai la cima per soffiar di venti".

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«…Il monito che Virgilio gli rivolge, ancora attuale per quanti si attardano ad ascoltare opinioni vuote di contenuto, è in forma di ammonimento perentorio a seguirlo senza ascoltare nessuno e comportarsi come fosse una torre che resta salda nonostante i venti – “Sta come Torre” – perché l'uomo che si perde in troppi pensieri non raggiunge l'obiettivo che si è prefissato. [Ebbene, il titolo assegnato al nostro Monumento dai suoi ideatori e progettisti, lo scultore Amerigo Bartoli e l’architetto Luigi Brunati, fu proprio quel “STA COME TORRE”] …Non è però solamente il Monumento ad essere torre, esso riprende infatti le sembianze di un timone di imbarcazione, la cui barra orizzontale idealmente si innesterebbe nell’incastro che disegna la nicchia dov’è posta la statua della Madonna “Stilla Maris”. Torre è ogni uomo, ogni persona che si richiama a quei valori eterni che ne costituiscono l’affidabilità per mezzo della coerenza...» [“Il Monumento al Marinaio e il suo messaggio che rimanda a Dante” di Giancarlo Sacrestano in il7MAGAZINE del 26 marzo 2021]. E, di nuovo nel Canto III del Purgatorio, Dante riferisce anche di un brindisino suo contemporaneo, Bartolomeo Pignatelli ‘de Brundisio’, già arcivescovo di Amalfi e di Cosenza grazie all’appoggio di Federico II e poi, cambiatosi di bando, arcivescovo di Messina con il beneplacito di Carlo I d’Angiò. E proprio in concomitanza con quella nomina ebbe luogo l’episodio per il quale Pignatelli doveva

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LE IMMAGINI Dante e Virgilio all’Inferno ritratti da Andrey Shishkin. Nella pagina accanto un disegno che riproduce la casa di Virgilio a Brindisi

essere maggiormente ricordato: è lui, infatti, il ‘pastor di Cosenza’ che mentre da Roma si recava a Messina profanò il cadavere del re Manfredi: dissotterrò il corpo dal tumulo di pietre sotto il quale i francesi lo avevano sepolto presso il ponte Valentino di Benevento e, trasportandolo a candele rovesciate e spente come si faceva con gli scomunicati, ne disperse i resti in terra sconsacrata presso il fiume Liri. Vicenda immortalata con evidente disappunto dal sommo poeta, che la fa raccontare all’anima di Manfredi: “Se 'l pastor di Cosenza, che a la caccia di me fu messo per Clemente allora, avesse in Dio ben letta questa faccia, l'ossa del corpo mio sarieno ancora in co del ponte presso a Benevento, sotto la guardia de la grave mora. Or le bagna la pioggia e move il vento di fuor dal regno, quasi lungo 'l Verde, dov'e' le trasmutò a lume spento”. Ricorre dunque a settembre l’anniversario numero 700 della morte di Dante che sopraggiunse ai suoi 56 anni. E cosa accadde a Brindisi in quegli stessi anni a cavallo di quei due secoli? Ricordiamolo in omaggio a Dante. Non aveva ancora compito Dante il suo primo anno d’età, quando Manfredi – re di Sicilia – il 26 febbraio 1266 trovò la morte sul campo

di battaglia di Benevento, sconfitto dalle truppe di Carlo I d’Angiò, che s’insediò sul trono di Napoli e che poco più di due anni dopo – il 29 agosto 1268 – fece decapitare nella piazza Mercato della capitale il giovanissimo Corradino di Svevia, figlio di Corrado IV nipote di Manfredi e ultimo discendente della dinastia degli Hohenstaufen, dopo averlo sconfitto nella battaglia di Tagliacozzo e aver così definitivamente debellato ogni residuo potere di quella dinastia cui era appartenuto il grande re e imperatore Federico II. Anche Brindisi dunque passò ad essere governata dagli angioini e anche a Brindisi, come nel resto del regno, si consumarono puntualmente – pur senza toccare la veemenza e l’ampiezza raggiunte nella Firenze di Dante – vendette e rese dei conti tra i vincitori e i vinti di quella lunga partita giocata in tutt’Italia tra guelfi e ghibellini. «…Il governatore di Brindisi Guglielmo Lando, parigino, irritò talmente l'animo delle popolazioni brindisine che, appena saputa la discesa di Corradino, la provincia fu tutta in armi. Nella rocca della città, il piccolo presidio del forte di terra al comando di Ruggero Cavallerio fu insufficiente a controllare la sollevazione [capitanata da Aroldo Ripalta]. Ma appena Corradino fu vinto a Tagliacozzo, e poi insieme col cugino d'Austria decapitato a Napoli, Carlo I mandò due capitani suoi, Pietro conte di Belmonte e Ruggero di Sanseverino con regia autorità, a punire i nemici pugliesi… Questi alcuni dei beni confiscati ai traditori di Brindisi: a Aroldo Ripalta, orti e vigne al luogo detto di S. Maria del Casale, nonché il suo magnifico palazzo che fu adibito a sede della curia regia e abitazione reale durante le permanenze in città del re; a Margarita Grispano, orti e vigne in mezzo Paticello; a Riccardo Russo, due case vicino a S. Martino; a Nicolò Marsiglia, due case e un casale vicino la chiesa de' Santi Simone; a di Federico Plateario una casa con giardino vicino a San Marzio; a Arageletto Lombardo una casa nella ruga dei Cellari; a Isola Lombardo una casa palaziata vicino S. Eufemia; a Bonifazio, una casa palaziata vicino S. Benedetto; a Goffredo Naturale e Gervasio di Matina, una terra con olivi nel luogo detto la Manna; a Tommaso, figliuolo di Andrea de Marco, una casa palaziata vicino S. Maria dei Morti ed altra casa palaziata nella ruga dei Sellari. Di molti dei nominati luoghi si è perso perfino la ricordanza e sarebbe perciò difficile stabilirne l’ubicazione.» [“La storia di Brindisi scritta da un marino” di Ferrando Ascoli, 1886] Quando nel 1271 morì il papa Clemente IV, gli succedette Gregorio X, Teobaldo Visconti da Piacenza, che fu eletto mentre predicava in Acri. Per raggiungere Roma il nuovo papa s’imbarcò per Brindisi e quando vi giunse – 750 anni fa – fu accolto magnificamente dalla popolazione: fu il secondo papa della storia, dopo Urbano II nel 1089, che toccò suolo brindisino. Per il terzo – Benedetto XVI – Brindisi dovette aspettare il XXI secolo. Anche la famiglia di Ruggero Flores – nato a Brindisi un paio d’anni dopo Dante – subì per quella resa dei conti, giacché suo padre, il tedesco Riccardo Blum, era stato falconiere dell’imperatore Federico II di Svevia e combattendo con Corradino di Svevia era rimasto ucciso nella battaglia di Tagliacozzo. Aveva Ruggero circa otto anni quando, abitando con la madre in una umile casa nei pressi del porto, fu notato dal templare Vassayl di Marsiglia, comandante di marina dell’Ordine del Tempio, il quale se lo fece affidare per introdurlo all’Ordine e al mestiere marinaro. Ruggero mostrò da subito grandi attitudini marinaresche tanto che appena ventenne gli fu dato il comando della nave Falcone, la più grande dell’Ordine, con la quale partecipò a numerose imprese contro i musulmani e nel 1291 si distinse nella difesa ed evacuazione di San Giovanni d’Acri. Ruggero passò a combattere contro gli angioini al servizio di Federico d’Aragona e, divenuto viceammiraglio degli Almogaveri, nel 1301 liberò Messina dall’assedio angioino. Dopo la pace di Caltabellotta del 1302, passò al servizio dell’imperatore d’Oriente Andronico II Paleologo, in guerra contro gli Ottomani. Entrò in Anatolia, impossessandosi di Filadelfia, Magnesia ed Efeso e respingendo i Turchi fino alla Cilicia e il Tauro. Poi, durante la primavera del 1304 respinse anche gli Alani, provenienti dal nord del Mar Nero e come ricompensa per i servizi prestati all’impero, Andronico lo nominò megadux – comandante della flotta – e gli diede in sposa Maria, sua nipote e figlia dello zar di Bulgaria, Azan. Quei successi del brindi-

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CULTURE

LE IMMAGINI La Chiesa di San Paolo Eremita - finita di costruire nel 1322

sino suscitarono però anche l’invidia del figlio dell’imperatore, Michele IX Paleologo, l’erede al trono che sospettoso di quell’ambizioso cavaliere trentasettenne brindisino, lo fece assassinare a tradimento, nel 1305, durante un banchetto a Adrianopoli. Naturalmente molti furono anche i cittadini di Brindisi beneficiati dal nuovo regime, e alcuni di loro furono anche elevati a cariche importanti dello Stato: Tommaso Rischinieri e Marino di Caramanico giudici della Gran corte vicaria di Napoli; Tommaso Cocciolo maestro della zecca; Pascale Guarino capitano delle navi in porto; Ugone di Villanova e poi Goffredo de Rivera capitani del Forte come successori di Ruggero Cavallerio; Enrico Cavallerio gran maestro degli arsenali di Puglia e protontino delle galere di Brindisi; Ruggero Castromediano, cavallerizzo maggiore; Jacopo Pipino di Brindisi, medico personale di Carlo II lo zoppo e professore magistrus di medicina per un trentennio, dal 1296 al 1326 nell’Università di Napoli fondata da Federico II; e altri ancora. Mentre il già citato arcivescovo Bartolomeo Pignatelli divenne consigliere particolare del re Carlo I d’Angiò e nel 1269 ebbe in compenso dei suoi servigi la signoria di Caserta. Il brindisino Tommaso Rischinieri invero, nel 1284 cadde in disgrazia e fu fatto impiccare dallo stesso Carlo I d’Angiò, in un impeto di collera da cui fu preso a causa dell’imprigionamento di suo figlio, il futuro re Carlo lo zoppo. Il re Carlo I giustificò quell’atto adducendo che fu proprio un consiglio invidioso del Rischinieri che lo indusse a fare imprigionare in Castel dell’Ovo, e poi impiccare, il nobile Lorenzo Ruffolo di Ravello e che fu – forse – anche per vendicare quell’impiccagione che il figlio fu catturato dall’aragonese Ruggeiro di Lauria. Fu condotto in Sicilia insieme con molti altri feudatari di parte angioina, parecchi dei quali furono giustiziati mentre il principe, per intercessione dalla regina Costanza, fu mandato in Catalogna e dopo varie vicissitudini e lunghi negoziati fu finalmente riportato in Sicilia e fu liberato nel 1288, essendo nel frattempo già succeduto al padre Carlo I d’Angiò che era morto nel 1285. Dopo la morte di Rischinieri,

tutti i suoi libri furono, dal nuovo re Carlo II d’Angiò lo zoppo, donati nel 1308 al suo medico personale, il già citato Jacopo Pipino. Carlo I ebbe in grande considerazione Brindisi, strategicamente importante in vista di un’espansione a Oriente. Per rafforzare le difese militari della città fece fortificare, ampliandolo, il castello svevo e fece porre sul canale d’entrata al porto interno una catena di ferro che durante la notte veniva tesa tra due torri. E si preoccupò della costruzione della Torre Cavallo nei pressi del luogo del naufragio di suo fratello (san) Luigi IX re di Francia: Pasquale Facciroso aveva lasciato once d’oro perché nel luogo detto “Scoglio del cavallo” fosse costruita una torre con faro e quando il re seppe che l’opera era rimasta incompiuta, ne volle personalmente progettare e finanziare il completamento, poi alla fine ultimato nel 1301 da suo figlio Carlo II, succedutogli nel mentre. In tutta la prima età angioina rivestì grande importanza anche l’arsenale marittimo di Brindisi che, già voluto da Federico II, fu finalmente fatto realizzare da Carlo I e fu poi più volte potenziato dai suoi successori. Mentre un’altra opera importante che il re Carlo I d’Angiò curò a Brindisi fu la zecca, per la cui sede fece costruire una nuova apposita struttura in sostituzione dell’antica sede sveva non più funzionale che era stata stabilita nella ex domus Margariti, che fu allora donata ai frati conventuali francescani che la ridussero a convento al quale, successivamente, affiancarono la loro grande chiesa di San Paolo eremita, completata nel 1322. Nei primi anni del regno di Carlo II d’Angiò, che iniziato nel 1285 durò fino alla sua morte avvenuta nel 1309, Brindisi soffrì una forte e lunga carestia, probabilmente anche a causa della lunga guerra contro gli Aragonesi – che con la rivolta dei Vespri del 1282 si erano insediatisi in Sicilia – durante la quale nel porto dimorarono frequentemente e a lungo gli equipaggi e i militi della flotta militare di Napoli. Nel 1298 quella guerra giunse fino alle porte di Brindisi, quando la città difesa dal capitano francese Goffredo Granvilla, resistette all’assedio dal capitano aragonese Ruggiero di Loira il quale in poco tempo aveva già preso Otranto e Lecce. «…Il capitano aragonese cingeva la città dalla parte mediterranea con l'esercito, e con la flotta che aveva in Otranto guardava la costa. E per

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LE IMMAGINI La Chiesa di Santa Maria del Casale - costruita tra fine ‘200 e inizio ‘300

mare e per terra, con la flotta e con l'esercito, scorreva e depredava i paesi circonvicini. Una volta, essendosi Ruggiero dilungato dal campo verso Mesagne con parte del suo esercito, il Granvilla stanco di stare sulle difese, uscì dalla città con tale e tanto impeto che già il campo nemico pericolava e avrebbe ceduto all'ardore dei Francesi, se Ruggiero con il valore e con le parole non fosse giunto in tempo per animare i suoi alla pugna e respingere in città il nemico per il Ponte grande. Però Goffredo per ultimo lasciava il ponte e Ruggero nelle prime schiere incorava ed eccitava i soldati alla lotta. "Cominciarono tra loro aspramente a combattere, et in un medesimo tempo Goffredo con una mazza ferrata percosse in testa Ruggero, e Ruggero ferì lui nel viso; ma perché la percossa che ebbe Ruggero era stata di maggiore importanza e l'aveva stordito, e il cavallo suo stava attraversato al ponte avendo egli lasciate le retini, Goffredo per abbatterlo in tutto punse il suo cavallo tanto forte che trovando il cavallo di Ruggiero per ostacolo, si gettò dal ponte dentro quel limaccio con lui sopra, tal che quelli ch'erano venuti a soccorrere Ruggero, rinfiammati d'animo cominciarono a gridare ad alta voce vittoria, e quelli che fuggivano, ritornati, diedero la caccia ai Francesi i quali erano sbigottiti avendo visto precipitare il capitano loro dal ponte credendo che fosse morto. E se Goffredo non si fosse riavuto presto, e per contrario se Ruggiero non fosse stato per quella percossa stordito più di quattr'ore, forse quel giorno sarebbe stata presa la città; la quale fu tanto vicina a prendersi, quanto il campo dei Siciliani ad essere rotto." Ma alla fine, Loira levò l'assedio, richiamato dal suo re in Sicilia...» [Ferrando Ascoli, 1886] Carlo II d’Angiò fece costruire in pieno centro urbano di Brindisi la chiesa di Santa Maria Maddalena, di cui era fervente devoto, a compimento del voto fatto durante la lunga prigionia sofferta in Aragona, e nel 1305 la donò ai padri predicatori dell’adiacente convento di San Domenico. In quegli stessi primissimi anni del ‘300 fu edificata la chiesa di Santa Maria del Casale, luogo di preferenza in cui sostavano

prima d’imbarcarsi per i loro possedimenti nel Levante i principi angioini di Taranto. “Si è pensato che Caterina II figlia di Carlo di Valois e sposa di Filippo d’Angiò, principe di Taranto e fratello del re Roberto, avesse chiesto che il suo matrimonio, celebrato nel luglio 1313, trovasse compimento nella nascita di un figlio. L’inverarsi del desiderio avrebbe giustificato la successiva munificenza, tale da far pensare possibile che Caterina di Valois e Filippo d’Angiò si fossero assunti l’onere della costruzione della grande chiesa in luogo di una supposta precedente cappella ove era l’immagine mariana cui grazia era stata impetrata. Ma – Giacomo Carito lo commenta e lo comprova chiaramente – la chiesa di Santa Maria del Casale era in realtà già costruita, o in via di costruzione, nel 1300”. Certo è che dopo la morte di Carlo II nel 1309, l’ascesa al trono di suo figlio Roberto d’Angiò coincise con un triste e tragico episodio che si consumò a Brindisi nell’estate del 1310: l’iniquo processo contro tutti i Templari del Regno di Napoli celebrato in Santa Maria del Casale. Riunitosi preliminarmente il 15 maggio 1310 su disposizione del pontefice Clemente V, dopo sette giorni s’insediò formalmente il tribunale presieduto dall'arcivescovo di Brindisi Bartolomeo da Capua. Il successivo 4 giugno furono ascoltate le deposizioni dei templari Giovanni da Nardò e Ugo Samaya, precettore del Tempio di San Giorgio, casa dei Templari a Brindisi. I testi, in carcere da due anni, dissero ciò si voleva dicessero, consentendo l’emanazione, nel 1312, delle bolle papali con cui si sopprimeva l’ordine e se ne attribuivano agli Ospitalieri la maggior parte dei beni in Italia. Il re Roberto d’Angiò fin dagli inizi del suo regno si occupò di ammodernare l’amministrazione dello stato napoletano e cominciò il suo governo alleggerendo le tasse ed estendendone il pagamento a feudatari e baroni che ne erano stati esenti fino ad allora. Il 9 marzo 1315 decretò che le unità di pesi e misure per il commercio, anarchicamente dissimili da città a città e da villaggio a villaggio, fossero uniformate per lo meno a livello regionale e stabilì che fossero proprio quelle di Brindisi a prevalere… “osservando che la città di Brindisi è più famosa che le altre città e terre di tutta la provincia di Terra d’Otranto”. Roberto governò a lungo, fino al 1343, sopravvivendo quindi a Dante per più di vent’anni.

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CULTURE

Quel misterioso quadro dell’800 che ritrae il porto di Brindisi

«Barche da pesca entrando nel porto»

l’opera di Sanford R. Gifford -1874 di Gianfranco Perri

urante quella settimana del Capodanno 2003-2004 trascorsa a New York, non poteva certo mancare la visita al Metropolitan Museum of Art, e così m’imbattei nella mostra “Hudson River School Visions: The Landscapes of Sanford R. Gifford”. Un pittore di cui non avevo sentito parlare prima: un famoso paesaggista americano dell’800. Veramente molto bella e interessante: tanti - 70 - quadri, olei su tela di dimensioni diverse, raffiguranti suggestivi paesaggi - campestri, marini, montani, eccetera - di varie parti del mondo, dall’America all’Africa, dall’Asia all’Europa, Italia compresa, del nord del centro e del sud. Venezia, Roma, Napoli, Palermo, eccetera. Parecchi anni dopo, dieci anni fa, quando nel 2011 raccolsi e pubblicai in un libro il meglio delle foto e dei rispettivi commenti postati su uno dei primissimi gruppi Facebook di brindisini, scelsi per la copertina la fotografia - postata non ricordo da chi - di un quadro che aveva attirato la mia attenzione per la bellezza del soggetto e per l’armonia della raffigurazione, che denotava inoltre un tocco artistico di grandissimo spessore. Soggetto del quadro era il porto di Brindisi con alcune barche a vela in primo piano e con sullo sfondo l’inconfondibile siluetta del castello Alfonsino. Ricordo che a suo tempo non ebbi il tempo di documentarmi sulla provenienza e sull’autore del quadro. Qualche anno dopo invece, quando nel 2015 decisi di scrivere e pubbli-

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care il libro ‘Brindisi raccontata’ in cui volli “raccontare alcuni dei vari racconti, scelti e riassunti tra quelli in cui mi ero imbattuto, scritti da viaggiatori del tempo e dello spazio che hanno conosciuto e scritto di Brindisi”, la ricerca di quei viaggiatori mi portò a scoprire che anche un famoso pittore di New York era passato da Brindisi nella seconda metà dell’Ottocento. Si trattava di Sanford Robinson Gifford: al momento non trovai che avesse lasciato scritti su Brindisi, ma in compenso trovai che aveva lasciato un bellissimo quadro: “Fishing boats entrering the harbor of Brindisi”. Riconobbi immediatamente il quadro della foto che avevo usato come copertina dell’altro libro e così la riportai alla pagina 57 del nuovo e scrissi: “… un importante paesaggista visitò Brindisi nel gennaio del 1869. Si tratta del pittore americano Sanford Robinson Gifford, che giunse a Brindisi per imbarcarsi per l’Egitto poco prima dell’inizio delle operazioni della ‘Valigia delle Indie’ e rimase così colpito dalla bellezza del paesaggio portuale e dalla speciale luce che da quel mare scaturiva, tanto da decidere di dipingerlo, con le barche a remi e le bellissime barche a vela dei pescatori e con sullo sfondo, velato ma imponente, il castello Alfonsino...” Decisamente un quadro molto bello. Dove sarà conservato? In qualche museo? In qualche galleria d’arte? In qualche collezione privata? Domande tutte che restarono senza risposta. Solo scoprii a suo tempo che si trattava di un olio su tela di relativamente piccole dimensioni - 8” x 15”, cioè 20.3 x 38.1 centimetri - e che la data di realizzazione era 1874, quindi sei anni dopo il passaggio del pittore da Brindisi. Voleva significare che Gifford, in loco avrà memorizzato, avrà preso appunti, avrà fatto uno schizzo o un disegno e poi, una volta rientrato a casa si sarà messo a dipingere, un procedere del resto abbastanza frequente tra gli artisti viaggiatori dell’epoca. Ed eccoci giunti ad oggi, a qualche me se fa, a Miami in piena pandemia.

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LE IMMAGInI Fishing boats entering Brindisi Harbor - Gifford Sanford Robinson, 1874. A sinistra Sanford Robinson Gifford-Foto del 1870 Curiosando sulle bancarelle di un mercato all’aperto di libri usati intravedo un libro la cui copertina mi ricorda qualcosa: infatti, è uguale a una locandina che avevo già visto. Leggo: “Hudson River School Visions: The Landscapes of Sanford R. Gifford”. Si tratta del catalogo della mostra del 2003-2004. Il libro è in ottime condizioni, lo sfoglio pur sapendo che il mio quadro non ci sarà visto che alla mostra non c’era, non mi sarebbe potuto sfuggire. Ma contiene magnifiche riproduzioni a colori e molte pagine con commenti artistici e storici sull’autore, sulla sua opera e sulla sua vita. In più, il prezzo è bassissimo e quindi lo compro, lo porto a casa, scruto ogni sua pagina e lo leggo per intero. Scopro tantissimo su Gifford, sui suoi - numerosissimi - quadri, sui suoi straordinari meriti artistici, sulla sua vita, sui suoi vari viaggi e rintraccio anche alcune poche notizie sul “nostro” quadro, vengo a conoscenza di quando e dove - sempre a New York - è stato esposto: Novembre 1874, alla Century Association. Maggio 1875, al Metropolitan Museum of Art. Dicembre 1876, alla The Metropolitan Museum of Art’s Centennial Exhibition. E - postumo - il 19 Novembre 1880, al Memorial meeting honors Gifford at the Century Association. Vengo anche a sapere che Gifford ad un certo punto volle assegnare ad alcuni dei suoi già numerosissimi quadri, il curioso attributo di "Chief Pictures". Si trattava evidentemente di quei quadri da lui ritenuti essere i migliori «…sono quelli, paesaggi caratterizzati da un’atmosfera nebbiosa con luce solare morbida e soffusa. Sono spesso dipinti con un grande specchio d’acqua in primo piano o a media distanza, in cui il paesaggio lontano ed eventuali altri elementi si riflettono dolcemente…». Ebbene il “nostro” quadro, che in italiano si deve intitolare “Barche da pesca entrando nel porto di Brindisi”, è tra quelli che furono da lui privilegiati con quell’attributo. Il 29 agosto del 1880 Gifford morì all’età di 57 anni - era nato il 10 luglio 1823 - dopo essersi ammalato di malaria. Fu seppellito sulla Academy Hill, adiacente alla Hudson Academy. A metà ottobre dello stesso anno, il Metropolitan Museum of Art, THEMET, di cui nel 1870 Clifford era

stato uno dei tredici fondatori, organizzò nella nuova sede del museo in Central Park una mostra commemorativa con 160 dipinti e disegni dell’appena scomparso artista, mostra rimasta aperta fino al marzo seguente. E il 19 novembre la Century Association promosse un incontro commemorativo in onore di Gifford, esibendo in quell’occasione 62 delle sue opere. L’anno seguente, 1881, il THEMET pubblicò il “Catalogo commemorativo dei dipinti di Sanford Robinson Gifford N.A.” che, oltre a ordinare enumerare e documentare 731 opere del pittore, riporta il saggio biografico-critico presentato dal professor John F. Weir in occasione dell’incontro commemorativo del 19 novembre 1880. Online sono reperibili tutti e tre i cataloghi, i due delle esposizioni e quello generale pubblicato dal THEMET. Nel catalogo della mostra commemorativa del THEMET il numero 47 è “BRUNDISI, A STUY”. Dated Jan. 1869. Proprietà della società Estate. Si tratta certamente del bozzetto realizzato da Gifford a Brindisi, il 3 o 4 gennaio. Nel catalogo dell’esibizione nella Century Association il numero 38 è “FISHING-BOATS COMING INTO THE HARBOR OF BRINDISI”. Dated 1875 ed il proprietario indicato è Mr. Sampson. Nel catalogo generale del THEMET il numero 540 è: “FISHING-BOATS ENTERING BRINDISI HARBOR, A SKETCH”. Dated 1869. Size, 8 x 13½. Owned by the Estate. Cioè lo stesso schizzo esibito nella mostra commemorativa. Il numero 634 è: “FISHING-BOATS COMING INTO THE HARBOR OF BRINDISI”. Dated 1874. Size, 21 x 40. Owned by Henry Sampson. Quindi il quadro - con indicazione delle dimensioni dell’esibizione della Century Association, però datato al 1874 invece che al 1875. Infine, il numero 638 è: “FISHING-BOATS ENTERING BRINDISI HARBOR”. Dated April 24th, 1875. Size, 8 x 15. Owned by Ira Davenport, Bath, N.Y. Potrebbe quest’ultimo essere lo stesso quadro riportato nel catalogo due volte con una variante nel titolo? Forse, però si tratterebbe di un errore poco verosimile, visto che i due quadri sono indicati nella stessa pagina 42 - quasi uno dopo l’altro. Del resto, oltre al proprietario e alla data, anche le dimensioni non coincidono. Più verosimilmente si tratta quindi di due quadri distinti, simili ma dipinti dallo stesso autore a breve distanza di tempo l’uno dall’altro con dimensioni diverse: probabilmente prima - nel 1874 - quello più piccolo, le cui dimensioni coincidono con quelle del bozzetto, e poi - nell’aprile 1875 - quello più

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CULTURE

grande. Fosse così, le date - o le disi fa limpido.» Quest’articolo inoltre, mensioni - sarebbero da scambiare LE IMMAGInI A sinistra quarta pagina della lettera scritta in Alessandria da sarebbe anche la prova che è “Fitra i numeri 634 e 638 del catalogo Gifford alla sorella Molly l’8 gennaio 1869. Accanto olio su tela di Emanuel sching boats entering the harbor of Leutze del 1861 generale del THEMET. Brindisi” il titolo del ‘primo’ quadro, Se così fosse, il più piccolo apparpur senza essere prova definitenne alla signora Davenport, mentre tiva che siano (8 x 15) e non il più grande appartenne al signor Sampson, o viceversa. Entrambi pro- (21 x 40) le sue dimensioni. prietari - e soprattutto i loro ereditieri - comunque certamente fortunati, Tra il 1955 e il 1973, gli eredi di Gifford donarono la raccolta di visto che attualmente i quadri di Gifford hanno un valore commerciale lettere e altri documenti personali dell’artista agli Smithsonian Arincredibilmente elevato, fino all’ordine di qualche centinaia di migliaia chives of American Art di Washington e nel 2007 tutti quei voludi dollari. L’esistenza dei due quadri, d’altra parte, non costituirebbe una minosi documenti sono stati integralmente digitalizzati e resi circostanza del tutto eccezionale, giacché di esempi al mondo ne esistono disponibili online, identificabili come i Sanford Robinson Gifford altri, alcuni dei quali relativi anche a artisti importanti. Infine, c’è da ag- Papers. Quindi una vera e propria miniera per quei ricercatori che giungere che ‘apparentemente’ si sono perse del tutto le tracce del quadro abbiano una buona dose di pazienza e di tempo e, visto che di quepiù grande, dato che tutti i riscontri che finora sono riuscito ad avere fanno sti tempi pandemici il tempo è proprio ciò che più abbonda, anriferimento - sia per le dimensioni che per la data - al dipinto 8 x 15 del ch’io li ho scrutinati un po’ tutti, anche se la mia attenzione l’ho 1874, pur usando i due titoli indistintamente. Però, ed è un mio grande rivolta essenzialmente alla ricerca di indizi sul passaggio di Gifford rammarico, non sono ancora riuscito a scoprire a chi questo quadro ap- da Brindisi, nonché sul “nostro” - a questo punto ‘misterioso’ partiene attualmente, e dove si trova. quadro: dai due titoli, dalle due date, dalle due dimensioni, e dai Posso solo affermare che a marzo del 1875 quel quadro era ancora nello due proprietari, per un gran totale di ben 16 combinazioni teoricastudio dell’artista, quando l’altro datato 24 aprile 1875 ancora non esi- mente possibili. steva. Questo, infatti, è quanto scritto in un articolo intitolato “Visita allo Per fortuna però, su ciò che più interessa non ci sono dubbi: il quastudio di Mr. Sanford R. Gifford” pubblicato sul N.Y. Evening Post del dro - bellissimo, per la qualità artistica e per il soggetto - è stato 18 marzo 1875 firmato dal critico d’arte J.F.W. «…Fisching boats ente- realmente dipinto da Sanford R. Gifford, il famoso paesaggista ring the harbor of Brindisi è il titolo di un altro quadro che vedemmo nello americano che nel 1869 passò da Brindisi. E prima o dopo, ne son studio di Mr. Gifford: Una brezza sagace soffia dal mare e sotto il suo im- certo, riusciremo anche a scoprire dove si trova in questo momento pulso i pescherecci leggeri, con le loro vele latine, volano nel porto come e quindi quali sono le sue effettive dimensioni. Il resto invece, grandi uccelli appollaiati sulla cresta delle onde. Sullo sfondo il castello potrà continuare a restare incerto e, magari entrare nella leggenda. di Brindisi, una angolata fortezza in pietra a guardia dell’accesso al porto. La prima delle quattro serie in cui sono organizzati i “papers” di Le onde smosse dalla brezza, si vanno affievolendo nell’azzurro profondo Gifford, raccoglie le sue “European Letters”: i tre volumi con le dell’orizzonte, e sopra di esse veli diradandosi tinteggiano il cielo che poi 63 lettere dattiloscritte inviate a suo padre durante i suoi due viaggi

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da Alessandria d’Egitto in quello stesso giorno del gennaio 1869, scoLE IMMAGInI Gianfranco Perri ha raccolto in un libro il meglio delle foto e dei prendolo solo alla fine perché proprio quella lettera è stata archiviata ercommenti di «Brindisini la mia gente». Sotto Hudson River School Visions. The roneamente, sia come data che come destinatario. Landscapes of Sanford R. Gifford – THEMET 2003-4 Si tratta della lettera archiviata e posta online come datata “8 luglio 1869” e come diretta a “friends in Rome”. L’equivoco nella data è magari conin Europa e Medio Oriente, nel 1855-1857 e nel 1868-1869, e le quattro seguenza della poco chiara calligrafia di Clifford, mentre l’errore relativo lettere manoscritte inviate nel 1856, 1857 e (due) nel 1869 a sua sorella al destinatario si spiega con la non conoscenza dell’italiano da parte delMolly, la quale abitava a Roma dove Gifford la visitò soggiornandovi a l’archivista. Clifford infatti, alle 8½ a.m. appena giunto ad Alessandria d’Egitto, scrive alla sorella Molly a Roma e, scherzosamente, inizia la lungo. Benché molte delle 63 lettere dattiloscritte abbiano i caratteri scoloriti lettera con: “Cara sorella mea. Macheutini dolcissimi. Jhonspsonino ben rendendone molto ardua la lettura, sono finalmente riuscito a identificare amato. Vi saluto tutti! Ecco me qua in Egitto”. una lettera scritta l’8 gennaio 1869 dall’Egitto, dove Gifford si era recato Quattro pagine molto dense, archiviate però con alta risoluzione e quindi dopo il suo soggiorno romano, ed ho provato a leggerla nella speranza, nitide e di agile lettura, in cui Clifford - di fatto in maniera abbastanza poi effettivamente esaudita, di trovarvi qualche riferimento al suo pas- analoga a quanto fatto nella lettera scritta al padre - inizia col commentare saggio da Brindisi. La lettura però è risultata alquanto lacunosa, ma poi, il suo viaggio per mare, intrapreso da Brindisi con il vapore del lunedì insistendo con la ricerca mi sono accorto che anche una delle quattro let- sera diretto ad Alessandria, raccontando del sole splendente in un cielo tere manoscritte indirizzate da Gifford alla sorella Molly era stata scritta azzurro lungo le coste di Arcadia dopo aver superato le isole ioniche di Corfù, Lefkada, Cefalonia, Zante e infine Candia - Creta. Poi, tornando indietro di qualche giorno, racconta l’inizio del viaggio, dalla partenza il 1º gennaio da Roma - dove aveva soggiornato per quasi due mesi a casa della sorella - fino a Brindisi, facendo una sosta a Napoli, proseguendo poi in treno fino a Benevento e Santo Spirito, quindi attraversando gli Appennini in un suggestivo percorso notturno, alternando il treno con una diligenza trainata da sei cavalli, fino a Foggia, per da lì domenica 3 gennaio 1869 - prendere il treno diretto a Brindisi. «… Alle 11.30 del mattino, dopo una piacevole corsa lungo una ricca campagna verde pianeggiante con a levante tanti paesini bianchi che brillavano contro il blu scuro dell’Adriatico, arrivammo finalmente a Brindisi. L’antica Brundisium dove si celebrò il famoso incontro di quell’interessante comitiva composta da Orazio Virgilio Mecenate e Augusto, e che poi divenne il grande porto dell’Impero. Adesso, una mezza dozzina di zatteroni forniti di draghe a vapore stanno raschiando vigorosamente il fondo dello stretto canale d’entrata al porto, trattando di ripulirlo per così restituirlo all’antica vita. Pensavo di aver visto città sporche, eppure mi mancano le parole per descrivere tanta ineffabile sporcizia: Tivoli al confronto è come un banchetto di eliotropi. Però, a Brindisi il sole risplende più bello che altrove, come testimoniato dalla luce fulgente e dal colore che assumono al tramonto le rive e le vele delle barche da pesca che rientrano in porto. Al seguente giorno provai a rappresentare il tutto in un bozzetto, ma non mi riuscì di farlo così luminoso. Tra le basse e squallide case di Brindisi, sorge di tanto in tanto un palazzo con portali, finestre e balconi riccamente intagliati con ricchi ornamenti gotici e saraceni. Al pomeriggio salii a bordo del vapore “Brindisi” e alle 9 p.m. prendemmo mare.»

il7 MAGAZINE 31 23 aprile 2021


CULTURE

«Brindisi, città dal porto vuoto» Ritratto dell’800 valido pure oggi

L’impietoso reportage di un giornalista francese in giro per l’europa nel 1883 di Gianfranco Perri

critta raccogliendo approfondendo e riordinando pezzi elaborati a più riprese fino al 1878, anno in cui si pubblica in Francia – in italiano si pubblicò a Milano nel 1883 – "Le Rive dell’Adriatico e il Montenegro" è un’importante opera odeporica composita, legata alla produzione giornalistica del reportage di viaggio. L’autore è, infatti, il francese Charles Yriarte, la cui vita si divide tra incarichi istituzionali e produzione letteraria, viaggiando per l’Europa, e svolgendo parallelamente l’attività di scrittore e di giornalista. L’esteso capitolo che nell’opera è dedicato a Brindisi, a una prima veloce lettura pare essere null’altro che un "acido" ritratto impietoso della città di quel fine Ottocento. Di una acidità eventualmente legata alla nazionalità dell’autore, di un Paese infatti, cui appartiene la città portuale di Marsiglia, all’epoca acerrima competitrice di Brindisi per la valigia sulla rotta da Londra a Bombay. Un sospetto in qualche misura alimentato dal contrasto di quel ritratto con quanto raccontato da altri viaggiatori di quel periodo. [Maria Esperance von Schwartz, in arte Elpis Melena, scrittrice tedesca amica personale di Garibaldi, si trovò a passare da Brindisi in viaggio per la Grecia nel 1868 e nel volume “Von Rom nach Creta” pubblicato nel 1870, scrisse: «...Brindisi evoca l’atmosfera orientale dei vicoletti non lastricati, delle abitazioni a un piano e dei negozietti levantini. E appena il progetto della ‘Valigia delle Indie’ andrà in porto, Brindisi andrà certamente incontro ad un avvenire radioso. L’Hotel d’Inghilterra, gestito da Sebastiano Gallo, è sorprendentemente pulito ed è fornito di ogni confort. Mentre in città fervono i lavori di sistemazione di un mastodontico albergo internazionale composto da diverse case situate sul mare. E su quello stesso mare giunge l’allegra baldoria dei marinai inglesi ubbriachi, mentre dalla coperta di una fregata ancorata sulla banchina risuona un canto popolare irlandese. Nelle strade interne richiamano l’attenzione le lunghe fila di muli che sono stati acquistati in parte dall’esercito italiano per la sua artiglieria da montagna, in parte dagli inglesi per una spedizione in Abissinia...»]. Poi però, nonostante le mal celate predisposizioni negative del giornalista

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francese – che nel corso del suo scritto di fatto finisce con il contradirsi ripetutamente – una lettura più attenta fa inevitabilmente trasparire l’oggettivo fascino che Brindisi emana sopra tutto anche, ed è giusto aggiungerlo, grazie all’altrettanto oggettiva qualità letteraria dello scrittore. Ho deciso di raccontarlo integralmente, questo capitolo di Yriarte su Brindisi, oltre che per l’indubbio interesse storico giornalistico che rappresenta, soprattutto perché "curiosamente, a tratti" sembra quasi di star leggendo un articolo – nonostante i 140 anni e più trascorsi – attuale, scritto appunto ai giorni nostri, magari ancora da un qualche "acido e interessato" reporter, ma pur sempre "impietosamente" realistico. «... Come città moderna, ed escluso l’interesse che può svegliare tra i cultori della storia, Brindisi non riserva al viaggiatore altro che un disinganno senza compenso. È una grande illusione nazionale, accarezzata per molto tempo e, giova dirlo, ormai svanita in tutti i cervelli pratici. Ma, per essere giusti, basterebbe una sola circostanza – per esempio una guerra dell’Italia, o di una potenza alleata dell’Italia, in Oriente – per darle di nuovo temporalmente una grandissima importanza: quella importanza appunto che alcuni economisti e certe menti facili ad accendersi le avevano predetta per sempre. Il suo porto è vuoto, e costantemente vuoto; in cinque giorni vi ho veduto cinque navi, di cui due vengono a scadenza fissa: l’una per il servizio delle Indie, l’altra per quello d’Ancona. La natura ha fatto moltissimo per questo porto, giacché è ben riparato e forma un bacino naturale protetto contro l’alto mare da una lingua di terra abbastanza alta per tagliar i venti. La goletta è larga e profonda, e stende, per così dire, la foce alle navi che la cercano; la disposizione è felicissima: rappresenta un corno di cervo rovesciato, di cui la radice figurerebbe l’entrata, e i due rami, cioè i due bacini, sono riparati ciascuno da un promontorio: tra essi si prospetta la città. Questa forma naturale della pianta del porto è così spiccata che Brindisi prese per stemma un corno di cervo; dappoi gli spagnoli aggiunsero una colonna tra i due rami. Per altro, in tutte le medaglie antiche da me viste, il simbolo di Brundusium è un airone sopra un delfino. Anche se l’attributo delle corna non deve risalire molto addietro nella storia, è curioso che tutti gli antichi scrittori che discorrono del porto di Brindisi, parlando di ognuno dei due bacini, dicono: “il corno”. La posizione geografica, rispetto all’Oriente, è unica come via rapida di

il7 MAGAZINE 28 30 aprile 2021


LE IMMAGINI Il Great Eastern India Hotel costruito nel 1869 dalla Società delle Ferrovie Meridionali comunicazione; ma è soltanto un passaggio, e un passaggio così rapido che gl’Inglesi dell’India, i quali partiti da Sonthampton per Bombay hanno attraversato la Francia e l’Italia come un lampo, non mettono, per così dire, piede a terra in Brindisi. S’imbarcano senza gettar uno sguardo sulla città; gli abitanti speravano di trattenerli nel ritorno e avrebbero forse potuto riuscirci, ma quando l’isolano lascia una nave dove ha vissuto diciassette giorni – durata regolare del viaggio da Bombay a Brindisi – non prova come noi, deboli continentali, il bisogno di ripigliar forze sulla terraferma; i più anzi non fanno neppur le abluzioni a terra, giacché escono da una cabina fornita di tutti i confort; né sentono nessun desiderio di rifocillarsi, non essendosi privati di nulla. Insomma, nulla li eccita, né curiosità naturali, né attrattive procurate dall’opera degli abitanti, e vano oltre. Due altre circostanze hanno potentemente contribuito a distogliere i viaggiatori dal soggiornare a Brindisi. L’albergo pomposamente intitolato Great Eastern India, che sorge proprio sulla riva allo sbarco dal piroscafo, vuol essere evitato con cura. Fatto costruire dalla Società delle ferrovie meridionali e inaugurato nel 1872, ha un aspetto decorosissimo; ma, oltreché i prezzi sono assolutamente inverosimili, mi par impossibile di potervi mangiare: arrivato alle undici di notte, ho dovuto, pur avendo davanti una tavola pulitamente apparecchiata con arredi decenti e un numeroso personale di camerieri, andarmene a letto senza neppur sgranocchiare un biscotto secco con un po’ di formaggio. L’albergo essendo vuoto sette giorni sopra otto, quest’ottavo è un’occasione troppo propizia per scorticare a sangue l’inglese che sbarca di ritorno dalle Indie; se non che l’inglese ha una vendetta pronta: la propaganda ostile, e poiché gl’Inglesi non canzonano su questo punto, i loro compatrioti evitano attentamente l’albergo ormai denunziato. Non è del resto da dimenticare che i piroscafi della Peninsular and Oriental Company hanno per testa di linea Venezia: i viaggiatori non assolutamente angustiati dal tempo, preferiscono fermarsi in quest’ultima città, che è sempre attrattiva per gli stranieri; cotesto itinerario permettendo

loro, inoltre, di passar un giorno a Milano, trascurano Brindisi che non presenta loro un bel nulla. Senza dubbio il passaggio dei viaggiatori può arricchire una città, massime se è continuo e abbondante, ma Brindisi aveva fatto affidamento soprattutto sul transito e, anche da questo lato, la delusione non fu certo meno grande. Se cerco una ragione pratica, la trovo nella stessa posizione della città, così vantaggiosa per il viaggiatore ma ben poco per l’esportazione. Infatti, Brindisi è il primo porto all’ingresso del golfo Adriatico, e tutte le mercanzie trovano ogni vantaggio a proseguir il viaggio fin in fondo a quel lungo golfo, sia fino a Trieste, sia fino a Venezia. La traccia di questa disillusione così prontamente venuta per Brindisi, lo straniero la scorge ai primi passi che muove nelle vie; la città si direbbe danneggiata da un terremoto e, senza nessuna esagerazione, un buon quarto delle case sono solo cominciate e poi coperte di paglia. Le costruzioni infatti, sembrano essere state sospese all’altezza dei primi strati di mattoni del primo piano, e moltissime botteghe sono completamente chiuse. Brindisi ha l’aspetto di un grosso villaggio tagliato da poco, nella parte moderna, da una larga via che va dalla stazione al porto; ma la sonnolenza e l’abbandono lasciano un’impronta su ogni cosa. Le vie sono mantenute malissimo; non c’è industria, né altro commercio fuor di quello dell’olio e del vino: lo stagnamento economico pare completo. Il porto deserto vede deserta anche la parte della riva dove approdano i piroscafi. Non esistono qui né monumenti, né piazze, né mercati. Rompono un po’ questa meschina apparenza le chiese e alcuni antichi stabilimenti, monasteri o palazzi; un’abitazione curiosa, la casa del Montenegro, vicina al porto, rovinata e convertita in tipografia, indica cosa doveva essere un tempo l’abitazione d’un nobile a Brindisi. La parte della fortezza dov’è la galera e alcune vestigia del tempo degli spagnoli, parlano all’immaginazione degli amatori della storia, ma per tutti loro è comunque difficile dimenticar la delusione provata. Su questa riva mediterranea, la mente si figurava di trovarvi una facciata straordinaria; di vedervi approdare tutte le nazioni viaggianti; inoltre, di contemplarvi lo spettacolo di una varietà di vestiari come a Smirne, un movimento come a Marsiglia, dei facchini affaccendati a scaricar e caricar mercanzie, delle ferrovie, dei carri carichi e scarichi, dei docks; insomma l’Oriente in Europa, e l’Inghilterra attiva in Ita-

il7 MAGAZINE 29 30 aprile 2021


CULTURE

prattutto l’epigrafia, giacché in relia: come appunto aveva promesso l’ammiraglio Ferragut il giorno in cui, LE IMMAGINI A sinistra Casa di Virgilio a Brindisi visitata da Yriarte – dall’in- altà non ci sono monumenti romani gettando gli occhi sulla felice disposi- cisione in acciaio di Karl Werner del 1840, a destra “Colonna Cleopatra” - Fo- intatti e nemmeno rovine di monumenti salvo le colonne, quali zione dell’entrata e dei bacini del tografia Brogi 1875 circa grandi memorie non evocherebbe porto, pronosticò l’avvenire di Brina Brindisi! Vedo nella città un disi. Personalmente, per altro, abbiamo avuto dei compensi; tutte le nazioni pozzo che si chiama Pozzo Traiano e leggo in Pratillo un’iscrizione del del mondo hanno qui dei consoli, giacché tutti i principi, più o meno Municipio di Brindisi in onore dell’imperatore. Qui si ancorava la flotta quasi tutti, passano un giorno di qui; e abbiamo così incontrato in questo romana o di qui partivano tutte le soldatesche per l’Oriente; vi era un arporto il rappresentante della Francia, signor Mahon, un po’ nostro con- senale e una scuola navale, e nel porto si fabbricavano delle galere come fratello avendo scritto alcuni volumi pieni d’interesse. Ci ha consolati anche dei vascelli da scuola per istruire ufficiali e marinai. Pel traffico alla meglio del nostro disinganno: Brindes o Brundusium assicurò, ci commerciale gli Orientali ci avevano loro banchi, e fra i cippi che si troavrebbe comunque fatto dimenticare presto la Brindisi dei tempi mo- vano nel museo, leggiamo il nome d’un negoziante della Bitinia, che qui dimorava: Hostilius Hypatus, Bithynus negotiator. derni. A pochi metri dal porto, sopra uno stretto terrazzo, sorgono le due co- Allora come adesso si esportavano fichi squisiti, e quando Crasso s’imlonne monumentali che indicavano l’inizio della via Appia. Questa regina barcò per la sua sfortunata spedizione contro i Parti, siccome i merciaviarum, come dice un verso di Orazio, principiando da Roma, andava iuoli gridavano per le vie: "Cauneas! Cauneas! Dei fichi! Dei fichi!" una fino a Benevento, e passando per Venosa e Oria, metteva infine capo al certa inflessione nella pronuncia fece credere ai suoi soldati superstiziosi che si gridasse "Cave ne eas", cioè: guardatevi di partire. Essi ebbero porto di Brundisium. Gli eserciti romani, movendo alla conquista dell’Oriente, partivano di- così il presentimento del disastro che li attendeva. rettamente dalla capitale per imbarcarsi qui sulle galee: Brundusium era Oggi, dal principe di Galles sino a lord Lytton e Midhat pascià, quanti il Brest o il Tolone dell’Italia. Innalzare queste due colonne al punto dove partono per l’Oriente e le Indie passano di qui; ed era lo stesso allora. I la strada usciva al mare, era far allusione alle colonne d’Ercole e segnare generali, i consoli, i questori, gl’imperatori quando si ponevano alla testa la fronte dell’impero sull’Adriatico con una prospettiva sulla Grecia e le degli eserciti, attraversavano la città. Il ricordo di Mecenate, quello di rive di quell’Oriente che Roma stava per sottomettere, prima di veder sé Pacuvio, di Cicerone e di Virgilio è qui vivissimo. Mecenate ci venne a riconciliare Antonio ed Augusto, Marco Pacuvio ci visse tutta la sua vita. stessa cancellata dalla faccia del mondo ad opera dei “barbari”. Non c’è nessuna ragione per dar il nome di Cleopatra a queste colonne. Di Cicerone a Brindisi se ne può seguire giorno per giorno l’itinerario. Un capitello è rimasto quasi intatto: Ercole, Nettuno, Plutone e le divinità Egli è esiliato dalla legge Clodia 357 e deve, in forza del testo stesso del mare s’intrecciano colle foglie d’acanto. I Saracini le avevano già della legge, dimorare a quattrocento miglia da Roma; viene così imbarmutilate e nel 1528 una delle due colonne rovinò e un suo pezzo rimase carsi a Brindisi per la Grecia. Quando dico che viene a Brindisi, dovrei in bilico sul piedistallo. Al municipio di Brindisi, verso il 1660, parve dire che si nasconde a Brindisi finché Attico venne a raggiungerlo nei bene d’offrire i frammenti rovinati a Sant’Oronzio, per la cui interces- giardini della casa di Lenio Flacco. Egli quindi parte per Durazzo d’Alsione era cessata la peste che desolava questi paraggi; il fusto ricomposto bania, ove resta un anno soltanto per poi, richiamato, tornare a Brindisi il giorno stesso della festa della colonia, ed è portato in trionfo. Sei anni esiste ancora a Lecce. Chi in questa celebre Brundusium prendesse a studiar le antichità e so- dopo vi rientra ancora come proconsole, poi come trionfatore coi fasci e

il7 MAGAZINE 30 30 aprile 2021


LE IMMAGINI Tempio di San Giovanni - ai tempi della visita di Charles Yriarte il lauro; e vi soggiorna ancora tre volte di seguito: l’ultima volta, era la dimane di Farsaglia. Virgilio mori a Brindisi, e vi mostrano la sua casa: è sul porto, giusto su quel terrazzo donde s’innalzano le colonne. Benché nobile nelle modanature e grave nella sua semplicità, la dimora del poeta, in faccia a quel mare azzurro, a quelle belle coste colorate, a quella natura ridente, con una vista lontana dell’Oriente, par ritratta dall’epoca del Rinascimento – voglio dire di quei begli anni quando le modanature erano sì pure – in guisa che mi è d’uopo interrogare la materia piuttosto che la forma per sapere se mi trovo dinanzi a un monumento antico o ad una costruzione della fine del secolo decimoquinto o dei venti primi anni dell´undicesimo. Infine, la tradizione esiste e certo v’ha qualche cosa, perché Virgilio ritornò dalla Grecia con Antonio e Augusto; cadde malato a Brindisi per effetto del mare e mori davanti il porto, il 21 settembre, vent’anni prima della venuta di Cristo. La casa è indicata nei documenti del tempo quale Domus Virgilii Maronis in loco San Stephani et juxta viam publicam ex Borea. Si capisce facilmente che cosa fosse allora la città. Già fortificata, poiché Cesare parla di lavori d’assedio dovuti da lui fare al principio della guerra civile, era senza dubbio fornita di monumenti. Ma Federico II, che edificò il grande e forte castello ancora in piedi, dopo i barbari distrusse anche lui ogni cosa, per servirsi dei materiali. La decadenza di Brindisi si spiega benissimo. Dovette cadere d’un colpo il giorno in cui Roma cessò d’essere l’unica capitale dell’impero e Costantinopoli divenne residenza degli imperatori; per il porto militare l’era finita. Non più flotte, non riunioni di truppe per l’Oriente, non caserme, non arsenali, non magazzini di viveri, e quindi non più esportazione, né commercio: è la fine d’un mondo e questo luogo appartato d’Italia non ha ormai più relazioni col mondo esterno. Nel quarto secolo Brindisi, benché deserta, conserva ancora le proporzioni di una città, ma sotto Giustiniano, nel quinto secolo, Procopio la descrive come desolata, mezzo distrutta, e priva delle mura. Brindisi in seguito, non rimase immune dalle devastazioni dei Goti, dei Greci, dei Longobardi e dei Saracini: furono proprio quest’ultimi che ne completarono la rovina. L’anonimo di Trani, scrivendo nell’undecimo secolo, chiama Brindisi “un piccolo borgo in mezzo a grandi rovine”. Insomma, di tutti quegli avanzi romani che dovevano essere enormi, resta in piedi soltanto una colonna mentre tutto il rimanente si riduce in iscrizioni e in pietre d’anfiteatro e di terme. Degli altri periodi, rimangono soprattutto le costruzioni militari fatte da Federico II di Germania e anche dagli Ara-

gonesi, i cui stemmi decorano le rispettive porte e facciate. I fossati del grande castello in città furono convertiti in orti e adesso i galeotti vi coltivano legumi. Non ho ancora toccato della condizione più grave, la quale, naturalmente, peggiora colla decadenza della città: alludo qui alla mal aria, a quell’emanazione sottile che genera la febbre, insidia l’abitante e lo distende sul letto in preda ai brividi, colla tinta livida. Già al tempo di Cesare, questa febbre decimava le legioni accampate nella Puglia e nella campagna di Brindisi al domani della battaglia di Farsaglia. Molto fu fatto per migliorare le tristi condizioni di Brindisi rispetto alla salubrità; i pantani d’acque stagnanti furono convertiti in orti; Carlo III, che fu re di Napoli, si adoperò molto al risanamento, e anche il re Ferdinando II se ne occupò con sollecitudine. L’eccellente arcidiacono Giovanni Tarentini, che fu nostra guida, ci ricordava il tempo in cui in questo corso dove passeggiavo con lui e col signor Mahon, crescevano i giunchi nei paduli. Si sarebbe potuta vincer la natura, ma a patto che il risultato corrispondesse agli sforzi fatti per rialzar Brindisi; e non essendosi avverata la speranza d’una grande affluenza la città s’è stancata, la provincia ha rinunziato a spese infruttuose e il governo italiano, così ricco di porti da Venezia fino a Genova, non ha creduto doversi imporre nuovi sacrifici. Non posso dire che non ci sia a Brindisi nessun monumento archeologico degno d’interesse. L’arcidiacono Tarentini, membro della Consulta archeologica della provincia, mi fece gli onori di una scoperta recente: è una cripta di forma quadrata, che si apre sotto la chiesa di Santa Lucia e rappresenta certamente un antico tempietto dei primi tempi cristiani, dedicato a San Nicola, già vescovo di Mira. La cripta daterebbe senza dubbio dal tempo in cui i Greci introdussero in Italia il culto di San Nicola, cui Giustiniano aveva dedicato un tempio a Costantinopoli e il cui corpo è conservato nella chiesa a Bari. Anche gli scrittori più seri che descrissero Brindisi, ignoravano l’esistenza di questo tempietto. Un altro monumento che mi parve degno d’illustrazione, è San Giovanni, una basilica dei primi tempi cristiani: trovasi ridotta a uno scheletro, ma la città di Brindisi vorrebbe conservarne gli avanzi. Dal solo aspetto dei muri e delle colonne di marmo, è evidente esserci qui delle vestigia di tempi vetusti. Le porte non sono più quelle che davano anticamente accesso; il carattere bizantino nasconde le forme romane incassate nella muraglia; dei grossi rivestimenti impediscono di vedere le commessure a secco, senza calce né cemento, che indicano una costruzione antica; la pianta circolare, leggermente ovale, denunzia l’origine: sgraziatamente, la volta è rovinata. Sui muri si vedono ancora alcuni affreschi di tempi molto posteriori e sul suolo giacciono dei frammenti di statue del periodo romano nonché dei capitelli spezzati piamente raccolti dalla mano dell’eccellente canonico Tarantini…»

il7 MAGAZINE 31 30 aprile 2021


CULTURE

Brindisi-Valona nel 1917 il primo servizio regolare di Posta aerea

Gli idrovolanti della Regia Marina trasportavano corrispondenze urgenti di Gianfranco Perri on il XX Secolo iniziò nel mondo l’epopea dell’aviazione: in America il 17 dicembre 1903 su una spiaggia del Nord Carolina, i fratelli Wright compivano il primo volo a motore; in Europa il primo volo lo effettuò, il 23 ottobre 1906 vicino Parigi, il brasiliano Alberto Santos-Dumont; in Italia, il francese Léon Delagrange decollò dalla piazza d’armi a Roma il 24 maggio 1908. Il conflitto italo-turco iniziato il 29 settembre 1911 fu un banco di prova per la nascente industria aeronautica e il primo impiego militare dell’aereo al mondo ci fu il 23 ottobre 1911, quando il comandante della 1ª Flottiglia aeroplani, capitano Carlo Piazza, effettuò un volo di ricognizione sullo schieramento nemico. Il primo bombardamento aereo avvenne per opera del sottotenente Giulio Gavotti, che il 1° novembre 1911 lanciò tre bombe sull’accampamento turco di Ain Zara e una sull’oasi di Tripoli. I risultati militari non furono eclatanti, ma quelle prime azioni italiane furono notate con interesse e furono studiate dai principali eserciti del mondo, che iniziarono a dotarsi di aerei da ricognizione e da bombardamento prima, e da caccia dopo. La produzione aeronautica in tutto il mondo quindi – manifestazioni “pseudo sportive” a parte – si orientò decisamente sul settore militare, ben prima che qualcuno cominciasse a pensare ad un suo possibile sviluppo civile per il trasporto aereo di cose e di persone. E con lo scoppio della grande guerra, l’impulso tecnico ed economico che ricevette l’industria bellica dell’aria fu enorme. In Italia, questi i nomi più noti della fiorente industria aeronautica: Pomilio, Caproni, Macchi, Savoia, Ansaldo, SIAI, SIT, SIA, SAMI. Inoltre, e forse inaspettatamente, fu proprio nel mezzo – ed in parte a causa – della guerra che doveva emergere e svilupparsi un altro impiego fondamentale dell’aviazione, un impiego però in essenza civile: quello postale, cioè del servizio regolare

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di “posta aerea”. «…Le truppe, contadini, agricoltori, operai e proletari, inviate al fronte potevano sopportare ogni privazione, ogni condizione ambientale di grande rigidità, nonché il pericolo nudo e crudo della morte in battaglia. Ma non potevano sopportare lo sradicamento improvviso e totale dalla propria famiglia, dal proprio sistema di riferimento sociale, dal proprio mondo. Mantenere i collegamenti con questo noto, rassicurante e tradizionale sistema di valori era condizione imprescindibile per la saldezza prima di tutto morale ed emotiva del soldato al fronte. Lo stesso valeva per i quadri di sottoufficiali più anziani e ufficiali inferiori più giovani, esponenti di sistemi di valori e di mondi di riferimento diversi, quali la piccola borghesia, borghesia emergente o affermata, intellettuali, piccola aristocrazia, ma con cui ugualmente il contatto rimaneva condizione del tutto necessaria. Né la necessità era avulsa anche agli ufficiali superiori… All’epoca, queste necessità comunicazionali si soddisfacevano con il servizio postale, principale mezzo economico per le comunicazioni a distanza, che in Italia era diffuso capillarmente in tutto il regno: utilizzava i vari mezzi di trasporto disponibili, tra cui primeggiava il treno, ed era molto usato dall’intera popolazione… Le alte gerarchie militari pertanto, avevano ben presente l’importanza e l’indispensabilità di garantire a tutti gli arruolati un servizio postale efficiente, senza trascurare gli aspetti della sicurezza e della logistica nei pressi dei fronti di guerra. Però, il problema non era certo di facile soluzione: sia per l’aumento straordinario dei dispacci, tra militari e tra militari e civili, sia per la penuria dei mezzi di trasporto, i ferroviari e gli altri tradizionali per via terra e per mare, destinati prioritariamente alle esigenze militari. In questa situazione, qualcuno cominciò a pensare anche al mezzo aereo...» [“Guerra posta e nuove tecnologie” di Bruno CrevatoSelvaggi, 2017] Il 9 aprile 1917 il ministro delle poste Luigi Fera, firmò il se-

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LE IMMAGInI Idrovolanti FBA Tipo H della Regia Marina Italiana – Costa Guacina BR 1916

guente decreto: […] Ritenuta la necessità di iniziare gli studi per l’istituzione del trasporto della corrispondenza con i mezzi della locomozione aerea; riconosciuta l’opportunità di procedere all’esame delle varie proposte pervenute in proposito all’Amministrazione postale; decreta la nomina di una Commissione di persone tecniche competenti, con l’incarico di esaminare tutte le proposte pervenute al Ministero delle Poste e Telegrafi per l’attuazione della “posta aerea” e di riferirne al Ministro […] La Commissione fu presieduta dal fisico e senatore Augusto Righi. Nella sua relazione, la commissione sostenne la possibilità di mettere in atto il servizio con aeroplani su lunghi percorsi, suggerendo di iniziare esperimenti, sia sorvolando la terraferma e sia volando con idrovolanti sul mare. Un primo esperimento fu realizzato a fine maggio sulla rotta Torino-Roma-Torino: il 22 maggio il tenente Mario De Bernardi pilotò l’aereo Pomelio PC1, un velivolo da ricognizione armato che la società torinese dell’ingegnere Ottorino Pomilio aveva iniziato a costruire nello stesso 1917 e ne aveva consegnato in febbraio i primi esemplari all’Esercito. Decollato alle 11:20 atterrò a Roma alle 15:23 dopo aver percorso 600 km alla media di 160 km orari. All’arrivo però, una raffica di vento inclinò l’aereo, l’ala sinistra toccò terra e il carrello e l’elica andarono in pezzi. Il pilota rimase incolume, ma l’incidente implicò la posticipazione di cinque giorni del volo di ritorno, che finalmente si compì il 27 con 61 chili di posta. L’esperimento poi, non ebbe seguito. A Sud, fin da prima dell’entrata in guerra, durante il periodo della neutralità, al fine di risguardare i propri interessi strategici nel basso Adriatico e con l’esercito austriaco già insediato a Scutari e Durazzo, il 25 dicembre 1914 l’Italia aveva occupato Valona e

poi, dopo l’entrata in guerra, per le truppe italiane e quelle austriache tutta l’Albania divenne un importante e strategico fronte di guerra e al contempo le acque dell’Adriatico meridionale divennero teatro di scontri marini e sottomarini che le resero estremamente pericolose al traffico. L’Italia aveva inviato a Valona il Corpo speciale d’Albania, che il 20 marzo 1916 divenne XVI Corpo d’Armata agli ordini del generale Settimio Piacentini, e oltre ai tanti militari nell’area vi erano anche numerosi altri italiani, civili superstiti della colonia d’anteguerra. Il collegamento del XVI Corpo con l’Italia, nonostante i pericolosi sottomarini nemici operassero attivamente, era assicurato da navi che percorrevano il canale fra Brindisi e Valona sotto una costante protezione aerea. In quelle acque infatti, operavano varie squadriglie d’idrovolanti FBA Tipo H: idroricognitori biplano a scafo centrale sviluppati dall’azienda anglofrancese Franco British Aviation e prodotti in buon numero anche in Italia dalla SIAI, Società Idrovolanti Alta Italia. Quelle squadriglie di idrovolanti collaboravano a mantenere lo strategico sbarramento del canale d’Otranto a tutti i mezzi austro tedeschi, scortavano le unità navali dell’Intesa e partecipavano alle missioni offensive dirette alle basi austriache di Cattaro, di Durazzo, nonché dell’interno dei vari territori balcanici. Molte avevano la loro base nel porto di Brindisi, nell’Idroscalo Militare di Brindisi che era sorto nel 1916: c’era la 255ª squadriglia comandata dal sottotenente di Vascello Orazio Pierozzi con il guardiamarina Umberto Maddalena poi comandante della 262ª, c’era Francesco De Pinedo poi comandante della 256ª e dell’intero Gruppo squadriglie, e c’erano anche le squadriglie 257ª che apparteneva all’Esercito e 258ª che apparteneva alla Regia Marina, imbarcata quest’ultima sulla Regia nave Europa che, eliminando un albero e altre sovrastrutture, aveva ricavato due hangars a poppa e a prua, ognuno capace di alloggiare quattro aerei. A queste ultime due squadriglie – la 257ª e la 258ª – furono

il7 MAGAZINE 27 7 maggio 2021


CULTURE

poi assegnati anche compiti di copattugliamento e il cavo telemunicazione aerea quando, dive- LE IMMAGInI Idrovolante FBA Type H – L’unico esemplare ancora esistente in grafico sottomarino continuò a nuta critica la situazione delle un museo del Belgio funzionare sufficientemente comunicazioni militari e civili con bene per le necessità comunical’Italia, il Comando del XVI zionali urgenti. Corpo d’Armata stimò che potesse risultare utile l’istituzione di Quasi contemporaneamente, anche se in leggero ritardo rispetto un formale servizio regolare di posta aerea. Il 5 giugno 1917 fu al servizio avviato tra Brindisi e Valona, si organizzò un servizio emesso il seguente comunicato: […] Col giorno 2 corrente è stato regolare di posta aera anche tra Roma e Cagliari (Civitavecchiaistituito un servizio regolare di posta aerea fatto da idrovolanti Terranova Pausania). La Regia Marina infatti, aveva organizzato della Regia Marina sulla tratta Brindisi-Valona, e viceversa: per due squadriglie d’idrovolanti FBA anche nel Mar Tirreno per la corrispondenze d’ufficio urgenti non riservatissime, per lettere protezione dei collegamenti marittimi con la Sardegna e così, due private “espresso” e per telegrammi privati nel solo caso d’in- sezioni vennero dedicate al servizio postale aereo, composte ciagombro o d’interruzione della linea telegrafica sottomarina. Dette scuna da due idrovolanti: la 10ª Sezione della 278ª squadriglia da corrispondenze dovranno tutte portare sulla busta l’indicazione ricognizione per il servizio Sardegna-Continente, la 9ª Sezione “per posta aerea” […] della 272ª squadriglia per il servizio opposto. L’inaugurazione ufQuel servizio postale quindi, pur senza rivestire carattere univer- ficiale di quel servizio postale aereo avvenne il 27 giugno 1917 e sale, fu comunque il primo in Italia ad essere ufficialmente isti- il servizio, non giornaliero, durò sino al 28 ottobre 1917, quando tuito come “servizio regolare di posta aerea” riservato, per ragioni fu sospeso per le condizioni meteorologiche divenute avverse: d’ingombro e di priorità, ad alcune corrispondenze urgenti, mili- erano state effettuate 25 traversate e trasportati 2.344 chili di tari e civili, escludendo per ragioni di sicurezza quelle classificate. posta. Il servizio riprese l’anno seguente, l’11 maggio con un serLe squadriglie idrovolanti militari cui era affidato, del resto, con- vizio regolare fino a giugno 1918, poi anch’esso divenuto sporatinuavano ad essere impegnate nel pattugliamento e nelle altre dico. missioni belliche non potendo pertanto dedicare troppe energie Nonostante gli entusiasmi suscitati da quelle primissime espea quel nuovo servizio. rienze – “Oso dire oggi che la posta aerea, più che il pioniere dei Vennero effettuati voli d’andata e ritorno i giorni 3, 6, 9, 11 e 12 trasporti aerei futuri in generale sarà la posta dell’avvenire. La giugno, e ciascuna tratta durava da una a due ore dipendendo dalle velocità, la moderazione del peso, l’indipendenza del veicolo dal condizioni metereologiche e di sicurezza. Poi, il 17 giugno, il Co- tracciato della via, si sposano alle caratteristiche proprie dell’aemando del XVI Corpo d’Armata comunicò la sospensione “fino ronavigazione” [Torquato Carlo Giannini, direttore della ‘Rivista a nuovo avviso” del servizio regolare di posta aerea Brindisi-Va- delle Comunicazioni’, 1917] – nell’ottobre 1917 tutto si arrestò, lona, mantenendolo soltanto per i casi urgenti o d’interruzione del e per il restante periodo della guerra in Italia non si parlò più di cavo sottomarino. Il servizio regolare non riprese più: il Comando posta aerea. Caporetto e la nuova situazione politico-militare itaoptò per non continuare a distrarre le squadriglie dal servizio di liana avevano evidentemente raffreddato gli entusiasmi e le ini-

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LE IMMAGInI Lettera espresso da Valona dell’11 giugno 1917 trasportata per via aerea a Brindisi e poi a Roma - si noti sopra i francobolli il bollo lineare VALonA PoSTA AEREA

ziative. La guerra finalmente volse al termine e l’Italia nonostante la vittoria entrò in un periodo di grandi tensioni politiche e sociali che per nulla favorirono la ripresa economica e tanto meno quella industriale relegando l’imprenditorialità, e così per l’aeronautica fu come se in Italia la guerra ne fosse stata l’unico fattore propulsivo. Bisognò attendere un intero lustro prima che, con l’instaurazione di un nuovo governo stabile, si tornasse a considerare di grande interesse nazionale tutto il mondo dell’aeronautica che ricevette un nuovo forte impulso, sia nel campo militare – il 28 marzo 1923 fu fondata la Regia Aeronautica Militare che ricevette in consegna da Esercito e Marina tutti i velivoli, i campi aeronautici terrestri e gli idroscali, nonché gran parte del personale militare, presto integrato da nuovi arruolamenti – e sia nel campo civile e imprenditoriale. Nel 1924 venne creato il Ministero delle comunicazioni, accorpando poste, ferrovie e marina mercantile e nell’agosto 1925 il Commissariato per l’Aeronautica, che era stato costituito nel gennaio 1923, fu elevato a Ministero. Il servizio regolare di posta aerea divenne di fatto una componente intrinseca all’aviazione civile e il suo sviluppo e la sua diffusione in Italia, come nel resto del mondo, andarono di pari passo con l’apertura delle linee aeree commerciali. Il 1° aprile 1926 venne inaugurata la prima linea aerea commerciale italiana per la tratta: Torino-Pavia-Venezia-Trieste, gestita dalla SISA con idrovolanti. E il 1° agosto di quello stesso anno 1926 venne inaugurata la prima linea aerea commerciale internazionale: la Brindisi-Atene-Costantinopoli, gestita dall’Aereo Espresso Italiana AEI con idrovolanti di base all’idroscalo di Brindisi e il volo inaugurale fu pilotato dal maggiore Umberto Maddalena su un Savoia Marchetti S-55 C. Nel 1927 la AEI aggiunse la linea Brindisi-Atene-Rodi mentre la SISA inaugurò la Brindisi-DurazzoZara. Nel 1928 la Società Aerea Mediterranea SAM, avviò la Brindisi-Valona con idrovolanti Savoia Pomilio S59: e già… proprio quella stessa rotta aerea che tra Brindisi e Valona nel giugno 1917 era stata la prima in Italia a coprire un “servizio regolare di posta aerea”.

il7 MAGAZINE 29 7 maggio 2021


CULTURE

Quella fuga a Brindisi del ‘43 anticipata da Hemingway

In un suo romanzo lo scrittore individuò in Brindisi la meta per fuggire al nemico di Gianfranco Perri rederic: “nelle guerre tra le montagne, un giorno ti prendi una montagna e il giorno dopo il nemico te ne prende un’altra, ma quando incomincia un attacco un po' serio bisogna scendere tutt’e due dalle montagne” - Gino: “e quindi tu cosa faresti se avessi una frontiera fatta di montagne” - Frederic: “una volta gli austriaci venivano sempre bastonati nel Quadrilatero attorno a Verona, li lasciavano scendere in pianura e li bastonavano lì” - Gino: “ma i vincitori erano francesi, in casa d’altri è più facile risolvere i problemi militari” - Frederic: “e già, quando si tratta del tuo paese non lo puoi usare così scientificamente” - Gino: “eppure i russi l’hanno fatto, per intrappolare Napoleone” - Frederic: “sì, ma quelli avevano un paese veramente enorme, se in Italia tentaste di ritirarvi per intrappolare Napoleone, vi ritrovereste a Brindisi”… Come a voler significare: “in Italia, il luogo più remoto dove si potrebbe pensar di andare per fuggire dal nemico, è Brindisi”. Siamo nell’autunno del 1917, tra Gorizia e Caporetto, sul fronte del Carso dopo un’estate sofferta in battaglia sul Monte San Gabriele. Siamo nelle pagine di uno dei primi capitoli di “Addio alle armi” a mio avviso il più bello di tutti i romanzi di Hemingway. Il romanzo d’amore e di guerra, in essenza autobiografico, che vide la luce nel 1929 ispirato dall’emotiva – e formativa – esperienza del giovanissimo scrittore americano, arruolatosi volontario della Croce Rossa ed operante come autista d’ambulanza tra le truppe italiane impegnate contro gli austriaci sui fronti delle Alpi orientali, dove l’8 luglio 1917 rimase abbastanza seriamente ferito e, ricoverato per tre mesi in ospedale a Milano, fu poi condecorato per le sue azioni in guerra, prima di ritornare al fronte. Frederic è il giovane tenente medico americano – il protagonista del romanzo, appena rientrato in servizio al fronte dopo qualche mese trascorso in ospedale a Milano in seguito a una seria ferita su-

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il7 MAGAZINE 32 14 maggio 2021


LE IMMAGINI La R. nave corvetta Baionetta giunge al porto di Brindisi il 10 settembre '43-a bordo il re Vittorio Emanuele III e parte del suo governo in fuga da Roma, a sinistra Settembre 1917 - Hemingway in convalescenza all'ospedale di Milano

bita nel mezzo di un improvviso attacco dell’artiglieria austriaca – e Gino è un ufficiale medico italiano incontrato nelle retrovie del fronte, nella sua Bainsizza, a nordest di Gorizia, oggi in Slovenia. Proseguendo con il dialogo, Gino chiede: “Brindisi? Un posto terribile! Sei mai stato lì? (Have you ever been there?)” e Frederic risponde: “Not to stay”. Quella risposta è stata tradotta in “solo di passaggio” che pur essendo una traduzione formalmente corretta, fa richiamare l’attenzione sul fatto che quella risposta non rifletterebbe la realtà autobiografica del personaggio, senza che ci sia una qualche spiegazione plausibile relativa a quell’eventuale inesattezza. Quella traduzione però, potrebbe anche non essere stata la più consona ad esprimere il senso voluto dall’autore: in quel contesto, quel rispondere “Not to stay” aveva il senso di “Not to stay there” e forse, meno letteralmente: “mai stato lì”. Hemingway in effetti non era mai stato a Brindisi, né alla data di quel dialogo né a quella della pubblicazione del romanzo, né peraltro ci passò mai in tutta la sua pur raminga vita. Però, evidentemente, sapeva bene di Brindisi e sapeva molto bene del suo carattere geografico e soprattutto storico di città limes, come del resto città limes – anch’essa quindi perfetta per la fuga – era la tropicale Key West, il punto continentale più meridionale e più remoto degli Stati Uniti, dove Hemingway si era rifugiato e dove aveva costruito la sua confortevole casa – è molto ben conservata e cerco di ritornarci ogni qualvolta vado a Key West – proprio quella dove nell’autunno e nell’inverno del 1928 scrisse la versione finale del suo “A farewell to arms”. Traduzioni a parte, viene comunque da riflettere su quale fosse il

senso vero di quel dialogo: «…Forse quelle battute andrebbero lette come una prolessi nascosta. Cosa infatti accadde dopo la ritirata di Caporetto? Certo, gli austro-tedeschi vennero fermati sul Piave e non arrivarono neanche fino a Verona, né tanto meno a Brindisi, ma fu in pianura che il loro tentativo di dare il colpo di grazia all'Italia ripetendo le tattiche usate a Caporetto venne sventato a giugno del 1918 nella battaglia del Solstizio. Il fallimento dell'ultima grande offensiva austriaca suonò la campana a morto per l'Impero austroungarico, per cui si può ben dire – parafrasando Hemingway – che solo quando gli italiani ebbero lasciato scendere in pianura gli austriaci poterono bastonarli, al punto che nel novembre dello stesso anno fu il Regio esercito a dare il colpo di grazia a quello Imperialregio. [“Ritirate parallele: Hemingway, Comisso e la rotta di Caporetto” di U. Rossi in ‘900 Transnazionale’, 2019] Certamente si può legittimamente osservare – e naturalmente è stato già fatto – che all’epoca della scrittura del romanzo, a fine 1928, Hemingway sapeva bene come era andata a finire la guerra e, se pur da lontano, poteva anche averne conosciuto alcuni dettagli attingendo alle fonti già disponibili e far quindi fare bella figura al personaggio Frederic, diretta replica del suo. Ma è anche stato detto che le battute apparentemente marginali nei dialoghi di ‘Addio alle armi’ appaiono molto meno gratuite di quel che può sembrare a una lettura distratta, anche in considerazione della teoria dell’iceberg propugnata proprio dallo stesso Hemingway, secondo la quale non tutto quel che il romanziere sa dei suoi personaggi e di quel che accade loro e al loro mondo deve essere esplicitato e comparire sulle pagine di un romanzo. Ma come la mettiamo a proposito della “fuga a Brindisi” del settembre '43? Qui non è facile trovare scappatoie. Al 1917, e neanche al 1928, fonti in proposito non ne sarebbero certo potute esistere. Eppure, a detta di Giancarlo Sacrestano, Hemingway con il suo Frederic «…parla di Brindisi, in un contesto storico, che egli non immagina: prefigura.»

il7 MAGAZINE 33 14 maggio 2021


CULTURE

LE IMMAGINI Addio alle armi-Prima edizione italiana Oscar Mondadori 1948, a destra Hemingway a Bassano in divisa di volontario della Croce Rossa

Frederic cioè, in quell’autunno del 1917 e pertanto con praticamente un quarto di secolo d’anticipo, prefigura per la città limes Brindisi, la meta della fuga – la fuga di quegli stessi regnanti Savoia da quegli stessi attaccanti tedeschi – per da lì, come i russi dalla Siberia con Napoleone, attendere pazientemente la ritirata degli invasori: certamente abbastanza intrigante, anche se, forse e più semplicemente, solo premonitore. «…Il re fugge: non so se partendo da Roma avesse già l’idea di arrivare a Brindisi, e questo non lo sa nessuno. È probabile che già ce l’avesse, però non possiamo esserne certi. Di fatto comunque, lui sapeva bene che Brindisi era un luogo di fuga, e lo sapeva anche perché lo aveva comprovato di persona quando ventisette anni prima aveva accolto, sulle banchine del porto di Brindisi, il suocero, a sua volta fuggiasco dal Montenegro, nel contesto del salvataggio dell’esercito serbo in biblica fuga verso Brindisi… Il re trova una città distrutta, con più del cinquanta per cento del patrimonio edilizio cittadino finito sotto le bombe degli Alleati. Le scuole deserte e buona parte della popolazione non in città in quanto sfollata nei paesi vicini. Erano rimasti ad abitarvi solo i funzionari necessari per fare andare avanti l’amministrazione della città e in particolare quella militare. Brindisi in quel momento – con quella sua posizione di città limes – diventa una capitale che rappresenta veramente un’Italia semidistrutta. Una capitale in cui il re non ha neanche abiti e deve rivolgersi agli artigiani locali per farsi cucire i vestiti, farsi fare le scarpe, insomma tutto quello che serve per andare avanti giorno dopo giorno…» [Giacomo Carito, 2015 - nella presentazione del libro “Brindisi persino capitale” di Antonio Mario Caputo] E già molto tempo prima del '43, a Brindisi erano fuggiti – se pur con fughe dalle cause e dagli esiti dissimili – Falanto, Spartaco, Cicerone, Pompeo e via via molti altri. E poi anche dopo il '43, prati-

camente da subito dopo a partire dal 1945, quando cominciarono ad affluire a Brindisi, in fuga, i giuliani, i fiumani, i dalmati e quindi gli ebrei che venivano dall’Europa orientale e dall’Africa settentrionale. E poi ancora, trenta anni fa nel 1991, l’immane esodo degli Albanesi a Brindisi... Solo per citare alcune tra le più eclatanti, delle fughe a Brindisi. ***** Ernest Hemingway, che era nato nel luglio del 1889 a Cicero – adesso Oak Park – in Illinois negli USA, nel 1954 vinse il premio Nobel di letteratura e il suo stile di prosa succinto e brillante esercitò una potente influenza sulla narrativa americana e britannica del '900. Queste le sue tre opere maestre: “Addio alle armi” scritta nel 1929, “Per chi suonano le campane” del 1940 e “Il vecchio e il mare” del 1951. All’alba del 2 luglio 1961, nella sua casa di Ketchum nello Stato dell’Idaho, Hemingway si suicidò sparandosi un colpo di fucile, dopo che negli ultimi anni di vita le sue condizioni fisiche e mentali si erano acceleratamente aggravate. Chissà se in quegli ultimi terribili momenti di sublime tragicità il romanziere Hemingway abbia ripercorso tutti i suoi racconti con tutti i suoi personaggi e le loro gesta, che poi erano spesso state quelle sue, reali o immaginate poco importa, e chissà se nell’intraprendere quella sua ultima fuga si riconobbe prefigurando la fuga a Brindisi. Sono state scritte e sono disponibili in praticamente tutte le lingue, decine di biografie di Hemingway, e quindi tralascio proseguire nel racconto di altri dettagli della sua vita e concludo aggiungendo solo un’ultima cosa. “C’è un’espressione inglese che si adatta perfettamente a Hemingway: “larger than life” – straordinario, esagerato, incredibile, fuori dall’ordinario; letteralmente più grande della (propria) vita. Di fatto, leggendario.”

il7 MAGAZINE 34 14 maggio 2021


La casa di Hemingway a Key West

La casa di Hemingway a Cuba


CULTURE

865 ANNI FA COME OGGI: LA PUGLIA ALL’OCCIDENTE

La vittoria dei normanni sui Bizantini nel porto di Brindisi il 28 maggio 1156 di Gianfranco Perri

’inserimento di Brindisi all’interno del quadro politico occidentale, il suo forzato volgere le spalle a Costantinopoli per dirigere lo sguardo verso Roma, può compendiarsi in una data e negli eventi che in quella circostanza si svilupparono. Il riferimento è al 1156, al conflitto che, opponendo dialetticamente Palermo a Costantinopoli, ebbe sintesi in Brindisi... Con la vittoria del re di Sicilia, il normanno Guglielmo I d’Altavilla, ottenuta presso Brindisi sui Bizantini dell’imperatore romano d’Oriente, Manuele I Comneno, fallì l’ultimo tentativo bizantino di riconquistare militarmente l’Italia. Quell’epica battaglia, vinta dai Normanni nel porto di Brindisi il 28 maggio del 1156, consegnò definitivamente la Puglia all’Occidente, sottraendo Brindisi e l’intera regione all’orbita di Costantinopoli. Per questo, quell’evento bellico assunse importanza epocale, paragonabile, latu sensu, a quello di Legnano per il nord Italia.» [“Brindisi fra Costantinopoli e Palermo: 1155-1158” di Giacomo Carito, 2015] Giunti nelle regioni meridionali italiane probabilmente per o da un pellegrinaggio in Terra Santa, o magari semplicemente di ritorno da Oriente all’alba dell’anno Mille, i primi Normanni arrivati si resero presto conto delle opportunità che il Mezzogiorno offriva loro in quell’Xl secolo. Inizialmente si trattava di piccoli gruppi di cavalieri provenienti dalle file dell’aristocrazia minore del ducato di Normandia e, quali indomabili guerrieri che erano, nei primi decenni del secolo furono assoldati come mercenari da vari principi longobardi nonché da alti funzionari bizantini, tutti alla costante ricerca di guerrieri con cui rinforzare i propri eserciti. Quindi, molti altri ambiziosi guerrieri normanni, privi di prospettiva di carriera nelle proprie terre nordiche, o che finanche avevano avuto problemi con la severa giustizia ducale, scelsero di trasferirsi nel Mezzogiorno italiano. Tra di loro, particolare fortuna incontrarono i discendenti di Tancredi d’Altavilla - Hauteville - cavaliere appartenente alla piccola nobiltà normanna: dei dodici figli avuti da due mogli, Tancredi vide partirne ben nove alla volta dell’Italia meridionale. In particolar modo due di loro vi avrebbero lasciato una traccia duratura: il primo, Roberto, poi conosciuto con il soprannome di Guiscardo, che nel giro di un decennio da semplice cavaliere giunse ad essere investito della carica ducale, ereditata nel 1057 in seguito alla morte del fratello Umfredo; l’altro, di nome Ruggero, che dopo dure

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il7 MAGAZINE 30 28 maggio 2021


LE IMMAGINI Navi normanne in navigazione, sotto mappa di Al Idrisi del 1154 - dettaglio lotte avrebbe assunto il governo della Sicilia, strappata definitivamente ai Musulmani nel 1091 dopo un trentennio di combattimenti. Il motivo alla base del successo dei Normanni giunti nel sud Italia, fu la capacità di inserirsi con abilità tra i vari poteri – longobardi, bizantini e saraceni – già presenti ed in aperta competizione, e quindi sfruttare le loro rivalità reciproche allo scopo di conquistare quanta più libertà d’azione, nonché quanti più territori possibili. Il tutto in tempi brevissimi: nel 1030 la concessione della prima contea, quella di Aversa, con investitura del principe longobardo Sergio III di Napoli a Rainulfo; nel 1042 Guglielmo è scelto come conte di Puglia; nel 1059 Riccardo Quarrel è riconosciuto da papa Niccolò II come principe di Capua, mentre Roberto il Guiscardo è a sua volta riconosciuto con il titolo di duca di Puglia e Calabria. Roberto il Guiscardo infatti - quarto duca di Puglia, succeduto nel 1057 alla morte in sequenza dei suoi tre fratelli, Guglielmo Drogone e Umfredo, che lo avevano preceduto con quel titolo - nel sinodo di Melfi del 1059 si era dichiarato vassallo di papa Niccolò II in cambio dell’intitolazione del ducato di Puglia e Calabria, allora ancora parzialmente sotto influenza bizantina, e di quello di Sicilia, ancora in mano islamica. Così, una città dopo l’altra e una provincia dopo l’altra andarono perdute da Costantinopoli in favore dei Normanni, che nel 1071 espugnarono Bari, l’ultima importante città bizantina e sede del Catepanato d’Italia e, infine, Brindisi, il cui governo Roberto lo concesse al conte di Conversano, Goffredo, figlio di sua sorella Emma. Parallelamente, il 25 dicembre 1071, fu espugnata anche Palermo e fu fondata la contea di Sicilia il cui governo fu assunto da Ruggero I, fratello minore del Guiscardo, mentre questi – già all’epoca leader di fatto di tutti i Normanni arrivati nel Mezzogiorno italiano – volse le sue ambiziose mire alla conquista di Costantinopoli, non riuscendovi per poco: morì infatti sull’isola greca di Cefalonia il 17 luglio 1085, durante una pausa della campagna di conquista che aveva intrapreso salpando da Brindisi. Qualche anno dopo, alla morte di Ruggero I avvenuta nel 1101, la contea di Sicilia passò in eredità al primogenito Simone, che però morì bambino nel 1105 e così, a succedere fu il secondogenito Ruggero II, sotto la reggenza della madre Adelasia fino al 1112. Quando nel 1127 morì senza eredi diretti il sesto duca di Puglia e Calabria, Guglielmo, che era succeduto al padre Ruggero Borsa figlio del Guiscardo, Ruggero II conte di Sicilia rivendicò il diritto di succedere al cugino e alla fine, facendo ricorso anche alla forza, più o meno tutti gli riconobbero la sovranità sui territori che erano stati dello zio, il Guiscardo. Finalmente, nel Natale dell’anno 1130, Ruggero II venne incoronato “re di Sicilia e Italia” dall’antipapa Anacleto II. Nel mezzogiorno d’Italia - unendo i territori della contea di Sicilia, del ducato di Puglia e Calabria, del ducato di Napoli, del principato di Capua e dell’Abruzzo - era nato per la prima volta nella storia un regno unitario, il “Regno di Sicilia” con capitale Palermo, città cosmopolita, inaugurandosi un’epoca di splendore e di guerre, interne ed esterne, per quel meridionale nuovo regno normanno, che inevitabilmente finì con volgere nuovamente le mire verso Oriente, tanto che tra il 1147 e il 1148 la flotta di Ruggero II stette per arrivare a Costantinopoli con una spedizione che ebbe – ancora una volta – come retroterra logistico il porto di Brindisi. Il 26 febbraio 1154, il re Ruggero II morì e gli succedette il figlio Guglielmo I. A novembre del seguente anno, la notizia che i baroni di Puglia avevano intenzione di ribellarsi al nuovo re insediato a Palermo, indusse l’imperatore bizantino Manuele I Comneno a organizzare un intervento armato in sud Italia, convinto com’era che i Normanni fossero ben più pericolosi per Costantinopoli che i Musulmani. Inviò un poderoso esercito e una numerosa flotta sotto la rispettiva guida di Giovanni Dukas e di Michele Paleologo i quali, sostenuti dai baroni e da alcune città pugliesi - Brindisi inclusa - ribellatisi al seguito del conte Roberto III di Loretello, poterono occupare le città della costa da Ancona a Brindisi e giungere fino a Taranto. I coalizzati contro il re di Sicilia, nel corso dell’estate del 1155 presero facilmente Bari, nonché Trani e Giovinazzo. In seguito, Giovanni Dukas inflisse una grave sconfitta alle truppe siciliane, prima resistendo alle cariche delle truppe comandate da Riccardo conte di Andria, e poi contrattaccando e disperdendo completamente i nemici mettendoli in fuga. Quindi anche Andria, Monopoli, Bitonto e Molfetta, caddero tutte sotto il controllo dei ribelli che si erano coalizzati con i Greci ai danni dei Normanni. Brindisi assunse un ruolo centrale nella complessa vicenda ed è a Brindisi che, infatti, avvenne lo scontro finale. Guglielmo I, rior-

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CULTURE

ganizzato il suo esercito, ai primi del 1156 attraversò lo stretto risalendo lo stivale con le sue forze terrestri mentre la sua marina puntò direttamente su Brindisi, tenacemente assediata dai soldati bizantini i quali, comandati da Giovanni Dukas e contando con la complicità dei loro numerosi partigiani locali, avevano penetrato le mura cittadine e avevano posto l’assedio alla “rocca” in cui si erano asserragliati i soldati normanni rimasti fedeli al re, cercando invano per 40 giorni di espugnarla anche dal mare con Alessio Comneno, nipote dell’imperatore, inviato con nuove navi cariche di soldati a rilevo di Michele Paleologo, morto a Bari. «Il 24 aprile 1156 i bizantini pongono il campo sotto le mura di Brindisi. Ricorrendo la vigilia della Pasqua, l’esercito rimane inoperoso e i brindisini fedeli al re cercano d’approfittarne con una sortita che non ha esito... Gli assalitori, risultati vani i tentativi di sfondamento delle mura operati con le tradizionali macchine da guerra, preferirono operare un fittissimo lancio di pietre… La crescita demografica, registratasi a partire dall’XI secolo, aveva condotto all’urbanizzazione di tutte le aree all’interno del circuito difensivo; le abitazioni, che possiamo pensare per la gran parte con annessi magazzini di deposito alla maniera veneziana, erano ormai addossate alle mura. La città di Brindisi fu quindi presa ma non la rocca, bloccata da terra e dal mare per quaranta giorni… Un transfuga avverte che Guglielmo è vicino. I bizantini dividono le forze: Giovanni Dukas si sarebbe opposto alle forze marittime nemiche, Roberto di Basavilla e Giovanni Angelo avrebbero fronteggiato un eventuale assalto da terra. Le navi siciliane furono presto all’orizzonte e, dieci per volta, valicarono la foce del porto; la flotta bizantina era

Navi bizantine in rada Costantinopoli LE IMMAGINI Tancredi, signore di Hauteville con laasua seconda moglie Fressenda a tavola con i dodici figli maschi esigua al confronto e Dukas, per incoraggiare i suoi, annuncia l’imminente arrivo di solleciti rinforzi imperiali… L’imperatore Manuele I manda in Italia una flotta e un esercito sotto il comando del nipote Alessio. Questi non aspetta di radunare l’armata e salpa subito alla volta di Brindisi con poche forze. Roberto di Basavilla, appena ha sentore dell’arrivo di Guglielmo, considerando che la rocca ancora resiste, defeziona. I cavalieri marchigiani chiedono che siano duplicati i loro stipendi; avuta risposta negativa decidono di ritirarsi... I Romani – i Bizantini – reiterano i loro assalti, ma la fine tuttavia si approssima. Una schiera di celti abbandona i Romani e passa al servizio di Guglielmo I. L’esercito normanno avanza; lo fronteggia una forza ormai esigua ma non priva di orgoglio e coraggio…» [“Brindisi fra Costantinopoli e Palermo: 1155-1158” di G. Carito] Guglielmo I quindi, giunse in forze a Brindisi, per mare e per terra. Debellati definitivamente i Bizantini, conquistò con epica battaglia la città il 28 di maggio 1156, facendo prigionieri Giovanni Dukas, Alessio Comneno e molti altri dignitari bizantini, che portò a Palermo, rilasciandoli nel 1157 solo dopo aver obbligato il papa e l’imperatore d’Oriente alla firma di una pace accondiscendente al suo dominio. Il re normanno vincitore fu molto severo e riservò miglior sorte ai prigionieri bizantini che ai suoi sudditi ribelli. Bari fu completamente rasa al suolo, incluso la cattedrale. Fu risparmiata solo la basilica di San Nicola, mentre anche tutte le altre città ribelli della Puglia furono punite duramente dal sovrano tradito e risultato fieramente

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vincitore. Brindisi fu risparmiata dalla distruzione totale solo grazie alla tenace resistenza mostrata e mantenuta durante il prolungato assedio, ma fu comunque saccheggiata, spopolata e ridotta in estrema miseria per castigare i suoi tanti traditori ribelli; tutti i mercenari catturati furono uccisi perché avevano tradito la loro patria. L’arcivescovo di Brindisi, il francese Lupo, che assisté alla devastazione della città operata dai vincitori, qualche mese dopo - in agosto - ottenne la grazia dal re Guglielmo I, recandosi personalmente a Palermo e ricevendo finalmente la conferma dei privilegi propri della chiesa di Brindisi precedentemente revocati in castigo per la sua supposta - e in effetti, se pur parziale, reale complicità con i ribelli. Definitivamente si trattò di una battaglia, anzi di tutto un evento bellico-politico, dal carattere epico ed epocale. Già lo storico Giovan Battista Casmiro, infatti, nel suo manoscritto del 1567 – Epistola Apologetica ad Quintum Marium Corradum – attribuisce un alto valore simbolico a quei fatti accaduti a Brindisi nel 1156 e “l’assedio normanno è dilatato temporalmente sino a renderlo raffrontabile a quello posto dai greci ai danni di Troia e come quello assume un significato che travalica l’evento stesso”. Recentemente, Giacomo Carito ha descritto documentato e commentato quello storico episodio accaduto in Brindisi, presentandolo al Convegno sull’Età normanna in Puglia tenutosi il 23 aprile 2015 ed al cui testo – Brindisi fra Costantinopoli e Palermo – integralmente contenuto negli Atti del convegno, si può riferire chiunque sia interessato ad approfondire il tema.


Tancredi, signore di Hauteville con la sua seconda moglie Fressenda a tavola con i dodici figli maschi, riceve il messo del principe di Salerno venuto per invitare i giovani cavalieri a partire per l’Italia. Da sinistra a destra: Tancredi e Fressenda, poi i figli in ordine d’età: Serlone, Guglielmo, Drogone, Umfredo, Goffredo, Roberto, Malgero, Guglielmo, Alveredo, Tancredi, Umberto e Ruggero. Per ultimo, l’ospite.

L’imperatore d’Oriente Manuele I Comneno

Guglielmo I re di Sicilia - detto “il malo”


CULTURE

1938-39, partono da Brindisi i rurali inviati in Africa Orientale

in pieno periodo fascista le spedizioni

dell’ente di Colonizzazione Puglia d’Etiopia di Gianfranco Perri voler cercar forzosamente di attribuire alla pandemia – che sembra essere finalmente giunta sulla via dell’estinzione – un qualche aspetto positivo, si potrebbe forse indicare che l’averci “regalato” un’infinità di ore da trascorrere in casa, ha permesso ad alcuni di navigare su internet spulciando con inusuale dettaglio interessanti siti e pagine della cui esistenza forse non avremmo mai neanche saputo. A me è accaduto in più d’una occasione ed in una di quelle mi sono imbattuto in alcuni filmati relativi a stralci di cinegiornali del secolo scorso: cinegiornali Luce che in qualche modo citavano eventi, più o meno importanti, più o meno mondani e più o meno storici, accaduti a Brindisi. Uno di questi filmati ha per titolo: “Giornale Luce B1241 del 26/01/1938: La partenza dal porto di Brindisi del primo nucleo di rurali per l'Africa Orientale Italiana - AOI”. Per gli appassionati e gli studiosi della storia italiana recente, la voluminosa raccolta fotografica e soprattutto filmica dell’Archivio Storico dell’Istituto Luce rappresenta una preziosa fonte referenziale per gli anni a partire dal 1924, anno della sua nascita. L’Archivio Storico Luce è in effetti la memoria audiovisiva del ‘900 italiano, specialmente con la sua altamente significativa produzione documentaristica: la storia del Paese attraverso un secolo di immagini in movimento. Nel 2013 il Fondo Cinegiornali e Fotografie dell’Istituto Nazionale L.U.C.E. entrò a far parte del prestigioso “Registro Memory of the World dell'UNESCO” con la seguente motivazione: «La collezione costituisce un corpus documentario inimitabile per la comprensione del processo di formazione dei regimi totalitari, i meccanismi di creazione e sviluppo di materiale visivo e le condizioni di vita della società italiana. Si tratta di una fonte unica di informazioni sull’Italia negli anni del regime fascista, sul contesto internazionale del fascismo (tra cui l’Africa orientale e l’Albania, ma anche ben oltre le aree occupate dall’Italia durante il fascismo, soprattutto per quanto riguarda il periodo della Seconda Guerra Mondiale) e sulla società di massa negli anni Venti e Trenta del Novecento.» Ebbene, quei pochi elementi contenuti nei 66 secondi di durata del filmato sopra citato, si sono rivelati sufficienti per avviare una ricerca

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sull’argomento trattato, approfondire la scarna notizia riportata e saperne qualcosa in più su un tema interessante e che in qualche misura di certo appartiene anche alla storia di Brindisi. Nell’Archivio di Stato di Brindisi, infatti, tra le carte del fondo “Prefettura” riposano vari fascicoli relativi all’emigrazione di contadini e operai nell’Africa Orientale Italiana negli anni compresi tra il 1934 e il 1940. Uno di quei fascicoli è relativo all’Ente di colonizzazione Puglia d’Etiopia, direttamente citato nel filmato. Il 6 dicembre 1937, con il r.d.l. 2325 convertito nella legge n. 679 del 15 aprile 1938, fu istituito l’Ente di colonizzazione Puglia d’Etiopia. Era stato approvato dal Consiglio dei ministri nella seduta del 19 ottobre 1937 su proposta del Ministero dell’Africa italiana, dopo essere passato all’esame del Consiglio superiore coloniale. Tra le motivazioni poste a base del provvedimento si includeva “la necessità della Nazione di dare lavoro ai suoi figli e, insieme, di popolare e valorizzare l’Impero… mentre migliaia di lavoratori italiani sono impazienti di emigrare nelle terre dell’Impero per apportare il contributo delle loro capacità alla valorizzazione di esse.” In particolare, l’Ente – presieduto dall’ingegnere Giambattista Giannoccaro e finanziato dal Banco di Napoli, dall’Istituto nazionale previdenza sociale e da vari enti provinciali pugliesi – si proponeva, nel contesto della colonizzazione demografica dell’AOI, l’avvaloramento agricolo dei terreni della provincia del Cercer d’Etiopia. Specificamente, all’Ente furono dati in concessione un totale di 5000 ettari concentrati nella pianura di Uacciò. Quel decreto 2325 era giunto a conclusione di un articolato iter che era iniziato nello stesso 1937, quando il 4 gennaio dal porto di Brindisi era partito in missione speciale Giuseppe Tassinari per intraprendere un viaggio in Africa su incarico del capo del governo, Mussolini, visitando per due mesi i territori della Somalia e dell’Etiopia e riferendo, al rientro, le sue impressioni opinioni e consigli sulle possibilità di una colonizzazione demografica di quei territori, orientata all’organizzazione agricola: una minuziosa ed estesa relazione sui vari aspetti e le problematiche amministrative, tecniche e logistiche, inerenti quell’ambizioso e complesso progetto. Il 17 dicembre 1937, il commissario Sergio Nannini scriveva al prefetto

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LE IMMAGInI “La prima messe dell’Impero: in territorio di oletta a 40 Km da Adis Abeba, dove i coloni hanno organizzato vaste piantagioni sperimentali, è stato festosamente trebbiato il primo grano d’Etiopia coltivato da Italiani” (Copertina della Domenica del Corriere del 16 gennaio 1938) Sotto 26 gennaio 1938: Partenza da Brindisi del 1º nucleo rurali dell’Ente di Colonizzazione Puglia d’Etiopia

di Brindisi, Silvio Ghidolfi, raccomandando che i coloni fossero scelti tra mezzadri, piccoli affittuari, piccoli coltivatori diretti, escludendo i semplici braccianti che non potevano avere alcuna esperienza di conduzione di poderi. Era infatti previsto che all’inizio la terra fosse coltivata in comunità ed in seguito, una volta che il capofamiglia si fosse sistemato, avesse avviato i lavori, fosse stato raggiunto da moglie e figli, la terra sarebbe stata divisa in lotti di qualche ettaro di estensione ciascuno, da affidare a ogni singolo gruppo familiare. I coloni incapaci o indegni avrebbero perduto la concessione, mentre la piena proprietà era prevista non solo dopo il completo pagamento delle rate stabilite, ma anche dopo l’attuazione di una serie ben determinata di obbligazioni di carattere tecnico. Il 17 gennaio 1938, lo stesso prefetto di Brindisi Ghidolfi, comunicava al Ministero dell’interno la partenza di 105 coloni pugliesi alla volta dell’Africa, il primo scaglione dei 400 capi di famiglia che l’Ente aveva stabilito dovessero costituire la Puglia d’Etiopia: “selezionati tra contadini, braccianti di campagna, manovali, boscaioli, artigiani e operai qualificati e specializzati, quei 105 rurali destinati a colonizzare la provincia Cercer nella regione dell’Harar – tutti d’età compresa tra 22 e 45 anni e provenienti dalle varie aree della Puglia – avevano ben dimostrato la propria idoneità fisica morale e politica”. Partirono dal porto di Brindisi il 26 gennaio 1938. Il viaggio in piroscafo salpava da Brindisi diretto a Porto Said, includeva l’attraversamento del Canale di Suez, e l’arrivo a Massaua – primo importante porto dell’AOI – era previsto dopo circa una settimana dalla partenza. Un anno dopo, il 23 gennaio 1939, un telegramma inviato dalla Prefettura di Brindisi a Roma informava che “fra entusiastiche dimostrazioni stasera prenderanno imbarco sul piroscafo Italia i primi nuclei familiari delle province pugliesi destinati a raggiungere


CULTURE i rispettivi capi di famiglia in Puglia d’Etiopia”. Si trattava di 15 famiglie i cui capi, che erano partiti con altri 90 un anno prima, avevano espletato felicemente il periodo di prova, dimostrandosi così all’altezza di condurre in proprio un podere. In seguito, un secondo scaglione di rurali composto da 92 capi famiglia pugliesi partì dal porto di Brindisi il 12 giugno 1939, ma tutti costoro, a causa dello scoppio della guerra, non furono mai raggiunti dai propri familiari. Poi, pur se tra difficoltà, il processo di reclutamento di nuove famiglie coloniche pugliesi proseguì fino a tutto il 1940, ma di fatto, il trasferimento dei coloni italiani in AOI s’interruppe. Da lì a poco quel trasferimento sarebbe stato rimpiazzato da un massivo quanto rocambolesco rientro forzato. «…Trentamila persone circa rientrarono in Patria dall’AOI tra il 1942 e il 1943: la società italiana che avevano lasciato ormai non esisteva e quella attuale che li accolse aveva valori molto diversi; loro stessi erano diversi da quando si erano allontanati dall'Italia. Il fascismo non era più la garanzia certa di una vita di lavoro, quel fascismo che, nella maggior parte dei casi, li aveva spinti a cercare fortuna in terre lontane o a migliorare comunque le proprie condizioni di vita con agi a volte per loro impensabili in Italia. Grandi delusioni, ricordi e amarezze accompagnarono ognuno di quei tanti viaggiatori: la guerra sarebbe ancora continuata, mentre l'Italia all'epilogo della sua avventura coloniale, si avviava verso l'apice della disastrosa guerra in cui s'era lanciata…» [“Il rimpatrio degli italiani dall’A.O.I.: le navi bianche” di Maria Gabriella Pasqualini, 1993] Era accaduto che agli inizi del 1941, le forze inglesi avevano intrapreso una travolgente avanzata sull’Africa Orientale Italiana e dopo il 17 maggio 1941, vinta sull’Amba Alagi l’ultima resistenza italiana, completarono l’occupazione di tutti i territori dell’AOI, imprigionando gli italiani uomini e concentrando donne vecchi e bambini in vari campi

LE IMMAGInI Etiopia, Regione degli Afar, Provincia del Chercher: Area dell’Ente di Colonizzazione di Puglia d’Etiopia, sotto il piroscafo transatlantico Conte rosso - requisito al Lloyd triestino per la guerra d'Etiopia

ad hoc. Rimasero lì fino alla stipulazione dell’accordo del 1492 per il rientro in Italia. Brindisi con il suo porto, ancora una volta, era stata testimone e protagonista della storia, una storia questa volta – quella dell’avventura coloniale italiana, iniziata proprio dal porto di Brindisi nel lontano 12 ottobre 1869 – finita decisamente non bene. Così come, di conseguenza, non era finita bene la storia dell’emigrazione dei lavoratori, rurali e non, verso le colonie italiane d’Africa. Parecchi tra quelle varie decine di migliaia di civili italiani rien-

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trati forzosamente dall’AOI tra il 1942 e il 1943 avevano lasciato l’Italia proprio salpando dal porto di Brindisi, fin dall’800 e proseguendo nel nuovo secolo, quando fu anche la stessa politica governativa ufficiale ad incentivarne la partenza dopo la pirrica conquista dell’Etiopia del 1936. Quella organizzata dall’Ente di colonizzazione Puglia d’Eritrea infatti, era stata solo l’ultima importante ondata emigratoria partita da Brindisi, dopo che, ad esempio, solo pochi anni prima, nell’aprile del 1935, dallo stesso porto erano salpati a bordo del maestoso piroscafo Conte Rosso – che durante la guerra di Etiopia era stato requisito al Lloyd triestino per il trasporto delle truppe – alla volta dell’AOI, ben 400 volontari civili salentini “lavoratori tenaci, sobri e silenziosi” quasi tutti operai specializzati, sia dell’industria che dell’agricoltura. [“Brindisi saluta con entusiasmo 400 operai in partenza per l’Africa” di G. Membola - il7 Magazine del 15-2-19] Non esiste per il porto di Brindisi un registro organico relativo alle partenze dei migranti italiani verso le colonie africane; e pertanto non è pensabile poter reperire i nominativi di quei tanti che emigrarono in quell’arco d‘anni – poco più di mezzo secolo – compreso tra fine dell’800 e metà ‘900. E purtroppo non è neanche possibile poter reperire registri quanto meno limitati alle date, alle navi ed al numero degli imbarcati. Si trattò infatti di partenze, anche se a volte spontanee, più spesso organizzate dalle varie amministrazioni nazionali regionali e locali y cui archivi, spesso irreperibili o inaccessibili, sono comunque sparsi, quando non sono andati del tutto o parzialmente distrutti o dispersi. Peccato! Forse, quei nomi con le loro storie resteranno solo nella memoria orale di alcuni dei loro discendenti o, tutt’al più, tra i fogli sgualciti di qualche vecchio album di foto ingiallite.



CULTURE

Brindisi tra il IX e il X secolo: in balia del

« tutti contro tutti »contro i tu t« t

La città affossata dalla guerra greco-gotica, e poi da Bizantini, longobardi e saraceni di Gianfranco Perri

e fonti relative alla storia di Brindisi tra il VI e il X secolo inclusi, sono particolarmente avare, costituendo tale carenza quasi assoluta un forte indizio della effettiva mancanza di eventi circostanze e personaggi da riferire in relazione alla città, un indizio quindi di marcata decadenza, associata, anche e certamente, ad un progressivo accentuato processo di depopolamento ed alla conseguente perdita della stessa fisionomia urbana della città. La prolungata guerra greco-gotica prim, l’esosa occupazione bizantina dopo, una serie di catastrofi naturali e finalmente, l’approssimarsi dei Longobardi ed il susseguirsi delle prime devastanti incursioni saracene, furono tutti eventi che più o meno in successione, per secoli affossarono completamente la città, la sua economia e la sua popolazione. Fino a quando, dopo che nel 1005 Durazzo ritornò sotto il controllo di Costantinopoli, Brindisi fu chiamata a rinascere per svolgere di nuovo una funzione di primo piano nel contesto di un rinnovato e più vasto orizzonte politico di Bisanzio. Una rinascita rimasta incipiente, che però, poco dopo, fu impulsata con decisione dai nuovi arrivati: i Normanni. Ecco qui il racconto di quei tempi, in sintesi e in ordine cronologico. Dopo la rovinosa ventennale guerra greco-gotica conclusa nel 553 e dopo la conquista longobarda – che per Brindisi fu materializzata ai danni dei Bizantini intorno al 680 dal duca di Benevento Romualdo I – la città rimase semidistrutta, stremata e ridotta a poco più che un’espressione geografica e quasi spopolata, anche se non del tutto abbandonata. Ai margini della città rimasero alcuni gruppi di Ebrei, stabiliti presso il seno di levante del porto interno e presso l’attuale via Tor Pisana, e qualche altro sparuto gruppo di cittadini stabiliti intorno al vecchio martyrium di San Leucio, nelle adiacenze dell’estremo dell’insenatura di ponente. Dunque, alla fine del VII secolo, Brindisi, sottratta al controllo bizantino, divenne longobarda e poi per circa un secolo e mezzo di essa non se ne parla più, né se ne sa praticamente nulla, con eccezione – forse la sola – della citazione che ne fa l’anonimo tranese, descrivendola “eversa vero atque diruta” nel suo racconto del trafugamento delle spoglie del proto vescovo brindisino San Leucio, effettuato nottetempo da un gruppo di Tranesi ad ulteriore riprova dell’estrema debolezza sociale, oltreché politica ed economica, in cui versava la città con i suoi superstiti abitanti.

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Città quindi formalmente longobarda, Brindisi restò tale anche dopo l’arrivo dei Franchi di Carlo Magno che, sceso in Italia nel 771 chiamato dal papa Stefano III e sconfitti i Longobardi nel 774, rinunciò ad estendere il proprio controllo sulle longobarde terre beneventane. Probabilmente, il re Carlo preferì mantenere in vita quello stato longobardo in un certo qual modo a lui sottomesso, piuttosto che intraprendere impegnative campagne militari che avrebbero potuto attivare pericolose frizioni con il confinante – in quel sud italiano – impero bizantino, nonché stimolare imbarazzanti richieste di ampliamento territoriale verso Sud da parte pontificia. Se ne riparla – di Brindisi – solo nell’838 e se ne riparla perché sullo scenario del Meridione continentale d’Italia è apparso un terzo litigante ad affiancare i due precedenti e già secolari contendenti longobardi e bizantini. Si tratta degli Arabi originari del nord Africa, poi più comunemente detti Saraceni, provenienti dalla loro nuova vicina base, la Sicilia, che da poco più di una decina d’anni – dall’827 – avevano gradualmente cominciato ad occupare, sottraendola ai Bizantini. Una volta sbarcati e ben insediati nella Sicilia, infatti, fu naturale che gli Arabi guardassero all’Italia peninsulare come ad una meta di conquiste e, soprattutto, di scorrerie. Le incursioni e le loro azioni di offesa verificatesi nel Sud Italia, infatti, per lo più contrastarono con la stabilità propria dell’insediamento musulmano insulare della Sicilia, dove da subito si manifestò il desiderio di una durevole conquista con una chiara volontà di includerla nel dominio islamico. Nel territorio peninsulare, invece, i pochi isolati episodi di conquista, come quelli di Bari e di Taranto o sul Garigliano a sud di Gaeta, si estinsero nel giro di due o tre decenni al massimo; mentre per ben due secoli, il IX e il X, quasi l’intero Mezzogiorno visse la presenza musulmana come un endemico flagello di guerra e di rapina, continuamente combattuto – da Bizantini, Veneziani, Longobardi, Pontifici, Franchi – e mai debellato. E tutto ciò durò così a lungo anche perché gli Arabi furono abili a inserirsi nelle vicende della tribolata storia altomedievale del Meridione italiano, proprio come avvenne in quella loro prima incursione, tra l’836 e l’837, quando fu lo stesso duca di Napoli, il console Andrea II, che li chiamò in suo soccorso contro Sicardo, il principe longobardo di Benevento, che lo aveva assediato. Da lì in avanti il prosieguo fu inevitabile e, solo un anno dopo, gli Arabi di Sicilia comparvero nelle acque del-

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LE IMMAGInI L'emiro interroga un ambasciatore bizantino nell'assedio arabo di Benevento dell'871, sotto gli imperatori Ludovico II e Basilio I liberano Bari dai Saraceni di Sawdan il 3 febbraio 871

l’Adriatico e s’impadronirono indisturbati di Brindisi. Il duca Sicardo, appena saputolo, accorse da Benevento con numerose forze a cavallo per respingerli, ma la sua corsa si bloccò per un banale tranello: gli assalitori arabi, scavata una lunga e profonda trincera in prossimità dell’ingresso alla città, la ricoprirono con rami e con zolle di terra; quindi, vi attirarono l’ingenuo nemico che cadde nella trappola subendo

gravissime perdite; e lo stesso Sicardo riuscì a salvarsi solo fortunosamente. Quegli Arabi giunti fino a Brindisi, probabilmente in pochi, avuta notizia che dopo lo scacco il duca-principe Sicardo stava facendo grandi preparativi per la rivincita, non esitarono a dar fuoco alla città e a ritirarsi, non senza averla depredata del poco ancora depredabile. Poi, abbandonandola momentaneamente, alcuni Saraceni si stabilirono una quindicina di chilometri più a nord, nella strategica e protetta baia di Guaceto, ove costruirono un campo trincerato – denominato "ribat" del quale fino a tutto il XVI secolo si scorgevano ancora le rovine – che servì loro come base da cui dedicarsi, indisturbati, a organizzare per anni scorrerie per mare e per terra. I Saraceni, che con l’intervento a favore di Napoli prima e con la presa di Brindisi poi, avevano sperimentato la debolezza del ducato beneventano, nell’840 risalirono le coste della Calabria ed occuparono Taranto e subito dopo, nell’841, riattaccarono la costa adriatica con un primo assalto fallito alla città di Bari, che finalmente fu stabilmente occupata l’anno dopo. Così, oltre che dalla Sicilia, anche da Taranto e soprattutto da Bari – città che divennero sedi di emirati – partirono per anni le incursioni arabe, sempre più penetranti e più incisive, dirette su città e territori adiacenti appartenenti ai domini bizantini residui in Italia, nonché a quelli longobardi. La situazione di instabilità causata dalla presenza araba nell’Italia meridionale cominciò finalmente a preoccupare seriamente anche il papa e quegli stessi principi che avevano in qualche modo flirtato con gli Arabi di Sicilia, i quali pensarono bene di richiedere l’aiuto dell’impero, quello dei Franchi, il quarto contendente nello scacchiere dei “tutti contro tutti”. Così, eletto sacro romano imperatore nell’850, Ludovico II nipote di Carlo Magno, nell’852 fu sollecitato a scendere nel Sud d’Italia, nel tentativo di liberare le città pugliesi – Bari in primis – dal giogo arabo, ma fallì nell’intento a causa dei contrasti ben presto sorti con i principi longobardi, primordialmente interessati a conservare la propria autonomia. Fu Venezia poi, con il suo Doge Orso, che nell’864 inviò una flotta di quaranta navi e finalmente batté i Saraceni e permise per qualche anno la restaurazione del dominio bizantino su Taranto. Ciò però, non impedì ai Saraceni di resistere di nuovo allo stesso sacro romano imperatore, il franco Ludovico II, il quale, ridisceso a sud nell’866, in Puglia nell’868 solo riuscì a liberare dall’occupazione araba Ma-


CULTURE LE IMMAGInI Un guerriero saraceno

tera Canosa e Oria, giacché l’enorme flotta di ben quattrocento navi comandata dal patrizio Niceta Orifa inviatagli dall’imperatore bizantino nell’869 per supportare l’attacco terrestre a Bari, si ritirò a Corinto e lo lasciò impotente. Ludovico II, infatti, nel mezzo di una disputa ideologica con l’imperatore d’Oriente Basilio I, si era rifiutato di acconsentire al già accordato matrimonio di sua figlia, Ermengarda, con Costantino, figlio di Basilio I. Nel trascorso di quella campagna, con l’obiettivo di colpire i Saraceni del vicino emirato barese, i Franchi di Ludovico II attaccarono e presero – circa l’867 – anche Brindisi, che nel frattempo era stata rioccupata dagli Arabi. Dopo qualche anno, tra i due imperatori si ristabilì una certa collaborazione e così Ludovico II poté puntare su Bari, conquistandola finalmente il 3 febbraio dell’871, liberandola dal trentennale dominio arabo e facendo prigioniero l’emiro Sawdan, che fu portato dal principe Adelchi a Benevento, dove rimase incarcerato per anni. Quindi, già morto – nell’875 – l’ormai vecchio imperatore Ludovico II, i Bizantini dell’imperatore Basilio I nell’876 sottrassero Bari all’influenza del longobardo Adelchi e, finalmente – nell’880 – riuscirono anche a liberare Taranto dai Saraceni nel corso della campagna di riconquista condotta dallo stratega Niceforo Foca. Partendo dalla punta dello stivale, Niceforo Foca estese la controffensiva bizantina su quasi tutto il Meridione continentale, riconquistando sia le città rimaste in mano araba e sia la maggior parte dei territori occupati dai principi longobardi. I limiti territoriali della sua conquista non sono definiti con esattezza nelle fonti, ma è verosimile che i Bizantini abbiano rioccupato tutta la regione che si estende dalla valle del Crati fino a Taranto e la Lucania orientale con le vallate del Sinni e del Bradano nonché la costa salentina, mentre è più arduo definire dove essi siano arrivati a nordovest di Bari. Quindi, fu nel contesto di quella lunga campagna condotta contro Longobardi e Arabi che, dopo Taranto, anche Brindisi intorno all’885 tornò sotto il formale controllo dei Bizantini, i quali la incontrarono praticamente tutta in macerie. Nell’886 morì l’imperatore Basilio I e gli succedette il figlio Leone VI, il quale richiamò il generale Niceforo Foca nominandolo comandante supremo dell’esercito imperiale, e questi s’imbarcò da Brindisi alla volta di Costantinopoli con gran parte del suo esercito lasciando alla città tutti i prigionieri longobardi, sottraendoli magnanimamente alla schiavitù e rendendoli così potenzialmente utili alla eventuale ricostruzione cittadina. Il ritorno dei Bizantini a Brindisi, infatti, fu seguito da timidi e presto interrotti segnali di rinascita quando, alla fine di quel IX secolo, si iniziò la ricostruzione della chiesa di San Leucio, impulsata dal vescovo oritano Teodosio in occasione del ritorno in città di una parte delle reliquie sottratte dai Tranesi. E negli anni a seguire, la popolazione di propria iniziativa, intraprese anche la costruzione di un’altra chiesa che fu edificata di fronte all’imboccatura del porto interno, sulla cresta della collina di ponente e con annessa un’alta torre – una specie di faro per i naviganti

– in omaggio e gratitudine allo stratega greco Niceforo Foca. Il 18 ottobre 891 i Bizantini fondarono il Thema di Langobardia con capitale Bari, che affiancò quello di Calabria con capitale Reggio che con quella riorganizzazione non comprese più l’antica storica Calabria, ossia l’odierno Salento, che invece fu parte del nuovo Thema di Langobardia. La denominazione di Calabria, infatti, dopo essere stata estesa al Bruzio, aveva già finito con l’abbandonare del tutto l’originale territorio salentino. Con l’avvento del secolo seguente, il X, le coste adriatiche ritornarono ad essere ripetutamente preda dei pirati saraceni, ai quali con frequenza si alternarono o si mescolarono quelli slavi, i quali nel 922 assaltarono per la prima volta Brindisi e vi ritornarono nel 926, dopo aver occupato Siponto; e poi, nel 929, vi giunsero anche gli Schiavoni di Sabir, che dopo aver il 7 agosto 928 preso Otranto, risalirono la costa fino a Termoli. Nel 970 il Thema di Calabria e quello di Langobardia furono integrati per formare il Catapanato d’Italia e quando nel 976 l’imperatore bizantino Basilio II si trovò a dover gestire urgentemente i fronti dell’Asia Minore e non ebbe disponibilità di truppe per stanziare contingenti di rinforzo a guardia dell’Italia meridionale, gli Arabi di Sicilia dell’emiro Abu Al-Kasim ripresero a vessare le popolazioni di Calabria e Puglia, incapaci a garantirsi la difesa militare con le sole proprie guarnigioni, del tutto insufficienti a proteggere le roccaforti. In quell’anno 976, gli Arabi risalirono la Calabria, giunsero alla Valle del Crati e assediarono Cosenza. Poi, nell’agosto del 977, con gli uomini di Al Kasim, giunsero a Taranto perseguendo lo stesso obiettivo, ma trovarono la città abbandonata dai suoi abitanti e la distrussero. Quindi saccheggiarono nuovamente la vicina

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Oria bizantina e altri paesi del Capo. Poi, anche negli anni successivi, fino al 981, gli stessi Arabi misero ripetutamente a ferro e fuoco sia la Calabria che la Puglia, arrivando spesso a ridosso dei territori longobardi. In reazione, nel 982, il sacro romano imperatore Ottone II decise una spedizione punitiva contro i Saraceni di Sicilia e, sceso nel Mezzogiorno, nell’avanzata provò a ridurre la potenza bizantina nella regione costringendo all’obbedienza i piccoli stati della Campania della Lucania e della Puglia, fino a Oria, Taranto e Bari, dove però il 13 luglio fu battuto dai Bizantini. Quindi l’imperatore si diresse verso la Calabria e la Sicilia, giungendo in quell’occasione ad un passo dalla vittoria contro gli Arabi, ma nella battaglia di Capo delle Colonne subì una completa disfatta. Ottone II morì l’anno seguente e per qualche decennio sullo scenario del Meridione italiano, anche l’azione militare antiaraba dell’impero di Occidente – oltre a quella dell’impero d’Oriente – scomparve. Nel 986 gli Arabi di Abu Said ripresero le ostilità contro la Calabria ritornando a Cosenza, di cui distrussero le mura per poi dilagare fino in Puglia: a Bari nel 988, dove i sobborghi furono saccheggiati con gran traffico di prigionieri verso la Sicilia. E con il nuovo secolo e il nuovo millennio, le incursioni piratesche non diminuirono e interessarono sia la Puglia, per lo più Bari, e sia in Calabria la Valle del Crati e Cosenza. Tra la fine del primo millennio e l’inizio del secondo, insomma, la situazione generale delle coste e dell’entroterra nel tribolato Meridione italiano, di nuovo, non poté essere più disperata: militarmente assente l’impero bizantino; impotenti ad intervenire i Longobardi di Benevento e Capua coinvolti in guerre intestine, e quelli di Salerno timorosi della crescente potenza amalfitana; inefficace la temporale apparizione del sacro imperatore Ottone III; le uniche forze in grado di opporsi ai Saraceni furono le repubbliche marinare, le quali si andavano affermando sul Tirreno con Pisa e, soprattutto, con Venezia sull’Adriatico. Nella prima metà dell’XI secolo, dopo che nel 1005 l’esercito bizantino riconquistò le coste dalmate, Brindisi riacquistò rapidamente l’antica strategicità – con il suo porto dirimpettaio a quello di Durazzo da cui partiva la via Egnazia che lo collegava alla capitale dell’impero – e i Bizantini ne intrapresero presto la ricostruzione. Al contempo, il secolare arricchimento accumulato nell’isola aveva finito con indurre gli Arabi di Sicilia a non occuparsi più tanto di guerreggiare né di consolidarsi sul continente, quanto a godere dei tanti notevoli agi acquisiti. Un atteggiamento questo, che nei primi decenni dell’XI secolo permise ai Bizantini di riprendere i territori dell’Italia peninsulare e di controllare le rivolte filoimperiali che in essi via via andavano scoppiando. Così, nel 1038 – quindi duecento anni dopo quella prima incursione saracena a Brindisi – le forze bizantine sbarcarono a Messina e si diressero verso Siracusa, ponendo l’assedio alla città. I Musulmani di Sicilia non riuscirono a rispondere per molto tempo alle forze greche e così, in quella prima metà dell’XI secolo, ebbe inizio la fine della storia islamica nell’isola e di conseguenza anche di quella nella penisola, lasciando lo scenario sgombro all’arrivo dei nuovi conquistatori: i Normanni.



CULTURE

Kastellorizo, una storia anche brindisina di Gianfranco Perri

a Rodi, navigando poco più di cento chilometri verso sudest – e quasi toccando la riva turca di Kas – si arriva a Kastellorizo, oggi ufficialmente Megisti, il suo antico nome prima che nel 1306 l’isola fosse occupata dai Cavalieri Ospitalieri di San Giovanni, i Giovanniti, futuri Cavalieri di Rodi oggi Cavalieri di Malta, i quali ricostruirono il castello dell’isola sui ruderi dell’anteriore fortezza bizantina. Dal colore dei blocchi rocciosi con cui era stato edificato, lo chiamarono Castello Rosso e poi estesero quel nome all’intera minuscola isola. Paradossalmente, quell’antico riscattato nome Megisti significa ‘la più grande’ e in effetti, l’isola nella sua piccolezza – solo circa 9 chilometri quadrati – è la più grande di un arcipelago formato da altre due isolette, Strogyli e Ro, più alcuni scogli: Agios Georgios, Psomi e Psoradia. Ebbene, già solo tra le poche righe di questo primo paragrafo è possibile identificare alcuni dei legami di questa piccola pittoresca e remota isola greca con la pur ben lontana – 1500 Km circa – Brindisi: Da una parte, il nostro ‘Castello Alfonsino’ altro non è che il temuto ‘castello rosso’ dei saraceni, che così lo chiamavano dal colore che al tramonto assumeva per la pietra di carparo con cui era stato fabbricato alla fine del ‘400 dagli Aragonesi. Dall’altra, i Giovanniti a Kastellorizo ci andarono perché si trovava tra Cipro – loro sede da abbandonare – e Rodi, loro meta dopo la caduta di Gerusalemme, e nel 1291 quella di San Giovanni d’Acri in mano mamelucca. Occupata Kastellorizo, i Gerosolimitani guidati da Foulques de Villaret, da lì pianificarono la conquista di Rodi, completata meno di quattro anni dopo, il 15 agosto del 1310. Ebbene, quella conquista fu ottenuta con l’impiego di una imponente flotta di 25 galee che partì proprio da Brindisi, allestita dai Giovanniti – che in quel porto del Regno napoletano avevano da tempo una loro base operativa – contando con l’appoggio del papa Clemente V, della Repubblica di Genova e del re di Napoli Carlo II d’Angiò ed il suo successore il re Roberto. Per più di cent’anni Kastellorizo, governata dai Cavalieri di Rodi, mantenne costanti relazioni e scambi con i vari porti cristiani dell’Egeo dello Ionio e dell’Adriatico, inclusi

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quelli – come Brindisi – del Regno napoletano. Poco più di cent’anni dopo l’insediamento dei Giovanniti, nella seconda metà del XV secolo, i Musulmani iniziarono a premere sui possedimenti insulari dell’Ordine dei Cavalieri di Rodi e nel 1440 Kastellorizo fu occupata dal sultano mamelucco d’Egitto, che ne distrusse il castello. Dieci anni più tardi, nel 1450, il re di Napoli Alfonso V d’Aragona conquistò l’isola e il suo ammiraglio Bernat de Villamari ricostruì la fortezza che nominò ‘Castell Alfonsì’. Con la caduta nel 1453 di Costantinopoli però, i Turchi intensificarono le scorrerie nella maggior parte delle isole occupate dai Cristiani e nel 1512 Napoli perse il possesso di Kastellorizo a mano del sultano Solimano il Magnifico, lo stesso che nel 1522 attaccò per l’ennesima volta la stessa Rodi e nel corso di un assedio durato sei mesi, i Giovanniti furono costretti a capitolare lasciando il campo alle truppe turche che concessero ai cavalieri superstiti di trasferirsi nell’isola di Malta, che da allora divenne – fino a tuttora – la sede dell’Ordine. Da allora Kastellorizo restò – di fatto – sotto il dominio ottomano per 300 anni, fino al 1821. In seguito alla vittoriosa guerra d’indipendenza

il7 MAGAZINE 36 2 luglio 2021

greca del 1821, anche Kastellorizo godette dell’indipendenza, ma per poco tempo: fino a quando, in base al Protocollo di Londra del 1830, l’isola fu barattata nuovamente alla Turchia in cambio dell’isola Eubea, considerata vitale per la sicurezza della nuova nazione greca. Nel corso della guerra italo-turca, nel 1912, l’Italia occupò Rodi, Kasos, Karpathos, Symi, Chalki, Tilos, Nisyros, Kos, Astypalea, Kalymnos, Leros e Patmos. E lo fece con una flotta che, nuovamente e dopo poco più di 600 anni, aveva – pur se solo in parte – base a Brindisi. Queste isole – il Dodecaneso – in principio accolsero i cristiani italiani come liberatori dai musulmani turchi: il governo dei Giovani Turchi infatti, al potere in Ankara dal 1908, aveva imposto pesanti tasse, decretato il turco come unica lingua ufficiale, rimosso le libertà commerciali e religiose precedentemente godute, e quant’altro. Kastellorizo però, era rimasta esclusa da quella "liberazione" e gli isolani delusi intrapresero una massiccia emigrazione: la popolazione in poco tempo si dimezzò, passando da quasi 10000 unità nel 1910 a 4020 unità nel 1912. Dopo un tentativo di rivolta antiturca nel 1913, lo scoppio della guerra nel 1914 peggiorò ulteriormente la situazione e nel 1915 Kastellorizo fu occupata dalle truppe francesi. Così, sotto l’incalzare della guerra, gli abitanti continuarono ad abbandonare la loro isola e la popolazione registrata nel 1922 si ridusse a 2742 unità.


LE IMMAGInI A sinistra Kastellorizo: il Castello Rosso, chiamato Alfonsì - oggi Castello di San nicola, sotto una panoramica della cittadina. nella pagina accanto la locandina del film Mediterraneo

Finita la guerra, nel 1920 i Francesi evacuarono volontariamente l’isola e subito dopo, il 1º marzo del 1921, gli Italiani colsero l’occasione per occuparla, incorporandola di fatto ai possedimenti del Dodecaneso, mentre il passaggio formale dell’isola dalla Francia all’Italia venne poi ratificato nel 1923 con il II Trattato di Losanna. Dopo 410 anni – contati a partire dal segnalato 1512 – Kastellorizo era ritornata ad essere possedimento italiano. Sarebbe rimasta tale per vent’anni, fino al fatidico 8 settembre del 1943. Durante quei vent’anni, inizialmente, il dominio italiano fu relativamente benigno ed il regime realizzò anche una serie di operazioni dai risvolti obiettivamente positivi: Kastellorizo fu mappata integralmente e la sua viabilità fu in gran parte ristrutturata; si avviò il riscatto e la manutenzione di monumenti antichi e medievali, castello incluso; furono modernizzate le comunicazioni postali e telefoniche; furono attivati collegamenti marittimi con l’Italia – con il porto di Brindisi in particolare – anche tramite il miglioramento e l’intensificazione di quelli con le altre isole che a loro volta permisero agli abitanti di Kastellorizo di poter meglio usufruire dei servizi, specialmente gli ospedalieri, delle isole più dotate in quanto più grandi: Rodi, Kos, Kallymnos e Leros. Furono anche edificate varie importanti strutture civili, alcune delle quali son tuttora agibili:

la palazzina della Delegazione, opera dell’architetto Florestano Di Fausto, che al piano inferiore attualmente ospita il bar Faros; la caserma dei Carabinieri, che fu sede anche della stazione radio, attualmente sede della stazione di polizia e dell’ufficio postale; il municipio, costruito per accogliere anche le sedi dell’ufficio postale della dogana e della capitaneria di porto, oggi utilizzato dalla guardia costiera; il nuovo mercato coperto, che attualmente ospita una taverna e alcuni negozi. Quando nel 1933 fu imposto un alto dazio doganale su farina, zucchero, caffè, benzina e olio, l’isola prese posizione contro le autorità locali con intense azioni di protesta guidate principalmente dalle donne, che si prolungarono per qualche settimana: proteste di rivendicazione civile più che di resistenza al dominio italiano. Poi, invece, quando a partire dal 1936 entrarono in vigore rigide restrizioni alla navigazione ed al commercio, nonché la proibizione della pesca delle spugne, il malcontento iniziò a diffondersi e radicarsi tra la popolazione, che cominciò a sempre più risentire della serie di condizioni vessatorie via via più o meno apertamente imposte. Gli abitanti di Kastellorizo erano considerati cittadini italiani legalmente tutelati, esenti dalla coscrizione obbligatoria, ma soggetti a tassazione e privi di diritti politici. L’istruzione era strettamente soggetta al sistema educativo italiano e, a scuola, ogni riferimento a quello greco era rigorosamente proibito. Le feste religiose e i pellegrinaggi della chiesa locale erano vietati, e gli stessi riti ortodossi per matrimoni e funerali abbisognavano di un permesso esplicito. Il sindaco, che fino ad allora era stato eletto dalla popolazione, fu sostituito da un podestà di nomina governativa. Nel censimento di quell’anno 1936, la popolazione risultò essere di 2236 unità. L’economia dell’isola infine, con l’approssimarsi della guerra cominciò a vacillare e la perdita di opportunità commerciali e, più in generale del benessere comune, fu certamente tra le cause primarie del ravvivarsi del mai del tutto sopito fenomeno emigratorio, principalmente diretto verso l’America e soprattutto

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l’Australia: all’entrata in guerra dell’Italia, nel 1940, la popolazione locale registrata a Kastellorizo era scesa a 1386 unità. Ma quella guerra dell’Italia fu anche, praticamente da subito, guerra contro la Grecia e pertanto fu di fatto inevitabile il prevalere di sentimenti antitaliani tra una parte della popolazione di Kastellorizo, che la sorte volle fosse presto chiamata indirettamente in causa: alcuni appoggiarono gli italiani, altri parteggiarono per il nemico. Poco prima dell’alba del 25 febbraio 1941, numerosi commandos inglesi sbarcarono sulla punta Nifti dell’isola a compimento dell’operazione “Abstention” voluta e organizzata dall’ammiraglio Andrew Cunningham. L’esigua guarnigione italiana, composta da una cinquantina d’uomini, tra da soldati, marinai, carabinieri e finanzieri, si asserragliò nel forte Paleokastro mantenendo una tenace quanto impossibile difesa, che si concluse nella stessa mattinata con la resa e conseguente cattura dei militari italiani superstiti, poco più d’una quarantina. Sia dal cielo che dal mare ci fu un’immediata reazione italiana che provocò feriti e vittime tra i commandos inglesi e durante la notte, contando con la collaborazione di alcuni dei popolani greci, un commando italiano sbarcato dalle sopraggiunte torpediniere Lupo e Lince, fece un raid a terra portando a salvo materiali e persone. I bombardamenti aerei italiani proseguirono al seguente giorno 26, e il 27 giunsero anche le cacciatorpediniere Francesco Crispi e Quintino Sella, da cui sbarcò un contingente di 250 soldati e 88 marinai, la maggior parte del IV battaglione del 9° Reggimento fanteria della 50ª Divisione Regina al comando del colonnello Fanizza. Con la notte giunse l’incrociatore inglese Decoy con a bordo le truppe che avrebbero dovuto rilevare i loro commandos, ma la situazione a terra consigliò ai comandi di optare per la loro rapida evacuazione, che alla fine risultò evidentemente incompleta, giacché alcuni degli inglesi rimasti a terra furono catturati dalle truppe italiane ed altri cercarono di raggiungere a nuoto la vicina costa turca. Il pomeriggio del 1° marzo 1941 tutti i commandos inglesi recuperati raggiunsero Creta: l’operazione “Abstention” era stato un clamoroso fallimento. In totale, durante i quattro giorni dell’operazione morirono 14 militari italiani, mentre in 52 risultarono feriti. Furono fatti prigionieri 12 italiani e risultarono


CULTURE LE IMMAGInI La copertina della Domenica del Corriere che illustrava la battaglia di Castelrosso, in basso, nella cartina, L’isola greca di Kastelorizo nell’Egeo orientale a 110 Km da Rodi

seriamente danneggiate la stazione radio, la centrale elettrica, la palazzina della Delegazione e la casa del Governatore. Da parte britannica i morti furono 5 e 11 i feriti. Inoltre, 27 dei soldati inglesi risultarono dispersi durante la precipitosa evacuazione e di questi, 7 non furono mai rintracciati perché, molto probabilmente, morti in mare nella fuga. Tra gli isolani ci fu chi si schierò dalla parte dell’Italia e chi, finanche apertamente, protesse e difese i militari italiani. Il marinaio Boscolo rimase ferito nelle primissime concitate ore dello sbarco inglese e, caduto a terra fu oggetto dell’agire coraggioso della maestra Anastasia Arnaoutoglou che, interponendosi ai soldati inglesi pronti ad ultimarlo, gli salvò la vita e per questo fu poi decorata con la medaglia d’argento al valor militare. Molti altri isolani invece, si schierarono dalla parte degl’inglesi, collaborando più o meno apertamente con loro. Come punizione per l’assistenza data da alcuni locali ai commandos britannici, le restaurate autorità italiane arrestarono 29 cittadini, tutti uomini adulti, sospettati di “attività contro lo stato”. Furono accusati e deportati, prima a Rodi, poi a Coo, e infine, furono inviati a Brindisi per essere sottoposti a processo. Un nuovo motivo di correlazione quindi tra Kastellorizo e Brindisi, di cui però certamente sarebbe stato meglio fare a meno. Dopo la firma dell’armistizio, il 10 settembre 1943 l’isola fu nuovamente occupata dalle forze britanniche, che ne conservarono il controllo per il resto del conflitto, mentre i soldati italiani lasciarono l’isola il 28 settembre. All’arrivo dei britannici la popolazione residente, ridotta a circa 1000 abitanti fu evacuata dall’isola e trasportata a Gaza, allora possedimento britannico. Nel settembre del 1945, a guerra finita, il governo britannico organizzò il rientro degli esuli con la nave Empire Patrol, l’ex nave Rodi confiscata all’italiana Adriatica di Navigazione. Dopo poche ore dalla partenza da Porto Said la nave prese fuoco e molti dei profughi di Kastellorizo morirono. I sopravvissuti accettarono di

essere trasferiti in Australia. Con i trattati di Parigi del 1947, unitamente alle altre isole del Dodecaneso fu assegnata alla Grecia anche Kastellorizo: un’isola però, rimasta quasi disabitata, con una popolazione che nel 1990 giunse a contare meno di 250 abitanti. Da allora la popolazione è più che raddoppiata, grazie a una crescita inaspettatamente impulsata dalla popolarità del film interamente italiano ‘Mediterraneo’ del bravo regista Gabriele Salvatores, vincitore nel 1992 del premio Oscar al miglior film straniero, liberamente ispirato al romanzo ‘Sagapò’ di Renzo Biasion, fantasiosamente ambientato proprio negli anni della seconda guerra mondiale e girato quasi per intero tra gli angoli più paradisiaci e suggestivi della remota isola greca di Kastellorizo. Quel film si rivelò quale segnale per un incipiente risorgere nell’isola, dell’economia e della vita, questa volta in chiave turismo, un risorgere animato, principalmente e per una volta ancora, dagli italiani, nonché – e mi consta – anche dai brindisini.

il7 MAGAZINE 38 2 luglio 2021


L’isola greca di Kastelorizo nell’Egeo orientale a 110 Km da Rodi

Incisione: l'assedio di Kastellorizo da parte della flotta veneziana dell'ammiraglio Gremonville nel 1659


CULTURE

Marina, due navi hanno portato il nome "Brindisi": - una fu silurata L’incrociatore che affondò con la sciabola di Louis Mountbatten, ultimo viceré d’India di Gianfranco Perri n realtà, a rigore, nei registri ufficiali di marina, sono in totale tre le navi riportate con l’intitolazione “Brindisi”: due navi da guerra -un incrociatore esploratore e un incrociatore ausiliario- ed in più una nave mercantile -una motonave passeggeri. Scherzi di una consolidata tradizione in uso in praticamente tutti i Paesi di questo mondo: quella di requisire, in tempo di guerra, navi civili per convertirle – in principio, temporalmente – in navi militari. Ed infatti, è quello che accadde alla motonave “Brindisi” quando nel 1940, in vista dello scoppio della seconda guerra mondiale, fu convertita nell’incrociatore ausiliario “Brindisi”. Rimanendo nel campo delle consolidate tradizioni militari anche l’altra nave da guerra “Brindisi” fu frutto di una riconversione. Questa volta si trattò di una requisizione di guerra, quella eseguita dall’Italia ai danni dell’Austria alla fine della prima guerra mondiale quando, in conto riparazioni di guerra, nel 1920 l’incrociatore scout austroungarico “Helgoland” fu ceduto alla Regia Marina, che lo convertì nell’incrociatore esploratore “Brindisi”. L’incrociatore esploratore KuK SMS Helgoland della k.u.k. Kriegsmarine austroungarica era stato costruito dai cantieri navali Danubio, nel porto

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di Sankt Veit am Flaum – San Vito al Fiume – l’attuale città croata di Rijeka, l’italiana Fiume. La nave, impostata il 28 ottobre 1911, fu varata il 23 novembre del 1912, fu completata il 29 agosto 1914 ed entrò in servizio il 5 settembre, poco più di un mese dopo l’inizio della prima guerra mondiale. Il nome “Helgoland” fu attribuito in commemorazione dell’omonima battaglia combattuta il 9 maggio 1864 dalle navi austro-prussiane contro la marina danese, nel Mare del Nord a sud dell’isola Helgoland, a quell’epoca appartenente all’Inghilterra. La nave Helgoland, con 130 metri lunghezza e 13 metri di larghezza, aveva una immersione di 5 metri e un dislocamento di 3.500 tonnellate potendo raggiungerne 4.417 tonnellate a pieno carico. L’impianto motore era costituito da 2 turbine a vapore e 16 caldaie Yarrow sviluppando una potenza di 25.600 hp a tiraggio naturale potendo raggiungere 30.178 hp forzati. Con 2 eliche raggiungeva i 27 nodi e con il pieno di 815 tonnellate di carbone poteva navigare in autonomia fino a 1.600 miglia a 24 nodi. L’SMS Helgoland era una nave manovriera veloce con scarsa protezione e, equipaggiata con 2 tubi anti-siluri da 450 mm, fu molto attiva nell’ambito delle operazioni navali nell’Adriatico durante la prima guerra mondiale, prendendo parte anche alla battaglia del Canale d’Otranto nella notte tra il 14 e il 15 maggio 1917. Riprese il mare il 19 ottobre seguente per una puntata verso Valona e Brindisi con la scorta di sei cacciatorpediniere,

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LE IMMAGInI Una medaglia del Regio esploratore «Brindisi» che in basso è agli ormeggi nel porto interno dei Brindisi. nella pagina accanto il Regio incrociatore ausiliare "Brindisi" - 1943

ma la formazione austroungarica fu localizzata e attaccata dagli aerei italiani che la costrinsero a rientrare a Cattaro. Conclusa la guerra, la Helgoland fu una delle varie unità navali che furono consegnate all’Italia per effetto del Trattato di Saint-Germain-en-Laye, come riparazione dei danni di guerra. Fu consegnata alla Regia Marina il 19 settembre 1920 nel porto di Biserta, raggiungendo poi La Spezia il 26 ottobre seguente dove gli fu conferito fu conferito il nuovo nome di “Brindisi”. La nave quindi, subì lavori di riparazione dal 6 aprile al 16 giugno 1921 per essere messa punto come incrociatore esploratore, entrando così pienamente in servizio come nave di bandiera del contrammiraglio Massimiliano Lovatelli. Il “Brindisi” salpò per Istanbul il 3 luglio, visitando numerosi porti d’Italia, Grecia e Turchia durante il tragitto, rilevando l’incrociatore San Giorgio come nave ammiraglia dello Squadrone Orientale e servendo in questo ruolo fino al suo ritorno in Italia il 7 gennaio 1924.

Il “Brindisi” ospitò a bordo il re Vittorio Emanuele III di Savoia durante le cerimonie per il trasferimento della città di Fiume all’Italia nel febbraio-marzo del 1924, per poi essere trasferito in Libia dove operò per un paio d’anni. Rientrato in Italia, fu posto in riserva il 26 luglio 1926 e riattivato il 1º giugno 1927 come nave ammiraglia del 1º Squadrone cacciatorpediniere del contrammiraglio Enrico Cuturi. Poi, a partire dal 6 giugno 1928, fu nave di bandiera del contrammiraglio Antonio Foschini e nel maggio-giugno 1929 compì un’ultima crociera nel Mediterraneo Orientale toccando porti in Grecia e nel Dodecaneso. Poco dopo, il 26 novembre 1929, l’esploratore “Brindisi” fu posto in disarmo e poi, dopo essere stato impiegato come nave alloggio truppe ad Ancona, Pola e Trieste, fu infine radiato dal servizio attivo l’11 marzo 1937 e fu avviato alla demolizione. La motonave “Brindisi” invece, era italiana di nascita: era stata costruita dai Cantieri Riuniti Dell’Adriatico nel porto di Monfalcone su incarico della Puglia S. A. di Navigazione a Vapore, che la impiegò sulle tratte Venezia-Trieste-Pola-Lussinpiccolo-Zara-Sebenico-Spalato-Gravosa-Cattaro-Antivari-San Giovanni-Durazzo-Valona- Brindisi -Monopoli-Bari -Molfetta-Barletta…. Impostata il 15 dicembre 1930, la nave “Brindisi” fu varata il 15 giugno 1931 ed entrò in servizio il 27 luglio. Con 78 metri di lunghezza e 12 di larghezza, aveva un’altezza di 7 metri e mezzo, con un dislocamento netto di 1.073 tonnellate e lordo di 1.976 . La propulsione era affidata a 2 motori diesel Fiat con 3300 hp di potenza totale. Con 2 eliche raggiungeva la velocità di 15 nodi, aveva 4 stive di 1.722 metri cubi per una capacità di carico di 1.231 tonnellate e trasportava nelle cabine fino a 72 passeggeri. Dopo pochi mesi di servizio, il 25 dicembre 1931, la “Brindisi” s’incagliò nei pressi di Pasman, un’isola dell’attuale Croazia, riportando comunque solo danni lievi e potendo essere agevolmente disincagliata. Il 21 marzo 1932 la proprietaria società Puglia di Bari confluì nella Società di Navigazione San Marco di Venezia, che in seguito divenne Adriatica Società Anonima di Navigazione, e la motonave “Brindisi” fu principalmente impiegata sulle rotte tra Venezia la Dalmazia e l’Albania, mentre dopo il 1937 venne spesso impiegata anche su altre rotte in sostituzione di navi poste temporalmente ai lavori. Il 20 maggio 1940, poche settimane prima dell’ingresso dell’Italia nella seconda guerra mondiale, la motonave “Brindisi” venne posta in disarmo a Bari, dove fu sottoposta a lavori di conversione in incrociatore ausiliario, imbarcando un armamento composto da 2 cannoni da 102 mm e 4 mitragliere da 13 mm, nonché da attrezzature per la posa di 60 mine. Consegnato ufficialmente dalla Regia Marina il 16 giugno 1940, a Brindisi, sua città eponima, il nuovo incrociatore “Brindisi” venne iscritto nel ruolo del Naviglio ausiliario dello Stato, e tutto il suo equipaggio venne militarizzato.

il7 MAGAZINE 31 16 luglio 2021


CULTURE A partire dal 6 dicembre 1940 il “Brindisi” venne adibito a compiti di scorta ai convogli tra l’Italia e l’Albania, e nel marzo 1941 venne inviato in Libia, per partecipare alla posa di alcuni campi minati al largo di Tripoli. Successivamente l’unità ritornò ad operare sulle rotte verso l’Albania, e anche la Grecia, con funzioni di scorta. Il 20 maggio 1941 l’incrociatore salpò da Brindisi, in unione con il cacciatorpediniere Mirabello, per scortare a Patrasso 4 unità mercantili. All’alba del 21 maggio il Mirabello avvistò l’esplosione della cannoniera Matteucci che era salata su una mina e si avvicinò per prestare soccorso, ma urtò a sua volta una mina perdendo la prua e, dopo inutili tentativi di salvare la nave, l’equipaggio la dovette autoaffondare. Il “Brindisi recuperò 63 componenti di quell’equipaggio, mentre gli altri raggiunsero la riva a nuoto o vennero raccolti da altre unità. Il 9 gennaio 1942 l’incrociatore lasciò nuovamente Brindisi diretto a Patrasso, di scorta al piroscafo Fedora. Prima dell’alba del mattino del 10 gennaio il convoglio venne attaccato dal sommergibile britannico Thrasher con il lancio di quattro siluri, due dei quali centrarono il Fedora che affondò dopo poco più d’un’ora e mezza. Il 4 marzo 1942 il “Brindisi” venne dislocato al Pireo, per scortare i convogli diretti a Creta, rientrando dopo qualche mese a Brindisi per essere sottoposto a lavori e ritornare in servizio il 12 novembre 1942, assegnato alle scorte per i convogli diretti in Tunisia. Il 29 novembre 1942 lasciò Biserta diretto a La Spezia, insieme alla torpediniera Climene e di scorta alla motonave Città di Tunisi e alle 10 di quella sera il sommergibile HMS Seraph attaccò il convoglio lanciando due siluri contro il “Brindisi”, che venne mancato di stretta misura. Partito da Bari alla volta di Cattaro la sera del 6 agosto 1943 al comando del capitano di fregata Loris Greco e, insieme alla torpediniera Rosolino Pilo, di scorta al piroscafo Italia adibito al trasporto truppe, il “Brindisi” venne attaccato a 8 miglia a nordest di Bari dal sommergibile britannico Uproar che gli lanciò quattro siluri, uno dei quali, alle 22.05 andò a segno in corrispondenza della stiva numero 2. Lo scoppio uccise dieci uomini ed aprì un grosso squarcio nello scafo, immobilizzando la nave. In via di rapido allagamento e con le macchine principali fuori uso, il “Brindisi” iniziò rapidamente ad appopparsi, sino a ritrovarsi in breve con la poppa sommersa sino al ponte di coperta. L’equipaggio abbandonò per intero la nave sulle scialuppe, eccetto il comandante Greco ed altri due uomini, rimasti a bordo mentre il “Brindisi” veniva preso a rimorchio nel tentativo di raggiungere un porto. Ma il salvataggio della nave fallì dopo alcune miglia percorse a rimorchio: circa un’ora dopo il siluramento, una paratia cedette e la nave, abbandonata a nuoto dai tre militari rimasti a bordo, affondò nel giro di qualche minuto, a circa due miglia dal faro di San Cataldo. Eccezion fatta per le dieci vittime dell’esplosione del siluro, l’intero equipaggio fu salvato dai mezzi di soccorso giunti sul posto. Dopo quasi 60 anni dall’affondamento, il relitto dell’incrociatore “Brindisi” fu individuato sul fondo marino al largo di Bari dalla nave idrografica Ammiraglio Magnaghi, durante una campagna idrografica effettuata nell’autunno del 2011. Questa in breve la storia ufficiale della

LE IMMAGInI In alto Lord Louis MountbattenFoto del 1976, sotto medaglie del Regio esploratore 'Brindisi'

regia – e sfortunata – nave intitolata a “Brindisi”. Ma a essa è legata anche una storia molto particolare che riguarda direttamente il suo comandante Loris Greco: tutta un’altra storia che – già raccontata da Antonio Mario Caputo – merita certamente d’essere ricordata. Una sera dell’estate del 1921 nel corso di un incontro sociale, di quelli usuali tra gli ufficiali di marina prima di una lunga partenza per mare, si conobbero e strinsero amicizia il giovane sottotenente di vascello Loris Greco e l’altrettanto giovane – erano nati lo stesso anno, 1900 – ufficiale inglese Louis Mountbatten e i due, prima del commiato, decisero di scambiarsi la sciabola, la preziosa arma distintiva di ogni ufficiale: un solenne rituale privato che – eventualmente – secondo un’antica tradizione viene eseguito tra ufficiali di marina che scoprono motivi di reciproca stima. Loris Greco quella sera, probabilmente, non sa-

peva che il suo nuovo amico Louis Mountbatten fosse un inglese davvero importante: si trattava del I conte Mountbatten di Burma, nato principe di Battenberg; per via materna era bisnipote della regina Vittoria e cugino del re d’Inghilterra Giorgio V; nonché era zio materno dell’appena nato Philip, futuro duca di Edimburgo marito della regina Elisabetta; eccetera. Quel giovane ufficiale era inoltre un uomo dalle straordinarie qualità personali e militari, e già durante la prima guerra mondiale, si era comportato con onore nei ranghi della Royal Navy. E, certamente, Greco non avrebbe potuto neanche immaginare che quel giovane ufficiale inglese sarebbe stato nominato, nel 1947, viceré dell’India: fu lui l’ultimo dei viceré dell’impero angloindiano e il primo governatore generale dell’India indipendente. Sarebbe anche divenuto First Sea Lord – Primo lord del mare – e capo di stato maggiore della Marina britannica e poi, nel 1965, sarebbe stato anche ministro della difesa del Regno Unito. Louis Mountbatten morì all’età di 79 anni in Irlanda, il 27 agosto 1979: fu ucciso in un attentato dell’IRA. Al suo funerale, il 6 settembre 1979 a Londra, sulla bara sistemata sull’affusto di un cannone erano posate la feluca, il bastone di Lord del mare e quella sciabola che, ricevuta nel 1921 dall’ufficiale italiano Loris Greco, lo aveva accompagnato in tutti i suoi anni vissuti in divisa e che è attualmente esposta tra i cimeli di Buckingham Palace. Anche per Loris Greco quell’arma bianca ricevuta dal giovane ufficiale inglese era diventata il suo inseparabile distintivo, e lo avrebbe certamente accompagnato fino alla morte – avvenuta prematuramente nel 1952 – se non fosse finita sul fondo del mare, in quello specchio d’acqua tra Bari e Brindisi dove affondò nella notte tra il 6 e 7 agosto 1943 quando la nave che comandava, il Regio Incrociatore Ausiliario “Brindisi”, colò a picco in seguito al siluramento del sottomarino britannico Uproar. Il comandante Greco, dopo il siluramento e dopo aver ordinato al suo equipaggio di abbandonare il “Brindisi” e mettersi in salvo, volle rimanere a bordo per un’ultima doverosa ispezione e soprattutto – c’è da esserne certi – per tentare di recuperare dalla sua cabina, presto avvolta da fiamme e fumo, la sciabola donatagli da Mountbatten. Ma non fu possibile: Loris Greco si salvò rocambolescamente a nuoto mentre la sua nave portava con sé sul fondo delle acque prossime alla costa brindisina la spada da ufficiale di marina del suo amico inglese: Mountbatten, Primo Lord del Mare e Viceré d’India.


L'SMS Helgoland agli ormeggi a La Spezia - 1920 (divenuto Regio esploratore nel 1921)

Royal Navy Sword

La Motonave “Brindisi” – 1931 (convertita in incrociatore ausiliare nel 1940)


CULTURE

Brindisi, città demaniale per eccellenza, fu anche feudale

Per circa 150 anni la città venne affidata ai «signori». L’ultimo fu orsini del Balzo di Gianfranco Perri 8 agosto del 1806, il re di Napoli Giuseppe Bonaparte emanò le cosiddette leggi eversive con le quali, tra l’altro, si abolì il feudalesimo, organizzando l’amministrazione del regno sulla falsa riga del modello francese: un sistema basato sulla divisione gerarchica del territorio in province distretti e comuni. Scomparve quindi l’antica e ben radicata differenziazione tra beni – territori e città – “demaniali” e “feudali”: tutto un intero sistema di amministrazione formale del potere che, introdotto dai Franchi e adottato nel meridione italiano da ancor prima della fondazione stessa del regno, era sussistito per circa un millennio. Brindisi in tutto quel tempo, con limitate eccezioni durate in totale all’incirca 150 anni, era stata città demaniale, quindi alle dirette dipendenze della corona, grazie alla sua strategicità sempre apprezzata dai vari sovrani via via succedutisi. Mentre le città demaniali, chiamate anche città regie, venivano governate da funzionari preposti nominati direttamente dal re, le città feudali erano legate alla nozione giuridica di feudo, o

L’

beneficio: una concessione avente per oggetto un bene che attributiva una sorta di dominio qualificato da particolari obblighi personali di fedeltà e servizio che vincolavano il concessionario – feudatario o vassallo – al concedente, il re o signore. L’oggetto della concessione poteva inoltre riferirsi a, o comprendere – e lo fu sempre più spesso dal secolo XII in poi – poteri di natura politico-amministrativa, quali quelli propri delle signorie territoriali concesse dal re. Nel secondo millennio, con l’arrivo dei Normanni nel sud Italia, l’istituto del feudalesimo si era andato formalizzando sui territori via via incorporati al loro dominio e così, alla morte nel 1085 di Roberto il Guiscardo, duca di Puglia e Calabria nonché principale artefice della penetrazione e conquista normanna del Meridione, al suo primogenito Boemondo fu intitolato il principato di Taranto, appositamente creato con giurisdizione, oltre che sulla città e territorio di Taranto, sulla contea di Conversano, su parte della Basilicata e su gran parte del Salento, Brindisi compresa. E così Brindisi, già infeudata dal momento stesso della conquista normanna nel 1071, rimase formalmente “città feudale” per poco più di 60 anni, fino al 1133. Conquistata Brindisi nel 1071, infatti, il Guiscardo aveva nominato “Signore” della città Goffredo, il conte di Conversano figlio di sua sorella

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LE IMMAGInI Papa niccolòII nomina Roberto il Guiscardo Duca di Puglia e Calabria nel Concilio di Melfi del 1059

Emma, il quale divenne poi vassallo del principe Boemondo. Morto Goffredo nel 1104, gli succedette il figlio Tancredi con reggenza della madre Sichelgaita fino alla di lei morte, avvenuta nel 1110. Tancredi fu dapprima vassallo del principe Boemondo II – il quale nel 1128 cedette i suoi diritti sul principato al cugino paterno, Ruggero II poi divenuto il primo re di Sicilia – e successivamente di Ruggero II. In seguito, però, Tancredi fu tra i baroni che non vollero riconoscere l’autorità del re Ruggero II, fondatore nel dicembre 1130 del regno di Sicilia, reincidendo nella ribellione fin quando nel 1133 fu definitivamente scacciato dal re. Ruggero II catturò Tancredi asserragliatosi con gli altri baroni ribelli in Montepeloso, gli perdonò la vita e lo inviò prigioniero in Sicilia. Quindi, ripresa definitivamente Brindisi, la dichiarò “città demaniale”. Con gli Svevi, succeduti nel 1194 ai Normanni, si fu ammodernando l’amministrazione del territorio del regno e Federico II riformò i giustizierati rafforzando le loro competenze a scapito del potere baronale locale. Continuando dal punto di vista amministrativo ad appartenere al giustizierato di Terra d’Otranto, Brindisi conservò anche il suo carattere demaniale, come una delle 36 città demaniali della parte continentale del regno. È però possibile, che poco prima di morire Federico II abbia “donato” Brindisi a Bianca Lancia, madre di Manfredi, la quale a sua volta trasferì quella donazione al figlio: «… con Bianca dei conti Lancia di Monferrato (c. 1210-48), donna amatissima dall’imperatore, pare possibile che negli ultimi anni di vita di Federico l’unione abbia avuto legittimazione. L’ipotesi è confermata dalla donazione a lei fatta da Federico, probabilmente per dote, “dell’onore di Monte S. Angelo e dei contadi di Gravina, Tricarico, Monte Caveoso e Brindisi, terre che, come prova lo Huillard-Brèholles, solevano costituir la dote delle regine di Sicilia”; tali beni furono da Bianca trasferiti a Manfredi con disposizione confermata da Federico stesso nel suo testamento… Il nuovo re di Sicilia, Corrado (1250-4), ai primi del 1252 in Siponto, fu accolto da Manfredi “che gli cedette quasi tutto pacificato il regno del quale lui era stato bailo”; presto però emersero differenze fra i due. Il sovrano impose al fratello, in prosieguo di tempo, la rinunzia ai beni che erano stati di Bianca Lancia e, conseguentemente, alla signoria su Brindisi…» [“Brindisi nell’età di Corrado e Manfredi 125-1266” di Giacomo Carito – 2013] Pertanto, quella possibile “signoria” di Bianca Lancia – o di Manfredi –

su Brindisi, durò solo qualche anno, e quando con la morte improvvisa di Corrado nel 1254 divenne re Manfredi, Brindisi continuò ad essere città demaniale, così come, del resto, anche il principato di Taranto continuò a restare sotto il diretto controllo della corona, come lo era stato con Federico II fin dalla morte – nel 1205 – di Gualtieri III di Brienne. Con la conquista angioina del regno di Sicilia nel 1266, anche Carlo I d’Angiò conservò per sé il potente principato di Taranto, mentre il regime feudale si riconsolidò in tutto il regno – di Sicilia prima, e di Napoli dopo i Vespri – con molti cavalieri francesi giunti in Italia che furono investiti dei feudi confiscati ai baroni ribelli. L’immissione di famiglie d’Oltralpe nei ranghi della feudalità regnicola interessò anche l’area salentina dove nella gran parte dei casi si trattava soprattutto di piccole unità signorili, limitate al possesso feudale di un esiguo numero di comunità rurali o feudi rustici, ad eccezione della contea di Lecce e della contea di Soleto, investite rispettivamente ai potenti Brienne e Del Balzo, i cui vasti domini includevano varie tipologie insediative, sia terre, casali, castelli e piccoli villaggi, sia centri cittadini come Lecce, Ostuni e Oria. Carlo II d’Angiò ripristinò formalmente il potere feudale del principato di Taranto, concedendolo nel 1294 al figlio Filippo I, alla cui morte divenne principe suo figlio Roberto. Brindisi però continuò ad essere città demaniale, tenuta specialmente in conto per il suo strategico porto, che fu opportunamente potenziato dai re angioini, specialmente da Carlo I e Carlo II, nonché dai successori Roberto e Giovanna I d’Angiò, salita sul trono di Napoli dopo la morte del nonno Roberto d’Angiò, nel 1343. E con la regina Giovanna I la situazione di Brindisi si fece critica allorché la città fu sconvolta da gravissimi fatti generati dalla lotta civile tra le due più potenti famiglie della città, i Ripa e i Cavalerio che nel 1346, in seguito a una forte carestia sopraggiunta subito dopo l’insediamento sul trono della nuova regina, era scoppiata con estrema violenza ed era sfociata in una serie di delitti d’ogni genere: saccheggi, incendi, distruzioni ed assassinii. L’impotente governatore regio, il napoletano Goffredo Gattola, fu espulso da Filippo Ripa entrato in città con mille scalmanati armati e la situazione solo poté essere controllata grazie all’intervento del principe di Taranto Roberto che, in totale assenza di una autoritaria azione del troppo lontano governo centrale del regno, decise di porre ordine tra tanta violenza e tanta anarchia, inviando a Brindisi i suoi uomini armati, ristabilendo l’ordine e riuscendo, in qualche modo, a controllare la situazione, emarginando il sanguinario Filippo Ripa. Qualche anno dopo però, tornata in preda ad una diffusa ed incontrollata anarchia amministrativa e ricaduta nelle vessazioni dei Ripa, la città attirò l’attenzione di un altro bieco personaggio molto ben conosciuto ai brindisini, il conte di Lecce Gualtieri VI di Brienne duca di Atene, reduce da una rocambolesca disavventura fiorentina – era stato clamorosamente scacciato da quella città – ed ansioso pertanto di, in qualche modo, “rifarsi” nella sua terra salentina, ritornandovi nel 1352. «…Nel 1352 il duca di Atene Gualtieri VI di Brienne tornò in Italia, probabilmente con la seconda moglie, Giovanna di Brienne d'Eu. Nei torbidi in cui viveva in quegli anni il Regno di Napoli, egli correva il rischio di perdere i suoi feudi salentini perché su questi aveva posti gli occhi il potente Filippo de la Rath, conte di Caserta, figlio di quel Diego de la Rath, uomo d'arme catalano, che aveva raggiunto le più alte cariche sotto il re Roberto d'Angiò; il quale Filippo de la Rath era sobillato, pare, contro il Brienne da Luigi – per un anno principe di Taranto – cognato del duca, nonché dal già onnipotente siniscalco, il fiorentino Niccolò Acciaiuoli. Il Brienne, che era giunto dalla Francia con una scorta di cavalieri, difese vigorosamente i suoi feudi in Terra d'Otranto e nel maggio 1352 strinse i suoi nemici in Taranto; ma, non aveva i mezzi per conquistare una fortezza munitissima, quale era Taranto. Si volse allora contro Brindisi, dove imperversava un vero masnadiere, Filippo Ripa, che aveva espulso dalla città la fazione rivale dei Cavalerio, perseguendoli con enormi atrocità. Ma il Filippo Ripa, chiuso in Brindisi senza via di salvezza, ebbe l'idea di convocare gli abitanti e di convincerli ad arrendersi non al duca d'Atene, ma al cognato, il principe Roberto di Taranto, fratello di Luigi. Fra i due fratelli non correva buon sangue; il Brienne si appoggiava piuttosto a Roberto che a Luigi, che – nel 1347 – era divenuto re-consorte della regina Giovanna I. Tuttavia, ottenne che nell’estate del 1353 i due fratelli facessero guerra a Filippo de la Rath; ma fu un fallimento, ché anzi il conte di Caserta si riprese e scorrazzò a suo agio per

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CULTURE la Terra di Lavoro, fino alle porte di Napoli. Disperato della situazione del Regno, nel 1355 il Brienne lasciò la Puglia…» [“Gualtieri di Brienne” di Ernesto Sestan in Dizionario Biografico degli Italiani Treccani – 1972] Così Brindisi, caduta un’altra volta nel caos, fu di nuovo salvata dall’intervento del principe di Taranto Roberto. E i brindisini, in riconoscimento e in cerca di protezione, manifestarono il desiderio che la città fosse incorporata formalmente al principato; incorporazione che in effetti si formalizzò nel 1353. Brindisi, dunque, dopo 220 anni di appartenenza al demanio, tornò ad essere “città feudale”, e lo sarebbe rimasta – salvo due interruzioni – in totale per 110 anni, fino alla definitiva estinzione del principato di Taranto nel 1463. In questo modo, a metà del Trecento Brindisi entrò a far parte del più vasto complesso feudale di Terra d’Otranto, così esteso da giungere a travalicare i confini delle attuali province di Lecce, Brindisi e Taranto, dilatandosi fino a comprendere le baronie di Flumeri e di Trevico in Irpinia e alcune signorie campane in Terra di Lavoro; dando così luogo al sorgere, accanto al composito aggregato feudale formato dalle tipologie minori e dall’unione di più complessi signorili, di una rosa di famiglie baronali sufeudatarie dello stesso principato. Nel primo Quattrocento, estinte alcune famiglie baronali di provenienza francese, i lignaggi si distinsero prevalentemente in due gruppi: quello, meno numeroso, costituito dalle grandi e più potenti casate del regno, titolari spesso di possedimenti feudali sparsi in diverse province; e quello, più consistente, rappresentato dalle famiglie della feudalità autoctona all’interno della quale coesistevano due anime non sempre facilmente distinguibili, e cioè la più antica nobiltà guerriera e l’emergente nobiltà urbana. Appartenevano al primo gruppo, gli Orsini Del Balzo, i Sanseverino, i d’Enghien e gli Acquaviva, le cui vicende si intrecciarono a quelle generali del regno, condizionandone spesso le sorti, ma anche i Della Ratta, i Protonobilissimo, i Saracino Della Torella e altri ancora. Inoltre, nel quadro di una già così frazionata geografia del possesso feudale, nel Salento si sommarono anche alcune signorie ecclesiastiche le cui origini rimontavano ai secoli XI e XII. Ad esempio, tra i feudi della chiesa di Brindisi rientravano i casali di San Pancrazio, San Donaci e Pazzano; mentre la chiesa di Lecce possedeva i casali di San Pietro Vernotico e di San Pietro in Lama; e i gerosolimitani di San Giovanni possedevano la terra di Maruggio a sud di Taranto, incamerata con la soppressione dell’Ordine Templare. Diversi, inoltre, erano i feudi amministrati da importanti complessi monastici, come quello di Santa Croce di Lecce, che nel 1454 acquistò dal principe di Taranto i casali di Carmiano e di Magliano; o quello, con annesso ospedale, di Santa Caterina di Galatina. Alla morte del principe Roberto, nel 1364, gli successe il fratello Filippo II e alla morte di questi, nel 1374, il principato fu ereditato da Giacomo Del Balzo, nipote per via materna di Filippo I, ma la regina Giovanna I glielo sottrasse assegnandolo – territorialmente molto ridimensionato – al suo quarto e ultimo marito, Ottone IV di Brunswick che, nominalmente, lo conservò fino alla morte nel 1398, anche se nel

LE IMMAGInI Boemondo d'Altavilla - primo principe di Taranto, sotto Margherita d'AngiòDurazzo - Basilica di Salerno

mentre – nel 1382 – la regina fu assassinata e il regno di Napoli passò a Carlo III d’Angiò Durazzo. Brindisi in quegli anni, dal 1376 al 1398, rimase comunque sotto il demanio regale: prima di Giovanna I, poi di Carlo III e, dopo l’assassinio di questi nel 1386, di quello della sua vedova Margherita di Durazzo, madre e reggente dell’erede al trono di Napoli Ladislao di Durazzo, il figlio di Carlo III. Nel convulso contesto storico che caratterizzò quegli anni marcati dalle continue lotte per il

controllo del trono di Napoli tra i vari pretendenti angioini nonché poi anche aragonesi, Brindisi soffrì più volte le conseguenze delle prolungate dispute. Nel 1383 Luigi I d’Angiò nella sua campagna contro il re Carlo III di Durazzo, si presentò con il suo esercito alle porte della città, assediandola e quindi saccheggiandola. E dopo che nel 1390 Luigi II d’Angiò riuscì nel tentativo fallito da Luigi I di strappare Napoli ai Durazzeschi, nel 1394, ricalcando le orme del padre, attaccò e saccheggiò nuovamente Brindisi, rea di essere rimasta fedele ai Durazzeschi. Alla morte di Ottone di Brunsvick nel 1398, Luigi II d’Angiò, per quel momento ancora sul trono di Napoli, investì del principato di Taranto Raimondo Orsini Del Balzo conte di Soleto, detto Raimondello, il quale si era schierato dalla sua parte contro i Durazzeschi, ma che non esitò a cambiare di bando quando nel 1399 l’angioino fu detronizzato da Ladislao di Durazzo. In questo modo Raimondello poté conservare il principato, anche se con una consistenza territoriale nuovamente e sensibilmente diminuita: Matera, Castellaneta, Laterza, Massafra e Gioia del Colle furono infeudate come contea di Matera a Stefano Sanseverino, mentre Polignano a Mare fu concessa a Lorenzo Acciaioli ed in seguito fu inglobata nel demanio. Al contempo Raimondo fu escluso anche dalla signoria su Brindisi, Barletta e Monopoli, che il re Ladislao infeudò formalmente a sua madre Margherita di Durazzo, alla quale concesse pure Gravina, Bitonto e Venosa. Margherita di Durazzo infine, dopo sette anni, nell’ottobre del 1406, cedette la signoria su


Brindisi al principato di Taranto a cambio di Palazzo San Gervasio con il relativo castello e la terra di Stigliano. Tutto il potentato di Raimondo – un feudo che oltre alla contea di Soleto e vari territori delle provincie di Terra di Bari e di Terra d’Otranto, nel 1384 aveva incorporato la contea di Lecce per maritali nomine della moglie Maria d’Enghien e poi nel 1399 anche il principato di Taranto, includendo così numerose importanti città, tra cui Taranto, Barletta, Molfetta, Altamura, Oria, Nardò, Gallipoli, Ugento, Otranto, Lecce e nel 1406 Brindisi – alla sua morte improvvisa nel 1407, fu ereditato dal giovane primogenito Giovanni Antonio Orsini Del Balzo e quindi “in teoria” passò sotto la reggenza dalla madre Maria d’Enghien che, una volta vedova, aveva pensato bene di sposarsi con il pure vedovo, ed ex nemico, re Ladislao di Durazzo, il quale di fatto controllò il principato. Morto nel 1414 Ladislao senza prole, salì sul trono di Napoli la sorella Giovanna II di Durazzo, la quale imprigionò per un breve periodo gli Orsini Del Balzo, cioè Maria d’Enghien divenuta vedova di Ladislao e i suoi ancor giovani figli, salvo poi restituire loro la contea di Lecce, altri possedimenti e infine, nel 1420, anche il principato di Taranto – Brindisi inclusa – quando Giovanni Antonio divenne maggiorenne. In quello stesso anno, 1420, Brindisi fu assaltata dall’esercito di Luigi III d’Angiò – non c’è due senza tre – e la regina Giovanna II concesse alla città vari ed ampi privilegi in riconoscimento della fedeltà in quell’occasione manifestata verso di lei. Giovanna II si sposò più volte e più volte cambiò di favoriti e di amanti, alternandoli tra i vari aspiranti feudatari e i possibili pretendenti al trono, durazzeschi, angioini e, novità, anche aragonesi. Tra di loro, Renato d’Angiò – in rimpiazzo del deceduto fratello Luigi III – e Alfonso V d’Aragona, i quali alla morte nel 1435 della regina si cimentarono durante sette anni in una estenuante lotta per la successione all’ambito trono, finché nel 1442 Alfonso d’Aragona, già re di Sicilia, riuscì a prevalere dando inizio alla dominazione aragonese nel nuovamente riunito regno delle Due Sicilie. Il potente principe Giovanni Antonio Orsini Del Balzo cercò di mantenersi fuori da quella contesa, ma poi il suo vecchio nemico Giacomo Caldora duca di Bari si alleò con Luigi III d’Angiò, a quel tempo pretendente favorito a ereditare il trono di Napoli, ed assieme riuscirono a impossessarsi di parte del principato, Oria e Brindisi incluse, mentre Orsini Del Balzo poté mantenere Taranto, Lecce, Rocca, Gallipoli, Ugento, Minervino, Castro, Venosa e Bari. Quindi, spinto da quegli eventi a parzializzarsi a favore del contendente aragonese, il principe spodestato riuscì a non far capitolare il castello di Oria e quello di Brindisi, in cui si asserragliò e dove il 12 novembre del 1434 lo raggiunse la notizia dell’improvvisa malattia e morte di Luigi III d’Angiò. Decise quindi di passare all’offensiva riprendendosi la città di Brindisi e appoggiando apertamente l’aragonese che nel 1442 s’insediò sul trono di Napoli. E così l’Orsini Del Balzo poté conservare il possesso del suo principato. Nel 1449 il principe Giovanni Antonio, signore di Brindisi, forse preoccupato dalla potenza in

LE IMMAGInI In alto Ferdinando d'Aragona Ferrante re di napoli, sotto Ruggero II riceve la corona di Sicilia da Cristo nel dicembre 1130 - Mosaico nella chiesa della Martorana di Palermo franca ascesa dei Veneziani e dall’idea che quelli potessero dal mare impadronirsi con facilità di Brindisi, o forse timoroso di una possibile invasione via mare del re Alfonso d’Aragona con il quale aveva deteriorato i rapporti e che da Brindisi avrebbe potuto prendere il suo principato, maturò e attuò uno stratagemma strano quanto malaugurato, che alla

fine doveva rivelarsi funesto in estremo per Brindisi: «... Là dove l’imboccatura del canale era attraversata da una catena assicurata lateralmente alle torrette site sulle due sponde, fa affondare un bastimento carico di pietre, ed ottura siffattamente il canale da permetterne il passaggio solo alle piccole barche. Non l’avesse mai fatto! Di qui l’interramento del porto, causa grave della malaria e della mortalità negli abitanti. Meglio forse, e senza forse, sarebbe stato se alcuno dei temuti occupatori si fosse impadronito di Brindisi, prima che il principe avesse potuto mandare ad effetto il malaugurato disegno. Fu facile e poco costoso sommergere un bastimento carico di pietre e i posteri solo conobbero la fatica e il denaro che abbisognò per estrarlo e render libero nuovamente il canale. Più dannosa ai cittadini fu questa precauzione del principe, che temeva di perdere un brano del suo stato, che non tutte le antecedenti e seguenti devastazioni. L’opera inconsulta del principe fu naturalmente malveduta dalla città, la quale prevedeva le tristi conseguenze. Ma il fatto era compiuto...» [“Storia di Brindisi scritta da un marino” di Ferrando Ascoli - 1886] Qualche anno dopo, nella notte tra il 14 e il 15 novembre 1463, nel castello di Altamura, Giovanni Antonio Orsini Del Balzo morì strangolato – si sospetta – per ordine del re Ferdinando d’Aragona, che nel 1458 era succeduto al padre Alfonso. Con la sua morte, senza che a lui sopravvivesse prole legittima, si estinse la famiglia Orsini Del Balzo e con essa il principato di Taranto la cui eredità fu raccolta dal Ferdinando d’Aragona – il re Ferrante – che incorporò al regno di Napoli tutti i possedimenti che lo costituivano, inclusa Brindisi che durante tutti i seguenti 343 anni in cui – fino al 1806 – il regime feudale rimase ancora vigente nel regno napoletano, mai più sarebbe tornata ad essere “città feudale”. Lo era stata, in tutto e a più riprese, per circa 150 anni.


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I DUE STORICI SOMMERGIBILI «BALILLA»: SORTI DIVERSE

Erano di base a Brindisi: il primo fu silurato 105 anni fa, il secondo ebbe miglior destino di Gianfranco Perri l 5 dicembre 1746 a Genova i militari austriaci rimasero impantanati con un cannone nel quartiere Portoria. L’ufficiale austriaco ordinò alla folla presente di aiutarli, scatenando la rivolta iniziata con la pietra lanciata dall’undicenne Giovan Battista “Balilla” Perasso. Anche se ancor oggi, a distanza di 175 anni e dopo insistenti ricerche, la sua figura è ancora a cavallo tra realtà e mitologia, è comunque storica la grande rivolta popolare che nel 1746 consentì a Genova di liberarsi delle truppe austriache da poco entrate in città. Già nell’Ottocento, ma soprattutto nel Novecento, Giovan Battista Perasso, detto il Balilla, divenne uno dei principali simboli dell’italianità: il cantiere marittimo Fiat San Giorgio di La Spezia, nell’agosto 1915 varò il sommergibile “Balilla”; il cantiere aeronautico Ansaldo Borzoli di Genova produsse – il prototipo effettuò il primo volo di collaudo pilotato da

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Francesco Baracca nel novembre 1917 – un caccia ricognitore che chiamò “A1 Balilla”; nel febbraio 1927 i cantieri Odero Terni di La Spezia vararono un nuovo sommergibile “Balilla”, capostipite di una Classe di quattro sommergibili; e la Fiat, nel 1932 dedicò al “Balilla” la sua celebre utilitaria. Un mito, quello del “Balilla” che perdurò inossidabile, tanto che nel 1947 il famoso “calcio da tavolo” fu popolarmente – e continua ad esserlo tuttora – chiamato “calcio Balilla”. Ma è ai due sommergibili “Balilla” che è dedicata questa pagina di storia brindisina, perché – così lo ha voluto la storia – entrambi, a distanza di quasi 30 anni l’uno dall’altro, ebbero la loro base proprio nel porto di Brindisi. Il primo “Balilla”, un sommergibile di media crociera, fu impostato il 18 agosto 1913 nei cantieri navali Fiat San Giorgio di La Spezia e fu varato l’8 agosto 1915, entrando in servizio – cosa alquanto rara – nello stesso giorno, subito dopo la consegna alla Regia Marina. Come nota curiosa, il sommer-

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LE IMMAGInI In basso a sinistra il sommergibile «Balilla» 1915-1916 e ia destra quello del 1928-1941

gibile era stato posto in cantiere su ordinazione della Marina Imperiale Austriaca e quando era in avanzato stato di costruzione, nel giugno del 1915, in prossimità dell’entrata in guerra dell’Italia, venne requisito dalla Regia Marina. Con un dislocamento di 728 tonnellate, era lungo 65 metri e largo 6 metri con una immersione di 4,17 metri. Era armato con 4 tubi di lancio da 450 mm ed aveva 2 cannoni da 76/30 mm. Il suo apparato motore di superficie era costituito da 2 motori Diesel Fiat, che azionando 2 eliche sviluppavano una potenza di 2600 cv permettendo una velocità massima in emersione di 14 nodi, con una autonomia di 3500 miglia a 10 nodi. In immersione, l’apparato motore era costituito da 2 motori elettrici di 450 Kw di potenza, con cui le 2 eliche permettevano raggiungere una velocità massima di 9 nodi, con una autonomia di 85 miglia a 3 nodi. L’equipaggio era costituito da 38 uomini: 4 ufficiali, 14 sottufficiali e 20 marinai. Il “Balilla” raggiunse la base assegnatagli di Brindisi nel febbraio 1916 e, posto agli ordini del capitano di corvetta

Paolo Tolosetto Farinata Degli Uberti, fu aggregato alla 4ª Squadriglia del Gruppo autonomo sommergibili. L’unità fu destinata al compimento di missioni di agguato nei pressi dei più importanti sorgitori nemici, nonché di missioni per contrastare eventuali azioni degli avversari dirette contro le coste italiane. Il destino però gli aveva serbato una vita breve ed una fine tragica. Il 13 luglio 1916 il “Balilla” partì da Brindisi per la sua seconda missione e non fece più ritorno. Frammentarie notizie sulla sua sorte si ebbero dopo una settimana, il 20 luglio, quando dall’intercettazione di due comunicazioni radio austroungariche si venne a sapere che il 15 luglio unità di quella Marina avevano affondato un sommergibile italiano nel Medio Adriatico, senza aver riscattato sopravvissuti. A fine agosto si ebbe conferma di quell’affondamento dai naufraghi reduci da un sommergibile nemico affondato, l’U.16, i quali raccontarono che un sommergibile italiano era stato affondato nei pressi di Capo Planka dopo uno scontro con due torpediniere austriache. Altri dettagli della fine del “Balilla” vennero accertati alla fine della guerra, con l’apertura degli archivi della K.u.K. Marine, e più specificamente grazie al diario del capitano austriaco Joseph Halleperth, comandante della torpediniera T.65. Il sommergibile italiano era stato avvistato al largo di Lissa presso la costa dalmata il 14 luglio e verso sera fu intercettato presso Capo Planka da due torpediniere austriache, la T.65 e la T.66, le quali dopo un epico combattimento riuscirono, prima a danneggiarlo e poi affondarlo. Malgrado fosse pressoché immobilizzato e impossibilitato a manovrare per i danni riportati al timone nella fase iniziale dello scontro, il sommergibile “Balilla” aveva continuato a combattere sino alla fine. « Acque di Lissa, 14 luglio ore 15... Improvvisamente scorgo sulla sinistra qualcosa che si muove sull’acqua e do subito l’allarme: uomini ai pezzi di prua e macchina a tutta forza con timone a sinistra! Le prime ombre della sera scendono sul mare ma sono ancora insufficienti per nascondere il ‘collo di bottiglia’ la cui distanza si riduce di minuto in minuto. Mi stupisce che non scompaia. Ha del fegato! D’altro canto, se ritira il periscopio, diventa cieco mentre, per lanciare il siluro deve vedere. Chi arriverà prima? Quello o la mia nave spinta dalle sue stesse macchine verso il pericolo? Un colpo di cannone della 66F raggiunge il ‘collo di bottiglia’ mentre una scia mi annunzia il siluro in avvicinamento. Davanti alla sensazione precisa del pericolo, tolgo al timoniere la ruota e la giro velocemente facendo accostare la nave sulla sinistra, con l’ordigno che mi passa a pochi metri dalla poppa. Ma ecco il sommergibile riemergere e tornare al-

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l’attacco dirigendosi sulla mia nave con magnifica audacia. I miei cannoni e quelli della 66F sono tutti puntati sul battello italiano che naviga tra gli spruzzi di schiuma sollevati dai proietti, mentre l’aria si punteggia di lampi e gli scoppi si susseguono l’uno dopo l’altro senza sosta. Per la seconda volta il sommergibile lancia e, nuovamente, una violenta accostata salva la mia nave. La sorte del sommergibile è, però, segnata: è stato colpito in più parti e il mio sperone, tra qualche momento, avrà ragione della temerarietà degli italiani. Nello stesso momento in cui ci apprestiamo ad aggredirlo, quello si immerge e gli passiamo sopra senza toccarlo. Riaffiora con la prua impennata sull’acqua come una lama. Poi, se pur ferito a morte, il battello riacquista per alcuni istanti il suo assetto longitudinale e, sul mare, ricompaiono le scie di due altri siluri, che vengono facilmente evitati. Mi chiedo per quale miracolo quella ‘cosa’, con quel profilo incerto e semi sommerso, stia ancora a galla. Ordino di mettere una lancia a mare perché l’equipaggio ormai non può tardare ad uscire, ma i minuti passano inesorabili mentre boccaporti e sportelli restano chiusi. Aspetto, guardo e spero che quei marinai italiani escano. Li avremmo accolti a bordo con enorme ammirazione e rispetto, ma alla fine è tutto inutile. La torretta del sommergibile appare nell’ombra come scossa da un ultimo fremito e, improvvisamente, scompare mentre l’acqua si chiude a coprire - come accarezzandolo

LE IMMAGInI Il primo sommergibile Balilla, silurato e affondato nel 1916 durante la Prima guerra mondiale

- il battello. Mi scopro il capo e altrettanto fanno i miei ufficiali, curvando la fronte dinnanzi a quella fine così tragica... Apprezzo pienamente il valore del mio prode avversario per l’attacco eseguito con tanto slancio e che, per pura casualità, fu reso nullo. È mio dovere attestare che tutti sul “Balilla” con ammirevole disprezzo della morte compirono con onore il loro dovere, raggiungendo da eroi la pace eterna nel fondo dell’Adriatico.» Al comandante Farinata degli Uberti fu conferita la Medaglia d’Oro al Valore Militare alla memoria e tutti gli altri 37 marinai dell’equipaggio furono decorati con argento e con bronzo. Il secondo “Balilla”, un sommergibile di grande crociera, fu impostato il 12 gennaio 1925 nei cantieri navali O.T.T. di La Spezia e fu varato il 20 febbraio 1927 entrando in servizio il 21 luglio 1928. Con un dislocamento di 1464 tonnellate, era lungo 87 metri e largo 8 metri con una immersione di 4,11 metri. Era armato con 5 tubi di lancio da 533 mm ed aveva 1 tubo lanciamine, 1 cannone da 127/27 mm e 2 mitragliere singole da 13,2 mm. Il suo apparato motore di superficie era costituito da 2 motori Diesel Fiat, che azionando 2 eliche sviluppavano una potenza di 4000

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cv permettendo una velocità massima in emersione di 17 nodi, con una autonomia di 3000 miglia a 17 nodi e di 12000 miglia a 7 nodi. In immersione, con 1 gruppo elettrogeno Fiat di 368 Kw di potenza, l’apparato motore era costituito da 2 motori elettrici di 1620 Kw di potenza, con cui le 2 eliche permettevano raggiungere una velocità massima di 9 nodi, con una autonomia di 110 miglia a 3 nodi. L’equipaggio era costituito da 70 uomini: 7 ufficiali e 63 tra sottufficiali e marinai. Il “Balilla” costituiva una classe di 4 unità, assieme ai sommergibili suoi gemelli Millelire, Toti e Sciesa. Fra il marzo e l’ottobre 1933 il “Balilla” – comandato dal capitano di fregata Valerio Della Campana – e il Millelire, in concorso con le vedette Biglleri e Matteucci, compirono una lunga missione nell’Atlantico Nord di assistenza – faro radio – alla Seconda Transvolata Atlantica della squadra aerea comandata da Italo Balbo, che fu detta "Trasvolata del Decennale" ed in tale occasione i sommergibili toccarono Madera, le Bermuda e tutti i maggiori porti atlantici del Canada e degli Stati Uniti. La crociera fu particolarmente impegnativa per la sua lunga durata e per le difficoltà nautiche e meteorologiche incontrate e felicemente superate; l’assistenza al volo, specie per i collegamenti radio, fu efficiente al punto da far meritare uno specifico elogio ai comandanti delle unità in mare. Negli anni che seguirono, i sommergibili, oltre al normale addestramento, effettuarono varie


crociere in Mediterraneo, fra le quali la più lunga fu quella compiuta dal “Balilla” e dal Millelire nel 1934 fino ad Alessandria via Pireo, toccando, durante il ritorno, anche i vari porti italiani del Nord Africa. Con l’entrata dell’Italia nella Seconda guerra mondiale, il sommergibile “Balilla” fu dislocato di base a Brindisi e, posto al comando del capitano di corvetta Michele Morisani, venne inviato in agguato a sud di Corfù dove il 12 giugno 1940 venne sottoposto a dura caccia da parte di aerei e navi inglesi, e per le avarie riportate fu costretto a rientrare alla sua base di Brindisi. Quella prima vicenda bellica vissuta dal “Balilla” ebbe anche dei risvolti rocamboleschi, che furono raccontati dal sergente motorista Giuseppe Barbieri, in un testo pubblicato nel 1994 dall’Associazione Nazionale Marinai d’Italia “Le memorie di un ex sommergibilista”. «… Ci furono lanciate oltre 200 bombe, di cui una colpì una cassa poppiera contenente nafta che, fuoriuscita, si portò in superficie senza che con ciò le navi nemiche sopraggiunte mollassero la preda e così, continuando con il lancio delle bombe di profondità, misero fuori uso anche tutte le nostre antenne di trasmissione. Il comandante Morisani fece dare disposizioni all’equipaggio di tenersi pronti per, al fischio della sirena previsto per le 7 del mattino, aprire lo sportello boccaporto e darsi prigionieri. Quando la sirena fischiò, erano già le ore 9, tutto l’equipaggio manifestò essere contrario a cedere le armi e

LE IMMAGInI Il secondo sommergibile Balilla, quello più «fortunato», al servizio della Regia Marina sino al 1941

a fronte di quella reazione, mentre alcune bombe nemiche continuavano ad essere sganciate, il comandante decise di rimanere ancora a quota periscopica, ma avvertì che comunque “non per molto tempo” giacché il locale poppiero era ormai allagato e pertanto il sommergibile sarebbe potuto inabissarsi facilmente. Più tardi, con le navi nemiche finalmente apparentemente allontanatesi, il comandante decise di portarsi in superficie, ordinando la messa in moto dei motori termici e optando per tentare il rientro alla base in navigazione notturna. Trascorsi alcuni giorni si arrivò vicino alle coste di Brindisi e fummo avvistati dalla guardia costiera che ci impose l’Alt e ci chiese di comunicare il nome del sommergibile. Però, con gli apparecchi per la trasmissione completamente inutilizzati, non era possibile trasmettere la risposta e solo il segnalatore con le bandiere riuscì, a stenti, a comunicare il nome del sommergibile “Balilla”. Ci risposero, sempre con i segnali, che la radio inglese aveva da qualche giorno annunciato l’affondamento di un sommergibile italiano proprio nella zona che era stata assegnata a noi – e, in effetti, scoprimmo poi che anche l’Italia aveva comunicato che il nostro sommergibile non aveva fatto ritorno alla base. Intanto arrivò un motoscafo con a bordo alcuni ufficiali

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per l’accertamento ed il riconoscimento e, nel constatare che eravamo veramente il “Balilla” e superata la sorpresa, alla fine tutti quanti gioirono e festeggiarono. Eravamo sfuggiti miracolosamente alla morte! Giunti finalmente a Brindisi, fummo accolti dalle autorità militari e anche la cittadinanza ci rese omaggio ricevendoci festosamente.» Dopo le necessarie riparazioni, il 12 luglio il “Balilla” ripartì dal porto di Brindisi, questa volta al comando del capitano di corvetta Cesare Girosi, con la missione di andare a schierarsi lungo la congiungente Alessandria-Capo Krio in una posizione a sud di Creta. Ma, già avanzata la navigazione, il sommergibile dovette interrompere la missione poco prima di giungere nella zona assegnata, a causa della persistente malattia del comandante Girosi. L’ultima missione bellica del “Balilla” fu quella effettuata dal 10 al 16 agosto dello stesso 1940, nel corso della quale realizzò un prolungato pattugliamento nelle acque a sud di Creta per poi rientrare alla sua base di Brindisi. In seguito, ormai già troppo usurato, il “Balilla” fu destinato, come anche il Millelire, alla Scuola Sommergibili di Pola dove per qualche mese svolse attività addestrative. Poi, il 28 aprile 1941 fu posto in disarmo e fu adibito a deposito combustibili, con la sigla G.R. 247. Conclusa la guerra, il sommergibile “Balilla” fu radiato il 18 ottobre 1946 e quindi fu avviato alla demolizione.


CULTURE

IL TRAFORO DEL FREJUS «ARRIVÒ» SINO A BRINDISI

Fu inaugurato 150 anni fa il più lungo tunnel ferroviario del mondo: diede impulso alla Valigia delle Indie e delineò lo sviluppo urbanistico di Brindisi di Gianfranco Perri

l traforo ferroviario del Frejus che collega la Francia all’Italia, corre sotto il Monte Frejus fra le città di Modane in Francia e Bardonecchia in Italia. Lo scavo della galleria, comunemente detta anche del Cenisio, iniziò nel 1857 e venne completato il 25 dicembre del 1870. Il traforo fu inaugurato il 17 settembre 1871 e il 5 gennaio 1872 transitò nel tunnel per la prima volta il treno del collegamento Londra Brindisi della Valigia delle Indie. Al momento dell’apertura il Frejus era il più lungo tunnel ferroviario del mondo – 12.820 metri – e rimase tale per più di dieci anni.. La cessione della Savoia alla Francia da parte del Regno di Sardegna nel marzo 1860 mise in forse il proseguimento dell’opera, ma Cavour – che prima ancora che si parlasse del taglio di un canale a Suez, intuendo il buon partito che poteva trarsi dalla peculiare configurazione geografica della Penisola, aveva avviato quell’ambizioso progetto che l’Europa guardò lungamente con ironica meraviglia – decise farla proseguire allorché i francesi accettarono che i lavori venissero continuati dagli italiani impe-

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gnandosi a versare la metà del costo totale preventivato a condizione che il tunnel fosse concluso entro i 25 anni stimati, con inoltre un premio per ogni anno di anticipo sulla scadenza. Nonostante le enormi complessità tecniche affrontate, il tunnel fu concluso in soli nove anni dall’accordo, dopo un totale di 13 anni di lavori ininterrotti, condotti a felice termine scavando parallelamente da entrambi gli imbocchi. Quella indicata come “ironica meraviglia europea” invece, fu presa abbastanza seriamente dal romanziere francese Jules Verne, il quale forse non avrebbe mai scritto – lo fece infatti proprio tra il 1871 e il 1872 – il suo famoso “Giro del mondo in ottanta giorni” se non avesse appreso che quella nuova galleria ferroviaria del Moncenisio avrebbe permesso – senza la necessità di dover valicare le Alpi – di compiere il tragitto in treno da Londra a Brindisi in sole 42 ore e quindi, attraverso il recentemente aperto istmo di Suez, far rotta direttamente verso l’Asia meridionale. Secondo il Morning Chronicle, che nel romanzo ispirava il protagonista Phileas Fogg, per andare da Londra a Bombay via Suez prendendo il treno via Moncenisio fino a Brindisi, si impiegavano appena una ventina di giorni – in realtà erano 22 – di cui solo 7 fino a Suez e poi altri 13 fino a Bombay. Quindi le tappe successive prevedevano

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LE IMMAGInI L’imbocco del traforo ferroviario del Frejus tra Italia e Francia inaugurato il 17 settembre 1871, in basso Brindisi 1893-Foto Alinari di Achille Mauri. nella pagina accanto Stazione Centrale di Brindisi - Foto Alinari 1880

3 giorni in treno per Calcutta, poi via mare 13 giorni a Hong-Kong, 6 a Yokohama, 22 a San Francisco e da lì altri 7 giorni di nuovo in treno per New York e infine gli ultimi 9 giorni in nave per Londra, con un totale pertanto, di 80 giorni. Certo è però – Verne a parte – che non furono soltanto i tre giorni di risparmio offerti da Brindisi rispetto a Marsiglia – il percorso Londra Bombay via Marsiglia durava 25 giorni – ad inclinare la risoluzione britannica in modo nettamente favorevole all’alternativa italiana. Il determinante appoggio britannico a suo tempo fornito all’unificazione politica dell’intera Penisola, infatti, non solo aveva mirato al vantaggio di poterla inserire nelle reti di comunicazioni ferroviarie, marittime e telegrafiche dell’Impero Britannico, ma aveva anche messo in conto di poter creare un contrappeso geopolitico alla Francia, non più aperta nemica ma pur sempre concorrente in Africa, nell’Impero Ottomano e in Estremo Oriente. Passare per Brindisi infatti, avrebbe consentito, all’occorrenza, poter bypassare anche Lione, Parigi e Calais e scendere quindi al Mediterraneo via Ostenda e il Sempione. Senza trascurare inoltre, la grande importanza strategica del tacco dello stivale – con il porto di Brindisi in primis e già ben compresa da Napoleone fin dal 1801 – come cerniera tra Malta e le Ionie e come perfetta proiezione verso il Levante: quello vicino e quello lontano. «…Di fatto, comunque, per il giovane regno d’Italia [e per Brindisi] Moncenisio e Suez avrebbero modificato la stessa struttura geoeconomica della penisola [e della città]: non più

solo “ponte” tra Est e Ovest, come nell’era degli antichi Stati e delle Repubbliche marinare, ma anche “ponte” tra Nord e Sud. Tornava l’antica Italia augustea, segmento centrale della Peutingeriana, tra Britannia e Taprobane: Ceylon. Sbarrata dal nazionalismo liberale la Porta del Vicino Oriente e decaduta la Venezia italiana a provincia di frontiera brevemente supplita da Trieste in attesa di essere a sua volta sostituita da Fiume, da Brindisi en cambio – e poi anche da Napoli – l’Italia unita si affacciava all’Oriente Estremo.» [“L’unità italiana e il controllo inglese di Suez” di A. Perrone - Quaderno SISM, 2019]. A supporto della Valigia – ad esempio – nel 1873 la società Anglo Mediterranean Telegraph realizzò la posa del cavo telegrafico sottomarino tra Brindisi e Alessandria, in base a una convenzione stipulata due anni prima con la Direzione generale dei telegrafi italiani. Quell’accordo del 1871 previde la cessione da parte della società britannica al governo italiano della lunga linea telegrafica di terra che tagliava l’intera penisola per, in cambio, la concessione sullo strategico cordone sottomarino tra Brindisi e l’Egitto. Inoltre, proprio in vista del nuovo contesto geopolitico internazionale che si andava delineando all’indomani della nascita stessa del regno unitario italiano, per Brindisi il progetto ferroviario del Moncenisio, ancor prima d’essere completato, rappresentò lo stimolo opportuno e necessario per farvi giungere la ferrovia adriatica che era rimasta sospesa ad Ancona. Un collegamento che era stato posposto a lungo anche a causa della disunità politica della penisola italiana la cui costa adriatica era appartenuta a quattro, a tre, e infine a due diversi Stati. Un collegamento ferroviario che, d’altra parte e soprattutto, oltre a costituire certamente l’indispensabile e indiscutibile premessa per la Valigia delle Indie, sarebbe risultato fondamentale per lo sviluppo in sé della città. Così, infatti e a mo’ d’esempio, inaugurata la stazione ferroviaria di Brindisi nel 1865, le valige postali da Brindisi passarono dall’essere 559 nel 1870 a 5.084 nel 1875, a 9.240 nel 1880, a 12.427 nel 1884. Mentre quelle per Brindisi passarono da 1.295 nel 1870 a 10.638 nel 1875, a 23.764 nel 1880, a 43.103 nel 1884. Quella congiuntura internazionale quindi, si rivelò estremamente positiva per Brindisi, nella misura in cui già nel 1862 il neoparlamento nazionale insediato a Torino approvò inserire nella programmazione generale delle infrastrutture da realizzare prioritariamente, il completamento della linea ferroviaria lungo la costa adriatica con la costruzione delle tratte Ancona Foggia e Foggia Brindisi. Una linea ferroviaria che fu considerata, già dall’ingegnere Quintino Sella ministro delle finanze, come “una delle principali arterie d’Europa destinata ad avere in un futuro prossimo grande importanza nel commercio e nei traffici in generale con tutto l’Oriente”. «La realizzazione delle opere fu affidata alla Società delle Ferrovie Meridionali, fondata per l’occasione da 92 banchieri italiani con un capitale di cento milioni di lire, che avviò l'attività nel 1863 con i progetti per i tronchi Ancona-Brindisi, Foggia-Napoli e Pescara-Sulmona. La linea Ancona-Pescara-Foggia fu aperta al traffico verso la fine dello stesso anno, la FoggiaBari nell'anno successivo ed il tronco finale Bari-Brindisi, aperto il 29 gennaio 1865, fu solennemente inaugurato qualche mese dopo, ovvero il 25 maggio dello stesso anno… La tratta ferroviaria BrindisiLecce fu aperta ufficialmente pochi mesi dopo, il 15 gennaio del 1866, mentre saranno necessari altri venti anni per l’apertura al traffico passeggeri della linea ferroviaria tra Brindisi


CULTURE

LE IMMAGInI L'asse London-Ceylon via Brindisi, a destra Il giro del mondo in 80 giorni via Brindisi-Julius Verne 1872

e Taranto.» [“1865: Inaugurazione della ferrovia che unisce Brindisi a Bari” di G. Membola - il 7 Magazine, 2018]. Quella ferrovia costituì di fatto il reale delineatore dell’espansione urbanistica di Brindisi, alimentata – negli anni a cavallo tra l’800 e il ‘900 – dall’immigrazione legata alla cosiddetta “trionfale avanzata del vigneto” conseguenza della crisi di produzione in Francia. Con la costruzione della stazione centrale prima e di quella marittima dopo infatti, e con la conseguente necessità di collegarle anche su strada, si crearono i nuovi assi di sviluppo urbano: i corsi Umberto I e Garibaldi-Roma che ricondussero i limiti del perimetro abitato fino all’originario circuito perimetrale delle antiche mura vicereali – un circuito in buona parte ricalcato sul suo lato esterno dalla stessa via ferrea – riscattando gradualmente tutti gli ampi spazi che da tempo erano stati via via occupati da più o meno coltivate, o più o meno abbandonate, terre agricole. Mentre, lungo le adiacenze parallele alla stessa via ferrea – prossima appunto al perimetro cittadino – si furono costruendo in sequenza i numerosi stabilimenti vinicoli legati anch’essi, per definizione propria, alla già citata trionfale avanzata del vigneto. Purtroppo, le amministrazioni comunali e le classi dirigenti cittadine dell’epoca, al netto di rare eccezioni non si mostrarono all’altezza delle obiettivamente favorevoli circostanze – nazionali ed internazionali – e neanche l’amministrazione centrale dello Stato seppe – anzi volle – favorire lo sviluppo razionale di Brindisi consono a quella congiuntura positiva, che eventualmente non sarebbe durata troppo a lungo. I problemi – vedi la crisi dell’infezione fillosserica del 1913-14 – le inefficienze, i ritardi, le omissioni e gli errori, non tardarono a manifestarsi, e tutte quelle straordinarie vie di comunicazione – postaltelegrafica ferroviaria e marittima – che erano divenute operanti, non furono adeguatamente alimentate dalla creazione di un altrettanto straordinario polo produttivo, che per certo sarebbe stato il solo modo effettivo per poterle sostenere in attività e farle quindi consolidare e crescere. Poi, in effetti e puntualmente, arrivarono tempi peggiori, tempi di guerra, quelli della grande guerra, e tutto a Brindisi si fermò e poi cambiò: in peggio.

il7 MAGAZINE 34 6 agosto 2021


Brindisi 1871

Piano regolatore 1883


CULTURE

540 anni fa la peste colpì Brindisi e 'forse' dirottò l’attacco turco a Otranto di Gianfranco Perri ra la metà del Trecento e i decenni finali del Quattrocento, l’Italia e gli altri paesi d’Europa furono colpiti numerose volte dal “nemico invisibile”: la peste, che si ripresentò con andamento ciclico contribuendo ad aggravare sempre di più la drastica riduzione della popolazione che inizialmente era stata provocata dalla prima forte ondata scoppiata negli anni dal 1347 al 1350 in praticamente tutta Europa, dove ormai la malattia non aveva più imperversato dall’ultima grande epidemia verificatasi nell’VIII secolo. Nel 1480 la prima notizia sicura della presenza della peste in Puglia risale all’inizio del giugno ed è riferita da due ambasciatori residenti a Venezia: Leonardo Botta al servizio del duca di Milano e Alberto Cortese al servizio del duca di Ferrara. Entrambi comunicarono che la malattia aveva fatto la sua comparsa nei due importanti centri portuali adriatici di Trani e di Brindisi. Si era nella tarda primavera, periodo caldo umido ideale per lo scoppio della peste bubbonica, che tendeva ad esaurire i suoi effetti dopo i forti calori estivi per poi ripresentarsi in autunno nella versione polmonare con maggiore virulenza e letalità. Anche nell’arco dei quasi due anni in cui quella volta si protrasse, la presenza della peste in Terra d’Otranto non mantenne un andamento uniforme. La fase iniziale dell’epidemia si situò tra i mesi di maggio e agosto 1480, poi la peste si ripresentò da ottobre e dicembre e, dopo una breve pausa dovuta ai freddi dell’inverno, ebbe una recrudescenza

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tra l’inizio della primavera e la fine dell’estate del 1481, con la fase più acuta contrassegnata da un forte aumento della mortalità. Dopo aver colpito inizialmente Brindisi, continuò ad imperversare nel territorio immediatamente circostante e nel resto della Terra d’Otranto, mentre la paura e il contagio spingeva ad una precipitosa fuga gli abitanti di molte comunità in preda al panico, provocando un generale, se pur temporaneo, esodo verso i luoghi considerati più sicuri. «Mente cominciava ad estendersi in Puglia, la peste veniva contemporaneamente registrata anche a Roma, Parma, Verona, Bologna e Venezia; allo stesso tempo imperversava nell’area adriatica orientale, toccando Ragusa e, specialmente, Valona dove, occupata dai Turchi intenti a costruire una loro potente flotta, raggiunse punte di letalità pari ai tre quarti dei colpiti. La distribuzione geografica di quei numerosi focolai portuali, pertanto, indica che molto probabilmente la trasmissione del contagio si sviluppava essenzialmente via mare, lungo le stesse rotte marittime seguite dai marinai dai commercianti e dalle merci che transitavano nei porti principali delle due sponde dell’Adriatico.» [“La peste del 1480-1481 in Terra d’Otranto” di C. D. Poso, 2012] Quella potente flotta, si pensava, che i Turchi a Valona la stessero allestendo per sferrare un nuovo attacco a Rodi, la strategica isola che era in mano ai Gerosolimitani, i cavalieri giovanniti che lì si erano insediati nel 1310 dopo che nel 1291 i Mamelucchi li avevano vinti e scacciati dalla loro sede storica di San Giovanni d’Acri. Il gran sultano Maometto II però, subito dopo aver conquistato Co-

il7 MAGAZINE 26 20 agosto 2021


LE IMMAGINI I martiri di Otranto - particolare dell'ossario nella Cattedrale, sotto l'ingresso di Maometto II a Costantinopoli secondo Benjamin Constant, nella pagina accanto “Trionfo della morte” di Giacomo Borlone de Buschis ricostruzione dipinto nel 1484 sull'esterno dell'Oratorio dei Disciplini di Clusone in provincia di Bergamo

stantinopoli – la mattina del 29 maggio 1453, dopo un lungo assedio, le mura caddero e la città fu espugnata; Costantino XI, l’ultimo imperatore dell’impero romano d’oriente, perì in battaglia con gran parte del suo popolo; gli abitanti furono massacrati e la chiesa di santa Sofia fu trasformata in moschea; Costantinopoli fu chiamata Istanbul e divenne la base sulla quale gli Ottomani costruirono la loro potenza – aveva rivendicato apertamente i suoi diritti di possesso anche su Otranto Gallipoli e soprattutto Brindisi, quali antiche città portuali che legalmente ed a pieno titolo erano state parti integranti dell’impero bizantino da lui definitivamente conquistato. Non mancarono pertanto le legittime speculazioni circa l’eventualità che l’obiettivo reale dell’imminente spedizione turca da Valona potesse essere proprio Brindisi, a quel tempo certamente la più ambita preda musulmana nel vicino Occidente. Il momento era del resto propizio a Maometto II: non era da temere un serio contrasto al passaggio di una flotta invasora diretta a Brindisi, giacché le armate aragonesi del re di Napoli

Ferdinando I e quelle pontificie erano impegnate dal 1478 contro Firenze, e la pace che nel 1479 aveva chiuso la lunga guerra turco-veneta, manteneva Venezia ufficialmente neutrale e serviva da copertura all’intrinseca ostilità dei Veneziani verso il re di Napoli, al quale del resto ambivano – neanche troppo velatamente – sottrarre le strategiche città portuali pugliesi. Certo è che all’alba del 28 luglio del 1480 un’imponente flotta, composta da un paio di centinaia di navi turche portando a bordo alcune decine di migliaia di uomini armati, mosse da Valona puntando sulla costa dirimpettaia. I Turchi giunsero sulle coste salentine e sbarcarono poco a nord di Otranto, presso i laghi Alimini nella baia poi detta “dei turchi” e da lì si diressero verso la città. Fatta razzia del borgo fuori le mura, il comandante delle truppe invasore Gedik Ahmet Pascià propose ai cittadini una resa umiliante e di fatto inaccettabile, obbligando gli abitanti di Otranto a difendersi dall’assedio. Dopo due settimane, l’11 agosto, l’armata turca riuscì ad aprire un varco tra le mura della città e da lì si riversò nel centro, avanzando con razzie e crudeltà indicibili: le vie furono inondate da sangue e coperte da corpi martoriati. I Turchi giunsero fino alla Cattedrale dove un gruppo di fedeli vi si era barricato: dapprima recisero il capo all’arcivescovo Stefano Pendinelli e poi la strage continuò con la decapitazione di tutti gli otrantini di sesso maschile con età superiore a quindici anni che, catturati in ottocento tredici, rifiutarono tutti di abbracciare la religione islamica. «Pascià spedì a Brindisi un proprio messo con una lettera per l’arcivescovo Francesco de Arenis, nella quale ingiungeva la pronta consegna della città che considerava retaggio dell’antico impero bizantino, minacciando, altrimenti, che “si non me date la terra, io con tutto lo mio sforzo vengerò da vui, et farò più crudelitate che non è facto ad Otranto”. Fortunatamente le minacce rimasero sempre tali per quanto in seguito, più d’una volta, corsero dicerie e si paventò anche negli ambienti della corte l’eventualità di un attacco turco a Brindisi…» [“Brindisi durante l’invasione turca di Otranto” di Vittorio Zacchino, 1978] Da varie fonti si è ripetutamente avanzata la tesi secondo cui l’attacco turco a Otranto fu fortuito, in quanto Gedik Ahmet Pascià lo avrebbe deciso solo all’ultimo momento, una volta costretto – o comunque indotto – a scartare l’obiettivo inizialmente previsto: Brindisi. Le opinioni dei sostenitori di tale ipotesi divergono però circa i motivi che avrebbero determinato tale cambiamento. Dall’ipotesi più elementare di un improvviso cambiamento del clima con il conseguente rafforzamento dei venti di tramontana che avrebbero spinto più a sud le navi allontanandole da Brindisi e avvicinandole a Otranto, alle altre due ipotesi che invece presumono un cambio di rotta pilotato e conseguente all’aggiornamento ricevuto dal Pascià circa le sfavorevoli condizioni che avrebbe incontrato a Brindisi. Sfavorevoli perché la città, al contrario di Otranto, era molto ben difesa in quanto aveva ricevuto rinforzi aragonesi fin dal maggio precedente, con anche una squadra di cinquanta cavalli agli ordini di Tommaso Fi-


CULTURE

LE IMMAGINI L'Oratorio dei Disciplini di Clusone in provincia di Bergamo, sotto il sultano Maometto II - ritratto di Giovanni Bellini lomarino e Giovanni da Cremona, inviati dal re Ferrante per tranquillizzare i maggiorenti molto preoccupati. “Et perché quelli de Brindese dubitano del turcho, et hanno mandato cavallari in freza, hogi il Re gli ha mandato molte artigliarie et fanti, più tosto per satisfare a quelli homini che per instante necessita chel creda esser.” [Lettera di N. Sadoleto a E. d’Este, scritta in Napoli il 18 maggio 1480]. Oppure sfavorevoli perché “a Brindizi, et in quelle terre marittime lì circumvicine, li è grandissima peste.” [Lettera di A. Cortesi a E. d’Este, scritta in Venezia il 12 giugno 1480]. «Da ciò si può inferire che la scelta di Otranto non sarebbe stata affatto occasionale né condizionata dai venti contrari, ma piuttosto voluta a monte della spedizione, con la consapevolezza che – oltretutto – Brindisi era insidiata dalla peste, nonché presidiata da una discreta guarnigione aragonese e – da non sottovalutare – giungere a Otranto e non a Brindisi avrebbe anche favorito la benevola neutralità di Venezia col rispetto della clausola, contenuta nel trattato di pace del gennaio 1479, relativa all’obbligo per le navi turche di non superare la linea Saseno-Otranto…» [“Brindisi durante l’invasione turca di Otranto” di Vittorio Zacchino, 1978] La verità certa finora non ci è stato dato di conoscerla e i dubbi sul perché di quell’eventuale mancato assalto turco a Brindisi probabilmente non verranno mai dissipati. Storicamente certo è invece che proprio durante i mesi della presenza turca in Terra d’Otranto, Brindisi riassunse importanza strategica e divenne la base naturale della riscossa aragonese. Il re Ferrante agli inizi di febbraio del 1481 ‘mandava molti maestri de legnamme et altri a Brindese per fare una fortecia in su al porto per guarda de quello porto et de la armata dove la raguna al presente’: si trattava dell’avvio dei lavori per la costruzione del castello Alfonsino. Il 25 febbraio dal porto di Brindisi salpava l’armata cristiana per contrastare il Pascià di ritorno a Valona e nelle acque di Saseno otteneva una vittoria che risollevava il morale della depressa cristianità, che così si assicurava il controllo dell'Adriatico. Brindisi si era “per poco, ma definitivamente” salvata dall’invasione turca e gli Aragonesi prima e gli Spagnoli dopo, rafforzarono a più riprese le sue difese dai pericoli provenienti dal mare: difese poderose che per secoli e in più occasioni scoraggiarono e contrastarono vari tentativi d’assalto: turchi, veneziani, francesi, inglesi…

il7 MAGAZINE 28 20 agosto 2021


Martiri d’Otranto, Chiesa di Santa Caterina a Formiello, Napoli


CULTURE

I fratelli Sgura, nel loro Dna il talento per la musica

Franco, Salvatore, Aldo ed Enzo

eredi della grande tradizione musicale brindisina di Gianfranco Perri

ualche anno fa, nel marzo del 2018, commentai il bel libro appena dato alle stampe dal bravo Marco Greco “Ho sognato Robert Johnson. Brindisi dagli anni ’50 al 2000”: quasi un’antologia – e non solo – dei tantissimi, giovani giovanissimi e meno giovani, musicisti brindisini e delle loro intrecciantisi sigle musicali; musicisti per divertimento, o per circostanza, o per moda, o per professione, o per passione, ma in ogni caso sempre entusiasti protagonisti in prima linea di una cronaca cittadina, divenuta ormai di fatto, storia cittadina. In quell’occasione scrissi: «Ma quanti sono stati i musicisti brindisini dal dopoguerra ad oggi? Naturalmente è impossibile la conta precisa. Forse trecento, forse seicento, forse molti di più…» Ebbene, se vessi scritto oggi quell’articolo, avrei aggiunto: Ma il talento e la passione musicale sono forse nel DNA dei brindi-

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sini? E mi sarei risposto: Probabilmente sì! Qualche sera fa, infatti, nella splendida cornice della ritrovata estate brindisina, sono andato con amici in piazza Mercato per prendere una buona pizza e, soprattutto, per ascoltare “un po’ di buona musica dal vivo”: una musica da subito rivelatasi piacevole e di grande qualità artistica, proposta al diletto dei tantissimi presenti dagli ‘Sgura brothers’. Suonavano tre dei quattro fratelli Sgura, che per l’occasione erano accompagnati dal bassista Felice Polinone e dalla voce di Alea. Ebbene, i quattro fratelli brindisini Sgura, Franco – Cillo – Salvatore, Aldo ed Enzo sono, tutti e quattro, bravissimi musicisti. Sarà un caso fortuito, oppure ‘forse’ il loro DNA avrà qualcosa a che vedere con quel loro talento musicale? E così, mentre ascoltandoli suonare facevo a me stesso questa domanda, mi son tornati alla mente alcuni altri dei miei tanti amici brindisini musicisti. Alcuni altri che però avevano anche loro un qualcosa di particolare: Il bravo batterista Luigi Sciarra – che pur-

il7 MAGAZINE 24 3 settembre 2021


LE IMMAGInI nella foto di Maurizio De Virgiliis i quattro fratelli Sgura, sotto il titolo con Alea e il bassista Felice Polinone

troppo ci ha lasciato troppo presto– fondatore negli anni ’60 del complesso ’I marines’ e i suoi due fratelli, il bravo batterista Marco e l’altrettanto bravo percussionista Mino: dunque, di nuovo tre fratelli con, quindi, lo stesso DNA. Poi, ecco Franco Trane, il sassofonista che ancor giovane lasciò Brindisi per trasferirsi in Messico da dove è ritornato solo qualche anno fa, ed i suoi due figli, entrambi talentosi musicisti: Domenico che abita a Praga e il maestro e professore Angelo Trane, straordinario sassofonista, plurilaureato al conservatorio di Frosinone e a quello di Campobasso, che esercita la sua professione a Roma. Ancora un caso o, ancora e più probabilmente, il DNA? Naturalmente, perlomeno secondo me, si tratta di domande retoriche. Personalmente, infatti, io – che il mondo dei musicisti brindisini degli anni ’60 ho vissuto in prima persona, che quello degli anni precedenti ho imparato a conoscere dai tanti racconti ascoltati e letti, e che quello degli anni successivi ai ’60 ho, pur se a distanza, seguito costantemente – sono certo che la passione e il talento per la musica siano da moltissimo tempo presenti e ben radicati nel DNA di buona parte di noi brindisini. Non può, altro esempio, essere un caso che quando, esattamente dieci anni fa, Nicola Poli – a Brindisi un riferimento assoluto ed ineludibile per la musica e per tutti i musicisti, padre del compianto ed indimenticato musicista Giovanni Poli – decise di fondare il gruppo Facebook intitolato “Musicisti Brindisini” alla cui creazione – nacque sulle due sponde dell’Atlantico nella notte tra il 17 ed il 18 luglio 2011 – ebbi il piacere di contribuire, le adesioni superarono da subito ogni più ottimistica previsione. Un gruppo numerosissimo – con ad oggi poco più di 800 iscritti

– dalla straordinaria vitalità, che proprio in questi giorni, il 2 settembre, per celebrare il decennale della sua fondazione ha realizzato con grande successo il ‘Secondo incontro dei musicisti brindisini’. Il ‘primo’ memorabile incontro si realizzò il 1º marzo del 2012 [M. ANTONELLI “Musicisti brindisini: valanga di emozioni nel primo raduno. Oltre cinque ore di esibizioni, abbracci, risate e ricordi” in SENZACOLONNE del 3 marzo 2012] Ma è tempo di tornare a raccontare dei quattro fratelli Sgura – Cillo, Salvatore, Aldo ed Enzo – un racconto che, quanto meno sinteticamente, merita di essere raccontato: il racconto di quattro talentosi musicisti dei quali – per noi brindisini – andare orgogliosi e del cui talento è ‘da fortunati’ potersi dilettare. E se dal DNA deve iniziare il racconto, è immediato risalire a Francesco – Cillo – lo zio paterno dei quattro fratelli, il bravo integrante dell’orchestra stabile dello storico Teatro Verdi di Brindisi, apprezzato maestro di flauto che sfortunatamente morì ancora molto giovane, nell’ormai lontano 1945. E così, quando nel 1962 nacque il primo dei nostri quattro protagonisti, da parte di duo padre Elio e di suo nonno, fu unanime la scelta di chiamarlo come il giovane zio scomparso: Franco – e, naturalmente, Cillo – riservando al secondo nato il nome del nonno, Salvatore. Poi vennero anche Aldo ed Enzo, ed anche tre sorelle, la più piccola delle quali, Antonella, con la sua bella voce avrebbe per alcuni anni accompagnato nelle esibizioni musicali i suoi quattro fratelli musicisti. In Cillo, come anche in Salvatore, l’attrazione per la musica non tardò troppo a manifestarsi, ed il loro innato talento s’integrò presto – praticamente al raggiungimento dell’età scolare – con lo studio e con la dedicazione, sfociando il tutto in una irrinunciabile passione. Aldo ed Enzo, invece, furono non proprio del tutto disposti a seguire con la necessaria costanza gli studi musicali; ma anche per loro due alla fine giunse il tempo


della passione e, con l’esempio e l’aiuto dei fratelli più grandi, impararono anche loro – da talentosi autodidatti – l’arte del ben suonare. E così, la squadra divenne presto completa: Cillo con la tromba, Salvatore con il trombone e la batteria, Aldo con la tastiera e il basso, ed Enzo con il sax. Ma chi fu il maestro di Cillo e di Salvatore? Nientemeno che Riccardo Carito – Ferruccio. «Trombettista di estrazione jazz, uno degli artisti brindisini più innovativi degli anni ’50. Il ‘Maestro’ amava insegnare la tromba tenendo lezioni per imboccatura e intonazione. Tutti i suoi tanti allievi nel tempo, hanno sempre riconosciuto la sua straordinaria bravura, professionalità e impressionante cultura sullo strumento.» [M. GRECO in ‘Ho sognato Robert Johnson’ – Edizioni Brundisium.net, 2017]. Ebbene, il primo allievo in assoluto del maestro Ferruccio Carito fu proprio il nostro bravissimo trombettista Franco Sgura: Cillo. Franco ed il suo gruppo “Cillo & Brother's”, ancora minorenni si esibirono in vari contesti musicali accarezzando i primi successi proprio grazie anche alla loro tenera età. Cillo poi, nel 1996, entrò ad integrare la prestigiosa “Orchestra Terra d’Otranto” con cui partecipò più volte in diretta live su Rai Uno, accompagnando molti dei più illustri ospiti del panorama musicale nazionale ed internazionale dell’epoca, inclusa la celeberrima regina del soul Dionne Warwick. Con la stessa orchestra si esibì anche dal Teatro Ariston di Sanremo in occasione del premio alla Regia Televisiva, distinguendosi per il suo talento, la sua personalità e la sua spiccata professionalità. Allo stesso tempo, e ormai già per ben cinque intere decadi, dagli anni ’70 ad oggi, questi nostri fratelli Sgura, tutti assieme, oppure individualmente integrati di volta in volta – stabilmente o circostanzialmente – a tutta una lunga serie di raggruppamenti musicali – le band prima, i complessi dopo, ed attualmente i gruppi – di Brindisi e non solo, hanno segnato ed esaltato la densissima storia della vibrante vita musicale brindisina e per il nostro diletto continuano e, ne son assolutamente certo, continueranno a farlo per molte altre decadi ancora. Ma non posso chiudere questo breve articolo dedicato a tutti i miei tanti amici musicisti brindisini, ed ai fratelli Sgura in particolare, senza prima commentare un

il7 MAGAZINE 24 3 settembre 2021

LE IMMAGInI Il maestro Riccardo Carito -Ferruccio con la sua inseparabile tromba

altro fondamentale aspetto totalmente intrinseco e comune alla personalità di tutti loro quattro: la grande gentilezza d’animo,

il grande senso dell’amicizia, del rispetto e dell’umana solidarietà: attributi tutti che, nella vita come nell’arte dell’esercizio musicale, altro non fanno che esaltare e risaltare il loro indiscusso talento. Bravi, Cillo, Salvatore, Aldo ed Enzo. Bravi e grazie!



CULTURE

Settembre 1943. E il leggendario

Comandante Diavolo giunse

a Brindisi

Il maggiore Amedeo Guillet, eroe di guerra e campione di equitazione, incontrò il re di Gianfranco Perri na vita singolarmente lunga – durata ben 101 anni – ma, soprattutto, una vita affascinante ed incredibilmente avventurosa, quella di Amedeo Guillet, il già in vita divenuto leggendario ‘Comandante diavolo’. Nato a Piacenza il 7 febbraio 1909 nel seno di una nobile famiglia con ampie tradizioni militari, il barone Amedeo Guillet entrò all’Accademia di Modena e nel 1931 ne uscì sottotenente dei cavalleggeri di Monferrato. Campione d’equitazione, già selezionato per partecipare alle olimpiadi di Berlino 1936, vi rinunciò per arruolarsi volontario nel reparto di cavalleria coloniale e poter quindi prender parte alla colonizzazione dell’Etiopia. Veterano e pluridecorato della conquista dell’Etiopia e del conflitto civile spagnolo, già ben prima dello scoppio della seconda guerra mondiale il Tenente Guillet si trovava prestando servizio in Africa Orientale Italiana, quando il viceré, il Duca Amedeo D’Aosta, ben conoscendo la sua personalità, la sua capacità ed il suo valore di soldato, nonché la sua straordinaria dimestichezza con la lingua araba ed i costumi locali, nel febbraio del 1940 gli affidò l’organizzazione ed il comando di una unità del tutto speciale ‘Gruppo Bande Amhara a cavallo’, un reparto indigeno di cavalleria formato da circa 1700 uomini, tra eritrei, etiopi, arabi e yemeniti. Era accaduto che, disobbedendo gli ordini che prevedevano l’immediata fucilazione di ogni africano civile trovato in possesso di armi, Guillet in più occasioni ne aveva lasciati liberi un buon numero per i quali ne aveva apprezzato la fierezza e riconosciuto non avessero compiuto atti criminali e così, il Duca d’Aosta, suo amico personale, pensò bene di affidargli quell’incarico del tutto speciale che lo avrebbe esonerato dalla rigida obbedienza militare alla quale erano tenuti tutti gli ufficiali italiani. Scoppiata la guerra, in Africa la situazione si fece presto drammatica per le forze armate italiane. Gli inglesi spezzarono rapidamente il fronte italiano in Libia e all’inizio del 1941 stavano ormai travolgendo le truppe italiane anche in Africa Orientale. I britannici della Gazelle Force minacciavano di accerchiare una decina di migliaia di soldati italiani in ritirata verso Agordat e la sera del 20 gennaio 1941 il tenente Guillet ricevette l’ordine di affrontarli con il compito di bloccarli tra Keren e Keru per ritardare di almeno 24 ore la loro manovra. All’alba del giorno seguente, il 21 gennaio, dopo una furtiva manovra di aggiramento, il gruppo speciale di Guillet caricò a cavallo il nemico creando scompiglio tra la fanteria anglo-indiana. Si verificò uno spettacolo impressionante e, al con-

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tempo, incredibile: Guillet in sella a un cavallo grigio e i suoi 800 cavalieri arabi in sella ai loro cavalli, attaccarono, armati di sole spade pistole e bombe a mano, le più numerose truppe della fanteria e le colonne di autoblindo britanniche ‘Matilda’. Dopo essere passato illeso tra le truppe nemiche rimaste attonite, Guillet tornò con i suoi cavalieri sulle posizioni iniziali per caricare nuovamente, mentre alcune pattuglie blindate britanniche iniziarono a dirigersi verso il fianco e le spalle del suo schieramento minacciando di accerchiarlo. Però il vicecomandante delle Bande Amhara a cavallo sottotenente Renato Togni, sacrificandosi con un manipolo di una trentina di cavalieri, effettuò una incredibile carica contro la co-

il7 MAGAZINE 36 17 settembre 2021


LE IMMAGInI A sinistra Amedeo Guillet nel 1935, sotto in Etiopia nel 1940, nella pagina accanto in Eritrea nel 1941

lonna dei carri inglesi che si dovettero girare per aprire il fuoco, falciando mortalmente tutti gli uomini e i cavalli di Togni. L’ufficiale italiano così immolatosi, fu sepolto dagli inglesi con tutti gli onori militari, in riconoscimento del suo valore. Quel sacrificio permise a Guillet di continuare l’impari battaglia e di poter finalmente raggiungere pienamente il disperato obiettivo di permettere alle truppe italiane in ritirata di raggiungere indenni le fortificazioni di Agordat. Un risultato però, pagato con un alto prezzo: varie centinaia tra morti e feriti e la perdita del suo grande amico Togni. Fu quella l’ultima incredibile carica di cavalleria nella storia militare dell’Africa. Un’ufficiale britannico che subì l’assalto, così descrisse l’avvenimento: «Un gruppo di cavalleria indigena, guidato da un ufficiale italiano su un cavallo grigio, ci caricò da Nord piombando giù dalle colline. Con coraggio eccezionale quei soldati galopparono fino a trenta metri dai nostri cannoni, sparando di sella e lanciando bombe a mano, mentre i cannoni sparavano a zero granate che squarciavano addirittura il petto dei cavalli». [A. Petacco, 2003]. La carica di cavalleria di Keru, guidata da Amedeo Guillet sarà in seguito ricordata come una delle pagine più valorose della storia dell’esercito italiano. E in Africa si diffuse d’immediato – sia tra gli italiani che tra gli inglesi – il mito dell’uomo che a Keru guidò una carica di cavalleria contro i carri armati e che vinse la battaglia. Caduta Asmara il 1º aprile 1941, nel caos generale gli indigeni disertarono e i civili fuggirono, mentre le residue truppe italiane sotto il diretto comando di Amedeo d’Aosta si ritirarono sulle montagne etiopi, asserragliandosi sull’Amba Alagi sotto l’assedio di truppe inglesi soverchianti. Si arresero il 21 aprile senza condizioni, ricevendo però dal nemico vincitore, l’onore delle armi. Ma l’ancor giovane ufficiale italiano, già promosso capitano, Amedeo Guillet, ferito ad un piede e rimasto con solo poco più di cento soldati al suo seguito – 826 erano morti e più di 600 erano stati feriti – senza avere più un riferimento gerarchico decise ancora una volta di non obbedire agli ordini. Non si arrese e continuò a combattere. Sulla sua testa gli inglesi posero allora la consistente taglia di mille sterline d’oro: “vivo o morto”. Ma Amedeo Guillet era già entrato nella leggenda, quella del “comandante diavolo” indomito e idolatrato dai suoi uomini, coraggioso e sprezzante del pericolo, fedele ai propri ideali e rispettoso anche dei suoi nemici. Dismessa l’uniforme militare italiana, il Tenente Guillet indossò il turbante e la futa, tipici dell’abbigliamento indigeno. I lineamenti mediterranei e la conoscenza perfetta della lingua araba lo aiutarono a cambiare identità. Il suo nuovo nome arabo divenne Ahmed Abdallah Al Redai e per otto mesi continuò a combattere con impeto

una guerra di guerriglia contro le forze britanniche, a cui diede un gran filo da torcere, senza permettere loro la sua cattura, nonostante l’impegno personale del maggiore Max Harari, capo dell’intelligence britannica. Finalmente Guillet si ammalò di malaria e dopo che gli fu fortuitamente catturato il cavallo ‘Sandor’ si decise a sciogliere la sua ormai decimata banda e, mimetizzato da perfetto yemenita, sfuggì per mesi ai suoi instancabili persecutori inglesi. Finché, aiutato dai suoi tanti amici arabi e mai tradito da nessuno di quegli africani che pur avrebbero potuto farlo tentati dalla taglia, riuscì, rocambolescamente dopo innumerevoli e pericolose peripezie, a raggiungere lo Yemen, dove fu dapprima imprigionato perché creduto spia inglese, per poi essere liberato e protetto dallo stesso re di quel Paese, l’imam Yahya, che lo accolse ed ospitò per circa un anno alla sua corte, fino ad aiutarlo a raggiungere Massaua per tenare di imbarcarsi per l’Italia senza essere arrestato dagli inglesi. Aveva infatti saputo delle missioni umanitarie accordate per il rimpatrio dei civili ex coloni italiani in AOI e, aiutato da vecchi conoscenti, riuscì ad imbarcarsi furtivamente sull’ultimo dei dodici viaggi che via mare si realizzarono con quell’obiettivo: era il 14 luglio 1943, la nave allestita a ospedale era la Giulio Cesare e, ancora vestito da arabo, fu scoperto dal capitano che gli intimò di scendere e che, dopo aver ascoltato il racconto e appresa l’identità del clandestino, decise di aiutarlo nascondendolo ai militari inglesi imbarcati di scorta, mantenendolo per tutto il viaggio nel manicomio della nave in qualità di pazzo. Dopo 45 giorni di navigazione, compiendo il periplo dell’Africa, la nave giunse finalmente in Italia, approdando a Taranto il 31 di agosto. Il 2 settembre il Capitano Amedeo Guillet giunse a Roma e d’immediato si diresse al comando dell’esercito per rapportarsi, scoprendo che già da un bel po’ era stato asceso al grado di Maggiore. Quindi, ligio alla parola data ai suoi guerrieri che lo stavano aspettando in Africa, chiese di essere rinviato in Etiopia in modo da poter tentare di riprendere la stessa guerra che aveva dovuto interrompere. Il Ministero della guerra, in principio, lo autorizzò a prepararsi per attuare il suo piano, ma dopo soli pochi giorni giunse l’8 settembre, e l’Italia entrò nel caos. Appena informato che, lasciata Roma, il re Vittorio Emanuele III il 10 settembre era giunto a Brindisi, il Maggiore Guillet considerò che, avendo giurato fedeltà al re, l’unica cosa da fare era rapportarsi al sovrano, giacché solo lui avrebbe potuto scioglierlo dal suo impegno d’onore e, eventualmente, restituirlo alla vita civile. Così, attraversò mezza Italia nel pieno del caos militare e civile generato dall’annuncio dell’armistizio e dopo qualche giorno di viaggio riuscì ad arrivare a Brindisi, dove d’immediato chiese di poter essere ricevuto dal re. Era uno degli ultimi giorni di settembre, quando il re accettò di ricevere in udienza


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il7 MAGAZINE 38 17 settembre 2021


Amedeo Guillet-1935

Amedeo Guillet-1936

Amedeo quando era Ahmed Abdallah Al Redai


CULTURE

L’Accademia navale per 3 anni al BRINDISI: dal 1943 al 1946 T o m m e a o s:

Nel periodo più buio, Brindisi ospitò non solo

il re ma anche il glorioso ente della Marina di Gianfranco Perri al 12 settembre 1943 all’11 luglio 1946, l’Accademia Navale ebbe ufficialmente sede a Brindisi, presso il Collegio Navale della Gioventù Italiana: fu praticamente l’unico organismo militare italiano che rimase integro dopo il disastroso armistizio che, annunciato il fatidico 8 settembre ’43, indusse allo sbando l’intero Paese e specialmente tutte le regie forze armate, lasciate senza direttrici mentre il re, con la sua famiglia e con parte del suo governo presieduto dal generale Badoglio, fuggiva nottetempo da Roma per imbarcarsi a Pescara sulla corvetta “Baionetta” con rotta Sud fino a raggiungere Brindisi ed insediarvisi il venerdì 10 settembre. La notizia dell’armistizio fu appresa dal comandante dell’Academia Navale ammiraglio Guido Bacci di Capaci, dagli allievi e dai professori, all’ora di cena mentre si trovavano a Venezia, dove si erano trasferiti qualche mese prima in vista della pericolosa esposizione ai bombardamenti aerei nemici in cui si era trovata coinvolta la storica sede di Livorno. Al giorno seguente giunse l’ordine di trasferire l’Accademia al Sud per evi-

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tare che gli allievi fossero catturati dalle forze armate tedesche, ed a tal fine furono requisiti i due transatlantici Saturnia e Vulcania che si trovavano da pochissimi giorni agli ormeggi a Venezia, ancora allestiti da navi ospedale della croce rossa, in quanto appena rientrati dalle loro missioni umanitarie di rimpatrio di migliaia di coloni dall’Africa Orientale Italiana. Sul Saturnia imbarcarono il comandante, gli allievi ufficiali ed il personale dell’Accademia, mentre sul Vulcania imbarcarono gli allievi ufficiali di complemento che si trovavano in esercitazione sulla vicina isola di Brioni, di fronte a Pola. Già al pomeriggio del 9 settembre il Saturnia era pronto a salpare, ma a causa di alcuni marittimi dell’equipaggio che non volevano partire, fu trattenuta nella laguna. L’ammiraglio Bacci di Capaci fece intervenire i carabinieri che intimarono ai marittimi di obbedire giacché – essendo stati militarizzati in tempo di guerra e pertanto soggetti alle leggi disposizioni e militari – in caso contrario sarebbero stati arrestati ed eventualmente passati per le armi. Così, nel pomeriggio del 10 il Saturnia levò gli ormeggi e raggiunse il mare aperto. Dopo la navigazione notturna, all’alba l’ammiraglio

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LE IMMAGINI L'ingresso del Collegio Navale di Brindisi ai tempi dell'Accademia Navale 1943-1946, nella pagina accanto l’Accademia Navale nella sua sede di Livorno

Bacci di Capaci comunicò che la meta sarebbe stata Brindisi dove l’Accademia si sarebbe insediata nel locale Collegio Navale. Al pomeriggio, già in prossimità del porto di Brindisi, la nave fu avvistata da un sommergibile che, per fortuna, risultò essere polacco, il “Sokol”. Giunse però a bordo la notizia del tragico affondamento della corazzata “Roma” comandata dall’ammiraglio Carlo Bergamini, padre di uno degli allievi presenti sul Saturnia. E giunse anche la notizia che il Vulcania era stato sequestrato dalle truppe tedesche, con la conseguente cattura dei 739 allievi ufficiali di complemento che vi si erano già imbarcati per raggiungere anche loro Brindisi. «… Era accaduto che l’equipaggio mercantile del Vulcania – facendo anche leva sul disaccordo manifestatosi sul da farsi tra il Comandante dell’Accademia in 1ª Simola e Comandante in 2ª Giachin – si era rifiutato di obbedire alle disposizioni del 1º Comandante, e per evitare di prendere il mare aveva provocato l’insabbiamento della nave che così era rimasta bloccata fino all’arrivo dei tedeschi...» [“Un ottuagenario si racconta” di Giovanni Proia - Copyleft © Emilioweb, 2005] In quel clima cupo ed in mancanza di notizie certe sulla reale situazione militare della piazza di Brindisi, si valutò la possibilità di proseguire per Taranto, e solo quando la nave aveva di poco superato l’imboccatura del porto, l’ammiraglio Bacci di Capaci – ricevuta la notizia dell’insediamento a Brindisi del re e del governo Badoglio – decise di dirigersi a Brindisi; e così si procedette ad invertire la rotta. Con la virata a diritta però, la nave incagliò insabbiandosi nei pressi di San Cataldo. Giunsero i rimorchiatori da Brindisi per cercar di liberare la nave, ma tutti i tentativi risultarono vani e alla fine, trascorsa ormai la notte, nel corso della domenica

del 12 settembre si procedette a traslare a Brindisi tutti gli imbarcati, con i bagagli e gli altri materiali di studio ed addestramento dell’Accademia, impiegando gli stessi rimorchiatori e altri barcarizzi messi a disposizione. L’Accademia Navale prese immediatamente possesso della sua nuova sede di Brindisi e già nella stessa sera del 12 settembre il ministro della Marina, ammiraglio Raffaele de Courten, passò in rassegna gli allievi ufficiali. Il giorno dopo anche le due navi scuola “Cristoforo Colombo” e “Americo Vespucci”, provenienti da Venezia giunsero in porto e gettarono le ancore nel bacino interno proprio davanti alla banchina del Collegio Navale, e nel pomeriggio il re si recò a visitare i due velieri alla fonda. Il giorno seguente fu la volta del principe Umberto il quale, dopo la visita alle navi scuola, volle anche lui passare in rivista gli allievi dell’Accademia, mentre i brindisini, dapprima meravigliati e poi orgogliosi, cominciarono ad abituarsi allo spettacolo offerto da quei due bellissimi velieri alla fonda, entrambi vicinissimi alle banchine del Seno di Ponente. Erano stati varati a Castellammare di Stabia, rispettivamente nel 1928 e 1931: 90 anni fa. Nel libro “Le memorie dell’Ammiraglio de Courten 1943-46” si può leggere: «… Il mattino del 14 settembre 1943, dopo l’arrivo dei velieri scuola ‘Vespucci’ e ‘Colombo’ a Brindisi, la Reale Accademia Navale riprese ordinariamente la sua attività di educazione… La visione delle due belle navi a vela ormeggiate davanti all’edificio del Collegio Navale e degli allievi intenti, con i loro ufficiali e professori, alle loro occupazioni sotto la saggia e illuminata guida dell’Ammiraglio Bacci di Capaci, dava la sensazione viva del modo in cui questa fondamentale istituzione della nostra marina, dalla quale erano uscite tutte le generazioni degli ufficiali in servizio ed alla quale ognuno di noi si sentiva profondamente legato, aveva attraversato e superato la crisi più grave della sua esistenza…» Con la ripresa formale delle attività dell’Accademia, infatti, gli studi e gli addestramenti cercarono di seguire un percorso


CULTURE il più naturale possibile, compatibilmente con la guerra che invece, non accennava a voler ammainare; anzi, tutt’altro: frequenti erano gli allarmi antiaerei e i crepitii delle mitragliatrici, gli scoppi di mine vaganti ed il rombo assordante e prolungato degli aerei bombardieri, sia in partenza che in arrivo, indistintamente di giorno e di notte. L’11 novembre, giorno di san Martino, ci fu la prima cerimonia militare ufficiale italiana dopo l’8 settembre: si svolse a Brindisi, nel cortile dell’Accademia Navale con la presenza del re che passò in rivista tutti i cadetti. La cerimonia più importante però si svolse, sempre nelle strutture del Collegio Navale di Brindisi, il giorno di santa Barbara – 4 dicembre – per il giuramento degli accademisti: era la prima volta in assoluto che, nella storia dell’Accademia Navale Italiana, il giuramento avveniva alla presenza del re e al difuori della sede livornese. L’Accademia, nata dall’unificazione delle scuole militari della savoiarda Marina di Genova e della borbonica Marina di Napoli, era stata fondata a Livorno nel 1881 dall’allora ministro della Marina Militare Italiana, ammiraglio Benedetto Brin, ed era stata inaugurata il 6 novembre: 140 anni fa. Il 25 gennaio 1944, una delle due navi scuola – il superbo veliero Colombo – levò le ancore dal porto di Brindisi. Salpò con destino Taranto per fungere “temporalmente” da nave appoggio per sommergibili.

LE IMMAGINI La nave Vespucci esce dal porto di Brindisi nel 2000. Sotto una veduta dall’alto del Collegio Tommaseo

Salpò salutato, informalmente ma emotivamente, dagli allievi e dagli ufficiali che su quel veliero avevano tante volte navigato, con l’augurio di un pronto ritorno alla scuola. Purtroppo, però, quella “temporalità” doveva rivelarsi essere “definitiva”. La nave scuola ‘Colombo’, un veliero magnifico al pari del suo quasi gemello ‘Vespucci’, non sarebbe più tornata in Accademia: fu chiesta dall’Unione Sovietica a titolo di riparazione danni di guerra, in ottemperanza al trattato di pace firmato a Parigi alla fine della guerra e poi… fece una fine molto triste.

[… Il 9 febbraio 1949 il ‘Colombo’ lasciò il porto di Taranto alla volta di Augusta dove il 12 febbraio passò formalmente in disarmo. Ammainò la bandiera della marina militare per issare quella della marina mercantile in attesa della consegna e poi salpò alla volta di Odessa, che raggiunse senza i temuti imprevisti il 2 marzo. Prima della partenza da Taranto, infatti, era accaduto che alcuni giovani reduci militari di marina avevano pianificato l’affondamento della nave per sottrarla alla cessione, ma il piano era stato scoperto e il 20 gennaio 1949 erano stati arrestati a Taranto lo studente Clemente Graziani e il motorista Biagio Bertucci, mentre alla stazione Termini di Roma venivano arrestati cinque ex-marò – Paolo Andriani, Sergio Baldassini, Fabio


Galiani, Fabrizio Galliani e Alberto Tagliaferro – sorpresi dalla polizia quando erano in procinto di prendere il treno per Taranto con sette chilogrammi di tritolo in valigia. Ribattezzato con il nome Dunaj, il bellissimo veliero italiano venne utilizzato come nave scuola dall’Istituto Nautico di Odessa navigando nelle acque del Mar Nero fino alla fine del 1960. Nel 1961, ormai molto deteriorata, la ex nave ‘Colombo’ venne disalberata e adibita a nave di trasporto per il legno, finché, nel 1963, bruciò insieme al suo carico e venne radiata dall’albo della marina sovietica, restando abbandonata e semidistrutta. Infine, nel 1971, fu demolita…] Nel settembre 1944 si recò in visita all’Accademia, per via mare processionalmente, l’arcivescovo di Brindisi monsignor Francesco De Filippis. «… Fu uno spettacolo indimenticabile, poiché il Seno di Ponente fu gremito di barche stracolme di persone che seguivano l’imbarcazione del vescovo innalzando al cielo inni religiosi e preghiere. Le navi alla fonda avevano innalzato il gran pavese, e i marinai erano schierati lungo le murate o aggrappati alle griselle. Le due rive di mare erano gremite di persone che da terra vollero seguire la processione di barche. Dai finestroni dell’Accademia sporgevano teste di spettatori e sulla scalea, ufficiali, professori, signore e bimbi accolsero il vescovo per dargli il benvenuto. Dopo una breve cerimonia di saluto, al vescovo fu mostrata l’Accademia Navale e visitò la cappella, il teatro, la mensa, la palestra e le camerate. Prima di

LE IMMAGINI Amerigo Vespucci e Cristoforo Colombo alla fonda di fronte al Collegio Navale di Brindisi - 1943

congedarlo, il Comando dell’Accademia volle fargli un omaggio: una statua della Madonna Maris Stella con la targa commemorativa, che recitava: “Alla Stella del mare ignara di tramonti, la Regia Accademia Navale nel suo raccoglimento brindisino fervido di opere, di speranze, di fede” …» [G. T. Andriani, 2009] Il 14 febbraio 1944 il Comando dell’Accademia assistette, di buon’ora, alla partenza del re, con la sua famiglia, per la nuova residenza di Salerno, città ormai liberata dagli alleati e sita sulla via di approssimazione a Roma. Il 2 giugno 1946 anche gli allievi dell’Accademia parteciparono al referendum per sceglier la forma istituzionale da attribuire all’Italia e il 13 giugno la nuova bandiera della Repubblica Italiana sventolò nell’alto della scalea, mentre sul frontone del cortile interno il motto “Per la Patria e per il Re” venne sostituito da “Patria e Onore”. L’8 giugno 1946, il personale militare e civile dell’Accademia Navale partì da Brindisi con il cacciatorpediniere ‘Grecale’ diretto a Livorno, mentre gli allievi s’imbarcarono sul ‘Vespucci’ per adempiere alla tradizionale navigazione d’istruzione, con un itinerario che per quella volta iniziò a Brindisi e si concluse a Livorno. L’Accademia Navale d’Italia tornò così nel suo storico istituto di Livorno ed il 4 dicembre di quell’anno 1946,

giorno di santa Barbara consacrato alla festa della Marina, nell’atrio d’ingresso fu murata la lapide con la seguente epigrafe: « Per eventi di guerra e nel triennio agosto 1943-giugno 1946 l’Accademia Navale in continuità operosa, trasmigrata a Venezia prima e a Brindisi dopo, qui a Livorno risorgendo dalle rovine appena rimosse, nell’estate 1946 tenacemente affermava volontà e attività ricostruttrici, esempio nel presente auspicio per l’avvenire della Patria » Per Brindisi si era così chiusa un’altra, relativamente breve ma certamente intensa e altamente significativa, pagina della sua storia: della sua plurimillenaria storia marinara. Invito tutti gli interessati all’argomento qui trattato, ad approfondirlo consultando l’interessante libro del professor Giuseppe Teodoro Andriani “L’Accademia Navale e Aeronautica a Brindisi dal 1943 al 1946” - Locorotondo Editore, 2009. E concludo segnalando che proprio lo stesso Collegio Navale, da lì a pochissimi mesi avrebbe costituito lo scenario di un altro, nuovo ed ugualmente importante, capitolo di quella avvincente storia marinara brindisina: avrebbe ospitato e educato durante vari anni, centinaia di giovani e giovanissimi studenti italiani, esuli provenienti dalle regioni giuliane istriane e dalmate duramente colpite dal dramma della guerra. Ed anche questa è una storia che merita di essere ricordata e raccontata, per poter essere conosciuta dai giovani brindisini e per non essere dimenticata dai meno giovani.

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CULTURE

Nautico Carnaro 75 anni fa suonò la prima campanella

Dal collegio Tommaseo al trasferimento in via Brandi sino all’accorpamento con il Marconi di Gianfranco Perri empi difficili quelli dell’ultimo dopoguerra, in Italia e a Brindisi: tempi di ricostruzioni e di grandi restrizioni. Ma anche tempi di nuovi inizi, di nuovi orizzonti, di nuove prospettive e di forti volontà, anche a costo di grandi sacrifici. L’Accademia Navale, che era giunta a Brindisi al seguito del re Vittorio Emanuele III ed aveva stabilito la sua sede nelle istallazioni del Collegio Navale, il 5 giugno del 1946 era rientrata a Livorno, restituendo quella magnifica scuola marinara ai brindisini. Ed a settembre di quello stesso anno giunse a Brindisi un primo gruppo di trenta giovani profughi fiumani, i quali erano stati estromessi dalla loro terra dalle loro case e dalle loro scuole. Furono alloggiati nel Collegio Navale e presto furono raggiunti da molti altri giovani profughi – fino a diventare più di 300 – provenienti ancora da Fiume e poi da Lussinpiccolo, Pola, Zara e varie altre città italiane d’Istria e Dalmazia che alla fine della guerra erano divenute iugoslave, obbligando di fatto gli italiani ad abbandonare tutto e partire.

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«…I posti previsti erano 250, ma al Tommaseo finimmo per essercene 330 di allievi, perché il bravo direttore Pietro Troili non se la sentiva proprio di mandar via gli esuberi, nonostante la pochezza delle risorse disponibili. Così, in tanti trovammo un banco di scuola dove finire le medie e le superiori, invece che perderci negli ozi dei campi profughi. L’accoglienza che vi ricevemmo a Brindisi fu meravigliosa. Quando andavamo in libera uscita in città, in divisa e in fila per sei, i Brindisini ci guardavano con ammirazione e affetto. In periferia, la gente stava seduta fuori dalle porte di casa e si chiamavano l’un l’altro per godersi lo spettacolo dei ‘Giuliani che passavamo cantando’. A Brindisi abbiamo concluso i nostri studi superiori e ne siamo usciti stimati cittadini. Abbiamo forgiato il nostro carattere, dando amore e ricevendo amore dai Brindisini. Così, a Brindisi ci formammo tutta una generazione sana e preparata: comandanti di nave e direttori di macchina, ragionieri, artisti, dottori, generali, magistrati e finanche ambasciatori, per solamente citare alcuni dei tanti buoni frutti del Collegio Tommaseo di Brindisi… » [Rudi De Cleva, 1991] Molti di quei giovani erano studenti che ave-

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LE IMMAGINI I Cadetti del Collegio Navale Tommaseo sfilano al corso - nel 1961, sotto l’attuale sede del Carnaro in via Brandi

vano già intrapreso studi nautici nelle scuole di quelle loro regioni d’origine a forte tradizione marinara, e così fu deciso aprire corsi di studio costituendo all’uopo una sezione staccata dell’Istituto Nautico F. Caracciolo di Bari, presto convertita in autonomo Istituto Nautico di Brindisi poi – nel 1951 – ufficialmente intitolato “Carnaro”, mentre il Collegio Navale – che dalla sua creazione nel 1934 era stato della GIL, Gioventù Italiana del Littorio – fu intitolato all’illustre letterato dalmata “Nicolò Tommaseo”. Collegio che fino ai primi anni ’50 continuò ad ospitare come interni, tanti di quegli studenti giunti come profughi – li giuliani – molti dei quali si erano iscritti anche alle altre scuole superiori di Brindisi, principalmente al Commerciale Marconi e al Liceo Marzolla, ma anche al Magistrale e allo Scientifico. In seguito, e fino al 1977, il Collegio continuò ad essere la sede ufficiale dell’Istituto Nautico, con gli studenti ormai esterni e quasi tutti di Brindisi e provincia. Per quei difficili inizi, grande merito va riconosciuto a Giuseppe Doldo che, brindisino di nascita e fiumano di cuore, capitano di marina e già professore di “Comunicazioni marittime” nell’Istituto Nautico di Fiume, continuò ad insegnare al Nautico di Brindisi fino all’età di 70 anni. Inoltre, si prodigò ad aiutare in ogni modo i profughi istriani e dalmati giunti a Brindisi e provincia. S’impegnò affinché s’intitolassero alcune delle nuove vie del rione Commenda alle città dell’Istria, del Carnaro e della Dalmazia: piazza Dalmazia, viale Carnaro, via Pola, via Parenzo, via Fiume, via Cherso, eccetera. Il comune di Zara in esilio gli conferì una medaglia d’oro per aver ottenuto l’intitolazione di una via di Brindisi a Don Munzani, ultimo arcivescovo italiano di Zara, morto a Oria, e aver provveduto alla sua tumulazione nell’antica chiesa Ma-

donna di Loreto del cimitero di Brindisi. Promosse anche la costruzione, alla Commenda, della chiesa di San Vito, patrono e protettore dei fiumani. Generazioni e generazioni di bravi Capitani di lungo corso e Direttori di macchina si sono formate durante decenni nel Nautico di Brindisi e, dall’anno scolastico 2002-2003 l’Istituto Tecnico Carnaro ha istituito anche il corso di Indirizzo Aeronautico, in risposta ad una vecchia aspirazione della città e colmando un vuoto educativo a lungo rimasto disatteso. Quindi, nel settembre 2010, con l’entrata in vigore dei nuovi ordinamenti scolastici nazionali, la storica scuola brindisina assunse formalmente la denominazione di Istituto Tecnico Statale - trasporti e logistica - Carnaro. Finalmente, nell’anno scolastico 2014-2015, a seguito di quanto stabilito da una legge risalente al 2008 si concretizzò l’accorpamento del Nautico con l’altrettanto storico Istituto Commerciale Marconi – nato nel 1926, ben 95 anni orsono – e con i due istituti da questi staccatisi nel corso degli anni. Ebbe così luogo la nascita dell’attuale Istituto di Istruzione Secondaria Superiore “CarnaroMarconi-Flacco-Belluzzi” di Brindisi. Così come era accaduto per l’Istituto Nautico che nel 1977 fu trasferito dal Collegio Navale Tommaseo ad una nuova sede costruita in via Brandi 11, anche all’Istituto Marconi toccò – nel 2011 – abbandonare la propria sede storica di via Cortine presso l’ex convento dei Domenicani del Crocefisso, per traslocare alla una nuova sede costruita nel quartiere Minnuta in via Del lavoro 21. Una scelta che allora fu molto contestata e – a buona regione e a tuttora – ritenuta essere stata una scelta, per più d’una ragione, del tutto discutibile. «…Ho sempre vivo il ricordo del giorno in cui al Commerciale, il preside accompagnò in classe un gruppo di ragazzi che – ci disse – venivano dalla Dalmazia per continuare e finire gli studi a Brindisi, perché avevano abbandonato le loro scuole in quanto costretti dalla guerra a lasciare le loro città. Ricordo tutti quegli occhi che si posavano sui nostri volti. Si notava


CULTURE una certa sofferenza in quei nostri coetanei che erano stati costretti a lasciare non solo le loro case e le loro scuole, ma anche i loro cari e tutti i loro affetti, per poi venirsi a trovare in un ambiente nuovo, in una città nuova e con abitudini e usanze diverse da quelle loro. Quei loro sguardi malinconici facevano trapelare in chiaro tutte le domande che si stavano facendo: Dove siamo? In un’altra vita? Con un’altra gente? Siamo diversi? Come faremo a parlarci? Non immaginavano certo che sarebbero prestissimo diventati nient’altro che “dalmati brindisini”. Certamente non fu facile per loro ambientarsi e adattarsi a noi, ma ci riuscirono in fretta: impararono subito, infatti, a mangiare “la puddica, lu pani cu lu pumbitoru, la frisedda, li pettuli e poi… Izza comu si strafucavunu!”. Appena il preside andò via, il professore per metterli a loro agio li pregò di scegliere liberamente il banco su cui sedersi. Mio vicino di banco fu Vastano, poi uno alla volta si accomodarono, Pillepich, Panetta, Chiurco, Wild ed ultimo in fondo, anche perché era il più alto, trovò posto Varisco. Antonio, affettuosamente detto Tonci, era un ragazzone biondo, alto e simpatico, uno studente esemplare, un amico, un buontempone che si distingueva nello sport e negli studi senza essere un secchione, sempre seduto all’ultimo banco della nostra aula, con quei suoi capelli biondi che anche se tirati all’indietro non stavano mai fermi. Ci raccontava le sue barzellette senza né capo né coda, che duravano minuti, minuti e minuti, mentre la sua allegria ci contagiava. Tutti noi, brindisini e non, che lo conoscemmo, lo ricordiamo con tantissimo

LE IMMAGINI La sede storica dell'Istituto Mar, nel Convento dei Domenicani del Crocifisso, sotto il Collegio Navale Nicolo Tommaseo, sede storica dell'Istituto Nautico Carnaro

affetto.» [Enrico Sierra, 2008] Antonio Varisco era nato a Zara il 29 maggio del 1927, diplomatosi nel 1948 al Marconi di Brindisi entrò nell’Arma dei carabinieri nel 1951. Da tenente colonnello comandava il Reparto Servizi Magistratura di Roma quando fu assassinato dalle brigate rosse il 13 luglio del 1979. Quella mattina, da un’auto che lo seguiva con 5 persone a bordo e che poi si affiancò alla sua vettura, mentre venivano lanciati al-

cuni fumogeni spuntò un fucile a canne mozze da cui furono esplosi 18 colpi che l’uccisero. Antonio Varisco fu poi insignito della Medaglia d’oro al valore civile: un eroe anche un po’ brindisino. Quell’accorpamento di matrice essenzialmente burocratica disposto nel 2014 tra il Nautico e il Marconi pertanto, quanto meno venne a rinsaldare idealmente quei legami storico-affettivi che si erano stabiliti tra i due Istituti brindisini nei difficili primi anni del dopoguerra, quando la maggior parte degli studenti profughi ospitati nel Collegio Navale, condividendo a pieno e durante parecchi anni scolastici la loro giovanile esperienza umana a Brindisi, si erano ripartiti principalmente proprio tra la scuola nautica e quella commerciale.

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Sede storica dell’ Istituto Nautico Carnaro – Collegio Navale

Sede attuale dell’Istituto Marconi-Flacco


REPORTAGE ESCLUSIVO

SAN LORENZO IN SPAGNA VENERATO MOLTO PIÙ CHE A BRINDISI

LE IMMAGINI Al centro Sor María del Carmen Arias: memoria storica del Monastero dell’Annunziata, sotto la statua di San Lorenzo de Brindis nel piazzale antistante il Monastero dell’Annunziata

Il nostro patrono riposa a Villafranca del Bierzo: per lui anche un 'mural' di Gianfranco Perri

a “Real Academia de la Historia” di Spagna dedica alla voce ‘San Lorenzo de Brindis’ ben 3.200 parole, composte in pagine dense di elementi biografici particolareggiati integrati da frequenti commenti e giudizi di profondo apprezzo sulla figura di uomo e di santo del nostro universalmente conosciuto concittadino: senza dubbio il più illustre dei brindisini che la storia della città abbia mai registrato. Nato a Brindisi con il nome Giulio Cesare Russo il 22 luglio 1559, a 16 anni – a Verona nel 1565 – ricevette l’abito di cappuccino assumendo il nome di ‘frate Lorenzo’ – poi più amichevolmente chiamato ‘padre Brindisi’ – e morì a Lisbona il 22 luglio 1619. Da allora riposa venerato a Villafranca del Bierzo, nella provincia spagnola di León. Questa la sinossi della voce della Regia Accademia Spagnola: «Capuchino, santo, doctor de la Iglesia, teólogo, diplomático y predicador». Questo l’epilogo della voce: «I suoi contemporanei ammiravano la sua santità, ma non meno la sua saggezza e la sua scienza sacra». Questi, invece, alcuni dei passaggi contenuti nella voce: «Fin dal primo momento si scoprì in lui un’eccezionale acutezza intellettuale e un’insaziabile sete di conoscenza... Le sue doti intellettuali gli servirono per essere un magnifico oratore, caratterizzato da una predicazione fondata sulla Scrittura, pronunciata con grande lucidità ed erudizione espressiva… Quando nel 1601 gli fu affidata la cura spirituale delle truppe imperiali nella lotta contro i turchi, pur con l’inettitudine di chi le guidava, il suo coraggio e il suo incoraggiamento spirituale permisero ai cristiani di ottenere la vittoria ad Albareale… Particolari caratteristiche della sua spiritualità furono il culto dell’Eucaristia e la devozione mariana, mentre la messa, da lui celebrata con grande devozione, durava normalmente una, due o tre ore… Parallelamente all’atti-

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ESCLUSIVO LE IMMAGINI La Chiesa dell'Annunziata nel Monastero della Clarisse a Villafranca del Bierzo. In basso la tomba di San Lorenzo visitata dal nostro Gianfranco Perri

vità apostolica, sviluppò una efficace funzione diplomatica quando la sua aspirazione a condurre una vita ritirata dovette essere abbandonata per disposizione del papa Clemente VIII, che ne richiese i servizi per delicate difficili e pericolose missioni diplomatiche che in più occasioni si conclusero con il raggiungimento della pace e della concordia... Con l’obiettivo di ridare serenità e pace al vice-regno di Napoli – dove lo sfrenato e arrogante viceré Pedro Téllez Girón commetteva continui abusi e umiliazioni dei sudditi – dovette subire ancora una volta le difficoltà di un lungo viaggio fino alla corte del re di Spagna Filippo III. Il viaggio, accompagnato da due suoi confratelli, Gianmaria da Monteforte e Girolamo da Casalnuovo, fu una continua battaglia contro le insidie e i pericoli architettati dal viceré di Napoli e alla fine raggiunse il sovrano a Lisbona, dove si era recato per assistere all’incoronazione del figlio Filippo IV a re del Portogallo. Finito dalla fatica e dalla sofferenza, nonostante l’assistenza dei medici del re che lo curavano nella casa che lo aveva ospitato appartenente al duca Pedro Alvarez de Toledo y Osorio, già viceré di Napoli e suo amico e protettore, morì il 22 luglio 1619, il giorno in cui compiva sessant’anni. Con il permesso del papa Paolo V e per ordine di Don Pedro, la salma fu trasportata in Spagna, fino alla capitale del suo marchesato, Villafranca del Bierzo, dove giunse il 10 agosto e fu deposta all’interno del monastero l’Annunziata delle francescane scalze, affidata alle suore Clarisse, che tuttora custodiscono gelosamente e venerano i suoi resti nella chiesa del monastero...» Villafranca del Bierzo, lontana circa 600 km da Lisbona e situata a circa 350 km a nordovest di Madrid, con poco meno di 3.000 abitanti è una piccola cittadina di montagna dalla chiara impronta medievale, sita sul ‘Camino de Santiago’. Elevata da signoria a marchesato dai re Cattolici nel 1486, conobbe anni di grande splendore tra il XIV e il XVIII secolo, epoca a cui risalgono la maggior parte dei suoi edifici e monumenti storici magnificamente conservati. E tra questi il ‘Monasterio de Nuestra Señora de la Anunciada’. Tale convento francescano delle Clarisse fu fondato dal V marchese di Villafranca, Pedro Alvarez de Toledo, per sua figlia Maria de Toledo, nata a Napoli nel 1581, che voleva professarsi monaca e che inizialmente entrò a far parte della comunità di Concepción de Villafranca. Poi, il suo desiderio di diventare Clarissa fece sì che il padre promuovesse la fondazione di un monastero di questo ordine a Villafranca. Nel 1594, Don Pedro ottenne dal papa l’apposita licenza per convertire un antico ospedale per pellegrini in monastero e il 24 aprile del 1606 il nuovo stabilimento fu ufficializzato con l’arrivo di tre suore dal ‘Real Monasterio Scalzo de Madrid’. «… Lorenzo da Brindisi fu beatificato il 1° giugno 1783, canonizzato l’8 dicembre 1881 e proclamato Dottore della Chiesa il 19 marzo 1959. La sua festa si celebra il 21 luglio e gode di grande popolarità in tutto il mondo. In Spagna è conosciuto e venerato come “il Santo di Villafranca”. La sua tomba nella chiesa del monastero è come un’oasi per i pellegrini che vi giungono implorando il suo aiuto e la sua intercessione, per ritrovare le forze spirituali prima di affrontare la difficile e ripida salita verso ‘O Cebreiro’ (il luogo in cui ha inizio il tratto galiziano del Cammino di Santiago). Nella parte alta dell’orto conventuale, inoltre, a pochi metri dall’antico cimitero delle monache, si erge il maestoso ‘Ciprés de la Anunciada’ – il più antico e, con i suoi quasi 40 metri, il più alto cipresso di Spagna – che fu piantato da Maria de Toledo, suor Maria della Trinità, all’arrivo del corpo di Fra Lorenzo a Villafranca...» [“La Anunciada: Historia y men-

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REPORTAGE ESCLUSIVO LE IMMAGINI Al centro Sor María del Carmen Arias: memoria storica del Monastero dell’Annunziata, sotto la statua di San Lorenzo de Brindis nel piazzale antistante il Monastero dell’Annunziata

saje” di Sor Maria del Carmine Arias, 2010] Una delle principali aspirazioni del fondatore del monastero, Don Pedro, era stata di dotarlo di una chiesa propria, ed il suo progetto poté essere realizzato a quarant’anni dalla sua morte, grazie soprattutto all’impegno di Bernardina di Gesù, 3ª abbadessa del monastero. Costruita tra il 1655 e il 1660, in stile barocco-italiano, la chiesa dell’Annunziata è uno dei monumenti più belli di Villafranca del Bierzo. La sua maggiore ricchezza artistica è costituita dalla maestosa pala dell’altare maggiore, realizzata in legno di noce policromo, i cui pezzi principali furono acquistati in Italia dallo stesso Don Pedro. Le pareti del tempio sono decorate da una collezione di dipinti,

anch’essi donati dal fondatore, molti dei quali raffiguranti scene di vita eremitica realizzati da famosi pittori fiamminghi:

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Paul Bril, Wenzel Coberghner, Willem van Nieulandt e Jacob Frankaert. Alla sinistra del presbiterio, allineata con l’altare principale, è ricavata la nicchia tombale di San Lorenzo, che accoglie una preziosa urna in cristallo e bronzo retta da quattro colonnine di marmo che ne custodisce le reliquie, soprastante una grande epigrafe marmorea dedicata dai Cappuccini di Spagna al Santo di Brindisi. Ai piedi della chiesa, ad un livello inferiore dietro un arco a tutto sesto, si trova il pantheon del marchese fondatore del monastero. Di forma quadrata, con volta ribassata e decorato con figure allusive al giudizio universale, è presieduto da un Cristo realizzato con canna delle Indie in un unico pezzo cavo. Al centro giace la tomba del marchese realizzata in marmo pompeiano fiorentino e custodisce le spoglie di Don Pedro de Toledo e di sua figlia suor Maria della Trinidad. Le tombe laterali corrispondono a vari familiari del marchese, mentre sul selciato sono sepolte alcune delle suore del monastero. In questo stesso pantheon, dalla sua creazione e durante un tempo, fu conservato anche il corpo di Fra Lorenzo. Più di recente, nel 1996, le Clarisse di Spagna hanno fatto innalzare un’imponente statua bronzea di San Lorenzo de Brindis, opera dello scultore spagnolo Josè Luis Parés, che è stata situata nel piazzale antistante la chiesa posta su un piedistallo corredato da una targa bronzea: «… Generale dell’Ordine dei Cappuccini. Apostolo e difensore dell’unità europea. Consigliere di papi e di re. Ambasciatore di Spagna Germania e Austria. Dottore della Chiesa universale… Il suo corpo si venera in questa chiesa dell’Annunziata dal 10 agosto del 1619…» Ed è proprio questa bella statua di San Lorenzo che sotto un cielo terso d’azzurro mattutino ci accoglie non appena giun-


LE IMMAGINI Il Murale creato dagli scolari delle Elementari san Lorenzo de Brindis in Villafranca, sotto ancora un’immagine della tomba di San Lorenzo da Brindisi nella chiesa spagnola

giamo puntuali al cospetto della solida facciata pietrosa del monastero dell’Annunziata, ancor prima di addentrarci alla volta della meta centrale di questa visita alla spagnola Villafranca del Bierzo: la tomba dell’illustre brindisino, il Santo Lorenzo. Poco dopo esserci annunciati – io e Mariana – con la suora portiera del convento, schiudendo il ponderoso portone della bella chiesa dell’Annunziata ci riceve con un sorriso e un abbraccio di benvenuto suor Maria del Carmen Arias e subito, alla sinistra dell’altare, ecco il sepolcro di San Lorenzo: austero ed al contempo solenne. E la visita non si sarebbe limitata alla sola ammirazione del sepolcro. La franca ospitalità della gentile suor Carmine avrebbe reso la nostra visita interessantissima, con la scoperta di oggetti opere e notizie relative al nostro Santo e al suo pluricentenario trascorso nel monastero di Villafranca. La visita durò tre ore, che trascorsero come in un batter d’occhio ascoltando i racconti entusiasti e coinvolgenti di suor Carmine: di fatto una enciclopedia vivente e, con la sua più che sessantenaria presenza nel claustro, la memoria storica del monastero e di San Lorenzo nel monastero, autrice di numerose ricerche e pubblicazioni. Cito, ad esempio, l’interessante volume da lei ossequiatomi e che ho subito letto: “La ilustre Fundadora de la Anunciada, María de la Trinidad Toledo y Mendoza (1581-1631). Una historia fa-

scinante” IEB, 2009. Don Pedro incaricò al fidato Juan Ortiz de Salazar il traslato sotto scorta armata – dalla chiesa di San Paolo in Lisbona al monastero dell’Annunziata in Villafranca del Bierzo – del corpo imbalsamato di Fra Lorenzo, accompagnato da una lettera per sua figlia suor Maria della Trinità in cui le raccomandava la sepoltura del frate e da un quadro che lo ritrattava fedelmente sul letto di morte ai fini della rigorosa identificazione del cadavere. Un quadro che è tuttora conservato nel coro della chiesa, uno spazio della sezione di clausura del convento. «… Quando il corpo del cappuccino giunse a Villafranca, si produssero fatti così prodigiosi che le genti non dubitarono nel riconoscere in quelli un segno evidente del Cielo indicando che il corpo di quel frate sconosciuto apparteneva a un

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REPORTAGE ESCLUSIVO LE IMMAGINI Il Pantheon sotterraneo ai piedi della chiesa, sotto il \Cipresso dell’Annunziata, il più antico e più alto – quasi 40 metri – di Spagna

santo e come tale lo riconobbero e venerarono: La sera prima dell’arrivo, suor Isabella di San Giovanni vide risplendere in un cielo nuvoloso una chiara fonte di luce pulsante... All’alba tutte le campane del monastero e delle altre chiese di Villafranca suonarono da sole a distesa… Quando padre Brindisi entrò in città, i muli che trainavano il carro affrettarono il passo fino a raggiungere la porta del convento senza che nessuno li guidasse… Fu così grande il fervore tra tutti gli abitanti di Villafranca, che giunti al cospetto del santo furono oltremodo felici coloro che poterono staccare un pelo della sua barba bianca e tanti vollero tagliare un pezzettino del suo abito per conservarlo quale reliquia, così che fu necessario vestirlo con un nuovo abito monacale…» [Dalle testimonianze tuttora custodite nell’archivio del monastero dell’Annunziata in Villafranca del Bierzo] Dopo l’emotivo ricevimento e riconoscimento del corpo del frate, le suore lo risistemarono in una nuova e più grande urna lignea e lo esposero durante cinque giorni al tributo del popolo di Villafranca per poi, il 15 agosto, collocarlo nel pantheon del monastero, dove qualche anno dopo – nel 1627 – seppellirono anche il marchese Don Pedro fin quando, nel 1660, entrambi corpi furono traslati nel nuovo pantheon, che era stato appositamente edificato ai piedi della chiesa dell’Annunziata. In seguito, dopo che nel 1783 Fra Lorenzo fu beatificato da Pio VI, le reliquie del Beato furono nuovamente traslate ed esposte nella ampia sacrestia della chiesa, per così facilitarne la venerazione da parte dei sempre più numerosi devoti e pellegrini che, provenienti da ogni parte di Spagna e del

resto d’Europa in camino verso Santiago, chiedevano di poterlo ammirare e che intensificarono ancor più la loro assistenza dopo che nel 1881 papa Leone XIII elevò il già Beato padre Brindisi a Santo. Fu infine con motivo della proclamazione, fatta da papa Giovanni XXIII nel marzo del 1959, di San Lorenzo da Brindisi ‘Dottore della Chiesa’, che l’arcivescovo José Castelltort Soubeyre decise che le reliquie del Santo dovessero essere esposte non più nella sacrestia, ma nella chiesa presso l’altare maggiore. E fu allora che l’Ordine Provinciale dei Cappuccini di Spagna donò l’urna di cristallo in cui furono composte le spoglie del santo e che in seguito – nel 1962, sessant’anni orsono – fu collocata nella nicchia appositamente creata sulla sinistra dell’altare, corredata da un’epigrafe marmorea che celebra quell’evento. A Villafranca del Bierzo però, la presenza di San Lorenzo de Brindis non si limita solo alla sua celebre tomba e alla sua bella

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statua. C’è infatti, sita nel perimetro cittadino proprio come a Brindisi, una Scuola Elementare San Lorenzo de Brindis. E poi, a Villafranca le celebrazioni religiose e culturali del nostro Santo sono frequenti e spesso solenni, come quella del 23 luglio 2004, realizzata in occasione della presentazione della versione in lingua spagnola del “Mariale” scritto in latino da San Lorenzo e tradotto da Bernardino de Armellada e Agustín Guzmán Sancho o come, più recentemente, quelle numerose svolte – tra il 2018 e il 2019 – con motivo della ricorrenza dei 400 anni dell’arrivo delle spoglie di Padre Brindisi al monastero dell’Annunziata; oppure infine, come quelle di carattere più popolare: ad esempio la processione che con l’immagine del Santo si svolge ogni 21 di luglio a Villafranca, o le feste patronali che in onore a San Lorenzo si celebrano in agosto a Candín, un pittoresco borgo del Bierzo. Né, il culto e la fama del Santo brindisino in Spagna si limitano alla sola regione del Bierzo. Ad esempio, a Massamagrell, una città in provincia di Valencia, ci sono una scuola superiore ed un rinomato complesso ospedaliero per la terza età intitolati ‘San Lorenzo de Brindis’. E del resto, digitando “San Lorenzo de Brindis” su Google.es si possono trovare varie pagine informative, nonché una voluminosa bibliografia relativa al Santo cappuccino redatta – o tradotta – in spagnolo da importanti autori, religiosi e laici, come quella citata all’inizio di questo articolo, scritta nel 2004 da Miguel Anxo Pena González per l’accademia di storia, e molte altre. Nella monumentale Biblioteca Nazionale di Spagna in particolare, riposano importanti opere spagnole relative al Santo, a cominciare dalle edizioni in spagnolo del suo


LE IMMAGINI La Scuola Elementare San Lorenzo de Brindis in Villafranca del Bierzo, sotto a sinistra 1784: Verdadero retrato del beato Lorenzo de Brindis – Museo del Prado di Madrid. Poi due incisioni di Pedro Manuel Gangoiti Echevarría raffiguranti il patrono di Brindisi

già commentato Mariale e di quella che è considerata essere la sua più completa biografia “San Lorenzo de Brindis, doctor de la Iglesia Universal” scritta nel 1959 da Arturo da Carmignano di Brenta e tradotta da Ricardo de Lizaso, per poi seguire con varie altre opere di autori spagnoli. Tra quelle la più importante: “Vida, virtudes y milagros de San Lorenzo de Brindis. General de la Orden de los Capuchinos” di Francisco de Ajofrín, in due edizioni, del 1784 e del 1904; e la più recente: “San Lorenzo de Brindis doctor apostólico” di Agustín Guzmán Sancho, 1994.

In Madrid, inoltre, si conservano anche varie antiche stampe spagnole che rappresentano l’illustre brindisino: dell’incisore Pedro Manuel Gangoiti Echevarría “El B. Lorenzo de Brindis Cap. 1784” nel Museo di Storia di Madrid e “B. Lorenzo de Brindis Capuch. -1783” nella Biblioteca Nazionale. E infine, oltre che nella stessa Biblioteca Nazionale, anche nel famoso Museo del Prado di Madrid è conservata un’altra magnifica incisione del 1784 intitolata “Verdadero retrato del beato Lorenzo de Brindis XIX General del Orden de Padres Capuchinos” incisa con intaglio morbido da Manuel Salvador Carmona su composizione di Mariano Salvador Maella e stampata ad acquaforte e bulino su carta intessuta di 356 x 257 mm. Ebbene, tutto questo in Spagna, e non è poco. Certamente da esserne orgogliosi!

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La partita del Mediterraneo CoPERTInA CULTURE

Milite Ignoto,

i 58 brindisini dispersi in guerra Cento anni fa un soldato sconosciuto venne sepolto sull’Altare della Patria in memoria di tutti quelli morti senza neanche una tomba Ecco i nomi dei brindisini svaniti nella Grande guerra di Gianfranco Perri l Milite Ignoto, un militare italiano morto nella prima guerra mondiale la cui identità resta sconosciuta essendone stato scelto il corpo in modo che non avesse particolari che lo rendessero riconoscibile, fu sepolto a Roma nell’Altare della Patria al monumento Vittoriano il 4 novembre del 1921, cent’anni fa. Quella tomba è un sacello simbolico che rappresenta il sepolcro di tutti i caduti italiani dispersi in guerra. Si commemora in questi giorni, dunque, il centenario del Milite Ignoto e per l’occasione, lo scorso 19 d’ottobre le Poste Italiane hanno emesso un francobollo celebrativo. Il francobollo stampato dall’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato su bozzetto realizzato da Maria Carmela Perrini, raffigura il Milite Ignoto e la statua della Dea Roma incastonati nel complesso monumentale del Vittoriano, l’Altare della Patria. L’emissione è stata corredata da un foglietto raffigurante il Vittoriano nella sua interezza e, delimitati da una banda tricolore, i due lavori artistici rappresentativi del Milite Ignoto vincitori del concorso che ha visto impegnati alcuni studenti delle scuole italiane. Cento anni orsono, la scelta della salma a cui dare solenne sepoltura fu affidata a Maria Bergamas, madre di Antonio Bergamas, volontario irredentista, che aveva disertato dall’esercito austroungarico per unirsi a quello italiano, e che era morto in combattimento senza che il suo corpo fosse stato mai ritrovato.

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La bara selezionata fu collocata sull’affusto di un cannone e deposta su un carro funebre ferroviario che la trasportò da Aquileia a Roma in un viaggio che durò dal 29 ottobre al 2 novembre, condotto su 120 tappe a velocità moderata in modo che la popolazione avesse modo di onorare il caduto. Giunta a Roma, il 4 novembre la bara fu portata a spalla da dodici militari medaglia d’oro al valor militare e, caricata su un affusto di cannone trainato da sei cavalli, venne trasferita fino all’Altare della Patria per la sepoltura solenne in presenza del re, in una cerimonia che vide la partecipazione di circa un milione di persone. Ogni angolo d’Italia partecipò alle emotive cerimonie di quel 4 novembre di 100 anni fa: «A Brindisi, la “Brigata amatori storia ed arte” di don Pasquale Camassa, il 3 novembre si riunì per ricordare i brindisini caduti sui campi di battaglia. Furono menzionati tutti e furono ricordate le notizie biografiche, i combattimenti cui presero parte, i luoghi di morte, di sepoltura, gli encomi e le medaglie ricevute. Don Pasquale riuscì a raccogliere duecento fotografie che furono esposte nel museo cittadino [che allora operava nel tempietto di San Giovanni al Sepolcro proprio sotto la direzione del fondatore, papa Pascalinu]. Alle 9.30 del 4 novembre, in

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AnGELo MAGLIAno di Angelo e Rosa Gianfreda nacque Brindisi il 1° settembre 1895. Marinaio imbarcato sulla "Regina Margherita", s’inabissò con la sua nave nel Mare Adriatico l’11 dicembre 1916 e risultò disperso. Il padre, scritturale, abitava in via San Dionisio 20.


LE IMMAGInI Dettaglio dalla copertina Domenica del Corriere del 6 novembre 1921 - La selezione della bara del Milite Ignoto, sotto la locandina del centenario piazza Baccarni, oggi piazza San Teodoro d’Amasea, si riunirono tutte le autorità civili, militari ed ecclesiastiche, le diverse rappresentanze delle associazioni presenti con le loro bandiere, le scuole, gli ufficiali dell’esercito e della marina. Era presente l’on. Pietro Chimienti, il comandante della Difesa marittima capitano di vascello cav. Ruta, l’arcivescovo Tommaso Valeri, il sindaco Giovanni Mazzari, il vicesindaco Giorgino, monsignor Monaco, il Corpo consolare, il giudice Guarini, il sottoprefetto Dentice. Inoltre, partecipavano gli orfani di guerra, la sezione dei mutilati, le madri dei caduti, la sezione combattenti, un plotone del 10º Reggimento fanteria appartenente alla Brigata Regina del 4º Reggimento artiglieria da fortezza e la Guardia di Finanza.Tra le trenta corone di fiori c’erano quella della nave Patrao Lopez della marina militare portoghese e quelle della nave Proteo e dei piroscafi Lyod Carinzia e Cracovia che rimandarono la partenza per partecipare alla cerimonia. Il corteo, tra due ali di popolo, percorse corso

Garibaldi e corso Umberto I completamente imbandierati, mentre tuonavano le artiglierie e suonavano le campane. Al cimitero il vescovo Valeri celebrò la messa su di un altare da campo dove assistettero circa ventimila persone, pronunciando un discorso particolarmente commovente che pervase in tutti i presenti. Al termine tutte le associazioni deposero le corone di fiori avanti a un loculo costituito in memoria dei Caduti della nave Benedetto Brin, dove riposano i resti di tanti marinai ignoti.» [“Il giorno del Milite Ignoto” di Francesco De Cillis – Amazon, 2021] Il Ministero della guerra nel 1938 pubblicò un Albo d’Oro in 28 volumi con i nomi dei circa 650.000 militari italiani caduti nella Grande guerra e il Comune di Brindisi nel 1925 redasse l’elenco di tutti i militari brindisini considerati essere morti in quella guerra, compresi i nomi dei deceduti per malattia e dei dispersi fino alla data dell’armistizio del 4 novembre 1918. «Quell’elenco del Comune – contenente 376 nomi – non fu mai pubblicato perché marcato da diverse imprecisioni: furono inclusi militari nati in altri comuni della provincia di Lecce – cui allora apparteneva anche Brindisi – forse poiché risiedevano a Brindisi al momento della chiamata alle armi, e furono esclusi altri nati effettivamente a Brindisi, dovuto probabilmente alla mancanza in detto elenco del luogo e della data di nascita di ogni militare. Il confronto con quanto nell’Albo d’Oro è contenuto in riferimento alla provincia di Lecce – per la quale sono registrati in totale 12.331 militari morti – ha permesso di individuare con maggiore precisione i militari effettivamente brindisini morti in guerra, incontrandone 14 non presenti nell’elenco del Comune ed individuandone 174 corrispondenti a caduti non nati a Brindisi, ottenendo il risultato di 216 militari brindisini caduti in guerra.» [“La base navale di Brindisi durante la Grande guerra 1915-1918” di Giuseppe Teodoro Andriani, 1993] Recentemente, l’Albo d’Oro è stato reso disponibile online https://www.cadutigrandeguerra.it/ riportando per ogni caduto i dati seguenti: nominativo e paternità, data e luogo di nascita, grado e reparto militare, data e luogo di morte, causa della morte, altri dati personali. Nella pagina web inoltre, è possibile effettuare la ricerca dei caduti anche sulla base del solo comune di nascita ed è così possibile ottenere che per Brindisi i militari caduti in guerra risultano essere in totale 217. Ebbene, di quei 217, ben 58 risultarono dispersi: 32 soldati e 26 marinai, questi ultimi tutti dispersi in mare in seguito all’affondamento della propria nave. Questi – perché non vengano dimenticati – i nomi dei 58 militari brindisini dispersi in guerra, i cui resti furono quindi idealmente tumulati cent’anni fa nella tomba del Milite Ignoto: Soldati: Borioni Attilio – Briamo Nicola – Carrone Ferdinando – Colleombroso Giovanni – Conte Giovanni – De Salvatore Angelo – De Totaro Cosimo – Di Totero Lorenzo – Gabriele Luigi – Guadalupi Teodoro – Imperatrice Alfredo – Lavino Teodoro – Maiulo Donato – Manigrassi Michele – Martina Innocenzo – Oliva Cosimo – Pantaleo Teodoro – Parziale Giuseppe – Parziale Vincenzo – Pasulo Michele – Roma Alberto – Rullo Teodoro – Saponaro Dante – Schena Teodoro – Serio Giuseppe – Spagnolo Nicola – Toppa Roberto – Trama Teodoro – Trapanà Arturo – Trisolini Giuseppe – Zaccaro Giovanni – Zullo Oreste. Marinai: Almiento Salvatore – Attanasi Giuseppe – Belsole Cosimo – Borioni Carlo – Caforio Francesco – Capozziello Carmelo – Capozziello Giovanni – Cavaliere Eupremio – Damiani Giovanni – Felline Liberato – Leggiero Paolo – Magliano Angelo – Martina Virginio – Miceli Vito – Nani Salvatore – Penta Pietro – Piazzola Filomeno – Puce Ippazio – Romano Pasquale – Scalera Erne-

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CULTURE sto – Taliento Cosimo – Tevere Lorenzo – Toma Cosimo – Ungaro Giacinto – Vespro Emilio – Villani Giuseppe. Tra i 217 militari caduti brindisini, ben 12 furono decorati al valor militare: Con quattro medaglie d’argento il capitano Ettore Ciciriello. Con la medaglia d’argento, il sottotenente Salvatore Briamo, il caporal maggiore Nicodemo Faggiano, il maggiore Ettore Guadalupi, il sottotenente Pasquale Labruna, il sottotenente Domenico Lo Prete. Con la medaglia di bronzo, il soldato Orazio Allegretti, il marinaio Liberato Felline, il soldato Francesco Greco, il sergente pilota Francesco Guadalupi, il soldato Luciano Taurisano, il caporale Cosimo De Tommaso. Ci furono inoltre, anche altri – 22 – militari brindisini combattenti nella Grande guerra che furono decorati con medaglie d’argento o bronzo al valor militare, pur senza – per fortuna – incontrare la morte in guerra. Merita infine di essere ricordato in questa occasione anche un altro eroico caduto decorato con la Medaglia d’Oro al Valor Militare alla memoria, il tenente Ruggero De Simone del 54° Reggimento Fanteria, nato a San Pietro Vernotico il 1° gennaio 1896 e morto in combattimento a Monte Piana il 22 ottobre 1917. Peraltro, è doveroso ricordare che anche a Brindisi, come in altre città d’Italia, durante la Grande guerra ci furono numerose vittime civili a diretta conseguenza di azioni belliche, essenzialmente a causa dei tanti bombardamenti aerei che si registrarono in ognuno degli anni dal 1915 al 1918. In tutto, la città e il porto subirono 11 bombardamenti aerei con l’impiego di 58 velivoli austriaci che causarono decine e decine di vittime, molte delle quali – senza che ve ne sia un registro ufficiale – civili, poiché in guerra non si tralasciava di bombardare dall’alto anche le abitazioni della popolazione. Già nel 1915 furono registrati i primi morti civili brindisini causati dalle bombe aeree, tra loro il 18 giugno la diciottenne Anna Avallone, ricordata dai familiari con la nota tomba monumentale edificata nel cimitero comunale impiegando un grande modello d’aereo sovrastante la cappella tombale. I primi gravi bombardamenti aerei avvennero a Brindisi il 27 luglio e il 10 agosto 1916, mentre il più disastroso fu quello del 27 settembre 1917, che durò dalle 19.30 alle ore 23 circa, quando varie squadriglie di aeroplani austriaci in successione lanciarono decine di bombe producendo gravi danni e uccidendo anche vari civili. Pur non costituendo certo l’obiettivo primordiale di questo articolo, giungendo alla sua conclusione è quasi inevitabile accennare brevemente alcune considerazioni generali relative al possibile significato di tutte quelle morti in guerra di giovani e giovanissimi brindisini. Quasi tutti cittadini comuni, certamente

LE IMMAGInI Foglietto illustrativo e francobollo celebrativo del Milite Ignoto tutti bravi ed onesti cittadini che a quella guerra furono chiamati e condotti dallo Stato, in nome di ideali più o meno elevati e più o meno legittimi. Alcuni di loro parteciparono alla guerra in virtù di quegli ideali che fecero propri in piena coscienza, coscienti cioè del loro significato e comunque consci dei gravi rischi intrinsechi al farlo; molti altri ‘forse’, vi concorsero solo perché sentirono fosse dovere proprio il farlo, dovere di cittadini e dovere di italiani. Certo è che tutti lo fecero con sacrifici enormi e molti, purtroppo, con il sacrificio della propria stessa vita. Non ci sono invece – ne son certo – dei ‘forse’

al momento in cui noi, oggi a cent’anni di distanza, ci troviamo a ricordare e commemorare tutte quelle giovani vittime che tra i nostri concittadini furono provocate da quella terribile Grande guerra, terribile come terribile lo è sempre ogni guerra. Non ci dovrebbero essere, infatti, titubanze di nessun tipo nell’esprimere il nostro più profondo rispetto verso chi – avendoci preceduto di solo qualche generazione nella girandola della storia – ebbe, anche in nome nostro, la cattiva sorte e al contempo il grande coraggio di sacrificarsi fino all’estremo della propria morte.

AnTonIo FRAnCESCo RUSSo di Antonio e Lucia Guadalupi nacque a Brindisi il 24 luglio 1883. Fante del 5° Reggimento Fanteria, morì il 29 giugno 1916 a seguito delle ferite riportate in combattimento. Il padre, marinaio, abitava in via Sciabiche.

FRAnCESCo GRECo di Domenico e Maria Giuseppa Castiglia nacque a Brindisi il 10 giugno 1893. Soldato nel 4° Reggimento Artiglieria da Fortezza, fu decorato con la medaglia di bronzo meritata in azione di guerra il 15 giugno 1918. Ammalatosi nel corso delle ultime battaglie che precedettero la vittoria finale, morì nell’ospedale da campo n. 217 il 9 novembre 1918.

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Mauro Moscatelli di Giuseppe

nato a Brindisi il 15 giugno 1887 soldato dell’83º Reggimento fanteria arruolato a Graffignana, distretto di Lodi morto il 4 luglio 1916 a Pieve Tesino nell’ospedale da campo n. 085 per ferite riportate in combattimento e la sua tomba è rimasta sconosciuta

Ritaglio dall’ALBO D’ORO dei Militari Caduti nella Guerra 1915-1918

Angelo Moscatelli di Giuseppe

nato a Brindisi il 9 dicembre 1897 cavaliere di Vittorio Veneto fratello di Mauro Moscatelli


Carmelo Capozziello di Cosimo e di Lucia Ciacatiello, nacque a Brindisi il 20 agosto 1876. Marinaio imbarcato sul piroscafo "Palatino" s’inabissò con la sua nave il 23 novembre 1915 e risultò disperso assieme a suo fratello Giovanni, nato a Brindisi il 3 giugno 1889 e coniugato con Consiglia De Tommaso il 23 febbraio 1907. Anche lui marinaio imbarcato sullo stesso piroscafo impegnato nelle operazioni per il salvataggio dell’esercito serbo. Stessa sorte toccò a un altro brindisino, il marinaio Emilio Vespro nato il 28 maggio del 1880 anche lui imbarcato sul “Palatino”.

Vitantonio Miceli di Rosario e di Annamaria Petrosillo, nacque a Brindisi il 21 gennaio 1893. Marinaio fuochista imbarcato sull’incrociatore "Città di Palermo" s’inabissò con la sua nave l’8 gennaio 1916 e risultò disperso.

Felline Liberato di Vito e Francesca Tridente, nacque a Brindisi il 20 settembre 1895. Marinaio imbarcato sulla goletta "Pantelleria" s’inabissò con la sua nave il 14 agosto 1916 e risultò disperso Decorato di Medaglia di Bronzo al Valor Militare


Carlo Borioni di Luigi e Irene Fradalocchi, nacque Brindisi il 28 febbraio 1898. Marinaio imbarcato sulla corazzata "Regina Margherita" s’inabissò con la sua nave l’11 dicembre 1916 e risultò disperso. Altri 8 marinai brindisini imbarcati sulla stessa nave ebbero la medesima sorte: Francesco Caforio, Angelo Magliano, Salvatore Nani, Cosimo Taliento, Lorenzo Tevere, Cosimo Toma, Giacinto Ungaro e Giuseppe Villani.

Pietro Penta di Antonio e Giuseppina Guadalupi na cque a Brindisi il 1° settembre 1895. Marino imbarcato sul piroscafo Margaretha s’inabissò con la sua nave il 13 ottobre 1916 e risultò disperso.

Emilio Vespro di N.N., nacque nell’ospedale del Duomo a Brindisi il 28 maggio 1880 e sposato con Cosima Tricarico. Marinaio scelto imbarcato sul piroscafo “Palatino” s’inabissò con la sua nave il 23 novembre 1916 e risultò disperso.


GIANFRANCO PERRI Gli altri “Militi ignoti” brindisini Su 281 militari brindisini caduti nella seconda guerra mondiale, 153 sono i dispersi È ancora fresco l’eco dell’anniversario numero 100 della tumulazione – il 4 novembre 1921 – sull’Altare della patria a Roma della salma del “Milite ignoto” della prima guerra mondiale, occasione che è stata propizia per aver ricordato che quella tomba è un sacello simbolico che rappresenta anche il sepolcro dei 60 “Militi ignoti” brindisini, quasi un quarto dei 218 militari di Brindisi caduti in quella sanguinosa guerra che provocò la morte di 650.000 soldati italiani. Ho sempre considerato che quell’Altare e quella tomba sono anche il sepolcro di tutti i militari italiani rimasti dispersi nelle altre guerre d’Italia, la Terza guerra d’indipendenza, la guerra italo turca e quindi la più recente seconda guerra mondiale il cui numero di militari italiani caduti – 320.000 – se pur all’incirca metà che nella prima, è anch’esso un numero enorme. Davvero moltissimi, inoltre, sono i militari che dal giugno 1940 all’aprile 1945 andarono incontro allo stesso crudele destino del “Milite Ignoto” in Russia, in Africa, nei Balcani, nell’azzurro di mari e cieli, oltre che sul territorio nazionale. Credo insomma che sia giusto e doveroso che anche in Italia come succede altrove, si commemorino al contempo tutti gli altri “Militi ignoti” per unire nello stesso ricordo e con lo stesso rispetto tutti coloro che, dopo la fine della prima guerra mondiale e della seconda, neanche morti poterono tornare dalle loro famiglie. Per quelli brindisini poi, date le radicalmente diverse circostanze e scenari di guerra, sia i militari caduti che quelli dispersi nella seconda guerra mondiale sono stati molto più numerosi che nella prima: 281 caduti dei quali 153, più della metà, sono rimasti dispersi. Non solo quindi molto più vicini a noi, ma anche molti di più, entrambi motivi più che sufficienti a indurci a non dimenticarli e ad onorarli. La maggior parte dei militari brindisini morti e dispersi nella seconda guerra mondiale appartenevano alla Marina Militare e molti dei dispersi erano marinai che perirono nell’affondamento della propria nave o del loro sommergibile. Furono in totale 126 i caduti brindisini della Marina, quasi la metà del totale dei 281 caduti, e di loro ben 83, più della metà del totale dei 153 dispersi, scomparvero nell’affondamento di 9 sommergibili e di 31 unità navali di superficie: 4 nella nave Zara, 3 nella nave Vega, 2 nella Fiume, nella Pessagno, nella Roma, nella Di Giussano, nella Diaz, nella Lupo, nella Giovanni delle Bande Nere e nella Trento, 1 in ognuna delle restanti 21 navi e nei 9 sommergibili; 30 marinai inoltre risultarono dispersi in varie circostanze non relazionate all’affondamento di una unità navale, molti di loro – 6 – fucilieri e artiglieri nell’isola di Rodi. 99 dei caduti, di cui 54 dispersi, appartenevano all’Esercito ed in tutto 35 di loro scomparvero sul fronte russo. 26 caduti brindisini erano dell’Aeronautica Militare e anche per 10 di loro il destino tragico fu rimanere dispersi, quasi sempre in mare, con l’abbattimento del proprio aereo. E 26 furono anche i caduti, di cui 6 dispersi, appartenenti ai vari corpi delle Camice nere o delle formazioni repubblicane della RSI. E infine, furono 4 i partigiani brindisini morti in differenti zone del Paese. Tra quei 281 caduti brindisini della seconda guerra mondiale ci sono anche 3 medaglie d’oro: Leonardo Ferrulli sottotenente pilota nato il 19 gennaio 1918 e morto il 5 luglio 1943, Vincenzo Gigante partigiano combattente nato il 5 febbraio 1901 e morto nel novembre del 1944 e Aldo Spagnolo camicia nera, nato il 15 maggio 1920 e morto il 9 gennaio 1941. E ci furono anche numerosi altri caduti brindisini eroi condecorati con medaglie al valor militare alla memoria di argento e di bronzo, e con la croce di guerra. Ebbene, dunque, una tragica e apparentemente arida contabilità. Eppure, ad ogni numero corrisponde una vita, una famiglia e un progetto d’esistenza prima interrotto e poi stroncato dalla guerra e dalla fatalità. Ecco i nomi dei 153 militari brindisini dispersi nella seconda guerra mondiale e che quindi riposano idealmente sull’Altare della patria assieme a quei 60 loro concittadini che li hanno preceduti di poco meno che un trentennio.




Camice nere brindisini dispersi nella seconda guerra mondiale LO PALCO Giuseppe, nato il 24.3.1910 - Disperso sul fronte balcanico l’8.9.1943. LUCON Aldo, nato il 28.12.1923 - Marò X MAS - Disperso a Gorizia il 21.1.1945. MAZZA Nilo, nato il 30.3.1926 - Disperso in territorio metropolitano il 20.5.1945. MONTENEGRO Teodoro, nato il 22.7.1912 - Disperso sul fronte russo il 17.12.1942. TEDESCO Teodoro, nato il 3.5.1916 - Disperso in territorio metropolitano il 24.4.1945. VANTAGGIATO Pompilio, nato il 10.1.1914 - Disperso sul fronte albanese l’11.3.1941.


CULTURE

Cento anni fa piazza Cairoli diventò circolare Dopo essere stata per mezzo secolo uno slargo quadrato con qualche alberello, nel 1921 fu inaugurata la nuova piazza con una cerimonia maestosa Al centro c’era solo una modesta vasca circolare di Gianfranco Perri iuseppe Teodoro Andriani, recentemente scomparso, è stato un probo brindisino e appassionato cultore della storia cittadina che ci ha lasciato numerose pubblicazioni frutto della sua meticolosa e rigorosa ricerca storica, specialmente focalizzata sugli anni della prima metà del secolo scorso, quelli che registrarono - tra tanto altro - i due conflitti mondiali, eventi entrambi che videro direttamente e tristemente coinvolta anche Brindisi. Le due opere principali di Andriani, infatti, sono due libri intitolati “La base navale di Brindisi durante la grande guerra” e “Brindisi da capoluogo di provincia a capitale del Regno d’Italia”. Ebbene, nel risguardo anteriore del secondo dei due libri citati, è riprodotta un po’ sfuocata una fotografia che ha richiamato la mia attenzione, inducendomi a ricercarne la data e, soprattutto, il motivo della pomposa cerimonia in essa immortalata. Il risultato: “1921 Inaugurazione della nuova conformazione di Piazza Cairoli”. Risalendo un po’ più indietro nella storia di Brindisi, ed in particolare nella storia dell’evoluzione urbanistica della città, nella “Pianta della Città di Brindisi a scala 1:2000 elaborata da Carlo Fauch nel 1871” non c’è ancora Piazza Cairoli, né ci sono i corsi Umberto I e Roma, giacché corso Garibaldi – ancora denominato Strada Amena pur se già dal 1797 fino al 1882 fu ufficialmente intitolata a Carolina, seconda moglie del re Ferdinando IV – partendo dal porto giungeva solo fino all’altezza di piazza Vittoria, allora ancora de-

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nominata piazza Mercato. In effetti, pur se risalente al 25 novembre 1866, il progetto “per la nuova strada tra la Mena e la Stazione” elaborato all’indomani dell’inaugurazione della stazione ferroviaria, fu realizzato solo nel 1875 per congiungere la stazione ferroviaria con quella marittima e così agevolare il transito dei passeggeri della “Valigia delle Indie”. Il piano regolatore della città elaborato nel 1883 infatti, mostra sia la traccia dell’intero prolungamento del corso Garibaldi – realizzato nel 1905 e successivamente, nel 1928, denominato corso Roma – e sia la traccia completa di corso Umberto I con nella sua metà la traccia di un perfetto quadrato – Piazza Cairoli – diviso in quattro settori quadrati uguali e simmetricamente delimitati allo stesso corso e quindi dalle due vie ad esso perpendicolari, via Palestro proveniente da nord e via Alfredo Cappellini proveniente da sud. In un piano catastale del Comune datato ottobre 1899 in cui è rappresentata la piazza quadrata a scala 1:250, sui quattro lati è possibile leggere: sul lato del corso Umberto verso il mare, da una parte “Teatro Comunale” e dall’altra “Palazzo dei Sigg. De Marco; sul lato opposto del corso verso la stazione, da una parte “Caseggiato del Sig. Tarantini” e dall’altra “Suolo del Sig. Simone”; sul lato di via Palestro, da una parte “Suolo del Sig. Guadalupi Cosimo” e dall’altra “Palazzina del Sig. Doria e Casa del Sig. Guadalupi Teodoro”; sul lato di via Cappellini, da una parte “Poli Giovanni e Eredi Placanica (?)”e dall’altra “Eredi Di Fiori e Eredi Di Giulio”. Così, e per quasi cinquant’anni, la Piazza Cairoli altro non fu che un


LE IMMAGInI Inaugurazione della nuova piazza Cairoli nel 1921: sulla sinistra si nota la piccola vasca circolare che sarebbe stata sostituita poi da diverse fontane. Sotto la piazza nella sua originaria struttura quadrata. A sinistra il progetto di sistemazione del 1917

ampio e desolato slargo quadrato suddiviso in quattro, su cui a mala pena si provò a piantare qualche alberello, così come documentato da varie fotografie risalenti ai primi due decenni del ‘900 e nonostante su uno dei suoi lati, già dal prima del 1900 fosse sorto l’elegante edificio del teatro Verdi. Infatti, si dovette attendere la fine della Grande guerra per poter riprendere i vecchi progetti di ammodernamento urbano e poter finalmente iniziare timidamente a realizzarli: tra quelli, la nuova conformazione della ormai divenuta centrale Piazza Cairoli. Del resto nel secolo scorso, le amministrazioni comunali brindisine prebelliche, a partire – tra 1896 e 1910 – dalla quindicennale gestione del sindaco Federico Balsamo, comunque in certa misura operosa anche nel settore delle infrastrutture stradali, avevano tutte avuto certo ben altre e ben più impellenti necessità da soddisfare e di cui preoccuparsi. Innanzitutto, provvedere alla precaria situa-

zione igienico-sanitaria della città in cui la maggioranza delle abitazioni erano ancora sfornite di collegamento alla rete fognaria e di acqua potabile. Affrontare il problema, rimasto alla fine irrisolto, dell’ospedale civile che, sorto nel 1880 in locali angusti adiacenti al duomo sull’area attualmente occupata dal museo provinciale, era divenuto praticamente inagibile nella vana attesa di essere sostituito da una nuova struttura la cui costruzione per impedimenti vari continuò ad essere postergata. Risolvere l’altrettanto urgente precarietà delle infrastrutture scolastiche per una popolazione giovanile in accelerata crescita, che fu affrontata con un risultato appena più soddisfattorio, al riuscire a pianificare e finalmente avviare, se pur tra notevoli difficoltà e conseguenti forti ritardi, la costruzione delle scuole elementari, quelle maschili – Perasso – prima, e quelle femminili – San Lorenzo – molto dopo. Dopo quella del sindaco Balsamo, anche l’amministrazione comunale subentrata nel 1910 con il sindaco Giuseppe Barnaba infatti, non poté occuparsi di migliorare l’aspetto fisico della città, costretta come fu a dedicare inizialmente tutte le sue attenzioni e tutte le energie disponibili a contrastare l’epidemia di colera e concentrandosi poi, superata la lunga emergenza, ad affrontare il grave problema abitativo promuovendo, pur se con risultati di fatto insufficienti, il sorgere di nuove aree edificabili e la costruzione diretta di case popolari. L’ultima amministrazione comunale prebellica, quella del sindaco Edoardo Musciacco iniziata verso la fine del 1914, ebbe vita breve perché, prima fu interrotta dalla rinuncia del sindaco nel febbraio 1915 e poi fu sorpresa dallo scoppio del conflitto mondiale, il 24 maggio 1915. Un evento talmente impattante da assoggettare ogni possibile azione amministrativa alle superiori esigenze belliche le quali, per la militarmente strategica Brindisi, furono assolutamente condizionanti e di fatto paralizzanti d’ogni possibile azione civica di rilievo. La fine della guerra trovò il Comune di Brindisi retto da un commissario, Renato Maliverno che nominato dal prefetto di Lecce si era insediato nel luglio 1917 dopo che la maggior parte dei consiglieri si era dimessa per contrasti interni. Una gestione commissariale che con vari commissari succedutisi durò fino alle elezioni dell’ottobre 1920 e alla nomina, il 6 novembre, del nuovo sindaco Giovanni Mazari. Ebbene, tra le limitate attività commissariali di amministrazione ordinaria realizzate, le uniche di fatto possibili durante il periodo bellico, ci fu anche l’elaborazione del progetto di modifica – denominato di sistemazione – della Piazza Cairoli, il cui piano è infatti datato 1917. Un progetto invero alquanto semplice, che prevedeva la creazione di un’area a forma di cerchio delimitata tutt’intorno da un raccordo stradale circolare tra i due settori del corso Umberto la via Palestro e la via Alfredo Cappellini, il tutto esattamente inscritto nel quadrato della piazza preesistente. Sul piano elaborato, nelle aree perimetrali della piazza sono indicate schematicamente una serie di aiuole disposte intercalate da alberi ed una seconda serie di alberi disposta concentricamente interna alla prima. Con decisione evidentemente posteriore, visto che non è indicata nel piano, si decise inoltre di collocare al centro della piazza un’ampia vasca circolare con nel mezzo uno zampillo d’acqua fuoriuscente da una montagnetta di pietre disposte a mo' di piramide. I lavori per realizzare il progetto, naturalmente, tardarono ad iniziare e fu solo nel 1921, quindi cent’anni orsono, che la piazza assunse la geometria circolare che tuttora conserva, anche se con un aspetto an-

il7 MAGAZINE 35 5 novembre 2021


CULTURE LE IMMAGInI Piazza Cairoli con la fontana delle rane - dal 1931 al 1937, più sotto il piano regolatore di Brindisi nel 1883. In basso Piazza Cairoli con la prima fontana - dal 1921 al 1931

cora molto spartano: al momento della – evidentemente solenne – cerimonia d’inaugurazione svoltasi in quel 1921 e immortalata dalla foto infatti, unico motivo di decorazione presente nella piazza era la vasca circolare posta al centro, che fu poco dopo corredata dallo zampillo d’acqua e fu quindi accompagnata dalle aiuole e dai primi alberi. La fontana poi, rimase nella sua austera configurazione iniziale per esattamente dieci anni, fin quando un nuovo commissario prefettizio, Umberto Balestrino, deliberò la sua ristrutturazione, da eseguire “in conformità del progetto d’arte compilato dall’architetto cavalier Dioguardi”. E così nel 1931, la vasca venne arricchita con quattro basamenti cubici simmetricamente addossati sull’esterno del bordo, sui quali vennero collocate quattro figure marmoree: due rane e due tartarughe. Inoltre, la modesta piramide rocciosa centrale da cui sgorgava il getto d’acqua fu sormontata da una colonna marmorea composita, costituita da quattro fasci littori che reggevano un’elegante coppa, ognuno dei quali poggiava sulla testa di una fiera. E finalmente, furono aggiunti numerosi zampilli d’acqua gettanti dal centro della vasca al bordo e viceversa, che in vivace funzionamento creavano suggestivi effetti di suoni e di luci. Sei anni dopo infine, nel 1937, la fontana di Piazza Cairoli fu completamente ricostruita su progetto fatto elaborare dall’Ente Autonomo Acquedotto Pugliese, prendendo l’aspetto attuale, quello della denominata “fontana delle ancore”. Un progetto sorto dalla collaborazione del geometra Gaetano Lepore con l’ingegnere Cusani e l’architetto Brunetti, e realizzato con l’impiego di pietra di Trani con balaustra di pietra rossa di Fasano e alabastro di Locorotondo. Un’opera che fu donata alla città di Brindisi dall’Acquedotto Pugliese, allora presieduto dal deputato brindisino Ugo

Bono. Siccome poi è anche bene che mai siano del tutto adombrate le – ahimè troppe – negatività dell’operato delle amministrazioni comunali

brindisine, ecco di seguito il poco lusinghiero e certamente condivisibile commento dell’ingegnere urbanista Donato Caiulo relativo alla vicenda fin qui raccontata della piazza e delle sue fontane: «Piazza Cairoli può essere considerata un tipico esempio dello scarso ‘radicamento al suolo’ delle opere pubbliche nella città di Brindisi; difatti, prima ancora della [assurda e scellerata] demolizione del teatro Verdi, in tale piazza erano state demolite ben due fontane. La prima fontana, dopo appena dieci anni realizzata fu sostituita con una fontana monumentale che fu detta “delle rane” e dopo meno di altri dieci anni, anche tale seconda fontana venne distrutta per far posto a quella ancor più monumentale “delle ancore”. Questa casualità nella gestione e nella costruzione dello spazio pubblico di Brindisi in [permanente] assenza di idee guida e di progetti ben definiti, non è del resto che il contraltare della casualità e della discontinuità con cui viene gestito e costruito anche lo spazio ‘privato’ [troppo spesso] caratterizzato dall’introduzione nel centro antico della città di [avventati] episodi di sostituzione edilizia.»


Brindisi 1871

Planimetria della Piazza Cairoli - ottobre 1899

Piazza Cairoli con la fontana delle ancore - dal 1937 in poi


CULTURE CoPERTInA La partita del Mediterraneo

Quando anche a Brindisi c’erano gli schiavi musulmani

Cancel culture: tra ipocrisia e ignoranza. Brindisi, per fortuna, ne è ancora esente di Gianfranco Perri ur da appassionati della storia di Brindisi, è inevitabile essere coinvolti dal rumore delle cronache attuali, quelle cittadine, nazionali e mondiali. E così è accaduto con la ventata notiziale dell’ultimo anno rimbalzata dagli Stati Uniti a proposito della ‘cancel culture’ e in Italia presto acquisita e praticata con l’accezione di “eliminazione e quindi cancellazione delle tracce di un passato caratterizzato da ideali valori o semplici fatti anacronistici per i nostri tempi oppure, colpevolizzazione e quindi stigmatizzazione nei confronti di personaggi del passato più o meno remoto che avrebbero detto o fatto qualche cosa di offensivo per le sensibilità attuali”. Ma non è l’oggetto di questo scritto il trattare e tanto meno l’opinare – che risulterebbe di fatto un criticare – sul concetto in sé e soprattutto sull’esagerato e spregiudicato uso di tale pratica, assurda quanto inaccettabile dal punto di vista della storia. Però è stata proprio, almeno in parte, la notizia di una ennesima recente risoluzione americana che ha stimolato l’idea del tema – comunque relativo alla storia di Brindisi – nel seguito trattato. Questa volta infatti, lì in America, non si è trattato del solito abbattimento di una statua – vedi quelle di Cristoforo Colombo o di qualche generale della Confederazione sudista – da parte di una folla di manifestanti esagitati e maldestramente strumentalizzati. Ma si è trattato di Thomas Jefferson, coautore della dichiarazione d’indipendenza degli USA, terzo presidente degli Stati Uniti e del suo monumento sito dal 1833 nella sala del Consiglio di New York, del quale è stata decretata la rimozione: statua

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voluta dal primo commodoro di religione ebraica Uriah Levy, in omaggio all’impegno di Jefferson per l’approvazione dello statuto della libertà religiosa, scritto nel 1777 e approvato nel 1786, di cui andava così fiero tanto da volerlo sull’epitaffio della sua tomba. Quale dunque la colpa di Jefferson? Ebbene quella di aver posseduto – anche lui, come era pratica del tutto comune ai suoi tempi in America, e non solo – schiavi. Ebbe anche una concubina schiava, Sally Hemings, con la quale ebbe sei figli, che poi liberò. Certo, una colpa obiettivamente grave e dunque: Abbattiamone la statua e, possibilmente, la stessa memoria, nonostante tutto quello – e fu molto e fu molto meritorio anche in relazione ai diritti dell’umanità – che quel personaggio storico fece nella sua vita e lasciò in beneficio del suo Paese? Interrotta qui questa lunga introduzione, è ora il momento di affrontare l’argomento preposto per questo scritto: la schiavitù dei musulmani in Brindisi e in Italia. Non la schiavitù – abbastanza ben documentata, descritta e conosciuta – operata dai vari popoli musulmani “quelli di mamma li turchi” nei confronti dei cittadini di Brindisi e d’Italia, ma la schiavitù – non altrettanto descritta e conosciuta, se pur documentata – operata dagli italiani nei confronti dei popolatori musulmani “li stessi turchi” d’Oriente, d’Asia e d’Africa. Nient’altro che due facce della, per molti aspetti, identica medaglia. Quella di un fenomeno che, più o meno recentemente, si è dato in chiamare nel suo insieme “la schiavitù mediterranea”. Un fenomeno, quello della messa in schiavitù di uomini e donne di ogni età e condizione in contemporaneo da ambedue le parti del Mare Mediterraneo, sviluppatosi più intensamente tra il Cinquecento e il Settecento,

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LE IMMAGInI Sopra il momento della negoziazione per il riscatto o per lo scambio degli schiavi, a sinistra il principale impiego degli schiavi uomini: al remo nelle galee. Sotto una galea dell’ordine dei Cavalieri di Santo Stefano ed essenzialmente collegato all’esercizio della guerra corsara e praticato reciprocamente dalle varie sponde di quel mare: quelle dei paesi a prevalente tradizione cristiana e quelle dei paesi a prevalente tradizione musulmana. Un fenomeno storico che però, fino a poco tempo fa è stato quasi del tutto marginato dall’attenzione degli storici e, dai primi dell’Ottocento fino entrata la seconda metà del Novecento, non è per nulla considerato dalla memoria collettiva. Nonostante quella incontestabile e storica reciprocità, inoltre, il silenzio diffuso riguardava soprattutto uno dei versi della medaglia, quello cioè della contemporanea presenza in Europa di schiavi originari dei paesi islamici mediterranei, di neri africani e di membri di altre etnie e minoranze. Non si riconosceva che la schiavitù mediterranea era, appunto, di fatto reciproca: europei e ottomano-mag h r e b i n i combattevano gli uni contro gli altri, mentre

al tempo stesso commerciavano o mantenevano pacifici rapporti in altri settori, e quando facevano prigionieri li consideravano e li trattavano come schiavi, secondo una prassi allora considerata lecita e dunque normalmente praticata dagli uni e dagli altri. Fu, infatti, una storia di violenze reciproche perché sull’altro fronte del Mare Nostrum, gli scorridori europei non furono da meno quanto ad attacchi alle città costiere del Maghreb e del Mashrek. Quello degli schiavi nel Mediterraneo fu un mercato comune molto sviluppato, di prigionieri di guerra, della guerra corsara, pirateria spesso autorizzata da una qualche autorità riconosciuta. Un mercato con quotazioni e magistrature dedicate, con società commerciali di intermediazione e brokeraggio, associazioni e confraternite specializzate in trattative, vertenze, diplomazia, recuperi, intercambi, cambiavalute e logistica per i traslati e tutto quant’altro necessario. Un mercato comune per il quale, di fronte ai depositi degli schiavi nelle terre degli infedeli – Valona era in genere il primo punto d’appoggio per gli schiavi pugliesi – ne sorgevano altrettanti negli stati cristiani dirimpettai, i più grandi a Napoli, Messina e Palermo, dove mediatori laici ed ecclesiastici si assumevano l’incarico di agevolare l’eventuale scambio degli infelici, quando al riscatto, come avvenne con frequenza, non concorsero anche inviati straordinari, autorizzati o, agenti consolari riconosciuti anche dalle reggenze. I cavalieri di Santo Stefano, dell’ordine del Granducato di Toscana con base a Livorno, non solo difendevano le coste dai corsari musulmani e catturavano navi ed equipaggi nemici, ma anche attaccavano le località costiere musulmane. Quando gli scontri e le azioni di guerra si concludevano con successo, il bottino consisteva soprattutto di schiavi. Tali cavalieri di Santo Stefano, come del resto anche quelli ben più famosi di Malta, che assieme furono i grandi protagonisti cristiani della guerra di corsa con le loro imprese sulle coste nord-africane e su quelle anatoliche, erano, pertanto, anche sistematici trafficanti, venditori, eccetera, di schiavi musulmani. Ma in generale erano molte le navi cristiane che si spingevano di sovente sulle coste anatoliche e nordafricane per catturare non solo naviglio e mercanzie, ma anche ‘merce umana’ che, ridotta in schiavitù, era venduta nei mercati delle varie regioni italiane. Molte città marinare, grandi o piccole, divennero centri propulsori della fiorente pratica del mercato della schiavitù, che risultò essere funzionale al sistema produttivo almeno sino al XVII secolo. Si trattava di un vero e proprio affare economico, un investimento finanziario capace di attirare l’interesse non solo di avventurieri senza scrupoli, ma anche di facoltosi mercanti, spesso esponenti di spicco delle élite cittadine e della nobiltà: pisani, genovesi, veneziani, napoletani, sardi, siciliani, calabresi e pugliesi. «Dal ’500 al ’800 nell’area mediterranea sono stati ridotti in schiavitù due milioni di uomini donne e bambini dal mondo musulmano mediterraneo in Europa, un milione di europei verso il medesimo campo musulmano e due milioni di africani neri nell’universo islamico [“Guerre corsare nel Mediterraneo una storia di incursioni arrembaggi e razzie” di Salvatore Bono, 2019]. «Sin verso gli anni Ottanta dello scorso secolo, anche gli storici dei paesi islamici mediterranei non sono stati molto presenti sul tema ed anzi, hanno a lungo ‘accettato’ il dominante silenzio europeo, dovuto: al quale i soli ‘colpevoli’ dell’attività corsara e della conseguente schiavitù erano stati impero ottomano e stati barbar e s c h i . . . Verosimilmente, i musulmani hanno a lungo taciuto sulla loro presenza servile in Europa per un duplice senti-

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CULTURE LE IMMAGInI A destra una battaglia, in basso a Galee dell'ordine di Santo Stefano nel porto di Livorno mento: di vergogna per aver subito quella umiliazione e di un senso di colpa per esser stati essi stessi fruitori di schiavi, di neri e di bianchi, e sfruttatori della cattura e del traffico sia di neri sia di europei schiavi, specialmente nel Maghreb…» [“Schiavitù mediterranea una storia a lungo taciuta” di Salvatore Bono, 2017] Dopo alcune rare eccezioni – nel 1857 il francese Louis-Adrien Berbrugger rilevava che si era molto parlato della condizione degli schiavi in Barberia ma ci si era poco preoccupati degli schiavi musulmani in Francia, e avanzava il dubbio che fosse stata peggior sorte trovarsi schiavi in Francia che non nel Maghreb – la svolta si ebbe nel 1949, quando Fernand Braudel si occupò della guerra corsara e della schiavitù degli uni e degli altri, che nella guerra corsara aveva la sua principale fonte di produzione e di rifornimento, accanto ad altri grandi eventi della storia, come occupazioni territoriali o conquiste, anche occasionali e transitorie, di fortezze e località per l’uno o l’altro fronte. La schiavitù mediterranea aveva un preciso ed essenziale carattere di reciprocità: specularmente alle città maghrebine affollate di schiavi cristiani, lo storico francese ricordò le ‘Algeri cristiane’ come Cagliari, Napoli, Livorno, o altri centri urbani d’Italia e diversi paesi d’Europa. In Italia, nei secoli dell’età moderna, oltre a quelli – principalmente donne e bambini – impiegati nella vita domestica del padrone, l’utilizzazione prevalente degli schiavi maschi era come rematori sulle galere delle flotte da guerra, e provenivano maggioritariamente dall’impero ottomano e dagli stati vassalli del Maghreb. Il numero degli schiavi ‘turchi’ – come erano genericamente chiamati i musulmani di qualunque paese – è stato stimato soltanto con approssimazione. Dagli inizi del Cinquecento, in conseguenza dell’estendersi nel Mediterraneo del conflitto fra mondo cristiano e mondo islamico, il numero si andò accrescendo. In tutto il Paese alla fine del XVI secolo erano ancora diverse decine di migliaia, ma poi il numero andò decrescendo sino a qualche migliaio nel Settecento. Agli inizi dell’Ottocento si erano molto ridotti, sino ad estinguersi con l’avvento napoleonico. Per gli schiavi domestici, per quanto mite ed umano potesse essere in molti casi il trattamento ricevuto, il soffrimento per la condizione servile non veniva certo meno, giacché l’allontanamento dalla propria terra e cultura era ovviamente doloroso per chiunque venisse bruscamente strappato dal proprio paese e dai propri congiunti. Gli schiavi di privati, in alcuni casi ottenevano l’emancipazione per la generosità del padrone, che intendeva premiarne la fedeltà e l’onestà e compiere insieme un atto di cristiana carità. I padroni disponevano generalmente la liberazione degli schiavi nell’ambito delle disposizioni testamentarie. II riscatto mediante pagamento d’una somma di denaro era però certamente la via di liberazione più consueta. A favore degli schiavi alle volte intervenivano parenti ed amici, attraverso

vari mediatori più o meno interessati, come gli stessi mercanti europei e persino i consoli o i missionari nelle città musulmane. Più spesso erano gli schiavi stessi che riuscivano ad offrire al padrone una somma di denaro messa da parte, a poco a poco, da regalie avute o dai guadagni effettuati, quando ottenevano, come poteva accadere, l’autorizzazione ad esercitare una qualche attività lavorativa in proprio. Gli schiavi delle galere invece, conseguivano più difficilmente la libertà, pur se in grado di offrire un prezzo di riscatto. La grazia del riscatto era di solito concessa solo a vecchi, malati e comunque inabili ad un valido servizio sulle galere o in altri compiti a terra. Non pochi galeotti musulmani e qualcuno fra gli schiavi domestici tentavano di recuperare la libertà nel modo più difficile e rischioso: la fuga. Se venivano ripresi, infatti, erano severamente puniti; ma nonostante l’alto rischio i tentativi erano frequenti, spesso anche agevolati da complicità di vario genere, comunque sempre interessate. Anche lo scambio di schiavi musulmani con schiavi cristiani era una pratica utilizzata con qualche frequenza. Gli scambi venivano trattati sia da privati, cioè dai diretti interessati, da loro parenti e amici, oppure da intermediari, oppure da istituzioni varie e da autorità governative. «La Sicilia è stata verosimilmente la regione italiana dove la presenza di schiavi ha conservato più a lungo indici elevati. Sulla presenza e il numero di musulmani in altre regioni d’Italia i dati sono frammentari e spesso derivano solo da valutazioni ipotetiche. Agli inizi del Seicento, per esempio, si sarebbero trovati a Napoli più di ventimila maomettani a servizio dei cittadini. Nella Roma pontificia lungo tutto il Cinquecento la schiavitù fu una realtà sociale non trascurabile, per la quale i papi presero opportuni provvedimenti. Ci sono notizie di varia natura sulla presenza di schiavi in tutte le grandi città marittime con stazza di flotte di ga-

lere come Genova, Venezia, Civitavecchia, Livorno, o sedi di corti come Firenze, Milano, Ferrara. Presenza di schiavi inoltre, è attestata in numerose città e località della Puglia come Lecce, Bari, Bitonto, Francavilla Fontana, eccetera.» [“Schiavi musulmani in Italia nell’età moderna” di Salvatore Bono, 1987] Il professore Giacomo Carito, lo scorso 27 ottobre, a proposito della lunga diatriba ottocentesca sui vari lavori eseguiti tra fine ‘700 e ‘800 per il risanamento del canale d’ingresso al porto interno di Brindisi, ha commentato: «Fino a prima dei lavori del Pigonati – 1798 – le navi entravano sicuramente nel porto interno… Ad esempio, nel Seicento a Brindisi c’era una normale attività schiavistica; cioè le imbarcazioni brindisine catturavano schiavi sulle coste dalmate e albanesi, che poi vendevano a Brindisi. Tra l’altro Brindisi era uno dei due porti meridionali in cui ai Turchi era possibile entrare per commerciare, ed il commercio era quello degli schiavi. Che poi andava così, sostanzialmente: i Turchi segnalavano ai Brindisini i cittadini ricchi di quelle aree. I Brindisini andavano li rapivano e loro poi venivano e saldavano il riscatto. Lo stesso facevano i Brindisini segnalando ai Turchi i conterranei ricchi. E questo è un commercio che è andato avanti con soddisfazione di entrambe le parti fino alla fine del XVIII secolo, solo che noi ricordiamo la parte che riguarda le scorrerie dei Turchi qua, e non ricordiamo le scorrerie nostre là. Bisognerebbe cominciare a leggere la storia da entrambi i lati dell’Adriatico e non solo da un lato.» Un modus operandi, quello illustrato dl professor Carito, forse non necessariamente il più comunemente adottato per il commercio schiavistico mediterraneo, ma certamente frequente in determinate realtà e che, del resto, ben si compagina con l’agire di vari personaggi di origine occidentale – i rinnegati – passati, più


o meno apertamente, dall’altra parte e divenuti importanti artefici della tratta degli schiavi cristiani… e viceversa. Tornando sullo specifico, sulla presenza cioè a Brindisi di schiavi musulmani, tracce documentate se ne conservano numerose e, più in generale, molto di quanto finora riferito ritrova riscontro in più occasioni anche tra le righe delle cronache cinquecentesche e seicentesche della nostra città: cronache di scorribande di assalti di rapimenti o di pagamenti del riscatto, ma anche cronache d’acquisto di schiavi musulmani e di giovani schiave “che incanutivano al ‘servizio’ dei nobili brindisini perché morissero sterili o madri di schiavi cui il padrone concedeva il nome della casata perché fossero, come schiavi, sempre più legati a lui”, o cronache di battesimi e morti, o di liberazione degli stessi schiavi, eccetera. Per esempio, già solo nella Cronaca dei Sindaci di Brindisi dal 1529 al 1787 di Pietro Cagnes e Nicola Scalese, pubblicata da Rosario Jurlaro nel 1978, si legge: «Il 25 maggio 1553 si perfeziona l’atto di vendita di un’abitazione di Filippo Capasa promessa in vendita dal fratello mentre Filippo era prigioniero dei turchi, per il riscatto del quale si era resa necessaria la somma anticipata dall’acquirente. Il 13 giugno 1599 è battezzata una figlia naturale di Caterina, schiava mora di Visconte Rizzago, commerciante veneto dimorante in Brindisi. Il 17 aprile 1600 è battezzata una figlia naturale di tale Lucia, schiava fatta cristiana e il 24 ottobre è battezzata una figlia naturale di Speranza, schiava mora di Giovanni Camillo Coci. L’11 maggio 1620 nella cattedrale si sono fatti funerali per Domenico Bucicco, morto schiavo dei turchi. Il 5 agosto 1628 Ferdinando Bassan libera il suo schiavo turco Sciti Jaza a richiesta del greco Pietro Ullano perché potessero, in cambio, essere liberati alcuni cristiani dai turchi e il 26 novembre, dopo essere stata istruita e

catechizzata dall’arcivescovo Giovanni Falces, è battezzata dallo stesso, alla presenza del castellano grande Francesco Carrillo de Santoia, Anna Maria Mancipia, schiava turca del capitano della coorte spagnuola residente in Brindisi Diego Marziale d’Agusti. Il 13 giugno 1637 il capitolo della cattedrale dà un aiuto economico al cantore della chiesa di Maruggio che andava mendicando per aver fuggito da mano di turchi quando pigliarono Maruggio - il 13 giugno 1630. Il 31 gennaio 1667 un sacerdote greco raccoglie elemosine in Brindisi per il riscatto di schiavi cristiani dai turchi. Il 6 maggio 1672 il capitolo della cattedrale dà due carlini di elemosina ad un uomo che era fuggito dalla prigionia dei turchi lasciando il figlio che sperava di riscattare e il 10 agosto dà dieci grana di elemosina ad un sacerdote greco scappato dalla dai turchi. Il 2 settembre 1688 è sepolto in cattedrale Gabriele, schiavo turco di Carlo Lata, battezzato in Brindisi. Il 7 dicembre 1695 viene sepolto in Brindisi Antonio figlio di Teresa, turca fatta cristiana, serva di Nicolò Romano. Il 28 luglio 1701 è sepolta Anna De Marco, il 30 luglio Maddalena Cuggiò ed il 9 ottobre Nicolò Montenegro, tutti i tre defunti con la specifica ‘ex genere turcarum’ che significa: schiavo della famiglia di cui porta il nome. Il 20 marzo 1703 il capitano di barca di ventura Coci Dimitri Tirandafilo dichiara di avere avuto incarico di riscattare dai turchi quattro schiavi di Taranto, ossia Antonio Francesco Batta, Antonio Minzulo, Cataldo Chierono, Antonio Nicola de Totero, e di avere riscattato gli stessi grazie a Giorgio Papa di Corfù con duecento dodici piastre siciliane di Spagna in argento, più cento quaranta piastre occorse per tramezzaneria di altri turchi ed il nolo della barca fino a Brindisi ove sono in quarantena i riscattati. E dice dell’aiuto ricevuto dall’Opera del monte della miseria di Napoli per quel riscatto. Men-

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tre si trova in quarantena del porto di Brindisi il 29 giugno 1707, dichiara degli stessi aiuti dell’Opera, Stefano Papa, epirota della città di Salina, nipote di Giorgio Papa con il quale si dedica a riscattare cristiani da schiavitù da diverse parti di Turchia. Dal 1686 al 1704 molte famiglie di Brindisi, tra le quali Vavotici, Samblasio, Seripando, Montenegro, Stea, Pizzica, Vitale, Brancasi, Sarmiento, Ripa ed altre, acquistano schiave e schiavi turchi ‘a cristianis captos’ in Ungheria e in Grecia…» E allora? Procediamo alla cancellazione delle tracce di quel passato cittadino? Stigmatizziamo quelle famiglie brindisine? Ne cancelliamo le tracce? Per esempio: eliminiamo dal centro storico quelle intitolazioni stradali con le rispettive targhe quali, ad esempio, via De’ Vavotici, via Montenegro, vico Pizzica, via De’ Ripa, via Cuggiò Nicola Antonio, via Carlo De Marco? E poi, cambiamo la denominazione al palazzo Montenegro, o al palazzo De Marco, o alla contrada Brancasi? E poi avanti così per ancora un bel po’. Ma no! A Brindisi proprio no! È documentato, infatti, che nei riguardi degli schiavi domestici, i signori proprietari esercitavano un costante ‘meritorio’ invito alla conversione. Lo facevano con varie promesse e nella convinzione di acquisire un merito dinanzi a Dio e di assicurarsi un più leale ed efficiente servizio da parte dello schiavo fattosi cristiano, pervenuto cioè ad un più elevato livello di moralità. Meno male, siamo salvi! Eppure, sembra che anche quell’americano – Jefferson – era stato buono con i suoi schiavi, tanto che aveva anche liberato i sei suoi figli nati schiavi. Ma allora? Sarà che il perdono non dipende dalla più o meno grande bontà manifestata dallo schiavista di turno? E già! Ma forse la storia non ha bisogno di perdoni e di condanne, forse la storia è tutta un’altra cosa. Si dice, per esempio, che la storia è – anche – la chiave fondamentale per interpretare il presente e persino il futuro. Nell’immediato poi, è lo studio dei fatti del passato umano attraverso le conoscenze reperibili di quel passato. Pertanto, la storia ha soprattutto bisogno di poter disporre di tutte le conoscenze – si chiamano fonti – possibili. Insomma, e pertanto, quelle fonti storiche qualunque esse siano, meglio rispettarle e – in ogni caso – preservarle, e comunque, mai abbatterle o cancellarle. Nel passato, non sempre remoto, anche Brindisi ha in qualche modo conosciuto episodi che con il linguaggio di oggi avrebbero forse potuto essere catalogati di “cancel culture”, ma – tranne quei casi specifici essenzialmente e direttamente legati all’inevitabile emotività indotta da speciali circostanze politiche – si trattò di episodi limitati e in genere non eclatanti. Per il resto invece, principalmente in relazione alle cancellazioni e agli abbattimenti di cose materiali, forse si è perlopiù trattato di leggerezze, di assenza di sensibilità e, molto più spesso, di ignoranza franca, quando – specialmente in relazione alle persone – non si è invece preferito ricorrere alla comoda pratica dell’oblio. Tutto sommato, e per adesso, non ci si può troppo lamentare. Quanto meno, la moda attuale della ‘cancel culture’ d’importazione, Brindisi sembra se la sia risparmiata.


CULTURE

105 anni fa colò a picco la Regina Margherita: nove brindisini dispersi

La corazzata della Regia Marina, gemella della «Benedetto Brin», naufragò nella notte tra l’11 e il 12 dicembre 1916 uscendo dal porto di Valona: morirono 675 dei 950 marinai a bordo di Gianfranco Perri a “Regina Margherita” era una regia nave da battaglia, gemella della “Benedetto Brin”, ed in quella notte tempestosa di 105 anni fa, tra l’11 e il 12 dicembre del 1916, uscendo dalla baia di Valona diretta a Taranto, urtò due mine ed in pochi minuti s’inabissò con il suo comandante e con 674 dei 950 militari che erano a bordo: tra le tante vittime che restarono disperse, nove marinai brindisini: Carlo Borioni, Francesco Caforio, Angelo Magliano, Salvatore Nani, Cosimo Taliento, Lorenzo Tevere, Cosimo Toma, Giacinto Ungaro e Giuseppe Villani. La nave era stata impostata nel 1898 nell’Arsenale di La Spezia, varata nel 1901 e consegnata alla Regia Marina nel 1904. Il suo dislocamento normale era di 13.427 tonnellate, quello a pieno carico di 14.574 tonnellate. Era lunga 138,6 metri, larga 23,8 e con un’immersione di 8,9 metri. L’apparato motore era composto da 28 caldaie che alimentava due motrici alternative che sviluppavano un potenza di 20.000 cavalli per una velocità di 20 nodi. L’unità

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LE IMMAGInI In alto la regia nave Regina Margherita attraversa il ponte girevole di Taranto. A sinistra il varo a La Spezia il 30 maggio 1901. A destra la poppa del relitto inabissato all’uscita del porto di Valona

era stata consegnata alla Regia Marina il 14 aprile 1904 e l’11 maggio dello stesso anno a La Spezia le era stata assegnata la bandiera di combattimento dalla Regina Margherita in persona. Fino al 15 dicembre 1910 la maestosa nave da battaglia rivestì il ruolo di nave ammiraglia della flotta e nel dicembre 1908 e nel gennaio 1909, partecipò attivamente alle operazioni di soccorso delle popolazioni di Messina e di Reggi Calabria colpite dal terremoto. Partecipò quindi alla guerra italo-turca del 1911-12 con azioni nel Bosforo e prendendo parte alla presa dell’isola di Rodi ed all’occupazione del resto del Dodecaneso. Nei primi mesi del 1913, la “Regina Margherita” fu assegnata alle forze navali destinate alla sorveglianza nel Mediterraneo Orientale ed alla protezione delle isole occupate in Egeo.

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CULTURE LE IMMAGInI A destra la nave Regina Margherita nel 1904, sotto l’elenco dei nove dispersi brindisini nel naufragio con i nomi dei genitori e l’indirizzo della loro abitazione. nella pagina accanto le loro foto

Nel 1915 la regia nave Regina Margherita fu in prima linea nella operazione di salvataggio dell’esercito Serbo partecipando al traghettamento da Valona a Brindisi dei profughi e dei militari serbi con anche la loro cavalleria. Durante quelle traversate ci furono diverse perdite di navi italiane, sia militari che mercantili, giacché le forze austriache riuscirono a disseminare numerose mine anche nel canale di mare che collegava Brindisi con Valona. Con l’entrata in guerra dell’Italia, nell’ambito della strategia navale di blocco del canale d’Otranto e della baia albanese di Valona, la “Regina Margherita” ebbe inizialmente assegnata come base Brindisi. Quindi, nell’aprile del 1916 si spostò presso la dirimpettaia base navale italiana che si trovava nell’isola di Saseno all’ingresso della baia di Valona. Posta dunque a difesa del campo minato della baia di Valona, l’unità da battaglia italiana, al comando del capitano di vascello Giovanbattista Bozzo Gravina, assunse le funzioni di nave ammiraglia di divisione con l’insegna del contrammiraglio Cusani Visconti. Nel mese di dicembre 1916 fu disposto che la “Regina Margherita” rientrasse a Taranto per il normale ciclo di lavori di carenaggio in bacino. In considerazione delle pessime condizioni atmosferiche e del mare in tempesta, l’11 dicembre il viceammiraglio Enrico Millo, comandante del porto di Valona, diede l’ordine di salpare per Taranto rimettendo alla decisione del comandante Bozzo l’orario della partenza. E questi, verso le nove di sera dello stesso giorno, osservando che la tempesta si stava placando, diede ordine di levare le ancore

e dirigersi verso l’uscita della baia. La potente unità era scortata dai cacciatorpediniere Ardente ed Indomito e si avviò a manovrare nel corridoio tracciato tra i campi minati della baia. All’improvviso, nel tratto di mare tra l’isola di Saseno e punta Linguetta, la nave incappò in due mine che provocarono esplosioni, sia da sinistra nel deposito delle munizioni di prora e sia da destra al centro nave in corrispondenza del locale apparato motore. Le esplosioni lasciarono la nave senza governo e, mentre proseguendo con abbrivio si appruava, molti degli uomini superstiti ebbero il tempo di riunirsi a poppa ma, per breve tempo. Dopo soli 5 minuti dalle esplosioni, la nave si inabissò di prua portando in fondo al mare il comandante

Bozzo e 614 uomini dell’equipaggio. Finì in fondo al mare anche il generale Oreste Bandini, comandante del XVI Corpo d’Armata operante in Albania, a bordo perché doveva rientrare in Italia. Si salvarono solo 275 uomini, 18 ufficiali e 257 marinai, grazie ai soccorsi dei due cacciatorpediniere di scorta. Le pessime condizioni del mare, altrimenti, avrebbero fatto scomparire tra i flutti l’intero equipaggio della “Regina Margherita”. Questo il comunicato ufficiale del tragico evento: «Per quanto siano venuti a mancare quelli che avrebbero potuto spiegare con tutta esattezza il succedersi dei fatti, pur nondimeno essi possono ricostruirsi con la necessaria precisione nella loro tragica semplicità


CULTURE

e si può subito affermare che la perdita della nave non devesi attribuire a dolo o ad insidia nemica, ma ad una disgraziata fatalità di molte circostanze concomitanti che hanno tratto il Comando in “errore” di apprezzamenti e conseguentemente di decisioni». Le fonti austriache però, accreditarono l’affondamento al sommergibile posamine austriaco UC14 di base a Pola ed i più importanti storici della marina austroungarica lo hanno più volte confermato. Poi: «Il ritrovamento, nell’agosto del 2005, del relitto della “Regina Margherita” a 68 metri di profondità con la conseguente determinazione della sua esatta posizione, ha finalmente permesso di accertare – attraverso il confronto della posizione con l’estensione del campo minato e con quella del canale di sicurezza; mediante i calcoli della rotta, della velocità e dei tempi di percorrenza; e quant’altro – che la posizione della nave al momento del suo affondamento era all’interno del canale di sicurezza del campo minato. E quindi, anche se è impossibile dire se le due mine che hanno urtato la “Regina Margherita” fossero quelle tedesche dell’UC14 o quelle italiane staccatesi dagli ormeggi a causa della bufera di quel giorno, sicuramente si può affermare che il comandante Giovanbattista Bozzo non fece alcun errore o alcuna sbagliata valutazione nel condurre la nave nel canale di sicurezza che gli avrebbe dovuto consentire di uscire indenne dal campo minato della baia di Valona». [“Così abbiamo trovato il relitto della Regina Margherita la Corazzata scomparsa” di Fabio Ruberti, 2005] Quell’affondamento ebbe, naturalmente, molta risonanza in tutto il mondo e specialmente in Italia, sia per l’enorme numero delle vittime e sia per la fama che aveva la nave colata a picco. E il lutto colpì duramente Brindisi e i brindisini. Anche se non era certo la prima volta – né sarebbe stata l’ultima – che da quando era scoppiata la guerra un affondamento mieteva vittime tra i numerosi marinai brindisini imbarcati sulle unità della Marina Militare e Mercantile, mai era accaduto che in un solo episodio ne perissero tanti: nove. Un anno prima, il 23 novembre 1915, era stato silurato ed affondato il piroscafo “Palatino” mentre partecipava alle operazioni di

LE IMMAGInI Il relitto della corazzata Regina Margherita

salvataggio dell’esercito serbo, e su di esso erano imbarcati e perirono tre marinai brindisini, due di loro fratelli: Carmelo Teodoro e Giovanni Capozziello, figli di Cosimo e di Lucia Ciacatiello, nati entrambi in via Schiavoni: il più grande Carmelo Teodoro il 20 agosto 1876 ed il più piccolo Giovanni il 3 giugno 1889 ed aveva sposato Consiglia De Tommaso. La terza vittima brindisina del “Palatino” fu il marinaio Emilio Vespro nato il 28 maggio del 1880 e anche lui sposato, con Cosima Tricarico. Ed appena un po’ prima, il 27 settembre 1915, c’era stata nel porto di Brindisi l’immane tragedia dello scoppio della ‘Benedetto Brin” con 456 marinai morti, tra cui il brindisino Cosimo Sindaco di Antonio, nato il 12 febbraio 1893. Poi, qualche mese dopo, il 4 maggio 1917, con il siluramento ed affondamento del piroscafo “Perseo” adibito a trasporto truppe, altri tre marittimi brindisini sarebbero periti dispersi in mare: Giuseppe Teodoro Attanasi, nato il 1º giugno 1989; Eupremio Cavaliere, nato il 29 aprile 1897 e Pasquale Romano, nato il 18 novembre 1871. Ma, tornando all’11 dicembre del 1916 e alla tragedia della nave da battaglia “Regina Margherita”, il “9” è un numero molto più grande del “3” e – anche se nel corso dell’intera Grande Guerra il numero dei marinai brindisini morti dispersi in mare doveva crescere fino a “27” ed il numero totale di marinai brindisini caduti doveva raggiungere i “40” – la notizia dell’affondamento della corazzata “Regina Margherita” fece subito molto scalpore e quando poi si conobbe anche la lista dei dispersi, l’impatto per l’intera città di Brindisi fu enorme. Segue il quadro con il registro dei dati dei nove marinai brindisini dispersi in mare con la “Regina Margherita”. *** NOTA: Questo articolo è stato scritto con il contributo di Giuseppe Argentiero, che ha curato la ricerca fotografica e biografica dei nove marinai brindisini morti e dispersi in mare

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La regia nave Regina Margherita in navigazione


CULTURE

Carlo Losito, eroico palombaro che Brindisi non ha dimenticato Gli fu intitolato il Cral Marina e la sua storia avventurosa merita di essere raccontata di Gianfranco Perri

combattere in più guerre mettendo a repentaglio la propria vita, che ebbe la sfortuna “anagrafica” di dover adempiere. Prese parte, infatti, o noto una difficoltà enorme dell’entrare sul territorio, ad entrambe le guerre mondiali, da giovane marinaio alla prima e da per gli studi storici sulla città di Brindisi, che non man- uomo maturo ed “esperto palombaro” alla seconda, della quale, purcano. Anzi, Brindisi è forse la città su cui si è scritto di troppo, non poté vedere la fine. Nato a Gioia del Colle il 25 marzo del iù p in Puglia, non solo 1894, figlio di Pasquale e di Vita Nicola negli ultimi decenni, ma Capurso ‘Coletta’, giunse a Brindisi da tradizione remotissima. Però, sembra ancor giovane al seguito della famiglia che questi studi alla fine rimangano – con fratelli e sorelle: Nicola, Rosa, così… cioè, non li legge nessuno. Allora Damiano, Maria e Cosimo – che vi si “porre l’attenzione ai particolari, cioè trasferì in ragione di un allevamento di alla riproposizione di episodi, di fatti, di bovini. Poi, compiti i diciotto anni, a personaggi, che sono importanti perché Carlo toccò adempiere con l’allora obin qualche modo danno concretezza e bligatorio servizio militare di Leva visibilità a quello che potrebbe sembrare della durata di due anni. Fu ‘chiamato’ un astratto discorso storico, animare in Marina e lì gli fu maturando l’idea cioè la storia, renderla materica, quasi d’imparare a fare il “palombaro” e così, toccarla con mano, attraverso episodi quando gli fu prospettata quell’oppordeterminati e persone determinate, entunità, lui la colse con la volontà e l’entrando quasi nei vissuti di quelle pertusiasmo di uno che il mare a Brindisi sone” credo sia una operazione lo aveva conosciuto bene, e che i pameritoria e molto importante, perché lombari nel porto – non molto lontano magari può aiutare alla messa a terra del dalla sua casa sul Casale – li aveva visti lavoro di ricerca storica...» Parole queoperare e, eventualmente, li aveva ste, più o meno fedelmente riprese da un anche ammirati. Riuscì quindi, dopo recente intervento del professor Giaaver completato la leva obbligatoria, ad como Carito, lo storico brindisino per entrare nella prestigiosa scuola della antonomasia. Marina militare che era nella base del Anche, e certamente non solo, per queVarignano, a La Spezia. sto è importante ricordare Carlo Losito, E così, il 31 luglio 1915, Carlo Losito un palombaro professionista, un figlio – matricola 7754 – conseguì il grado di marito e padre affezionato come tanti “Torpediniere scelto” ed il “Certificato altri brindisini e, come tanti di loro, un da Palombaro” presso la Regia Scuola italiano ligio ai doveri di cittadino: Torpedinieri. Fu quindi trasferito alla anche a quelli gravosi del partecipare e

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LE IMMAGINI Sopra il libretto “Regia Marina Certificato da palombaro di Carlo Losito, ritratto a sinistra. In alto a destra la divisa di palombaro durante la Seconda guerra mondiale, in basso Lero, nell'Egeo, a 1000 km da Brindisi Difesa di Messina, come si evince sfogliando le cinquanta pagine del suo ‘Libretto di Palombaro’, sul quale in data 11 agosto 1915 è registrata la sua prima attività in immersione in quel porto. A Messina rimase in servizio fino a tutto il 1917 e nel mentre trascorse anche un mese presso il porto di Augusta, dove in data 24 maggio 1916 è registrata la prima di una serie di sue immersioni. Dal 20 febbraio 1918 al 4 agosto 1919 Carlo fu inviato in Libia e prestò servizio presso il Distaccamento della Regia Marina di Tobruk, come chiaramente riportato alle pagine 40 e 41 del già citato ‘Libretto di Palombaro’: « Immersioni continuate per lavori di rattoppo allo sbarramento; per riporre galleggianti, catene e ancore; per lavori di scalo, alaggio ecc. ecc. Con una variante di profondità dagli otto ai quindici metri. “Ha dimostrato capacità e iniziativa”. Firmato dall’ufficiale incaricato e controfirmato dal Coman-

dante del Distaccamento.» Tutti quegli anni erano stati anni di guerra, quelli della Prima Guerra Mondiale, da quando, il 24 maggio del 1915, l’Italia vi era entrata per combattere contro l’Austria. E il giovane marinaio torpediniere palombaro Carlo Losito, naturalmente, vi prese parte e ricevette due medaglie ricordo, una il 16 dicembre 1920 e l’altra il 12 gennaio 1923 e poi, datata La Spezia 13 ottobre 1927, gli venne consegnata anche la “Croce al merito di guerra”. Inoltre, avendo partecipato durante 18 mesi alla Campagna di Libia, in data 14 maggio del 1924 gli fu conferito dal Ministro della Marina un diploma con inclusa la medaglia col motto “Libia”. Quindi, finita la leva finita la guerra e finita la campagna libica, Carlo finalmente tornò da civile a casa, e a Brindisi entrò a lavorare nell’Arsenale della Difesa Marittima. Dopo qualche anno, l’11 febbraio del 1926, sposò Teodora Niccoli e con lei avrebbe avuto cinque figli: quattro femmine, Nicoletta, Carmela, Antonia e Maria, e un maschio, il primogenito Pasquale. Un altro maschietto, Luigi, era morto dopo solo due mesi dalla nascita. Il 22 settembre di quello stesso anno in cui si era sposato, presso il Comando Militare Marittimo della Piazza di Brindisi Carlo superò brillantemente gli esami di concorso in qualità di "Palombaro artefice" e fu dichiarato idoneo essendo risultato il secondo tra tutti i concorrenti, divenendo così operaio stabile ‘alla Difesa’ con la qualifica di palombaro. In un documento del Comune de Brindisi è registrato che Carlo Losito, prima di andare ad abitare nella sua casa del Casale in via Bafile 5, dove tuttora abita la sua nipote Carla, aveva “fatto lavori nella casa di via Margherito da Brindisi 13”, forse quella che era stata la casa paterna. Inoltre, nello stesso foglio del Comune è indicato che in data 8 novembre 1938 Carlo emigrò in Eritrea, a Massaua, e rientrò a Brindisi in data 27 set-

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LE IMMAGINI A destra il Cral Marina dedicato a Carlo Losito, sotto le medaglie del “Torpediniere scelto palombaro” tembre 1939. Probabilmente, visto che la permanenza in quella sede africana fu inferiore a un anno, non si trattò di una emigrazione effettiva, ma forse solo di una trasferta di lavoro. Poi però, di nuovo, il 10 giugno del 1940, scoppiò la guerra (*). Per quella data Carlo, con a casa tutti e cinque i suoi ragazzi ancora giovanissimi – la più piccola Maria non aveva ancora compito i tre anni e il più grande Pasquale era di soli tredici anni – aveva già compito quarantasei anni, non pochi ma non abbastanza da farlo rimanere a casa e così, militarizzato ed assegnato a un destino d’oltremare, dovette lasciare di nuovo la casa, con tutta la sua famiglia, e ripartire da Brindisi. Nel 1942 – ed eventualmente già da prima – Carlo Losito era a Lero (*), presso il Regio Arsenale dell’isola, con il rango di “sergente militarizzato” e, riferita al giorno 30 novembre di quell’anno, ricevette la sua seconda “Croce al merito di guerra”, questa volta accompagnata da un “Encomio solenne” in relazione con la sua esemplare attuazione nel corso di due importanti e pericolose operazioni eseguite come palombaro in quel giorno. Questa la motivazione: « Operaio militarizzato assegnato a Base navale d’oltremare, durante violenta incursione aerea, si prodigava per l’immissione in bacino di nave colpita e nel tamponamento di bettolina danneggiata, “dando prova di elevato senso del dovere”» Poi, il 1º gennaio 1943, Carlo Losito fu asceso alla ‘1ª Categoria di mestiere in qualità di palombaro di alta profondità’, mentre la guerra stava subendo una forte recrudescenza in tutto l’Egeo, incluso sulla strategica isola di Lero in cui, dopo un po’ di mesi di calma relativa, stavano diventando sempre più frequenti gli improvvisi attacchi aerei della Royal Air Force inglese. Preludio del fuoco che proprio lì sarebbe divampato prima della fine di quello stesso anno 1943: la violentissima “Battaglia di Lero” che, combattuta per tre settimane, tra il 26 di settembre ed il 16 di novembre, avrebbe costituito l’evento centrale dell’intera Campagna del Dodecaneso. Ma Carlo non lo avrebbe saputo. Il 27 giugno del 1943 era domenica, ma Carlo Losito era ugualmente impegnato in una delicata operazione d’immersione nella baia di Portolago, quando improvvisamente risuonò l’allarme d’attacco aereo inglese… Ebbene, non è stato dato alla famiglia poter disporre di una relazione ufficiale dell’accaduto, ma certo è che in quel convulso frangente a Carlo, che era immerso in profondità, fu interrotto il vitale flusso d’ossigeno che gli veniva fornito dall’imbarcazione preposta in superfice. «…Subito dopo il bombardamento Carlo fu tirato su, ma non c'era più nulla da fare. Il corpo non è mai stato restituito alla famiglia, né la famiglia disponeva allora delle risorse

necessarie per poter provvedere a far rimpa- nista del mare, e i suoi compagni di lavoro triare la salma…» [Giancarlo Zullino, marito brindisini ‘della Difesa’ vollero riconoscerlo della nipote di Carlo, Paola Losito] formalmente intitolandogli la sede del CRAL Così tragicamente era finita l’esistenza di Marina – oggi CRDD Marina – la cui attuale Carlo Losito, e per la sua famiglia era iniziata struttura fu edificata negli anni ’60 nel centro la sequela conseguente a quella incolmabile storico cittadino, nelle adiacenze della “Diperdita, vissuta nel ricordo del marito e del fesa” in via dei Mille all’angolo con via Citpadre deceduto in guerra. Mentre a Brindisi, tadella. Madrina della cerimonia di per i tanti colleghi amici e conoscenti di inaugurazione della nuova sede fu la figlia di Carlo, non sarebbe certo mai più svanita la Carlo, Vita Nicola Losito. memoria di quell’uomo: “un uomo normale, uguale a tanti altri suoi concittadini di Brin- Un grazie a Giancarlo Zullino per la collabodisi e proprio per questo, ancor più lodevole”. razione prestata al – non facile – reperimento Ma Carlo Losito era anche stato – e per questo dei dati biografici di Carlo Losito, e a Carla fu, infatti, ufficialmente encomiato – un ec- figlia di Carmela Losito - che abita tutt’ora cellente, appassionato ed ammirato professio- nella casa al Casale che fu di Carlo e Teodora

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(*) Quando il primo settembre 1939 ebbe inizio la guerra, con l’invasione (*) VIRGILIO SPIGAI in “Lero La Battaglia per il Dodecaneso” Ediz. del 1949 al 1975: della Polonia da parte della Germania, il governo italiano dichiarò la «L'isola di Lero – Leros – appartiene alle basse Sporadi, che nel loro insieme costituivano all’epoca il possedimento italiano del Dodecaneso nell'Egeo. Era stata neutralità, ma al contempo richiamò alle armi tutti gli uomini validi ed occupata il 12 maggio 1912 dai marinai fucilieri dell'incrociatore San Giorgio. emanò le norme per la mobilitazione civile. Così a Brindisi, il podestà, Ricca di alture scoscese, lunga 15 chilometri e larga in alcuni punti appena mille Corradino Panico Sarcinella, l’11 maggio 1940 dispose la compilazione metri, possiede coste frastagliatissime e due profonde insenature perfette per delle liste di censimento di tutta la popolazione civile: d’età compresa tra l'ormeggio in sicurezza di idrovolanti e mezzi navali, Parteni e – la principale – 14 e 18 anni per gli uomini e dai 14 ai 45 per le donne, nonché di tutti gli Portolago. uomini d’età compresa tra 45 e 70 anni. In pochi anni l'isola era diventata un'importante base dove all'inizio della guerra La non belligeranza italiana durò solo 284 giorni e il 10 giugno 1940 erano dislocati, oltre al naviglio di superfice, la 4ª squadriglia cacciatorpediniere, l’Italia dichiarò guerra alla Francia e alla Gran Bretagna, schierandosi la 3ª flottiglia MAS, una cinquina di motosiluranti, alcuni posamine con tre motozattere e i sommergibili Gemma, Neghelli, Jantina, Ondina, Zaffiro, Perla, con la Germania. Scirè, Anfitrite, Foca e Naiade. Il podestà Panico allora, fece predisporre le carte annonarie per il Una cosi nutrita presenza di mezzi navali implicava l'esistenza di caserme, stazioni razionamento dei consumi alla popolazione civile: pane, minestre, riso, di carica degli accumulatori, officine, bacini di carenaggio, centrali per il farina, zucchero, olio, eccetera. E fece approntare le liste degli alberghi rifornimento di acqua, ossigeno, combustibile, depositi di carburante eccetera, in e delle locande, nonché delle abitazioni familiari, in grado e obbligo di poche parole un vero e proprio Arsenale. Un piccolo aeroporto, campi depositi di ospitare a turno gli ufficiali di passaggio. siluri e munizioni in caverna, insieme ad una piccola centrale elettrica anch'essa in Con la seconda guerra mondiale la città, che contava 42.000 abitanti, caverna, completavano il quadro d'insieme. A tutti quei servizi operavano centinaia vide capitolare gli interessi locali agli interessi nazionali che ne fecero di maestranze, mentre la difesa dell'isola era affidata alla Marina con vari una testa di ponte militare, con reparti aerei impegnati nelle operazioni sbarramenti di mine ed ostruzioni portuali, a 24 batterie di cannoni navali e contraeree per un totale di circa 100 pezzi, e a un battaglione di 500 soldati del 10º in Grecia e Albania, e con il porto pieno di movimenti di uomini e di Fanteria della Divisione Regina. [All’8 settembre 1943 il presidio dell’isola materiali militari, per la campagna di Grecia e verso i porti libici di sarebbe stato di circa 9.500 uomini: 7.203 della Marina, 717 militarizzati, circa Tripoli e Bengasi. 1.200 dell'Esercito, compresi carabinieri e guardie di finanza, e 400 avieri.] Durante il corso della guerra la città di Brindisi fu diverse volte oggetto Quando il 10 giugno del 1940 scoppiò la guerra, lì per lì sull’isola non accadde dei bombardamenti aerei effettuati dalla Royal Air Force inglese. La nulla, ma la guerra c'era, la vedevano gli aviatori e i sommergibilisti che andavano prima incursione avvenne il 20 ottobre 1940 e in poco meno di un anno a cercarla fuori del possedimento, ma non ancora gli uomini addetti agli impianti se ne registrarono diverse decine. di difesa dell'isola. I cannonieri restarono appisolati e lo erano anche quando il 20 In seguito all’incalzare dei bombardamenti aerei sulla città, si settembre i bombardieri britannici si decisero ad un primo attacco. L'azione fu inconcludente sia per l'imprecisione del bombardamento sia per la fortuna che ci costruirono gallerie di ricovero: nei Bastioni del Cristo, in via Casimiro, aveva assistito. Ai primi di ottobre di quel 1940 il sommergibile "Gemma" saltò in in Corte Capozziello, in via De Leo, in piazza Angeli e in via Marconi. aria di notte, ad appena cinquanta miglia dall'isola. Da allora aumentarono le attese, Quindi si utilizzarono ricoveri approntati in altri punti della città: sotto purtroppo spesso vane, di veder comparire all'imboccatura le sagome note delle piazza Santa Teresa, nei pressi della Questura, nello scantinato di nostre unità. Palazzo Tarantini e della scuola Costanzo Ciano e poi altri ancora ai piani La sera del 20 ottobre una formazione area attaccò da bassa quota. Ci furono danni interrati di grossi casamenti. Quando i sinistrati dei bombardamenti materiali ingenti, 40 morti e molti feriti. Il naviglio non fu toccato, ma il morale divennero troppi, il Comune fece costruire centinaia di baracche: del presidio fu scosso. La notte in cui i britannici ritentarono l’impresa però, con Salesiani, Sanatorio, Paradiso e Perrino. diversi fattori a nostro favore, i cannonieri ebbero tutto il tempo per raggiungere i Nel corso del 1941, le incursioni aeree inglesi condussero sul capoluogo pezzi e prepararsi al tiro. Il silenzio fu rotto dal rombo crescente degli aerei che si avvicinavano e poi, le sommità delle colline si coronarono di fiamme gialle con ben 21 attacchi tra il 30 ottobre e la fine dell'anno. Il bombardamento l’iniziò del rullare fragoroso di cento cannoni che sparavano insieme. Dal basso, aereo più disastroso avvenne nella notte tra il 7 e l’8 novembre 1941: dalla schiera delle navi all'ormeggio, si alzò una cortina di traccianti ed in l’incursione ebbe inizio verso la mezzanotte e terminò poco prima quell'inferno di fuoco molti aerei cominciarono ad essere atterrati e altri si dell’alba. In quella terribile notte molti edifici della città furono rasi al piantarono in mare dopo aver attraversato il cielo come vistose meteoriti. L'impresa suolo dai continui bombardamenti che causarono decine e decine di degli assalitori era fallita e per un gioco del caso nessuno degli italiani fu ferito. Il morti e centinaia di feriti. Anche il bombardamento del 16 dicembre giorno dopo, gli aviatori inglesi caduti furono sepolti nel cimitero italiano di 1941 fu particolarmente sofferto, per i crolli che produsse: danneggiò, Temenia ‘con solenni onoranze’. infatti, l’area di piazza Duomo, colpendo il campanile, l’ospedale civile, Da quel giorno, per un lungo periodo di tempo Lero – da dove il 19 dicembre 1941 sarebbe partito il sommergibile Scirè al comando di Valerio Borghese della X l’Episcopio e il palazzo Balsamo. I danni più consistenti furono quelli Flottiglia Mas per la leggendaria missione di Alessandria d’Egitto – non fu più arrecati alla cella campanaria, che andò distrutta. attaccata dagli aerei britannici. Ma poi ci tornarono, nel 1942 e… nel 1943.» Fonti militari riportarono che a Brindisi, a causa dei bombardamenti del novembre 1941, perirono 126 civili e 3.847 persone rimasero senza tetto, mentre risultarono distrutti 30.600 metri quadri di abitato e 31.800 metri Carlo Losito quadri furono gravemente danneggiati.

La casa di Carlo Losito Dl Casale in via Bafile 5


CULTURE

Padre Brindisi, eroico protagonista della battaglia di Albareale Nella lontana Ungheria d’inizio secolo XVII, 420 anni fa, le gesta del frate Lorenzo di Gianfranco Perri

on la conquista di Costantinopoli nel 1453 da parte di Maometto II, gli Ottomani avevano posto fine all’impero romano d’Oriente e sotto il regno di Solimano il Magnifico il loro impero aveva segnato l’apice della potenza. Con Costantinopoli, divenuta Istanbul, come capitale e con il controllo delle terre intorno al bacino del Mediterraneo, gli Ottomani avevano perseguito costantemente mire espansionistiche ai danni dell’Occidente cristiano scombussolando il precario equilibrio vigente nei Balcani, occupando la Serbia e poi la strategica Ungheria, nonostante la permanente reazione armata della vicina Austria. Da Roma, il Papa Clemente VIII aveva riunito una Lega Santa per appoggiare il sacro romano imperatore, ma dopo numerose battaglie con esiti alterni che per anni videro coinvolte e sconvolte più aree e più nazioni, il 27 settembre del 1529 il Sultano arrivò ad assediare Vienna con un esercito di centomila uomini. L’esercito dell’arciduca d’Austria Ferdinando I difese Vienna con grande vigore e a metà ottobre il consiglio di guerra ottomano decise di abbandonare l’assedio. Dopo lo smacco di Vienna, il sultano dovette per un tempo volgere la sua attenzione verso altre parti del suo sterminato dominio, ma solo per un tempo, per poi ritornare a confrontare l’impero asburgico, tra guerre e paci. Morto infine Solimano nel 1556, si stipulò ad Adrianopoli un trattato di tregua pacificando il confine tra i domini ottomani e quelli asburgici in Ungheria, dopo i quasi quarant’anni di guerre mosse da quel sultano contro l’impero occidentale. Nel 1593 però, governando l’imperatore Rodolfo II d’Asburgo e il sultano Murad III, la precaria pace s’interruppe ed in primavera le ostilità si riaprirono lungo i confini ottomani prossimi all’Austria, e a giugno l’esercito imperiale affrontò le forze ottomane in Croazia, nella battaglia di Sisak, battendole. Il conflitto si protrasse per ben tredici anni e, ottenuta nell’agosto 1595 un’inaspettata vittoria cristiana in Romania nella battaglia di Călugăreni, a fine ottobre 1596 per il fronte cristiano si registrò una pesante sconfitta nella battaglia di Keresztes nel nord dell’Ungheria.

C

Gli scontri diretti tra gli Asburgo e i Turchi si raffreddarono nel 1599 e a partire dal 1600 i generali austriaci mirarono solo a sottomettere la ribelle Transilvania. Poi, il 4 settembre 1601, una forza inviata dall’imperatore Rodolfo II al comando del francese Philippe Emmanuel de Lorraine duc de Mercoeur e del comandante asburgico conte Adolf von Schwarzenberg, pose sotto assedio Székesfehérvár – Albareale in italiano e Stuhlweißenburg in tedesco – la famosa città fortezza ungherese ove s’erano incoronati i sovrani magiari, che era stata occupata dagli Ottomani fin dal 1453. «Un disertore disse al duca che la città poteva essere raggiunta dal retro tramite un guado dove la parte poco profonda permetteva l’attraversamento a piedi. Il duca inviò immediatamente il generale Hermann Ruswurm con mille uomini per trovare il passaggio. Più tardi quel giorno, con grandi difficoltà nell’avanzare nel fango, Russwurm trovò il guado e inviò un segnale al duca. Mercoeur lanciò prontamente un attacco "con gran rumore" portando il grosso dei difensori ottomani verso la parte anteriore della fortezza mentre Russwurm, secondo il piano stabilito, scalava le mura con i suoi uomini e si impadroniva della città». Era il 20 settembre del 1601 quando gli assediati ottomani si arresero dopo aver distrutto la maggior parte degli edifici, compresa la storica basilica reale che ospitava le tombe di tutti i re ungheresi. Il 9 ottobre, meno di tre settimane dopo che Albareale era finalmente caduta in mano cristiane, il gran sultano Maometto III inviò un imponente esercito comandato da Hasan Pashà per riconquistarla, ma un esercito cristiano numericamente di molto inferiore, al comando dell’arciduca d’Austria Mattia, fratello dell’imperatore, affrontò gli Ottomani in battaglia aperta – la battaglia di Albareale – e, sorprendentemente, sconfisse il turco. Poi però, le vicende volsero di nuovo a favore degli Ottomani che rioccuparono anche Schwarzenberg, mentre il cattivo andamento delle operazioni in Ungheria ebbe come conseguenza l’allontanamento dal potere dell’imperatore Rodolfo II. Il conflitto – la Lunga Guerra – venne finalmente chiuso con la Pace di Zsitvatorok dell’11 novembre 1606 che, voluta dal nuovo imperatore Mattia, segnò una delle prime grandi disfatte geopolitiche della

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LE IMMAGInI Sopra San Lorenzo da Brindisi nella battaglia di Albareale Umberto Colonna, 1959 - Convento dei frati minori cappuccini Santa Fara di Bari, a destra Augustis Gentis Austriacae rebus - Christiani nominis Hostes, Erecta Cruce, deterret_österreichische nationalbibliothek - Vienna. Sotto la croce lignea brandita da San Lorenzo nella battaglia di Albareale - Santuario di Santa Maria degli Angeli

Sublime Porta confermando l’incapacità ottomana di penetrare ulteriormente nei territori asburgici, e garantì ad entrambe le parti confini stabili per mezzo secolo. Ebbene, dopo questa lunga ma necessaria premessa, è ora tempo di tornare ed approfondire sulle vicende della ‘battaglia di Albareale’, che ebbe un protagonista eccezionale nonché riconosciuto principale artefice della contundente quanto imprevista vittoria campale delle forze cristiane contro quelle ottomane soverchianti. Erano quelli – di fine XVI secolo e inizio XVII – anche i tempi del grave conflitto religioso dei cristiani d’Europa, fomentato dal protestantesimo che vedeva nel nordest europeo luterani e calvinisti molto attivi, e molto spesso violenti, nel proselitismo anticattolico e nel sobillare il popolo nei confronti del papa di Roma e dei suoi rappresentanti. Ed in quel clima il papa Clemente VIII, a

richiesta dell’imperatore Rodolfo II, aveva inviato il già prestigioso cappuccino, il frate superiore Lorenzo – padre Brindisi – accompagnato da un gruppo di altri undici frati cappuccini, a impiantare il loro Ordine in Boemia, in Moravia, in Austria e in Ungheria, nonché – con la diplomazia e predicazione – a combattere in tutte quelle terre gli eretici, e quindi convertirli. Le minacce, i maltrattamenti, le aggressioni, le insidie, che patirono i frati del brindisino Lorenzo dalla parte avversa, non li trattennero dall’aprire case cappuccine, nonostante con il complotto si riuscisse a far sì che venisse meno o vacillasse la protezione a loro promessa dall’imperatore, il quale impressionabile e mutevole fu più di una volta sul punto di farli scacciare dai suoi stati. Ma alla fine, la missione risultò pienamente compiuta e il 23 maggio del 1600 i cappuccini poterono piantare persino in Praga la croce del loro erigendo convento. Non solo: nel 1601 l’imperatore Rodolfo II, acquisito il consentimento del papa, pensò bene di inviare parte di quei coraggiosi abili ed intraprendenti frati cappuccini a seguire l’esercito della coalizione dei principi cristiani – cattolici e protestanti – che, comandato dall’arciduca Mattia, era impegnato in Ungheria nell’ardua guerra contro i poderosi eserciti ottomani di Maometto III. I cappuccini avrebbero assistito i soldati cristiani in lotta contro quelli turchi dell’impero ottomano: sarebbero stati i cappellani dell’esercito imperiale. Quando monsignor Filippo Spinelli, napoletano e futuro cardinale, al tempo nunzio pontificio presso Rodolfo II in Praga, nonostante le iniziali forti reticenze del frate Lorenzo – c’erano troppo pochi frati e non erano pronti per una simile impresa – insistette nel voler far soddisfare l’ordine ricevuto direttamente da Roma affinché quattro dei accocappuccini gliessero la richiesta dell’imperatore, padre Brindisi decise essere lui stesso uno dei cappellani militari ad essere inviati al fronte di guerra. Quindi, ai primi di settembre raggiunse la città ungherese di Albareale la presso quale, assediandola, si


CULTURE LE IMMAGInI A destra San Lorenzo da Brindisi nella battaglia di Albareale_Giuseppe Grandi, 1850 - Pinacoteca Cittàdel Vaticano

era accampato l’esercito cristiano forte di circa 18000 soldati. Lì, da cappellano, il padre Lorenzo si dedicò in pieno alle necessità spirituali dei soldati cattolici, celebrando la messa ogni mattina, ascoltando confessioni, dando benedizioni e animando tutti, nonché predicando loro. Presa Albareale agli Ottomani il 20 di settembre, gli imperiali la guarnirono con 4500 soldati, mentre il resto dell’esercito si accampò sul vicino promontorio Mor. Poco dopo però, ai primi di ottobre di quel 1601, sopraggiunsero in forze gli Ottomani, circa 80000 soldati, intenzionati a riprendersi la città fortezza di Albareale, e si appostarono minacciosi circondando il campamento cristiano. Il giovedì 11 ottobre, su richiesta esplicita dell’arciduca Mattia comandante generale dell’esercito cristiano affinché facesse una predica “esortando e animando il campamento a combattere valorosamente per la santa fede”, padre Lorenzo tenne un sermone prendendo spunto dal “Judea, et Jerusalem nolite timere, cras egrediemini, et Dominus erit vobiscum - non abbiate paura, domani andate avanti, e il Signore sarà con voi” narrando la storia dov’è contenuta quell’esortazione, con cui si promette ad un piccolo numero di combattenti del popolo di Dio la vittoria contro un numerosissimo e potentissimo esercito d’infedeli. E il giorno dopo, venerdì 12 di ottobre, da una postazione collinare fornita di 400 cannoni, l’esercito ottomano sferrò un violento attacco a sorpresa contro le truppe cristiane. «Di quello che accadde allora abbiamo il testimonio scritto dello stesso frate Lorenzo e di numerosi dei presenti: Lorenzo monta a cavallo e si mette al fronte della cavalleria, maggiormente costituita da italiani. Dirige ai cavalieri brevi e fervorose parole promettendo loro la vittoria. Senz’altra arma che una croce lignea piena di reliquie [ad oggi ancora conservata nel Santuario di Santa Maria degli Angeli in Brindisi] che brandisce nella sua mano, padre Lorenzo avanza invocando il nome di Gesù e di Maria, ed ogni volta che il nemico accende la miccia dei cannoni, traccia nell’aria con la croce il segno della redenzione. Tutti restavano attoniti al vedere che le pallottole cadevano senza forza tutt’intorno a Lorenzo. I soldati turchi credevano di essere in presenza di un negromante o di un mago, mentre per i cristiani era un santo. E tutti coloro che gli erano vicino si sentivano completamente al sicuro. Un soldato nemico, per ben tre volte tentò con la sua scimitarra di decapitare il frate e per tre volte il cavallo di Lorenzo schivò il colpo, finché il colonnello austriaco Adolph von Althain abbatté il turco. E ci fu anche chi affermò che le pallottole sparate contro l’esercito cristiano si volgevano contro i turchi.

Il prodigio si perpetrò durante due ore, finché la fanteria tedesca poté essere approntata per il contrattacco, al ché i turchi abbandonarono la postazione ritirandosi sul pianale dove tentarono resistere di nuovo, però furono sbaragliati dagli imperiali con i loro stessi 400 cannoni che avevano dovuto abbandonare sulla collina. Alla fine della giornata, le truppe cristiane vittoriarono al frate Lorenzo quale generale condottiero, riconoscendo il lui l’artefice della vittoria, mentre tutti gli gridavano: ‘Viva il padre Brindisi’». [AGUSTÌN GUZMÀN SANCHO in “San Lorenzo De Brindis - Doctor Apostòlico”, Madrid 1994] I combattimenti proseguirono anche nei giorni seguenti, con nuovi risultati favorevoli alle truppe cristiane, fin quando, il 25 di ottobre, l’esercito ottomano decise ritirarsi da quel fronte. In seguito, il duca di Mercoeur dichiarò che quel religioso “aveva operato più esso solo in quella guerra che non tutto insieme l’esercito e che, dopo Dio e la Santa

Vergine, bisognava attribuire a lui quelle vittorie”. Nella cerimonia della beatificazione del padre Lorenzo – 1º giugno 1783 – il memorabile avvenimento fu rappresentato in un quadro posto sopra la porta principale del Vaticano con al disotto la scritta, in latino: “Trovandosi l’Austria nel più grave pericolo, il beato Lorenzo da Brindisi, colla croce in mano, spaventa e mette in fuga i nemici del nome cristiano”. Nell’iconografia laurenziana del resto, è più volte rappresentato il frate Lorenzo – padre Brindisi – sul campo di battaglia mentre incoraggia i soldati cristiani a resistere e a combattere contro l’esercito ottomano. Alcuni agiografi infatti, probabilmente particolarmente colpiti da quel singolare episodio, hanno voluto collocarlo al centro della vita di Lorenzo e così hanno addirittura finito col rappresentare il padre brindisino quasi come un generale alla testa del suo esercito che “Christiani nominis hostes, erecta Cruce, deterret”.

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CULTURE

Peppino Gigante, il musicista che incantò anche New York Morì 60 anni fa negli Stati Uniti dopo una straordinaria carriera di violinista di Gianfranco Perri rindisino di due secoli fa, Ugo Giuseppe Gigante – Peppino per gli amici – aveva un innato talento per la musica e nel suo DNA aveva anche il gene DRD4-7r, una speciale variante del recettore della dopamina D4, conosciuto come "il gene del viaggio". Nato infatti nell’ultimo quarto dell’800 – il 24 agosto del 1885 – nella provincialissima Brindisi, non esitò a lasciare casa famiglia e amici per andare a studiare nella lontana Pesaro quando, appena compiti i quindici anni, vinse una borsa di studio della Deputazione Provinciale di Terra d’Otranto, grazie alla quale poté entrare al prestigioso liceo musicale – il Conservatorio Gioacchino Rossini – di quella città marchigiana, che all’epoca era diretto nientemeno che da Pietro Mascagni. Per quel primo passo Peppino contò con della l’appoggio madre Balbina Torsellini, senese direttrice dell’asilo comunale di Brindisi e, soprattutto, del padre Mariano, ufficiale delle regie poste di Brindisi nonché musicista dilettante, che gli aveva impartito i primi rudimenti musicali avendone intuito il

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potenziale talento fin da quando, bambino di soli otto anni, aveva esordito in pubblico suonando il suo violino accompagnato dal papà al mandolino nel “Divertimento sul Trovatore di Verdi”. Peppino non sarebbe più tornato a vivere nella sua Brindisi, ma non l’avrebbe certo dimenticata né, pur vivendo durante la maggior parte della sua vita in America, avrebbe trascurato di ritornare – nel possibile – a visitarla. Ancor solo promettente allievo, ma già provetto violinista, a soli diciotto anni – nel novembre del 1903 – esordì come compositore con “Aira del tenente” su testo di Edmondo De Amicis e una sua romanza intitolata “Un organetto suona per la via” venne pubblicata dal rinomato editore musicale bolognese Bongiovanni. Nel marzo del 1906 il violinista Gigante tenne il suo primo importante concerto da solista, alla Fenice di Senigallia; in quello stesso anno compose “Ida” una marcia per orchestra di fiati e poi, ancor prima di concludere gli studi di Conservatorio, vinse vari concorsi come professore di scuola orchestrale e come maestro di banda. Il seguente anno, il 1907, fu per lo studente Giuseppe Gigante straordinariamente fruttifero: si diplomò in Strumentazione per banda, in

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LE IMMAGInI Sopra un bel ritratto di Ugo Giuseppe Gigante, a destra a Quito nel gennaio 1913. A sinistra Academia di Musica del prof. U. Gigante Direttore - new York

Musica corale, in Violino e in Composizione. Finalmente, alla conclusione degli studi di Pesaro, nel 1910 vinse – con il suo “Inno a Rossini” per soli coro e orchestra – il prestigioso premio Bodoyra che il Conservatorio assegnava al miglior allievo di Composizione. Dopo un breve periodo come direttore della vicina Scuola musicale di Fano, Giuseppe, irrequieto e ormai maturo musicista, decise di allargare gli orizzonti della sua carriera partecipando ad un concorso internazionale, vincendolo ed andando ad insegnare musica a Quito, la capitale della repubblica sudamericana del lontanissimo Ecuador. Come professore di violino divenne presto un maestro tanto rinomato e rispettato da essere nominato vicedirettore del Conservatorio di quella capitale in cui visse cinque anni intensissimi e ricchi di successi, sia come insegnante che come compositore. Acclamato come violinista virtuoso, fu anche nominato direttore sovrintendente di tutte le bande militari di quella nazione con il grado di Maggiore. In quegli anni trascorsi in Ecuador, inoltre, maturò e portò a compimento la sua unica opera lirica “L’ultimo giorno di Pergolesi” un melodramma ad atto unico su testo dell’avvocato fiorentino Ugo Coli, dedicato all’astro settecentesco marchigiano della musica barocca napoletana Giovan Battista Pergolesi. Trasferitosi nel 1915 negli Stati Uniti, scoppiata la Prima guerra mondiale, Gigante si arruolò nella Marina statunitense ed alla fine della guerra decise di stabilirsi a New York. Si esibì con successo in diversi teatri di quella grande metropoli americana con il suo prezioso violino Matteo Minozzi del 1734 e gli giunsero vari apprezzamenti, anche dalla Beethoven Society che nel 1919 gli consegnò in premio la bacchetta d’oro. Dopo qualche anno di residenza a New

York, fondò e poi diresse per più di dieci anni la sua “Academy of Music U. Gigante” molto frequentata nell’Upper West Side e divenne molto popolare, oltre che come strumentista e direttore, anche come arrangiatore di canti popolari italiani, ecuadoregni e dei nativi d’America, senza comunque abbandonare mai la composizione. Compose infatti in quel periodo, tra tanto altro, “E non torna…” e “Serenata romantica”. Dopo un’assenza durata 13 anni, nell’estate del 1923 Peppino Gigante ritornò a Brindisi, ricevuto ed acclamato dai suoi concittadini. Era sabato – 28 di luglio – quando il suo treno raggiunse la stazione ferroviaria dove parenti e numerosi amici erano andati ad aspettarlo «… Noi che da lontano abbiamo seguito la sua meravigliosa ascesa trionfale, gioendo col padre suo all’annunzio di sempre maggiori trionfi nella metropoli americana, abbiamo riabbracciato col cuore gonfio di tenerezza indicibile il grande violinista, onore e gloria brindisina e italiana. Questo nostro modesto e grande amico che ritorna tra noi carico di allori e di gloria, lo abbiamo ritrovato, dopo tredici anni, con il suo solito sorriso, la sua bontà eccezionale che è sua dote caratteristica, e con la sua squisita sensibilità artistica. Immutato, sebbene abbia raggiunto meritatamente le vette eccelse del paradiso di Euterpe che sono accessibili solo a pochi predestinati… Auguriamoci che egli voglia dare ai suoi buoni concittadini un saggio dell’arte sua divina.» [Vincenzo Durano in “Vita brindisina” del 1° agosto 1923] Nell’esclusivo Circolo artistico Marco Pacuvio, il giovedì 9 di agosto si tenne una partecipatissima serata in omaggio al professor Gigante e prima dello spettacolo, il presidente del circolo cav. Cosimo Picinni rivolse il seguente saluto «… Signore e signori, il nostro illustre concittadino accettando un modesto ma cordiale invito rivoltogli, è questa sera nostro graditissimo ospite e noi nel ringraziarlo sentitamente per l’onore conferitoci, gli rivolgiamo il nostro saluto deferente! Egli ritorna tra noi dopo un’assenza di tredici lunghi anni passati in lontanissime contrade, ed il Circolo artistico Pacuvio che ha seguito sempre con vera simpatia la sua prodigiosa e brillante carriera, non doveva, né poteva lasciar passare questo avvenimento senza tributare l’omaggio dovuto all’artista emerito che ovunque e sempre ha mantenuto alto il buon nome ed il prestigio della Patria nostra nella divina arte che il professor Gigante coltiva con santo amore e perfetta competenza. Ed è questo lo scopo, signori, del trattenimento che il nostro circolo ha voluto allestire per questa sera. Non a tutti sono noti i trionfi conseguiti e gli allori mietuti dal nostro festeggiato, da quando la sua carriera s’iniziò nel lontano 1910 in Quito, dove...» Poi, la sera del lunedì 20 di agosto, a casa del cav. Bruschi amico di famiglia di Gigante, si diedero convegno gli amici


CULTURE LE IMMAGInI A destra manoscritto originale della composizione “E non torna…” di Giuseppe Gigante, sotto a new York nel 1933

di redazione dei due giornali cittadini di allora – ‘Indipendente’ e ‘Vita brindisina’ – per un incontro privato con l’illustre visitante, l’amico Peppino. E questi in quell’occasione non poté sottrarsi dal suonare il suo divino strumento col quale tanto alloro aveva mietuto in America, suscitando tra i presenti un entusiasmo indescrivibile, mentre fragorosissimi applausi salivano dalla folla che spontaneamente si era andata congregando in strada richiamata da quella musica favolosa. Rientrato negli Stati Uniti, Giuseppe Gigante mantenne vivi ancora per molti anni i rapporti con la terra natia. Infatti, molti dei suoi amici a New York furono brindisini, come Antonio Lauro, Adriano Miglietta e Alessandro Samarotto, oltre al già rinomato scultore Edgardo Simone che in quegli anni aveva aperto il suo studio a New York e che scolpì un bassorilievo che raffigurava il testone del conterraneo musicista. Nell’edizione del 17 agosto 1933 del “Giornale di Brindisi” fu pubblicato un articolo sotto il titolo “Cittadini che si fanno onore” corredato da una bella foto del musicista brindisino ritratto in abito di gala con in mano la sua bacchetta d’oro. Ecco parte del testo: «A New York, nel salone delle feste dell’Hotel Astor – nella centrale Time

Square – il concittadino maestro Giuseppe Gigante ha tenuto il terzo annuale concerto della sua grande e conosciuta Accademia di Musica. Il successo riportato dal maestro Gigante e dai suoi numerosi allievi dinanzi al pubblico della metropoli americana è stato veramente trionfale. Ce ne dà notizia la stampa internazionale di New York concorde nel rilevare i meriti eccezionali del maestro Gigante… La gemma del concerto fu il numero finale dell’assieme di violini che suscitò il più grande entusiasmo; il pubblico ne richiese il bis che fu concesso mentre per il maestro Gigante e tutti i suoi collaboratori s’ebbero applausi calorosi ed interminabili…» Dopo aver donato all’Italia alcuni dei suoi importanti cimeli, tra cui la bacchetta d’oro, e dopo la morte dei suoi genitori – la sua amatissima sorella Lisa, sposata Quitadamo, era morta molto giovane, proprio poco prima che nel 1923 Giuseppe giungesse in visita a

Brindisi – i rapporti di Ugo Giuseppe Gigante con Brindisi e con i famigliari e amici rimastigli divennero sempre più limitati, fino al sopraggiungere della morte il 30 aprile del 1961, a Long Island New York: aveva 75 anni. Il Comune di Brindisi, con deferenza ed a ricordo dell’illustre artista concittadino, ha intitolato a Ugo Giuseppe Gigante una via della Frazione Tuturano contigua alle altre vie intitolate a musicisti famosi e nell’anno 2016, il 18 febbraio, il Liceo musicale Simone Durano di Brindisi, gli intitolò la “Sala concerto” con una partecipata cerimonia nel corso di un incontro di studi sull’artista, a conclusione del quale fu eseguito un concerto a cura degli allievi delle classi di clarinetto, pianoforte, sassofono e violino, in cui furono proposte “E non torna…”, “Un organetto suona per la via” e il Preludio da “L’ultimo giorno di Pergolesi”, composizioni tutte di Ugo Giuseppe Gigante.

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Cimitero di Brindisi – 10 agosto 1923

Dal “Indipendente” del 12-8-1923


CULTURE

Gesta e morte in Anatolia dell’ammiraglio Ruggiero Flores

Era nato a Brindisi, figlio di un militare tedesco falconiere di Federico II di Gianfranco Perri risaputo quanto le notizie sui primi anni di vita trascorsi a Brindisi e poi per mare da Ruggero Flores fino alla sua tragica prematura morte siano vaghe e scarse, e che le stesse provengano quasi esclusivamente dalla “Crónica catalana de Ramón Muntaner, scritta nel 1328, la cui prima stampa fu editata in Valencia nel 1558. Nato a Gerona in Catalogna nel 1265, Ramón Muntaner fu per molti anni compagno d’armi e luogotenente nella Gran Compagnia Catalana di Roger de Flor, fino alla morte di questi e, per un po’, anche dopo la stessa. Una fonte, il Muntaner, forse non del tutto affidabile – perlomeno non troppo sulla obiettività di tutti i risvolti di quel che racconta e commenta – spesso incline a corredare di una certa coloritura fantastica e leggendaria la vita dei vari personaggi narrati nelle sue cronache, il suo ammirato capo Roger de Flor in primis, dalle cui dirette confidenze poté probabilmente raccogliere quelle scarne informazioni poi trasmesseci relative agli anni infantili e giovanili del brindisino: quegli anni che precedettero il loro in-

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contro a Messina, fino cioè al 1301, epoca in cui entrambi avevano un’età di all’incirca 34 anni. Nel mio Vol.2 di Pagine di Storia Brindisina è riportato il racconto della vita di Ruggero Flores, sostanzialmente d’accordo con quanto indicato nella Crónica de Muntaner. Questa, in estrema sintesi, quella vita: «Roger nacque a Brindisi nel 1267, ultimo figlio di un militare tedesco che era stato falconiere dell’imperatore svevo Federico II re di Sicilia e che morì nella battaglia di Tagliacozzo combattendo per Corradino di Svevia, Riccardo Blum – latinizzato in Flor e poi in Flores – e di una ricca dama dell’alta società brindisina. Quando Roger aveva circa otto anni, il templare frate Vassayl comandante di marina dell’Ordine del Tempio, notò il vispo ragazzino e intuitone le potenziali qualità se lo fece affidare dalla madre per introdurlo al mestiere marinaro. Roger divenne un esperto marinaio, prese il manto di frate e appena ventenne gli fu affidato il comando del Falcone del Tempio, la più bella e moderna nave della flotta templare, impiegata nelle rotte del commercio mediterraneo e nel trasporto di pellegrini in Terrasanta. Al comando di quella nave si trovava nei pressi di San Giovanni d’Acri nella primavera del 1291 mentre la città era assediata dai Mamelucchi.

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LE IMMAGInI Sopra L’ingresso a Costantinopoli di Ruggero Flores oleo su tela di Josè Moreno Carbonero, 1888 – Senato di Madrid, nella pagina accanto dipinto raffigurante la galea olivetta capitanata da Ruggero Flores

Nel corso dell’evacuazione della città che seguì all’assedio e alla conquista musulmana, la Falcone del Tempio riuscì ad imbarcare numerosi facoltosi profughi civili cristiani che con i tanti beni recuperati furono condotti in salvo. Quel viaggio dovette certamente fruttare ingenti guadagni per le arche del Tempio, ma presto si sparsero pesanti dicerie rispetto al capitano della nave, il quale fu finalmente accusato dagli invidiosi gerarchi templari di aver trattenuto illegalmente per sé buona parte di quei guadagni e così, il gran maestro Jacques de Molay, espulse Roger dall’Ordine e ne predispose la cattura. L’ex frate lasciò Marsiglia e giunse a Genova, dove comprò a Ticino Doria, grazie al denaro prestatogli da amici, una galera, l’Olivetta. Con quella galea raggiunse la Sicilia e si mise al servizio del re aragonese Federico III nella guerra contro gli Angioini. Compì con successo numerose missioni in Adriatico e alla fine dell’estate del 1301, al comando di dieci galee, prestò un contributo fondamentale alla liberazione di Messina assediata dalla flotta angioina. Quei tanti ed importanti successi indussero Federico III a nominarlo viceammiraglio della flotta siciliana e a conferirgli la signoria sui castelli di Tripi e Licata, nonché le entrate dell’isola di Malta. Poi, quando la guerra dei Vespri giunse vittoriosa al termine, con la pace di Caltabellotta del 31 agosto 1302, il corsaro Roger de Flor restò senza una formale occupazione, mentre le sue turbolenti milizie catalane, parcheggiate senza occupazione in Sicilia, costituivano un potenziale problema per il re Federico III, il quale vide di buon occhio l’idea prospettatagli da Roger de Flor di ‘prestarle’ all’imperatore d’Oriente Andronico II Paleologo, il quale si era mostrato interessato al loro ingaggio per combattere la crescente avanzata dei Turchi che erano riusciti a sottomettere gran parte dell’Asia minore… » Ebbene, il presente articolo intende proprio trattare le vicende relative alle gesta che videro il già rinomato ammiraglio brindisino, protago-

nista nei territori anatolici dell’impero romano d’Oriente. Lì, Roger de Flor, si recò nell’agosto del 1302 alla testa della sua già famigerata Compagnia Catalana. E lì, il divenuto Cesare Roger, incontrò violentemente la sua prematura morte, il 30 aprile 1305. In questo caso però, a differenza che per gli anni di Roger trascorsi in Italia, esistono – e sono in certa misura storicamente affidabili – altri relati, scritti purtroppo in lingua greca da autori più affini all’altro bando ed in conseguenza sostanzialmente sconosciuti o quanto meno molto poco considerati, quando non sono addirittura erroneamente considerati, nella storiografia occidentale. Recentemente – 2021 – è stato pubblicato un libro dall’Università di Granada [“La Gran Compañía Aragonesa de Roger De Brindísi. Fuentes Griegas sobre su estancia y actividad en Bizancio” del professor Josè Luis Calvo Martìnez] che riporta la traduzione integrale allo spagnolo di tali importanti scritti, e grazie alla lettura di questo libro è ora più facile chiarire molte pagine di storia e così meglio dettagliare gli eventi che condussero alla morte del celebre condottiero brindisino. Le differenze degli autori greci con la versione di Muntaner iniziano già con l’antitetica presentazione che Georgios Paquimeres fa del “Latino Roger” quando racconta il suo arrivo a Costantinopoli, con dieci galee e due legni che, in contrasto con Muntaner, scrive aveva ottenuto mediante un prestito dei genovesi: «Uomo d’età giovanile, di terribile aspetto, veloce per ciò che gli interessa e focoso nell’agire. La sua storia parla di un frate templare che dopo la caduta di Acri rubò i denari del Tempio e poi si dedicò ad attaccare gli arabi per mare e ad arricchirsi quale violento pirata. In seguito, pieno d’arroganza ricchezze e lusso, abbandonò l’Ordine del Tempio e, offertosi come mercenario al servizio dell’aragonese Federico III, partecipò alla guerra di Sicilia.» Niceforo Gregorás invece, così presenta “un certo Latino di nome Roger, che in Sicilia aveva creato un esercito della Bassa Iberia e della Gallia Transalpina”: «Uomo nefasto, che non disdegnava compiacersi dei combattimenti tanto in mare quanto in terra. Aveva riunito adepti per non meno di quattro navi con le quali intraprese impunemente la vita del pirata, risultando essere in ciò il più terribile di quanti se ne fossero conosciuti fino ad allora.

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CULTURE Costeggiando e circumnavigando le isole ne aveva danneggiato parecchie, incluso le più grandi, e nel sud del Mediterraneo aveva acquistato fama di terribile. Perciò Federico, trovandosi in una situazione militarmente precaria tanto da dover ricorrere ad alleati stranieri, chiese a Roger di passare al suo servizio apportandogli un corpo di mille cavalieri.» Per quanto riguarda le ragioni che portarono in Oriente Roger de Flor con la sua Compagnia Catalana, Paquimeres inizia col premettere: «Finita la guerra di Sicilia con una tregua, il Papa mandò a catturare Roger, ma Federico non ritenne giusto consegnarlo e solo gli intimò di sparire dalla circolazione e cercar dove salvarsi». E aggiunge: «Quello che mosse Roger ad offrire i suoi servizi all’imperatore Andronico II Paleologo, fu la necessità di reperire nuove risorse economiche per sé e quell’imperatore acconsentì giacché, in verità, il condottiero brindisino aveva dimostrato possedere un carattere nobile e pieno d’impeto e ancor più perché, conducendo come schiavo un esercito crudele con la fermezza e acutezza del suo carattere, aveva creato la fama di poter con quello aggiustare i grandi mali. E così Roger, rigonfio di vanagloria per i poteri conferitigli dalla bolla imperiale, che esibiva con orgoglio, approntò non solo i suoi soldati, ma anche molti altri.» La versione di Gregorás, dapprima fa un riferimento generale ai vari combattenti alleati di Federico, che finita la guerra di Sicilia si ritrovarono senza occupazione: «Erano gente venuta ognuno da un posto diverso e molti da diversi luoghi. Non avevano casa né proprietà stabili, né mobili e né indumenti. Conducevano una esistenza errante e si riunivano in vista di possibili guadagni pirateschi.» E poi aggiunge: «Roger inviò un’ambasciata a Andronico proponendogli i suoi servizi e l’imperatore, accettandoli, acconsentì di farlo nobile, mediante matrimonio con sua nipote Maria – figlia di sua sorella Irene – e di elevarlo a Megaduca.» Muntaner in relazione alla maturazione e successiva decisione di intraprendere la spedizione, nella sua Crónica era stato molto più specifico: «Roger si pose la necessità di uscire dalla Sicilia per una doppia ragione. Da una parte, l’inattività dei soldati durante la pace poteva essere mortifera, per loro e per i siciliani; dall’altra, la sua precaria posizione personale, giacché volevano consegnarlo al Papa, ossia al Tempio. Quindi comunicò la sua idea al re Federico – il quale lo incentivò a tentar di attuarla – e lo mise al tanto del suo piano di inviare due messaggeri specificando le sue condizioni ad Andronico, necessitato di aiuto contro i turchi che gli avevano sottratto più di trenta giornate delle sue terre: matrimonio con una donna della famiglia imperiale, nomina a Megaduca e quattro salari anticipati

– di quattro once mensili per ogni cavaliere e di un’oncia per ogni peone – a quanti avrebbe portato con sé e per tutto il tempo che avrebbe deciso fermarsi. Federico si mostrò d’accordo e offrì porre a disposizione di Roger dieci galee e due legni per il trasporto della spedizione.» Anche sulla reale composizione del corpo di spedizione sussistono alcune divergenze. Muntaner, indica: «Il grosso delle forze era costituito da 1500 cavalieri, 4000 almogavari, 1000 peoni ed in più i marinai, che furono trasportati su 36 navi, tra galee e legni.» Paquimeres parla di 8000 uomini trasportati da una squadra navale alleata che si unì alle 7 navi proprie di Roger, ed assicura – come del resto anche Gregorás, che però parla di un totale più ridotto di solo 2000 uomini – che il grosso dei combattenti, escludendo i marinai, era costituito per una metà da catalani e per l’altra metà da almogavari: un corpo di peoni combattenti duri e rozzi con un equipaggiamento militare molto semplice e vestiti selvaggiamente, forgiatisi nella lotta di frontiera contro i musulmani nella Spagna centro-occidentale, in origine oriundi dei monti d’Aragona e Catalogna che al tempo della compagnia di Roger de Flor erano ormai mercenari spagnoli d’ogni provenienza territoriale. Dopo i festeggiamenti di benvenuto, da apo-

LE IMMAGInI Ruggero Flores da Brindisi Biografia degli uomini illustri del Regno di napoli ornata dei loro rispettivi ritratti compilato da diversi letterati nazionali napoli, 1819 Presso niccola Gervasi 22

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teosi a detta di Montaner, questi racconta che già durante la celebrazione solenne del matrimonio tra Roger e Maria di Bulgaria ci fu un primo grave fatto di sangue, quando un gruppo di genovesi giunse al palazzo di Blanquernas in atteggiamento provocatorio e fu, quindi, immediatamente contrastato dai soldati di Roger: «30 cavalieri e un numero non precisato di almogavari uccisero 3000 genovesi.» Gregorás non riporta questi fatti, mentre Paquimeres relata quella confrontazione in tutt’altri termini: «Quando la compagnia di Roger era in procinto di partire verso Cícico, a circa 300 km all’ovest di Costantinopoli, sopraggiunsero i genovesi per riscuotere il denaro che, con la garanzia dell’imperatore, avevano prestato a Roger per il noleggio di alcune delle navi impiegate per trasportare il corpo di spedizione. L’imperatore rifiutò di pagare e si produsse una lotta abbastanza seria, tanto che Andronico dovette inviare un alto funzionario come mediatore, ma gli almogavari non volendo accettare mediazione alcuna, lo uccisero tagliandolo in due assieme al suo cavallo, per poi rifugiarsi nel vicino monastero di Kosmidiòn perseguiti e quindi assediati dai genovesi.» (1 - Continua)


SEConDA PARTE

di Gianfranco Perri i giunge quindi alle prime azioni effettive in chiave antiturca della Compagnia Catalana del condottiero brindisino Roger de Flor. E Muntaner così descrive gli eventi accaduti fino alla primavera del 1304: «La Compagnia da Cícico si dirige ad Artace per affrontare l’esercito turco, che dopo aver sconfitto il co-imperatore Mikele IX Paleologo figlio di Andronico, continuava a circolare insolentemente tutt’intorno vicino a Costantinopoli minacciando l’imperatore Andronico, che finanche poteva vederli. Il giorno successivo all’arrivo ad Artace, la Compagnia attacca e sconfigge clamorosamente i turchi, uccidendone 10000 dei fanti e 3000 dei cavalieri. Quindi, la Compagnia ritorna a Cícico dove gli almogavari si alloggiano presso gli abitanti della città, ai quali avrebbero pagato l’alloggio e tutto quanto consumato da novembre a fine marzo, che risultò essere per ognuno di loro pari all’incirca fino a quattro volte quello consumato dai soldati locali. Roger paga tutte quelle spese e, inoltre, consegna anticipatamente ai suoi almogavari quattro mesi del loro salario.» Gregorás, non descrive esplicitamente la batta-

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glia di Artace ma commenta: «Quando iniziò la lotta dei catalani contro i turchi, questi furono presi dal terrore e intrapresero una fuga precipitosa al vedere quel formidabile esercito, numeroso e dotato di armi e di esperienza guerriera.» Poi, raccontando quei primi mesi trascorsi dei catalani in Oriente, commenta con enfasi: «Il maltratto e le rapine ai greci di Cícico da parte degli integranti la Compagnia, i quali si servivano impunemente dei beni dei locali come se fossero di loro proprietà.» E Paquimeres, pur riconoscendo la vittoria sui turchi ad Artace, tende ad attribuirla essenzialmente ai greci e ad oscurarne l’importanza, enfatizzando al contempo, anche lui, l’indolenza e le malefatte degli avidi almogavari a Cícico: «La Compagnia s’installò all’interno della muraglia perpetrando azioni crudeli, accaparrando denari, sottraendo beni, mettendo le mani sulle spose dei greci e comandandoli come se fossero schiavi acquistati.» Le contradizioni, o quanto meno i differenti punti di vista tra gli autori, emergono anche a proposito della vittoriosa campagna condotta dalla Compagnia da aprile fino all’autunno del 1304 contro i turchi che, scacciati prima dalle isole di Lemnos, Lesbo e Quio, e poi dalle città di Magnesia, Filadelfia, Efeso, Ania e molte altre ancora, furono respinti fino alla remota ‘Porta di ferro’ uno stretto passo montagnoso al confine sudest


LE IMMAGInI Sopra una rappresentazione dell'assassinio di Ruggero Flores a Adrianopoli, disegno di anonimo, datato 1920. A sinistra i luoghi della campagna di Anatolia di Ruggero Flores. Sotto, il grande ammiraglio

dell’impero, e lì, presso Kibistra, furono sconfitti il 15 di agosto, morendone – secondo Muntaner – 18000. Tanto Paquimeres quanto Gregorás, oltre a non citare la pur fondamentale battaglia della ‘Porta di ferro’ e nonostante la chiara trascendenza della vittoria di Filadelfia, nuovamente sottraggono meriti all’azione degli almogavari. Paquimeres dice: «I latini, vincitori a Filadelfia, con la loro crudeltà e le loro sevizie non fecero nulla di degno.» E Gregorás scrive: «A Filadelfia ci fu una grande vittoria degli atroci latini, però tale impresa poté essere realizzata grazie all’aiuto divino per l’intercessione del vescovo Teolepto.» Muntaner, naruralmente, non allude alle riferite sevizie e atrocità delle operazioni di castigo contro le città passate al fianco dei turchi. Con rispetto alle ragioni del ritorno del Megaduca a Costantinopoli, Gregorás afferma: «Roger, da uomo esperto quale era, non considerò prudente proseguire la campagna senza prima procurarsi il denaro della cui scarsità aveva cominciato a soffrire gli effetti tra i suoi.» Mentre Muntaner e Paquimeres attribuiscono quella decisione di Roger alla esplicita richiesta, pervenutagli con numerose missive dell’imperatore Andronico, di portarsi in aiuto al figlio Mikele. Secondo Paquimeres: «La ragione per l’aiuto erano le difficoltà incontrate da Mikele nel cercare di respingere gli attacchi di Svetoslav.» E Muntaner spiega che l’aiuto a Mikele si doveva portare perché «Erano sorti problemi di successione a causa di alcuni tentativi di usurpazione del trono del regno di Bulgaria dopo la morte dello zar Ivan Asèn III, padre di Maria moglie di Roger.» Certo è che, inviato in ottobre il grosso dell’esercito a svernare a Gallipoli, Roger con 100 dei suoi più fidati cavalieri e con la moglie e la

sua famiglia politica, decise finalmente presentarsi a Costantinopoli dall’imperatore il quale lo riceve con manifesto piacere. Però, da un lato Mikele non sembra vedesse di buon occhio il ricevere soccorso dall’italiano, e dall’altro il problema della successione bulgara si era risolto. A quel punto poi, a proposito dei pagamenti arretrati alle truppe della Compagnia, erano andate creandosi tensioni tra Andronico e il condottiero brindisino, per colpa della decisione dell’imperatore di pagare con una moneta deprezzata per cercar di sopperire alla critica situazione in cui versava l’erario. In quel momento giunse a Costantinopoli il nobile spagnolo Berenguer de Entenza e Roger lo presentò all’imperatore quale uomo di sua fiducia e militare eccezionale, meritevole pertanto d’esser nominato Megaduca. Andronico acconsentì, proponendo nominare Megaduca Berenguer e nominare Cesare Roger, stabilendo il seguente 10 aprile 1305 per la concessione dei due titoli. Raggiunto così l’accordo con l’imperatore, alla fine di dicembre Roger, con la paga per i suoi soldati, raggiunse Gallipoli per rimanervi fino all’aprile dell’anno seguente quando, come convenuto, ritornò sul Bosforo dove fu nominato ufficialmente Cesare e dove convenne con l’imperatore di lasciare Gallipoli e l’Europa, per andare a stanziarsi con tutta la sua Compagnia in Asia minore. Poi Roger rientrò alla sua base di Gallipoli e prima di lasciarla per il suo nuovo destino, racconta Muntaner: «Inspiegabilmente prende una decisione sbagliata, decidendo passare prima da Adrianopoli per accomiatarsi da Mikele. E lo fa nonostante il parere contrario della famiglia e del Consiglio della Compagnia, che era già stato convinto dalla famiglia dell’invidia e malevolenza del co-imperatore Mikele nei riguardi di Roger. Lasciati quindi a Gallipoli Berenguer come capo e Rocafort come siniscalco, Roger sale verso Adrianopoli con 300 cavalieri e 1000 almogavari. Mikele lo riceve con falsa allegria e, comunque, con gli onori dovuti al rango di Cesare e lo intrattenne durante sette giorni, nel trascorso dei quali fa chiamare Girón capo degli alani e Melek capo dei turcopoli – figli di turchi di madre greca con-

il7 MAGAZINE 29 21 gennaio 2022


CULTURE vertiti al cristianesimo – che in totale portano con sé 8000 armati. All’ottavo giorno, Mikele invita Roger a un banchetto alla fine del quale entrano in scena gli alani e i turcopoli che ammazzano Roger e tutti i latini presenti, eccetto tre dei cavalieri riusciti a fuggire trincerandosi in un campanile e difendendosi con bravura, per cui furono perdonati dal co-imperatore Mikele.» Il racconto che ne fa Gregorás è succinto: «Roger sale da Mikele con 300 uomini scelti, per chiedergli la consegna delle risorse annuali che gli erano state assegnate, e va disposto a minacciare rappresaglie. Di fronte a ciò il co-imperatore si irrita e, accecato dall’ira, ordina ai soldati di decapitare sul posto Roger e alcuni di quelli che lo accompagnavano, visto che la maggior parte era fuggita a nascondersi dal pericolo riuscendo ad avvisare in tutta fretta quelli che erano rimasti a Gallipoli.» Paquimeres, invece, così dettaglia: «Roger, portando con sé circa 150 uomini di sua fiducia, salì ad Adrianopoli, ufficialmente per salutare, omaggiare e accomiatare Mikele, il quale era in procinto di tornare in Anatolia. Però, nel fondo, pretendeva spiare le forze presenti intorno al co-imperatore, greci, alani e turcopoli. Roger giunse da Mikele il giorno 23 di aprile e fu accolto in maniera appropriata, come logico, nella residenza imperiale e il giorno seguente entrarono in Adrianopoli assieme. Gli alani, che stavano osservando da molto vicino l’ospite italiano – specialmente il loro capo Georgos che aveva perduto suo figlio a Cícico per mano degli almogavari – quando lo videro uscire dalla residenza imperiale lo attaccarono. Roger cercò di rifugiarsi presso l’imperatrice che si trovava presente, ma ricevette un fendente che da dietro lo trafisse da parte a parte, ricoprendolo di sangue. E Georgos saltò su di lui, che soccombé in mal modo, o meglio, disonoratamente, perché ‘chi di pugnale uccide, di pugnale muore’. D’immediato furono bloccati senza che opponessero alcuna resistenza gli uomini che accompagnavano Roger e, senza che neanche capissero cosa fosse accaduto, furono imprigionati. Gli alani, quindi, corsero a caccia degli altri catalani uccidendone quanti più possibile, mentre l’imperatore Mikele, fuori di sé per l’accaduto, solo cercava notizie dell’imperatrice fino ad accertarsi della sua incolumità. Le notizie giunsero presto a Gallipoli e, preoccupati per la propria salvezza, gli uomini della Compagnia uccisero in massa i greci lì presenti senza neanche risparmiare i loro bambini e quindi, si trincerarono nella fortezza.» Ebbene, fin qui i relati di Muntaner e degli autori greci messi scarnamente a confronto. Cosa se ne può dedurre? Bisogna cominciare col premettere che certa imparzialità e finanche faziosità già segnalate all’inizio di questo articolo nei riguardi del cronista catalano, quanto meno devono essere in qualche misura attribuite anche ai greci, costantemente preoccupati di esimere di colpe i loro imperatori, LE IMMAGInI Manoscritto della Crònica de Ramon Muntaner

anche al costo di incorrere in mal celate contradizioni, oltreché in reiterate clamorose omissioni. Poi però, è forse preferibile lasciare ad ognuno la piena libertà di giudicare – in base alla lettura e alla personale interpretazione dei diversi racconti – l’uomo, il frate, il navigante, l’avventuriero e il condottiero che fu il latino, o l’italiano, o il brindisino; Rüdiger, Roger o Ruggero; Blum, Flor, o Flores. Interessante è comunque riflettere sul significato e sul peso storico di quell’azione militare dell’ancor giovane intraprendente brindisino. Su quello che comportò e su quello che avrebbe potuto comportare se l’epilogo non fosse sopraggiunto così troppo precocemente, anche alla luce delle vicende di cui per vari anni ancora dopo la morte del comandante Roger, si fece protagonista la sua Compagnia. Rimasta per circa tre anni di base a Gallipoli, compì innumerevoli devastazioni nella regione dell’Ellesponto, azioni che passarono alla storia come ’la vendetta catalana’ per poi, di fronte all’impossibilità di prendere Salonicco, scendere verso Sud per stabilirsi in Grecia, nei ducati aragonesi di Neopatria e Atene, permanendovi fino al 1388 e 1390, rispettivamente. «Un fatto storico, comunque, realmente notevole: un esercito o, meglio detto, una sola

compagnia composta da poco più di 8000 mercenari in tutto – comandata da un ex frate templare brindisino – si ritrovò in condizioni, quanto meno materiali, se non ideologiche, di poter espellere la dinastia dei Paleologo ed insediare al suo posto sul trono imperiale bizantino, la casa reale d’Aragona, oppure quella d’Angiò.» [J.L. Calvo Martínez, 2021] Un fatto storico che, in ogni caso, certamente frenò l’avanzata dei turchi e di conseguenza, molto probabilmente, ritardò la caduta di Costantinopoli – poi materializzatasi il 29 maggio 1453 – in mano agli ottomani guidati del sultano Maometto II, con la conseguente epocale fine dell’impero romano d’Oriente. Un fatto storico che se fosse stato diversamente e con sagacia guidato dall’imperatore Andronico avrebbe addirittura potuto sconvolgere il corso stesso della storia. Come? Inviando l’allora potente Roger – anziché farlo uccidere o favorirne l’uccisione – a mantenere i turchi relegati nei loro antichi confini, aldilà della ‘porta di ferro’ fuori dai limiti sudorientali dell’Anatolia e, con Michele, proteggendo dai bulgari quelli a nordovest. Forse, grazie all’intrepido brindisino Roger de Flor, Costantinopoli non sarebbe mai caduta. (2 - Fine)

il7 MAGAZINE 30 21 gennaio 2022


L’AnnIVERSARIo

Trent’anni fa la morte dell’attore brindisino Gianni Rizzo

Dalla particina in un film con Macario sino all’ultimo ruolo nel Nome della Rosa di Gianfranco perri ncora molto giovane, ventenne, Gianni Rizzo decise di abbandonare la sua città natale, Brindisi, per seguire quelle segrete aspirazioni che lo avevano invaso sin da bambino. Raggiunse Roma con poche lire in tasca ed un solo vestito, e lì trascorse un po’ di anni veramente difficili, anzi durissimi, con le tante difficoltà da affrontare e superare tutti i santi giorni, e sempre rincorrendo l’obiettivo di diventare attore. Gli era riuscito solamente di avere una piccola parte in “Macario contro Zagomar” diretto da Giorgio Ferron, un film del 1944 quando, finalmente nel 1948, arrivò il suo vero esordio sul grande schermo: “Città dolente” il suo primo film da attore protagonista, pur se ancora perfettamente sconosciuto. La «Scalera Film» aveva in preparazione quel film per la regia di Mario Bonnard e si cercava un attore che avesse ‘una maschera mobile con un temperamento versatile’. Gianni era uno tra i

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tanti aspiranti a quel ruolo e timidamente si presentò al direttore Bonnard il quale, dopo averlo ben scrutato ed averne studiato meticolosamente le foto, gli chiese i suoi antecedenti di attore. Acquisita quindi la quasi assoluta inesperienza dell’aspirante, giunse comunque a concludere che, forse, era quello che stava cercando per il suo film, e lo convocò per un provino all’indomani. Il produttore Scalera, dopo aver visionato il provino, invece, giudicò che quella nuova scoperta di Bonnard fosse troppo giovane per interpretare un personaggio così difficile e che pertanto sarebbe stato più opportuno, prima di quel passo così importante, cercar di ‘lanciare’ in un qualche modo meno azzardato quel potenziale attore. Per Gianni Rizzo trascorsero lunghi e lenti otto giorni in un clima di tesa incertezza finché, dietro l’insistenza del regista Bonnard, si procedette ad effettuare un secondo provino e poi… Gianni Rizzo fu scelto! Da quel momento in avanti, i film in cui l’attore brindisino partecipò si cominciarono a rincorrere numerosi: ben altri 14 nei soli primi cinque anni di formale carriera: “Totò le mokò, Al diavolo la celebrità, Tre passi al nord, Il bivio, Cuore di Roma, La ragazza

il7 MAGAZINE 30 28 gennaio 2022


LE IMMAGInI L’attore brindisino Gianni Rizzo, scomparso 30 anni fa. In basso in “Serenata amara” del 1952 , nella pagina accanto nelle vesti del messo papale ne «il nome della Rosa»

di Trieste, Il moschettiere fantasma, Una madre ritorna, L’esca, Una croce senza nome, Serenata amara, La vita di Giacomo Puccini, Ho scelto l’amore e, Carmen proibita”. In tutta la lunga carriera poi, la filmografia di Gianni Rizzo avrebbe sommato fino a quasi una settantina di film, oltre ad alcune serie televisive e lavori di prosa per la Rai. Il suo ultimo film, nel 1986, fu nientemeno che “Il nome della rosa” di Jean-Jacques Annaud, nel ruolo del messo papale recitato al fianco di Sean Connery. Oltre alla fondamentale ed indispensabile bravura d’attore, per Gianni Rizzo la sua semplicità e schiettezza di carattere assieme al suo animo umile e generoso furono motivi primordiali del suo successo nel complicato mondo della cinematografia. Mentre, paradossalmente, fu il dover dar vita a personaggi cinici e malvagi dall’espressione truce diametralmente opposta a ciò che egli era nella vita quotidiana, che finì col contribuire a rivelare e risaltare quella sua bravura d’attore al doversi cimentare in interpretazioni difficili e sempre diverse, pur se accomunate dalla ‘cattiveria’ propria di ognuno dei suoi tanti personaggi. Fu quella una caratteristica che gli doveva rimanere impressa per buona parte della carriera, anche se poi negli anni della maturità Gianni Rizzo riuscì a liberarsi da quel cliché, con la recitazione in film del cinema d’autore lavorando con registi di grande fama quali, per citarne alcuni, Roberto Rossellini, Alberto Bevilacqua, Pier Paolo Pasolini e Pietro Germi. In una intervista all’attore ancor giovane, se pur già affermato, il giornalista brindisino Mario Consales lo definì “ragazzo semplice, attore complesso”. E poi, maturo, fu indubbiamente uomo dalla fulgida personalità d’attore: una professione che esercitò sempre, per più di quarant’anni, con grande serietà e professio-

nalità, con tanta passione e con totale dedicazione. Gianno Rizzo era nato a Brindisi il 5 aprile del 1924 e si era diplomato all’Istituto Magistrale. Poi, a Roma si era anche laureato in Lettere e Filosofia, ma da subito, in cuor suo aveva già scartato decisamente l’idea dell’insegnamento perché aveva un solo desiderio ed una sola ambizione: fare l’attore. Negli ultimi tempi convisse a Roma con una nobildonna. Poi, le sue condizioni di salute si aggravarono, il suo fisico si appesantì e dovette sottoporsi giornalmente a dialisi, fino alla morte che lo colse il 4 febbraio del 1992.

il7 MAGAZINE 31 28 gennaio 2022


IL RACConTo

Da Fiume al Tommaseo: una storia brindisina di 75 anni fa

Chi ha vissuto il dramma della deportazione ha trovato nel Collegio navale e nella nostra città un punto di ripartenza. E ha conservato un ricordo che non è mai svanito di Gianfranco perri icuramente molti dei giovani brindisini d’oggi hanno sentito parlare del Collegio Navale, se non altro perché una facciata del suo rudere continua a mostrarsi a chi percorre in auto la salita che dalla via Provinciale per San Vito porta al Casale, e magari anche perché con monotona periodicità ritornano alla ribalta delle cronache cittadine tutte le problematiche legate al “cosa fare” di quella struttura fatiscente che con il suo grande spazio verde tutt’intorno occupa un’invidiabile posizione splendidamente affacciata sul seno di ponente del porto. E, forse tra i non più giovani, alcuni brindisini sanno anche che quella che a suo tempo fu una bellissima struttura, prima di essere stata fino a 45 anni fa sede dell’Istituto Nautico Carnaro, dopo la fine della seconda guerra mondiale ospitò durante molti anni centinaia – più di 500 in tutto – di studenti profughi, provenienti dalle regioni del nordest italiano passate alla Jugoslavia, dalle città di Fiume, Pola, Lussinpiccolo, Zara e molte altre. Però, non credo siano in molti, tra quei giovani brindisini d’oggi, che conoscono con

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qualche dettaglio significativo quella non tanto remota pagina, relativamente breve e pur umanamente intensa, di storia della loro città. Non vuol essere certo un rimprovero questa costatazione, quanto, invece, vuol essere uno sprone per tutti loro, i giovani, a sco-

prirla quella pagina di storia brindisina densa di importanti avvenimenti e colma di persone speciali e soprattutto di sentimenti, semplici ed al contempo forti. Anche se in varie sedi e circostanze, sia io che altri appassionati cultori della storia brin-


LE IMMAGInI Qui sopra una veduta aerea del Collegio Tommaseo, a sinistra prima dell'alba - pronti per la lezione di navigazione a vela

disina abbiamo già avuto modo di scrivere e raccontare fatti episodi e personaggi in qualche misura legati alla storia del secondo dopoguerra cittadino ed in particolare a quella del Collegio Navale – in origine, dalla sua fondazione nel 1937, della gioventù italiana del littorio GIL e poi, per tre anni dal settembre del ’43 al luglio del ’46, sede dell’Accademia Navale – credo possa essere interessante ed utile divulgare, pur se con la necessaria sintesi, il racconto di un protagonista di quella nostra pagina di storia, il racconto di uno di quei tanti studenti “li Giuliani”. Spero che in questo modo, attraverso il racconto qui trascritto in maniera necessariamente non del tutto rigorosa – di fatto, solo uno dei numerosi racconti che su questa storia “anche un po’ brindisina” sono stati scritti da vari dei protagonisti [vedi il bel libro "Il ricordo più lungo: L'esodo nei ricordi di 30 Muli del Tommaseo" di Ennio Milanese] – si possa meglio trasmettere oltre alla storia in

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4 febbraio 2022

se, anche parte del significato umano di quegli eventi che per molti aspetti furono tragici e che per tanti altri costituirono il seme di un nuovo e migliore futuro. «…Per noi studenti fiumani, finita la guerra e con la nostra città sotto la rigida occupazione jugoslava, sorse il problema della non validità che avrebbero avuto in Italia i nostri

studi e perciò, avendo saputo che lo Stato italiano aveva disposto gratuitamente per gli studenti profughi alcuni collegi e convitti, le nostre famiglie cominciarono ad interessarsi di come farci arrivare in Italia. L’impedimento principale era costituito dalla chiusura dei confini, che erano ben controllati dalla polizia jugoslava. Reneo Lenski e Agostino Sirolla passarono nascosti in un camion, altri attraversarono a piedi dai monti e altri ancora cercarono l’aiuto dei ferrovieri. La strada che avrei dovuto seguire io la stava studiando un amico del mio papà signor Vittorio Muhvich, messo esattoriale al Comune: dovevo recarmi sui binari travestito da operaio con una pala in mano ed a poco a poco, facendo finta di spalare, dovevo avvicinarmi al confine e quindi al momento giusto sgattaiolare. Al solo pensarci mi veniva la tremarella e, fortunatamente per me, il piano cambiò. Per le feste di Natale, Elio Chiavuzzo e Argeo Monti erano rientrati incautamente a Fiume provenienti dal Collegio Tommaseo di Brindisi, che era stato predisposto grazie al diretto interessamento di Padre Rocchi, del mio professore allo Scientifico Pietro Troili, di Padre Tamburini di Brescia e del capitano della marina mercante – brindisino ma fiumano di adozione – Giuseppe Doldo. Entrambi studenti furono bloccati dalla polizia perché i documenti degli Alleati che erano serviti loro per andare in Italia non erano più considerati validi dalle autorità jugoslave e gli fu applicata la “Propusniza”, il Foglio di via emesso dal Comune con cui entro 24 ore venivano cacciate dalla città le persone ‘indegne’. Saputolo, immediatamente mio padre mise in moto il signor Muhvich e così, anch’io fui ‘cacciato’ dalla città con un Foglio di via del Comune. Evviva! avrei potuto riacquistare la libertà insieme al mio vicino di casa Umberto Smoquina, Toti. Era il 1° febbraio 1947, esattamente 75 anni fa. Con in tasca 500 lire, che a Fiume erano un capitale e che in Italia in


IL RACConTo LE IMMAGInI Qui a destra la V Scientifico del Tommaseo – luglio 1947. Sotto la squadra di calcio del Tommaseo – 1947

preda all’inflazione valevano molto meno, lasciavamo per sempre la nostra città, ma non pensavamo a quello, solo desideravamo che alla frontiera, dopo i controlli di polizia, quel pachiderma sui binari si muovesse, e lo fece: prima lentamente ma poi con baldanza. Sembrava che avesse percepito la nuova aria di libertà, ed in quell’aria vedemmo nella campagna istriana sventolare un gruppo di bandiere tricolori. Ci mettemmo a singhiozzare perché finalmente eravamo veramente liberi ed allora pensammo alle nostre famiglie che a Fiume erano rimaste in ansia per noi. “Quando arrivate a Trieste – ci avevano detto – mandateci immediatamente una cartolina con solo saluti e noi capiremo”. E così facemmo. Quelle bandiere italiane di benvenuto, che qualcuno aveva messo ben in vista in un territorio ancora sotto Amministrazione Alleata, furono per noi come un primo abbraccio della Patria. Andammo a Roma sicuri di essere inviati da lì a Brindisi, ma i posti al Tommaseo erano ormai tutti occupati e ci dissero di attendere per una sistemazione in un convitto a Lodi. E così restammo a Roma dormendo sui vagoni in sosta a Termini, mangiando con i buoni dell’assistenza comunale e pontificia, aiutati infine da una generosa famiglia fiumana, Oscar Boico con moglie e figli – Edo e Liliana – che erano nel Campo profughi di Trastevere. Era trascorso più di un mese e, miracolosamente, una mattina mentre per corso Umberto vendevo il settimanale “Difesa Adriatica” per racimolare qualche lira, incontrai nientemeno che il mio professore di lettere al liceo, Pietro Troili, che era il Rettore del “Tommaseo”. Incredibile incontro: ci disse che si erano appena liberati due posti (?) e ci fece mandare entrambi e immediata-

mente a Brindisi, a distanza di due settimane uno dall’altro. Sembrava non finisse mai quel viaggio da Roma a Brindisi con una vaporiera che sbuffava e il caldo che aumentava mentre si scendeva verso il Sud. Il treno si alternava con percorsi da diretto e percorsi da accelerato, che erano la maggioranza, ma finalmente la stazione di Brindisi apparve. Mi dissero che per l’Accademia – così i brindisini chiamavano il Collegio perché dal 1943 al 1946 aveva ospitato gli Allievi dell’Accademia Na-

il7 MAGAZINE 10 4 febbraio 2022

vale di Livorno – dovevo fare una mezz’ora a piedi. Arrivato che fui, mi presentai in Segreteria e mi fu assegnato il numero di matricola 322. Fui accompagnato nella camerata dove mi venne assegnato un letto e un armadietto in cui sistemai il corredo collegiale, consistente nella divisa d’ordinanza, divisa interna, pigiama, asciugamani, spazzolino e dentifricio, eccetera. Il Collegio era silenziosamente vuoto perché gli Allievi erano a scuola. All’interno del Collegio c’era lo Scientifico, il Nautico e le Scuole Medie, mentre per Ragioneria, Magistrali, Classico e Geometri, gli Allievi dovevano recarsi in città. Feci un giro e vidi l’imponenza di quella struttura: c’era un campo di calcio regolamentare, campi da pallavolo e pallacanestro, la palestra ben attrezzata, una canottiera e una chiesetta per le funzioni domenicali. Nel grande cortile interno infine, giganteggiava l’albero di manovra. All’ora di pranzo mi incontrai con la “mularia” del Collegio e fu tutta una festa perché mi sembrò di ritrovarvi mezza Fiume studentesca. La mensa era quella che poteva essere tenendo conto che il Ministero passava 250 rette mentre di Allievi ne eravamo fino a 330, in abbondante soprannumero perché il generoso Rettore Troili non se l’era sentita di rifiutare l’ammissione a quei più di 70 studenti che alla spicciolata si erano presentati diret-


tamente a Brindisi: “dove mangiavano e studiavano in 250 potevano mangiare e studiare anche in 320” – asseriva il prof. Troili. Quindi, la ‘boba’ era scarsa, ma per tutti noi interni del Collegio il problema era lo studio non certo la pancia. Era metà marzo e finalmente ripresi a frequentare la mia Quinta Scientifico interrotta a Fiume. La famiglia lontana, la terra perduta, la fame, l’impegno a far tutti, grandi e piccoli, il nostro dovere di studenti, sono stati gli ingredienti che ci hanno unito come fossimo stati tutti veri fratelli. E i piccoli copiavano il comportamento da noi grandi, mentre l’educazione appresa dai nostri Padri ci faceva da guida a tutti. Nei tempi liberi della ricreazione ci riunivamo nel cortile sotto l’albero di manovra e cantavamo in coro le canzoni delle nostre terre. Quando andavamo in libera uscita in città, a Brindisi, in divisa e in fila per sei, i brindisini ci guardavano con ammirazione e affetto. In testa stavamo i Muli più grandi per finire con i Muletti delle Medie, che si dovevano sforzare di tenere il passo dei grandi con il petto ben in fuori. Alla periferia di Brindisi, la gente stava seduta fuori la porta delle case e si chiamavano l’un l’altro per godersi lo spettacolo di noi Allievi, “li Giuliani”, che passavamo marciando e cantando. Fu così che a Brindisi si formò una sana e preparata gioventù, con le idee chiare per il proprio futuro. Comandanti di nave e Direttori di macchina, Dottori, Ragionieri, Primari di Ospedale, Generali, Ambasciatori, Magistrati, Scienziati della Nasa, Esploratori dell’Antartide, Artisti, ed anche… “Eroi”. Io fui Allievo solo dal marzo all’agosto 1947 fin tanto conseguì la Maturità Scientifica e siccome la mia famiglia era ancora a Fiume, il nostro Rettore mi propose di rimanere come Istitutore e vi rimasi sino al 1951. Vari Muli divenimmo Istitutori: ricordo, tra gli altri, Ferruccio Kniffitz, Aldo Marzona, Romano Lucich, Armando Sardi, Marino Callochira. Lo stipendio mensile era di Lire 12.000, con in più il vitto e l’alloggio. Uno dei miei tutorati era Fino Donato, un ragazzo d’oro molto esuberante e pieno di vita, benvoluto da tutti, era molto amico dell’Allievo Sergio Endrigo. Mi piaceva molto la sua lealtà e sincerità; lo feci Caposquadra e rimasi molto soddisfatto per come manteneva la disciplina. Finite le Nautiche, Donato guadagnò l’imbarco da Comandante sulla nave cisterna “Ugo Fiorelli” che prese fuoco al largo di Gela in Sicilia. Tre dei suoi uomini finirono intrappolati nella stiva e lui si gettò dentro per salvarli, ma fu tradito dal fumo e perì con gli altri tre. Era Ferragosto e i funerali si svolsero a Rio Maggiore nelle 5 Terre. Malgrado il caldo soffocante, andai con il mio doppiopetto bleu camicia bianca e cravatta per rispetto del mio caro Allievo diventato “eroe civile”. Quel coraggioso Comandante si era formato al “Tommaseo”. La scuola del “Tommaseo” è stata anche questo…»

LE IMMAGInI Da sinistra il Capitano prof. Giuseppe Doldo e il Rettore prof. Pietro Troili

E come non ricordare, ancora una volta, anche l’altro “eroe” del Tommaseo, l’eroe militare Antonio Varisco «…era nato a Zara il 29 maggio del 1927, diplomatosi nel 1948 al Marconi di Brindisi entrò nell’Arma dei carabinieri nel 1951. Da tenente colonnello comandava il Reparto Servizi Magistratura di Roma quando fu assassinato dalle brigate rosse il 13 luglio del 1979. Quella mattina, da un’auto che lo seguiva con 5 persone a bordo e che poi si affiancò alla sua vettura, mentre venivano lanciati alcuni fumogeni spuntò un fucile a canne mozze da cui furono esplosi 18 colpi che l’uccisero. L’omicidio fu da subito

rivendicato dalle brigate rosse che annunciarono che Antonio Varisco era stato ucciso quale simbolo dello Stato, poiché ex collaboratore del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa ed elemento di raccordo tra la magistratura, le forze dell’ordine e le carceri. Nel 1982, il brigatista romano Antonio Savasta, si proclamò autore dell’attentato e nel 2004, anche Rita Algranati, coinvolta nel rapimento di Aldo Moro, confessò la sua partecipazione all’omicidio. Antonio Varisco fu poi insignito della Medaglia d’oro al valore civile…» [Perri Gianfranco “Quarant’anni fa il colonnello Antonio Varisco fu ucciso dalle br: un eroe anche brindisino” - il7 MAGAZINE n.107 del 19 luglio 2019] E come non dedicare alcune righe anche al nostro benemerito concittadino, Giuseppe Doldo, citato proprio


IL RACConTo LE IMMAGInI Rudi - a destra - e Toti a Roma nel marzo del 1947, sotto Rodolfo Decleva qualche anno fa

all’inizio del racconto. «…Brindisino di nascita – 1895 – e fiumano di cuore, al termine della Grande guerra, si recò a Fiume partecipando all’epopea dannunziana e scelse poi di radicarsi in quella città dove svolse varie attività commerciali e industriali: si occupò di pubblicità sonora per la radio e negli anni ’20, su incarico di Guglielmo Marconi, coordinò la costruzione della prima stazione radio della Fiumana Radiocomunicazioni, della quale lo stesso Marconi fu presidente. Era, infatti, esperto di comunicazioni marittime e di tale materia divenne docente nell’Istituto Nautico di Fiume. Nel 1946, anche Giuseppe Doldo fu costretto all’esodo e, abbandonata Fiume con ogni suo avere, ritornò alla sua città natale. A Brindisi fu da subito professore di Comunicazioni marittime nell’Istituto Tecnico Nautico, che funzionava nel Collegio Navale come sezione staccata dell’Istituto Nautico di Bari, e s’impegnò in prima fila a che l’Istituto diventasse autonomo e, quindi, fosse intitolato “Carnaro”. Fu Giuseppe Doldo il grande sostenitore degli esuli giuliano-dalmati in Brindisi, e poi in Puglia. Si prodigò in ogni modo per alleviare le condizioni di vita dei profughi affluiti nella sua città e si impegnò con slancio e abnegazione per trovare lavoro e casa a molti di loro. Presso il Comune di Brindisi s’interessò affinché si intitolassero alcune delle nuove vie del rione Commenda

alle città dell’Istria, del Carnaro e della Dalmazia: viale Carnaro, via Pola, via Parenzo, via Fiume, via Cherso e piazza Dalmazia, ne sono esempio. Negli anni ‘50 promosse la costruzione, nella Commenda, della parrocchia di San Vito martire patrono e protettore dei fiumani. Il Comune di Zara in esilio gli conferì la medaglia d’oro per aver ottenuto l’intitolazione di una via di Brindisi a Don Munzani, ultimo arcivescovo italiano di Zara, morto a Oria, e per aver provveduto alla sua tumulazione nella chiesa della Madonna di Loreto nel cimitero di Brindisi. A 70 anni la-

sciò la scuola, ricevendo la medaglia d’oro per 45 anni di insegnamento. Poi il presidente della Repubblica, Saragat, lo nominò Grande Ufficiale al Merito della Repubblica. Nel novembre del 1979 Giuseppe Doldo morì a Brindisi e l’Amministrazione della città deliberò intitolare una via cittadina a suo ricordo.» [Perri G. & Martinese M. “i100 personaggi dell'odonomastica di Brindisi che attraversano tutta la storia della città” Lulu.com, 2017] Ma è tempo adesso, di rivelare anche il nome del protagonista-autore del racconto, che ben si potrebbe intitolare “Da Fiume al Tommaseo: una storia anche brindisina di 75 anni fa”: Rodolfo Decleva, Rudi, nato a Fiume 93 anni orsono, l’8 gennaio del 1929, e dal 1954 residente a Genova. All’esame di maturità scientifica, a luglio del ‘47, Rudi conobbe un sergente dell’aeronautica in servizio all’aeroporto di Brindisi. Anche quel militare conseguì diplomarsi, e nel mese di settembre si rincontrarono per caso e si scambiarono qualche frase che consentì al sergente di sapere che Rudi non si era iscritto all’università per mancanza del denaro necessario per la matricola e si meravigliò commentando che le immatricolazioni sarebbero scadute a giorni, il 30 di quello stesso mese. Ebbene, il giorno seguente Rudi si vide recapitare in Collegio una busta contenente 7.500 Lire, quelle necessarie per pagare la prima rata di immatricolazione all’Università, e così si sentì in obbligo di iscriversi e il giorno seguente prese il treno per Bari alle cinque del mattino, impiegando ben quattro ore per compiere il percorso. Quell’aviatore era il Sergente maggiore Antonio Meloni, di Nuoro. «…Quel gesto generoso del Sergente Meloni mi ha accompagnato per tutta la vita e non solo mi sono sdebitato con lui, ma non ho più potuto voltare via la testa di fronte ad una mano che mi chiedeva aiuto. Nell’anno 2009 potei fi-


LE IMMAGInI Sopra “In fila per sei” dal Tommaseo verso Brindisi in libera uscita – 1947, sotto 25º Raduno dei Muli del Tommaseo Colle Isarco (BZ) - settembre 2010, Cerimonia a ricordo dei compagni deceduti con lapide e copia del Monumento al Marinaio

nalmente concludere totalmente il mio debito di gratitudine verso Antonio Meloni quando consegnai al Comandante dell’Aeroporto di Brindisi una Targa a ricordo del generoso gesto compiuto dal Sergente Meloni nel 1947 in forza presso quell’aeroporto…». Nel 1951 i genitori di Rudi poterono finalmente venire in Italia e furono inviati al Campo profughi di Barletta. Erano trascorsi quattro lunghi anni dal suo arrivo a Brindisi e così Rudi decise di interrompere la sua vita “vissuta al Tommaseo” e partire per ricongiungersi con la famiglia. Lo attendevano altri tre anni complicati e per molti aspetti ben più duri di quelli trascorsi al Tommaseo di Brindisi e finalmente, nel 1954 Rudi si laureò in Economia e Commercio, giusto in tempo perché un mese dopo chiuse del tutto il Campo profughi di Barletta. Laureatosi, Rudi iniziò a lavorare presso la Camera di Commercio di Genova, avviando una lunga carriera che si sarebbe rivelata brillante, intensa e fruttifera. Fondò il Centro Regionale Ligure per il Commercio Estero divenendone direttore nel 1980 e per vari anni fu anche il Segretario italiano dell’Assemblea delle Camere di Commercio del Mediterraneo. Quale grande sportivo – era stato calciatore a Fiume a Brindisi e a Barletta – ed appassionato di vela, Rudi è stato atleta dirigente e collaboratore della Federazione Italiana Vela e poi, per più di 20 anni, anche giudice internazionale. E per i suoi meriti sportivi, nel 1995 gli fu conferita dal CONI la “Stella d’Oro”. Da scrittore e giornalista, inoltre, Rodolfo Decleva ha scritto numerosi articoli attinenti alla sua professione ed alla sua specializzazione, nonché è autore di alcuni interessanti libri di carattere storico-biografico, tra cui “Piccola Storia di Fiume 1847-1947” e “Qualsiasi Sacrificio. Da Fiume ramingo per l'Italia” Primo premio letterario Tanzella 2016, dalla cui lettura ho potuto stralciare alcuni degli episodi qui riportati. E a questo punto, vien quasi voglia di parafrasare proprio lo stesso Rudi: “Si è formato al Tommaseo. La scuola del Tommaseo è stata anche questo”. Una ultima nota: Nella millenaria Lazise, sulla costa veneta del Lago di Garda, l’11 ottobre 1986 si celebrò un incontro di ex Allievi del “Nicolò Tommaseo” di Brindisi ed in quell’occasione fu costituita

l’associazione “Libera Unione Muli del Tommaseo” rimasta molto attiva per ben più di trent’anni. A quell’incontro parteciparono in 157, tutti di nuovo emotivamente affiancati dopo 40 anni ed in presenza del professor Pietro Troili, primo e, per tutti loro, unico grande Rettore del Collegio. A cena, sui tavoli, una sorpresa attendeva gli ex collegiali: terrine ricolme di ceci lessati, gli stessi che per tanto tempo costituirono il piatto base al Collegio. «…Poi, nel profondo silenzio della notte di Lazise, illuminata da una luna un po' velata, si udirono solo le note dei canti e, forse sin laggiù, anche nella lontana Brindisi, giunse quell’eco che un tempo fu familiare tra le mura ormai in rovina del vecchio glorioso “Tommaseo” risvegliando fantasmi e folletti del passato...» [da un articolo del ‘mulo’ Bruno Brenco del 1º novembre 1986].

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IL RACConTo

La Grande guerra e l’epopea dei Mas: Brindisi negli anni ‘70 fu la loro ultima base I «Motoscafi Anti Sommergibili» furono una geniale invenzione degli ingegneri navali italiani per fronteggiare le offensive dei temibili sottomarini austriaci da Durazzo di Gianfranco Perri el mese di marzo 2016 si commemorò a Brindisi il centenario dell’arrivo dei MAS, i Motoscafi Anti Sommergibili, le cui siluette dovevano diventare familiari per tutti i brindisini di varie generazioni, i quali impararono a riconoscerle quando solcavano le tranquille acque del porto con il loro inconfondibile rombo che annunciava l’imminente sopraggiungere delle loro imponenti onde sulle rive delle spiagge cittadine, fino agli anni Settanta ancora tutte all’interno del porto. In quel 1916 - tempo di guerra - Brindisi era la sede del Comando superiore navale del Basso Adriatico retto dal contrammiraglio Umberto Cagni, e il mare Adriatico era infestato dai temibili sottomarini austriaci che, dalla loro base nel porto di Durazzo, scorrazzavano impunemente facendo strage di convogli civili e di mezzi militari navali italiani. La genialità degli ingegneri navali italiani era però riuscita a inventare e quindi a progettare con l’ingegnere livornese Attilio Bisio, fino a poi realizzare in poco tempo nei cantieri navali della Società Veneziana di Automobili

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Navali SVAN, una speciale barca torpediniera lignea, mossa da un motore a scoppio di 40 cavalli ed incredibilmente economica: velocissima e versatile, con duecento miglia di autonomia, fornita di un cannoncino da 75 mm e, soprattutto, di due potenti e letali siluri

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a tenaglia, costituendo un’arma che avrebbe potuto colpire il nemico con massima efficienza, in mare aperto così come nei suoi stessi porti. A Venezia – dove per l’acronimo MAS fu anche utilizzata la denominazione “Moto-


LE IMMAGInI Qui sopra MAS 1, in basso MAS 523 nel porto di Brindisi il 27 aprile 1945, nella pagina accanto MAS 9 rientrano a Venezia dopo l'affondamento della Wien l'11 dicembre 1917 un

barca Armata SVAN” dal nome della prima azienda che nel giugno 1915 produsse quelle speciali imbarcazioni militari – oltre ai primi due prototipi, MAS 1 e MAS 2, si misero rapidamente in cantiere altre unità, fino a costituire la prima squadriglia di otto MAS che fu affidata al tenente di vascello Alfredo Berardinelli con la missione di esplorazione, attacco e caccia ai sommergibili e agli altri mezzi navali nemici, sfruttando il grande potere offensivo e il fattore sorpresa che implicava l’impiego della nuova arma. Un’arma completamente sconosciuta al nemico il quale non ebbe mai un’idea esatta della sua effettiva potenzialità, tanto che talvolta gli attribuì anche qualità ben al disopra delle reali. Era il 28 marzo 1916 e l’Italia era entrata nel suo secondo anno di guerra al fianco degli alleati dell’Intesa contro l’impero austro-ungarico, quando il MAS 3, di solo 8 tonnellate e 15 metri, giunse da Venezia a Brindisi su di un carro ferroviario. Presto lo raggiunsero altri cinque e poi altri

6, fino a conformare con i 12 l’intera Flottiglia MAS con la quale Brindisi, affiancando le basi di Venezia e Ancona, divenne la base principale nel Basso Adriatico di quei mezzi navali che furono anche denominati Motoscafi Armati Siluranti: le “Streghe”, come confidenzialmente erano soprannominati dagli equipaggi, perché capaci di apparire

improvvisamente, assalire, colpire e allontanarsi velocemente, senza possibilità di essere intercettati dal nemico. Il 7 giugno di quello stesso anno 1916, il MAS 5 del comandante Berardinelli e il MAS 7 del comandante Gennaro Pagano di Melito, partirono dalla base di Brindisi e penetrarono la rada di Durazzo, affondando il piroscafo austriaco Lokrum di 1.000 tonnellate: le due piccole e fragili imbarcazioni furono rimorchiate fino alle vicinanze di Durazzo da due torpediniere protette al largo da quattro cacciatorpediniere francesi. Perlustrando la baia, i due motoscafi avvistarono un piroscafo, evidentemente carico, ed ognuno lanciò un siluro, colpendo entrambi il bersaglio, che era ancorato tra 150 e 250 metri di distanza. Fu quella la prima incursione di guerra dei MAS che provocò l’affondamento di una unità navale nemica. A terra il nemico non riuscì a capire quello che stava succedendo e i due MAS italiani ritornarono indisturbati al luogo di riunione che era stato prestabilito con le torpediniere e quindi, rientrarono alla loro base di Brindisi. Meno di venti giorni dopo, gli equipaggi di quei due stessi MAS, composti da dieci uomini ciascuno, partendo da Brindisi riuscirono a portare a termine un’altra missione nella notte tra 25 e 26 giugno, affondando, nella stessa rada di Durazzo, un altro piroscafo austriaco, il Sarajevo di 1.100 tonnellate. Mentre anche nell’Alto Adriatico i MAS si riempirono di gloria – nel dicembre del 1917, i due MAS 9 e 13 guidati rispettivamente, da Luigi Rizzo e Andrea Ferrarini, affondarono nella rada di Trieste la corazzata austro-ungarica Wien e danneggiarono la Budapest – nella base di Brindisi durante tutto l’anno 1917, i MAS furono principalmente impiegati nelle operazioni di vigilanza e caccia ai sommergibili austriaci operanti nel Basso Adriatico e nei servizi di polizia costiera in Albania. Il 1918 dei MAS si aprì con la mis-

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LE IMMAGInI Qui a destra la 42a Flottiglia -Taranto 1952, in basso MAS 523 nel porto di Brindisi il 27 aprile 1945

sione in cui partecipò con il MAS 96 Gabriele D’Annunzio, e che sarebbe stata celebrata come la “Beffa di Buccari”. Assieme al 94 e al 95, i tre MAS penetrarono nella baia di Buccari, a sud di Trieste, nella notte tra il 10 e l’11 febbraio 1918, con D’Annunzio Luigi Rizzo e Costanzo Ciano. Ed allora il vate coniò per tutti gli intrepidi MAS il motto: Memento Audere Semper - Ricorda Osare Sempre. A Brindisi, in quel 1918 affluirono i MAS di nuova generazione, più pesanti meglio armati e con motori più sicuri e più silenziosi, e così, nella notte tra il 12 e il 13 maggio, i MAS 99 e 100, comandati da Gennaro Pagano Di Melito e Mario Azzi rispettivamente, attaccarono un convoglio nemico e affondarono il grosso piroscafo austriaco Bregenz di ben 4.000 tonnellate. Nel corso di quella lunga Grande guerra ci furono numerose altre missioni dei MAS, di successo alcune e andate a vuoto altre e infine, proprio in coincidenza con il secondo anniversario della prima missione, il 10 giugno del 1918, il MAS 15 del comandante Luigi Rizzo, l’affondatore, affiancato dal MAS 21 del comandante Giuseppe Aonzo, partendo da Venezia affondò nelle acque di Premuda sulle coste dalmate, la portentosa corazzata austriaca Santo Stefano facendo entrare con quell’azione, i MAS italiani nella leggenda: Il capo di stato maggiore della marina austroungarica, ammiraglio Nikolaus Horthy, aveva pianificato un’incursione contro lo sbarramento navale di Otranto che ostruiva l’accesso al mare aperto alla marina asbur-

gica mantenendola confinata nell’Adriatico. E per quella missione, il 9 di giugno 1918 la squadra navale con le corazzate Szent István e Tegetthoff, salpò da Pola. All’alba del 10 giugno il capitano di corvetta Luigi Rizzo, impegnato con i Mas 15 e 21 in un’operazione di rastrellamento di mine al largo dell’isolotto di Lutrosnjak, entrò fortuitamente in contatto con la flotta austro-ungarica e, sfruttando al meglio le caratteristiche

dei MAS, grazie ad un coraggioso ed occulto avvicinamento spinto fino a meno di 500 metri di distanza, riuscì ad affondare la corazzata Szent István, fiore all’occhiello della marina nemica. Il contraccolpo psicologico dell’azione ebbe ripercussioni talmente forti, da impedire nel corso della Grande guerra qualsiasi altra operazione navale alla monarchia mitteleuropea e da far indire il 10 giugno, come data della


festa nazionale della Marina Militare Italiana. Conclusa la guerra, parecchi MAS restarono di base a Brindisi, che ne accolse anche di nuovi e più efficienti. Quindi, da Brindisi i MAS furono impiegati anche nella Seconda guerra mondiale, alcuni pochi di vecchia generazione, Tipo SVAN e Tipo Baglietto, e alcuni altri d’ultima generazione, più veloci e più efficienti, che si denominarono MAS 500, dei quali se ne costruirono 76 unità in quattro serie successive della stessa Classe 500, identificati con MAS 501 a MAS 576, che affiancarono gli antichi 24 MAS ancora in servizio, per sommare in totale 100 MAS. I mezzi di questa nuova classe 500 avevano da 23 a 30 tonnellate di dislocamento, con motori Isotta Fraschini Asso 1000 con potenza da 2000 a 2300 HP, sviluppando da 42 a 44 nodi di velocità massima, armati di due lanciasiluri da 450 millimetri, con 6 a 10 bombe di profondità e con due mitragliere da 13,2 e 20 millimetri, con equipaggio composto da 9 a 13 uomini. Mentre la Regia Marina nella Prima guerra mondiale aveva prodotto più di quattro centinaia di MAS, il loro numero nel secondo conflitto mondiale fu di molto minore, perché si rivelarono essere mezzi ormai troppo piccoli e perché, anche se molto veloci grazie al loro scafo a spigolo, erano poco marini e quindi pericolosi da impiegare con il mare molto mosso. Per questo motivo, la Regia Marina incorporò con l’identificazione iniziale MAS 1D a MAS 8D un totale di 8 motosiluranti catturati nell’aprile del 1941 alla marina jugoslava: erano gli ‘schnellboote’, lunghi 28 metri prodotti all’inizio degli anni '30 in Germania i quali, a differenza dei MAS avevano uno scafo ad U e quindi, anche se leggermente più lenti, erano più robusti sicuri stabili e manovrabili, soprattutto con il mare forte. Poi, quei mezzi furono in qualche modo copiati e a Monfalcone, negli stabilimenti di Cantieri Riuniti Dell’Adriatico tra il 1942 e il 1943, se ne costruirono 36: i motosiluranti MS CRDA da 60 tonnellate, identificati con MS 11 a MS 16, MS 21 a MS 26 e MS 31 a MS 36 quelli della prima serie e con MS 51 a MS 56, MS 61 a MS 66 e MS 71 a MS 76 quelli della seconda serie, mentre 6 dei mezzi jugoslavi – i MAS 3D a 8D – furono riclassificati e identificati con MS 41 a MS 46, per così sommare in totale 42 motosiluranti. Anche durante la seconda guerra mondiale furono numerose le azioni condotte dai MAS e dai MS, e tra esse, quelle di maggior successo furono: il siluramento dell’incrociatore inglese Capetown l’8 aprile 1941 a opera del MAS 213 comandato dal guardiamarina Valenza; l’affondamento nel Mar Nero del sottomarino sovietico Equoka il 19 giugno

LE IMMAGInI MAS 5 e MAS 6 Brindisi dopo il loro rientro missione Durazzo tra 6 e 7 giugno 1916

1942; il danneggiamento dell’incrociatore russo Molotov a opera dei MAS 568 e 573 il 3 agosto 1942; l’affondamento a opera dei MS 16 e MS 22 il 12 agosto 1942 del modernissimo incrociatore inglese Manchester nella famosa battaglia aeronavale di Mezzo Agosto nel Mediterraneo centrale, nel corso della quale i numerosi MAS partecipanti affondarono anche i piroscafi Glenorchy, Saint Elisa, Rochester Castle, Almeria Likes e Wairangi; l’affondamento del cacciatorpediniere inglese Lightning sulle coste algerine il 12 marzo 1943. Al termine della seconda guerra mondiale, i pochi MAS superstiti furono requisiti dalle marine dei vincitori, mentre dei 36 MS CRDA, ne restarono superstiti 14. Di questi, 5 vennero ceduti ad altre marine vincitrici – 4 all’Unione Sovietica e 1 alla Francia: l’unità destinata alla Francia venne radiata il 15 dicembre 1948 e consegnata ai francesi all’inizio del 1949, mentre le unità destinate all’Unione sovietica vennero radiate il 18 maggio 1949 e consegnate il successivo 6 luglio nel porto di Odessa – e i rimanenti 9 motosiluranti continuarono prestando servizio nella Marina Militare, destinati ad operare nelle acque dell’Adriatico e dello Ionio, dopo essere però stati declassati a semplici motovedette in base alle clausole del trattato di pace e quindi armati solo con le mitragliere. Poi, il 1º novembre del 1952, venute meno le clausole più restrittive del trattato, quei nove mezzi vennero riclassificati per essere riar-

mati di siluri con la denominazione definitiva 471 a 475 e 481 a 484: il numero “4” indicava “motosilurante”. Quei 9 motosiluranti rimasti attivi furono raggruppati nel Comando Motosiluranti COMOS con sede Brindisi. Poi, cinque dei nove furono posti in disarmo agli inizi degli anni '60 mentre i quattro restanti furono ammodernati e ripotenziati, erano questi i MAS 472 - 473 - 474 e 481 che rientrarono in servizio tra il 1959 e il 1961 mentre le cinque unità che non vennero ammodernate furono poste gradualmente in disarmo con il rientro in servizio delle unità ripotenziate. Quei quattro MAS, così diventati motoconvertibili, vennero a integrare la 42a Squadriglia Motosiluranti. Il 10 giugno 1972 le 472 e 473 risalirono il Po prendendo parte il 10 giugno a Cremona alla festa della Marina. Poi, col trascorrere degli anni e la naturale l’apparizione di armi navali molto più evolute e più sofisticate che rivoluzionarono le tecniche militari marine, giunse inesorabilmente il tempo della pensione anche per i “MAS brindisini” ai quali succedettero le motovedette lanciamissili. Gli ultimi due gloriosi MAS, quelli identificati con le sigle 474 e 481, vennero radiati nel 1979, a quasi quarant’anni dal loro varo. Ad oggi, si conservano ancora due MAS della Prima guerra mondiale: il MAS 15 del ‘due volte’ medaglia d’oro Luigi Rizzo, nel sacrario delle bandiere del Vittoriano a Roma ed il MAS 96 del vate Gabriele D’Annunzio per la Beffa del Buccari, nel Vittoriale degli Italiani a Gardone; e due MAS della Seconda guerra mondiale: il 472, situato nella Marina di Ravenna e il 473, conservato nel Museo storico navale di Venezia.

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L'ANNIVERSARIO IL RACConTo

Novanta anni fa moriva Angelo Titi: un brindisino che ha lasciato il segno Una famiglia che da almeno 250 anni ha avuto un ruolo nel settore marittimo e imprenditoriale della città. nel 1928 fece ottenere a Brindisi la zona franca a scapito di Bari di Gianfranco Perri li “Angelo” e i “Teodoro” Titi a Brindisi si sono succeduti ed alternati perlomeno nel trascorso degli ultimi 250 e forse più anni e comunque, quanto meno, a partire da quell’Angelo padre di quel giovane Teodoro che nel 1848 fondò la società operante nel settore marittimo che a tutt’oggi continua le attività dalla sua storica sede di corso Garibaldi. Il fondatore Teodoro Titi, discendente da un militare spagnolo stanziatosi a Brindisi in epoca vicereale tra fine ‘600 e inizio ‘700, divenne armatore di una goletta – il Brick Shooner che volle denominare "Angioletto" in onore del proprio padre Angelo – la quale propulsata dalle vele trasportava mercanzie dal porto di Brindisi attraverso tutto il Mediterraneo. Nel 2008, in occasione dell’anniversario 160 della fondazione dell’Agenzia Marittima Titi è stato pubblicato, con l’appoggio della Biblioteca De Leo, un interessante volume documentale intitolato “Trascrizione del giornale di bordo della goletta L’Angioletto – 1858”. Nel seguito, a quella attività commerciale della prima nave presto se ne affiancarono

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LE IMMAGInI Un ritratto di Angelo Titi, scomparso 90 anni fa, in basso i suoi funerali, il 23 febbraio 1932

altre, collegate a navi più grandi e non già più solo a vela, né più solo per trasportare mercanzie, ma anche passeggeri. Il Regno di Napoli, Brindisi compresa, passò ad integrare il nuovo Regno d’Italia e nella famiglia Titi sarebbe venuta la volta di due fratelli, “Angelo e Teodoro”, che in successione avrebbero guidato durante gran parte del ‘900 la società, ormai matura e divenuta rigogliosa parallelamente con la vigorosa crescita della città di Brindisi e del suo bel porto, che a partire dalla fine dell’800 sarebbe stata impulsata in primis dalla cosiddetta “trionfale avanzata del vigneto” e poi dall’apertura del Canale di Suez nel 1869 e del Traforo del Fréjus nel 1871, nonché dal conseguente avvio della Valigia delle Indie, il famoso collegamento ferroviario e marittimo Londra-Bombay via Brindisi, che in certa misura contribuì a far consolidare le infrastrutture portuali. Fra il 1890 e il 1904 il traffico commerciale del porto di Brindisi si aggirò intorno alle 250 mila tonnellate annue di merci sbarcate ed imbarcate. La proporzione fra l’importazione e l’esportazione era pressoché di 4 a l. Dell’importazione, i quattro quinti erano rappresentati dal carbon fossile; mentre la rimanente minor parte era costituita da coloniali,

legnami, tessuti ed altro. L’esportazione consisteva principalmente in vino, olio, frutta fresche e secche, granaglie, ortaggi e botti vuote costruite dai famosi bottari brindisini. Il movimento dei passeggeri era già importante, ammontando a circa 16 mila unità all’anno. In quella congiuntura d’inizio secolo favorevole all’intera città, l’Agenzia Titi, diligentemente amministrata e coinvolta in molte delle attività commerciali legate al porto, visse un periodo florido e consolidò la sua posizione d’impresa di avanguardia nel panorama aziendale della città, al contempo in cui i fratelli Angelo e l’ancor giovane Teodoro Titi consolidavano la loro personale posizione di imprenditori rinomati e rispettati, non solo a Brindisi ma nell’ambito intero della nazione. Il 31 ottobre del 1912, il generale Ricciotti Garibaldi venne a Brindisi per imbarcarsi alla volta della Grecia per andare a capeggiare le camicie rosse accorse in aiuto dei patrioti greci che avevano ravvivato la loro guerra d’indipendenza contro la Turchia. Imbarcato sul vapore “Epiro” in partenza per Corfù, pensò che sarebbe stato utile passare da Vallona ancora saldamente in mano alla marina turca. «…Convinto che in tempo di guerra sia bene vedere quanto si può del nemico, prima di partire da Brindisi avevo rivolto preghiera di ciò all’egregio e cortese signor Teodoro Titi, che era l’agente della Società Puglia e così, lasciato il magnifico porto di Brindisi, l’indomani mattina all’alba entrammo nel porto di Vallona…» [“La Camicia Rossa nella Guerra balcanica. Campagna in Epiro 1912” di Ricciotti Garibaldi Ed. Vaccari, 1915] Per l’anno 1914, il porto di Brindisi registrava il transito di oltre 360 mila tonnellate di merce ed oltre 54 mila passeggeri. Un traffico quasi interamente internazionale di 2.656 navi, di cui 2.355 piroscafi e 301 velieri, con stazza totale, fra arrivi e partenze, di 2.561.837 tonnellate. La vita economica e sociale della città era in pieno fervore e gli 8.500 abitanti del 1861, che erano già raddoppiati dopo un ventennio dall’Unità, nel 1914 avevano superato i 28 mila. Ma presto sarebbe scoppiata la Grande guerra ed alla sua conclusione nulla sarebbe tornato ad essere come prima, e specialmente per il porto di Brindisi la ripresa, lenta ed a fasi alterne, non avrebbe recuperato la vetta dei volumi prebellici, sia del traffico passeggeri e, specialmente, di quello delle merci. Angelo Titi, del quale si commemora in questi giorni l’anniversario novanta della dipartita, era nato – maggiore dei nove figli di Teodoro e Marianna Pansini – il 14 gennaio del 1869. Divenuto un preminente impresario e subentrato, nel


LE IMMAGInI Qui a destra la celebrazione del secolo di vita della ditta Teodoro Titi, in basso i dati sul traffico nel porto di Brindisi prima della Seconda guerra mondiale

1920 alla morte del padre, nella gestione della Società armatoriale Titi, avrebbe lasciato nella sua Brindisi del primo ‘900 postbellico il segno indelebile del suo intenso entusiastico e altamente meritorio ‘agire’, umano oltreché imprenditoriale. Fu docente di computisteria nella Scuola tecnica di Brindisi. Fu console onorario della Germania. Fu consigliere comunale di Brindisi. Fu presidente del Comitato marittimo della croce rossa italiana. Fu presidente dell’Unione dei commercianti brindisini da lui stesso fondata. Nel 1922 divenne presidente della Camera di commercio di Terra d’Otranto, con sede a Lecce e quindi con giurisdizione anche su Taranto e Brindisi. Nel 1924 l’Alta Corte di Giustizia del Senato del Regno gli affidò il delicato compito della stesura di una perizia nel processo agli amministratori della Banca italiana di Sconto, riuscendo a dimostrare che fosse possibile evitare il fallimento della stessa banca. La sua relazione peritale racchiusa in ben 1.200 pagine fu redatta con tanta lucidità obiettività e competenza che non solo suscitò l’incondizionato plauso dell’Alta Corte, ma anche il rispetto della parte avversa che ne sottoscrisse le risultanze. In quell’occasione devolvé in beneficenza l’onorario ricevuto per l’importante e impegnativo incarico adempito, così come d’altronde usava fare con il proprio stipendio di docente della Scuola tecnica. Fu poi vicepresidente provinciale del Consiglio dell’economia e quindi presidente

del Comitato marittimo e della Commissione granaria della fiammante provincia di Brindisi creata nel 1927. Con Regio Decreto-legge numero 2395 del

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22 dicembre 1927, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 28 dicembre, il governo nazionale stabiliva la possibilità di dichiarare, in tutto o in parte, porti franchi, oltre quelli di


LE IMMAGInI L’anniversario dei 160 anni dell’Agenzia Marittima Titi

Trieste e Fiume, anche quelli di Savona, Genova, Livorno, Napoli, Brindisi, Bari, Ancona, Venezia, Palermo, Messina, Catania e Cagliari. Furono perciò avviati studi per determinare le cautele ed i limiti con i quali ciascuno dei detti porti poteva essere dichiarato franco e fu istituita una Commissione ministeriale con il compito di visitare tutti quei porti e di riferire e proporre in merito alla opportunità o meno di dichiararli franchi. La Commissione ministeriale intraprese alacremente la ricerca assegnatale, ed in Puglia, dopo una lunga sosta a Bari dove fu opportunamente imbonita circa il diritto di quella città a tale concessione e avendo praticamente già determinato essere tale porto perfettamente idoneo per l’istituzione della zona franca, nell’aprile del 1928 giunse finalmente a Brindisi. Nonostante quel precedente per se già premonitore del probabile esito del lavoro della Commissione, Angelo Titi, in ottemperanza all’incarico ricevuto da Ernesto Perez, primo prefetto della novella provincia di Brindisi, volle prodigarsi ugualmente nell’arduo tentativo – ritenuto quasi impossibile dallo stesso prefetto – di convincere la commissione che era il porto di Brindisi quello che avrebbe obiettivamente meritato l’ottenimento di una così importante concessione rispetto a quello di Bari, che infatti non poteva vantare la medesima tradizione brindisina in relazione ad un vero sviluppo mercantile marittimo. In quell’occasione, il prefetto Perez ebbe a dire: «…Voi commendatore Titi siete l’unico ad avere l’autorità e la competenza necessarie per sostenere il buon diritto di Brindisi ad avere una zona franca nel suo porto. Voi conoscete la storia della città e siete forse l’unico ad avere fede nel suo futuro sviluppo come centro marittimo. Voi avete soprattutto l’entusiasmo necessario per sostenere e far trionfare una tesi che, se appare giusta ai nostri occhi, presenta però molti punti deboli, tra i quali quello di carattere prevalentemente agricolo del capoluogo e dell’intera circoscrizione. A Voi quindi, fra pochi giorni, l’onore e l’onere di riferire e sostenere la posizione di Brindisi al riguardo, di fronte alla Commissione governativa per l’istituzione delle zone franche.» Il dottor Francesco Arina, per tre volte sindaco di Brindisi, in uno suo studio sullo sviluppo della città scrisse: «Angelo Titi preparò in pochi giorni la sua dettagliata relazione e i suoi numerosi interventi nella discussione che seguì furono efficacissimi, corredati tutti con giovanile vigore polemico e con equilibrata competenza. E come risultato, la decisione della Commissione governativa fu inaspettatamente favorevole per Brindisi e sfavorevole per Bari. Ricordo che fu veramente grande la commossa intima gioia che animò il volto di Angelo Titi al

commentare: "É stata una bella vittoria, forse l’ultima per me. Ma che importa! Brindisi ne raccoglierà i frutti per sempre". E il commendatore Angelo Titi continuò nel perseguire quell’importante progetto alla cui attività e sviluppo si dedicò con passione sino all’ultimo istante della sua vita.» Angelo Titi, infatti, divenuto presidente del Consiglio provinciale delle corporazioni, aveva fatto dello sviluppo del porto di Brindisi la sua missione. Aveva in sé la chiara visione di un porto moderno ed era stato il primo a credere nella possibilità reale di ricreare per Brindisi una zona franca. In una rivista degli anni 30 si può leggere: "Fra i primi progetti che furono studiati per spingere nel modo più acconcio a migliore fortuna l’economia brindisina, si prospettò l’idea di chiedere il ripristino nel porto di Brindisi di quei privilegi che i governi borbonici avevano concesso al porto di Brindisi nel 1844, allorché con il decreto 9488 istituirono la Scala franca e di cui a più riprese, il professor Angelo Titi, sia nella sua qualità di studioso di problemi marittimi che quale dinamico presidente del Consiglio provinciale

delle corporazioni, si era fatto autorevole patrocinatore". «Mentre nell'antichità e nel medio Evo, i porti, promotori di un traffico quasi esclusivamente marittimo, limitato cioè ad uno scambio puro e semplice di merci provenienti per via mare, cui non partecipava che molto raramente il loro immediato retroterra, altro non erano che dei tranquilli rifugi di navi, più o meno sicuri, con la fine del secolo decimonono invece, cessata del tutto la pirateria, divenute sempre più rare e difficili le guerre, diminuite le distanze e le durate dei viaggi, con l'introduzione e l'uso del vapore, cominciarono col rappresentare, nel tragitto delle merci dal luogo di produzione a quello di consumo, il punto più vantaggioso per l'incontro delle comunicazioni marittime con quelle terrestri, diventando in seguito grazie all'aumentata capacità delle navi e al ribasso dei noli, dei centri commerciali industriali veri e propri. Ma se in genere è molto difficile che un porto possa contemporaneamente espletare queste diverse complesse e vaste funzioni, pure quello di Brindisi, vero dono me-


CULTURE LE IMMAGInI A destra Teodoro Titi, il fondatore dell’Agenzia. In basso uno dei discendenti, omonimo scomparso nel 1963

raviglioso largito da madre natura al tallone d'Italia, vi si presta mirabilmente non solo per la sua specialissima posizione geografica, ma anche per la profondità dei suoi fondali che consentono l'attracco immediato alle banchine dei più grossi piroscafi, e per l'assoluta sua sicurezza contro le furie degli elementi; ed appunto per questa ragione che noi affermiamo senz'altro che dal suo pieno sviluppo, dalla sua completa attrezzatura perfettamente rispondente alla necessità del traffico marittimo moderno, dalla sua sistemazione commerciale ed industriale, dipende in gran parte, se non esclusivamente, quella rinascita economica del Mezzogiorno d'Italia, di cui tanto si parla e che il capo dell'attuale Governo, Benito Mussolini vuole tradurre al più presto in sicura realtà. Occorre pertanto, se si vuole veramente concretizzare questo evento invocato da milioni di persone, assicurare al commercio ed al traffico del Porto di Brindisi una certa libertà doganale; occorre in altre parole riconoscere al suo territorio una zona franca, e per impedire che questa aspirazione giustissima possa venire considerata come un'improvvisata non rispondente a reali ed immanenti bisogni, ricordiamo che un tale privilegio fu a Brindisi riconosciuto ed accordato dal Governo Borbonico che certo non maturava arditi programmi di penetrazione commerciale e politica, ma intendeva sfruttarla soltanto come anello di congiunzione dell'Oriente con l'Occidente. Crediamo opportuno pertanto, anche perché a quanto pare si vanno delineando le stesse gelosie ed invidie di allora, riportare integralmente quanto ebbe a scrivere in proposito l'Ascoli nella sua storia di Brindisi : “I nemici della città di Brindisi e coloro che vedevano mal volentieri lo sviluppo commerciale che avrebbe preso a causa delle concesse agevolazioni, andarono sussurrando all'orecchio di Ferdinando che, con l'istituzione dello scalo franco, si sarebbe aumentato il contrabbando in modo spaventevole, e che l'erario pubblico ne avrebbe solamente scapitato. Gli ingegneri non erano d'altra parte punto di accordo sulla ubicazione dello scalo franco, né sul modo di erigerlo. Sciolse la questione Ferdinando stesso ii quale in una delle sue gite a Brindisi, accortosi che gli ordini non erano prontamente eseguiti e che le cose andavano per le lunghe, domandò a che punto fossero i lavori dello scalo franco e che cosa erasi fatto. Dalle risposte avute s'avvide che realmente reconditi motivi tenevano sospese le opere: e, fattosi portare il progetto, si recò alla strada della marina, seguito dagli ingegneri incaricati del lavoro. Dopo averli severamente rimproverati per le discordie e massimo per il ritardo frapposto alla esecuzione degli ordini ricevuti, si piantò, egli in persona, rivolto al

mare, col progetto in mano, allo sbocco di Via Maestra; e, mandato un assistente del genio alla spiaggia, ordinò che da una parte il muro di cinta dovesse seguire la linea che li congiungeva, e che dalla parte opposta e a una determinata distanza si innalzasse un altro muro parallelo a questo. Così cessarono le questioni; e Brindisi poté godere finalmente dei vantaggi dello scalo franco… a dispetto dei suoi nemici.” A partire da questo memorabile avvenimento tramandato di generazione in generazione, coi sensi della più viva gratitudine per il Re che l'aveva procurato, dal 21 maggio cioè del 1845, il commercio locale ebbe un grandioso sviluppo, principalmente per il concentramento di ingenti quantitativi di coloniali fattovi dai grossisti triestini che da Brindisi poi li smistavano in tutta l'Italia; ma venute meno in seguito ai moti politici del 1849 e degli anni successivi, le vigili cure del Governo Borbonico interessato in altre faccende ben più gravi e vitali, Brindisi cominciò lentamente a decadere, né valse ad arrestare que-


LE IMMAGInI A sinistra Teodoro (1830-1920) e nicola Titi (1826-1905)

sto fatale andare la costituzione del Regno d'Italia e la conseguente politica di miglioramento economico generale attuata dai vari governi che ne ressero in principio le sorti. Abolito il 2 luglio del 1862, non si sa bene per quale motivo, ma certamente per intrighi

di altri, lo scalo franco… il commercio non trovò quanto abbisognava al suo sviluppo e si allontanò a poco a poco da Brindisi e questa non solo non divenne l'anello di congiunzione dell'Oriente con l'Occidente, ma neanche un porto di deposito e transito, onde che le sognate correnti di traffico internazionale non si stabilirono, e conseguentemente non si potette nemmeno convenientemente sfruttare l’approdo della Peninsulare faticosamente conquistato...» [Angelo Titi in: “Relazione per il Porto Franco” - Consiglio Provinciale dell'Economia – Brindisi, aprile 1928] Purtroppo, l’ambito progetto di Angelo Titi per l’istituzione della zona franca del porto di Brindisi, pur se mai abbandonato, non si concretizzò, scontrandosi per anni con ostacoli ed impedimenti di varia natura fino a paralizzarsi del tutto con lo scoppio della Seconda guerra mondiale, quando la città vide inevitabilmente capitolare gli interessi locali agli interessi nazionali che ne fecero una testa di ponte militare con il porto pieno di movimenti di uomini e di materiali bellici, per la campagna di Grecia e verso i porti libici di Tripoli e Bengasi. Finita quella rovinosa guerra e dopo i primi anni della difficilissima ricostruzione durante i quali il porto, perso il suo ruolo bellico, languiva in una preoccupante inattività, nel 1951 – emanata in gennaio la legge istitutiva

– il presidente Alcide De Gasperi poneva simbolicamente la prima pietra del famigerato Punto franco del porto di Brindisi progettato dal professor Guido Ferro ordinario di costruzioni marittime e preside della facoltà di ingegneria dell’Università di Padova. Poi, nel 1953, il fratello minore di Angelo, Teodoro – il nonno omonimo di Teo Titi, attuale titolare dell’Agenzia Titi ed il cui padre Angelo ancora oggi viene chiamato "Angioletto" dai suoi amici – fu nominato presidente del Consorzio del porto di Brindisi, che era stato creato nel 1949 proprio allo scopo di incrementare le attività portuali e favorire l’industrializzazione attraverso la creazione di un Punto franco e di una Zona industriale, ma che in pochi anni era caduto in crisi istituzionale ed era stato commissariato. Teodoro Titi lavorò duramente e nel 1957 poté illustrare all’Assemblea consortile tutti i punti realizzati nei quattro anni del suo mandato in vista dell’istituzione del ripetutamente rinviato Punto franco, essendosi di fatto attuato per completo il piano per il suo allestimento: banchinamenti, escavazioni, muro di sostegno, magazzini di calata, lavori di recinzione, la strada di circonvallazione, la gru elettrica a servizio della zona franca, l’approvazione dei finanziamenti per gli edifici direzionali e gli impianti ferroviari. Era stato inoltre creato il regolamento di esercizio del Punto franco e già ratificato dal ministero. Anche in quell’occasione purtroppo, pur annoverandosi il porto di Brindisi tra gli scali più vivaci per movimento passeggeri in linea con l’ascesa cominciata nei primi anni ‘50, il progetto del Punto franco era destinato a non decollare perché, oltre ad altri vari impedimenti, lo contrastava l’evidente strutturale carenza delle indispensabili adeguate linee ferroviarie e delle grandi comunicazioni stradali con le corrispondenti reti nazionali. Angelo Titi venne a mancare all’affetto della sua famiglia e all’apprezzamento della sua amata città all’età di soli 63 anni, il 22 febbraio 1932. L’oratore designato dalle autorità e dagli enti del Comune e della Provincia di Brindisi a dare l’estremo saluto all’illustre brindisino prematuramente scomparso, così concludeva: «Il padre, il cittadino furono in Lui tipi esemplarmente uniti in forma severa, ma luminosa, di galantuomo. Non deviazioni, non confusione di doveri, ma armonia di virtù esemplari; perciò, rimane non confuso nella Sua linea morale fra quanti lo ricordano». Anni dopo la sua scomparsa, il 4 settembre 1956, la Giunta comunale del sindaco Manlio Proto deliberò all’unanimità perché la Zona franca del porto di Brindisi fosse intitolata ad Angelo Titi e il 30 maggio 2007 il Consiglio comunale approvò intitolargli una via della Zona industriale contigua al porto.

il7 MAGAZINE 29 18 febbraio 2022


CULTURE

DODICI BRINDISINI NELL’EPOPEA DANNUNZIANA DI FIUME NEL 1919 Poi, 100 anni fa come oggi, il colpo di Vtato che mise fine al Paese Libero Indipendente S

di Gianfranco Perri

o avuto un buon amico, un bravo collega venezuelano che purtroppo non c’è più, il professore di geofisica Eugenio Gallovich nato a Fiume, il cui padre Luigi, fiumano, era nato suddito dell’impero austroungarico, da giovane era divenuto marino italiano, da adulto era emigrato in America come jugoslavo e infine, quando morì a Caracas, la sua nazione di nascita fu indicata essere l’attuale Croazia. La storia, anche quella relativamente recente, della città di Fiume infatti, è una storia complessa quanto coinvolgente, legata alla sua particolare posizione geografica che ne ha determinato il carattere multietnico. Multietnicità che è per l’appunto il distintivo storicamente più risaltante di questa bella città marinara che, nell’arco di solo pochi decenni, fu ungherese austriaca italiana jugoslava e croata. In conseguenza, è impresa ardua e di fatto quasi impossibile il poter riassumere in poche righe quella storia, su cui del resto esiste una bibliografia estremamente voluminosa e, molto spesso, inevitabilmente troppo ‘partigiana’ quando elaborata da protagonisti più o meno diretti e più o meno identificati con una o con l’altra di quelle varie etnie. Ma ci provo. Fiume, appartenendo ai territori dell’impero asburgico, già a metà del ‘400 con l’imperatore

H

Federico III fu resa ‘comune autonomo e nel 1779, con Maria Teresa, regina d’Austria, Ungheria, Boemia, Croazia e Slavonia, divenne ‘Separatum Sacrae Regni Coronae Hungariae Corpus’ cioè corpo separato annesso alla corona ungherese. Nel 1848, in seguito alla proclamazione d’indipendenza dell’Ungheria, la città, occupata dalle forze imperiali passò sotto l’amministrazione croata per 20 anni finché, dopo la nascita dell’impero d’Austria-Ungheria, nel 1868 riprese il suo precedente status autonomo di Corpo separato annesso alla corona d’Ungheria. La città quindi, conobbe una notevole crescita economica e demografica conservando la sua impronta italiana nel quadro di una pacifica convivenza tra le varie etnie presenti: principalmente, oltre a quella italiana dominate, quella magiara e quella croata. Sul finire dell’800 però, i rapporti fiumano-magiari si deteriorarono quando Budapest introdusse riforme intese a ‘magiarizzare’ la città, tra cui l’obbligo della lingua ungherese nelle scuole superiori e l’instaurazione di una polizia di stato accanto a quella comunale. E fu allora che a Fiume si cominciò a sviluppare un movimento irredentista filoitaliano in una popolazione che nella stragrande maggioranza era di lingua e cultura italiana, allo stesso tempo in cui un analogo movimento nazionalista iniziò a sorgere anche nella minoranza croata che all’epoca rappresen-

il7 MAGAZINE 26 4 marzo 2022


LE IMMAGINI Via Roma e a destra il Palazzo del Governo-Fiume 1919, sotto un gruppo dei protagonisti dell'epopea dannunziana di Fiume-3 marzo 1920

tava circa il 20% dell’intera popolazione fiumana. Quando nel 1914 scoppiò la Grande guerra, parte degli arruolati fiumani furono inquadrati nel 19° Reggimento degli Honved ungheresi a Pecs e parte venne assegnata al 97° Reggimento austriaco che aveva stanza a Trieste. Dopo l’entrata in guerra dell’Italia contro l’Austria, si registrò la diserzione di 113 fiumani che si arruolarono volontari nelle file dell’esercito italiano, mentre intere famiglie di Fiume che erano ritenute compromesse con l’irredentismo per l’Italia furono internate nel Campo di Tapiosuly, vicino Budapest: furono circa 800 i fiumani internati e 149 perirono per denutrizione, freddo e colera. In quello stesso frangente, molti di quei soldati fiumani arruolati dall’esercito austro-ungarico erano presenti tra i circa 25.000 che, tra trentini, triestini, istriani e dalmati di lingua italiana, erano stati fatti prigionieri dai russi, e così l’Italia inviò in Russia – nazione ormai alleata – una Commissione di 20 ufficiali, che agli ordini del tenente colonnello Achille Bassignano raggiunse Pietrogrado il 1° agosto 1916 con lo scopo di offrire a tutti quei prigionieri di arruolarsi nell’esercito italiano e combattere per liberare le terre italiane ancora sotto il giogo austriaco. Circa la metà di tutti quei soldati ex-austroungarici accolse l’invito e cominciò ad essere avviata in Italia via porto Arcangelo nel nordico

il7 MAGAZINE 27 4 marzo 2022

mar Bianco, ma s’imbarcò meno della metà, solamente 4.400 soldati, perché l’operazione s’interruppe, prima a causa del blocco invernale della navigazione e dopo per lo scoppio della rivoluzione russa dell’ottobre 1917. Con gli uomini rimasti, tra i quali qualche centinaio di fiumani, si costituì la “Legione Redenta in Siberia” che, sotto il comando del colonnello dei carabinieri Cosma Manera giunto appositamente da Roma, si spostò via transiberiana fino al porto di Vladivostok sul mar del Giappone nella Siberia Orientale. Anche da lì però, fu impossibile un immediato imbarco per l’Italia e la Legione fu a lungo impiegata a combattere i bolscevichi, finché il colonnello Manera risolse di portala in Cina per poter raggiungere Tientsin, sede della Concessione italiana, da dove finalmente – era il 1920 e, trascorsi quattro anni di incredibili peripezie, la guerra in Italia era finita – si sarebbe completato il così a lungo posposto rimpatrio dei legionari. Volgendo ormai al termine la guerra con l’imminente sconfitta dell’Austro-Ungheria, il nuovo imperatore Carlo d’Asburgo istituì nuove regioni slave includendovi anche Fiume, che fu quindi privata dello storico status di Corpus Separatum dell’Ungheria. In reazione, il 29 ottobre del 1918, l’amministrazione fiumana della città costituì un Consiglio Nazionale Italiano, che invocando il diritto di autodeterminazione proclamò Fiume unita all’Italia, provocando che le forze militari austro-croate prendessero possesso della città, mentre lo stesso Consiglio Nazionale chiedeva aiuto all’Italia. Il governo di Roma, con la scusa di proteggere la cittadinanza italiana, inviò a Fiume quattro navi da guerra, i caccia torpedinieri Stocco, Sirtori e Orsini, e l’incrociatore Emanuele Filiberto, e il 17 novembre giunsero anche vari reparti dell’esercito italiano – tra cui il Reggimento dei Granatieri di Sardegna – che issarono sul palazzo di governo il tricolore sloggiando gli amministratori croati e restaurando il Consiglio Nazionale Italiano. Dopo di che, il 28 dicembre 1918, il governatore ungherese Zoltan Jekel-Falussy abbandonò Fiume dopo aver passato formalmente le consegne al podestà Antonio Vio. All’azione italiana seguì l’arrivo di altri contingenti stranieri, anglo-americani e coloniali francesi, questi ultimi in appoggio neanche velato alle ambizioni croate. La situazione si fece ogni giorno più critica e in parallelo con gli scontri fra le opposte fazioni italiana e croata, se ne produssero anche tra i tanti militari presenti. Il 29 giugno 1919 vi furono 9 morti del contingente francese e a seguito del grave evento venne sciolto il Consiglio Nazionale Italiano e da Roma giunse l’ordine di spostare il Reggimento dei Granatieri di Sardegna, da Fiume a Ronchi. Sette ufficiali del Reggimento scrissero alla Medaglia d’Oro Gabriele D’Annunzio, il poeta eroe, chiedendogli di assumere un’iniziativa per non abbandonare l’italianissima città di Fiume, vittima della “vittoria mutilata”.


LE IMMAGINI Gabriele D’Annunzio, in basso via del Porto, a Fiume, nel 1900 In realtà, il Patto di Londra firmato segretamente alla vigilia dell’ingresso dell’Italia in guerra, che prevedeva l’assegnazione all’Italia di alcune parti di territorio da sottrarre all’egemonia austro-ungarica, quali il Goriziano, Trieste, l’Istria, le isole del Carnaro e una parte della costa dalmata con alcune sue isole, non aveva indicato in forma esplicita Fiume, che in conseguenza era rimasta assegnata alla Croazia. Poi comunque, finita la guerra, alla conferenza di pace di Parigi, quando l’Italia pretese il rispetto degli accordi segreti si scontrò con il disaccordo degli Stati Uniti – che erano entrati in guerra successivamente e senza ovviamente aver firmato quell’accordo – ed inoltre, dovette fare i conti con il fatto che la rivoluzione russa del 1917 aveva sconvolto lo scenario macropolitico dei Balcani. Ed in protesta l’Italia a un certo punto abbandonò la conferenza di Parigi. Fu allora che Gabriele D’Annunzio, tra i più importanti scrittori italiani dei suoi tempi nonché eroe di guerra, insoddisfatto al pari di molti altri italiani del risultato ottenuto dalla vittoria, accettò di capeggiare la cosiddetta Marcia di Ronchi. La cittadina, oggi Ronchi dei Legionari in provincia di Gorizia, situata a quattro chilometri da Monfalcone, fu il luogo di partenza dei legionari ribelli che proclamarono il Vate loro comandante e lui, lasciato il suo palazzo veneziano sulla sua Fiat Tipo 4 decapottabile, nella notte dell’11 settembre 1919, in uniforme da ufficiale si avviò verso Fiume al comando della sua ‘armata’ che, sistemata a bordo di una ventina di camion era composta da un paio di centinaia di militari e una trentina ufficiali ai quali, già dal primo giorno dell’avventura, si unirono volontariamente all’incirca altri 2.000 militari italiani, fino a raggiungere la cifra totale dei più di 7.000 nominativi contenuti nell’Elenco ufficiale dei Legionari fiumani che fu depositato presso la Fondazione del Vittoriale degli Italiani in data 24-6-1939 e nei suoi archivi tuttora conservato. Il 12 settembre, all’entrata di Fiume, D’Annunzio e i suoi – in teoria disertori dell’esercito italiano – furono intercettati dal comandante italiano generale Vittorio Emanuele Pittaluga, ma questi alla fine, in considerazione del clima imperante, festoso e chiaramente favorevole ai legionari, decise di farli passare. Quello stesso giorno D’Annunzio riaffermò il proclama di annessione di Fiume all’Italia emanato dal Consiglio Nazionale Italiano il 29 ottobre 1918, a dispetto del Governo di Roma presieduto da Francesco Saverio Nitti che, disapprovando l’avventura dannunziana, minacciava i legionari di procedere col deferirli ai Tribunali Militari. Però, altri tre battaglioni di bersaglieri di stanza in città decisero di mettersi agli ordini di D’Annunzio e altrettanto fecero i marinai della nave regia, ex incrociatore Marco Polo, che arrivò a Fiume il 22 settembre, mentre il generale Pittaluga, comandante delle forze interalleate a Fiume, aveva lasciato la città con gli altri contingenti stranieri. La cittadinanza filoitaliana, che allora a Fiume era maggioranza – all’incirca la metà dell’intera popolazione – se pur

stretta nella morsa di una situazione economica e alimentare molto difficile causata dai prolungati blocchi navali e terrestri, fu in maggioranza partitaria di D’Annunzio. Il governo italiano inviò a D’Annunzio una proposta nella quale, ribadendo che l’annessione di Fiume non era al momento realizzabile, s’impegnava di impedire il passaggio di Fiume ai croati e prometteva che avrebbe decretato l’annessione in un momento successivo più favorevole. Il 15 dicembre 1919 il Consiglio Nazionale approvò la proposta italiana che fu accettata anche dai fiumani con il referendum che seguì. Ma i Legionari annullarono il tutto con la forza, con la scusa di provate irregolarità. In seguito, il 12 agosto 1920, D’Annunzio proclamò la Reggenza Italiana del Carnaro e promulgò la ‘ Carta del Carnaro ’ una specie di costituzione che, avveniristica per quei tempi, elaborata assieme al sindacalista Alceste De Ambris capo di gabinetto del governo fiumano, prevedeva, tra altro: l’esaltazione del lavoro, la parità dei sessi, il diritto universale di voto, la previdenza sociale, il diritto allo studio e l’habeas corpus. In reazione, l’Italia e l’allora regno dei Serbi, Croati e Sloveni, si accordarono e firmarono il Trattato di Rapallo del 12 novembre 1920 col quale in merito a Fiume decidevano di ricostituire lo 'Stato libero e indipendente di Fiume''. Subito dopo, il governo italiano di Giovanni Giolitti inviò a Fiume un ultimatum che restò del tutto disatteso e così, si giunse all’ormai inevitabile scontro. L’8 dicembre 1920 il cacciatorpediniere Espero salpò da Trieste accorrendo in appoggio dei fiumani seguendo l’esempio delle torpediniere 66PN e 68PN, dei caccia torpedinieri Nullo e Bronzetti e del Sommergibile F16. L’attacco italiano iniziò il 24 dicembre 1920 con il cannoneggiamento del Palazzo del Governo di Fiume dove risiedeva il Comandante da parte della corazzata Andrea Doria che cannoneggiò anche il cacciatorpediniere Espero. Gli scontri si protrassero sino al 29 dicembre provocando 54 morti, tra soldati italiani, legionari e civili.

il7 MAGAZINE 28 4 marzo 2022

Gabriele D’Annunzio ordinò la sospensione delle ostilità, raccolse tutti i morti composti in bare coperte da un’unica bandiera tricolore e si accomiatò con un discorso di cordoglio. Quell’evento, comunque tragico per tutta l’Italia, fu ricordato come il ‘Natale di sangue’ e D’Annunzio lasciò per sempre Fiume il 18 gennaio 1921. La questione Fiume però non era chiusa e la vita dello “Stato Libero e Indipendente” presieduto da Riccardo Zanella non fu per nulla facile, soccombendo infine – dopo poco più di due anni di esistenza – preda di difficoltà d’ogni ordine e di continue violenze che, promosse dagli irredentisti guidati da Riccardo Gigante, il 3 marzo 1922 – esattamente 100 anni


LE IMMAGINI Medaglia conferita ai partecipanti all'impresa di Fiume del 12 settembre 1919

fa – sfociarono in un vero e proprio “colpo di stato”. Decaduto de facto lo Stato Libero e continuando i disordini, l’Italia inviò a Fiume il generale Gaetano Giardino in qualità di governatore con il compito di garantire l’ordine pubblico e al contempo riiniziò il dialogo con il regno dei Serbi Croati e Sloveni. Finalmente, le trattative si conclusero con il Trattato di Roma del 27 gennaio 1924 che congiunse Fiume all’Italia a cambio di Porto Baross e Delta. Si era chiuso il capitolo, ma non certo per sempre. Ebbene, tra i poco più di settemila Legionari fiumani che parteciparono all’epopea dannunziana, i cui nomi sono riportati nell’Elenco ufficiale dei Legionari fiumani conservato negli archivi del Vittoriale, ci sono anche i seguenti dodici Brindisini: Tommaso Brandi, sottocapo torpediniere, nato nel 1899; Renato Butta di Angelo, capo timoniere, nato nel 1891; Vito Cassano di Antonio, secondo capo timoniere, nato nel 1899; Luigi Chimenti di Antonio, marinaio, nato nel 1900; Luigi De Giorgio di Cosimo, volontario, nato nel 1893; Giuseppe Doldo di Francesco, caporale della legione fiumana, nato nel 1895; Aleardo Faglioni, capo cannoniere; Ezechiele Nimis di Salvatore, volontario, nato nel 1899; Pasquale Pechi, volontario; Ercole Viscardi di Alberto, bersagliere, nato nel 1902; Mario Viscardi di Alberto, bersagliere, nato nel 1903 e Filomeno Vitale di Giovanni, sergente del reggimento granatieri, nato nel 1893. Inoltre, tra “i sette giurati di Ronchi” - gli ufficiali del I Battaglione del II Reggimento Granatieri di Sardegna che contattarono Gabriele D’annunzio - il tenete Ferdinando Nicoli di Giuseppe era di Erchie, nato nel 1894. Infine, altri 5 dei legionari fiumani provenivano dalla provincia di Brindisi: Cosimo Cerasi di Vin-

cenzo, tenente, nato a San Vito dei Normanni nel 1897; Domenico Cervillera di Vincenzo, soldato della legione fiumana, nato a San Vito dei Normanni nel 1899; Vincenzo Galletto, volontario, nato a San Michele Salentino; Francesco Marazzi di Fedele, volontario, nato a Oria nel 1904 e Giovanni Martelli, volontario, nato a Oria nel 1903. Del brindisino Filomeno Vitale, nato il 12 aprile 1893 e sottufficiale del I Battaglione del II Reggimento Granatieri di Sardegna, è da segnalare che ritornato alla vita civile fu deputato nella XXX – l’ultima – Legislatura del Regno d’Italia, dal 1939 al 1943, in qualità di componente della Corporazione del legno. Tra i dodici brindisini però, a risaltare è la figura di Giuseppe Doldo: «Brindisino di nascita e fiumano di cuore, al termine della Grande guerra partecipò all’epopea dannunziana di Fiume e scelse poi di radicarsi in quella città dove svolse varie attività commerciali e industriali. Lavorò con Guglielmo Marconi e per un tempo fu anche imbarcato sull’Elettra. Divenne esperto di comunicazioni marittime e di tale materia divenne docente nell’Istituto Nautico di Fiume. Nel 1946, costretto all’esodo, ritornò alla sua città natale. A Brindisi fu professore di Comunicazioni marittime nell’Istituto Tecnico Nautico e s’impegnò a che l’Istituto fosse intitolato “Carnaro”. Fu grande sostenitore degli esuli giuliano-dalmati in Brindisi e si prodigò per alleviare le condizioni di vita dei profughi affluiti nella sua città. Presso il Comune di Brindisi s’interessò affinché si intitolassero alcune delle nuove vie del rione Commenda alle città dell’Istria e promosse la costruzione, nella Commenda, della parrocchia di San Vito martire patrono e protettore dei fiumani. A 70 anni lasciò la scuola, ricevendo la medaglia d’oro per 45 anni di insegnamento e il presidente della Repubblica, Saragat, lo nominò Grande Ufficiale al Merito della Repubblica. Nel novembre del 1979 Giuseppe Doldo morì a Brindisi e l’Amministrazione comunale deliberò intitolare una via a suo ricordo.» [Perri G. & Martinese M. “i100 personaggi dell'odonomastica di Brindisi che attraversano tutta la storia della città” - Lulu.com, 2017] Ho già segnalato che la bibliografia su Fiume e sull’epopea dannunziana è smisurata quanto coinvolgente, pertanto segnalo solo due libri. Quello del mio amico fiumano Rodolfo Decleva “Piccola Storia di Fiume 1847-1947” da cui mi son preso la libertà di estrarre alcuni pez-

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zetti e che ha la peculiarità e il merito di essere stato scritto con amenità e con la volontà di rispettare in tutto il possibile l’obiettività della narrazione storica. Quindi, la più recente monografia del riconosciuto studioso e storico, eccelso custode del Vittoriano, Giordano Bruno Guerri “Disobbedisco. Cinquecento giorni di rivoluzione” pubblicata da Mondadori nel 2019. «L’Impresa fu anche un episodio del nazionalismo più consueto, eppure rappresentò soprattutto una rivolta generazionale contro ogni regola costituita dal liberalismo, dal socialismo, dalla diplomazia tradizionale e dalle convenzioni. Fiume fu anzitutto una contro-società sperimentale in contrasto sia con le idee e i valori dell’epoca sia, e tanto più, con quelli del fascismo… La rivolta è dipinta come l’impulso di un d’Annunzio patriota e libertario, cultore del passato e celebratore della modernità che seppe cogliere e comprendere la profonda ansia di rinnovamento della nuova generazione. L’elemento artistico, psicologico, prosopografico suggerisce un’interpretazione di Fiume come ribellione generazionale, attraverso una prospettiva che aggira la cultura totalitaria e cerca piuttosto l’onda lunga dell’esperimento fiumano nelle contestazioni globali del mondo contemporaneo... Il volume cerca un’esaustiva ricostruzione degli eventi e, pur non distaccandosi dal punto di vista dannunziano, pone un’interpretazione sulla base delle fonti primarie, intercettando nodi insoluti e possibili piste d’indagine... Per sedici mesi Fiume fu teatro di cospirazioni, feste, beffe, battaglie, amori, in un intreccio diplomatico e politico sospeso tra utopia e realtà. Militari, scrittori, aristocratici, industriali, femministe, sovversivi, politici, ragazzi fuggiti di casa, componevano l’esercito del ‘Comandante’, inconsapevoli di quanto avrebbero influenzato l’immaginario del Novecento... Pure se molti legionari, come Ettore Muti, finirono per aderire al regime, molti altri furono irriducibilmente veri antifascisti, confinati o costretti a morire nell’esilio, come il sindacalista rivoluzionario Alceste De Ambris... Del resto, nelle luci e nelle ombre dell’Impresa si ritrovano a distanza di cent’anni, molti aspetti captati dal mondo d’oggi: la spettacolarizzazione della politica, la propaganda, la ribellione generazionale, la festa come mezzo di contestazione, la rivolta contro la finanza internazionale, il conflitto tra nazionalismi, il ribellismo e la trasgressione, e altro…» [R. Leone – G. B. Guerri]


CULTURE

GLI EREDI DEI MAS DI BRINDISI .NEL ROMANZO

«EL ITALIANO» di ARTURO PÈREZ-REVERTE Il romanzo storico dello scrittore spagnolo che racconta gli attacchi a Gibilterra condotti dai «Siluri a lenta corsa» discendenti diretti di quei MAS che da Brindisi avevano iniziato la diloro serie di successi strepitosi Gianfranco Perri di Gianfranco Perri

L’

anno scorso a settembre ero di nuovo a Madrid, mese perfetto per un soggiorno che definir piacevole sarebbe probabilmente riduttivo. Lo scorso anno poi, grazie – si fa per dire – alla pandemia, il settembre ‘madrilegno’ si è arricchito di un evento generalmente destinato a svolgersi in primavera: la fiera del libro, giunta per l’occasione alla sua ottantesima edizione. Un evento culturalmente – e non solo – importantissimo per la voluminosa e prestigiosa letteratura spagnola, anzi di lingua spagnola, comprendente quindi anche tutta quella, per molti versi interessante, sudamericana. L’anno scorso, nonostante la pandemia, allestita nel magnifico scenario offerto dal ‘Parque El retiro’ ha contato con 320 stands – tra editori, librai, distributori e istituzioni – e si è svolta durante diciassette giorni: dal 10 al 26 settembre, accogliendo l’incredibile numero di 380.000 visitatori, in media più di 22.000 al giorno. Ebbene, inevitabile – finanche per un visitante distratto – notare, già ai primissimi approcci con gli stands, la presenza discreta ma insistente di un libro dal titolo, per essere in Spagna, un po’ insolito, dalla copertina in bianconero, anzi in bruno-bianconero, con in

primo piano una figura d’uomo vestito da palombaro camminando con l’acqua alle ginocchia tenendo la maschera con la mano sinistra e in atteggiamento tra l’assorto e il preoccupato, ma comunque tranquillo e sicuro di sé. Il titolo del libro? «El italiano» di Arturo Pérez-Reverte. Con quel titolo, naturalmente, non poteva che richiamare d’immediato tutta la mia attenzione, e così, già al secondo stand lo stavo sfogliando, e già al terzo stand lo stavo comprando: «Ultimi giorni del 1942: Elena, libraia ventisettenne, mentre all’alba passeggia sulla spiaggia vicina alla sua casa in Algeciras – sulla costa spagnola di fronte allo sperone di Gibilterra – s’imbatte nella figura evanescente d’un uomo giovane riverso tra la sabbia e l’acqua, indossando una muta da sommozzatore e dall’inoccultabile espressione ancora svanita. Più o meno conscia di quel che quell’uomo possa essere e possa rappresentare, lo soccorre, ignorando che quella determinazione cambierà la sua vita e che l’amore sarà solo parte di un’avventura molto pericolosa...» Ovviamente, ho da subito inteso di cosa si parlava; troppi e molto chiari gli indizi in quelle poche righe che, infatti, così proseguivano: «’El italiano’ relata una impressionante storia di amore, mare e guerra. Negli anni 1942 e 1943, durante la Seconda guerra mondiale, incursori subacquei italiani, con una serie di missioni affondarono o danneggiarono seriamente ben

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quattordici mezzi navali alleati presenti nella base navale di Gibilterra della baia di Algeciras. In questo romanzo, ispirato a fatti realmente accaduti, sono immaginari solamente alcuni dei personaggi così come alcune delle situazioni.» Il romanzo – di uno scrittore già di fama notevole in Spagna e già autore di altri numerosi romanzi storici di successo – con le sue quattrocento pagine, lette quasi tutto d’un fiato, mi è piaciuto molto e spero possa essere presto editato anche in lingua italiana affinché molti altri italiani possano, ne son certo, apprezzarlo. È anche il caso di segnalare che ‘El italiano’ è stato il libro più venduto tra le migliaia di libri presenti nella Fiera del libro di Madrid 2021. Arturo Pérez-Reverte è nato a Cartagena, in Spagna, a fine 1951. È stato giornalista di guerra per più di vent’anni, coprendo da reporter numerosi conflitti armati in Africa, America ed Europa, per giornali, radio e televisione. A Cipro, in Libano, in Eritrea, nel Sahara, alle Falkland, in El Salvador, in Nicaragua, in Ciad, in Libia, in Sudan, in Mozambico, in Angola, nel Golfo, in Tunisia, in Romania, in Croazia e in Bosnia. Con oltre venti milioni di lettori in tutto il mondo, alcuni dei suoi romanzi sono anche stati trasformati in film. I suoi numerosi titoli permangono presenti sugli scaffali bestseller delle librerie, anche oltre i confini spagnoli. Ha ricevuto infatti importanti riconoscimenti letterari internazionali ed è stato tradotto in più

di 40 lingue. Oggi si dedica esclusivamente alla letteratura e condivide la sua vita tra letteratura, mare e navigazione: le sue passioni. Ma torniamo a “El italiano” e facciamolo con parole dell’autore, con alcune delle cose dette in occasione della presentazione di questo suo ultimo romanzo, il 21 settembre 2021, proprio a Gibilterra, sullo scenario del libro, quello di un dramma quasi incredibile e pur verissimo. « Quando avevo undici anni, mio padre mi portò al cinema a vedere ‘I due nemici’ con David Niven e Alberto Sordi. E all’uscita mi disse: “Non credere che gli italiani fossero tutti come Alberto Sordi nel film; hanno fatto anche cose molto coraggiose” e mi raccontò della X Mas. Perciò ho da sempre voluto scrivere quella storia e così ho continuato per anni ad accumulare documentazione ed ho anche visto qualche "maiale" nei musei di Venezia e La Spezia. Il romanzo è andato maturando per anni nella mia testa, perché un romanziere è ciò che legge, ciò che ricorda e ciò che immagina. Tra le mie letture sull’argomento, il classico ‘Suicide Ships’ di Luis de la Sierra, e i più moderni ‘Le scorribande della Decima flottiglia Mas’ e ‘Platea’ di Esteban Pérez Bolívar. Ricordo anche il film ‘The Silent enemy’ di William Fairchild. E ricordo bene il vecchio coltello di un sommozzatore italiano che un amico giornalista di Gibilterra, Eddie Campello – sì, lo stesso nome che compare nel romanzo – una volta mi mostrò…» Poi, segnalando verso ovest, verso il mare e Algeciras: « Ecco da dove vennero, nel secondo molo che da qui si può vedere in lontananza era ancorata l’Olterra, il cavallo di Troia, la nave mercantile italiana presumibilmente in riparazione che nascondeva la base dei "maiali" e da cui attraverso una botola partì il gruppo dell’Orsa Maggiore per andare all’attacco. Vennero con i loro siluri come fossero sedili, con l’acqua fino al petto, e quando raggiunsero il varco si immersero per superare le reti di difesa per poi attaccare e affondare alcune delle navi ormeggiate. Immaginate come deve essere stato attraversare quello spazio di mare sporco e pericoloso, di notte, con il freddo e con il nemico in guardia. Bisognava essere di pasta molto speciale – e fu il loro grande vantaggio – per poter fare quelle cose che gli inglesi non si potevano nemmeno immaginare. A Gibilterra affondarono ben quattordici navi alleate e alcuni di quei sommozzatori d’assalto italiani rimasero uccisi. Ebbene, tutto questo è ciò che io ho voluto tradurre in romanzo. Però, le azioni condotte e le circostanze narrate, gli episodi storici raccontati insomma, sono tutti stati la realtà. [(*) segue: Dal romanzo alla realtà] Una realtà così spettacolare da lasciare ognuno stupefatto e, in- fatti, il mio romanzo è stato anche frutto del mio stupore… Laggiù c’è anche la spiaggia dove all’inizio della storia, la protagonista – Elena Arbués – trova il sommozza-


Un uomo Gamma tore – il sottufficiale italiano Teseo Lombardi – steso sulla sabbia: una donna sulla spiaggia, un uomo esausto in tuta di gomma restituito dal mare e una nave in fiamme in lontananza. Elena, donna di grande cultura classica, ha una libreria che si chiama Circe; Teseo, non è il tipico eroe che ha sangue sulle unghie e nella sua memoria, ma, invece, è primitivo, puro, non malevolo, persino ingenuo, non parla e non legge. Ed è, infatti, proprio la protagonista, col suo sguardo allenato alla lettura, in Omero, in Tucidide, in Senofonte, in Virgilio, che fa di lui un eroe. Ed alla fine, lei sarà più audace, eroica, avventurosa di lui… Nel mio romanzo c’è il Mediterraneo come patria culturale, il luogo da cui provengono gli eroi che son rimasti ben saldi nella nostra testa. La mia storia è un omaggio al Mediterraneo classico, alla cultura della memoria del nostro mare, e una rivendicazione di tutti quegli eroi. Un atto di giustizia per ridare dignità a quegli audaci sommozzatori della X Mas e, per inciso, ai combattenti italiani della seconda guerra mondiale, spesso vituperati e ingiustamente sottovalutati, specialmente dagli anglosassoni, E poi c’è Gibilterra, un confine, e le cose importanti succedono ai confini, dove si trova sempre una grande ricchezza di personaggi e di situazioni, un palinsesto di tante storie ed imprese umane.» Così, invece, il giornalista Jacinto Antón del quotidiano El Pais intitolò quella presentazione: «Arturo Pérez-Reverte s’immerge con una storia d’amore nella grande avventura dei sommozzatori italiani della seconda guerra mondiale: ‘El italiano’ un romanzo sugli audaci attacchi dei siluri guidati dagli uomini della Decima Flottiglia Mas alla base britannica di Gibilterra. Le gesta belliche dei mitici incursori della X Mas del principe nero Junio Valerio Borghese, un’élite di nuotatori d’assalto, antecedenti italiani dei ‘navy seals americani’ che, cavalcando i loro instabili e pericolosi "maiali" – come chiamavano i loro mezzi di trasporto, le loro armi, i "Siluri a Lenta Corsa" – s’infiltrarono più volte nei porti britannici del Mediterraneo ed affondarono le navi da guerra alleate. Missioni quasi suicide che suscitarono lodi da parte dello stesso Churchill e l’invidia dei tedeschi. Gli attacchi ad Alessandria, a Creta, a Malta e a Gibilterra, rivendicarono per sempre, nonostante i luoghi comuni, gli italiani come guerrieri di prima classe.» Lo scrittore spagnolo Arturo Pérez-Reverte, che non disdegna certo la sana polemica, ha anche voluto cogliere l’occasione della presentazione di questo suo recente romanzo per deplorare “la terribile tendenza molto spagnola a non riconoscere il valore dei nemici politici”. Sottolineando in proposito, che “si può riconoscere che Franco è stato un coraggioso comandante della Legione, senza con ciò dover negare che fosse un sinistro dittatore”. In Italia, invece, da parte di alcuni si fa anche di peggio: si ha la tendenza a non riconoscere il valore, e finanche a nascondere l’eroismo, di uomini “aprioristicamente e subdolamente” supposti essere nemici “ideologici” sol perché agirono in uniforme militare, durante un periodo storico in cui lo Stato di turno meritò poi di essere esecrato. E gli esempli sono tanti. Non ancora proprio una ‘italian cancel culture’, quanto una specie di ‘dannatio memoriae’.

(*)

Dal romanzo alla realtà Anche se, come del resto è normale e giusto che sia, l’autore ha introdotto alcuni elementi e personaggi immaginari nel suo racconto – “con la certezza che, paradossalmente, la finzione permette penetrare ancor più nell’accaduto che il semplice relato dei fatti” – la realtà storica delle vicende di questo romanzo non è certo rimasta mistificata, anzi, tutt’altro. Le missioni degli intrepidi sommozzatori italiani della X Mas condotte contro la base britannica di Gibilterra furono parecchie, nove per l’esattezza, alcune di esse con esito positivo altre negativo, alcune con caduti e prigionieri altre senza soffrire perdite. Ebbene, furono le ultime tre – la B.G.5 la B.G.6 e la B.G.7 – quelle che, partite dalle viscere della motonave Olterra, se pur intrecciate in una specie di compendio, fanno da sottofondo alle pagine di ‘El italiano’. La B.G.5 fu eseguita nella notte tra il 7 e l’8 dicembre del 1942 da sei incursori su tre Siluri a Lenta Corsa – SLC – al comando del Tenente di Vascello Licio Visintini, capo di quella Squadriglia dell’Orsa Maggiore da lui stesso ideata e meticolosamente addestrata al riparo della motonave Olterra da cui partirono i tre ‘maiali’ alla volta della rocca: fu quella la prima, e l’unica con esito negativo e tragico, delle tre operazioni intraprese dall’Olterra. Seguirono le altre due missioni, condotte rispettivamente l’8 maggio e il 4 agosto 1943, entrambe con tre SLC e con esito positivo: rientro indenne dei rispettivi sei incursori e tre obiettivi colpiti ogni volta per un totale di 42.782 tonnellate di navi nemiche affondate. Discendenti in primo grado dalla Torpedine Semovente Rossetti, nota come "mignatta" a sua volta variante dei famosi MAS, gli SLC - Siluri a Lenta Corsa - più popolarmente chiamati "maiali", durante la seconda guerra mondiale portarono a segno numerose azioni contro la flotta alleata, penetrando nelle più importanti

basi navali nemiche, strategicamente ubicate nel Mediterraneo. Seguendo quindi le orme di quei MAS che già nella prima guerra mondiale si erano superati in valore e gloria, attaccando e abbattendo la potente flotta austro-ungarica schierata nell’Adriatico, fino ad affondarne anche la nave ammiraglia, la corazzata Szent


István il 10 giugno 1918 nell’impresa di Premuda al comando di Luigi Rizzo. MAS che avevano già portato a segno numerose azioni vincenti: le prime, il 7 e il 26 giugno 1916 con i MAS 5 e 7, che partendo dalla loro base di Brindisi, al comando di Vincenzo Berardinelli e Gennaro Pagano di Melito, penetrarono la rada di Durazzo, affondando il piroscafi austriaci Lokrum e Sarajevo. Poi, nell’Alto Adriatico, nel dicembre del 1917 i MAS 9 e 13, al comando di Luigi Rizzo e Andrea Ferrarini, affondarono nella rada di Trieste la corazzata austro-ungarica Wien e danneggiarono la Budapest. Nella notte tra il 10 e l’11 febbraio 1918, i tre MAS 94, 95 e 96, con Luigi Rizzo Costanzo Ciano e Gabriele D’Annunzio, penetrarono nella baia di Buccari, a sud di Trieste, per eseguire quella che doveva essere ricordata come la ‘Beffa di Buccari’. Il 13 maggio 1918, di nuovo dalla base di Brindisi, i MAS 99 e 100 comandati da Pagano e Mario Azzi, affondarono il piroscafo austriaco Bregenz. La "mignatta" di Raffaele Rossetti, infine, penetrata al suo comando nel porto di Pola, il 1º novembre 1918 avrebbe affondato la corazzata austriaca Viribus Unitis. Il Siluro a Lenta Corsa fu ideato dal maggiore Teseo Tesei assieme al maggiore Elios Toschi: un mezzo subacqueo – prototipo 1936 – che trasportava una carica esplosiva da oltre 200 Kg, in grado di muoversi sottacqua portando a cavallo due operatori subacquei che lo guidavano. Il primo reparto nella Marina militare italiana denominato “Comando dei mezzi

d'assalto” venne costituito a La Spezia nel 1938 e il 1º luglio 1939, al comando del capitano di fregata Paolo Aloisi, fu costituita la I Flottiglia MAS il cui nominativo nel 1941 fu cambiato in X Flottiglia MAS. Il sommergibile Ametista, al comando del tenente di vascello Junio Valerio Borghese, venne destinato come trasportatore dei “maiali” inquadrati nella I Flottiglia MAS. Nella base britannica di Gibilterra, all’inizio di dicembre 1942, erano entrate un buon numero di unità della rinnovata squadra navale inglese. Gli Inglesi perciò, erano all’erta e, forti delle conoscenze acquisite sulle metodiche di attacco degli italiani, avevano potenziato le difese nel tentativo di impedire il minareto delle navi. Le reti a protezione del porto e delle navi erano state rafforzate impiegando delle ostruzioni che avevano un lungo imbando che si distendeva sul fondo, esse variavano nel numero, ma non erano mai inferiori a tre e la loro apertura non avveniva mai contemporaneamente. Inoltre, cariche esplosive subacquee venivano lanciate ad intervalli di circa dieci minuti. Riflettori posizionati in punti strategici illuminavano a giorno lo specchio d’acqua interessato. E il tenente di vascello Licio Visintini, comandante della “Squadriglia dell’Orsa Maggiore”, sapeva tutto questo grazie ad un osservatorio sistemato dietro ad un oblò dell’Olterra, da cui, con cronometrica assiduità, spiava tutto ciò che avveniva nella baia e nel porto di fronte, per così imparare le abitudini dei nemici. I tre equipaggi uscirono con ritardo e separati tra loro per cause banali e per piccole avarie. La coppia Visintini-Magro uscì alle 23.15, procedendo verso le ostruzioni battute dal fascio dei proiettori e sotto gli schianti delle bombe di profondità, lanciate a brevissimi intervalli. Giunse alle ostruzioni e le superò. Un rapporto britannico, diretto all’ufficio storico, riferisce: una coppia entrò nel porto, ma poi perì in seguito ad attacchi di bombe di profondità. Non poteva che essere la coppia Visintini-Magro. La seconda coppia, Manisco-Varini, uscì alle 24.15

Arturo Pèrez-Reverte sullo sfondo la baia di Algeciras

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e, sempre secondo il rapporto britannico, fu avvistata da una sentinella, illuminata e attaccata dai colpi di un cannone e di bombe di profondità. I due incursori furono recuperati da una nave mercantile e quindi fatti prigionieri. Interrogati i prigionieri, gli inglesi ritennero che fossero giunti con il sommergibile Ambra. La terza coppia, Cella-Leone, anch’essi attardati per alcune avarie, uscirono dall’Olterra alle 01.40, quando l’allarme era già scattato. Solo Cella riuscì a rientrare alla base, mentre andò perso il suo secondo, probabilmente ucciso da una carica, dopo essere stato sbalzato fuori dal seggiolino del suo SLC. Nel libro "Uomini contro Navi" di Beppe Pegolotti, la tragica conclusione di questa missione: « Finita la missione nel segno dell'audacia senza limiti, costò più che una decimazione della squadriglia. Rientrò solo Cella, mentre caddero il comandante con il secondo e anche Leone morì, mentre Manisco e Varini rimasero prigionieri. I cadaveri di Visintini e Magro furono ripescati qualche giorno più tardi nel porto di Gibilterra e gli inglesi resero loro gli onori militari. Lionel Crabb, tenente di vascello e capo dei servizi di sicurezza subacquea "detto uomo rana" gettò per loro una corona di fiori sulle acque. Per questo gesto cavalleresco non mancò, tra gli ufficiali della roccaforte inglese, chi gli mosse antipatiche critiche. Ma da combattente a combattente, non poteva che inchinarsi davanti al coraggio e al sacrificio.» Le operazioni B.G.6 e B.G.7 furono comandate entrambe dal Tenente Ernesto Notari e gli altri cinque incursori partecipanti furono: Vittorio Cella – l’unico che era rientrato dalla B.G.5 – Camillo Tadini, Eusebio Montalenti, Salvatore Mattera e Ario Lazzari – sostituito nella B.G.7 da Andrea Gianoli. In conclusione, alcune cifre, aride come inevitabilmente lo sono tutte le cifre, ma che in questo caso rendono chiaramente l’idea di quello che, per l’Italia e in particolare per la marina italiana nella seconda guerra mondiale, rappresentarono gli incursori della X Squadriglia Mas e di quale fu il loro professionalismo, il loro coraggio e la loro eroicità: « I poco più di 200 uomini che servivano nei mezzi d’assalto subacquei e di superficie, affondarono il 38% del naviglio militare nemico distrutto dalla nostra marina militare nella seconda guerra mondiale, ed il 15% di quello mercantile. E ciò avvenne – in numerosi scenari tra cui, Gibilterra, Suda, Malta e Alessandria d’Egitto – con atti di grande valore che furono riconosciuti anche dagli avversari, in particolare dal Primo ministro Winston Churchill nella Camera dei Comuni di quella coraggiosa nazione, che ci fu avversaria, di Gran Bretagna...» [Dal discorso del presidente della Repubblica Francesco Cossiga a La Spezia 9 giugno 1991]. Più precisamente, furono colpiti mezzi navali nemici per più di 200.000 tonnellate tra cui due navi da battaglia, due incrociatori e un cacciatorpediniere. Furono effettuate 38 operazioni d’assalto e furono impiegati 238 uomini: 20 caduti, 53 prigionieri e 165 rientrati incolumi. Furono assegnate in totale, alcune volte allo stesso militare partecipante a operazioni diverse, 200 medaglie: 50 di bronzo, 117 d’Argento e ben 33 Medaglie d’Oro al Valor Militare.

il7 MAGAZINE 27 11 marzo 2022


CULTURE

LA RIVOLTA DEGL, SCHIAVI A BRINDISI NEL 24 D.C. Si verificò sotto l’imperatore Tiberio con i presupposti di poter scuotere persino la sicurezza di Roma E non trascese per un puro caso di Gianfranco Perri razie all’opera di Tacito Publio Cornelio, lo storico romano vissuto tra il 1º e il 2º secolo d.C., ci è stato dato di sapere – Annali, Libro IV (27) – che nel 24 d.C. sotto l’impero di Tiberio ci fu in Brindisi una grave rivolta antiromana di schiavi, che ebbe molta risonanza, che fece molto scalpore fin nella stessa Roma e che non trascese quanto avrebbe ben potuto solo – a dire di Tacito – per le casuali fortunose circostanze, naturalmente sfortunate per i rivoltosi, che ne permisero la tempestiva violenta e definitiva soppressione. Sin dall’epoca di Augusto si erano andati creando nella romana Calabria – l’attuale Salento – latifondi sempre più vasti che già negli ultimi tempi della Repubblica cominciarono ad essere posseduti non più da proprietari locali, più o meno facoltosi, quanto da ricchi nobili e potenti proprietari romani – la zia di Nerone, Domizia Lepida, ne possedeva di molto estesi – ed in conseguenza in gran parte del territorio agricolo salentino si erano accumulate squadre, se non addirittura schiere, di schiavi. Schiavi che erano posseduti non solo dai privati, ma anche dagli enti pubblici imperiali

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gestori del ‘ager publicus’ quando non appartenevano direttamente ai tanti latifondi finiti nel ‘patrimonium principis’ il patrimonio familiare imperiale. In media il lavoro di uno schiavo non superava il ventennio e verso i quarant’anni d’età, per lo più, o era morto o diventava libero per così confluire nella plebe. Liberi, meglio detti liberti, si diventava con una libertà che si otteneva comprandola dal padrone con l’eventuale ‘peculium’ ricevuto come ricompensa o regalia del lavoro extra a cui gli schiavi erano incentivati dallo stesso padrone, il quale vendeva loro volentieri la libertà giacché con quell’incasso comprava a sua volta uno schiavo più giovane, rinnovando in questo modo la ‘merce’ quasi completamente a spesa dello schiavo precedente. Se questo poi avesse avuto figli che avesse voluto liberare, avrebbe messo da parte un altro ‘peculium’ lavorando duro per quello durante il resto della sua vita. In quel contesto storico, l’accumulazione di schiavi in una contrada ne accentuava inevitabilmente l’insicurezza politica a causa dello stato di costante potenziale ribellione diffuso tra gli schiavi, che solamente il pugno di ferro costringeva al lavoro coatto sotto una disciplina per lo più durissima. I metodi repressivi


LE IMMAGINI A sinistra una biremi romana, in basso un’immagine della rivolta degli schiavi

nell’impero erano ammessi dalla legge e dal costume, tanto che nel 58 d.C. sarebbe stato emanato un feroce decreto senatoriale, inteso a salvaguardare la vita dei grandi proprietari circondati di schiavi, con cui si intimava “condannare a morte tutti gli schiavi che fossero sotto lo stesso tetto, compresi quelli già destinati a libertà per testamento, nel caso che fosse ucciso il loro padrone”. Un decreto che negli anni fu più volte rigorosamente applicato. Agli occhi dei detentori del potere politico e militare, infatti, diventava delittuoso perfino allargare le maglie della disciplina; trattare umanamente gli schiavi poteva far nascere il sospetto d’una collusione politica a fini eversivi, giacché si temeva che tra il gran numero esistente di gruppi servili potesse d’improvviso accendersi una vasta sedizione. L’accusa che nel 54 d.C. uccise la citata Domizia Lepida, malignamente architettata da Agrippina minor moglie di Claudio e forse poggiante su qualche fondamento, fu proprio quella d’aver allentato nei suoi latifondi calabri, le norme della disciplina degli schiavi divenuti così, pericolosamente incontrollabili. Il rischio delle ribellioni schiaviste nei territori italiani romanizzati, in effetti, era stato da molto tempo una costante, e proprio gli schiavi della Calabria avevano costituito con

frequenza un grosso problema per la classe dominante romana, mentre non mancò chi pensò bene di sollecitare, o finanche aizzare, quelle masse schiave per rivoltarle contro il potere costituito. Per solo citare il caso più famoso: quando nel 73-71 a.C. Spartaco, fuggito dalla scuola gladiatoria di Capua mise a soqquadro l’ordine repubblicano, inseguito dalle truppe di Crasso raggiunse il corso del Sele e per sfuggire alla morsa, come ultima carta, cercò di raggiungere il passo di Conza, con l’idea di scendere in Puglia e sollevare le enormi masse servili presenti in quel territorio. E forse ci sarebbe anche riuscito se non gli fosse stato sbarrato il passaggio, obbligandolo quindi a battersi e, inevitabilmente, a soccombere alle armi romane. E Spartaco non fu certo il solo né l’ultimo a perseguire l’obiettivo di rivoltare contro il potere centrale romano le masse servili e schiave. Se ne può aver conferma dalle pur scarse notizie pervenute di congiure nelle quali furono implicati servi e schiavi, a partire dal famoso ‘bellum servile’ di Sesto Pompeo – che nel 42 a.C. per sfuggire alle proscrizioni della ‘Lex Pedia’ reclutò una flotta composta da ex schiavi e pirati con cui occupò la Sicilia la Sardegna e la Corsica e si diede alla pirateria impedendo i rifornimenti a Roma – fino ai tempi, appunto, di Tiberio. L’azione promossa nel 19 a.C. contro Augusto dall’ex pretore Ignazio Rufo che aveva acquisito un crescente favore popolare, non sfociò in aperta rivolta, ma quando fu arrestato e giustiziato, gli schiavi da lui addestrati per il servizio contro gli incendi avrebbero potuto costituire una pericolosa forza d’urto. Quando, morto nel 14 d.C. Augusto, fu assassinato Agrippa Postumo, il suo schiavo Clemente, che per età e aspetto somigliava al suo padrone, ne sottrasse le ceneri e si nascose in attesa che gli crescessero capelli e barba. Quindi, servendosi di abili complici, fece diffondere macchinosamente la notizia che – per dono degli dei – Agrippa era vivo e salvo, e che una gran folla l’aveva accolto al suo sbarco a Ostia diretto a Roma e che tanti uomini potenti in città l’attorniavano in riunioni clandestine per appoggiarlo contro Tiberio e prenderne il posto. Questi da parte sua, preoccupato per l’appoggio che quell’avventuriero andava evidentemente raccogliendo, indeciso tra fare arrestare quello schiavo o lasciare che il tempo dissipasse l’illusione, risolse infine mandarlo a catturare con un inganno e farselo portare al cospetto. Si dice che alla domanda di Tiberio, su come fosse diventato Agrippa, abbia risposto: “come tu sei diventato Cesare”. Tiberio non riuscì a costringerlo a denunciare i complici e non osò giustiziarlo sotto gli occhi di tutti, ma lo fece uccidere in segreto facendone scomparire il ca-


davere. E benché girassero voci insistenti e credibili su protezioni e aiuti prestati allo schiavo da parte di molti della stessa casa del principe, oltre che da cavalieri e da senatori, nessuna indagine fu avviata. [Tacito-Annali] Ma ecco quello che invece, a proposito della rivolta di Brundisium, relata Tacito nel IV Libro dei suoi Annali: « In quella stessa estate [24 d.C.] solo ‘il caso’ annientò i germi, già sparsi in Italia, di una guerra servile. Ad organizzare la rivolta fu Tito Curtisio, un tempo soldato di una coorte pretoria, il quale, dapprima con riunioni clandestine presso Brindisi e nei borghi circostanti, poi con pubblici proclami chiamava alla libertà gli schiavi impiegati nei campi e nei pascoli di quel vasto territorio, gente dura e decisa. Ma, quasi per grazia degli dèi, approdarono tre biremi, impiegate a protezione del commercio su quel mare. Sempre in quelle regioni si trovava il questore Curzio Lupo, cui, secondo un antico costume, era toccata la giurisdizione sulle vie di comunicazione. Costui, fatti intervenire quei reparti di marina, stroncò la sedizione proprio quando stava per scoppiare. E il tribuno Staio, inviato in tutta fretta dall’imperatore Tiberio con effettivi consistenti, trascinò il capo della rivolta e gli organizzatori più audaci a Roma, già allarmata per la massa degli schiavi in vistosa crescita mentre la popolazione libera diminuiva di giorno in giorno.» Si sa molto poco di Tito Curtisio, praticamente solo che era un ex soldato pretoriano. Da quando e perché era a Brindisi non se ne ha idea, mentre si è ipotizzata la presenza stabile di pretoriani a Brindisi nella prima età imperiale, sulla base di considerazioni relative alla cronologia di alcune iscrizioni di militari su stele funerarie rinvenute in città e di un caso specifico interamente documentato – C. Ventidius Bales – corrispondente a un veterano pretoriano stabilitosi a Brindisi dopo il congedo e sepolto assieme a suo figlio morto

LE IMMAGINI La locandina di un film che racconta la rivolta degli schiavi e in basso un miles classiarius-soldato romano di marina

a due anni. Meno ancora si sa delle ragioni e dei piani effettivi per cui l’ex pretoriano Tito Curtisio avesse intrapreso il fomentare quella sua convinta e insistente azione sovversiva tra gli schiavi del Salento. Un’azione che si svolse a Brindisi e città limitrofi ‘apud Brundisium et circumiecta oppida’. Dapprima avviò incontri clandestini con gruppi isolati ‘coetibus clandestinis’ e poi addirittura fece giungere manifesti ‘libellis’ di eccitamento alla rivolta anche in località più lontane ‘per longinquos saltus’. Auspicando la lotta armata della classe oppressa contro gli oppressori, nei discorsi e nei manifesti reclamava la libertà delle squadre servili addette ai lavori dei campi particolarmente esasperate dalla sofferenza fisica ‘ad libertatem vocabat agrestia et ferocia servitia’. [“La Schiavitù nell'Italia Imperiale. I-III Secolo” di E. M. Staerman & M. K. Trofimova, 1975] Nelle regioni italiche, il rispetto della legge e l’ordine sul territorio e sulle vie di comunicazione erano all’epoca affidati al ‘questore’, un magistrato di basso rango che, pur avendo perduto importanza sotto il principato, oltre ad essere addetto alla regolamentazione dei pascoli conservava tra le sue attribuzioni quella di polizia delle coste con il comando delle operazioni militari che potevano derivarne. La questura sotto la cui giurisdizione cadeva Brundisium era quella di Cales – vicino Capua – e il questore Curzio Lupo, che era stato posto in allarme, si era approssimato alla zona interessata dalle attività sovversive del Curtisio. Apparentemente, giusto poco prima che Curtisio desse formale inizio alla rivolta in armi delle squadre servili e comunque in procinto di completarne la mobilitazione, il questore Lupo s’imbatté nei rivoltosi radunatisi presso uno dei porticcioli salentini dell’Adriatico proprio nello stesso momento in cui inaspet-

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tatamente e “per caso” ‘velut munere deum’ vi giunsero tre delle biremi romane addette al servizio di guardiacoste per la sicurezza dei trasporti marittimi. Ed a quel punto, il questore Curzio Lupo solo dovette ordinare ai soldati della marina romana di piombare su quei primi assembramenti di schiavi rivoltosi armati, per discioglierli ed arrestarne i capi. E così accadde: la pericolosa sedizione maturata in terra di Brundisium era stata stroncata sul nascere. Nel mentre, a Brindisi giungeva da Roma un tribuno militare tempestivamente inviato dall’imperatore Tiberio con ingenti forze: Stazio, il quale, avendo verificato come la sommossa fosse già stata sedata, procedette solertemente ad eliminarne sommariamente ogni residuo indizio e condusse a Roma Curtisio con tutti i rimanenti capi della congiura.

A Roma furono tutti condannati e giustiziati d’accordo con la legge vigente: crocifissi tutti gli schiavi e abbattuto mediante flagellazione il veterano pretoriano Tito Curtisio. Per concludere, ecco qualche disaccordo in merito alla versione tramandataci da Tacito sulla vicenda brindisina: «Verosimilmente non fu ‘il caso’ a reprimere il movimento sovversivo, ma fu un’efficiente organizzazione poliziesca, con un funzionale servizio per terra e per mare appoggiato dalle forze armate.» [Vito A. Sirago, 1993] «Il racconto di Tacito appare francamente esagerato: la rivolta di Curtisio non fu affatto paragonabile a quella di Spartaco, ma ebbe un carattere del tutto locale. Le altre regioni rimasero tranquille, non perché le condizioni degli schiavi fossero migliori, ma perché mancavano capi e organizzazione.» [Zvi Yavetz, 1999]

D’altra parte, però, se un trentennio dopo i fatti di Brundisium la semplice accusa di scarsa severità con gli schiavi fu causa di morte per la nobile Domizia Lepida, vuol dire che la paura provocata dalla possibile rivolta delle masse servili era pur sempre viva, anche perché gli schiavi del Salento erano restati indomabili e, di fatto, non atterriti nemmeno dalla crocifissione. Certo è, comunque, che quell’episodio in apparenza puntuale meriterebbe molti altri approfondimenti: per esempio sul gran numero degli schiavi presenti intorno a Brindisi, sui torbidi che potevano scoppiare da un momento all’altro localmente ma con ripercussioni perfino nella lontana capitale dell’impero, sul tempestivo e feroce intervento delle forze repressive romane, e molto altro. Ma sarà per qualche altra buona occasione!

Milites classiarii: soldati romani di marina


CULTURE

CRUDOMONTE

PATRIOTA bRINDISINO DIMENTICATO MORTO 150 ANNI FA Morì il 10 aprile 1872 dopo essere stato uno dei protagonisti della sovversione contro il ricostituito potere dei Borboni Fu capo della Guardia nazionale di Brindisi di Gianfranco Perri on il congresso di Vienna del 1815, in tutti gli Stati europei avanzò rapidamente la restaurazione postnapoleonica. I sentimenti liberali che avevano accompagnato la rivoluzione francese però, erano stati solidamente acquisiti tra gli appartenenti a molti settori delle società, ed in conseguenza presto sorsero in quasi tutti quei paesi associazioni e sette cospirative segrete – cui aderirono perlopiù membri della borghesia, della nobiltà liberale e dell’intellettualità progressista – miranti alla sovversione del vecchio ordine nuovamente restaurato. In tale contesto storico a Brindisi, mentre il re Ferdinando I di Borbone si riconsolidava sul trono di Napoli divenuto delle due Sicilie, oltre alle “vendite” carbonare, giunsero a radicarsi la setta dei “Filadelfi” e quella dei “Decisi”. E già allora, fra le figure della “sovversione” brindisina andava assumendo un certo rilievo l’ancor giovane Giovanni Crudo, altrimenti noto con il cognome Crudomonte da quando, con decreto del Procuratore del Re presso il Tribunale di Lecce datato 5 ottobre 1834, avrebbe ottenuto di potere aggiungere all’originario cognome di Crudo, quello di Monte

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per trasformarlo quindi in “Crudomonte”. Giovanni Crudo era nato in Brindisi il 22 gennaio 1792, nel palazzo del XVII secolo tuttora esistente all’incrocio tra l’antico vico Crudo – attuale largo Crudomonte – e via Congregazione, che venduto nel 1910 e restaurato con l’aggiunta di una torre, mostra tuttavia l’originaria struttura e le tipiche modanature dell’architettura gotico-catalana. Nel 1754 il fuoco, cioè la famiglia, dei Crudo era composta da Don Giovanni Crudo di anni 38 dottore in legge; Donna Caterina Teresa d’Errico del fu Onofrio, moglie, di anni 37; Pietro Paolo, figlio, di anni 7; Benedetto, figlio, di anni 5; e Maddalena Crudo, schiava emancipata, di anni 76. E quasi quarant’anni dopo, da quel Benedetto Crudo, dottore in legge, regio governatore e giudice in Brindisi, e Anna Plantera da Veglie, nacque il Giovanni che si sarebbe poi detto Crudomonte. Fu battezzato da Annibale De Leo nello stesso giorno in cui nacque – 230 anni fa – come Giovanni Luigi; ebbe un fratello, luigi, due sorelle, una figlia, Giovanna, e tre figli maschi: Pietro avvocato, Catone insegnante, e Francesco. Dalle carte di polizia dell’Archivio storico di Lecce si rileva che: nel 1817 Giovanni Crudo era capo dei “Filadelfi” e apparteneva alla setta dei “Decisi”; che quell’anno il moto co-

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LE IMMAGInI A sinistra un ritratto di Giovanni Crudomonte, sotto il palazzo nel centro di Brindisi che porta il suo nome

stituzionale nel Salento lo vide fra i suoi più arditi promotori; e che nel 1820 divenne capitano della legione e gran maestro dei “Liberi piacentini”. «…Un attacco con violenza e ferite a una pattuglia del reggimento Real Corona, avvenuto in Brindisi nella notte del 17 novembre 1820, fu attribuito a Giovanni Crudo, Luigi D’Amico e Nicola Moricchio. Cenno a questo conflitto tra cittadini e forze dell’ordine è in relazione comunale del 18 novembre 1820 ove si legge che rimasero feriti due soldati della pattuglia militare che, reduce dal teatro ov’era stata pel mantenimento del buon ordine, si ritirava al Castello di terra, ov’era accasermata.» [“Cronaca dei Sindaci di Brindisi dal 1787 al 1860”] Dopo il famoso “nonimestre costituzionale di Ferdinando I” Crudo Giovanni fu arrestato dal sottintendente di Brindisi Cito e fu tradotto nelle carceri di Lecce, poi in quelle della Vicaria a Napoli e di nuovo in Lecce, dove vi rimase trattenuto due anni. Era stato imputato di aver introdotto armi nel Forte di Brindisi, aiutato dal carbonaro Francesco D’Oria capitano preposto al lazzaretto del Porto e di aver favorito l’evasione dei detenuti con l’intenzione di rovesciare il governo grazie all’appoggio che avrebbe ricevuto dai carbonari. Da allora in avanti la vita di Giovanni Crudo si

svolse tra il continuo succedersi ed alternarsi di persecuzioni, prigionie, processi e vigilanze speciali. Già nel 1827 fu nuovamente imprigionato a Lecce per alcuni mesi e «…tornato in famiglia, trovò le sue campagne derubate e danneggiate dalla plebaglia che in quei tempi considerava legittima la rapina delle proprietà dei “nemici del trono e dell’altare”.» [“Brindisi ignorata” di Nicola Vacca, 1954]. Poi, nel 1830, gli eventi dell’oltralpe francese riaccesero le speranze anche tra molti dei settari di Brindisi, ed in quell’anno ne stimolarono ed incoraggiarono le azioni cospirative: «…A tre ore e più di notte dell’8 febbraio 1830, nel palazzo di Francesco Perez s’intratteneva una comitiva, della quale facevano parte parecchi attendibili. La polizia picchiò più volte, ma invano; da ultimo, ritornata con rinforzo di gendarmeria e rinnovato il tentativo, il portone fu aperto. Il commissario, entrato in una sala, vi trovò persone dell’uno e dell’altro sesso, parte in piedi, parte sedute, mentre Felice Quarta e Moisè della Corte suonavano due strumenti musicali. Fra gli altri vi trovò “il famosissimo settario, don Giovanni Crudo, uomo irriconciliabile con l’attuale sistema di cose, tenente legionario, già gran maestro dell’ordine carbonaro portato a fare innovazioni politiche, colpevole di più immiscenze settarie ed altri fatti criminosi anche dopo i fatti del 1821 ed uno di quelli che durante il nonimestre finsero condanna a morte e bruciarono l’effigie del principe di Metternich nella pubblica piazza di questo comune”. Il commissario, che dal ritardo ad aprire comprese trattarsi di ben altro che di una festa danzante, ingiunse a tutti di sciogliersi. I sorpresi uomini furono trattenuti sotto mandato per quindici giorni e nessuna molestia toccò alle signore. Per il Perez il commissario propose che fosse ritirato in qualche monastero di Brindisi per venti giorni.» ["Cronaca dei Sindaci di Brindisi dal 1787 al 1860”] Esaurita del tutto la rivolta scoppiata a Palermo il 12 gennaio 1848, il 13 settembre il maresciallo Marcantonio Colonna entrò nel capoluogo della Terra d’Otranto ed ebbe inizio così, una lunga stagione di persecuzioni, arresti, processi e condanne, che si protrasse per quasi tutti gli anni ‘50. A Giovanni Crudomonte gli fu imprigionato uno dei figli, Pietro, un bravo avvocato che dopo 5 mesi di patimenti morì nel bagno penale di Brindisi e verso metà del 1850, lo stesso Giovanni con un altro suo figlio appena diciottenne, Francesco, fu imprigionato nelle carceri centrali di Lecce. Sottoposto a processo con l’accusa di diramare voci allarmanti al fine di spargere il malcontento, fu liberato insieme col figlio il 5 novembre 1850. Francesco Crudomonte, assieme al fratello Catone, avevano frequenti


relazioni coi capitani dei legni che approdavano a Brindisi per mezzo dei quali furono mantenuti contatti con gli esuli di Francia e di Grecia. Brindisi era infatti divenuta la chiave delle corrispondenze con gli emigrati e con i grandi patrioti esiliati. I giovani Crudomonte assistevano preparavano e proteggevano le imbarcazioni clandestine di perseguitati politici diretti alle rive opposte e specialmente a Corfù, l’isola che ospitava quanti d’Italia fuggivano la reazione: «… A Brindisi facevano capo per i frequenti approdi di legni, le corrispondenze con gli esuli napoletani in Grecia e in Francia, grazie a un gruppo alacre di brindisini antiborbonici, tra i quali gli attivissimi fratelli Catone e Francesco Crudomonte, figli di Giovanni che assistevano preparavano e proteggevano le imbarcazioni clandestine, coadiuvati da Giacomo Santostasi, Angelo Miccoli, Giacomo Catanzaro, Nicola Perrone, e da altri. Si riunivano nel retrobottega di liquori di Vito Lisco, o nel caffè di Francesco Palmisano detto Cicciotto. Giorgio Prinari di Corfù serviva loro da intermediario coi capitani dei legni esteri, tra cui si distinse Gustavo De Martino, il giovane comandante del trabaccolo Elisa. Anche il viceconsole di Francia Leuvrier proteggeva gli “attendibili”. L’ispettore di polizia del porto chiudeva gli occhi e la dogana, inefficace, lasciava fare.» [“Risorgimento salentino (1799-1760)” di Pietro Palumbo, 1911] Nel 1856 la polizia, attraverso le sue tante spie

LE IMMAGInI La libertà guidando il popolo-Olio su tela d i Eugène Delacroix, 1830-Museo del Louvrea, a destra la scuola Crudomonte, al rione Bozzano

infiltratesi tra i gruppi patriotici brindisini, aveva avuto sentore di relazioni criminose tra gli “attendibili” e così, la notte dal 26 al 27 novembre 1856 il commissario di polizia Pacifico entrò in casa di Domenico Balsamo in via Duomo, e procedé ad una minuziosa perquisizione. Nel fodero di una scrivania fu repertata una delibera settaria che poi si accertò essere di grafia del Crudomonte. Furono arrestati Balsamo, Crudomonte e altri “settari”. Fu in seguito accertato che i liberali, oltre che in casa di Domenico Balsamo, si riunivano segretamente anche nel retro del botteghino di Cesare Chimienti e nella caffetteria di Francesco Palmisani, dove leggevano giornali esteri e si scambiavano notizie ed intese. Tradotti a Lecce, fu istruito il processo a Crudomonte e ai suoi compagni, accusati tutti di cospirazione concertata accettata e conclusa allo scopo di cambiare il governo, nonché di associazione illecita col vincolo del segreto, costituente setta tra più persone. In carcere, l’intendente della provincia Carlo Sozzi-Carafa, interrogò il Crudomonte: “Cospiri pel ritorno del Murat?” Risposta: “Sarebbe stoltezza il cospirare per sostituire a un tiranno ormai passato, uno straniero”. “Allora

che dunque pretenderesti?” Risposta: “Nulla per me, ma l’indipendenza e la libertà del Paese.” Poi, nel Tribunale Speciale di Lecce, dinanzi al giudice istruttore, alla domanda se fosse liberale, Crudomonte avrebbe risposto: “Sono liberale, se liberale significa opporsi a tutti i soprusi, alle prepotenze e alle ingiustizie”. Conclusosi il processo, il Crudomonte, benché vecchio e sofferente, il 20 agosto 1858 fu condannato a 24 anni di ferri da scontare nel Bagno penale dell’isola di Procida. Per sua fortuna gli eventi politici e militari presto incalzarono sul Regno delle due Sicilie e con l’impresa di Garibaldi e l’avvento al governo di Napoli di Liborio Romano, fu deposto l’intendente Sozzi-Carafa, che il 4 luglio 1860 se ne partiva da Lecce con la famiglia inseguito dall’esecrazione dei liberali che tanto avevano sofferto. Al cambio della posta in Brindisi, numerosi cittadini, evidentemente avvertiti dagli amici di Lecce, si avventavano clamorosamente contro la vettura che trasportava l’ex Intendente. Alla testa dei tumultuanti vi erano Francesco e Catone, i figli di Giovanni Crudomonte, gridando minacciosi all’indirizzo del Sozzi-Carafa. E questi si salvò solo grazie all’intervento del sottintendente di Brindisi e del capitano della gendarmeria. Giovanni Crudomonte fu quindi liberato dal carcere di Procida e giunto a Brindisi ritrovò la sua famiglia quasi nella miseria. Instaurato il nuovo Regno d’Italia – mediante l’annessione del Regno delle due Sicilie a quello di Sardegna – Crudomonte fu posto a capo della


La libertà che guida il popolo è stato esposto la prima volta al Salon del 1831. Il governo francese l’acquistò per 3.000 franchi con l’idea di esporlo nella sala del Trono del palazzo del Lussemburgo. Il dipinto però viene giudicato pericoloso per l’ideale rivoluzionario intrinseco e fu confinato in un’altra sala poco accessibile. Fu poi esposto nel 1848, in occasione della Rivoluzione e nel 1855 Napoleone III lo volle esposto all’Esposizione Universale di Parigi. Dal 1874 il dipinto è entrato nelle collezioni del museo del Louvre, dove tutt’oggi è esposto.

Guardia Nazionale di Brindisi ed in tale veste si dedicò a preservare l’ordine e la legalità, tutelando anche quelli che lo avevano perseguitato. Evitò, infatti, di fomentare vendette e rappresaglie per far pagare ai suoi persecutori ed agli infami delatori i patimenti cui era stato sottoposto. Successivamente, sempre nella sua città, ricoprì anche altre varie cariche pubbliche e nel 1866 fu nominato presidente del Comitato dei sussidi per la guerra contro l’Austria, la Terza guerra d’indipendenza. Giovanni Crudomonte, un concittadino coraggioso e patriota, si spense a Brindisi ottantenne, il 10 aprile 1872 fra l’unanime compianto dei suoi contemporanei che, avendolo ben conosciuto, riconobbero in lui uno spirito eletto, e così, tutta la popolazione seguì il suo feretro coperto dalla divisa di galeotto e dalla bandiera nazionale.

Alla fine degli anni ’50, in seguito all’aumento demografico registrato nel rione Commenda, si rese necessario far fronte alla domanda di educazione e istruzione delle nuove generazioni con una soluzione tempestiva e adeguata. L’amministrazione comunale stabilì di costruire un edificio scolastico dotato di tutte le strutture necessarie al funzionamento ottimale di una scuola moderna e attenta alla formazione integrale della persona. La nuova scuola assunse la denominazione ufficiale di “Direzione didattica del V Circolo” in data 01/10/1963. Per volontà del Collegio dei docenti fu intitolata Giovanni Crudomonte, al fine di ricordare l’illustre brindisino assertore della libertà contro la tirannide. L’azione educativa della scuola, inoltre, fin dalla sua fondazione e quindi ben prima che anche altre cominciassero a farlo,

pose speciale attenzione agli alunni in difficoltà di apprendimento con la opportuna valorizzazione delle attività motorie ed espressive. Un grazie speciale quindi a quel corpo di docenti che, conoscenti e riconoscenti della storia brindisina, con quella loro encomiabile decisione vollero dare il giusto e necessario risalto alla figura di quel loro coraggioso e generoso concittadino che per amor di patria sacrificò agi benessere e figli. Un risalto che non certo può dirsi essergli stato dato a dovere dalla sua città. Quel vicoletto intitolato largo Crudomonte non credo possa considerarsi consono a sufficienza, specie se paragonato con altre intitolazioni inspiegabilmente presenti nello stradario cittadino. C’è quindi da augurarsi che si possa presto porre in qualche modo rimedio a tale mancanza.

il7 MAGAZINE 27 8 aprile 2022


CULTURE

Quarant’anni fa ci lasciava «Papa Pizzicallu» E finiva un’epoca Don Augusto Pizzigallo fu un personaggio carismatico. E nella sua abitazione ospitò il futuro papa Giovanni XXIII che a Brindisi aveva trovato tutti gli alberghi occupati di Gianfranco Perri apa Pizzicallu”, così era conosciuto da tutti i brindisini don Augusto Pizzigallo, e così è tuttora ricordato da tutti coloro ai quali l’inappellabile anagrafe lo consente. Nato a Brindisi il 17 marzo del 1900, venne a mancare 40 anni fa, il 14 aprile del 1982. Popolarissimo e brindisinissimo prete, fu carismatico cappellano militare dell’Aeronautica Militare, rettore del Cimitero Comunale e direttore del Museo Civico. Compì gli studi nel Seminario di Brindisi e fu ordinato sacerdote a Firenze, nella chiesa di Santa Maria Novella. Si formò alla scuola del barnabita Padre Giovanni Semeria e fece ritorno a Brindisi nel 1931, quando fu nominato cappellano dell’Aeronautica Militare dove avrebbe raggiunto il grado di capitano. Il 1º febbraio 1953 l’arcivescovo di Brindisi Monsignor Francesco Maria De Filippis, lo nominò canonico onorario del Capitolo Metropolitano e l’11 febbraio, in una Cattedrale gremita di popolo e di auto-

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rità, si svolse la cerimonia dell’investitura. “Tale onore premia in don Augusto la sua attività di cappellano militare in aeroporto, ove da già più di due decenni esplica il suo ministero con entusiasmo davvero alato. Al contempo l’arcivescovo ha inteso riconoscere tutta la passione con la quale don Pizzigallo viene esplicando il suo incarico al cimitero, ove ha tutto rinnovato abbellito e riorganizzato con plauso unanime dell’amministrazione comunale e del popolo di Brindisi.” [Francesco Arina – ‘Il Cittadino di Brindisi’ del 15 febbraio 1953] Figura storica di sacerdote brindisino, anticonformista e precursore dei tempi, era di carattere gioviale, anzi decisamente allegro, elegante e con una personalità moto forte. In effetti: “tutto un personaggio” nonché, anche, “una buona forchetta”. «A passeggio lungo corso Umberto I s’intratteneva cordialmente con chiunque incontrasse. Con lui era sempre piacevole conversare. Il suo look era impeccabile: la tonaca, in lana fresca di Tasmania; sulla parte finale delle maniche erano bene in vista i gradi di tenente – e poi di orgoglioso capitano – dell’Aeronautica. Il tradizionale cappello a ruota era circondato da due fasce


LE IMMAGInI A sinistra don Pizzigallo con monsignor Angelo Roncalli a Brindisi, l’1 novembre 1954. In basso don Augusto con i gradi di capitano

dorate di ufficiale. Gli occhi coperti da due grandi occhiali da sole e la bocca illuminata da un sorriso sornione. Don Augusto Pizzigallo non rifiutava mai un invito al ristorante o al bar... All’imbrunire, puntualmente, lo trovavi seduto all’esterno del negozio di ottica del suo grande amico Nuccio Cappello, con la sigaretta accesa nella mano destra…Verso la fine del suo mandato sacerdotale fu nominato direttore del Cimitero che, come d’incanto, trasformò in un vero giardino, rinvigorendo l’afflusso dei parenti dei defunti… È stato un prete che ha firmato un’epoca, sia per il suo anticonformismo che per la sua straordinaria oratoria…» [Pino Minunni – ‘Agenda dei brindisini’ del 17 maggio 2013] Nell’anno 1947, per volontà e iniziativa di papa Pizzigallo, s’instaurò a Brindisi la tradizione della processione della festa dell’Assunzione della Vergine Maria il 15 di agosto, giorno di Ferragosto. Alle primissime ore del mattino, mentre era ancora tutto buio, dalla chiesa di Santa Maria degli Angeli si snodava la suggestiva processione con la statua dell’Assunta portata da signore velate e seguita dalla folla alla luce

delle candele. Il corteo quindi, con le prime luci dell’alba raggiungeva il cimitero dove dall’altare situato nel piazzale, poi divenuto del Crocifisso, don Augusto celebrava la messa con la sua fervente omelia. Fra le tante altre azioni encomiabili intraprese da don Augusto, infatti, fu proprio grazie al suo interessamento che nel cimitero comunale si eresse la croce con il Cristo, inaugurata al centro del viale principale il 22 maggio del 1952 e diventata di fatto l’icona del cimitero. E ad ogni ricorrenza del “giorno dei morti” la sua appassionata omelia dai piedi di quella croce era sempre seguitissima. Anch’io conservo ancora fresco il ricordo di quando la sua inconfondibile voce stentorea, proveniente dal pulpito, magnetizzava l’interesse dell’intero uditorio, e di quando – proprio in una mia visita da bambino al cimitero – lo conobbi da vicino e mi diede scherzosamente la mano come se io fossi stato un adulto: si era fermato a salutare mio padre che lo conosceva molto bene perché era un sottufficiale dell’Aeronautica ed aveva voluto che fosse stato proprio don Pizzigallo a celebrare le sue nozze con mia madre nella chiesa di San Benedetto, il 27 settembre del 1947. Allo stesso modo, fu sempre l’attivissimo don Pizzigallo, che il 2 settembre 1957 fece giungere a Brindisi in elicottero la riproduzione del simulacro di Maria Bambina, dono dell’allora cardinale di Milano Giovanni Battista Montini, poi papa Paolo VI. La bella statua che tuttora si venera nella chiesa di Santa Maria del Casale. E un’altra volta, una bambina appartenente a una famiglia poverissima necessitava di un urgente intervento chirurgico al cuore. Don Augusto, smuovendo le autorità coinvolte, fece predisporre un aereo militare per trasportarla all’ospedale Niguarda di Milano, dove venne sottoposta ad un provvidenziale e positivo intervento. Don Pizzigallo abitava in via Foggia, ex via Principe di Piemonte, poi su suo interessamento nel 1959 fatta intitolare al papa Giovanni XXIII a testimonio di un suo incontro che sarebbe divenuto memorabile. Il 14 settembre 1936 l’allora monsignor Angelo Giuseppe Roncalli, il futuro pontefice Giovanni XXIII, annotò sul suo diario: «…Debbo credere che il buon Angelo Custode ed i miei morti mi proteggano sensibilmente. Ieri sera arrivando a Brindisi, occupati tutti gli alberghi, avrei dovuto rifugiarmi chi sa dove per passare la notte. Sul punto della più grave incertezza, ecco comparire due sa-

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cerdoti di Brindisi, don Augusto Pizzigallo ed un suo confratello. Accetto l’ospitalità fraterna che il primo mi offre in casa sua: una casa signorile, dove passo benissimo la notte, ed al mattino posso anche celebrare, perché ivi nulla manca. Deo gratias…». Monsignor Roncalli – ex cappellano militare, sergente dell’esercito italiano nella Grande guerra – fu di passaggio da Brindisi perché allora inviato dalla Sede Apostolica quale proprio rappresentante in Grecia ed in Turchia. L’evento fu ricordato dall’epigrafe murata il 29 giugno del 1959 sulla facciata di casa Pizzigallo. All’interno dell’abitazione fu anche resa memoria di un nuovo incontro con Angelo Giuseppe Roncalli, patriarca di Venezia e reduce da una visita in Libano, il primo novembre 1954. Scrisse in quella circostanza il futuro pontefice: «Lietissimo di rivedere dopo 18 anni il carissimo canonico Pizzigallo, gli rinnovo l’augurio delle consolazioni più vive nel prezioso servizio della chiesa e delle anime». Anni fa, l’amministrazione comunale di Brindisi decise di intitolare a don Augusto Pizzigallo la via del centro storico che dà su piazza del Popolo, tra via Santa Lucia e piazza Anime, dominando la statua di Cesare Augusto. E il 23 maggio del 2004, in una solenne cerimonia nell’aeroporto militare di Brindisi presieduta dal Comandante della Base tenente colonnello pilota Rolando Tempesta e dal Presidente della Associazione arma aeronautica generale di brigata Giuseppe Genghi, si dedicò al mai dimenticato Cappellano militare don Augusto Pizzigallo il piazzale antistante la

LE IMMAGInI Don Pizzigallo a Roma con il suo amico papa Giovanni, l’arcivescovo di Brindisi nicola Margiotta e monsignor Franco

cappella aeroportuale, installandovi una epigrafe marmorea. Quella bella cappella dedicata alla Madonna di Loreto che proprio don Pizzigallo aveva fortemente voluto fosse lì edificata e che fu consacrata l’11 dicembre del 1960 dall’Ordinario Militare d’Italia arcivescovo Arrigo Pintonello. Sulla facciata esterna furono apposte due epigrafi marmoree per ognuna delle quali fu don Pizzigallo che ne redasse personalmente il testo. Il primo, commemorativo dell’evento inaugurale e questo il secondo: “Da questo estremo lembo della Patria al cielo si eleva con la prece pia la gratitudine della nazione memore per il nobile olocausto degli eroi per la generosa offerta del sacrificio delle madri, delle vedove, degli orfani, ad auspicio delle glorie dell’arma azzurra, che nei cieli veglia per le sorti d’Italia”. «…Sono ancora vivi i ricordi quando, al termine delle riunioni conviviali di corpo, don Pizzigallo intervenendo con la potenza del suo eloquio, esaltava le virtù della disciplina, dei valori ideali della famiglia, della patria, del significato della storia e dei suoi insegnamenti, determinando nei presenti vivo entusiasmo e scroscianti e prolungati applausi. Risuona ancora ai nostri orecchi la sua possente e vibrante voce quando inneggiava alla Patria ed al suo Sacro Vessillo, alla religione e alla famiglia

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con i concetti che, sul filo della memoria, possiamo ricostruire secondo il suo stile...» [Col. Cosimo Filippo, 23 maggio 2004]. Una volta, al termine di uno dei tanti conviti a cui don Augusto partecipava con franco entusiasmo, uno spregiudicato tenentino, fissando la soddisfatta fisionomia del cappellano, gli chiese: “Secondo lei reverendo, in caso di morte il trapasso è più facile prima o dopo la digestione?” E il reverendo, dopo aver sussurrato fra i denti alcune parole dialettali di incomprensibile significato, rispose: “La morte, caro tenente, non è legata alle condizioni del corpo. L’anima vola a Dio con immutata velocità e solo il peso dei peccati ne frena il volo o ne provoca la caduta. Il dilemma che mi ha imposto incide solamente sullo sforzo dei cavalli e dei becchini”. “E lei Reverendo, cosa ha disposto per sé?” - “I cavalli di Argentieri e i portuali della Briamo” rispose il reverendo. Con questa simpatica storiella ho di fatto, affianco alla breve rassegna biografica formale del carismatico prete brindisino, inevitabilmente iniziato a raccontare quella che potrebbe essere una veramente lunga serie di episodi – presto divenuti aneddotici – da ricordare in relazione all’agire “dirompente e originale” di papa Pizzigallo. Eccone solo alcuni pochi. «Un giorno – primissimi anni ’60 – in occasione di un importante evento inaugurale cittadino a cui partecipavano tutte le più rappresentative personalità pubbliche di Brindisi, l’arcivescovo Monsignor Nicola Margiotta, non potendovi assistere, chiese a don Pizzigallo di ben rappresentarlo. Ebbene, papa Augusto si presentò puntuale


LE IMMAGInI La casa di don Augusto in via Foggia, in basso mentre celebra le nozze di Settimio Perri e Alba Aprile - San Benedetto 27 settembre 1947

ma vestito da Monsignore, radiante, con gli occhiali da sole e con le sue due immancabili stellette militari sul colletto…» [Aldo Indini, maggio 2013] Una volta, nel 1952, in un giornale cittadino don Pizzigallo fu chiamato indirettamente in causa da un lettore che aveva inviato una lettera al direttore lamentando lo stato d’abbandono in cui – a suo dire – versava il Museo Civico sito nel Tempietto di San Giovanni al Sepolcro della cui direzione, dopo la lunga chiusura dovuta alla guerra, nel 1945 era stato incaricato don Augusto Pizzigallo. E lui replicò immediatamente inviando al giornale una lunga e dettagliata relazione, puntualmente pubblicata. «… Quando nel 1945 trovai il museo in stato pietoso e in completo abbandono, lo ripulii, lo riordinai, m’interessai a riportare con mezzi miei i pezzi artistici che erano stati conservati sulle Murge al riparo dalla guerra, e così detti nuova vita al Tempio di S. Giovanni. Non è mai stato scritto che il direttore del museo debba essere anche il moderatore della Brigata della Storia e dell’Arte fondata, così come lo fu lo stesso museo, dal caro amico canonico Pasquale Camassa. Purtuttavia, geloso custode delle sacre memorie di Brindisi, nel 1947 mi adoperai a far rivivere il simpatico Sodalizio e tutti ben ricordano che furono tenute alcune conferenze da esimi oratori. Non si poté continuare perché ‘relicto me, omnes fugerunt’ e mi lasciarono con i debiti, e delle sedie e dei manifesti che io dovetti

fare per quelle serate. All’immemore scrittore devo ricordare che morta la Brigata nel 1935, nessuno più s’interessò di essa. Seppellita nel 1947, questa può resuscitare se altri volenterosi vorranno organizzare il Sodalizio culturale e riunirsi nel nome caro di Don Camassa per riprendere quelle belle adunate. La porta di quel Tempio è aperta a tutti, ma più che la porta è aperto il mio cuore e sono pronte le mie energie ad aiutare quanti, non a chiacchiere e con varie

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recriminazioni, ma con sani intenti, vogliano servire con incommensurabile amore la nostra Brindisi. Dopo questo sfogo del cuore devo smentire nel modo più categorico e preciso che il museo è in ermetica chiusura che dura anche in tempo di pace, come scrive l’articolista. Da tre anni il Museo Civico è aperto tutti i giorni dalle 8,30 alle 12 e dalle 16 alle 20, meno i festivi. Il Comune a sue spese ha messo un custode che attende alla pulizia e all’apertura. Ogni viandante che passa da Piazza S. Giovanni al Sepolcro, purché goda di un’ottima visibilità, s’accorge che il museo è aperto in queste ore segnalate. Il registro dei visitatori è la testimonianza più eloquente che non c’è chiusura ermetica, e gli abitanti di Piazza S. Giovanni sono i testimoni più interessati per respingere tale calunniosa affermazione. Io, poi, che firmo le presenze del custode e lo vigilo o di persona o per telefono, suggerisco all’ameno scrittore di comprarsi un binocolo a doppia vista per poter aver certezza di quanto scrivo; a meno che egli poi non pensi che il Museo è una qualunque cantina che deve essere aperta a tutte le ore…» «…Fino agli anni 50 e 60, facendo una passeggiata al corso, non era difficile imbattersi in Filumena Pea Pea. Era piccola di statura, magra, con i piedi piatti che le conferivano una inconfondibile andatura strascicata e ondeggiante. Il volto era reso grottesco dallo strabismo e da


CULTURE LE IMMAGInI Portone d'ngresso della casa di don Pizzigallo con il busto che ricorda la visita di papa Giovanni, in basso una bella foto del sacerdote morto esattamente 40 anni fa

una dentatura molto approssimativa. Eppure, Filumena era sempre pettinata e agghindata con mollette, ferretti e fermagli d’ogni genere che a stento tenevano a freno i suoi capelli che sembravano fatti di filo di ferro. Una balbuzie esasperata faceva sì che ingaggiasse estenuanti lotte con le parole fino a riuscire a pronunciare la fatidica frase: “100 lire per il gelato!”. Solo allora si allontanava contenta col suo piccolo tesoro. Era sempre pulita e ordinata, con qualche punta di civetteria nell’indossare sgargianti collane di vetro colorato per le quali andava pazza. Mia madre ricordava che per il suo matrimonio indossò una collana di false perle prestatele proprio da Filumena Pea Pea, la quale ricevette in cambio una collanina di vetro veneziano: unico oggetto che mia madre poté acquistare in viaggio di nozze. Filumena Pea Pea aveva avuto un’infanzia e un’adolescenza non facili, vissute nella zona dell’arco di Sala, nel cuore di San Pietro degli Schiavoni, in una famiglia poverissima: il padre alcolista, la madre demente e lei stessa affetta da epilessia e da un grave ritardo psico-fisico. Ma come se tutto ciò non bastasse, Filumena visse anche la tragica

esperienza della violenza ad opera di un energumeno che si approfittò di lei. Quell’uomo, però, aveva certamente sottovalutato Filumena che ebbe il coraggio, o semplicemente l’istinto, di denunciare la violenza ai Carabinieri. La ragazza riconobbe tra alcune persone il suo violentatore che fu sottoposto ad un processo ricevendo la conseguente punizione, fatto veramente straordinario per quel tempo. Sovente, in preda ad un’agitazione incontrollata, Filumena narrava l’accaduto, riferendo che

all’uscita dal Tribunale quell’uomo osò ancora una volta offenderla sputandola sul viso. E fu a quel punto che la vita di Filumena subì una svolta decisamente positiva perché incontrò don Augusto Pizzigallo, grande temperamento di uomo e di sacerdote, che la portò nella sua casa affidandola alle cure delle nipoti. Ma questa era una situazione poco ortodossa per quei tempi e ben presto il buon prete cercò per lei un’altra sistemazione altrettanto decorosa. Filumena fu accolta in casa di “zia Dora la vecchia” sorella del mio bisnonno paterno. Questa donna con pazienza e polso, riuscì a rendere Filomena un essere umano, giacché i suoi comportamenti fino ad allora erano stati più simili a quelli di una bestiola selvatica. Le insegnò ad aver cura della propria persona, a lavarsi, pettinarsi e poi la abituò a svolgere semplici faccende domestiche. Filomena diventò la beniamina di via Barletta, strada nella quale abitava anche la famiglia di mia madre. Nelle sere d’estate, seduta davanti alla porta di casa, era lei il giullare che manteneva allegro il vicinato con esilaranti duetti con la sua benefattrice che ogni tanto, per tenerla buona, la minacciava bonariamente di riferire a “papa Augusto” le sue marachelle. Allora lei si rinchiudeva nel gabinetto e, per esorcizzare la paura di qualche punizione, urlava a squarciagola “papa Augustu è muertu, papa Augustu è muertu”. Negli anni successivi, la provvidenza continuò a sorridere a Filomena. Don Augusto la riportò in casa sua continuando ad assicurarle, attraverso le sue nipoti, una serena e decorosa vecchiaia conclusasi in una casa di riposo curata ed amata da tutti.» [Lucia Tramonte – ‘Freebrindisi.it’ del 30 marzo 2012]

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Cappella Madonna di Loreto nell’Aeroporto di Brindisi

Quel giorno in cui si vestì da Monsignore


CULTURE

QUANDO ANCHE BRINDISI FU OCCUPATA DAI RUSSI 223 anni fa la nostra città si ritrovò al centro di un duro conflitto armato di portata internazionale tra sanfedisti filoborbonici e repubblicani filogiacobini di Gianfranco Perri orreva l’anno 1799, un anno indubbiamente rilevante per la storia d’Europa: l’anno in cui stava maturando e si preparava a dilagare sull’intero antico continente – e non solo – con tutto il suo impattante bagaglio rivoluzionario e innovatore, l’uragano napoleonico catapultato sulla ribalta della storia universale al seguito della Rivoluzione francese scoppiata esattamente un decennio prima. Per Brindisi fu quello l’anno in cui la città si ritrovò al centro di un conflitto armato di portata internazionale, divenendo campo di dura battaglia tra sanfedisti filoborbonici e repubblicani filogiacobini, caposaldo quindi della controrivoluzione popolare prima e territorio conquistato dai repubblicani francesi dopo. E poi, inimmaginabilmente anche se solo circostanzialmente, città occupata dalle truppe russe – non era mai accaduto prima e non sarebbe mai più accaduto dopo – giunte in porto e sbarcatevi dopo essere state chiamate – paradossalmente – da Ferdinando IV, il re borbonico del Regno di Napoli a cui Brindisi apparteneva. La capitale del regno, Napoli, era caduta nel caos dopo che il 22 dicembre 1798 il re Fer-

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dinando IV l’aveva abbandonata rifugiandosi a Palermo, avendo fallito nel suo tentativo di liberare Roma dalle truppe repubblicane francesi e avendo quindi lasciato del tutto sgombra la strada all’entrata delle truppe del generale napoleonico Jean Etienne Championnet. Così a Napoli, il 24 gennaio 1799, i giacobini avevano proclamato la repubblica. Ai primi di maggio del 1799 il cardinale Fabrizio Ruffo, partito con la sua armata della Santa Fede dalla Sicilia con l’obiettivo di restaurare il governo borbonico sul trono di Napoli, dopo aver attraversato la Calabria e la Basilicata penetrò in Puglia contando sull’eventuale appoggio che avrebbero potuto prestare alla sua causa le truppe presenti a bordo di navi russe e turche che sapeva essere state predisposte a quello scopo nello Ionio. Ed ecco qui, in sintesi, quali furono i fatti che avevano portato alla presenza di quella flotta russa nello Ionio: Iniziando il 1798, l’ammiraglio russo Fëdor Ushakov era stato inviato nel Mediterraneo al comando di uno squadrone navale congiunto russo-turco per sostenere l’imminente spedizione antifrancese in Italia del generale russo Alexander Suvorov, che era stata decisa nel contesto della “Seconda coalizione” organizzata in vista dell’assenza di Napo-


LE IMMAGINI A sinistra il cardinale Fabrizio Ruffo e sotto la flotta russa al comando di Ushakov passa il Bosforo nel 1798-Museo di Sato russo San Pietroburgo

leone impegnato nella campana d’Egitto durante la quale, nell’agosto 1798, la flotta inglese dell’ammiraglio Nelson avrebbe intercettato quella francese nella baia di Abukir annientandola quasi completamente: nove delle undici navi di linea francesi impegnate nello scontro vennero catturate o distrutte, come anche le due fregate al seguito. Poco dopo, il 18 agosto presso la costa ovest di Creta, la nave inglese Leander si sarebbe scontrata con la francese Généreux, una delle due che fuggite da Abukir si sarebbero rifugiate a Corfù e che, comandata da Louis Jean Nicolas Lejoille, ebbe la meglio. Uno dei compiti principali affidati al russo Ushakov era stato proprio quello di prendere Corfù e le altre strategiche Isole Ionie divenute francesi con il Trattato di Campoformio del novembre 1797 dopo la fine della Repubblica di Venezia. Così, con dieci navi di linea russe e trenta navi di vario genere turche e con il concorso di alcune unità inglesi, nell’ottobre 1798 le guarnigioni francesi furono cacciate da Citera, Zante, Cefalonia e Leucade. Nel 1799 però, mancava l’isola più grande e fortificata dell’arcipelago, Corfù che, con i 3000 uomini del governatore, generale Louis Chabot, durante tutto il resto del 1798 aveva resistito saldamente all’assedio e da dove, la notte del 26 gennaio con le vele dipinte di nero, la Généreux era riuscita a sfuggire all’assedio giungendo al porto di Ancona. Il diplomatico napoletano, cavaliere Antonio Micheroux di origini fiamminghe, il quale dopo che i francesi erano entrati a Napoli e che era stata proclamata la Repubblica partenopea aveva raggiunto la famiglia reale rifugiatasi a Palermo, fu inviato dal re Ferdinando IV alle Isole Ionie in qualità di plenipotenziario presso la flotta russo-turca impegnata nell’assedio di Corfù, con il preciso incarico di chiedere aiuti militari per la corte borbonica. Giunto a destino a metà febbraio e attesa la caduta della piazza, che si produsse il 4 marzo 1799, Micheroux formulò ai due comandanti di Russia e Turchia – rispettivamente gli ammiragli Fëdor Ushakov e Kadir Bey – la proposta di un patto tra Napoli Russia e Turchia. Poi, il 10 marzo ripartì per Palermo e giuntovi il 19, non appena ricevuta la conferma della controfirma del trattato di alleanza, ne ripartì il 3 aprile a bordo della regia corvetta Fortuna del comandante alfiere di vascello Domenico Almagro, per così organizzare a Corfù la spedizione militare russo-turca di sostegno ai realisti del meridione italiano partitari del cardinale Ruffo. Da Corfù quindi, imbarcato il 13 aprile su una fregata russa al comando del commodoro Alexandr Sorokin, messa a disposizione assieme ad altre due grosse fregate russe, più una corvetta e un brick turchi, e seguito dalla regia corvetta Fortuna, Micheroux si predispose a fare rotta verso le coste pugliesi del Basso Adriatico. Così,

forte delle forze russe assegnategli – 300 soldati con altrettanti marinai e 10 cannoni – nonché di quelle ottomane, partì in nome del suo re Ferdinando IV, il quale aveva chiesto agli alleati russo-turchi di mandare nel sud d’Italia occupato dalle truppe francesi “un grosso corpo di truppa di qualunque nazione, sia regolata, sia irregolata”. Nel mentre, alcune popolazioni realiste della Puglia, confortate dalla vicinanza di quelle navi russe armate, nonché dalle notizie degli esiti vittoriosi del cardinale Ruffo, si erano cominciate a ribellare contro il governo repubblicano filofrancese, abbattendo gli ‘Alberi della liberà’ e rialzando le ‘Croci cristiane’. A Brindisi però, nella domenica 14 di aprile, dopo il Tedeum nella Cattedrale, si sarebbe invece piantato l’Albero della Libertà: «… Il 9 aprile al far del giorno fu veduto sulle acque della vicina Torre Penna un grosso vascello da guerra, che poco dopo si trovò in faccia alla fortezza di mare. Era proprio il vascello francese Genereux. Lo seguivano quattro trasporti con mille uomini da sbarco, viveri e munizioni da guerra. Si impegnò l’azione tra il vascello e la fortezza, la quale era rimasta spogliata di difensori. Il sanfedista che era a capo della piazza di Brindisi Giovanni Francesco Boccheciampe – un corso fuggitivo, soldato disertore dell’esercito francese, che giunto a Brindisi era rocambolescamente divenuto il capopopolo perché scambiato per il fratello del re di Spagna – e alcuni altri capi delle masse, uscirono dal forte di mare ed andarono a rifugiarsi sulla vicina isola del lazzaretto. Un ufficiale di artiglieria chiamato Giustiniano Albani per tre ore sostenne l’attacco col bravo artigliere di cognome Lafuenti maneggiando un solo cannone. Rimasto solo, l’ufficiale fu obbligato ad inalberare la bandiera bianca ed arrendersi. Capitolò la salvezza della vita per sé e per gli altri, ma i francesi – ai quali quella battaglia era costata la vita del loro giovane comandante Louis Jean Nicolas Lejoille – vollero escluso dalla capitolazione il Boccheciampe, che poi menarono seco prigioniero… Anche la città dall’alto della collina ove sorgono le antiche colonne dette i segni della resa, e poi spedì sul vascello una deputazione parlamentaria composta dalle principali autorità, fra le quali l’arcivescovo Annibale De Leo e il sindaco Francesco Gerardi. Fu la deputazione molto bene accolta dagli ufficiali francesi, e fu anche trattenuta alla mensa. Ebbe quindi l’incarico di assicurar la città che sebbene sarebbe stata occupata dalla truppa francese, questa pure vi sarebbe entrata da amica.» [Dalla cronaca di Giovanni Tarantini, 1850 circa] «… Sul mezzogiorno sbarcati da trabaccoli che seguivano il vascello, in numero di circa mille uomini, i francesi occuparono la fortezza e la città. La


tennero per otto giorni nei quali, la notte del 10, ebbero un attacco dalla truppa a massa venuta in sotto le mura, la quale avendo conosciuto inutile ogni tentativo di scacciare il nemico retrocedé nella vicina Mesagne, ove si sciolse. Il dì 16 premurati da replicati ordini del generale di Bari, inchiodati i cannoni e buttata in mare la polvere della fortezza, evacuarono Brindisi partendo per quella volta. La città restò in somma tranquillità, molto più che ci era la vicina speranza di vedere presto nel porto i soccorsi promessi dalla flotta di Corfù, cui già quella città si era resa.» [Dalla cronaca di Tommaso Cinosa, 1817] Era accaduto che le truppe francesi stanziate nel meridione del regno di Napoli, in seguito alle notizie delle sconfitte subite in Lombardia a opera dell’esercito russo-austriaco, avevano ricevuto dal generale Jean Baptiste Olivier l’ordine di sgomberare e di concentrarsi tutte su determinate posizioni strategiche del territorio del regno. Nel mentre, raggiunte le coste adriatiche salentine, la flottiglia del plenipotenziario Micheroux, non avendo chiara la situazione di Brindisi, aveva preferito – il 17 aprile – dirigersi sulla vicina San Cataldo per sbarcarvi due ufficiali russi col compito di raggiungere Lecce – saputo essere già passata in mano ai realisti – per raccogliere informazioni sulla confusa situazione della provincia. Quindi, ricevuta la notizia della partenza delle truppe francesi da Brindisi, le tre navi russe e quella napoletana di Micheroux vi entrarono indisturbate la sera del 18 aprile, scoprendo che le due unità turche della flottiglia partita da Corfù vi erano entrate già dal giorno prima e avevano preso possesso della fortezza di mare – l’Alfonsino – issandovi la bandiera ottomana. Il 19 aprile 1799, infine, all’alba di un venerdì seguito a una notte di luna piena, le truppe russe che avevano accompagnato il ministro napoletano Micheroux sbarcarono in città al comando del loro capitano Alex Baill. L’occupazione russa di Brindisi inizialmente durò solo qualche giorno, giacché poco dopo lo sbarco delle truppe il comandante in capo dell’operazione, il commodoro russo Alexandr Sorokin, dispose che tutta la flotta russo-turca rientrasse a Corfù, senza che fosse del tutto chiaro il motivo di quella decisione. Eventualmente, per voler organizzare l’invio di nuovi e più consistenti rinforzi o, e comunque, per voler attendere il completo ritiro delle forze francesi dalla regione. Certo è che un nuovo e più stabile sbarco a Brindisi, appoggiato dalla stessa flottiglia della prima volta arricchita solo di una ulteriore fregata russa, si produsse il seguente 3 maggio e il giorno successivo, 4 maggio, mentre anche Monopoli passava all’obbedienza regia, Micheroux emise un proclama reale alla popolazione della Provincia nella sua qualità di plenipotenziario del re Ferdinando IV. «… Partiti i francesi, subito scesi dalle navi moscovite i soldati russi coll’ufficiali, hanno fatta la carcerazione di cinque intere famiglie, cioè una del castellano Giovanni Bian-

LE IMMAGINI Il re di Napoli Ferdinando IV Borbone il generale Jean Etienne Championnet,

chi, l’altra dell’arcivescovo De Leo ed altre tre ancora. Il detto giorno è poi andato un ambasciatore moscovito in Lecce e da lì subito partì per Brindisi il signor preside della provincia, Tommaso Luperto, per far sospendere la giustizia sommaria che li moscoviti volevano fare di fucilare tutte quelle cinque famiglie da loro carcerati.» [Dalla Cronaca dei Sindaci di Brindisi] «… Numerose deputazioni venivano continuamente a Brindisi dai paesi vicini e si presentavano a lui – a Micheroux – ringraziandolo e chiedendogli consigli ed aiuti. Tutte ritornavano da bordo contente e piene il cuore di speranza. La presenza della flotta russo-turca nel porto di Brindisi manteneva ‘tranquillo’ l’animo delle popolazioni, proteggeva i movimenti del cardinale Ruffo e, in caso di rovesci, sarebbe servita di scampo all’esercito di lui, il quale procedeva animoso, anzi spietatamente crudele, saccheggiando Matera e imbrattandosi di sangue in Altamura da dove faceva poi condurre al forte di Brindisi 53 giacobini e 50 calabresi arrestati in quella città.» [Ferrando Ascoli, 1886] Il 14 maggio, capitolata Bari, Micheroux emanò un indulto generale, con pochissime eccezioni, nei confronti dei repubblicani e quindi, lasciata la città di Brindisi guarnita di un contingente russo, ripartì a bordo della fregata russa. In seguito, il 18 maggio, passato a bordo della corvetta Fortuna, così scrisse al cardinale Ruffo: “Noi abbiamo poco più di 350 russi e 70 napoletani. Si può far conto benanche d’un altro paio di centinaia di marinai, i quali trattano benissimo lo schioppo ma son gente addetta a' legni e da non potersi inoltrar nelle terre, soprattutto stando i legni dove non son porti. Ciò nonostante, li spingeremo a Foggia colle buone o per la forza. E farò darmi anche 8 cannoni russi da campagna con tutti gli attrezzi”.

Dallo storico napoletano Gennaro Marulli (1844): “Fecero i russi vari disbarchi su quelle coste cominciando da Brindisi e Bari; quindi, reimbarcati passarono in Barletta ove lasciarono per pochi giorni una piccola guarnigione nel castello, rimbarcati di nuovo passarono a sbarcare in Manfredonia, da dove si inoltrarono fino a Foggia. Erano essi non più che 450 soldati della marineria con degli ufficiali, comandati dal capitano Baill; congiunti a questi vi era, per dirigerne i passi e le fazioni, il ministro plenipotenziario Micheraux, il quale scender fece dalla sua napolitana corvetta anche una cinquantina di soldati napoletani di marina; sicché queste due forze 500 uomini e poco più sommavano: al comparire di quelli riprotestavano le popolazioni spontaneamente l’antica fedeltà al Sovrano. Micheraux fece pensiero da Manfredonia di accamparsi a Montecalvello, luogo a poche miglia di distanza da Foggia, per imporre da quel sito centrale su tutta la periferia della provincia, e si trincerò su quell’altura alla meglio con 8 pezzi di cannoni sbarcati con la truppa dalle navi”. E così lo storico Benedetto Maresca (1895): “A dì 24 maggio, da Foggia Micheroux si recava a Montecalvello co’ russi che aveva seco comandati dal loro capitano Baill, con alcuni marinai della corvetta Fortuna e co’ cavalieri di Manfredonia e vi formava un trinceramento che potesse tener fronte all’attacco di 4 mila nemici ed al quale, per eternare il passaggio de’ russi, intendeva apporre il nome di forte Paolo dal nome del loro imperatore. Il commodoro della flotta russa Sorokin, gli aveva mandati altri 2 cannoni, 200 fucili e cartucce, mitraglie e pietre focaie. I russi non oltrepassavano il numero di 470, cioè 330 soldati, 120 marinai e 20 artiglieri. Oltre di questi aveva con sé 30 marinai napoletani fatti sbarcare dalla corvetta Fortuna, una quarantina di soldati littorali ed i volontari di Manfredonia, che formavano la sua cavalleria”. Sottomesse Barletta e – il 22 maggio – Foggia, e lasciato Monte Calvello con trincerate alcune truppe russe nel Forte San Paolo, Mi-


LE IMMAGINI L’albero della Libertà

cheroux continuò ad avanzare verso Napoli con il resto delle sue forze fino a congiungersi con quelle del cardinale Ruffo il quale, il 2 giugno ad Ariano, le dispose in ordine di battaglia assegnando l’avanguardia ai circa 200 russi seguiti dagli 84 turchi e dai soldati di linea affiancati dalla cavalleria. Poi, tra il 13 e il 14 giugno l’intera armata sanfedista entrò in Napoli vincendo la resistenza dei repubblicani costretti a chiudersi nei castelli, e alla fine, per il 19 giugno 1799 – firmata da Micheroux la capitolazione dei repubblicani, poi clamorosamente violata dall’inglese Nelson – tutta la città di Napoli era stata liberata. «… La notizia, giunta a Brindisi la notte dei 30 giugno, fu accolta con entusiasmo. La strada della Marina riboccò di gente allegra e si fecero tridui, processioni, luminarie; si spararono mortaretti; si suonarono a festa le campane; si distribuirono denari ai poveri. I realisti, fatti audaci, si resero insolenti e tumultuanti. Cominciò nella provincia una guerra più crudele e miserabile, mentre a Napoli avvenivano uccisioni, rapine e crudeltà, non bastando la autorità del cardinale, né quella degli altri capi dell’esercito della Santa Fede a tener in freno le bande vittoriose.» [Ferrando Ascoli, 1886] «… Partite le ultime truppe russe d’occupazione, in tutta la provincia di Terra d’Otranto molti furono i repubblicani giacobini, o presunti tali, che furono imprigionati e processati a Lecce e inviati nelle carceri napoletane di Portici e Granili. Tra le migliaia di prigionieri della repressione borbonica del 1799, risultarono essere nativi di Brindisi: il militare Giovanni Pagliara, nato nel 1777 figlio del dottor fisico Giacinto e di Saveria Carasco figlia del notaio Pasquale; e lo studente Cherubino Balsamo, nato nel 1776 figlio di Domenico e di Grazia Maiorano di Piano di Sorrento (anche i due fratelli Giuseppe e Pietro Montenegro, monaci celestini del monastero di Lecce che corsero pericolo di essere linciati dalla plebe leccese perché li considerava giacobini e come tali furono processati; e Antonio Sardelli di San Vito dei Normanni, alla fine giustiziato). Solo il 6 maggio del 1800, infine, avrebbe lasciato Lecce l’ultrareazionario preside della provincia di Terra d’Otranto, il leccese Tommaso Luperto, che l’8 marzo 1799 era stato insediato dal Boccheciampe e che per più di un anno aveva sostenuto la rivalsa giudiziaria borbonica nella provincia, venendo sostituito da un nuovo e meno vendicativo preside, il nobile Vincenzo Maria Mastrilli marchese della Schiava.» [Dalla Cronaca dei Sindaci di Brindisi] Quella vittoria sanfedista del 1799 si doveva presto rivelare essere, di fatto, temporale e il re Ferdinando IV infatti, pensò bene di restarsene in Sicilia sotto la protezione dalla flotta inglese. In effetti, da lì a pochi anni gli eserciti francesi di Napoleone, questa volta già non più repubblicani, ma imperiali, sa-

rebbero ritornati in Italia e anche a Napoli, imponendo – il 13 aprile 1806 – sul trono di quel regno cui Brindisi apparteneva i loro re: Giuseppe Bonaparte prima e Gioacchino Murat dopo. A Brindisi le truppe di occupazione russe dopo quell’evento del 1799, che restò comunque episodico, non sarebbero ritornate mai più, nemmeno quando la girandola della storia avrebbe anche potuto in qualche modo ripetersi, allorché nel corso della seconda guerra mondiale, nuovamente, il re di turno

– questa volta un Savoia re d’Italia – pensò, anche lui a salvaguardia della propria corona, appellarsi all’intervento di altri eserciti ‘Alleati’ che anche allora comprendevano quello russo. Circostanzialmente però, in quella difficile quanto complicata e confusa situazione, a Brindisi giunsero solo le truppe anglo-americane e – alla luce di quanto sarebbe poi accaduto e continua purtroppo ad accadere nelle regioni d’Europa entrate nell’orbita russa – fu, decisamente, molto meglio così.

il7 MAGAZINE 29 22 aprile 2022


CULTURE

QUEL MARO’ BRINDISINO CADUTO A LISSA La famosa battaglia nella terza Guerra d’indipendenza del 1866: la prima del Regno d’Italia La storia di Antonio Cappelli di Gianfranco Perri orse son pochi i brindisini che sanno chi fu Alfredo Cappellini e perché è intitolata "Palestro" la via che parte da piazza Cairoli facendo coppia proprio con via Alfredo Cappellini: le due vie che perfettamente allineate si diramano, in senso opposto l’una all’altra, dalla piazza in direzione perpendicolare a corso Umberto I. Il livornese trentottenne capitano di fregata di 1ª classe, Alfredo Cappellini comandava la nuova piro-cannoniera corazzata "Palestro" sulla quale, il 20 luglio 1866 nella sfortunata battaglia di Lissa, trovò la morte inabissandosi con la sua nave, ricevendo in quell’azione la medaglia d’oro alla memoria. La "Palestro" avanzava al centro dello schieramento navale italiano tra la "Re d’Italia" e la "San Martino" quando le navi austriache gli manovrarono contro: mentre la "Re d'Italia" era circondata ed in seguito affondata, la "Palestro", arretrata per la minor velocità e cercando di serrare in aiuto, era soverchiata dal tiro convergente del nemico. Evitato abilmente lo speronamento da parte dell’ammiraglia austriaca, che investì di striscio i quartieri di poppa spezzandogli l’albero di mezzana, la "Palestro" era centrata da una bordata, causa tra l’altro di un incendio a poppa. Incrementandosi questo per il carbone di riserva ammucchiato sui ponti ed estendendosi al centro, il comandante Cappellini

F

faceva mettere la prua al vento per rallentare le fiamme e ordinava di allagare la santabarbara. Mentre l’unità d’appoggio "Governolo", mandata in aiuto e sulla quale erano stati trasbordati i feriti, procedeva ai preparativi per il traino, la "Palestro" saltava in aria colando a picco in pochi istanti trascinando con sé oltre 200 vittime. Per una delle stranezze del caso, “Cappelli” non molto diverso da “Cappellini” è invece il nome di un altro marinaio, anch’egli scomparso nello stesso giorno nello stesso mare e nella stessa rovinosa battaglia di Lissa. Antonio Cappelli era un giovane marò brindisino, nato il 29 agosto del 1843 figlio del fu Oronzo e della fu Annunziata Camassa. Era a bordo della nave ammiraglia della flotta italiana che stava attaccando l’isola dalmata di Lissa, la fregata corazzata di 1ª classe "Re d’Italia", che speronata dall’ammiraglia austriaca "Ferdinand Max" affondò in pochi minuti con il comandante capitano di vascello Emilio Faà Di Bruno e quasi 400 uomini. Le perdite complessive della battaglia di Lissa furono di due navi affondate con 620 morti e 40 feriti quelle italiane, e di nessuna nave perduta con 38 morti e 138 feriti quelle austriache. Ma adesso è meglio procedere con ordine. Quella che nei testi di storia è indicata come la Terza guerra d’indipendenza italiana combattuta contro l’Austria, fu, di fatto, la prima guerra dell’appena costituito Regno d’Italia, nato solo cinque anni prima – nel 1861 – dall’annessione

il7 MAGAZINE 22 6 maggio 2022


LE IMMAGInI Alfredo Cappellini, capitano della Palestro, più in basso La battalia di Lissa - olio su tela di Jo sef Carl Berthold Püttner (1821-1881). Qui sotto l’elenco caduti nelle guerre per l'indipendenza italiana del Regno delle due Sicilie al Regno di Sardegna. E quell’unificazione aveva comportato, oltre a tanto altro, anche l’unificazione delle marine militari dei due regni. Più esattamente, la marina militare italiana era nata in anticipo, il 17 novembre 1860, mediante la fusione della marina sardo-piemontese del Regno di Sardegna con quella borbonica, napoletano-siciliana, del Regno delle due Sicilie e successivamente, il 17 marzo 1861, dopo la proclamazione del Regno d’Italia da parte del parlamento di Torino, assunse la denominazione di Regia Marina. Il primo ministro, Camillo Benzo conte di Cavour, creò il Ministero della Marina, prevedendo tre dipartimenti marittimi – Genova, Napoli, Ancona – e la costruzione, a La Spezia, di un grande e moderno arsenale militare. Nuove unità furono impostate nei cantieri italiani: le fregate corazzate di 2ª classe Principe di Carignano, Messina, Roma, Venezia, Conte Verde, tutte con scafo in legno. Altre unità, le due fregate corazzate di 1ª classe, Re d’Italia e Re di Portogallo, furono commissionate negli Stati Uniti. Altre ancora furono varate nei cantieri francesi: le fregate corazzate Ancona, Castelfidardo, Maria Pia e San Martino; le corvette corazzate Formidabile e Terribile; e le cannoniere corazzate Palestro e Varese. In Gran Bretagna, infine, venne commissionato l’ariete corazzato Affondatore, una delle prime navi a torri della storia navale. L’Unità d’Italia proclamata nel 1861 non aveva potuto comprendere il Veneto e Roma, la cui inclusione venne pertanto a costituire l’obiettivo primordiale del nuovo Stato. E giacché anche la Prussia era interessata a liberare i propri territori ancora occupati dall’Austria, l’8 aprile 1866 il presidente del Consiglio Alfonso La Marmora stipulò un accordo strategico con il Primo ministro prussiano Otto von Bismarck, impegnando l’Italia ad appoggiare la Prussia in caso di guerra contro l’Austria, e viceversa. L’Austria allora, cercando di prevenire la difficile guerra su due

fronti, offrì all’Italia la cessione del Veneto per via amichevole, ma la Prussia, facendo precipitare gli eventi, il 12 giugno provocò la guerra inducendo l’Italia a prendervi parte a partire dal 23 giugno. L’esercito italiano si trovò subito in difficoltà e il 24 giugno subì un’importante sconfitta presso Custoza. Inoltre, il 20 luglio, anche la marina italiana doveva subire – inaspettatamente ed ingiustificatamente – un durissimo colpo presso l’isola di Lissa, di fronte alle coste della Dalmazia, dove le forze navali dell’ammiraglio Carlo Persano vennero clamorosamente sconfitte dalla flotta austriaca. Solamente le truppe volontarie di Giuseppe Garibaldi, a cui erano state affidate le azioni miliari in Trentino, ottennero importanti vittorie sull’esercito austriaco e tuttavia, l’8 agosto il governo dovette imporre a Garibaldi di ritirarsi. Era accaduto infatti, che nel frattempo gli eserciti prussiani avevano sconfitto ripetutamente quelli austriaci e quindi le pressioni diplomatiche francesi avevano imposto la fine del conflitto. La pace venne firmata a Vienna il 3 ottobre e gli accordi previdero tra l’altro la consegna del Veneto, ma non del Trentino, all’Italia. Ma adesso, torniamo a Lissa. «Uomini di ferro su navi di legno hanno sconfitto uomini di legno su navi di ferro» è quanto si può leggere nel rapporto dell’ammiraglio Wilhelm von Tegetthoff, comandante della flotta austriaca, scritto sul brogliaccio di bordo della sua corazzata ammiraglia "Ferdinand Maximilian". Quella frase è in estrema sintesi il riflesso di una situazione disastrosa che a Lissa condusse le forze navali italiane verso un epilogo assolutamente nefasto: mezzi assolutamente superiori comandati da incapaci contro mezzi inferiori magistralmente comandati. L’esito della battaglia fu catastrofico ‘inaspettatamente e ingiustificatamente’ per l’Italia, infatti, proprio perché la Marina italiana aveva su quella austriaca una superiorità di mezzi ed una netta superiorità numerica di uomini, del 60% negli equipaggi e del 30% negli ufficiali. In quell’anno il presidente del Consiglio italiano era il barone Bettino


L'affondamento della Re d'Italia - Olio su tela di Constantine Volanakis - Museo di Budapest

La battaglia di Lissa - Olio su tavola di Ludwig Rubelli von Sturmfest


LE IMMAGInI La corazzata Palestro, in basso l’ammiraglio Wilhelm Togetthoff Ricasoli, il ministro della Marina era Agostino Depretis e il comandante della flotta era l’ammiraglio conte Carlo Pellion di Persano. E all’ammiraglio, dai politici fu semplicemente ordinato di attuare d’immediato e di “sbarazzare l’Adriatico dalle forze nemiche, attaccandole e bloccandole in qualunque posto si trovassero”. Non considerando però, che la Regia Marina stava attraversando una delicata fase di trasformazione, col passaggio dalla vela alla propulsione a vapore e l’adozione della blindatura per gli scafi. La "Re d’Italia" e la gemella "Re di Portogallo" erano unità che miscelavano vecchio e nuovo, con lo scafo ancora in legno ma rivestito di una fascia di lastre d’acciaio sulle fiancate; potevano navigare a vela, ma la propulsione principale era quella meccanica; l’armamento era per la maggior parte costituito da cannoni a canna rigata, con ancora alcuni vecchi pezzi ad anima liscia. L’ariete corazzato "Affondatore" più blindato delle pirofregate portava alle estreme conseguenze il ritorno in auge – ma Lissa sarebbe stata l’ultima battaglia navale in cui fu impiegata – dell’antica tattica dello speronamento, dovuto all’affermarsi della propulsione meccanica e della direzionalità istantanea e perciò era stata dotato di un lungo rostro fucinato per sfondare gli scafi nemici, però si rivelò poco manovrabile e l’equipaggio non ebbe il tempo di addestrarsi per dirigerlo adeguatamente. Alle pecche tecniche si aggiungevano inoltre le gravi problematiche dovute alla scarsa coesione del corpo degli ufficiali superiori che, provenienti dalle due marine in precedenza antagoniste, si è detto fossero in buona parte divisi da vecchi rancori e da moderne gelosie, con il comando della flotta affidato al veterano ammiraglio piemontese Persano, assecondato dai contrammiragli Giovan Battista Albini sardo e Giovanni Vacca napoletano. Persano organizzò l’attacco con a disposizione 11 navi da battaglia, divise in tre squadre: in testa Principe di Carignano, Castelfidardo e Ancona al comando di Vacca; al centro Re d’Italia, Palestro e San Martino ai suoi ordini; in coda, Re di Portogallo, Terribile, Varese e Maria Pia affidate al capitano di vascello Augusto Riboty. Poi sarebbe sopraggiunta anche l’Affondatore. Albini, al comando delle navi di legno sarebbe rimasto al largo e sarebbe intervenuto solo nella fase di sbarco sull’isola di Lissa. La flotta austriaca dell’ammiraglio Tegetthoff contava 7 corazzate di ferro, più vecchie e meno veloci di quelle italiane anche se bene armate ed in tutto disponeva di 178 cannoni a canna liscia contro i 252 cannoni italiani a canna rigata. Alle 10.45 la battaglia incominciò con un colpo di cannone sparato dalla "Principe di Carignano" e Tegetthoff puntò all’attacco della squadra italiana di centro, piombando con la "Ferdinand Max" sull’ammiraglia di Persano che nel frattempo era trasbordato sulla "Affondatore" perché alla "Re d’Italia" si era bloccato il timone. L’ammiraglia austriaca, infatti, la speronò facilmente cogliendola in pieno al centro, sfasciandole la fiancata e facendola colare a picco, mentre una cannonata austriaca centrava la "Palestro" provocandone l’affondamento. Mentre la squadra di Vacca restava fuori dalla battaglia, l’austriaca "Kaiser" muoveva all’attacco della "Re di Portogallo" di Riboty: le due navi strusciarono l’una

contro l’altra e fu la "Kaiser" a soffrire i danni più gravi, sbandando in fiamme e Persano pensò finirla speronandola con l’ariete del suo "Affondatore", ma non sapendo il suo capitano ben manovrare la nuovissima unità, mancò il bersaglio e la “Kaiser” la scampò. Vacca, vedendo colare a picco la "Re d’Italia" e immaginando che Persano fosse morto e che toccasse a lui prendere il comando, provò a raccogliere intorno a sé le unità italiane. Ma Tegetthoff con tutta la sua flotta si era già ritirato indisturbato. Era da poco trascorso il mezzogiorno, e il combattimento navale era già – tristemente – finito. Nella primavera del 1867 l’ammiraglio Persano venne processato e, quindi, degradato per la sconfitta di Lissa. Non saprei dire se per consolazione o se per maggior disappunto, ma certamente in onore alla verità storica, è giusto segnalare che in realtà quella battaglia, persa dalle forze navali italiane, fu – di fatto – vinta da forze in buona parte veneziane, in una guerra che – per ironia del destino – avrebbe sancito la definitiva incorporazione di Venezia al Regno d’Italia. L’informazione e la storiografia ufficiali d’Italia, allora forse comprensibilmente, non si preoccuparono certo di riconoscerlo – né però l’hanno mai più fatto – nella fretta di mandare nel dimenticatoio della storia quella pagina di guerra poco edificante per il giovane regno, ma è bene sapere che moltissimi di quegli “uomini di ferro” che il bravo ammiraglio austriaco von Tegetthoff citò nel suo rapporto sulla battaglia di Lissa, altri non erano che autentici marinai veneziani, i quali a Lissa furono protagonisti di quella che doveva essere ricordata –

anche – come l’ultima vittoria della Serenissima. Basterebbe, a riscontro, scorrere i nomi di tutti quei marinai, o magari dei soli 38 caduti, o anche dei soli condecorati dall’impero austro-ungarico. Ecco, a solo esempio, i nomi delle 2 medaglie d’oro – Tommaso Penso di Chiogga e Vincenzo Vianello di Venezia – e delle 10 medaglie d’argento di 1ª classe – Antonio Andreatini, Pietro Ghezzo, Marco Dalprà e Bartolo Vidal di Venezia; Angelo Filipputi, Girolamo Dinon e Giuseppe Filippo di Udine; Pietro Varagnolo di Chioggia, Antonio Moderasso di Padova e Paolo Pregnolato di Rovigo. Sull’altra sponda, tra gli oltre tremila uomini della Regia marina che in quel 20 di luglio del 1866 salparono da Ancona alla volta di Lissa, in un’azione di guerra clamorosamente mal pianificata ed ancor peggio condotta, vi era un nutrito gruppo di fucilieri della Brigata marina, molti dei quali avevano preso posto sulla nave ammiraglia "Re d’Italia". Ebbene, il coraggio di quei fucilieri impressionò enormemente il nemico, come ben testimoniato dalle parole dell’ammiraglio austriaco Wilhelm Togetthoff: «Non è possibile non riconoscere negli italiani un coraggio straordinario, che in molti di loro giungeva fino al suicidio. Allorquando la "Re d'Italia" affondava, i suoi fanti di marina si arrampicavano sulle alberature e con le carabine scaricate contro l’ammiraglia austriaca ferirono ed uccisero decine di nostri marinai. Quei tanti fucilieri italiani caduti militando quel giorno sotto la bandiera dell’ammiraglio Persano, indubbiamente morirono animati dal più vivo amor di Patria». E tra quei fucilieri di marina eroicamente scomparsi nell’Adriatico il 20 luglio 1866 quindi, anche il nostro concittadino, il marò Antonio Cappelli. Ebbene, l’aver potuto scoprire il suo nome e il suo tragico destino scritti su un foglio sbiadito, che la Compagnia di Brindisi della Legione Territoriale dei Carabinieri Reali di Bari inviò al Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo in Roma, forse – assieme alla casuale somiglianza tra i nomi Cappelli e Cappellini – potrebbe essere un segnale, un richiamo a ricordare quell’eroico marò brindisino disperso in guerra, onorandone la memoria al pari di quella del bravo capitano. La via Alfredo Cappellini, magari, potrebbe fare coppia con via Antonio Cappelli, sostituendo – o affiancando – tale nome a quello della nave Palestro.

il7 MAGAZINE 24 6 maggio 2022


CULTURE

125 ANNI FA LA MORTE DEL DEPUTATO GARIBALDINO Antonio Fratti cadde ucciso in Grecia: era partito da Brindisi con i volontari di Ricciotti Garibaldi per combattere contro gli invasori turchi Il busto e l’epigrafe marmorea commemorativi di quell’evento furono rimossi e mai più riposti di Gianfranco Perri rano tempi quelli solo125 anni fa in cui, tra i deputati al parlamento italiano che non seguivano le direttrici di politica estera del governo di turno, c’era chi dimostrava il suo dissenso non solamente a parole, ma finanche imbracciando un fucile ed andando sui fronti di guerra rischiando la propria vita per combattere al fianco dei popoli resistenti – greci in quel frangente storico – contro gli attaccanti stranieri – turchi in quella circostanza. Fu tra quelli Antonio Fratti, il deputato oppositore repubblicano di Forlì che tra l’aprile e il maggio di 125 anni fa, rispondendo al proclama del generale Ricciotti Garibaldi, giunse a Brindisi seguito da un cospicuo gruppo di volontari per imbarcarsi per la Grecia e così sommarsi all’esercito ed ai patrioti elleni che erano stati attaccati dai Turchi. Fratti arrivò a Brindisi in treno a fine aprile 1897 e si alloggiò presso l’ Hotel d’Europe, che operava nel centralissimo edificio Pinto-Barnaba, tuttora esistente sulla confluenza dei corsi Roma e Umberto I. In attesa dell’imbarco per Corfù per raggiungere il grosso dei volontari e lo stesso Ricciotti Garibaldi che era salpato da Brindisi la settimana precedente – il 21 aprile – il deputato istituì l’ufficio reclutamento dei volontari in una delle

E

sale dello stesso hotel e oltre agli accorsi a decine da quasi tutte le altre regioni d’Italia – repubblicani socialisti e libertari – aderirono anche vari brindisini, tra i quali Achille De Pace, Giordano Barnaba e Ricciotti D’Amelio. Fratti, in seguito, con tutti quei volontari, raggiunse la Grecia in piena guerra, il 1° maggio 1897. «…Di Fratti a Brindisi mi hanno raccontato quello che fu: in un locale al porto si erano radunati molti volontari; fra questi era Fratti e in un angolo del locale eran degli estranei. Fratti si levò, alzando il bicchiere e parlò. Parlò con infinita e commovente poesia. Mai gli amici lo avevano inteso così altamente uomo e poeta. Un grido di commossa ammirazione scoppiò da tutti i petti. E quelli estranei si levarono e vennero quasi piangenti ad abbracciare l’oratore. Si seppe poi che eran gli ufficiali della corazzata italiana ‘Sardegna’, allora ancorata al Falero...» [Ricciotti Garibaldi, in “La camicia rossa nella guerra greco-turca 1897”] Il generale Garibaldi, radunate tutte le camicie rosse presenti in Grecia – quasi un migliaio – ricevette l’ordine dal principe Costantino di raggiungerlo a Domokos in Tessaglia e lì, il 17 maggio, si consumò un durissimo scontro con i Turchi. Nella battaglia a Domokos, 850 camice rosse respinsero tutta la divisione turca di Hairi Pascià salvando l’onore delle armi gre-

il7 MAGAZINE 24 20 maggio 2022


LE IMMAGInI Antonio Fratti in uniforme garibaldina, qui sotto il busto marmoreo di Ugo SavoranaCamera deputati. In basso la ricostruzione della morte di Fratti

che. Quella battaglia, perduta contro forze soverchie, costò la vita a ventidue dei garibaldini, molti dei quali eran salpati da Brindisi e tra loro anche il deputato Antonio Fratti, caduto in trincera tra i primi, colpito direttamente al cuore da una fucilata. Dopo una difficile ritirata la Grecia ottenne comunque dalla Turchia la firma dell’armistizio e la guerra terminò. /D spedizioQH LWD italiana, ringraziata con onori dal governo e dal popolo greco fu quindi prosciolta e il 1º giugno abordo deO piroscafo ‘Urania’ un centinaio di garibaldini rientrò a Brindisi col coPDndantH 5LFFLRWWL Cinque anni GRSR dopo, i resti di Antonio Fratti furono riportati con tutti gli onori in Italia a bordo del piroscafo ‘Serbia’ che, dopo essere approdato a Brindisi il 23 giugno del 1902, li portò ad Ancona per quindi essere tumulati con solenne cerimonia nel pantheon del cimitero della città natale, Forlì. Di seguito, alcuni altri stralci dal libro di Ricciotti Garibaldi “Las camicia rossa nella guerra greco-turca 1897”: «…Tra i primi che giunsero alla cresta della collina, in mezzo ai volontari della 1a Compagnia, vi erano alcuni ufficiali dello stato maggiore politico e perfino dei dottori delle nostre ambulanze, i quali tutti avevano preso il fucile come gli altri. Con essi si trovava il nostro Fratti. Non appena i primi volontari giunsero di corsa sulla cresta della collinetta che i tiragliatori turchi tentavano di occupare e il contatto col nemico avvenne così da vicino, vi fu una terribile tempesta di proiettili e il primo colpito – proprio primo di tutti – fu Antonio Fratti. Cadde fulminato al suolo trapassato il petto da una palla nemica e dopo pochi istanti i suoi occhi pieni d’intelligenza e di dolcezza erano chiusi per sempre. Onore alla memoria sua! …Io, che giunsi in cresta alla collina qualche minuto dopo, mi sentii dire da qualcuno: ‘Ge-

nerale, Fratti è ferito!’ Con una bestemmia continuai a dare gli ordini necessari, poi – rivolgendomi al piccolo gruppo che cominciava ad allontanarsi con il ferito – chiesi: ‘Come sta Fratti?’ Mi fu risposto: ‘É morto!’ Poi, vicino al ruscello Pentamilli, accanto a dei salici, fu alla meglio scavata una fossa e in questa, coperto di tutti i fiori che si erano potuti raccogliere, fu sepolto il corpo del valoroso Fratti. Troppa era la nostra commozione perché qualcuno potesse pronunziare un discorso; perciò, la sua orazione funebre furono le salve d’onore tirate dai nostri compagni greci nel silenzio di quella valle deserta.» Antonio Fratti era nato a Forlì il 15 maggio 1845 da Luigi, ingegnere progettista che dirigeva l’ufficio tecnico comunale, e da Domenica Ravajoli. Aveva abbandonato a metà gli studi universitari di matematica intrapresi a Bologna – poi però, nel 1884, si sarebbe laureato in giurisprudenza – per seguire Giuseppe Garibaldi nella campagna del Trentino durante la Terza guerra d’indipendenza del 1866 e per poi continuare a combattere col generale anche a Monterotondo e Mentana nel 1867 e, nel 1870, persino in Francia a Dijon. Fratti aveva quindi aderito in pieno alla dottrina mazziniana, impegnandosi per alcuni anni su vari giornali della sua regione. All’incontro di Villa Ruffi presso Rimini, dove nell’agosto 1874 si erano riuniti i principali esponenti del partito repubblicano in vista delle imminenti elezioni politiche, si era fatto arrestare assieme ad altri 28 partecipanti quando la polizia era intervenuta con il pretesto che il convegno fosse in realtà un complotto. All’inizio del 1877 si era trasferito a Roma, dove per circa due anni aveva diretto il quotidiano repubblicano ‘Il Dovere’ con la cui fondazione i repubblicani si ripromettevano di unificare le forze del loro movimento, saldandole in difesa dell’eredità mazziniana. Nel 1884 era accorso in prima linea a Napoli, per prestare il suo personale aiuto alla città durante l’emergenza dell’epidemia colerica. Impegnato contro il governo di Francesco Crispi, nel 1891 Fratti era stato eletto per la prima volta alla Camera dei deputati nel collegio di Forlì e nel 1893 aveva fondato la ‘Rivista popolare’ per farne la


LE IMMAGInI Il trasporto della salma di Fratti in Grecia e in basso il suo seppellimento tribuna e il punto di convergenza tra repubblicani radicali e socialisti: inizialmente senza troppo successo, ma poi la repressione del governo crispino del 1894 aveva fatto sì che i tre partiti si ritrovassero insieme nella Lega per la difesa della libertà. L’accordo aveva previsto anche il sostegno ai rispettivi candidati per le politiche del 1895, ma presentatosi a Ravenna Fratti era stato battuto e avrebbe dovuto attendere due anni per sconfiggere a sua volta nel collegio di Forlì il rivale ed essere rieletto alla Camera deputati il 28 marzo 1897. Quando con lo scoppio della guerra greco-turca era nato il Comitato pro-Candia, il deputato Fratti ne era divenuto da subito uno degli animatori e poi, la possibilità di ridare lustro alla tradizione di solidarietà per i popoli in lotta per la nazionalità lo aveva spinto a rispondere positivamente all’appello di chi, con Ricciotti Garibaldi alla testa, stava raccogliendo i volontari per portare soccorso ai Greci. La notizia della tragica morte di Antonio Fratti causò ovunque grande commozione e a Brindisi fu istituito un comitato per ricordare la figura dell’eroe repubblicano e la sua sosta in città prima della sua ultima battaglia. Lo integrarono: Giuseppe Barnaba, Teodoro Cafiero, Carmelo Capozza, Michele Guadalupi, Enrico Mariani, Francesco Zaccaria, Raffaele Cioffi, Vincenzo Ruggiero, Giuseppe Santarcangelo, Tommaso Sala, Alessandro Lanzoni, Michele Patruno, Massimo Bellocchi, Giustino Durano e Camillo Mealli. Furono commissionati, al poeta Giovanni Bovio il testo di una epigrafe ed allo scultore Ettore Ferrari un busto, opere marmoree che furono collocate entrambe sulla facciata del palazzo Pinto-Barnaba che guarda su corso Umberto I e furono inaugurate nel 1902 in concomitanza con l’approdo a Brindisi dei resti dello sfortunato deputato forlivese. Questo il testo dell’epigrafe: «Il 28 aprile 1897 in questa casa albergò Antonio Fratti quando spargea quella fede che dal Tirolo a Domokos ebbe termini la speranza e la morte».

Il celebre poeta Giovanni Pascoli dedicò ad Antonio Fratti una poesia nella sua raccolta ‘Odi e Inni’ e per il palazzo di Montecitorio a Roma fu commissionato un busto in marmo bianco di Carrara dell’eroico deputato eseguito a scala naturale dal rinomato scultore Ugo Savorana, tuttora esposto. Allo stesso modo, in varie città d’Italia furono apposte epigrafi a ricordo dell’illustre compatriota ed in commemorazione

della sua encomiabile estrema azione, mentre in alcune città – non solo italiane – gli furono intitolate anche importanti vie e piazze. Anche la città di Brindisi gli volle intitolare una strada, quella che da via Lata discende verso via del Mare, ma – imperdonabilmente – le due opere marmoree che erano state apposte sul palazzo del principale corso cittadino, nel 1928 furono rimosse per fare spazio – incredibile, ma vero – ad una insegna pubblicitaria su richiesta di un commerciante dell’epoca. Quindi, i marmi furono abbandonati in un deposito comunale, senza mai più essere ricollocati in alcun altro luogo della città, nonostante la richiesta formulata in tal senso da un gruppo numeroso di indignati cittadini. Alcuni decenni dopo il professor Alberto Del Sordo, grazie alla sua impervia ma ostinata ricerca, riuscì a ritrovare in buono stato la scultura e ne sollecitò alle autorità la dovuta riposizione: un appello rimasto fino ad oggi inascoltato. E magari non è neanche il caso di meravigliarsi troppo di quanto accaduto e qui raccontato per una città in cui – tristemente – il rispetto e la conservazione della memoria storica sembrano stentare a radicarsi nel proprio DNA, quanto meno nel DNA dei suoi amministratori pubblici, visto che – per non parlare d’altro – di epigrafi cittadine più o meno di recente scomparse se ne potrebbe stilare un lungo elenco: vedi, solo come esempio, quanto riportato in “Le epigrafi cittadine? Sparite” di G. Perri su ‘il7 MAGAZINE’ N.2 del 30 giugno 2017.

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La Tribuna Illustrata della domenica - 1897 No.22


CULTURE

DOMENICO DA BRINDISI IL «POPE» VISSUTO NEL1200

La sua fama è legata alla missione diplomatica svolta in Bulgaria per conto di Innocenzo III di Gianfranco Perri

rindisino destinato alla fama, citato nei testi di storia e commentato in varie occasioni nella bibliografia storica cittadina, Domenico fu un arciprete – il pope Theorido protopapa dei greci bizantini di Brindisi ‘archipresbiterum graecorum de Brundusio’ – vissuto a cavallo tra i secoli XII e XIII, al quale è anche intitolata una via del centro storico cittadino. Molti storici e cronisti ne fanno ammirata menzione “come uomo versatissimo nelle scienze e discipline ecclesiastiche, profondo grecista e fine diplomatico, di nobilissimo ingegno e di specchiata virtù, con doti singolari della sua mente e del suo cuore che lo facevano tenere in molta stima presso i migliori e più cospicui personaggi del suo tempo…” Eppure, le notizie intorno alla vita di Domenico non vanno oltre quelle poche affermazioni generiche circa la sua cultura, la sua saggezza e la sua religiosità, senza che nessuna di esse si appoggi su una qualche fonte documentale certa, di carattere storico o biografico. Per contro, la sua figura e la sua azione risaltano in maniera centrale, se pur solo puntuale, dentro quel complicato capitolo della storia medievale che, dopo il Grande scisma d’Oriente del 1054, vide consumarsi un persistente scontro ideologico – e non sempre solo ideologico – tra la Chiesa

B

cattolica romana e la Chiesa ortodossa orientale. Un importante capitolo di storia per il quale anche Brindisi costituì uno scenario per niente trascurabile, in virtù della sua storica collocazione di ‘limes’ – e non solo geografico – tra Occidente e Oriente. Il ricordo di questa singolare figura di prete brindisino, pertanto, nonostante la quasi totale deficienza relativa ai trascorsi della sua vita, ben merita di essere ravvivato a mo’ di occasione propizia per riproporre il racconto di quella pagina di storia cittadina che lo vide operare, una pagina certamente importante ed i cui strascichi, a più di ottocento anni di distanza, sono ancora rintracciabili nei risvolti religiosi e sociali della società brindisina. In Terra d’Otranto, e pertanto di fatto in parte anche a Brindisi, dopo la caduta dell’impero romano d’Occidente, dalla storia formalmente datata 476 dC, il dominio bizantino si protrasse per più di 500 anni, in maniera più o meno accidentata e comunque quasi ininterrottamente, fino all’arrivo dei Normanni. Ed in quei secoli, l’arrivo di monaci orientali di rito greco che finirono con lo stabilire stretti contatti con le popolazioni locali, determinò il diffondersi in praticamente tutto il Salento di una vasta cultura di carattere umanesimo-greco-cristiano. Un primo afflusso massiccio di nuclei monastici orientali si produsse durante il VII secolo quando, a causa dell’imperversare in Oriente

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LE IMMAGINI La chiesa di San Nicola con pope Arsenio Aghiarsenit, in basso una vecchia foto della chiesa edificata nel 1891

dell’invasione musulmana, profughi dalla Siria e dall’Egitto raggiunsero le province meridionali italiane. Il loro arrivo finì con rafforzare notevolmente l’elemento culturale bizantino già presente in quei territori dove anche la realtà religiosa fu profondamente influenzata dalle loro pratiche orientali. Altri religiosi orientali giunsero sulle coste del basso Adriatico provenienti dalle regioni balcaniche spinti dalle persecuzioni che si produssero contro tutti i sostenitori dell’ortodossia dopo l’emanazione del Tipo, nel 648. Altri ancora giunsero quando nel 726 Bisanzio sancì l’inizio della persecuzione iconoclasta. Lo scisma di Fozio dell’867 poi, trasse con sé nuovi religiosi regolari e secolari di rito orientale al Salento, mentre la riconquista bizantina, con la conseguente fondazione – nell’892 – del Thema di Longobardia, stabilì le premesse per un nuovo accentuato afflusso in Puglia di religiosi orientali di rito greco. «La ristabilita egemonia di Bisanzio sul Salento determina il tentativo di comprendere le diocesi salentine nel patriarcato di Costantinopoli. Il rito greco, comunque, si affiancò più che sostituirsi a quello latino, anche perché in quel periodo risulta vi siano stati vescovi latini eletti dal popolo e dal clero, poi confermati dal patriarca di Bisanzio. Roma, a salvaguardia dei propri diritti, attribuisce il titolo della sede di Brindisi ai vescovi di Canosa. Si hanno così vescovi residenti la cui elezione è confermata da Bisanzio e vescovi nominali cui il titolo è conferito a Roma dal papa… Così, vescovo latino di Brindisi fu Giovanni, arcivescovo di Canosa e Brindisi dal 952 al 978, succeduto da Paone fino al 993. Entrambi risiedono in Bari e si sottoscrivono archiepiscopus Sancte Sedis Canusine et Brundusine Ecclesie...» [“Gli arcivescovi di Brindisi dal VII al X secolo” di G. Carito, 2008] Contemporaneamente, vescovo in Oria riconosciuto da Bisanzio era Andrea, succeduto da Gregorio, Giovanni, Leonardo, Eustachio, Gregorio, tutti titolati vescovi di Oria, Brindisi, Ostuni e Monopoli. Con l’unica eccezione della chiesa di Otranto il cui vescovo aveva la dignità di metropolita conferitagli dal patriarca di Costantinopoli che egli riconosceva pienamente, molte delle altre importanti chiese salentine tentavano di tener fronte all’ingerenza dei funzionari bizantini e di sottrarsi alla diretta autorità del patriarca di Costantinopoli, costantemente appoggiati in tale atteggiamento dal metropolita di Canosa, al quale da Costantinopoli era stato opposto l’arcivescovo Pau. A vescovo di Brindisi, il metropolita latino Giovanni di Canosa riconobbe Gregorio, mentre per Costantinopoli la chiesa brindisina continuava a dipendere da Oria. Dopo il Grande scisma d’Oriente del 1054 i religiosi orientali del Salento restarono di rito e di concezione teologica ortodossa, pur nel riconoscimento della supremazia apostolica romana conseguente al consolidarsi della conquista normanna – Brindisi fu definitivamente occupata da Roberto il Guiscardo il 1070 – quando il clero orientale dovette fare a meno dell’appoggio che gli veniva da Bisanzio, men-

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tre i religiosi latini si avvantaggiarono della nuova situazione politica. Così, mentre tutte le chiese ritornarono alle dipendenze della Chiesa latina, i vescovi greci andarono perdendo anche il dominio del litorale tra Brindisi e Bari, Oria inclusa. E nel 1098, inoltre, scomparve anche la primazia di Oria su Brindisi e l’arcivescovo Godino fu dal papa di Roma obbligato a ricondurre la sua residenza nella sede storica di Brindisi. La cultura bizantina non andò tuttavia dispersa e continuò ad evolversi, pur nel nuovo ambiente non del tutto favorevole, grazie alla sua congenialità alle popolazioni salentine che di essa si erano nutrite per cinque secoli. La religiosità orientale nel Salento, infatti, nonostante l’avvento e l’affermazione del monachesimo occidentale, lasciò tuttavia molto a lungo un profondo e prezioso retaggio culturale che accompagnò gli stessi monaci Benedettini nel loro nuovo importante ruolo, sia in campo religioso e sia in quello economico-sociale. In alcune aree di Terra d’Otranto è infatti documentata, fin dalla fine del secolo XI, la coesistenza di monaci greci e latini. Una coesistenza tanto intima che non sempre è semplice né facile dissociare o distinguere pienamente le due culture religiose che caratterizzarono non solo il superstrato linguistico con i dialetti locali e la religiosità, ma anche la cultura più in generale, fino ai moduli pittorici e architettonici, e a molto altro. Nella stessa Brindisi, anche se l’influsso della cultura bizantina nel Salento si andava facendo meno notevole via via che dall’estremo Sud si saliva verso Nord, la presenza e l’influenza - e il retaggio - della religiosità monacale e più in generale orientale, così come i legami con il rito greco, rimasero per lunghissimo tempo ben radicati, sia formalmente e sia informalmente, nelle consuetudini religiose e nella cultura popolare. E, come del resto è ben documentato, per un certo tempo in città i due riti, quello greco e quello latino, convissero l’uno accanto all’altro e mentre si andavano sviluppando le relative influenze sulla cultura e sul costume locali – in dialetto brindisino il prete è ‘lu papa’: papa Caliazzu, papa Pascalinu, papa Pizzicallu, eccetera – la popolazione godeva di libertà religiosa, come attestato dalla persistenza in città di più chiese di rito greco. La chiesa di San Pelino, eretta nel VII secolo per volontà di Ciprio successore sulla cattedra episcopale di Brindisi del dedicatario, entrambi monaci basiliani giunti a Brindisi provenienti dall’Oriente, era situata vicino alla Cattedrale, alle spalle del palazzo Granafei. La basilica di San Leucio, monaco egiziano evangelizzatore e primo vescovo di Brindisi agli inizi del V secolo, che intorno all’880 fu voluta dal vescovo di Oria Teodosio per riporvi la parte del corpo del santo ritornata da Benevento. La chiesa di San Giacomo, sino al 1173, di solo rito greco, era ubicata in prossimità dello scalo marittimo, sull’angolo interno che dà sui Giardinetti. Ebbene, fu nel contesto storico religioso sociale descritto che visse a Brindisi il protopapa dei greci, Domenico. In un ambiente religioso e spirituale quindi, che sullo scadere del secolo decimosecondo – 1199 – era delineato con ben chiari caratteri: rito orientale in declino, mentre si andava affermando la prevalenza della Chiesa romana; clero regolare ancora legato per molti tra-


LE IMMAGINI L’interno della chiesa di San Nicola e in basso padre Arsenio Aghiarsenit

miti alla fonte spirituale di Bisanzio ed alla sua tradizione, mentre il clero secolare, a causa di una maggiore duttilità provocata dai più frequenti rapporti con le popolazioni, in progressivo adeguamento alla nuova situazione. Il tutto conseguente alla politica normanna che era stata fondamentalmente antibizantina, e nonostante il temporale modesto rinvigorimento della tradizione filobizantina che si era iniziato a sperimentare con l’avvento svevo sul regno di Sicilia, cui Brindisi apparteneva. L’8 gennaio 1198 era salito al trono pontificio Innocenzo III con l’aspirazione di promuovere, oltre alla già prevista crociata contro l’Islam, la conversione degli scismatici di Bisanzio e la ricostruzione dell’universalità della Chiesa romana. Il papa, infatti, abbracciò subito l’iniziativa di proporre al basileus di Costantinopoli Alessio III il rientro in seno alla Chiesa cattolica e, mentre Alessio tergiversava, la congiuntura politica determinatasi in Bulgaria gli offerse una opportunità favorevole a quella sua aspirazione. Nel 1186 una insurrezione di bulgari e di valacchi, guidata dai fratelli Pietro e Giovanni Asen, aveva liquidato, con l’aiuto delle popola zioni turche, le resistentze bizantine e Pietro aveva preso le insegne imperiali nella nuova capitale, Trnovo, ed aveva anche fondato una Chiesa nazionale indipendente. Alessio III, che aveva tentato invano di ridurre i bulgaro-valacchi con le armi e con le trattative, era finalmente riuscito che nel corso del 1196 i due fratelli, Pietro prima e Giovanni poi, fossero assassinati e così, sul trono di Trnovo era salito il terzo fratello Asen Giovanni, detto Kalojan, Giovanni il buono. Questi però, a sua volta, cominciò a guardare verso Roma nella ricerca di elementi che valessero a rafforzare spiritualmente ma anche materialmente la sua corona, gravata dalla pesante ipoteca bizantina. Un riconoscimento da parte della Sede Apostolica avrebbe significato la definitiva rottura del legame di dipendenza dal patriarcato di Bisanzio ed avrebbe potuto costituire un titolo di legittimità al buon diritto della stessa corona bulgaro-valacca. E fu a quel punto che Innocenzo III si predispose a compiere una mossa d’apertura nei confronti di Kalojan, giacché stabilire buoni rapporti con quel principe gli apparve interessante, visto che sulla via di Bisanzio, nonché di Terra Santa, dopo il già avvenuto rafforzamento dei rapporti col regno ungherese, non rimaneva che il principato bulgaro o quello serbo a costituire un eventuale ostacolo. Prese quindi, iniziando il 1199, l’iniziativa di inviare presso il capo bulgaro il presbitero Domenico, protopapa dei greci di Brindisi, munito d’una missiva e con il delicato e difficile compito di saggiare il terreno e di studiare in loco quella che da Roma appariva essere una potenzialmente favorevole congiuntura politica internazionale. Più in particolare, Domenico avrebbe dovuto accertare gli intendimenti e le disposizioni del principe bulgaro, nonché valutarne le pretese e quindi, anche la solidità della sua posizione personale e la consistenza del suo potere, nonché lo stato

d’animo delle popolazioni nei confronti del loro capo. E perché inviare proprio Domenico da Brindisi? «Forse perché Domenico proveniva proprio da quell'ambiente brindisino che offriva ad Innocenzo III buone garanzie nella scelta: ambiente greco, ma tradizionalmente vicino e sviluppatosi nel più largo cerchio del clero latino, e che si giovava di un notevole grado ecclesiastico e proveniva dal clero secolare e non già da quello regolare, più attaccato alla tradizione e più sensibile alle sollecitazioni ideali provenienti da Bisanzio. Non v'era pericolo che, nella lontana Bulgaria, Domenico fosse attratto dal fascino dell'antica Bisanzio. Tra i motivi che indussero il papa alla scelta potrebbe, se ve ne fosse bisogno, anche congetturarsi una conoscenza da patte di Domenico della lingua bulgara. Infatti,

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in una città come Brindisi, aperta ad intensi traffici con l'Oriente, poteva ben trovarsi un membro del clero greco capace di intendere quella lingua. E la conferma che Domenico abbia avuto dei rapporti con personalità bulgare, o slave, o greche in contatto con la capitale del principato bulgaro, è nel fatto che Kalogiovanni riuscì a trovare un mallevatore capace di attestare l'identità di Domenico e garantirne la buona fede». [“Domenico a Brindisi, Apocrisario di Innocenza III” di E. Pennetta in ASP - 1955] Domenico, in qualità di legato pontificio, partì da Brindisi i primi di gennaio di quel 1199 munito della missiva apostolica indirizzata a Johannitio domino Blacorum et Bulgarorum in una missione dichiarata esplicitamente di carattere esplorativo ed informativo, avendo lo stesso il papa già stabilito che avrebbe predisposto altri diplomatici per una eventuale ulteriore fase di trattative. Giunto a Trnovo, Domenico fu accolto freddamente da un principe inquieto e molto diffidente, e fu da questi posto sotto rigida sorveglianza, senza che pertanto potesse minimamente adempiere alla missione affidatagli. Una situazione che perdurò immutata fin quando il principe ebbe modo di trovare un testimone di sua completa fiducia che poté garantirgli e dimostrargli l’effettiva buona fede di Domenico, il quale finalmente poté svolgere la missione. Secondo la datazione indicata nel Codice Diplomatico Brindisino di Annibale De Leo, il viaggio di andata e la permanenza di Domenico alla corte di Trnovo fino al momento della partenza, si sarebbero espletati nel corso di un anno, mentre secondo un’altra fonte, e forse più verosimilmente, l’intera azione del presbitero brindisino avrebbe compreso un arco di tempo di ben quattro anni. Comunque sia, Domenico iniziò finalmente il suo viaggio di ritorno – ac-


compagnato da Blasius, presbitero di Branicievo – munito di due lettere dirette al papa, una dello stesso capo dei bulgari Kalojan e l’altra di Basilio, arcivescovo dei bulgari e pastore di Zagora. Kalogiovanni nella sua lettera, scrisse di essere lieto di aver ricevuto la missiva papale che gli aveva ricordato la sua antica discendenza romana, ed aggiunse che tanto i suoi due fratelli quanto egli stesso avevano avuto in animo già da tempo di allacciare relazioni con la Sede apostolica e pertanto ringraziava il papa per quel suo primo passo, offrendogli amicizia ‘et servitium sicut Patri spirituali et summo Pontifici’. Incoraggiato quindi dalla missiva recatagli da Domenico, procedette a chiarire le aspirazioni cui tendeva: essere confermato come figlio nel seno della Santa romana Chiesa ed ottenere dal Santo Padre, con l’onore dovuto, la corona imperiale di Bulgaria. Come contropartita alle richieste avanzate, non avrebbe esitato ad offrire, ove quelle fossero state accolte, la fedele obbedienza del suo impero, sicché ‘tutto quello che crederete comandare al nostro impero sarà, per onore di Dio e della Chiesa romana, condotto a termine’. Terminò la lettera pregando il papa di affrettare l’invio dei nunzi promessi per la conclusione delle trattative e di inviarli in compagnia di Domenico, a prova e garanzia dell’ufficialità della prima e della nuova missione. Quella seconda missione in effetti ci fu e fu condotta dall’abate Giovanni di Casamari, cappellano papale, senza che però sia possibile rintracciare testimonianze che il papa abbia aderito al desiderio del principe bulgaro d’inviare di nuovo presso la sua corte, l’archi-pre-

sbitero dei greci di Brindisi Domenico. E ci fu anche una terza ed ultima missione papale che, presieduta dal cardinale Leone di Santa Croce, si concluse con l’unzione e l’incoronazione di Giovanni a ‘kral’ di Bulgaria, e non già a ‘zar’ come lui avrebbe in definitiva desiderato. La missione di Domenico, nel suo carattere esplorativo e limitato ad una, per altro non facile, presa di contatto con l’ambiente bulgaro, ebbe pertanto un esito evidentemente del tutto favorevole, giacché Domenico pose solide basi per quello che fu il poi rivelatosi effimero accordo tra la Chiesa romana e il principato bulgaro. Accordo che, infatti, fu presto travolto dagli eventi e dai mutamenti d’indirizzo politico del ‘kral’ Giovanni. Il nome di Domenico da Brindisi ritornò così nell’ombra della storia dalla quale il mandato di Innocenzo III lo aveva per uno solo specifico, se pur importante, episodio tratto. I pochi e mal delineati contorni che caratterizzano di fatto la evanescente figura del pur noto presbitero dei greci di Brindisi valgono in ogni modo a lumeggiare la statura intellettuale e morale di Domenico, quale esponente di quella cultura greco-salentina che per alcuni secoli dette la sua non sottovalutabile né cancellabile impronta alle tendenze spirituali delle genti che popolano l’estremo lembo orientale della penisola italica, tra cui, evidentemente, anche quelle della sua Brindisi. Impronta le cui tracce hanno perdurato attraverso secoli, fino ai nostri giorni. Agli inizi del ‘300, erano così numerosi i brindisini di lingua greca, che fu richiesta al re Carlo II d’Angiò la designazione per la città di un notaio perito in lingua greca ed in quell’occasione la nomina ricadde su Giovanni Frisci,

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figlio del protopapa greco Stefano. Nel ‘400 nuove immigrazioni dall’Oriente, favorite dalla politica degli Aragonesi, rinfoltirono la comunità greco-albanese-schiavona di Brindisi, che assunse notevole importanza sociale, tanto che nel 1485 il re Federico d’Aragona nel riorganizzare il governo della città dispose che dell’Amministrazione facessero parte due membri appartenenti alle comunità greca albanese o schiavona. Nel 1536 l’imperatore Carlo V, re di Spagna, inviò a Brindisi una colonia di Greci Coronei e per decenni fu loro sacerdote Antonio Pyrgho, che nella propria cattedrale celebrò con il rito greco vari battesimi di bambini, coronei e non. Una liturgia greca, che si mantenne formalmente in uso nella città fino al 1680, nonostante il Concilio di Trento del 1545 avesse ufficialmente sostituito il rito greco con quello cattolico, officiato in latino. Nel 1793, per ripopolare la città la cui popolazione si era ridotta a solamente 5000 anime a causa della critica situazione sanitaria conseguente all’impaludamento del porto interno, «…fu chiamata una intera colonia greca dall’isole Jonie, cui furono assegnati per i primi soccorsi dodicimila ducati e molti territori incolti di pertinenza delle comunità religiose, oltre a tantissime altre agevolazioni e privilegi specialmente concessi. E per vieppiù incoraggiarla fu istallata una commissione particolare che era preseduta dall’arcivescovo Giambattista Rivellini e il governatore della nazione Nicola Vivenzio, presso la quale fossero le risoluzioni sugli affari di quella. Furono parimenti assegnate due chiese per l’esercizio del culto religioso, una dentro la città detta di San Antonio Abate, e l’altra fuori della chiesa di Mater Domini, ossia San Lionardo poi da loro intitolata a San Giorgio, officiate da due sacerdoti dello stesso rito, pensionati dalla corte.» [Cronaca dei Sindaci di Brindisi, 1787-1860] Tuttora, la Domenica delle Palme nella cattedrale di Brindisi si leggono in greco l’Epistola e il Vangelo. Una tradizione questa, che continua quella della celebrazione liturgica che seguiva la processione delle Palme che si snodava dal Capitolo fino all’Osanna, una piramide tronca su cui si saliva dai gradini disposti su tutti i suoi quattro lati e sulla cui sommità vi era una colonna di marmo innalzata a sostegno di una gran croce, dove per secoli l’arcivescovo e il clero, proponendo vangelo ed epistola in greco, ricordarono gli stretti legami fra la chiesa locale e il mondo orientale. La tradizione si protrasse nonostante i vari tentativi di sopprimere ogni traccia del rito greco e fu solo negli anni '30 del secolo scorso, quando il complesso dell’Osanna fu demolito, che la tradizione fu ricollocata nello spazio della cattedrale. La colonna in marmo pario con croce scolpita che sormontava l’Osanna da allora si conserva in Santa Maria del Casale e fu datata tra IX e X secolo, facendo supporre che l’Osanna fosse stata edificata in periodo altomedievale e che fosse quindi contemporanea della vicina basilica di San Leucio. Brindisi, infine, continua ad annoverare tra i suoi cittadini una solida e ben rappresentata comunità di religione greca che conserva il suo riferimento religioso nella bella chiesa di San Nicola costruita nel 1891.


CULTURE

Brindisi bizantina: per due secoli città ‘quasi’ senza una storia propria

Dopo anni di fulgore, era quasi totalmente disabitata. Tuttavia la rinnovata presenza della flotta imperiale, dopo il ritorno di Durazzo sotto Bisanzio nel 1005, aveva posto le premesse per il rilancio di Gianfranco perri urante circa due secoli, dalla riconquista– anche detta “seconda conquista” – bizantina del Meridione italiano dell’885, fino alla definitiva conquista normanna del 1071, Brindisi appartenne all’Impero d’Oriente, compresa nel possedimento bizantino del “Thema di Longobardia”, integrante poi a sua volta del “Catepanato d’Italia”. Ebbene, dei trascorsi cittadini durante quei tantissimi – ben duecento – anni si sa concretamente molto poco, quasi nulla, sia in termini di vita politica, o economica, o militare, o religiosa, eccetera, e sia in termini di vita sociale: non è pervenuto neanche un solo nome di un qualche personaggio brindisino di oggettivo rilievo, che in tutti quegli anni abbia compiuto gesta meritevoli di entrare nella storia o, quanto meno, azioni tali da lasciarne una qualche traccia nella cronaca. Incredibile, ma – apparentemente – vero, perlomeno a giudicare da quanto reperibile nelle fonti bibliografiche disponibili, che dovrebbero in buona misura riflettere quanto rilevato nelle fonti docu-

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mentarie pervenute su quel lungo periodo storico. Quando ho prospettato la mia stranezza in relazione a tale apparentemente anomala si-

tuazione al professor Gennaro Tedesco, eminente studioso esperto di storia dell’Italia meridionale bizantina autore di innumerevoli ricerche e pubblicazioni sul tema, egli

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LE IMMAGInI Il Catepanato d‘Itaila

mi ha risposto quanto – in sintesi – segue: «… L'Impero Romano d'Oriente aveva il suo fronte principale in Oriente e sempre in Oriente era concentrata non solo la sua forza militare, ma anche quella economica. Difendere il confine orientale dell'Impero era assolutamente il primo e il principale obbiettivo strategico imperiale. Per Bisanzio i veri reali nemici erano gli Arabi. Il confine occidentale localizzato nell'Italia meridionale, pur importante, era del tutto secondario nella strategia politica e militare dell'Impero romano d'Oriente. Bisanzio spendeva molto poco per il confine occidentale e non aveva intenzione di sprecare truppe, navi e finanze per contrastare i Longobardi che aveva sempre considerato popolo barbaro neanche lontanamente paragonabile ai molto più pericolosi e civilizzati Arabi dislocati al suo confine orientale. E conseguentemente non è da enfatizzare troppo – vista da Bisanzio – l’importanza della barbarie longobarda. Barbari – i Longobardi, come poi anche i

Normanni – che in effetti non hanno mai compreso la politica mondiale di Bisanzio e la conseguente necessità imperiale di razionalizzare e risparmiare forze per altri scacchieri internazionali ben più determinanti, come i Balcani, Creta, le Isole Egee, l'Anatolia, la Siria e la Mesopotamia… La carenza delle fonti – quanto meno quelle bizantine – su Brindisi che Lei nota, può quindi essere dovuta innanzitutto alla secondarietà non solo di Brindisi, ma anche di tutta l'Italia meridionale nella prospettiva strategica imperiale volta a privilegiare Oriente e Balcani. I cronisti e gli storiografi bizantini scrivono storie e cronache universali da intendere anche nel senso di opere che descrivono eminentemente tutti quei fronti su cui ufficialmente la dirigenza bizantina punta i riflettori della sua strategia e della sua geopolitica mondiale, oscurando conseguentemente tutti quei luoghi che non sono illuminati dai riflettori. E quando cronisti e storiografi bizantini si interessano dell'Italia meridionale, essi descrivono non le singole città, ma tutto l'insieme dell'Italia meridionale considerata, probabilmente anche giustamente, da un punto di vista globale e non particolare o frammentario o, peggio ancora, locale o localistico, come in-

vece fanno i Longobardi o i Normanni le cui cronache sono le cronache di quello che succede nel cortile della loro micro-politica parrocchiale e localistica, avulsa dal contesto di qualsiasi prospettiva strategica globale e mondiale… E, ritornando alla carenza delle fonti su Brindisi, se mai ci sono stati documenti locali sulle vicende brindisine in epoca bizantina, bisogna ricordare che Normanni e Papato dall'XI secolo hanno iniziato nel Sud Italia un processo di ri-latinizzazione forzata delle popolazioni ortodosse che nel Sud erano in maggioranza, facendo di tutto per cancellare quella importante presenza ortodossa e bizantina nel Sud. Gennaro Tedesco.» Abbastanza chiaro, direi. Non resta, a questo punto, che riordinare quei pochi e frammentari dati disponibili sulla bisecolare Brindisi bizantina e quindi accomunarli a quelli conosciuti attinenti al contesto più generale del meridione bizantino in cui, pur se apparentemente in penombra, la città rimase più o meno saldamente integrata durante tutti quei, comunque lunghi, duecento anni. Facendo precedere il tutto da una breve introduzione storica circa gli eventi che portarono alla citata “seconda riconquista”. Nel 553 d.C. la ventennale guerra greco-gotica si era conclusa con la vittoria dei Bizantini dell’imperatore Giustiniano e con la sottomissione dell’intera penisola italiana, ma dopo pochissimi anni quella vittoria si rivelò essere stata del tutto pirrica, giacché a partire dal 568 i nordici Longobardi penetrarono in Italia e dilagarono occupando Pavia, che divenne la loro capitale. Quindi, si infiltrarono nel Sud della penisola e si insediarono a Spoleto e a Benevento, dove fondarono due potenti ducati. I Bizantini organizzarono la difesa in prossimità delle coste e intorno ad alcune città fortificate, riuscendo inizialmente a conservare la Sicilia, la Sardegna, la Corsica, Roma, l’esarcato di Ravenna con la Pentapoli e il Ducato di Calabria, che comprendeva il Bruzio, parte della Campania e della Apulia e tutta la Calabria – l’attuale Salento – con le sue importanti città costiere di Brindisi, Taranto, Gallipoli, Castro e Otranto, la capitale del ducato che elevata a centro del potere regionale bizantino divenne un polo dinamico e di rilievo, affermandosi come emporio del Meridione rimasto bizantino. In seguito, però, dopo meno di cento anni dall’arrivo dei Longobardi in Italia, i presidi meridionali bizantini si erano notevolmente ridotti, essenzialmente limitati alla Sicilia, a Napoli, Amalfi, Gaeta, Sorrento, alla parte nord del Bruzio, alle città costiere pugliesi di Trani e Bari e a quelle salentine: Otranto, Castro, Gallipoli, Taranto e Brindisi. Nel 663 l’imperatore d’Oriente Costante II salpò da Costantinopoli per intraprendere la riconquista dell’Italia sbarcando a


CULTURE LE IMMAGInI Il “limes” tra i territori Bizantino e Longobardo nel Meridione italiano, in basso San Biagio-Affresco con i Santi Guerrieri Giorgio e Demetrio con San nicola

Taranto e, risalita la Puglia, pose l’assedio a Benevento senza però riuscire a espugnarla. Quindi, sulla via del rientro in patria, fu assassinato in Siracusa. Dopodiché, il duca di Benevento Romoaldo I intraprese la riconquista delle città perdute e ne conquistò anche di nuove tra cui, intorno al 680, Taranto, Oria e Brindisi, sulla cui direttrice, per due secoli circa, tra 685 e 885, si sarebbe stabilito – rimanendo comunque alquanto evanescente – il limes sudorientale longobardo con l’adiacente territorio rimasto bizantino. I Longobardi, la cui influenza si stemperava nel Salento settentrionale e svaniva del tutto da Otranto in giù, non furono in grado di riempire del tutto il vuoto di potere che nella fascia intermedia pur lasciava la debole amministrazione bizantina e di conseguenza, Bisanzio non cessò di considerare la situazione pugliese come una guerra interrotta, programmandone e, infine, completandone la riconquista a fine secolo IX. Longobardi che comunque, con l’intento di sottrarre le popolazioni locali all’influenza culturale dei Bizantini, portarono avanti una costante opera di penetrazione nella mentalità, nel costume e negli ordinamenti giuridici delle popolazioni indigene. Così, principalmente intorno a Brindisi – per due secoli città limes settentrionale dei possedimenti bizantini nel Meridione d’Italia – Longobardi, Apuli e Salentini, in tutti quegli anni finirono accomunati per le abitudini, gli interessi, le culture e le religioni di entrambe le parti e, comunque, per il diritto consuetudinario longobardo che specialmente in materia matrimoniale regolamentava i rapporti tra le persone. Nell’880, su richiesta del papa Giovanni VIII, l’imperatore Basilio I fondatore della dinastia macedonica, mentre una sua forte armata navale al comando di Nasar respingeva i musulmani dalle isole Ionie e passata nel Tirreno riportava altre notevoli vittorie, inviò in Italia anche un forte esercito bizantino che sbarcò sulla punta della penisola al comando del suo più prestigioso condottiero Niceforo Foca per difendere, dalle ormai divenute incontrollabili scorribande dei saraceni, i territori bizantini della Calabria la Lucania e la Puglia. Niceforo Foca, rioccupò Santa Severina, Tropea e Amantea in Calabria, respingendo i saraceni in Sicilia senza però riuscire a liberare l’isola dall’occupazione araba; quindi, risalendo fino in Puglia, espugnò Taranto, conquistò anche i territori longobardi della Basilicata, mentre il principato di Salerno e quello di Benevento divennero vassalli dell’impero bizantino; e infine, giunse fino a Nord di Bari,

portando così a termine la riconquista iniziata qualche anno prima e ottenendo di fatto il ritorno di quasi tutta l’Italia meridionale sotto il controllo di Bisanzio. E fu quindi nel contesto di quella lunga campagna condotta contro Arabi – e Longobardi – che, dopo Taranto, anche Brindisi intorno all’885 tornò sotto il formale controllo dei Bizantini. Nell’886 l’imperatore Basilio I morì e gli succedette il figlio Leone VI, il quale richiamò il vittorioso generale Niceforo Foca nominandolo comandante supremo dell’esercito imperiale e questi s’imbarcò da Brindisi alla volta di Costantinopoli con gran parte del suo esercito e lasciando alla città tutti i prigionieri longobardi, avendoli con un sotterfugio sottratti magnanimamente alla schiavitù e rendendoli così potenzialmente utili alla eventuale ricostruzione cittadina. Nel trascorso dell’892 i Bizantini fondarono il Thema di Longobardia con capitale Bari, affiancato da quello di Lucania con capitale Tursi e quindi da quello di Calabria con capitale Reggio. Il Thema di Longobardia – che occupando un territorio più esteso dell’attale Puglia incluse Brindisi – il cui nome gli derivava dalla massiccia presenza di insediamenti longobardi, aveva più o meno i seguenti confini: a Nord il fiume Fortore; ad Ovest gli attuali, anche se allora alquanto agitati, confini lucano-campani; a SudOvest lo Ionio e a Sud-Est l’Adriatico. “Numerosi erano i centri urbani, di cui però non riusciamo ad intravedere una precisa divisione amministrativa; essi erano Trani, Brindisi, Taranto, Otranto, ed altri ancora. Il tema di Longobardia era fondamentalmente abitato da due gruppi etnici molto diversi: i Greci nella parte meridionale, la Terra d’Otranto, i Longobardi più a Settentrione.

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Nel tema erano presenti anche popolazioni slave, nei pressi del Gargano, amministrate da zupani. Per un certo tempo la zona settentrionale della Longobardia dovette rimanere suddivisa in gastaldati, tipici dell’amministrazione longobarda, ma in seguito anche questa zona, come tutte le altre del tema, fu ripartita in turme, e parte anche in drungoi. La documentazione disponibile sulla divisione amministrativa del territorio della Puglia, la Longobardia del tema appunto, non ci consente andare oltre queste limitate informazioni”. [L’Italia Meridionale Bizantina nella storiografia più recente di Gennaro Tedesco, 2000] Il Thema era governato dallo stratego, il comandante militare nominato direttamente dall’imperatore investito di poteri militari e


civili, che risiedeva nella capitale Bari. Da lui dipendevano gli ufficiali delle circoscrizioni minori, essi pure forniti di poteri militari e civili. In Longobardia, comunque, i Greci si occuparono specialmente dell’organizzazione militare, lasciando agli abitanti il loro diritto e alcune delle loro istituzioni e perciò, nei territori che erano stati dei Longobardi – praticamente quindi da Brindisi inclusa in su – l’azione ellenizzante del nuovo governo fu in genere scarsamente sentita. Il greco non fu adottato come lingua, mentre rimase largamente in uso il diritto longobardo e sopravvissero anche alcune delle altre istituzioni longobarde. Qualche anno dopo la fondazione del Thema di Longobardia, praticamente terminando il primo millennio, si portava a compimento la costruzione politico-amministrativa e militare intrapresa più di un secolo prima, accentrando i tre temi, di Longobardia, Lucania e Calabria, nel Catepanato d’Italia sotto il comando del catepano nominato direttamente dall’imperatore, residente in Bari e dai cui ordini dipendevano ora i tre strateghi: uno per ognuno dei tre temi costituenti il catepanato. All’interno della città fortificata di Bari si trovava il centro militare giudiziario e fiscale del catepanato, con la residenza del catepano – asty praitorion – che oltre alla dimora in sé comprendeva anche alcuni uffici, una caserma per la guarnigione della città, una prigione, chiese e cappelle, nonché le terre coltivabili poste all’interno della cinta. Fu il catepanato, l’organizzazione amministrativa bizantina più avanzata che ebbe il Meridione italiano, corrispondendo alla tappa finale della evoluzione che aveva sperimentato nel tempo l’ordinamento amministrativo dell’impero. Evoluzione che [dalla

LE IMMAGInI L'abbazia di Sant'Andrea-Secondo Antonio Mingolla

Geografia amministrativa del Catepanato bizantino d’Italia di André Guillou, 1974] è così sintetizzabile: “Nel VII secolo il governo di Bisanzio introdusse l’istituzione dei ‘temi’. Una istituzione che fu poi generalizzata nel IX secolo, quando tutto il territorio dell’impero – meridione italiano incluso – risultò ripartito in circoscrizioni amministrative – themata – politico-militari rette ognuna da funzionari militari e civili posti alle direttive di un militare d’alto grado, lo ‘stratego’. Il tema costituiva, di fatto, un reale decentramento del potere, con un’amministrazione ed un esercito propri, quest’ultimo reclutato tra la classe agiata dei proprietari fondiari, i quali, in cambio di esenzioni fiscali erano tenuti a rispondere ad ogni ordine di mobilitazione e a provvedere al corrispondente equipaggiamento e mantenimento. Ogni tema era suddiviso in turme, aventi a capo i turmarchi e ogni turma, infine, era suddivisa in drungoi o banda-topoteresiai. Successivamente, il governo bizantino ritornò al sistema dell’accentramento militare, rimpiazzando progressivamente l’esercito dei temi reclutato tra gli indigeni, con un esercito composto da soldati di mestiere – tagmata – comandato localmente dagli ‘strategos’ e nel secolo X sottoposto al comando supremo di due Domestikos, quello delle Scholae d’Oriente e quello delle Scholae d’Occidente. Con tale ri-accentramento militare, comunque, gli antichi temi amministrativi persistettero e vennero allora retti da funzionari civili, i kritai, non più dipendenti come un tempo dallo stratego, divenuto a sua volta ufficiale subalterno. Con l’istituzione infine – tra la fine secolo X e gli inizi del secolo XI – del Catepanato, l’accentramento non solo fu militare, ma si estese su tutto comportando

una nuova riorganizzazione del territorio. Infatti, il catepano, capo supremo dell’esercito, controllava anche l’amministrazione del territorio alla quale collaboravano ufficiali militari bizantini e personalità civili locali messesi al servizio dell’impero. Innanzitutto, gli strategos che ebbero così anche funzioni amministrative, e i tassiarchi che si sovrapposero ai turmarchi e via via altri funzionari di rango inferiore.” Per la città di Brindisi e per i suoi abitanti, tutta questa bisecolare amministrazione bizantina non sembrerebbe – perlomeno non ve n’è molta traccia nelle fonti disponibili – aver comportato una sostanziale evoluzione della situazione generale, neanche al confronto con quella, di fatto oscura e probabilmente molto misera, che l’aveva preceduta: quella cioè che l’aveva caratterizzata durante l’altrettanto bisecolare amministrazione longobarda. Quel ritorno – dopo due secoli – dei Bizantini a Brindisi fu seguito solo da timidi e presto interrotti segnali di rinascita quando, alla fine di quel secolo IX, si iniziò la ricostruzione extra-moenia della piccola chiesa di San Leucio impulsata dal vescovo oritano Teodosio in occasione del ritorno in città di una parte delle reliquie sottratte dai Tranesi, i cui lavori ebbero conclusione ai primi del secolo successivo allorché si ebbe la consacrazione a opera di Giovanni, vescovo titolare di Canosa. Durante quello stesso X secolo, la popolazione brindisina di sua iniziativa intraprese anche la costruzione di un’altra chiesa – forse di San Basilio – localizzata nei pressi dell’imboccatura del porto sulla cresta della collina di ponente con annessa un’alta torre, una specie di faro per i naviganti, eretta in omaggio e ringraziamento al condottiero Niceforo Foca. Ma poi, quasi null’altro: per tutto il secolo si hanno solo rade se non nulle notizie di transiti o approdi nella rada di Brindisi, eccezion fatta, nel 908, per le reliquie di Santa Marina e Margherita


CULTURE LE IMMAGInI Tre immagini della Cripta di San Biagio realizzate da Brundarte

d’Antiochia che il monaco benedettino pavese Agostino trasferì da Costantinopoli, ove erano state conservate nella chiesa della Madonna del Mare, in Italia. In più, le coste adriatiche erano ritornate ad essere ripetutamente preda dei pirati saraceni, ai quali si alternarono anche quelli slavi, che nel 922 assaltarono per la prima volta Brindisi, dove ritornarono ancora nel 925 e poi nel 926 e dove, nel 929, vi giunsero anche quelli schiavoni. É infine da segnalare che, probabilmente intorno al 1000, sull’isola di Bara prospicente il porto, iniziò ad essere edificata l’abbazia basiliana di Sant’Andrea le cui strutture, completate poi dai benedettini, andarono completamente perdute nel corso della prima età moderna. Anche nell’ambito strettamente ecclesiastico, comunque, Brindisi non ebbe un reale protagonismo, priva, come lo era fin dai primi tempi del dominio longobardo, della sede vescovile. Completata la riconquista e morto nell’895 il vescovo oritano Teodosio, che se pur fedele alla Chiesa di Roma aveva comunque mantenuto un precario equilibrio con quella di Costantinopoli, l’organizzazione ecclesiastica dei territori della diocesi – di Oria e Brindisi – divenne instabile e condizionata dalle vicende politiche in corso, rimanendo di fatto regolata da entrambe le giurisdizioni, quella latina e quella bizantina. Il vescovo di Canosa coagulava e guidava i latini da Bari, dove aveva trasferito la sua sede e dove di fatto esercitava da metropolita con l’obiettivo di contrastare e contenere l’azione del metropolita di Otranto, cui era invece fedele il vescovo che era in Oria riconosciuto da Bisanzio: Andrea, succeduto da Gregorio e questi da Giovanni, titolati tutti vescovi di Oria, Brindisi, Ostuni e Monopoli. Contemporaneamente, vescovo di Brindisi però latino e residente in Bari, fu Giovanni, arcivescovo di Canosa cui successe Paone. In Oria, al vescovo Giovanni succederono il greco Leonardo, il latino Eustachio e poi ancora un altro greco, Gregorio fino al 1080. Poi, con la conquista normanna, ci fu il ritorno della diocesi di Oria Brindisi alla chiesa latina e così, dopo Gregorio fu nominato arcivescovo di Brindisi e Oria Godino, un benedettino che fu il protagonista del ritorno della sede vescovile, già divenuta arcidiocesi, da Oria a Brindisi, dopo più di quattro secoli di assenza: i due della dominazione longobarda e i due di quella bizantina. Ancora per l’XI secolo l’Anonimo Tranese al sintetizzare la situazione rileva che la città di Brindisi, una volta celebre per ricchezza e gloria, era “specie parvissimi sub oppidi incolitur” ossia, era pressoché disabitata.

Tuttavia, la rinnovata presenza della flotta imperiale dopo il ritorno di Durazzo sotto Bisanzio nel 1005 aveva posto le premesse per il rilancio della città e del porto in connessione sia con la sostanziale ripresa delle relazioni con Durazzo che con la grande attività edilizia che si registrava in Italia meridionale poco prima della conquista normanna. “La portata dell’investimento bizantino a Brindisi è valutabile grazie alla testimonianza di un’epigrafe, in parte ancora leggibile, scolpita sul basamento di una delle due colonne che dal promontorio di ponente guardavano proprio l’imboccatura del porto interno. La sua datazione, riferita alla prima metà del secolo XI, rende ancor più evidente la consequenzialità del nesso tra l’impresa del funzionario e la restaurazione del dominio imperiale sulle coste dalmate.” [Il medioevo nelle città italiane: Brindisi di Rosanna Alaggio, 2015] C’è però da osservare che quella grande attività edilizia, così come del resto la supposta rinascita bizantina, non sembra che a Brindisi poterono decollare del tutto, tant’è che la unica evidente importante eredità tangibile pervenuta – e non è certo poca cosa – sono le celeberrime “colonne romane” a firma del protospatario Lupo. In effetti, importanti riferimenti espliciti ai fatti di Brindisi solo riappaiono in relazione al sopraggiungere dei Normanni. Nella tarda primavera del 1060, il mese di maggio, un esercito normanno entrò in Brindisi al comando di Roberto il Guiscardo, ma fu solo nel 1071 quando la conquista normanna della città si compì in via definitiva. Nell’ottobre dello stesso 1060, infatti, il mi-

riarcha bizantino riconquistò e poi perse Brindisi, finendo con l’essere catturato dai normanni. Nel 1067 una flotta imperiale bizantina, al comando di Michael Maurikas, duca di Antiochia e Boukellarion, nonché catepano di Durazzo, riconquistò il controllo della rada di Brindisi. La spedizione era stata voluta l’anno precedente dall’imperatore Costantino X Ducas per rispondere alle sollecitazioni dell’arcivescovo di Bari Andrea II. Maurikas, catepano d’Italia fino al 1069, raggiunse il teatro operativo nel 1067 con un esercito di variago termine per il quale si faceva riferimento sia a scandinavi che a gruppi germanici a essi collegati. Vinta la flotta normanna al largo delle coste dalmate, pose guarnigioni nelle riconquistate città; difese con successo Brindisi nel 1069 da un attacco normanno condotto da Roberto il Guiscardo e dal conte Goffredo sia per parte di terra che per parte di mare. Dopo lo scontro, definito dal Chronicon Breve Northmannicum essere stato ‘crudelis dimicatio’ per l’elevato numero di vittime, Maurikas pose la città sotto il comando di Niceforo Carantenos, un generale bizantino duca di Skopje, nominandolo stratego di Brindisi. Questi fu costretto ad assistere, pressoché impotente, alle scorrerie del Guiscardo ai danni di quanti erano rimasti fedeli a Bisanzio e, dato che la sottopopolata Brindisi non gli poteva garantire una milizia in grado di fronteggiare gli assedianti normanni e temendo che l’arrivo degli aiuti promessi da Costantinopoli potesse ritardare, chiese alle città vicine ancora fedeli all’imperatore di unire sforzi inviando i tributi necessari a costituire una guarnigione. Poi,


in assenza dell’esito sperato, nel gennaio 1070 Carantenos valutò abbandonare la difesa della città ma, nel timore di perdere la propria reputazione con la fuga, progettò un inganno e convocò i cittadini più rappresentativi di Brindisi invitandoli a negoziare fintamente la consegna della città ai Normanni. Questi caddero nel tranello e mentre con scale valicavano le mura furono tutti, circa cento tra guerrieri e scudieri, uccisi miseramente. Le loro teste tagliate furono portate prima a Durazzo e quindi inviate a Costantinopoli, offerte in trofeo all’imperatore Romano IV. L’inganno però, solo sarebbe servito a ritardare di qualche mese la definitiva conquista normanna di Brindisi, che avverrà nel 1071. In proposito, Annibale De Leo nel suo “Dell’origine del rito greco nella chiesa di Brindisi” ebbe a commentare: «Dalle parole del Curopalata [autore di un ampio resoconto dell’accaduto] noi apprendiamo che Brindisi era capace di sostenere un assedio, ch’era stata prescelta dal generale greco per fortificarvisi con la sua truppa e che finalmente era in tal guisa ripopolata che il generale imperiale stimò bene di richiudervisi per mantenerla nella fede del greco impero. Doveva [dunque] premere ai greci di aver una piazza nella Puglia con un comodo porto nel quale potevano attendere dall’Oriente con sicurezza i rinforzi per proseguire la guerra contro i normanni. Quindi io porto ferma opinione che i medesimi greci in questi tempi avessero cominciato a ristorare Brindisi, facendola risorgere dallo stato di desolazione nel quale era stata lasciata per ben due secoli, e dopo le prime incursioni saraceniche.» I “due secoli di desolazione” riferiti da De Leo, erano evidentemente quelli immediatamente precedenti ai fatti narrati e che seguirono alla riconquista – la seconda conquista – bizantina, mentre quei “tempi in cui i greci avevano cominciato a ristorare Brindisi per farla risorgere” sarebbero comunque durati ben poco, solo poche decine di anni e, forse anche per questo, di fatto ‘quasi’ non ebbero il tempo di lasciar tracce. D’altronde, fino ad allora, non solo Brindisi ma “tutta l’Italia meridionale era stata considerata un teatro di secondaria importanza dai Bizantini, presi com’erano da problemi politico-militari ben più gravi, dal loro punto di vista, quali la pressione barbarica continua nella zona danubiana e le terribili incursioni saracene.” [Gennaro Tedesco, 2000] Certo è, in qualunque modo si vogliano o si possano interpretare le cose, che la città di Brindisi – abitanti compresi – aveva trascorso ben quattro secoli in uno stato di quasi completo abbandono, senza neanche il conforto della presenza vescovile e, comunque, ai margini della storia che comun-

que – longobarda prima e bizantina dopo – fu allora storia di un meridione italiano in prevalenza tribolato. Quanto di rilevante trascorse in Brindisi durante gli ultimi due di quei secoli, se ce ne fu, non ci è stato dato di conoscerlo con consistente dettaglio: forse solo per la pigrizia dei cronisti di quel tempo, o forse per quella degli storici che a quel tempo seguirono, o forse ancora – come lo suggerisce Gennaro Tedesco – per la esplicita volontà di sottometterlo a una specie di damnatio memoriae da parte di Normanni e Papato ai fini della forzata rilatinizzazione del territorio e delle sue genti. Infine, probabilmente per il concorso di tutte quelle cause, o di altre ancora. Per voler concludere, è però doveroso os-

servare che la segnalata carenza di tracce materiali tangibili di una storia formale propria, non vuol certo significare assenza di eredità storica, di una storia comunque vissuta ed assorbita da tutto un popolo e da quel popolo inevitabilmente trasmessa ai propri successori: storia vissuta in una “città limes” e per tal motivo sicuramente ancor più ricca di esperienze incisive, perché – così come ricordato dall’amico scrittore, Arturo Pérez-Reverte – “spesso le cose importanti succedono ai confini, dove si trova sempre una grande ricchezza di personaggi e di situazioni, un palinsesto di tante storie ed imprese umane.” Ma quello della società, della cultura, della religiosità, della mentalità e quant’altro bizantine, al confronto e a integrazione con quelle corrispondenti longobardo-latine, è tutto un altro capitolo, molto ampio e molto complesso, che certamente merita di essere aperto e analizzato. Ma sarà per un’altra volta.

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CULTURE

Padre Bernardo Selvaggi: nel ‘600 un frate brindisino vero precursore

Soprannominato «Lu piccinnu di Brindisi» diventò famoso grazie alle sue peculiari doti oratorie che lo fecero annoverare tra i grandi predicatori italiani del ‘600 di Gianfranco perri

ernardo Selvaggi nacque a Brindisi agli inizi del diciassettesimo secolo, e giacché era abbastanza basso di statura i suoi contemporanei lo soprannominarono “lu Piccinnu ti Brindisi”. Ancor giovane entrò a far parte della famiglia religiosa dei Frati Minori Osservanti Riformati di San Francesco. Presenti i francescani nella regione salentina fin dalle origini duecentesche infatti, negli ultimi decenni del ‘500 era prosperata tra i Frati Minori una seconda famiglia, quella detta della Serafica Riforma o della più stretta Osservanza. Nel contesto della Regolare Osservanza di San Nicolò, cinque Frati Minori con a capo padre Ludovico Galatino, nel 1588 ottennero dal pontefice Sisto V i primi conventi di ritiro, iniziando proprio da quello di Santa Maria del Casale a Brindisi, e nel 1590 primo custode ne fu padre Pietro Galatino. Durante il Seicento alcune centinaia di predicatori minoritici per l’avvento e per la quaresima si ponevano a disposizione della vigilante sacra gerarchia per denunciare vizi, per stimolare, per correggere e per in-

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coraggiare le popolazioni minacciate dalle eresie, nonché dalle sempre più frequenti scorrerie dei turchi. La corrente riformatrice nel 1628 già regolava 26 case con 343 membri e col motu proprio Iniuncti Nobis del 12 maggio 1639, il papa Urbano VIII elevò la custodia in Provincia Reformata Sancti Nicolai de Apulia. Provincia dei Frati Minori Osservanti Riformati alla quale, quindi, appartenne anche il padre brindisino Bernardo Selvaggi, il quale in vita divenne molto famoso, grazie alle sue ‘peculiari’ doti oratorie che lo fecero annoverare addirittura tra i grandi oratori sacri italiani del ‘600. Effettivamente, salì sui pergami – i pulpiti in pieno uso a quel tempo – di molte città d’Italia, predicando e riscuotendo ovunque grandi acclamazioni ed applausi tra il popolo devoto, ma non perché usasse nelle sue prediche uno stile forbito o d’ingegnosa tessitura, quanto piuttosto per una certa originalità di forma e di concetto che alle volte rasentava il grottesco. Potremmo, perciò, immaginarcelo come una specie di “precursore dei tempi” pur senza che allora fossero già state inventate le tv, fb, twitter, wa e quant’altro.


LE IMMAGINI Un ritratto di padre Bernardo Selvaggi, frate brindisino del Seicento

Bisogna infatti aggiungere – obiettivamente e a suo favore – ch’egli probabilmente, se non fu solo intuito, ebbe la perspicacia d’aver studiato ed aver compreso molto bene il suo secolo, con tutti i suoi vizi e con le sue virtù, e avendone notato la depravazione in fatto di gusto letterario, pur di ottenere lo scopo di far penetrare nelle menti del popolo la verità della sua fede, rivestiva ad arte le verità medesime di quella forma letteraria, e probabilmente non solo quella, che più si aggiustava al gusto popolare dell’epoca. «Solo in questo modo è forse possibile spiegare gli applausi che riscuoteva dappertutto, perché se apriamo e leggiamo i tomi delle sue opere predicabili, ci incontriamo di tratto in tratto in qualche strampaleria, detta per giunta in uno stile ‘da chiodi’. Non si può comunque negare in lui un ingegno svegliatissimo e multiforme e l’oratore facondo, ragion per cui acquistò ai suoi tempi presso a poco la stessa notorietà e popolarità del nostro padre Agostino da Montefeltro». [“Brindisini illustri” di Pasquale

Camassa, 1909]. E il rinomato cronista dei francescani salentini, il padre Bonaventura Quarta da Lama, nella sua dettagliata “Cronica de’ Minori Osservanti Riformati della Provincia di S. Nicolò” pubblicata in Lecce nel 1723, a proposito del padre Bernardo Selvaggi, tra l’altro commenta: «Le sue intemperanze oratorie e la depravazione della sua eloquenza, così come gli fruttavano comunemente le acclamazioni dei popoli a cui predicava, così gli procuravano i violenti attacchi da parte di coloro che disapprovavano un tal genere di oratoria sacra. Egli, che per quanto si dilettava della lode, per altrettanto mal sopportava il biasimo e la poca considerazione in cui era tenuto, specialmente dai religiosi suoi confratelli, volle far manifesto tutto il suo corruccio con un panegirico al quale diede per titolò “La virtù vilipesa” che fa parte delle sue opere.» Decisamente “lu Piccinnu ti Brindisi” sembra proprio in qualche modo assomigliare ad uno di quei tanti personaggi d’oggi: di quelli, per esempio, che per stare alla moda amano farsi chiamare ‘influencer’. Oltre all’arte della parola, il nostro padre Bernardo – seguendo in questo la moda dei suoi tempi – volle coltivare anche la poesia. Ma in quel campo, apparentemente, non ec-

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celse troppo, come può dedursi dalla lettura di alcuni dei suoi sonetti che si ritrovano stampati nelle introduzioni dei vari volumi che con le sue opere – secondo Camassa ‘non degne del cedro’, non degne cioè d’essere immortalate – furono pubblicati in Lecce, appresso Pietro Micheli, tra il 1665 e il 1676 e di cui rimangono pochissimi esemplari, alcuni dei quali si conservano nella Biblioteca comunale A. Vergari di Nardò. “Panegirici sacri de' santi, ovvero discorsi spirituali del reverendo padre fra Bernardo Selvaggi da Brindisi, teologo, predicator generale dell'Ordine de' Minori, osservante riformato, della provincia di San Nicolò”: L'universale de' doni; Il gemini; Il trionfo di Michele; Il mare; La bellezza presentata; Il belvedere per i prodigiosi occhi; La musica per la festività e privilegi singolari della Immacolata Concezione di Maria (1665). Il nuovo prodigio per la festività del gloriosissimo patriarca Santo Domenico; La meraviglia per le virtù, prodigi, voti e miracoli del patriarca San Francesco d'Assisi (1667). Le maggiori grazie del Santissimo Sacramento Trionfante (1671). La virtù vilipesa; La virtù arguita nella cattedra dell'eucaristia; La virtù suddita; La virtù dell'anima penante nel santo purgatorio; La virtù panegirica (1676). Ebbene, oratoria a parte, quel padre brindisino – Bernardo Selvaggi – deve essere comunque stato tutto un personaggio, nonché uomo intelligente ed eclettico al quale piaceva interessarsi ed opinare su quasi tutto. Fu lui, ad esempio, il primo a sostenere anche per iscritto – nel sermone sul Sacramento – l’esistenza certa della allora ritenuta leggendaria moneta “il mezzo carlino” fatta coniare nella zecca di Brindisi dal re Ferdinando II d’Aragona, in riconoscenza alla città dopo il suo ritorno sul trono del regno di Napoli, seguito alla pirrica conquista realizzata, senza colpo ferire iniziando il 1495, dal re di Francia Carlo VIII D’Angiò. In quella storica occasione, infatti, solo Brindisi con qualche altra città era rimasta fedele al re Aragonese. « Quel “mezzo carlino” venuto alla luce in un paese salentino, fu ritrovato da un mercante di monete e fu segnalato ed illustrato agli studiosi dall’esperto numismatico Memmo Cagiati nel 1921. L’esemplare, l’unico conosciuto, fu donato dal Cagiati al re Vittorio Emanuele di Savoia e dovrebbe far parte della grande raccolta dell’ex re donata allo Stato italiano dopo la sua abdicazione. La moneta aveva le seguenti caratteristiche: sul dritto, la figura di San Teodoro in piedi, tenendo nella destra il pastorale e poggiando la sinistra sudi uno scudo, in cui sono rappresentate le due colonne dello stemma di Brindisi. Sul rovescio, lo stemma della casa d’Aragona sormontato dalla corona». [“Brindisi ignorata” di Nicola


CULTURE Vacca, 1954]. Ma per concludere conviene ritornare alla veemente oratoria sacra di padre Bernardo, da cui ecco riprodotti alcuni paragrafi brevi estratti tutti, a solo mo’ d’esempio, dalle sessanta pagine del suo panegirico sacro “La virtù vilipesa. Ovvero l’Eucarestia amica dei virtuosi disprezzati”. «Si vilipende il valore d’una gemma, quando non si ha il soldo sufficiente per comprarla. Pure sarebbe saviezza il far stima de’ savi, i quali non per altro molte volte ritardano il volo all’acume dei loro ingegni, se non perché vedono le loro fatiche mal premiate; mentre la promessa del dono aggiunge sprone all’operare… Virtuosi, atterrir non vi deve la persecuzione de vostri invidi nemici, preparati ad infamare e non a premiar la fama delle vostre fatiche… Gl’ignoranti vilipendono quelle virtù ch’essi non hanno, fanno bersaglio delle loro lingue quel che è sbaraglio ai loro petti. Latra arrabbiato alla luna all’ora quand’è più chiara, quel cane senza cervello, quel cinico sempre mordace, dalla luce della virtù abbagliato… Non hanno gli ignoranti intelletto per ben capire la virtù e almeno si vogliono vantare d’aver denti per lacerarla. È oggi la virtù in ogni parte spregiata, perché in ogni parte il vizio ha la sua parte. Non vi è nel mondo più penosa infermità che l’ignoranza, che come l’infermo ogni buon cibo aborre, così come all’ignorante ogni bontà dispiace... Il peggior tormento d’un virtuoso tribolato è quando neanche gli si permette che risponda o respiri negli aggravi che gli son fatti dai maggiori. Offeso e non poter parlare è un gran male: ma non curare o santa virtù dei nemici le offese; rotta la conca da mordace dente, la porpora reale si discopre; né del grano, né del vino la dolcezza si gusta se non si pestano. È vero che molte volte, crescendo la virtù manca la fortuna e chi è più virtuoso divien meno avventurato, ma la miglior fortuna è l’esser applaudito virtuoso e da bene… La politica diabolica è seguita oggi da molti, i quali nei loro governi non ammettono consiglieri virtuosi, seguendo il dettame del senso e non della ragione, come se al riscontro non apparisse la di loro vistosa ignoranza più difforme... Voi che desiderate dignità, per essere onorati fatevi dunque onore ben governando, altrimenti per tutti voi l’onore diverrà disonore… Virtuosi infamati a torto, verrà quel giorno del giudizio dove a vista di tutti ‘saremo’ dichiarati innocenti; condannati come rei dal mondo, onorati come re dal cielo; buttati ora in un cantone scherniti e confusi, ‘saremo’ nel Paradiso con l’applauso dei Santi sollevati alle glorie… Sono superiore, dunque non devo essere crudele ma benigno, inclinato più al perdono che al castigo.

L’ira nel cuor di un superiore è come il fuoco in un legno, che al fin se stesso con gli altri inceneriti consuma. Il superiore crudele è tenuto a tenere guardia per guardarsi da coloro dei quali egli è a guardia. Pochi sono sufficienti a guardare quei superiori dove l’amore è di molti, e molti sono pochi dove l’odio è di tutti… Finis. Fra Bernardo da Brindisi, povero Riformato

sottopone tutta questa sua composizione ad ogni savia censura, e particolarmente sotto i piedi della Chiesa Cattolica. 9 Augusti 1674 » Il padre Bernardo Selvaggi da Brindisi,a suo modo precursore – per certi aspetti – dei tempi, finì i suoi giorni a Lecce non più giovane, nel dicembre del 1679: aveva continuato fino all’ultimo a predicare.

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CULTURE

Brindisi, una città al limite: da meta per la fuga, a fuga per l’immaginario

In questa città, storicamente, non ci si va, non ci si ferma: a Brindisi si arriva e da Brindisi si parte. Una città collocata a fare da separazione tra due mondi: l’occidente e l’oriente di Gianfranco perri arecchi anni fa scrissi di Buenos Aires [Brindisi, perla in un pianeta di bellezze – Senzacolonne dell’11 novembre 2011] e raccontai di quella bella e interessante città sudamericana che in più occasioni ho avuto il piacere di visitare, sia per lavoro che per diletto. Il contesto di quel mio scritto mi portò a tentare un improbabile parallelismo tra Buenos Aires e Brindisi, che feci, in realtà, per segnalare una specifica ed in apparenza incongruente differenza tra le due città, pur entrambe portuali e pur entrambe – in senso geografico – estreme: Brindisi, con il suo porto intagliato presso l’estremità del tacco dello stivale italico propenso a sudest nel Mediterraneo a mo' di spartiacque tra i due mari Adriatico e Ionio e Buenos Aires, con il suo porto anch’esso situato prossimo ad una estremità geografica, addirittura la punta dell’intero continente americano, propensa a sud a mo' di spartiacque tra i due oceani Atlantico e Pacifico. Ebbene, mente Buenos Aires è, in apparente pieno rispetto della logica, un luogo estremo dal quale non si passa, ma al quale si arriva di proposito, per fermarsi – non si va a Buenos Aires per poi proseguire il viaggio, o ci si

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ferma o si torna indietro – a Brindisi, invece, normalmente e storicamente parlando, non ci si va, non ci si ferma, a Brindisi si arriva e da Brindisi si parte. Quale sarà, allora, la ragione di tale sostanziale differenza? Ebbene, la spiegazione è semplice e va ricercata nel fatto che, pur essendo geograficamente entrambe città luoghi ‘al limite’, solamente Brindisi è – anche – luogo ‘di limes’, cioè ‘di frontiera’: di separazione ossia tra due entità e, nel caso specifico, nientemeno che tra due mondi, Occidente e Oriente. Ed è proprio a tale singolarità, a tale doppia peculiarità, che Brindisi deve gran parte – nel bene e nel male – della sua plurimillenaria storia nonché della sua indiscussa fama nel mondo: essere una città di frontiera è attributo abbastanza comune, ma essere allo stesso tempo città sita all’estremo di una propaggine geografica, di fatto continentale, è invece attributo decisamente singolare, forse unico. Molto probabilmente lo aveva ben scoperto anche Ernest Hemingway quando nel suo famoso ‘Addio alle armi’, nel dialogo tra Frederic – il giovane tenente medico volontario americano, protagonista del romanzo – e Gino, ufficiale medico italiano incontrato nelle retrovie del fronte del Carso, tra Gorizia e Caporetto nell’autunno del 1917, fa dire al secondo: «Tu cosa faresti se avessi una frontiera fatta di montagne?» E Frederic risponde:

«Una volta gli austriaci venivano sempre bastonati nel Quadrilatero attorno a Verona, li lasciavano scendere in pianura e li bastonavano lì.» E Gino: «Ma i vincitori erano francesi, in casa d’altri è più facile risolvere i problemi militari.» E Frederic: «E già, quando si tratta del tuo paese non lo puoi usare così scientificamente.» E Gino: «Eppure i russi l’hanno fatto, per intrappolare Napoleone.» E Frederic: «Sì, ma quelli avevano un paese veramente enorme, se in Italia tentaste di ritirarvi per intrappolare Napoleone, vi ritrovereste a Brindisi! ...» Quindi, come a voler significare “in Italia, il luogo più remoto dove si potrebbe pensar di andare per fuggire da un nemico, è Brindisi: un luogo sito all’estremo geografico ed in più, luogo di frontiera”. Qualcuno ha finanche avanzato la suggestiva idea che Hemingway in quel suo romanzo scritto nel 1928 abbia prefigurato per Brindisi – città limite e città limes – la meta della fuga del re nel ’43 per da lì, come fecero i russi dalla Siberia con Napoleone, attendere pazientemente la ritirata degli invasori: intrigante l’ipotesi della prefigurazione e, comunque, certamente premonitrice la citazione. Del resto, già ben prima del '43, praticamente da sempre nel corso della storia, a Brindisi erano fuggiti – se pur con fughe dalle cause e dagli esiti dissimili – veramente in tanti: a cominciare da Falanto, Spartaco, Cicerone, Pom-

peo, per solo citare i primi tra quelli divenuti famosi, e via via molti altri. E anche proprio subito prima e subito dopo quel '43 si registrarono alcune tra le più eclatanti fughe a Brindisi, con tanti arrivi e tante partenze: a cominciare dall’inverno del 1915-1916 con il biblico esodo dell’esercito serbo – con più di 270.000 tra soldati serbi, re Pietro I di Serbia e re Nicola I di Montenegro inclusi, profughi e prigionieri austroungarici – e continuando, nel 1945, con il continuo affluire a Brindisi dei profughi giuliani, fiumani, dalmati, e quindi degli ebrei che venivano dall’Europa orientale e dall’Africa settentrionale. E poi ancora, solo trenta anni fa nel 1991, con l’impressionante arrivo in massa di varie decine di migliaia di Albanesi. E tra i primi fuggitivi a Brindisi sopra citati, vissuti prima di Cristo, e gli ultimi giunti in fuga a Brindisi, vissuti sul finire del secondo millennio, quanti altri più o meno famosi ce ne furono? Sarebbe certamente troppo lungo e troppo arduo poterli menzionare e pertanto: meglio rinunziare a farlo. Solamente provo ad accennare a quanto accadde a Brindisi, sempre in relazione a fughe arrivi e partenze, nel bel mezzo dei due estremi epocali sopra indicati, già entrato cioè il secondo millennio, nell’epopea delle crociate, fin dalla prima – nel 1100 Goffredo, signore normanno di Brindisi, accoglie i reduci della prima crociata e sposa sua figlia Sibilla al reduce Roberto Courteheuse, duca di Normandia, sfarzosamente dotandola grazie alle ricchezze che aveva accumulate proprio in Brindisi [Historia Ecclesiastica, di Ordericus Vitalis in Patrologia Latina, Parigi 1835] – e lo faccio alimentando il mio racconto con parte di quanto richiamato da Rosanna Alaggio in un suo interessante articolo del 2005 “Immagini da una frontiera dell’Occidente Medievale”. Per tutta la durata del fenomeno crociato risultano numerose le attestazioni di spostamenti che assegnano al porto di Brindisi il ruolo di terminale di scambio per le armate al seguito di alcuni dei più importanti membri dell’aristocrazia d’Oltralpe, oltre che di alcuni sovrani europei di ritorno da Gerusalemme, di dignitari e di alti prelati – forse mai si era verificata un’affluenza numericamente paragonabile a quella che la spedizione federiciana del 1227, la sesta crociata, riuscì a coinvolgere. Per tutti quei tempi, tra la fine dell’XI secolo e il XIV infatti, numerose testimonianze pervenute attribuiscono a Brindisi una importante funzione negli spostamenti degli eserciti cristiani per e dalla Terra Santa, che comportarono un gran numero di transiti, imbarchi e sbarchi, anche di nobili, dignitari e membri delle più importanti dinastie regnanti europee con il loro seguito armato, o comunque di soggetti spesso rappresentanti di istituzioni aventi, a diversi livelli, rapporti – compresi intricati legami familiari – con la monarchia normanno-sveva, cui Brindisi apparteneva. L’eco delle loro imprese, diffusa in tutta Europa dai tanti racconti dei protagonisti e dai resoconti di cronisti che molte volte erano loro stessi membri delle spedizioni, contribuì in buona misura a con-


CULTURE solidare nella coscienza collettiva della civiltà occidentale la percezione di Brindisi quale avamposto di una frontiera, e non solo in termini meramente geografici. Brindisi inoltre, allo stesso tempo, con il suo porto divenne base strategica fondamentale per tutti i principali potenti ordini monastico cavallereschi, quali giovanniti teutonici e templari: vi svernavano le flotte dei monaci guerrieri e mentre nei cantieri navali si dava corso alle necessarie riparazioni, in città si producevano contatti incontri e colloqui tra personaggi di prim’ordine, provenienti da tutta Europa e dal vicino e lontano Oriente. Rosanna Alaggio riferisce del grandissimo numero di citazioni ricevute dalla città di Brindisi proprio a proposito della sua duplice condizione di ‘città estrema’ e di ‘città limes’: “Brindisi si trova menzionata in diciotto opere, tra romanzi e cronache redatte in antico francese e in altre lingue romanze, e in ben ventiquattro Chanson de Geste.” E anche se i rimandi a Brindisi nella maggioranza dei casi sono citati in relazione a postazioni di transito e d’imbarco per le imprese crociate di protagonisti eroici e temerari, spesso sono utilizzati anche come termine di riferimento per voler esplicitamente esprimere per quella Brindisi “la dimensione di una distanza ai limiti del raggiungibile e del conosciuto”. Un’immagine che non necessariamente derivava da una conoscenza diretta, ma che piuttosto risentiva dell’influenza di proiezioni fantastiche e che per tal motivo in certi casi aggiungeva alla realtà risvolti suggestivi di una dimensione addirittura esotica, enfatizzando i parametri che ne mettevano maggiormente in risalto le caratteristiche proprie di una terra di frontiera, elaborata dall’immaginario collettivo come limite estremo di un’intera civiltà, il luogo della separazione che diventava anche momento di coesistenza tra il reale, la consuetudine e l’ideale: “Nel Galeran de Brertagne l’eroina protagonista è descritta come la più bella che si possa trovare fino a Brindisi e nel Tournoi Chauvency viene fatta menzione di un uomo come il migliore che possa esistere fino a Brindisi. Nell’Ugo Capeto si cita Brindisi per ben tre volte: non è possibile trovare cavalieri valenti come Beuve de Tarse fino al porto di Brindisi; un figlio di Brabante si vanta dell’opulenza della casa di suo padre che non ha pari in tutta la Francia e neppure a Brindisi e, infine, lo stesso Hugo Capeto è un cavaliere che non ha pari fino al porto di Brindisi. Nel Le Batard de Bouillon la regina Margalie è la più bella che esiste fino al porto di Brindisi. Nell’Enfances Renier il porto di Brindisi è menzionato come riferimento per esprimere una distanza enorme. Nel Lion de Bourges si fa riferimento all’oro di Brindisi. Nel Garin de Loheren un elmo di notevole fattura proviene da Brindisi. Nell’Elie de Sant Gilles Brindisi è una città pagana. L’Ipodemon è ambientato nella Brindisi medievale. E Brindisi, infine, nel Roman du Chastelain de Coucy et de la dame de Fayel viene scelta come città in cui si spegne e viene seppellito il Castellano de Coucy, verosimilmente Guy de Ponciaus, morto in Terra Santa al seguito di Riccardo Cuor di Leone: un’am-

bientazione, quella a Brindisi, privilegiata per la descrizione della morte di un valoroso cavaliere cristiano al ritorno dalla Terra Santa.” Riavvicinandosi poi, a poco a poco ai tempi nostri, si scopre che tra fine 800 e inizi 900, proprio mentre si stava inaugurando il canale di Suez, da Brindisi il visionario professor Sapeto e l’ammiraglio Acton il 12 ottobre 1869 salpavano verso la baia di Assab in Eritrea, muovendo il primo passo dell’avventura coloniale italiana, e poco dopo: «con lo scalo dei grandi piroscafi della Valigia delle Indie, Brindisi ritorna nell’immaginario europeo non più, come era stato nei secoli immediatamente precedenti, quale limes della cristianità innanzi al turco, ma nuovamente quale porta verso l’esotico. Fogg, per compiere il suo ‘Giro del mondo in ottanta giorni’ è verso Brindisi che deve muovere, come del resto lo fanno anche molti personaggi creati da Agata Christie o da Gide. Sulle banchine del porto, per mesi prima d’essere coattivamente rimpatriato, s’aggirò Rimbaud [in realtà non vi giunse perché in camino da Milano a Brindisi, nel 1875, fu colto da un’insolazione che gli impedì raggiungere la meta]. E qui sarebbe sbarcato Tagore che riconobbe in una appena intravista ragazza di Brindisi il volto giovane dell’Europa. Finanche Emilio Salgari, l’idea del suo oriente immaginario è possibile l’abbia colta a Brindisi, capolinea, con Venezia, dell’unica tratta di mare che si sa da lui percorsa. La storia della città, del resto, può riassumersi in quella delle alterne fortune del suo porto e intendersi nel più generale quadro di riferimento offerto dall’evoluzione dei rapporti fra gli stati rivieraschi del Mediterraneo e dei grandi itinerari saldanti Europa, Africa e Asia.» [Brindisi e la storia del mare di Giacomo Carito, Pubblidea 2005] Ed eccomi di ritorno al mio articolo su Buenos Aires; iniziava con queste esatte parole: « Caro direttore Gianmarco, nel mio andare per il mondo avrò incontrato forse un centinaio, e

anzi molte più, di persone che di fronte alla mia affermazione di essere di Brindisi rispondendo alla naturale domanda che tra conoscenti circostanziali ci si scambia sul rispettivo luogo di provenienza, mi hanno replicato con decisione: certo Brindisi, io la conosco, ci son stato per andare in… ‘oriente’ via mare, un bellissimo porto!...» Naturalmente quel mio “andare per il mio mondo” si riferiva ad anni che ormai son trascorsi da parecchio, quanto meno, naturalmente, ad anni precedenti la data – 2011 – dell’articolo. Anni, comunque, in cui non imperversavano ancora i voli low cost, anni in cui per andare dall’Europa in Oriente, in Grecia, Albania, Turchia, Egitto, India, eccetera, generalmente si ‘prendeva’ una nave e molto spesso la si prendeva – come ‘da sempre’ – proprio da Brindisi. E adesso? Certo, Brindisi continua ad esistere nella sua posizione geografica di sempre, quindi di ‘città al limite’. Ma continua ad essere città limes? Probabilmente sempre meno, in un mondo che sembra voler tendere, pur tra tanti ostacoli, all’eliminazione delle frontiere, anche se per ancora un po' ci si dovrà accontentare d’averne solo spostato più in là alcune avendone eliminato alcune altre: Dubrovnik, Durazzo, Vallona, Corfù, Pireo e tanti altri posti, per Brindisi non sono più dall’altro lato del limes. Tutto un percorso ancora lungo e accidentato che sull’altra sponda del limes vede tuttora rimaste la Turchia, l’Egitto, l’India, eccetera. In entrambi i casi però, si tratta pur sempre di luoghi, vicini o lontani che siano, che oggi di fatto si raggiungono tutti con l’aereo. E anche se Brindisi ha il suo bell’aeroporto, non è assolutamente la stessa cosa! Dubito fortemente – con un pochino di malinconia – che i miei figli, e ancor più i miei nipoti, al comunicare le loro origini brindisine ad un qualche interlocutore incontrato circostanzialmente, si possano sentir rispondere: “Ah! Brindisi, io la conosco, ci son stato per andare a...” Ma, magari e spero, mi sbaglio.

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Franco Arina il sindaco-record: tre mandati, più di chiunque altro

Nei 170 anni trascorsi dall’Unità d’Italia ad oggi Brindisi è stata guidata da 39 primi cittadini Ma nessuno ha superato i dieci anni di carica di Arina, in tre decenni diversi del secolo scorso di Gianfranco perri egli ormai più di 170 anni trascorsi dall’Unità d’Italia ad oggi, Brindisi ha avuto in totale 39 sindaci, in varie occasioni intercalati da commissari prefettizi, ed alcuni di loro hanno esercitato il mandato in più d’una occasione, consecutiva o meno, ma nessuno ha superato i dieci anni in carica del dottor Francesco Arina, sindaco di Brindisi in ben tre occasioni: dal 15.7.67 al 29.11.71; dal 25.11.75 al 9.10.80 e dal 28.5.93 al 3.6.94. Certamente un record, ma non casuale né solo statistico, bensì anche e soprattutto record di capacità gestionale, grazie alla ammirevole qualità umana professionale ed etica di un cittadino esemplare, nato a Taranto e presto, nel primissimo dopoguerra subito dopo la laurea, divenuto brindisino a tutti gli effetti e per sempre. La Costituzione repubblicana emanata nel 1947 fissò i principi inerenti al nuovo ordinamento dei Comuni e delle Province, ripristinando l’elettività – da allora a suffragio universale – dei consigli provinciali e di quelli comunali che al loro interno eleggevano, rispettivamente, il presidente e la giunta provinciale, o il sindaco e la giunta comunale. Nel 1993 una nuova legge previde l’elezione di-

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LE IMMAGINI Sopra il sorriso di Franco Arina, a sinistra in visita alla saca durante il suo primo mandato

retta per 5 anni dei sindaci e quindi la nomina della giunta comunale da parte del Sindaco, con l’obiettivo di rompere con il sistema precedente che assegnava ai partiti politici un ruolo fondamentale nella determinazione dei livelli di rappresentanza politica e di valorizzare, in conseguenza, la responsabilità dei sindaci verso i cittadini. Però non tutto sarebbe poi andato per il meglio. Mentre infatti nei primi cinquant’anni repubblicani – tra il 1945 e il 1994 – erano stati 14 i sindaci di Brindisi eletti dal Consiglio e c’erano stati solo 2 commissari prefettizi, nei seguenti venticinque anni – dal 1994 ad oggi – con i 7 sindaci eletti direttamente dai cittadini ci sono stati ben 5 commissariamenti: troppi! E non è certo un buon segno. Vuol dire infatti, che in ben 5 occasioni, per 5 dei 7 sindaci cioè, il mandato dei cittadini non ha potuto essere ottemperato per intero dall’eletto. In un solo caso a causa di forze maggiori, in due casi per la perdita del necessario appoggio politico e in ben due altri casi ‘per gravi ragioni giudiziarie’. Francesco Arina era nato il 16 maggio 1919, si era laureato in Pedagogia all’Università di Bari e quasi da subito, nel 1947, si era iscritto all’Ordine dei giornalisti. Nel 1949, ancora

molto giovane, era entrato nel Consorzio del Porto – cui rimase legato con intrinseca passione per tutta una vita – dove, dal 1958 fino al 1984, ricoprì il ruolo di Segretario generale. Ma anche l’interesse e la passione per la politica e per l’amministrazione pubblica lo coinvolsero molto presto, e dal 1948 al 1951 fu membro provinciale della ricostituita Deputazione Provinciale di Brindisi e quindi, in varie occasioni, fu eletto membro del Consiglio Comunale di Brindisi restando in carica – varie volte anche da assessore – dal 1951 al 1953, dal 1960 al 1980 e dal 1990 al 1993. Quello al Consorzio del Porto di Brindisi – l’organismo creato nel 1949 dall’Amministrazione Provinciale dalla Camera di Commercio e dai Comuni della provincia, sollecitati dal bisogno di lavoro delle popolazioni locali, allo scopo di incrementare le attività portuali e favorire l’industrializzazione della zona attraverso la creazione di un Punto Franco e di una Zona Industriale a regime doganale normale – fu per Franco Arina il lavoro più persistente e più coinvolgente della sua vita, e nello svolgerlo, con continuità con impegno e per tanti anni, lo fece sempre con estrema eleganza preparazione e correttezza, meritandosi il rispetto quasi reverenziale di tutti coloro che ebbero modo di conoscerlo di seguirlo e di interagire con lui durante tutti quegli anni: più di venticinque. E quando, durante molti di quegli

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stessi anni, dovette assolvere anche alla funzione e ai doveri di sindaco, seppe farlo ammirabilmente riuscendo spesso ad integrare in maniera sinergetica il suo lavoro e le sue competenze a reciproco vantaggio del porto e della città. Il porto, infatti, era strettamente collegato con lo sviluppo della città e di per sé avrebbe impattato in maniera contundente tutta la città stessa, in un periodo in cui sembrava – era un’opinione al tempo di fatto quasi unanime tra tutte le forze vive cittadine – che l’obiettivo primario da perseguire fosse l’accelerata ‘industrializzazione”. E così, quando si fu consolidando la nuova politica che per il Mezzogiorno italiano previde la creazione di nuove aree di sviluppo industriale mediante l’impianto di grandi stabilimenti con l’obiettivo e la speranza di stimolare intorno ad essi uno sviluppo che indotto da una serie di piccole e medie industrie potesse radicare un’economia industriale e quindi promuovere e poi incoraggiare la diffusione di una mentalità imprenditoriale anche nelle regioni ancora economicamente depresse, Brindisi, positivamente animata dall’aspirazione di appropriarsi di un ruolo che le restituisse prestigio nel contesto nazionale e internazionale e spinta dalla necessità di uscire da una crisi economica e dal conseguente dramma della disoccupazione, si fece unanimemente avanti quando anche i suoi politici e gli amministratori dell’epoca si convinsero che quel modello di sviluppo fosse ormai l’unico possibile per risollevare le sorti della città. Nel marzo del 1959 ci fu la posa della prima pietra del grande petrolchimico Montecatini, e nel 1963 si iniziò la produzione del polipropilene. In seguito, nel 1969, l’Enel completò il primo gruppo della grande centrale termoelettrica, mentre il porto si era già approntato per la movimentazione di navi e merci, con i suoi specchi d’acque banchine e aree di servizio di Costa Morena completamente realizzata proprio intorno a quegli anni. «…La Montecatini e l’Enel cambiarono profondamente l’aspetto sociale di Brindisi. Molti contadini divennero operai, c’era tanto lavoro, gli alberghi e i ristoranti erano pieni grazie ai trasfertisti del Nord. Gravò su Brindisi anche la presenza della vicina Base militare americana di San Vito, costruita tra il 1961 e il 1964, che vantava migliaia di addetti, molti dei quali vennero a vivere in città e tutti questi nuovi residenti provocarono un vero e proprio inaspettato boom immobiliare.» [“Il ‘mio’ dottor Arina” di Antonio Quagliarella - 2022] Purtroppo, tutti quegli entusiasmi, tutti quegli sforzi e tutto quell’enorme lavoro di tanti bravi brindisini che con assoluta convinzione ed in assoluta buonafede offersero in prima persona il loro contributo a quell’ambizioso progetto, dopo solo qualche decennio dalla realizzazione erano destinati a rivelarsi quasi del tutto illusori. Questo però lo sappiamo adesso fin troppo bene e lo possiamo e, aimè, certamente lo dobbiamo dire e ripetere, senza comunque ovviare al dovere di ricordare anche come la notizia dell’impianto di un grande complesso industriale in città


generò allora un’enorme e generalizzata ondata di entusiasmi, tra la popolazione intera e praticamente tra tutte le sue parti dirigenti. Ignari tutti che molti di quei grandi impianti dell’industrializzazione del Sud sarebbero finalmente diventati ‘cattedrali nel deserto’; che i tentativi di creare una rete di piccole industrie e stimolare iniziative economiche locali sarebbero per lo più falliti; che quel modello di sviluppo sarebbe risultato estraneo al contesto in cui fu impiantato; che i danni ambientali causati sarebbero stati gravissimi; che gli errori commessi sarebbero risultati irreversibili e il tempo perduto impossibile da recuperare. Del resto, le reali possibilità occupazionali generate dall’industria brindisina risultarono, a consuntivo fatto, insufficienti a soddisfare tutte le grandi aspettative che si erano generate nella popolazione della regione, mentre il sistema finì col produrre un definitivo sradicamento della manodopera dalla campagna e da altri settori tradizionali aggravandone la crisi già in atto, senza, peraltro, neanche riuscire a stabilizzarla del tutto nell’industria. Pertanto, di fatto e purtroppo, alla fine della giornata, si sarebbe trattato di un progressivo, ma ugualmente clamoroso, fallimento. Ma il giornalista – oltre a numerosi articoli, da esperto dei temi marittimo-portuali scrisse molte monografie – l’amministratore pubblico, il politico e il sindaco di Brindisi Franco Arina, ebbe al contempo anche tanti altri impegni pubblici di prestigio, assolti tutti ed ognuno egregiamente. Da Segretario del Consorzio del porto lo fu anche dell’Area di Sviluppo Industriale ASI e quindi, dal 1960 al 1990, fu Vicepresidente della Comunità dei porti adriatici. Fu Presidente del Consiglio di amministrazione dell’ospedale ‘A. Di Summa’ dal 1971 al 1975 e il 29.4.72 pose la prima pietra del nuovo ospedale ‘A. Perrino’. Nel 1983 presiedette il Rotary club di Brindisi e dal 1983 al 1984 fu Presidente del Comitato di gestione della USL-BR4. Da attore politico di primo piano per tanti anni, Franco Arina mantenne sempre rispettose ed in alcuni casi cordiali relazioni anche con i suoi tanti avversari, di ogni parte, dal – combattivo ma leale – Mimmo Mennitti, all’on. Mario Marino Guadalupi, il quale finanche «gli affidò il figlio Vincenzo quando questi, nel 1975, iniziò la sua esperienza come assessore.» [Antonio Quagliarella]Al sindaco Francesco Arina, giunto in prossimità del termine del suo primo mandato, toccò anche essere fautore e coordinatore dell’immane ed ardua opera di soccorso ai naufraghi della nave greca Heleanna che, incendiatasi a largo di Torre Canne all’alba del fatidico 28 agosto del 1971, provocò 34 morti e centinaia di feriti. Per tale encomiabile operato, il 15 ottobre del 1972 la città di Brindisi fu decorata con la medaglia d’argento. Nel mezzo del suo secondo mandato, nel 1977, il sindaco Arina si trovò ad affrontare anche la gravosa crisi conseguente al fallimento dell’industria aeronautica brindisina SACA, ed in quella difficile e delicata circostanza giocò un ruolo fondamentale nel complicato processo di ricerca di una possibile

soluzione che potesse salvare dal dramma della disoccupazione quasi mille operai brindisini. Una vicenda che finalmente si concluse positivamente grazie all’accordo raggiunto in pieno agosto a Roma con la IAM-Augusta che rilevò le attrezzature, gli impianti e soprattutto le maestranze della ex SACA, impegnandosi a costruire a Brindisi una nuova e moderna fabbrica. La notte tra il 7 e l’8 dicembre di quello stesso anno, una grande tragedia cittadina: a causa di una fuga di gas esplose il reparto P2T del petrolchimico. L’esplosione provocò 3 morti e 50 feriti, distruggendo le vetrine di molte abitazioni della città e dei negozi del centro: un vero trauma per l’intera città. E per fortuna, anche in quel secondo mandato non mancarono le gratificazioni, come quella sperimentata nell’intimo dal sindaco Arina il 3 marzo del 1980 in occasione della visita a Brindisi del Presidente della Repubblica Sandro Pertini, il quale volle congratularsi personalmente con lui nel manifestargli la sua ammirata commozione per il calore dell’accoglienza ricevuta dal sindaco dalla città e dalla sua popolazione. Poi, nel 1984, anche per l’instancabile dottor Francesco Arina giunse il momento della pensione e del meritato riposo dal lavoro formale, quello al Consorzio del porto, ma con ciò non cessò certo il suo impegno sociale e politico che si protrasse con rinnovato vigore per ancora una decina d’anni, dai banchi del Consiglio comunale prima e poi direttamente dall’ufficio del sindaco in quell’anno che, a cavallo tra il 1993 e il 1994, costituì di fatto la delicata transizione tra l’antico ed il nuovo ordinamento legale dei Comuni e delle Province d’Italia, chiudendosi per sempre un’epoca e aprendosene un’altra. Per concludere credo possa essere apprezzato da alcuni dei lettori, magari da coloro che per

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ragioni strettamente anagrafiche non hanno potuto conoscere di persona il dottor Arina, riportare qui alcuni pochi paragrafi che raccontano l’uomo, il Franco degli amici e della famiglia, fedelmente ripresi dall’opuscolo – prima citato e di cui invito alla lettura – recentemente pubblicato da Antonio Quagliarella: “Il ‘mio’ dottor Arina”. «Tanti lo ricordano come persona elegante nei modi. Io vorrei ricordarlo quanto lo fosse anche per come sapeva portare i suoi doppiopetto, perché il fisico glielo consentiva e poi per la mano di un sarto di cui non rivelava il nome per evitare che lo trascurasse acquisendo nuovi clienti… Sapeva completare il suo aspetto inappuntabile con gran gusto nello scegliere le cravatte, vezzo che si concedeva nelle sue trasferte romane e napoletane… Mantenne l’abitudine di cenare in famiglia e quasi sempre intorno alle 20. Era il suo modo di dimostrare che il lavoro e la politica non avrebbero mai invaso lo scorrere della sua vita con moglie e figli… Las passione per i frutti di mare e per il pesce erano un altro elemento distintivo del ‘privato’ del Nostro. Pochi sanno che la domenica metteva il grembiule da cuoco e prendeva possesso della cucina; nessuno poteva metter naso, salvo che per riordinare tutto il lavoro finito, vantaggi dei grandi chef…» Il dottor Franco Arina morì a Brindisi, la città che lo aveva adottato ed in cui era vissuto ininterrottamente per sessant’anni. Era il 31 ottobre del 2006 ed aveva già compito ottantasette anni. Antonio Quagliarella così conclude il suo opuscolo: «Sono convinto, come tutti quelli che gli hanno voluto bene e lo hanno stimato, che gradirebbe tanto che a Brindisi gli fosse intestata una viuzza, un vicolo anche cieco, magari dalle parti di via Lata, da dove sbirciare qualche volta il suo Porto.» Indubbiamente un legittimo e giusto auspicio!


Ottant’anni fa disfatta e gloria a El Alamein: cadde anche un brindisino L’ufficiale Candido Richieri fu uno dei 17mila caduti dell’Esercito italiano. Gli venne conferita la croce di guerra al valor militare che guadagnò al Passo del Piccolo San Bernardo di Gianfranco perri l Alamein: che in arabo significa “Le due bandiere” è una località nel Nord dell’Egitto sul mare Mediterraneo a 106 km a ovest di Alessandria d’Egitto. Un nome e un luogo che riportano la mente di tanti italiani alla famosa cruenta battaglia della seconda guerra mondiale. Una lunga battaglia durata più di quattro mesi nel corso della seconda metà del 1942 e combattuta in tre fasi principali: la prima tra il 1° luglio e il 27 luglio, la seconda tra il 31 agosto e il 6 settembre e la terza tra il 23 ottobre e il 4 novembre. Nell’estate del 1942 l’Armata corazzata italotedesca, comandata del feldmaresciallo Erwin Rommel, costituita dalla Panzerarmee Afrika e da tre corpi d’armata italiani, dei quali uno di fanteria e due meccanizzati, dopo aver costretto il 21 giugno la guarnigione inglese di Tobruk alla capitolazione, si era addentrata in Egitto con l’obiettivo di raggiungere Alessandria e troncare la vitale linea di rifornimenti britannica del canale di Suez. Il 1º luglio Rommel attaccò la linea difensiva britannica in El Alamein con il contributo ita-

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liano della 132ª Divisione corazzata Ariete, la 102ª Divisione motorizzata Trento, la 185ª Divisione paracadutisti Folgore, l’85º Reggimento Divisione Sabratha e il 9º Regimento Bersaglieri ascritto alla Divisione

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motorizzata Trieste. La difesa inglese resistette l’attacco e il giorno successivo il comandante britannico, generale Claude Auchinleck, contrattaccò, senza però avere successo. Seguì quindi una situazione di


LE IMMAGINI Sopra il cippo apposto in El Alamein dal Ten. Col. Medaglia d'oro Paolo Caccia Dominioni, a sinistra lo stato di servizio di Candido Richieri

stallo che si protrasse fino a fine di luglio senza un chiaro vincitore e poi, in agosto, il generale britannico Bernard Law Montgomery prese il comando, quello dell’8ª Armata britannica. A fine settembre attraverso il Canale di Suez erano giunti consistenti rinforzi ai britannici: una serie di convogli navali alleati, essenzialmente statunitensi, che complessivamente sbarcarono l’impressionante cifra di oltre 200.000 tonnellate di mezzi e materiali bellici e così, ad El Alamein si trovavano allineati 1.351 carri angloamericani di varie caratteristiche e grandi capacità – Sherman e Grant americani e Crusaders inglesi – contro 497 carri dell’Asse, di cui 239 carri medi e 20 carri leggeri italiani, mentre anche la superiorità della Royal Air Force era devastante, con i suoi 1.485 aerei contrastati da soli 750 aerei – 580 italiani e 170 tedeschi. Alle 20.45 del 23 ottobre 1942, circa mille pezzi da campagna inglesi aprirono contemporaneamente il fuoco contro le posizioni ita-

lotedesche e furono necessari dodici giorni di violenti combattimenti per sconfiggere tutte le posizioni dell’Asse – le divisioni di fanteria e quelle corazzate e motorizzate italotedesche – che opposero una tenacissima resistenza. In particolare, l’attacco degli inglesi nel sud del fronte fu letteralmente bloccato dalla violenta reazione della Folgore, composta da soli quattromila uomini. La battaglia di El Alamein provocò in totale la morte di 13.500 inglesi, 17.000 italiani e 9.000 tedeschi. Ad El Alamein, al km 120 della litoranea Alessandria d’Egitto, vicino ai cimiteri militari inglese e tedesco, sorge il Sacrario Militare Italiano su un'ampia zona di terreno collinoso che il governo egiziano ha dato in concessione all’Italia per un periodo di 99 anni. L’opera muraria realizzata su progetto dell’ingegnere Paolo Caccia Dominioni, Tenente colonnello comandante del 31° Battaglione guastatori stanziato in Africa Settentrionale e Medaglia d’Oro, si compone di tre distinti blocchi di costruzioni: il Sacrario propriamente detto, il complesso degli edifici situati lungo la strada litoranea e la base italiana di Quota 33. Il Sacrario è costituito da una torre ottagonale leggermente rastremata verso l’alto, che si allarga alla base

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in un ampio padiglione, e all’interno della torre sono custodite le spoglie di 4.634 dei militari italiani caduti a El Alamein. L’opera venne completata negli anni dal 1949 al 1960 sotto la guida di Paolo Caccia Dominioni, che con abnegazione si dedicò personalmente anche alla pietosa opera di ricerca ed esumazione delle salme sparse in tutto il vasto campo di battaglia. Fu lui che collocò il cippo presto divenuto leggendario, con la targa marmorea che recita “Mancò la fortuna non il valore. 1°~7~1942 - Alessandria 111”. Gli ultimi a cedere a El Alamein furono i paracadutisti della Folgore: abbarbicati al margine della depressione di El Qattara sul Ruweisat, avevano di fronte l’esercito inglese che dovette combattere una delle più dure e logoranti battaglie di sfondamento dell’intero fronte. Gli uomini della Folgore resistettero per 14 giorni senza cedere un solo metro. Il 6 novembre del 1942 terminava ad El Alamein una delle più cruente battaglie della seconda guerra Mondiale. Erano le ore 14.35 quando ciò che restava della Divisione Folgore, dopo quattro mesi di combattimenti con circa 1.100 tra morti, feriti e dispersi e da sette giorni senza acqua ed ormai senza munizioni, si arrese agli inglesi dopo aver distrutto tutte le proprie armi pesanti. Non un solo drappo bianco. Non un solo uomo con le braccia alzate. I 32 ufficiali, compreso il comandante generale Enrico Frattini, e i 262 paracadutisti superstiti, feriti e stremati, erano ancora nei ranghi, in piedi e con le armi in pugno, quando il nemico li catturò. Subito dopo quella resa irrituale, gli italiani ebbero l’onore delle armi inglesi e il nome della loro divisione entrò da allora nella leggenda. La BBC inglese l’8 novembre, a battaglia conclusa, commentò: “i resti della divisione Folgore hanno resistito oltre ogni limite delle possibilità umane”. Il primo ministro inglese Winston Churchill, all’indomani della battaglia, affermò: «Dobbiamo inchinarci davanti ai resti di quelli che furono i leoni della Folgore». Un sacrificio rimasto singolarmente sintetizzato dalle parole della Medaglia d’Oro Ten. col. Alberto Bechi Luserna: «Fra sabbie non più deserte sono qui di presidio per l’eternità i ragazzi della Folgore, fior fiore di un popolo e di un esercito in armi. Caduti per un’idea, senza rimpianti, onorati dal ricordo dello stesso nemico, essi additano agli italiani, nella buona e nell’avversa fortuna, il cammino dell’onore e della gloria.» Ebbene, nell’interminabile elenco dei soldati italiani caduti a El Alamein, spunta anche il nome di un caduto brindisino: Candido Richieri, valoroso ufficiale dei bersaglieri nato a Brindisi solamente 25 anni prima di quella fatidica data di esattamente 80 anni fa – l’8 luglio 1942 nel mezzo della prima battaglia di El Alamein – in cui cadde ucciso in battaglia “in località Rusveiat (Ru-


LE IMMAGINI La motivazione della Croce di guerra a Richieri, in basso Quota 33 - Sacrario Militare Italiano di El Alamein

weisat) ad El Alamein, Egitto, per ferite multiple da schegge di granata penetranti in cavità in tutto il corpo. Come da atto di morte, pag. 12 N. 23 del 9° Regimento Bersaglieri, lì 8 luglio 1942”. I resti di Candido Richieri riposano nel Sacrario Militare di El Alamein ed il suo nome è inciso sulla lapide commemorativa con l’elenco dei quasi cinquemila caduti italiani lì tumulati. «…Sul Ruweisat il nostro compito [la penosa ricerca dei resti dei combattenti caduti] ci obbligava a lasciare la ‘pista dell’acqua’ per raggiungere la giunzione tra le linee tenute dai paracadutisti del barone von Der Heydte e dai fanti del generale Alessandro Gloria comandante della 25ª Divisione fanteria Bologna. La guida si rifiutò di abbandonare la pista: c’erano troppe mine, ripeteva. Ma nella sabbia c’erano le carreggiate antiche tuttavia visibili di un veicolo e vi mettemmo dentro le ruote della nostra jeep. Dopo cinquecento metri – eravamo all’altezza dei nostri centri di fuoco avanzati – con il suolo divenuto pietroso la carreggiata provvidenziale non era più visibile: poi scendemmo per vedere meglio e così, alternando brevi percorsi in vettura e a piedi, ritrovando a malapena la traccia antica sugli spiazzi sabbiosi, collocando sulla rotta segnali per il ritorno, giungemmo a destino. Ancora una volta però, la speranza di ritrovare una croce fu delusa: una lettera di più, sconsolante, da mandare a una madre che ci attendeva...» [‘Il vento del deserto ha cancellato le nostri croci’ in “Alamein 1933-1962” di Paolo Caccia Dominioni - Longanesi Editore, premio Bancarella 1963]

Candido Richieri era nato a Brindisi l’11 febbraio del 1917, da Francesco e da Margherita Della Torre, originari liguri, forse di Imperia. Dal 12 novembre 1936 frequentò come volontario il corso di fanteria nella Reale Accademia di Fanteria e Cavalleria di Modena – matricola N. 53093 – e il 2 settembre 1938, completato con successo il corso, fu promosso Sottotenente. Dopo poco più di un anno, il 24 dicembre 1939, fu assegnato al 9° Regimento Bersaglieri con sede Cremona. Con l’entrata dell’Italia in guerra il 10 giu-

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gno 1940, il Sottotenente Richieri fu immediatamente inviato “in territorio dichiarato in stato di guerra” sul fronte francese, dove vi rimase dal 16 giugno al 6 luglio, partecipando ai combattimenti del 21,22 e 23 di giugno e venendo decorato della Croce di guerra al Valor Militare con la seguente motivazione: “Comandante di plotone avanzato, eseguiva arditamente il compito assegnatogli incurante del fuoco dell’artiglieria e delle mitragliatrici avversarie. Nonostante le perdite subite, trascinava con l’esempio il reparto contro le fortificazioni nemiche e superatele, si lanciava all’occupazione di posizione avversaria. Passo Piccolo San Bernardo”. Il 1° ottobre 1940 Candido Richieri fu promosso al grado di Tenente. Quindi, dopo essere ritornato più volte “in territorio dichiarato in stato di guerra”, il 28 agosto 1941 partì per la Libia con il suo 9° Regimento Bersaglieri, imbarcandosi a Napoli e sbarcando a Tripoli il 31 agosto: sarebbe rimasto a combattere in Africa settentrionale per quasi un anno e non sarebbe mai più ritornato a casa in Italia, vittima anche lui dell’assurdità umana: la guerra. Fu, Candido Richieri, uno dei 281 militari brindisini caduti nella seconda guerra mondiale. Nota: Esprimo il mio speciale ringraziamento alla 10ª Divisione Documentazione Esercito del Ministero della Difesa, per avermi cortesemente e prontamente fornito una copia del manoscritto dello “Stato di Servizio dell’ufficiale Richieri Candido” dalla cui attenta lettura ho potuto estrarre i dati e le notizie che ho riportato in questo mio scritto.


TOPONIMO SALENTO MA QUANDO E’ STATO CONIATO? Questa, nei millenni, la sequenza: Salentine Salentina – ne' Salentini – “Salento” di Gianfranco perri apigia e Iapigi sono rispettivamente il più antico - risalente a fine del II millennio a.C. - coronimo ed etnico utilizzati per identificare il territorio dell’attuale Salento ed i suoi abitanti. Poi, verso la fine del IX secolo a.C. cominciarono a giungere e a stanziarsi in quelle terre nuovi popolatori e si produsse la differenziazione della Iapigia, da nord a sud, in Daunia, Peucezia e Messapia. Quest’ultima, corrispondente all’area geografica peninsulare della Iapigia delimitata dall’istmo identificabile dall’asse Brindisi-Oria-Taranto. Strabone, il geografo pontino vissuto ai tempi di Augusto, spiega (Libro VI) che la denominazione Messapia è di origine greca e che gli autoctoni, invece, chiamavano quel loro territorio Calabria. Autoctoni che si denominavano in parte Calabri ed in parte Salentini. Quindi, un solo coronimo Calabria e due etnici Calabri e Salentini, anche se nelle fonti narrative greche lo stesso Strabone, per indicare la parte di territorio abitata dai Salentini, attesta anche il coronimo “Salentine”, in latino anche “Salentina” e, alla fine, italianizzato in “Salento”. I latini da parte loro, messo decisamente da parte il termine Messapia, recuperarono il coronimo Calabria e, senza dar troppo seguito al

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coronimo “Salentina”, lo attribuirono all’intero territorio peninsulare. Inoltre, per lo più, chiamarono Sallentini tutti i residenti della regione, a prescindere che fossero effettivamente tali o che fossero Calabri. Inoltre, utilizzarono sistematicamente il “Salentina” in senso qualificativo con molteplici locuzioni, tipo: “in agro Sallentino, in Sallentinis, Sallentinum promontorium”, eccetera. Quindi, il coronimo riportato dal greco Strabone, “Salentine” - che il latino Marco Terenzio Varrone fa risalire a un’alleanza stipulata “in salo”, ovvero in mare, fra i vari gruppi etnici che si trovarono a popolare quel territorio - sembrerebbe aver avuto una vita effimera, ed i latini utilizzarono solo raramente l’accezione geografica del loro “Salentina”. Il territorio peninsulare dell’attuale Salento pertanto, pur se in buona parte abitato dai Salentini, nell’antichità non ebbe tale denominazione: non l’ebbe né prima dei tempi romani e né in quelli romani. E nei successivi? I Goti, e dopo la ventennale - 515-535 d.C. guerra gotica i subentrati Bizantini, continuarono a chiamare quel territorio Calabria, fino a quando si produsse il curioso fenomeno della trasmigrazione di quella denominazione alla contigua regione del Bruzio. Migrazione verosimilmente occorsa nell’Alto medioevo in maniera graduale, e comunque certamente già

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LE IMMAGINI A sinistra Carta geografica di Willem J. Blaeu - 1600 circa, sotto Carta geografica di Giovanni Antonio Magini - 1620 circa

del tutto consumata alla fine del secolo VIII. A quel tempo, il territorio peninsulare a meridione dell’istmo Taranto-Brindisi apparteneva, più o meno tutto e più o meno precariamente, al bizantino Ducato di Calabria, il cui territorio all’epoca già abbastanza ridotto, era costituito maggioritariamente dall’antico Bruzio ed i cui labili confini settentrionali erano costantemente disputati dai Longobardi di Benevento. Poi, nell’885, la cosiddetta riconquista bizantina riposizionò verso Nord i confini dei territori dell’Italia meridionale controllati da Bisanzio, e determinò la creazione del Thema di Langobardia, di quello di Lucania e di quello di Calabria, successivamente integrati nel Catepanato d’Italia, il cui territorio recuperò all’incirca quello che - 300 anni prima per contrastare i Longobardi era stato integrato dai Bizantini al creare il Ducato di Calabria. Così, nel corso dei secoli - tra VI e X - del convulso e discontinuo dominio bizantino sul meridione italiano, il territorio dell’attuale Salento, dopo aver perduto la sua antica denominazione di Calabria fu gradualmente acquistando quella di Terra d’Otranto, e lo fece nella misura in cui la sua estensione si vide identificata con “quasi solo” quella città portuale che con il suo entroterra era giunta a diventare, di fatto, l’ultimo ridotto politico-militare di Bisanzio esistente nella regione a sud dell’istmo Taranto-Brindisi. Con la fondazione del normanno Regno di Sicilia - nel dicembre del 1130 - che presto integrò in un solo stato tutto il meridione d’Italia, la suddivisione amministrativa del territorio

del nuovo regno si cominciò a reggere sui giustizierati, due erano in Sicilia e nove sulla penisola, e di questi ultimi uno fu quello di Terra d’Otranto, toponimo così divenuto ufficiale. Un’istituzione, quella dei giustizierati che, introdotta dai normanni e se pur successivamente riformata e più volte ridistribuita sul territorio del regno, si mantenne anche con gli Svevi, gli Angioini e gli Aragonesi, senza che però per la Terra d’Otranto, che nel mentre aveva iniziato a denominarsi anche provincia di Terra d’Otranto, si producessero sostanziali modifiche territoriali. Poi, con la conquista spagnola e la creazione del viceregno, nonché con la riacquistata autonomia borbonica, la distribuzione amministrativa del territorio del Regno di Napoli, pur se con alcune modifiche, di fatto perdurò più o meno invariata fino alla promulgazione della legge napoleonica del 1806 con cui si soppressero tutti gli enti territoriali preesistenti, introducendo le province i distretti e i comuni. E la Terra d’Otranto, così divenuta formalmente provincia, comprese i quattro distretti di Lecce, Taranto, Gallipoli e Mesagne, sostituito quest’ultimo – nel 1814 – da Brindisi. L’organizzazione amministrativa postnapoleonica del regno delle Due Sicilie mantenne sostanzialmente lo stesso assetto napoleonico e dopo l’unità d’Italia del 1861 la provincia di Terra d’Otranto fu ridenominata provincia di Lecce. Dal governo fascista, la provincia di Lecce fu suddivisa in tre con la creazione, nel 1923 della provincia di Taranto e, nel 1927, di quella di Brindisi. E così, l’antica Calabria - chiamata per un tempo anche Messapia, circostanzialmene detta Salentina e poi divenuta più stabilmente Terra d’Otranto - dopo tremila anni d’esistenza, oltre alla sua denominazione aveva perso anche la sua unità territoriale. E allora: quando e come accadde che l’antico, e tra l’altro poco usato, toponimo “Salentina” - poi Salento - ritornò alla ribalta per identificare geograficamente quel territorio anticamente abitato dai Salentini e che in origine era stato della Calabria, poi della Messapia e poi nuovamente della Calabria? Premesso che nei più di sette secoli di esistenza del regno - di Sicilia prima di Napoli dopo e quindi delle Due Sicilie - per il territorio peninsulare compreso tra l’istmo TarantoBrindisi e il capo di Santa Maria di Leuca si mantenne rigorosamente la denominazione di Terra d’Otranto senza alcuna soluzione di continuità per poi nel regno d’Italia assumere il nome ufficiale di Provincia di Lecce, la risposta a quel “quando e come” non resta altro che provare a cercarla tra le fonti narrative e, magari in primis, tra quelle cartografiche. Rassegnando le antiche carte geografiche in cui è presente la rappresentazione del territorio dell’attuale regione salentina, quella relativamente più antica in cui appare un esplicito riferimento a una indicazione territoriale etimologicamente risalente al toponimo “Salento” è quella disegnata nei primi anni del ‘600 dal cartografo olandese Willem Janszoon Blaeu, vissuto tra il 1571 e il 1638. Una versione della sua carta, il Blaeu la volle dedicare al vescovo di Nardò, don Fabio Chigi, il futuro papa Alessan-


dro VII. Titolo, in parte latino, della carta è “Terra di Otranto olim Salentina et Iapigia” che in italiano diverrebbe “Terra d’Otranto una volta Salento e Iapigia”. Un’altra cartina, praticamente contemporanea all’anteriore, elaborata dal cartografo italiano Giovanni Antonio Magini alla fine del ‘500 e pubblicata dal figlio nel 1620, reca lo stesso esatto titolo. Allo stesso modo che lo fa la carta dell’olandese Henricus Hondius, contenuta nell’atlante “Gerardus Mercator et Hondius Atlas” pubblicato nel 1630. Tutte le altre carte elaborate in quello stesso periodo, cioè tra ‘500 e ‘600, e poi anche successivamente, non riportano richiamo alcuno al toponimo Salento, ma recano solo l’indicazione di Terra d’Otranto, alcune volte come titolo e le altre volte, quando la carta non si riferisce esplicitamente alla sola regione salentina, come sottotitolo o come traccia sovrapposta alla grafica, per esempio: la carta dell’italiano Fernando Bertelli elaborata nel 1567 pubblicata in “La descrizione della Puglia” di Giacomo Gastaldo, o la carta del fiammingo Abraham Ortelius intitolata “Apulia o Terra d’Ottranto” del 1570, o la carta del 1589 dell’olandese Gerardus Mercator intitolata “Puglia piana Terra di Bari Terra di Otranto Calabria et Basilicata”. E coì via, fino ad entrare nel Secolo XVIII, ad esempio: “Terra d’Otranto” di Francesco Cassiano De Silva, nell’atlante di Antonio Bulifon stampato nel 1692 e, del 1714; la carta disegnata da Domenico De Rossi dedicata all’arcivescovo di Otranto, Francesco Maria d’Aste e intitolata “Provincia di Terra d’Otranto”; eccetera. E finanche dopo la costituzione del Regno d’Italia del 17 marzo 1861, e con il cambio di nome della provincia da Terra d’Otranto a provincia di Lecce (una delle 58 del nuovo regno): vedi la bella cartina presente nell’Atlante Geografico dell’Italia, pubblicato nel 1869 a Milano dall’Editore Francesco Vallardi, in cui il titolo è ancora quello di “Pro-

LE IMMAGINI Sopra Carta di Henricus Hondius in “Gerardi Mercatori et I. Hondii Atlas” - 1630 circa, sotto Carta di Abraham ortelius - 1570 circa

vincia di Terra d’Otranto”. In quanto alle fonti narrative, la ricerca si fa ovviamente più ardua, a causa del maggior volume e della estrema dispersione delle stesse. Tra quelle più antiche di quelle a stampa, è illustrativo vedere cosa accade nella “Descrittione di tutta l’Italia” del frate Leandro Alberti Bolognese, pubblicata nel 1550. Il capitolo Terra d’Otranto così inizia: «Lasciando a dietro la Gran Grecia, entrerò alla descrittione di

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Terra d’Otranto, vicina a quella; la quale con più nomi da gli antichi fu nominata, come dimostra Strabone nel VI Lib. Prima essa regione fu detta Giapigia, poi Messapia, et Calabria, et etiandio [anche] Salentini… Fu etiandio nominata Puglia, et al fine Terra di Otranto… Al presente io nominerò questa Regione ‘Salentini’, come la dimanda Sempronio, Plinio, Pomponio Mela et Tolomeo. Parimenti la chiamerò secondo il volgato nome, Terra d’Otranto… Et così sono giunto al fine di questa Regione de i Salentini, hora Terra d’Otranto nominata.» Abbastanza chiaro, direi! Poi, nell’italiano divenuto da ‘volgare’ a ‘corrente’ dire “Salentini” per indicare la denominazione di una regione o provincia, forse cominciò a suonare strano e quindi fu naturale la transizione al termine “Salentina”, che è quello che infatti abbiamo ritrovato anche nei cartigli di alcune delle già citate carte geografiche di fine ‘500 e inizio ‘600. Resterebbe adesso da capire quando, comunque lentamente, e come, si è passati da “Salentina” a “Salento”. Nell’anno 1601, nella “Descrittione del Regno di Napoli” di Scipione Mazzella Napolitano, nell’introduzione alla Terra di Otranto, si legge: «La bella regione di Terra di Otranto, chiamata dagli antichi Iapigia, fu anco chiamata Salentina, dal promontorio salentino. Altri vogliono che fusse detta Salentina dal nome dei salentini.» Non è presente il nome “Salento” neanche nella “Memoria historica dell’antichissima e fedelissima città di Brindisi” pubblicata a Lecce nel 1674 dal galatinese carmelitano Andrea Della Monaca, dove, invece, si può leggere: «È cosa nota e manifesta che quella parte d'Italia ch'oggi è detta Terra d'0tranto, & anticamente Iapigia e Campi Salentini, stia posta al dritto per ricevere coloro che navigano dal Levante.» Anche qui è molto frequente l’impiego dell’aggettivo salentini, molte volte declinato anche al femminile “salentina”,


LE IMMAGINI A sinistra Carta di Gerardus Mercator – 1589, sotto Atlante Geografico dell'Italia - Francesco Vallardi Editore 1868

termine questo che in quattro occasioni è anche usato come sostantivo: «…tornaro l'anno di Christo otto cento quaranta cinque, guidati da un loro capitano, detto Sabba, scorrendo tutta la Calabria, e Salentina… Ma mentre il Guiscardo attendeva fuora alle sue imprese, possedeva Brindisi, e tutte le nobili città della Salentina, e della Puglia, con il titolo di Conte Goffredo.» Nel testo, quasi contemporaneo a quello del Della Monaca invece, scritto da Nicolò Toppi e pubblicato in Napoli nel 1678 con il titolo “Biblioteca napoletana delle Famiglie Terre Città e Religioni che sono nello stesso Regno”, tutte le volte che si riferisce di un qualche personaggio o luogo, eccetera, appartenente alla Terra d’Otranto, lo si fa con: «ne' Salentini», assumendo pertanto di nuovo il termine Salentini per indicare la regione. E succede esattamente la stessa cosa, già in pieno ‘700, nel testo di Francesco Maria Pratilli del 1745 “Della Via Appia riconosciuta e descritta da Roma a Brindisi” dove si può leggere: «Ebbe [Quinto Ennio] il suo nascimento ne' Salentini, provincia del Regno di Napoli detta al presente Terra d'Otranto… Nel xxiv milliario era la città di Literno, detta forse da' Leutersi giganti, come par che accenni Strabone in parlando di Leuca ne' Salentini… Forse l'interpolatore non ebbe altro fine, che far credere il castello di Massafra fusse stato edificato sulle rovine dell'antica Messapia, la quale al sentir di Plinio e di altri, era ne' Salentini.» Entrato l’800, il nobile Giuseppe Ceva Grimaldi, intendente nel 1817 della provincia di Terra d’Otranto e poi presidente del Consiglio dei ministri nel 1948, nel suo “Itinerario da Napoli a Lecce e nella Provincia di Terra d’Otranto” pubblicato nel 1818, scrive: «Vuolsi che un villaggio di mille e ottocento anime dodici miglia circa lontano da Lecce

chiamato Soleto sia l'antico Salento.» Evidentemente, uno dei primi timidi “Salento” messo per iscritto. E finalmente! In un libro di 135 pagine dal titolo “Il passato il presente e l’avvenire di Brindisi” di Salvatore Morelli, pubblicato nel 1848, da Tipi Del Vecchio in Lecce, si legge: «Per ovviare alla confusione nominale delle diverse regioni della nostra provincia, giusto l'antica topografia, preghiamo il lettore di leggere Messapia ov'è stampato Salento, trovandosi varie volte usato l'un vocabolo per l'altro.» Ed in effetti, nel testo di Morelli, la denominazione “Salento” è utilizzata per esat-

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tamente dieci volte. E siamo così arrivati, con l’unità d’Italia del 1861, alla fine del regno di Napoli ed alla conseguente fine della “Provincia di Terra d’Otranto” a beneficio della “Provincia di Lecce”. Sarà forse stato il non poter più dire e scrivere ufficialmente “provincia di Terra d’Otranto” o sarà stato per una qualche subconscia reticenza ad usare al suo posto “provincia di Lecce” o chissà perché altro, certo è che quel Salento – proveniente dai vari Salentine, Salentina e ne' Salentini - cominciò a poco a poco a diffondersi, tra fine XIX secolo e inizio del XX. E quando la provincia di Lecce negli anni Venti del ‘900 fu smembrata in tre, fu d’obbligo ricorrere ad un altro termine che da solo potesse, ormai non più legalmente ma perlomeno letterariamente e colloquialmente, indicare la comunque storica regione salentina. El il termine Salento era già lì a disposizione, e piacque. Piacque oltre che agli scrittori anche ai giornalisti [la testata ‘Giornale di Brindisi’ - per qualche anno - mutò denominazione in ‘Salento fascista’] e piacque finanche ai politici. Di Salento, infatti, si scrisse e si parlò anche all’Assemblea costituente della fiammante Repubblica italiana quando ci fu, a cavallo tra il 46 e il 47, il tentativo quasi riuscito e poi frustrato di costituire la Regione Salento. Da allora in avanti, il termine Salento lo s’iniziò a ritrovare con sempre più frequenza sulla stampa, prima locale e poi nazionale, fino al suo straripare, anche internazionalmente, nei decenni più recenti.


1102, quando la normanna Brindisi venne occupata dagli ungheresi La città si trovò nel mezzo delle guerre in corso sulle sponde orientali del mare Adriatico di Gianfranco perri oco meno di mille anni orsono, dopo i lunghissimi e bui sei secoli seguiti alla caduta dell’impero romano d’Occidente durante i quali la città era passata dall’appartenere al dominio italico dell’impero romano d’Oriente al costituire di fatto il tribolato limes tra Oriente e Occidente – cioè tra bizantini e longobardi – Brindisi era entrata nell’orbita dei nuovi dominatori del Meridione italiano: i Normanni. Il duca Roberto d’Altavilla, il Guiscardo, nel 1071 occupò Bari ultima importante città bizantina in Italia e quindi Brindisi al cui governo fu preposto Goffredo, conte di Conversano, figlio di Emma sorella dello stesso Guiscardo e marito di Sichelgaita, una nobile di ascendenza longobarda. Goffredo aveva combattuto contro la bizantina Brindisi a nome del Guiscardo: l’aveva bloccata per mare all’inizio del 1070 e se ne era impadronito nel 1071, divenendo ‘dominator’ della città. Poi, nel 1077, il Guiscardo prese anche Salerno, l’ultimo importante baluardo longobardo in Italia e quindi ‘per rendere più sicure le sue conquiste’ salpando in armi contro

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l’impero di Bisanzio, proprio dal porto di Brindisi, occupò successivamente a più riprese anche l’Albania, l’Epiro e l’isola di Malta. Specialmente la conquista da parte del Guiscardo di Durazzo, nel 1082, mise in serio allarme Venezia che seguiva con crescente preoccupazione l’avanzata travolgente dei Normanni nel sud Italia e nei Balcani, i due crocevia strategici per i traffici veneziani con Bisanzio e con il resto del Mediterraneo. Mentre le mire del Guiscardo erano puntate addirittura su Costantinopoli, dove l’imperatore Alessio I Comneno, preoccupato dai continui successi militari dei Normanni nei territori del suo impero, pensò bene di strizzare l’occhio a Venezia e questa a sua volta si mostrò ben disponibile ad appoggiare i propositi di riscossa dell’imperatore greco. E così il nuovo doge di Venezia Vitale Faliero, eletto nel 1084, inviò ambasciatori a Costantinopoli per trattare con l’imperatore Alessio I ottenendo da questi la promessa del riconoscimento alla Serenissima dei diritti sulle città croate e dalmate a cambio della lotta contro i Normanni. Un primo scontro navale si risolse tuttavia in una sconfitta per le navi veneziane presso l’isola di Saseno,

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LE IMMAGINI A sinistra galee della flotta normanna nell’anno 1100 d.C., sotto la flotta militare bizantina – Raid contro Damieti nell’853 d.C.

all’entrata della baia di Aulona – Valona – quasi dirimpettaia del porto di Brindisi. Dopo di che le navi normanne si attestarono lungo le coste tra Aulona e Butrinto – prossima alla regione nord di Corfù – dove stazionarono per mesi, dall’ottobre del 1084 al luglio dell’anno successivo, senza mai che le due flotte nemiche – la normanna e la veneto-bizantina – si scontrassero, anche se la presenza veneziana stava ormai diventando la vera spina nel fianco per il Guiscardo, l’unico vero impedimento alla sua conquista di Costantinopoli. La guerra navale riprese nell’estate del 1085 con uno scontro nelle acque tra l’isola di Corfù e Butrinto e la battaglia questa volta vide vincitrici le navi veneziane che riuscirono a disperdere la flotta normanna. Il Guiscardo, sconfitto dalla flotta del doge Vitale Faliero, si diresse allora verso sud con l’obiettivo di tentare l’assedio della strategica Cefalonia, ma quella città ancor prima che dai Normanni venne assalita dalla peste che un clima torrido contribuì a rendere particolarmente virulenta. Di fronte alla diffusione del mortale morbo, i Normanni accampati sotto le mura cominciarono gradualmente a riparare sulle proprie navi per poter raggiungere le coste della loro Puglia, ma al Guiscardo la malattia non lasciò scampo: il condottiero nordico, che da un pugno di territori nel sud Italia era riuscito in pochi anni a costruire un

dominio in grado di tenere in scacco lo stesso impero di Bisanzio, morì di peste. Con lui, scendeva nella tomba il sogno normanno di conquistare Bisanzio e le sue immense ricchezze, tanto che alla notizia della sua morte, Anna Comnena, figlia dell’imperatore Alessio I, così annotò nella sua cronaca: “Quando mio padre seppe dell’improvvisa morte di Roberto, respirò come se fosse stato liberato da gravissimo peso”. E a respirare con l’imperatore,ci fu anche naturalmente Venezia, rimasta così l’unica vera signora dell’Adriatico. E da Bisanzio, come da patti, venne riconosciuto duca di Dalmazia il doge Vitale Faliero, fautore della vittoria conseguita dalle navi veneziane su quelle del Guiscardo. Ed è questo della Dalmazia, un altro capitolo che è importante qui richiamare per meglio chiarire la situazione: Gli Ungari, già conosciuti come Unni, nel Secolo X si convertirono al cristianesimo al tempo del loro principe Geyza, il cui figlio Stefano I, assurto al rango di re dal pontefice Silvestro II, nell’anno 1000 fondò il regno di Ungheria, sul cui trono nel 1095 ascese Colomanno che nel 1097 sposò Felicia d’Altavilla figlia di Ruggero I, conte normanno di Sicilia, ed in quello stesso anno invase la Croazia. Secondo la versione veneta, i vicini Dalmati, sentendosi minacciati da Colomanno chiesero aiuto a Venezia e il doge Vitale I Michiel, giunto con la sua flotta in Dalmazia, stipulò un accordo con Colomanno: si convenne che la Croazia sarebbe stata dell’Ungheria, mentre la Dalmazia sarebbe restata a Venezia e così, nel 1102, Colomanno fu incoronato formalmente re di Ungheria e Croazia, con l’assenso tacito del nuovo doge di Venezia Ordelafo Faliero. Nel 1105 però, il forzoso circostanziale idillio ungaro-veneziano sarebbe sfumato quando il re ungaro, invasa anche la Dalmazia, se ne sarebbe incoronato. E nel 1118, lo stesso doge Ordefalo Faliero fu trucidato a Zara dopo un’ennesima spedizione condotta contro i nemici ungheresi. Probabilmente quel ‘tacito assenso’ del doge Faliero, così come il riferito precedente accordo – comunque chiaramente circostanziale e di comodo – stipulato tra il doge Vitale I Michiel e il re Colomanno, in una qualche misura devono essere stati condizionati alla disponibilità di Colomanno a condividere la già consolidata posizione veneziana anti-normanna a favore dell’impero bizantino di Alessio I, che nel mentre non aveva per nulla smesso di confrontarsi militarmente con i Normanni d’Italia, specialmente contro Boemondo d’Altavilla figlio primogenito di Roberto il Guiscardo il quale, partecipando alla Prima crociata, avrebbe manifestato apertamente le sue ostilità contro l’impero d’Oriente, occupando una parte importante dei suoi territori meridionali e fondando lo strategico principato di Antiochia, di fronte all’isola di Cipro.


Era accaduto che alla morte del duca Roberto il Guiscardo, prevedendo turbolenze, Ruggiero soprannominato Borsa, figlio del duca e da questi dichiarato successore, si dispose a rientrare dubitando che Boemondo ritornato in precedenza perché ammalatosi, facendo valere le sue pretensioni come primogenito, non usurpasse il Ducato. Il giovane Ruggero, quindi, consentì a cedere una parte dei suoi possessi al fratellastro e gli concesse Taranto, Otranto, Gallipoli e le terre di Goffredo di Conversano – Brindisi inclusa – al quale fu così imposto di diventare vassallo di Boemondo. Da Siponto ad Oria si estese quindi il dominio di Boemondo, che poi fu detto Principato di Taranto. Indetta poco dopo dal papa Urbano II la Prima crociata, giunta la primavera del 1097, insieme agli altri crocesegnati più di settemila tra Normanni ed indigeni raccolti in Bari navigarono verso la Dalmazia sotto le insegne del principe Boemondo, il quale sbarcato presso Valona e svelando i nascosti pensieri, incitò gli altri capitani a muovere guerra all’imperatore Alessio I e s’avviò verso la capitale bizantina aspirando insignorirsene. Ma per il momento dovette rinunciarvi e dirottare su Antiochia, conquistandola il 3 giugno del 1098 e fondandovi un suo principato. Poi, nell’agosto del 1100 Boemondo fu fatto prigioniero in battaglia, rimanendo per ben due anni in mano ai Turchi. Tornando ora a discernere su come in quei frangenti siano andate effettivamente le cose tra Ungari e Veneziani: «Gli scrittori veneti dicono che allora i Normanni infestavano le spiagge dell’Adriatico e che perciò i Veneziani si unirono in alleanza con Colomanno, mandando nella Puglia un esercito... Il re Colomanno noleggiò galere ed altre navi venete

LE IMMAGINI Sopra combattimento navale medievale – Incisione dell’anno 1000, sotto lLa flotta normanna – Arazzo di Bayeux 1070-1080 d.C.

facendo passare in Puglia un esercito numeroso il quale, prese le città di Monopoli e di Brindisi e devastatale durante tre mesi, ritornò in Ungheria lasciando la custodia di quelle città ai Veneziani. Queste due città furono in seguito tolte ai Veneti col mezzo dei Pisani. Anche il veneziano Dandolo ne' suoi annali – dal 1096 al 1102 – ricorda che a quel tempo, il re ungaro Colomanno invase la Dalmazia con un esercito e fece ucciderne il re

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Pietro. Indi, unitosi in alleanza coi Veneti contro i Normanni, si stabili di comune consenso di spedire a' loro danni un esercito nella Puglia normanna. Le regie truppe ungare s’imbarcarono su navi venete e tragittando presero le città di Brindisi e di Monopoli. Poi, devastate per tre mesi quelle province, ritornarono in patria.» [“Storia del Regno di Dalmazia e di Croazia” di Giovanni Lucio Trieste, 1816] Giuseppe De Blasii, nel terzo volume del suo trattato “La insurrezione pugliese e la conquista normanna nel Secolo XI” pubblicato in Napoli nel 1873, al Capito III presenta una


versione dei fatti che riporta alcuni interessanti dettagli aggiuntivi relativi a quel poco conosciuto e ancor meno documentato episodio accaduto a Brindisi nell’estate di quasi mille anni fa: « La cattività di Boemondo, appresa con dolore dai Crociati, aveva depresso l’ardimento dei suoi e suscitava nelle terre di Puglia oscuri sconvolgimenti procurati dalle nimistà di Alessio I il quale, dopo aver con poca fortuna tentato in Oriente di giovarsi della prigionia del normanno Boemondo, si volgeva per mezzo dei suoi alleati – ungheresi e veneziani – ad invaderne i domini in Puglia, sperando che quella diversione obbligasse il normanno Tancredi – principe di Galilea che era insediato in Antiochia nell’attesa della liberazione dello zio Boemondo – ad abbandonargli le città della Cilicia. Colemanno – il re di Ungheria che assalita la Croazia e minacciando la vicina Dalmazia aveva stretto alleanza con i Normanni contro i Veneziani e i Greci che gli contendevano quella sua conquista – a quel tempo aveva evidentemente già riformulato le sue alleanze. Morto il duca di Sicilia Ruggero I del quale aveva sposato la figlia Felicia, e forse trapassata anche questa, Colemanno si era piegato alle lusinghe ed alle concessioni dell’imperatore d’Oriente Alessio I. E fatta con lui la pace ed impromessa anche una sua cugina all’erede presuntivo dell’imperio Bizantino, si unì ai Veneziani contro i Normanni. Quindi, a metà dell’anno 1102 – proprio 920 anni fa – le milizie ungheresi imbarcate e sorrette dalla flotta della repubblica veneziana discesero improvvisamente in Puglia e vi occuparono Brindisi e Monopoli. Essendo queste due città fra quelle sottoposte alla signoria del

conte Goffredo di Conversano, che almeno di nome diceva anche di obbedire ad Alessio, “è probabile che egli stesso le aprisse a quegli alleati dell’impero” e che altri conti normanni partecipassero con lui a favorirne i disegni per gelosia contro gli Altavilla.» E lo stesso De Balsii aggiunge: «Però, né i cronisti di Puglia, né quelli greci ricordano quell’ostile invasione, sebbene dalla concorde testimonianza delle storie di Venezia e d’Ungheria la si accerti, e possa argomentarsi anche da altri confusi cenni di cronaca. Comunque, questi successi ungaro-veneziani in terra di Puglia non furono grandi né durevoli; ed avendo i Pisani, alleati di Boemondo, inviata una flotta nell’Adriatico, il timore che fosse preclusa la via al ritorno o l’avanzarsi del conte normanno Ruggiero II dalla Sicilia in Puglia, costrinse gli Ungheresi dopo tre mesi ad abbandonare quelle terre di Puglia occupate. Una versione anonima, inoltre, indica che i soldati ungheresi si sarebbero ritirati prima, e poi i Pisani avrebbero costretto i Veneti, che erano stati lasciati in presidio, a sgombrare quelle due città pugliesi occupate su mandato dell’imperatore Alessio.» Definitivamente, si trattò di un episodio – quello dell’occupazione di Brindisi da parte di truppe ungariche e veneziane mille anni fa – che, se pur apparentemente storicamente certo, per vari aspetti è comunque rimasto avvolto da un’ombra alimentata da tutta una serie di imprecisioni, dubbi ed incongruenze. Nelle cronache di Brindisi, infatti, non vi è menzione esplicita dell’avvenimento, né tanto meno delle presunte ‘angherie e devastazioni’ provocate in città per ben tre mesi dalle milizie ungare. E del resto, se il signore ‘dominator’ di Brindisi Goffredo conte di

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Conversano avesse realmente favorito gli invasori ungaro-veneziani inviati dall’imperatore Alessio, mal si può pensare che quelli in risposta avessero poi messo a ferro e fuoco la sua città. Però, e comunque, perché mai Goffredo – se pur volendo tradire il mal sopportato feudatario Boemondo che a suo tempo gli era stato di fatto imposto e che da lontano aveva ormai pressoché perduto la sua autorità in Puglia – avrebbe dovuto favorire la perdita della sua signoria su Brindisi a mano di quegli stranieri? Ci fu forse un patto segreto tra Goffredo e gli invasori, nonché con Alessio, per cui Brindisi non fu danneggiata? E quali erano gli obiettivi perseguiti da Goffredo con quel patto? Fu scoperto quel patto e Goffredo fu perdonato dal cugino Boemondo, visto che questi al suo rientro non risulta lo abbia incriminato e punito per quel fatto? Oppure la morte di Goffredo, avvenuta proprio intorno a quegli anni – la sua identità in vita appare per l’ultima volta nel 1104 in un documento a favore della chiesa di Nardò – senza che se ne conoscano per certo la data e ancor meno le circostanze, fu in qualche misura legata a quel supposto tradimento? Storicamente certo è, comunque, che Boemondo rientrò in Puglia sbarcando a Bari nel gennaio del 1105 e che alla morte di Goffredo, sua la moglie Sichelgaita prima e il figlio Tancredi dopo, poterono succedergli per molti anni nel dominio di Brindisi senza apparentemente incontrare difficoltà, nonostante Boemondo fosse rimasto in Europa fino al 10 ottobre del 1107, quando nuovamente da Brindisi salpò in armi verso l’Albania, sbarcando a Valona e quindi ponendo l’assedio a Durazzo. E fu proprio Sichelgaita, reggente della signoria di Brindisi in nome di suo figlio Tancredi ancora giovane nonché vassalla di Boemondo, che in quell’autunno del 1107 riuscì astutamente a sventare un pericoloso assalto navale dei Bizantini i quali, comandati dal megaduca della flotta imperiale Isacco Contostefano, in risposta all’attacco di Boemondo avevano deciso di contrattaccare su Brindisi e avevano messo sotto assedio la momentaneamente sguarnita città. In quella critica occasione, la risoluta e scaltra Sichelgaita finse di essere disposta a trattative con i Greci di Contostefano per così guadagnar tempo e permettere ai rinforzi normanni di giungere a Brindisi per costringere, finalmente, la flotta greca a una precipitosa ritirata. La conquista bizantina della normanna Brindisi fu, quella volta, decisamente sventata, anche se per un soffio. Restano i dubbi su se, invece, cinque anni prima, nel 1102, gli ungheresi l’avessero effettivamente concretizzata; e se sì, con quali modalità e con quali reali conseguenze per la città.


Papa Ustinu, geniale poeta dialettale dell’ultimo Ottocento Don Agostino Chimienti nasque a Brindisi 190 anni fa: fu canonico metropolitano di Gianfranco perri gostino Chimienti - papa Ustinu per tutto il popolo brindisino nacque a Brindisi il 27 settembre 1832, da Cesare e da Rosa Generosa Palumbo; fu canonico del capitolo metropolitano di Brindisi. É stato uno dei primi, e verosimilmente il maggiore, tra i poeti dialettali brindisini, e le sue poesie sono state raccolte e pubblicate in ben quattro edizioni, di cui la quarta postuma: “Puisii alla Brindisina di papa Ustinu Chimienti”, Lecce 1867; “Poesie in dialetto brindisino del canonico Agostino Chimienti” seconda edizione corretta ed accresciuta con prefazione del professor Lorenzo Calabrese, Brindisi 1889; “Scrasci Cavaddini e Rosi Tamaschini poesie in dialetto brindisino del canonico Agostino Chimienti” - terza edizione con l’aggiunta di tutte le nuove poesie, Brindisi 1893; “Poesie in dialetto brindisino di Agostino Chimienti” - con introduzione note e glossario di Edoardo Pedio, Brindisi 1955. Quasi sempre, comunque, prima della raccolta e pubblicazione in un volume, le poesie di papa Ustinu venivano rese pubbliche sui vari giornali locali a mano a mano che il poeta le componeva. «…Accolto giovinetto nel locale Seminario

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arcivescovile, allora fiorente per serietà di studi e valore d’insegnanti, poté, con la guida del canonico Francesco De Castro ed ancor più del canonico Francesco Marzolla, romantico manzoniano, attendere alla sua formazione spirituale e culturale. Ordinato sacerdote, non ebbe difficoltà nel contemperare le esigenze della missione liberamente abbracciata e la realtà del tempo in cui visse. Sacerdote per libera vocazione fu al servizio del suo popolo seminando la buona novella e schierandosi sempre in difesa dei poveri e dei deboli. Spettatore e attore della vita cittadina e amante della sua città, ebbe il dono di saper correggere ogni stortura che cadeva sotto i suoi occhi. Né si lasciò mai sopraffare da vuoti sentimentalismi o da isteriche collere quando sentì di far giungere a chi di dovere, affidandole alla poesia, le sue rimenate, che non provocavano rancori né risentimenti proprio perché, coscientemente o incoscientemente, il motto latino ‘castigat more ridendo’ trovò in lui un suo cultore. Volevano essere le sue, sollecitazioni a bene operare nell’interesse della collettività e del singolo. E disse pane al pane e vino al vino, senza remore e senza compromessi, con tutta franchezza, come se quella fosse la sua missione, come se per quello egli

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fosse nato. E così, meriti e demeriti, virtù e vizi, usi ed abusi, avvenimenti lieti e tristi, scene esilaranti e malinconiche rappresentazioni, passando per il filtro della sua mente e del suo cuore, divennero poesia. Egli, che incarna l’anima della sua gente e ne è schietto interprete, coglie e rappresenta, con ricchezza di toni e forza di espressione, i vari aspetti della vita cittadina vestendoli dell’idioma del popolo e legando così il suo nome alla poesia dialettale brindisina. E quando la poesia dialettale è autentica, come nel nostro papa Ustinu, essa - a buon diritto - assurge a vera e propria opera d’arte. Si può affermare che la poesia dialettale brindisina nacque con lui come una doviziosa dote che avrebbe dato abbondanti e ottimi frutti. Fu un esperto e profondo conoscitore dell’animo della sua gente e ne rappresentò, con rara forza espressiva, virtù e vizi con i suoi versi dialettali. La vita brindisina di fine secolo fu da lui rappresentata con la impassibile precisione del clinico che individua la diagnosi di un morbo e prescrive la terapia atta a debellarlo. Se non ci fossero fonti dirette ed indirette - e ce ne sono, in verità, ben poche - la storia dell’Ottocento brindisino potrebbe essere ricostruita attraverso la poesia di papa Ustinu, perché


LE IMMAGINI A sinistra un ritratto di don Agostino Chimienti e sotto la sua pubblicazione postuma di poesie dialettali

‘la Torre dell’orologio’…» [Nicola Vacca in “Brindisi ignorata” Edit. Vecchi, Trani 1954]. Papa Ustinu, rivolgendosi all’appaltatore Pietro Iaccarini lo invitava: "Chianu chianu e doci doci, pi no ffarli tanto mali, mena an terra lu Tirlogi". Non sapeva d’essere buon profeta; il 13 febbraio 1956 si sarebbe infatti avviata la scellerata demolizione della torre nel contesto dei lavori relativi alla costruzione del palazzo sede dell’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale. Fu papa Ustinu, come del resto lo mostrava anche il suo fisico, una buona forchetta e all’alimentazione fece frequente riferimento con le sue poesie: «...in una ricorda e chiede, rivolgendosi al sindaco di Sandonaci, un intingolo; in un’altra si rivolge ai cacciatori per allertarli sull’arrivo della selvaggina; in altre poesie indica il cibo adatto alle puerpere e durante l’estate indica quella che gli pare essere la migliore delle diete; ricorda anche il suo maiale

essa costituisce un panorama concernente ogni aspetto della vita cittadina, dall’igiene alla salute pubblica, alla politica, alla religione, dalle tradizioni alle specialità gastronomiche...» [Alberto Del Sordo in “Ritratti Brindisini” Editore Adda, Bari 1983]. «…Trasferita la casa municipale alla nuova sede, più consona alle esigenze della città che s’ingrandiva, il 3 febbraio 1891 fu deliberata la demolizione dell’arcata, cioè della loggia antistante all’antico seggio, per poter allargare la piazza Sedile e la strada omonima. Questa demolizione addolorò non poco gli abitudinari che proprio in quella loggia si riunivano a prendere il fresco ed a far quattro chiacchiere. Tra questi, papa Ustinu Chimienti, don Pascali Fuscu, e papa Giustinu Minunni, che avevano la inveterata innocente e monotona abitudine di fare una breve passeggiata quotidiana in piazza a commentare i piccoli fatti cittadini del giorno. Il più autorevole della geniale compagnia, papa Ustinu, che pure era uomo senza punte e buontempone, si fece eco del dolore e del malcontento comune, pubblicando dei versi che, se non furono un’espressione di poesia, furono un’esplosione di giustificata collera: “Lu tirloci ti la chiazza” in cui, tra molto altro e con tono altamente provocatorio campeggiava un rabbioso perentorio invito a demolire [figuriamoci un po', addirittura!] anche

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che “Quandu rriva carnuvali, mi dispiaci cu llu cciu, ma ci trovu buenu priezzu, mi lu vendu e ffazza Diu”; in altre ancora è immancabile il riferimento alla gastronomia natalizia brindisina e, infine, su un punto appare risoluto, sul fatto cioè che i brindisini non possono e non debbono rinunciare mai alla loro dieta tradizionale “Simu tutti ti ‘na razza, cu sti cibi mmalitetti, e nnimici capitali di brascioli e di purpetti, a nnu’ tandi favi bianchi, pipi fritti, cozzaruti, to’ sardeddi pari pari, casu scantu, agghi rrustuti”...» [Giacomo Carito in “Appunti per una storia dell’alimentazione e della gastronomia in terra di Brindisi” Inner Wheel Italia, Brindisi 2012 ]. Il 21 febbraio 1902 con lui si spegneva il poeta dialettale brindisino per antonomasia, eguagliato – forse – da altri, ma certamente non superato. A Brindisi al poeta Agostino Chimienti non è intitolata una via ed è una pecca cui si dovrebbe rimediare e, nel mentre, lo ricordiamo e omaggiamo, con una delle sue più emblematiche poesie: “La chjazza ti Brindisi”:


CULTURE

I «MARCHESI DI BRINDISI» Francisco Josè de ovando fu nominato marchese dopo aver scacciato gli austriaci dal Castello di mare,Terra, il partenopeo Lucio Boccapianola fu uno dei più valorosi soldati italiani del XVII secolo di Gianfranco perri uello di “Marchese” – o margravio, dal tedesco che vuol dire capo o signore della marca – è un titolo nobiliare che nella gerarchia araldica è inferiore al titolo di duca e superiore a quello di conte. La prima comparsa dei margravi risale al periodo merovingio, ma l’istituzione della marca ebbe una vasta diffusione soprattutto nel corso dell’età carolingia. Il marchese, il cui titolo in origine non era trasmissibile, aveva piena giurisdizione su un determinato territorio, detto appunto marca o marchesato: una circoscrizione pubblica del sacro romano impero, creata in regioni prossime ai confini dell’impero, o in aree che necessitavano comunque di un coordinamento politico e militare particolare. Con il tempo, la peculiare caratteristica di provincia di frontiera si perse e in età moderna, nell’ordinamento feudale, il titolo di marchese rimase solo come grado nobiliare, divenuto quindi trasmissibile. Nel secolo XIX, dopo la Restaurazione, anche il titolo di marchese fu restaurato e fu considerato prova di vera antica nobiltà, giacché Napoleone quando istituì la nobiltà del suo impero non creò né marchesi e né visconti. Dopo il bicentenario – dal 1509 fino al 1707 – vice regno spagnolo di Napoli, per soli 27 anni – dal 1707 fino al 1734 – il vice regno divenne austriaco nel contesto della guerra di successione spagnola, quando la Spagna del re Felipe V di Borbone dovette cederlo all’Austria di Carlo VI d’Asburgo. «… Fu il 20 luglio del 1707, quando giunse a Brindisi la notizia che l’esercito austriaco era entrato a Napoli e che sul trono si era insediato Carlo VI d’Austria. Il castellano del Castello di terra, senza aver ricevuto alcun ordine o disposizione in merito, inalberò la bandiera imperiale degli Asburgo. Il castellano del Forte a mare non fu invece dello stesso avviso e trascorsero giorni di tensione che videro persino

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lo scambio di qualche cannonata tra le due guarnigioni. Tutta la città finalmente si schierò con l’impero d’Austria e con il nuovo re Carlo di Napoli, e lo festeggiò sfrenatamente durante ben otto giorni, con manifestazioni festose d’ogni genere, alle quali, finalmente, si associò anche il Forte a mare. Il 21 aprile 1708 giunse a Brindisi con settanta soldati, tra ussari e tedeschi, il generale imperiale conte di Caraffa e durante due giorni ispezionò i due castelli e tutte le altre istallazioni militari. Poi, il 23 e 24 di giugno 1709, stazionarono nel porto di Brindisi cinque galere e quattro vascelli di guerra maltesi. Anche nel novembre del 1711 ci furono in città otto giorni di feste e festeggiamenti popolari militari e clericali, inneggianti questa volta all’avvenuta elezione, nella città di Francoforte, del re Carlo VI a imperatore del sacro romano impero. Firmata nel 1713 la pace di Utrecth, nel dicembre di quello stesso anno giunsero nel porto di Brindisi 19 tartane napoletane stracolme di soldatesche spagnole con le loro fa-

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miglie: in totale i soldati erano tremila cinquanta e le femmine con i figli erano circa mille. Dopo un mese, salparono per Fiume da dove avrebbero presto raggiunto l’Ungheria per incorporarsi al servizio dell’esercito imperiale...» [P. Cagnes e N. Scalese “Cronaca dei Sindaci di Brindisi 1529-1787”] Poi nel 1734, nel contesto della guerra civile polacca, ci fu la rivincita spagnola e Felipe V di Borbone ritornò trionfante a Napoli il 17 maggio del 1734 e, defenestrato il dominatore austriaco, insediò al suo posto Carlo di Borbone – figlio suo e di Elisabetta Farnese duchessa di Parma e Piacenza – elevandolo al rango di re e ristabilendo così il Regno di Napoli formalmente autonomo, dopo più di due secoli di regime vicereale. A Brindisi, il 24 marzo 1734 giunse l’ordine che parte dei soldati austriaci di stanza in città partissero per Barletta a congiungersi con il grosso delle truppe tedesche giunte da Fiume e dove, da Napoli, sarebbero arrivati, prima il feldmaresciallo Giovanni Carafa e poi anche il viceré austriaco del regno di Napoli, Giulio Borromeo Visconti. Tra il 22 e il 23 aprile approdarono a Brindisi una nave, un pinco, quattro tartane e quattro fregatoni con a bordo tremila soldati tedeschi. Poi il 7 maggio, proveniente da Taranto, il viceré Visconti giunse a Brindisi con tutta la sua corte, i suoi ministri, ufficiali, guardie e seguito al completo, accompagnato anche dal marchese di Ottaviano, viceré austriaco del regno di Sicilia. Dopo un soggiorno di otto giorni, il 15 maggio, tutti partirono per Bari e da lì il viceré s’imbarcò nottetempo per Trieste, mentre i soldati al suo seguito si diressero a Bitonto, per opporsi all’esercito spagnolo che, dopo essere entrato qualche giorno prima a Napoli, stava inseguendo gli Austriaci ormai in fuga dal regno napoletano. Il 25 maggio comparvero davanti al porto di Brindisi le prime due navi spagnole, veleggiavano minacciose tra le Pedagne e Torre Cavallo, ne arrivarono altre due nei giorni


LE IMMAGINI Scudo del 1 Marchese di Brindisi F rancisco Joséde ovando y Solís, a sinistra il Marchese di Brindisi Lucio Boccapianola successivi ed in più occasioni sfidarono i cannoni del castello di mare. Gli Austriaci cercarono di organizzare una difesa di terra per impedire lo sbarco degli invasori, ma le autorità locali decisero che «la città doveva restare quieta e non mostrarsi contraria, ma chi era più potente e restava vincitore, a quello si dovesse obbedire». [“Cronaca dei Sindaci di Brindisi 1529-1787”] La notizia della disfatta austriaca di Bitonto giunse a Brindisi il 27 maggio, due giorni dopo furono consegnati i primi inviti alla resa, uno dei quali a firma del generale spagnolo José Carrillo de Albornoz duca di Montemar, il vincitore dello scontro bitontino del 25 maggio, ma i castellani delle due piazzeforti brindisine rifiutarono le proposte e si prepararono alla resistenza. Il 20 di giugno un centinaio di soldati spagnoli sbarcarono dalle navi ed occuparono la città, chiudendo il porto ad ogni tentativo di ingresso e di fuga, nonostante ciò le fortezze cittadine, ormai isolate, decisero di restare fedeli all’imperatore d’Austria. Per riuscire a espugnare il castello di terra fu scavata una trincea fuori Porta Mesagne, da dove per l’intera giornata vi fu uno scambio di tiri di cannone. Solo al mattino seguente, il 6 luglio 1734, fu ammainata la bandiera imperiale e si giunse alla capitolazione con l’occupazione spagnola del castello federiciano. Il Forte a mare invece riuscì a resistere per altri tre mesi e capitolò, per mancanza di viveri, solo

il 10 settembre, dopo quasi quattro mesi dall’entrata a Napoli dell’esercito spagnolo. Dopo l’uscita del castellano e degli ufficiali, fu issato lo stendardo spagnolo e tutte le campane della città suonarono a festa, mentre ai soldati austriaci fu data la possibilità di partire o di restare ed arruolarsi nell’esercito borbonico. Ebbene, lo spagnolo che prese Brindisi fu il condottiero di mare, capitano di fregata Francisco José de Ovando y Solís, che nel 1733 al comando della fregata Galga si era incorporato alla flotta dell’ammiraglio Gabriel de Alderete e che nel 1734 partecipò attivamente all’attacco e presa di Napoli. Quindi, gli fu ordinato di dirigersi a Brindisi, la cui presa definitiva gli valse la promozione a capitano di vascello, ed in più, al suo rientro a Napoli, il fiammante re Carlo di Borbone il 13 settembre 1734 lo nominò “1º Marchese di Brindisi” del Regno di Napoli – I Marqués de Castel-Bríndis – titolo al quale il 18 ottobre affiancò la denominazione di Marqués de Ovando. «Francisco José de Ovando y Solís Rol de la Cerda era nato a Cáceres, in Estremadura, il 3 ottobre 1693, quarto figlio di Pedro Mateo de Ovando y Rol – cavaliere dell’Ordine di Alcántara e notaio perpetuo di Cáceres – e di Lucrecia de Solís y de la Cerda. Intraprese giovanissimo la carriera militare; nel 1717 divenne guardia marina a Cádiz e nel 1718 s’imbarcò sulla nave San Luis per partecipare alla spedizione di Sicilia, dove ottenne il grado di tenente di marina. Nel 1731 prese il comando della nave Guipúzcoa, della squadra dell’ammiraglio Francisco Javier Cornejo, e si diresse in Italia. Due anni dopo passò al comando della nave Principe con cui operò a Malta dove fu promosso capitano di fregata e posto al comando della fregata Galga con cui partecipò alla presa di Napoli e quindi di Brindisi. Rientrato in Spagna, nel 1736 partì per l’America: La Habana e quindi Veracruz; nel 1737 prese parte alla ricognizione della Florida e nel 1741 partecipò alla difesa di Cartagena delle Indie dall’attacco inglese per poi ritornare in Spagna permanendo presso la Corte fino ad essere promosso comandante di squadra nel 1743. Nel giugno del 1745 giunse in Cile dove fu governatore interino per poco più di un anno. Il 27 aprile 1749 sposò Maria Barbara de Ovando y Ribadeneyra con la quale ebbe un figlio, Josè Francisco. Dal 1750 al 1754, fu governatore titolare delle Filippine. Quindi, diretto in Messico, nel 1755 s’imbarcò sul galeone Santissima Trinità che lui stesso aveva fatto costruire e nel golfo di California, quasi giunto a destino, fu colto dalla morte a Galeone di Manila, sulla costa messicana di Acapulco, era il 9 dicembre del 1755.» [Sintesi dalla bibliografia redatta da Javier Barrientos Grandon per la Reale Accademia di Storia di Spagna] Il titolo di marchese passò al figlio José Francisco de Ovando Solís y Ribadeneyra, celibe e senza discendenti, che lo mantenne dal 1755 al 1795. Gli successe come terzo e ultimo marchese Vicente Mariano de Ovando y Perero – figlio di Pedro Manuel de Ovando y Maraver e nipote di Alonso Pablo de Ovando y Solís Rol de la Cerda, fratello del 1° Marchese Francisco Josè – che, sposatosi in Italia con Benedetta Radicatti, lo mantenne fino al 21 gennaio del

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1864, data della sua morte. Nel 1817 aveva realizzato gestioni, senza esito, per trasformare il titolo napoletano in titolo spagnolo. Né lui né sua sorella ebbero discendenti ed il titolo si estinse. [S. Aragón M. “La nobleza provincial extremeña en el siglo XVIII” - Sociedad Extremeña de Historia, 2016] Pur se il titolo nobiliare ufficialmente attribuito dal re di Napoli Carlo di Borbone allo spagnolo Francisco José de Ovando y Solís recita “1º Marchese di Brindisi”, in realtà un altro “Marchese di Brindisi” – non del Regno di Napoli, ma del Regno di Spagna – lo aveva preceduto di poco più di un secolo: Lucio Boccapianola. Purtroppo, nelle varie bibliografie consultate non sono riportate né le circostanze né la data in cui Lucio Boccapianola fu insignito del titolo di Marchese di Brindisi. Di origini napoletane, Lucio Boccapianola fu uno dei più valorosi soldati italiani del suo tempo, e per ben trentaquattro anni prese parte, servendo la corona spagnola, alle guerre d’Italia, Fiandra, Germania e di Boemia. Fu ferito nell’assedio di Rinbergh e poi di nuovo nella battaglia di Praga. Morì senza discendenti diretti nell’anno 1636 combattendo contro il nemico francese, che lo sorprese mentre con le sue schiere ritornava da una escursione fatta per danneggiare il Vercellese, dove aveva raccolto un ricco bottino. Lucio era stato promosso Maestro di Campo, quindi Cavaliere di San Giacomo e titolato Marchese di Brindisi dal re Felipe IV. Dopo la sua morte, il fratello Francesco, Duca di Ripa, appose nel Duomo di Napoli una effige commemorativa: “D. Lucio Buccaplanule Neapolitano, Viro Patritio, Brundusii Marchioni, Equiti Sancti Jacobi… MDCXXXVII.” [Raffaele Maria Filamondo “Il genio bellicoso di Napoli. Memorie istoriche d’alcuni Capitani Celebri Napolitani” - Napoli, 1693] Figlio di Diomede e di Caterina Albertini, era discendente di un’antica e nobile famiglia napoletana, di cui si ha memoria fin dai tempi del re svevo Manfredi. Famiglia che godette gli onori del sedile di Capuana – sin dal 1274 si ha notizia del Vico dei Boccapianola nel quartiere di Capuana e Matteo Boccapianola ottenne l’Ordine del Nodo istituito dal Re Luigi, marito di Giovanna I d’Angiò, allorché fu incoronato nel 1351 – ed ebbe molti feudi, fra i quali quello di Brindisi quando Lucio fu titolato “Marchese”. Verso la fine del secolo XIV la famiglia Boccapianola si era divisa in due rami, dei quali furono capi Francesco e Berteraimo, figli di Tommaso che nel 1381 era stato decorato dell’Ordine della Nave. Il ramo primogenito, rimasto in Napoli, discendente da Francesco, si estinse nel 1657. Il ramo discendente da Berteraimo verso la metà del secolo XV diramò in Bari, ove la famiglia fu ammessa nei registri della nobiltà e venne ascritta al registro delle Piazze Chiuse di quella città – nella parte antica di Bari vi è una via che conserva la denominazione di Strada Boccapianola – finché, nella seconda metà del secolo XVIII, Nicola Boccapianola, Cavaliere Gerosolimitano, ritrasferì in Napoli il suo domicilio. [Bernardo Candida Gonzaga “Memorie delle Famiglie Nobili delle Province Meridionali d'Italia”]


60 anni fa moRiva GianneLLi podestà, sindaCo e benefattoRe E’ stato uno dei personaggi più importanti della storia brindisina: ma la sua eredità è stata dilapidata. Scomparsa persino la sua Lancia Aurelia affidata al Comune

Ma

di Gianfranco perri

e cronache giornalistiche brindisine degli ultimi sessant’anni si sono occupate con regolare periodicità – e continuano a farlo tuttora – di Serafino Giannelli, sindaco di Brindisi per un intero decennio, a cavallo tra gli anni Venti e i Trenta. E lo hanno fatto sempre e solo a proposito della sua “eredità”: un cospicuo patrimonio immobiliare e agrario che quel nostro generoso concittadino d’altri tempi volle lasciare a beneficio dei brindisini, in particolare di quelli più deboli e indifesi, gli anziani. Ebbene, quell’importante lascito patrimoniale – che comprendeva anche la cinquecentesca tenuta “Pigna di San Martino” con dentro la meravigliosa “Villa Pignicedda” in stile liberty – è stato dilapidato, abbandonato e quindi distrutto, dall’incuria, dalla burocrazia e dall’incapacità degli amministratori succedutisi, quelli privati e quelli pubblici della città e della regione, i quali, invece, avrebbero dovuto diligentemente custodirlo e amministrarlo mettendolo a frutto per dare compimento ai desideri chiaramente espressi da quel benefattore: imperdonabile! Mettendo ora da parte questo “triste” capitolo della cronaca cittadina recente, di fatto solamente una semplice appendice alla vita e all’opera di Serafino Giannelli, è forse più giusto – perlomeno per questa volta – ricordarlo per quello che fu in vita e, soprattutto, per quello che fece in vita: un brindisino al quale, riconoscendone comunque l’indubbia benemerenza, dopo vari anni dalla morte la sua città ha voluto intitolare una strada del centro storico: già via Anime, uno stretto corridoio che con i suoi due trami contigui ad angolo retto, fa da raccordo tra piazza Anime e Corso Roma.

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LE IMMAGINI Una delle ultime foto del podestà Serafino Giannelli, a sinistra mentre conversa con il re Vittorio Emanuele II all’inaugurazione del Monumento ai marinai d’Italia - 4 novembre 1933. A destra uno dei giornali che, negli anni, si sono occupati della Fondazione che porta il suo nome

Serafino Giannelli era nato a Brindisi il 3 gennaio del 1874, figlio di Damiano e di Rosaria Pinto. Nipote del facoltoso proprietario terriero, lo zio Serafino, sposò Concetta Tanzarella rimanendo senza discendenti diretti e morì ottantottenne, a Brindisi il 14 settembre del 1962. Fin da giovane, e con ancor più impegno dopo la morte dello zio omonimo dal quale nel 1897 aveva ricevuto in eredità importanti aziende agrarie, si era dedicato alla cura delle attività agricole. Poi, in procinto di compiere cinquant’anni, fu eletto consigliere comunale e fu nominato sindaco di Brindisi. Fin da prima che terminasse la Grande guerra, e precisamente dal 29 luglio 1917, l’amministrazione comunale di Brindisi era entrata sotto gestione commissariale, dopo che la maggior parte dei consiglieri comunali si era dimessa per contrasti interni.

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Quel commissariamento era terminato con le elezioni del 24 ottobre 1920 e con la nomina dell’amministrazione del sindaco Giovanni Mazari, il quale però, dopo meno di cinque mesi, si dimise ed assunse l’incarico Giuseppe Giorgino, come sindaco facente funzioni. Poi, verso la fine del 1922 le attività della Giunta amministrativa si andarono paralizzando a causa di nuovi contrasti interni e il 2 marzo 1923 tutti i componenti rassegnarono le dimissioni, aprendosi per la città un nuovo periodo di gestione straordinaria commissariale che durò fino alle elezioni del 21 ottobre di quello stesso anno 1923. I quaranta consiglieri comunali eletti si riunirono la domenica seguente, 28 ottobre, ed all’unanimità elessero sindaco, con 37 voti su 38 presenti, Serafino Giannelli. Tra le sue prime delibere, il nuovo Consiglio comunale il 28 novembre 1923 notificò per acclamazione l’aggiunta della Croce di guerra allo stemma della città e il giorno seguente, il 29 novembre 1923, ratificò l’istituzione di un mercato settimanale da tenersi il giorno “giovedì” di ogni settimana, in piazza Cairoli, poi dal 9 settembre 1926 spostato in


LE IMMAGINI Ancora una foto di Giannelli, sotto “Villa Pignicedda” nella tenuta “Pigna di San Martino” , nella pagina accanto la Lancia Aurelia appartenuta all’ex sindaco Serafino Giannelli che la acquistò nel 1953

piazza Vittoria. In seguito, il Consiglio comunale del 14 marzo 1924 deliberò la costruzione del Parco della Rimembranza, avendone acquistato il terreno e preventivato la spesa per realizzarlo. Sarebbe stato inaugurato dallo stesso Giannelli il 6 novembre del 1927. La Legge n. 237 del 4 febbraio 1926 istituì la figura del podestà in sostituzione del sindaco, con la durata di cinque anni, riconfermabili e a nomina mediante Decreto Reale. E con decreto del 16 dicembre 1926, il già sindaco Giannelli fu nominato podestà di Brindisi, carico che assunse ufficialmente il seguente 24 di dicembre. « Serafino Giannelli è agricoltore e dalla sua prima giovinezza è esempio mirabile di lavoro… Nel lungo periodo in cui ha servito il suo paese, egli non ha mai conosciuto compromessi inconfessabili od incompatibili con la coscienza di galantuomo… Anima forte e generosa, egli è sempre pronto, come è sempre presente ovunque c’è da soccorrere un poverello o da consolare un afflitto o da incoraggiare allo studio un giovane senza mezzi…» [Dagli atti d’Archivio allegati alla scheda biografica relativa alla nomina del podestà Serafino Giannelli] Nel corso di quel suo primo incarico podestarile, che durò poco più di un anno e mezzo fino a luglio del 1928, Giannelli, per conto del Comune, stipulò la cessione dalla recentemente creata provincia di Brindisi dell’ex Convento del Cristo dei Domenicani per essere destinato a sede dell’Istituto Commerciale e l’acquisto del Palazzo Nervegna dalla Banca del Piccolo Credito Cattolico in liquidazione per destinarlo a sede del Tribunale. Il Consiglio comunale deliberò l’edificazione di una nuova sede per il Liceo Ginnasio Benedetto Marzolla e

Giannelli ne assegnò il progetto all’ingegnere Saverio Dioguardi e ne sollecitò ripetutamente la costruzione, che avrebbe poi inaugurato lui stesso nel gennaio 1933. La vicina Palestra Comunale Elio Galiano fu invece fatta progettare all’ingegnere Ernesto Ricci e fu poi inaugurata nel novembre del 1931. Il 6 agosto 1928, sui muri della città i brindisini trovarono affisso un manifesto che annunciava loro le dimissioni del podestà Serafino Giannelli « Costrettovi da inderogabili e particolari bisogni personali, riprendo oggi le mie private occupazioni...» Non ci è stato dato di conoscere le reali motivazioni di quella improvvisa, ed apparentemente inattesa, rinuncia. Ma, considerando il clima politico che a quel tempo si

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viveva in Italia ed in conseguenza inevitabilmente anche a Brindisi, è da supporre che probabilmente qualcosa a che vedere l’ebbe proprio quel carattere del Giannelli “che lo rendeva estraneo a compromessi inconfessabili od incompatibili con la sua coscienza di galantuomo…” Forse, quanto meno, non fu disposto a vedersi condizionata o limitata l’autonomia e la libertà decisionale. Giannelli, lo stesso giorno delle sue dimissioni, scrisse al commissario prefettizio designato, Umberto Balestrino, per informarlo di voler donare agli impiegati del Municipio tutti i mobili a suo tempo da lui acquistati con denaro proprio per l’arredo del suo ufficio di sindaco. «Essi s’intendono passati oggi in piena proprietà e disponibilità dei diciotto impiegati comu-


nali, ai quali li ho donati per lasciare un ricordo del mio grato animo, per la pronta e affettuosa assistenza e collaborazione da loro datami nei cinque anni della mia amministrazione.» Certo è – comunque siano andate realmente le cose che portarono a quelle dimissioni – che dopo due anni e mezzo, il 31 gennaio 1931, a Serafino Giannelli fu conferita di nuovo la carica di podestà di Brindisi, incarico che conservò per altri tre anni e mezzo, fino al 2 giugno 1934. E il prefetto Ernesto Perez così giustificò al Ministro dell’Interno la sua proposta di rinominare Giannelli: “La scelta non si presenta facile perché occorre una persona competente che, di fronte ai problemi complessi della vita cittadina, possa dedicare tutta la sua attività all’amministrazione del Comune. Ed ho avuto difficoltà di trovare nell’ambito del partito persone che abbiano le qualità necessarie, di competenza, attività e serenità. E pertanto…” Del resto, in nessun momento per Giannelli si era affievolito l’apprezzo e la stima dei suoi concittadini, tant’è che il commissario prefettizio, Umberto Balestrino, che era stato nominato in seguito alle sue dimissioni, lo aveva da subito ratificato presidente dell’importante Comitato Pro Monumento al Marinaio d’Italia, con la seguente motivazione: “Il Grande Ufficiale Serafino Giannelli, lasciando l’ufficio di podestà, è cessato dalla presidenza de Comitato… Il suo nome però, e le fatiche da lui spese in pro’ del Monumento con salda fede entusiastico fervore di propositi e di intenti e con grande sacrificio dei suoi interessi, sono intimamente legati alla buona riuscita dell’opera… Egli perciò, si è reso degno di conservare quel posto di presidente.” L’attività di Giannelli nell’esercizio di quel suo secondo mandato podestarile fu intensa e fruttifera. Tra tanto altro, si occupò con grande impegno della realizzazione dell’Ospedale in contrada Cappuccini, poi intitolato ad Antonio Di Summa, affidandone il pro-

getto all’ingegnere Antonio Cafiero [e proprio all’ampliamento di quell’ospedale Giannelli destinò una parte del suo lascito patrimoniale]. Per lo stesso rione Cappuccini, incaricò all’ingegnere Ugo D’Alonzo il progetto dell’asilo d’infanzia e quindi, a Telesforo Tarchioni, ingegnere capo dell’Ufficio tecnico municipale, chiese di elaborare il progetto dell’asilo infantile per i bambini poveri del rione Montecristo; entrambi gli asili aprirono i battenti nell’anno 1935. L’ingegnere D’Alonzo fu anche il progettista del Campo sportivo comunale che, costruito in tempi record da Cosimo Piccinni, fu inaugurato in ottobre 1929. Ma certamente fu al Monumento al Marinaio d’Itala che Giannelli, in veste di podestà e di presidente dei Comitati pro’, dedicò molte delle sue energie, prodigandosi per raccogliere i fondi necessari, ricorrendo a espedienti d’ogni tipo, sottoscrizioni, francobolli celebrativi, veglioni e spettacoli vari, tra cui i celebri concerti del tenore leccese, il suo amico personale Tito Schipa, al Teatro Verdi, nonché in altri prestigiosi teatri italiani. L’inaugurazione – certamente la più emblematica che al sindaco podestà Giannelli toccò di presiedere – del Monumento, avvenne il 4 novembre 1933 alla presenza del re Vittorio Emanuele III. Allo scadere naturale del suo secondo, meglio detto terzo, mandato, Serafino Giannelli preferì lasciare, questa volta in via definitiva, la sua attività di pubblico amministratore. Era stato a lungo primo cittadino di Brindisi in tempi di grandi mutamenti per la sua città e gli era toccato affrontare e risolvere problematiche complesse, nonché presenziare circostanze, momenti ed episodi oggettivamente rilevanti, a partire dall’elevazione di Brindisi a provincia. E lo fece dimostrando capacità, sobrietà e probità, doti tutte di cui troppo spesso – per fortuna non sempre – negli anni a venire la città di Brindisi avrebbe scoperto la diffusa carenza, tra molti dei suoi amministratori.

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I CInQUE PARLAMEnTARI BRIndIsInI dEL REgnO d’ITALIA

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Il 18 febbraio 1862, re Vittorio Emanuele II convocò a Torino, il primo Parlamento del Regno d’Italia: ne fecero parte Braico, Bono, Chimienti, Assennato e Sardelli di Gianfranco perri

on la proclamazione – nel 1861 – del Regno d’Italia, l’architettura istituzionale del Regno di Sardegna fu mantenuta nelle sue linee essenziali in cui il Parlamento si componeva della Camera dei deputati e del Senato subalpino. Il numero ordinale delle legislature della nuova Camera dei deputati del Regno d’Italia fu conservato e il nuovo Senato del Regno d’Italia rappresentò il diretto successore del Senato Subalpino. Il 18 febbraio del 1861 il re Vittorio Emanuele II di Savoia convocò a Torino, a palazzo Carignano, il primo Parlamento del Regno d’Italia e con il suo discorso a Camere riunite venne inaugurata la nuova Legislatura, che fu l’VIII. Le prime elezioni per la nomina dei deputati del Regno d’Italia – i senatori invece erano di nomina regia e restavano in carica a vita – si erano svolte il 27 gennaio 1861 ed erano stati chiamati al voto soltanto i cittadini maschi di età superiore ai venticinque anni capaci di leggere e scrivere. Si trattava del cosiddetto suffragio censitario in cui ad eleggere era solo una esigua minoranza degli italiani, costituita pressoché esclusivamente da grandi proprietari o da coloro che comunque godevano di un censo elevato. Gli aventi diritto di voto in quel 1861 rappresentarono solo l’1,7% della popolazione e dopo un primo allargamento della base elettorale promosso da De Pretis nel 1882, tale percentuale giunse al 7%. Poi, nel 1912, con la riforma di Giolitti venne introdotto il suffragio universale maschile che, pur con ancora varie restrizioni, portò gli aventi diritto al 23% della popolazione. Nel dopoguerra, con la legge Nitti approvata nel novembre del 1919, si concesse il diritto di voto a tutti i maschi sopra i 21 anni che avevano fatto il servizio militare.

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LE IMMAGINI La prima seduta del Parlamento del Regno d’Italia, a destra Cesare Braico, qui accanto Felice Assennato e più a sinistra Ugo Bono

La continuità formale fu spezzata nel 1939, quando la Camera dei deputati fu sostituita dalla Camera dei fasci e delle corporazioni che decadde con la caduta del fascismo, il 25 luglio 1943, determinando la fine dell’ultima legislatura del Regno d’Italia, la XXX, che era in realtà la 23a. Seguì un periodo di transizione costituzionale in cui la funzione legislativa fu esercitata dalla Consulta nazionale e quindi dall’Assemblea costituente e, infine, dopo l’entrata in vigore della Costituzione del 1946, dalle nuove Camere del parlamento repubblicano. Il quanto al Senato del Regno, con l’avvento del regime fascista tutti i senatori nominati prima della marcia su Roma mantennero la carica però, nel 1939 in coincidenza con la nascita della Camera dei fasci e delle corporazioni, vi furono ben 212 nuove nomine regie, inevitabilmente pilotate dal regime. Caduto il fascismo, il re nominò presidente del Senato del Regno l’ammiraglio Paolo Thaon di Revel, che entrò in carica il 2 agosto. Nell’agosto del 1944 tutti i senatori, ritenuti

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responsabili di aver mantenuto il fascismo e resa possibile la guerra sia coi loro voti, sia con azioni individuali, tra cui la propaganda esercitata fuori e dentro il Senato, furono deferiti all’Alta corte di giustizia per le sanzioni contro il fascismo e a novembre, 258 senatori vennero dichiarati decaduti. Successivamente, 32 di loro furono reintegrati nella loro carica. In seguito al referendum istituzionale del 2 giugno 1946 e all’elezione dell’Assemblea costituente, il Senato del Regno cessò le sue funzioni il 25 giugno 1946 per poi essere formalmente soppresso il 7 novembre 1947, scomparendo quindi definitivamente per essere sostituito dal Senato della Repubblica. Un senato divenuto elettivo come lo era da sempre stata la Camera dei deputati, però, con la nuova legge elettorale del 1946, a suffragio effettivamente universale. Ebbene, in quegli ottant’anni in cui si succedettero le ventitré legislature del Regno d’Italia, dall’VIII alla XXX, furono solamente cinque i brindisini che integrarono la Camera dei deputati, e due di loro anche il Senato. Seguendo l’ordine cronologico, furono: Cesare Braico, eletto deputato nel gennaio 1861; Pietro Chimienti, eletto deputato nel 1900 e nominato


LE IMMAGINI Pietro Chimienti e nella pagina accanto Giuseppe Sardelli. In basso palazzo Carignano, a Torino, prima sede del Parlamento italiano

senatore nel 1921; Felice Assennato, eletto deputato nel 1921; Giuseppe Sardelli, eletto deputato nel 1921; Ugo Bono, eletto deputato nel 1924 e nominato senatore nel 1939. Cesare Braico nacque a Brindisi il 24 ottobre del 1816 da Bartolomeo e da Carolina Carasco. Fu garibaldino e grande protagonista della lotta contro il regime borbonico. Si laureò in medicina all’Università di Napoli nel 1845 e prese parte ai movimenti sovversivi e alla rivoluzione napoletana del 1848 combattendo sulle barricate di Santa Brigida. Fu arrestato e condannato a 25 anni di carcere poi commutati in esilio in America, ma durante la navigazione la nave fu dirottata in Irlanda da Raffele Settembrini, figlio di Luigi Settembrini, anch’egli prigioniero imbarcato verso l’esilio. Ritornato in Italia, Braico si arruolò volontario nell’esercito piemontese, come soldato e medico. Nel 1860 partecipò alla spedizione dei Mille e, costituito il Regno d’Italia, nel 1861 fu eletto deputato al parlamento. Nel giugno del 1862 fu insignito della croce di cavaliere dell’Ordine militare di Savoia e nel dicembre seguente fu nominato presidente del Consiglio di sanità in Napoli. Poi, per sopraggiunti problemi di salute, dovette dimettersi da deputato. Rientrò in parlamento e nel 1866 partecipò alla terza guerra di indipendenza, ancora tra le file dei garibaldini, e col grado di sottotenente combatté col 1º Battaglione dei bersaglieri genovesi guadagnandosi la menzione al valor militare. In seguito, le sue condizioni di salute mentale cominciarono a deteriorarsi. Nominato consigliere di prefettura il 4 marzo 1869, ed assegnato ad Alessandria, fu poi trasferito a Forlì il 29 settembre 1869 con il posto di archivista. Il 19 gennaio 1873 fu assegnato all’Archivio di Stato di Roma e in questa città trascorse gli ultimi anni della sua esistenza, resi amari dalla solitudine e dalle manifestazioni dell’infermità mentale che, aggravatasi nel 1883, lo condusse alla morte nell’ospedale manicomio di Santa Maria della Pietà, in via Lungara, dove morì il 25 luglio 1887. I suoi funerali si svolsero solennemente a Brindisi e fu sepolto nella parte monumentale del cimitero, lungo il viale d’entrata. A lui è dedicata una epigrafe marmorea affissa nella sua casa natale in via Ferrante Fornari, è intitolata una via cittadina. Più recentemente, gli è stato intitolato anche il parco sorto adiacente all’ex sanatorio. Pietro Chimienti nacque a Brindisi il 28 gennaio del 1864 da Antonio e Caterina Fusco. Fu rinomato costituzionalista e fu tra i più importanti politici brindisini del primo Novecento. Si laureò in giurisprudenza all’Università di Roma e nel 1900 fu eletto deputato nelle fila della Destra liberale. Nel 1906 divenne docente di Diritto Costituzionale

all’Università di Cagliari e nel 1924 all’Università di Catania. Come deputato, rimase in carica per quattro legislature, fino al 1919. Fu sottosegretario al Ministero di Grazia e Giustizia e dei Culti, quindi sottosegretario al Ministero della Guerra e Ministro delle Poste e Telegrafi da giugno 1919 a marzo 1920. L’8 giugno 1921 fu nominato Senatore del Regno e nel 1922 aderì al fascismo al cui servizio pose la sua esperienza di studioso di diritto pubblico, dedicandosi alla legittimazione del regime fascista sotto il profilo giuridico-costituzionale, mediante una profonda revisione degli orientamenti da lui assunti in passato sul problema dello Stato parlamentare e delle istituzioni rappresentative. Come senatore fu membro di numerose importanti commissioni e fu il propositore di rendere elettivo il Senato. Notevole fu anche il suo prolungato impegno per favorire lo sviluppo del porto di Brindisi. Fu, inoltre, capo della missione italiana alla conferenza di Ginevra nel 1925 e delegato del Perù all’Istituto internazionale di agricoltura. Morì a Roma il 26 novembre 1938. Felice Assennato nacque a Brindisi l’8 ottobre del 1868 da Mario e da Rosa D’Errico. Fu avvocato, politico, socialista e attivo antifascista. Si laureò in giurisprudenza all’Università di Palermo. Il 12 luglio 1904 fu oggetto di un attentato, fortunatamente andato a vuoto. Fu eletto al Consiglio Comunale di Brindisi nel 1903, nel 1910 e nel 1914. Fu tra i fondatori del Partito Socialista

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di Brindisi e nel 1910 divenne direttore del settimanale socialista L’Unione. Nel 1921 fu eletto deputato al parlamento. Fu segretario del gruppo parlamentare socialista e membro della direzione del partito. Nel gennaio del 1923 fu tra gli esponenti socialisti contrari alla fusione del suo partico con il Partito Comunista Italiano e quindi aderì al Comitato Nazionale di Difesa Socialista presieduto da Pietro Nenni. Dal 1926 diresse la federazione pugliese del partito socialista. Con l’avvento del regime fascista si ritirò dalla politica attiva e tornò a esercitare la professione di avvocato, pur rimanendo


fermo oppositore del regime. Fu perciò denunciato al Tribunale speciale e sottoposto a vigilanza fino al 1942. Subito dopo la caduta del fascismo fu membro del Comitato Provinciale di Liberazione di Brindisi. Morì a Bari il 14 ottobre 1957 e la Giunta Comunale di Brindisi, deliberò in data 29 giugno 1999 intitolargli una strada cittadina. Giuseppe Sardelli nacque a Brindisi il 2 giugno del 1880 da Carmelo e da Francesca Cinosa. Fu operaio e sindacalista socialista. Trasferitosi a Roma per lavoro, nel 1916 fu eletto membro della direttiva della Camera del Lavoro di Roma e poi segretario del Sindacato italiano tranvieri. Fu quindi chiamato alle armi nel 1916 e fu condannato dal tribunale militare di Roma a cinque anni di reclusione quale responsabile di pubblicazioni antimilitaristiche che istigavano i soldati alla ribellione, con la pena sospesa per la durata della guerra – la prima mondiale – per fargli assolvere gli obblighi militari. In seguito, fu anche dichiarato disertore, ma con la pena nuovamente sospesa a causa del conflitto. Nel 1921 fu eletto deputato nelle liste socialiste. Da parlamentare si occupò principalmente del settore ferrovie e dei servizi di navigazione interna in generale, facendosi anche promotore di una interrogazione a favore della costruzione del secondo binario sulla linea ferroviaria tra Ancona e Brindisi. In seguito, nel dicembre 1926 fu assegnato al confino in contumacia per anni cinque e riuscì ad espatriare e a rifugiarsi in Francia da dove, riprendendo l’attività sindacale partecipò in vari incontri europei. Nel 1930 fu arrestato a Parigi perché sospettato di esser coinvolto in alcuni attentati terroristici, tra cui quello contro il principe Umberto di Savoia del 24 ottobre 1929 a Bruxelles, accusa dalla quale fu poi assolto. Anni dopo, in seguito allo scioglimento della socialista Confederazione Generale del Lavoro sancito dal governo francese di Petain, nel 1940 fu costretto a lasciare Parigi e fu inviato a domicilio forzato. Rientrato in Italia dopo la Liberazione, Giuseppe Sardelli riprese l’attività politica e nel 1947 aderì al Partito Socialista Democratico Italiano di Saragat. Morì a Roma nel 1970. Ugo Bono nacque a Brindisi il 31 gennaio del 1878 da Giuseppe e Raffaella Simone. È stato il più importante politico e imprenditore brindisino del secolo scorso, sino alla caduta del fascismo [T. Marzo e V. B. Stamerra “I Brindisini in Parlamento dall’Unità ai giorni nostri” - Hobos Ed. 2018]. Si laureò in giurisprudenza all’Università di Bologna nel 1900. Esercitò come avvocato e fu membro della Giunta Provinciale di Lecce e Consigliere Comunale di Brindisi. Promosse la società “Marittima commerciale brindisina” e il 23 maggio 1916 ne sottoscrisse le prime azioni. Aderì al fascismo e il 28 ottobre partecipò alla “marcia su Roma” al comando delle forze fasciste del Salento e di parte della Murgia ba-

rese. Nel 1924 fu eletto deputato alla Camera e rimase in carica per tre legislature. Da parlamentare si attivò per l’interesse della sua Brindisi: il 15 gennaio 1927 guidò a Roma la delegazione incaricata di sollecitare la costruzione del Monumento al Marinaio e la bonifica di alcune zone malariche ancora residue nel brindisino. Ricoprì altri numerosi incarichi, tra cui: presidente della SACA da lui stesso fondata; presidente dell’Istituto Tecnico Commerciale di Brindisi; Consigliere dell’Ente per la colonizzazione della Libia; presidente dell’Ente autonomo Acquedotto Pugliese, ente che fece giungere l’acqua a Brindisi e a buona parte del Salento e che nel 1939 donò la Fontana delle ancore di piazza Cairoli. Fu nominato senatore nel 1939 e fu membro della Commissione Nazionale dei Lavori Pubblici e delle Comunicazioni e membro supplente della Commissione d’appello dell’Alta Corte di Giustizia. Collezionò un gran numero di onorificenze e morì a Roma il 21 agosto 1946. La sua salma fu trasferita a Brindisi nella cappella di famiglia presso il cimitero cittadino. Come nota conclusiva di cronaca, i parlamentari nati a Brindisi della Repubblica italiana, nei quasi ottanta anni trascorsi dal 1946 fino ad oggi per un totale di 18 legislature, sono stati in tutto nove, otto deputati, di cui uno anche senatore e due senatori, di cui uno anche deputato. Questi i loro nomi, in ordine alfabetico [“I Brindisini in Parlamento dall’Unità ai giorni nostri”]: Mario Assennato, Antonio Bargone, Giovanni Carbonella, deputati; Francesco Colucci, deputato e senatore; Cristina Conchiglia Calasso, Clemente Manco, deputati; Cosimo Ennio Masiello, senatore; Valentina Palmisano e Livio Stefanelli, deputati.

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ECCidio di koS tra LE 103 VittimE anChE un uffiCiaLE BrindiSino Ma

Nell’ottobre di 79 anni fa, nella piccola isola greca nell’Egeo, il massacro del decimo Reggimento fanteria Regina Tra i morti Vincenzo Andrea Cappelli di Gianfranco perri

a piccola isola greca di Kos – Coo in italiano – faceva parte del Dodecaneso, il gruppo di isole greche nell’Egeo di cui la maggiore Rodi, che l’Italia nel 1912 aveva sottratto alla pluricentenaria dominazione turca con la guerra per la conquista della Libia e che poi, con il trattato di Losanna del 1923 era divenuto possedimento italiano. Dal 1937 a Kos era stanziato il 10° Reggimento della divisione fanteria Regina e nel settembre 1943 l’isola era presidiata da circa 4.000 militari italiani comandati dal colonnello Felice Leggio. Il reparto, che dipendeva dal comando di Rodi, era affiancato da un gruppo misto di artiglieria e da piccoli reparti di marina, aeronautica, carabinieri, finanzieri e camicie nere. Dopo l’armistizio dell’8 settembre, i pochi tedeschi presenti a Kos presso l’aeroporto di Antimachia furono disarmati. L’11 settembre l’isola fu bombardata dalla Luftwaffe e il 13 settembre le truppe del Commonwealth guidate dal colonnello L.F.R. Kenyon cominciarono a sbarcare a Kos mentre le unità inglesi occupavano Antimachia. Ma meno di un mese dopo, le forze italiane e inglesi presenti sull’isola non riuscirono a impedire lo sbarco delle truppe d’assalto tedesche della 22ª divisione fanteria aviotrasportata che, comandate dal generale Friedrich Wilhelm Müller, in due giorni di combattimenti e grazie anche al forte appoggio aereo, ottennero il controllo dell’isola. All’alba del 3 ottobre i tedeschi misero in atto l’operazione Eisbär – orso polare – sbarcando in tre punti diversi dell’isola, sia dal mare sia dall’aria. Durante la battaglia mancò il necessario coordinamento tra le forze italiane e quelle inglesi, la RAF non riuscì a fornire l’in-

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LE IMMAGINI A sinistra il Tenente Vincenzo Andrea Cappelli, sopra la targa commemorativa a lui dedicata, a sinistra la lapide monumentale nel cimitero di Kos in memoria dei 103 ufficiali italiani trucidati

dispensabile copertura aerea e l’artiglieria antiaerea non riuscì a impedire che la Luftwaffe potesse agire incontrastata. I tedeschi del generale Müller fecero 4.533 prigionieri, di cui 1.388 inglesi e 3.235 italiani. Il trattamento riservato agli inglesi catturati fu la prigionia tutelata dalle convenzioni internazionali, mentre il destino che attendeva tutti i prigionieri italiani fu invece tragico, specialmente quello degli ufficiali che non vollero accettare l’intimazione del generale Müller di continuare a combattere al fianco dei tedeschi. Quegli ufficiali italiani infatti – la grande maggioranza di quelli che erano stati catturati – considerati traditori dai tedeschi e separati dal resto dei militari italiani concentrati i più nel castello di Kos Town, furono divisi in due gruppi e furono condotti in due diverse località: un primo gruppo nella zona di Lambi, nella parte nordorientale dell’isola; il secondo gruppo, più numeroso, nella piana di Linopoti, un’area paludosa all’interno del-

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l’isola. Trasferimenti quelli da cui furono esclusi quei pochi ufficiali subito dichiaratisi disposti a collaborare con i tedeschi: il capitano Camillo Nasca e il sottotenente Pierraimond del Regina, due ufficiali della milizia, nove ufficiali medici in quanto non combattenti e il comandante dei carabinieri di Kos. In dette località, tra il 4 e il 5 ottobre i circa 150 ufficiali condotti da prigionieri furono sottoposti a sommari e arbitrari processi di discriminazione, presumibilmente basati sull’aver partecipato o meno ai combattimenti appena conclusisi. Quindi, tra tanta confusione, molte arbitrarietà e alcune fughe, i tedeschi stilarono liste di “colpevoli” e tra questi 103 dei 110 ufficiali del 10° Reggimento Regina che con il loro comandante colonnello Leggio erano stati portati nella caserma Vittorio Egeo dove, dal generale Müller in persona era stato chiesto loro di restare a combattere con i tedeschi e dove solo 7 di loro avevano accettato. Poi, a tutti i 103 “colpevoli” fu ordinato di preparare il bagaglio per l’immediato imbarco verso la prigionia. Ebbene, alcuni di quei bagagli sarebbero stati ritrovati nelle fosse comuni rintracciate a Linopoti nel marzo del 1945, senza che fino ad allora si fosse


LE IMMAGINI Campana della memoria e Lapide originariamente posta sulla fossa comune del cimitero di Coo, più a destra un manifesto che ricorda il Decimo Reggimento Regina. In basso gli ufficiali del Decimo Fanteria a Kos in quell’anno 1943.

saputo null’altro di quei 103 eroici ufficiali italiani del 10° Regina. Era accaduto che nei giorni tra il 5 ed il 7 ottobre 1943, tutti i 103 ufficiali italiani del 10° Regina erano stati portati a piccoli gruppi presso le saline di Aliki, vicine alla stessa caserma Vittorio Egeo, e lì erano stati fucilati in segreto dagli uomini dalla Wehrmacht e quindi sepolti clandestinamente in varie fosse comuni improvvisate. Dopo un po’ di mesi però, a Kos la gente cominciò a vociferare sempre più insistentemente sulla sorte degli ufficiali italiani ‘scomparsi’ e il tenente Enzo Aiello – uno dei 7 dichiaratosi collaboratore dei tedeschi – approfittando dell’assenza del suo superiore capitano Nasca, avviò una timida ricerca guidato da alcuni popolatori dell’isola e il 13 marzo 1945 finì con lo scoprire tracce evidenti di quanto era avvenuto. Così, aggirando le difficoltà frapposte dai tedeschi, alcuni isolani italiani e greci procedettero al disseppellimento dei corpi, effettuarono quando fu possibile il loro riconoscimento diretto stilandone l’elenco nominativo e quindi li depositarono nella fossa comune che era stata da loro stessi predisposta nel cimitero cattolico di Coo. In 8 fosse, su un totale presunto di 11, furono ritrovati 66 corpi e solamente a 42 di loro fu possibile assegnare il nome mentre gli altri 24 rimasero non identificati. I resti degli altri 37 corpi, presuntamente sepolti nelle altre tre fosse e mai più ritrovati, giacciono ancora senza una croce, dispersi sul luogo dell’eccidio. Il 9 maggio del 1945 finalmente, gli inglesi conquistarono Kos. Il generale tedesco, Friedrich Wilhelm Müller, comandante militare dell’isola, responsabile dell’eccidio dei 103 ufficiali italiani e di tanti altri ignobili episodi perpetrati contro greci e contro italiani, sorpreso dai partigiani iugoslavi sulla via della fuga, venne consegnato ai Greci che lo processarono per i suoi numerosi crimini di guerra perpetrati contro militari e civili greci sull’isola di Creta: fu condannato a morte e il 20 maggio 1947 fu giustiziato ad Atene, dove è rimasto sepolto. Il capitano Nasca nel 1947 fu processato per tradimento in Italia e fu condannato a 16 anni di carcere. Un anno dopo, in seguito al riesame del processo, fu rilasciato in libertà vigilata. Nello stesso processo il sottotenente Pierraimond fu assolto da subito e decise volontariamente di ritirarsi dalla vita militare. Finita la guerra, il padre Michelangelo Bacheca, il parroco della chiesa Agnus Dei di Coo che in prima persona aveva partecipato al ritrovamento delle fosse comuni ed al seppellimento dei 66 corpi nel cimitero cattolico

di Coo, provvide a collocare una piccola lapide marmorea sulla tomba, che così recita: «Piamente sottratti alle fosse di Linopoti riposano qui dal marzo 1945 i resti mortali di sessantasei dei più che cento ufficiali italiani che la mitraglia tedesca clandestinamente trucidava nell’ottobre 1943». Poi, nell’ottobre 1992 il Comune di Kos ne aggiunse una più grande, una lapide marmorea monumentale, che riporta in bronzo i nomi di tutte le 103 vittime dell’eccidio. I 66 corpi lì seppelliti, nel 1954 furono riesumati e condotti in Italia dove i resti furono tumulati nel Sacrario dei Caduti d’Oltremare di Bari. Nel 2009 la Provincia di Latina ha donato la Campana della Memoria al 9° Reggimento fanteria di Trani – oggi erede delle tradizioni dell’allora divisione “Regina” che nel 1943 aveva il 10° regimento schierato a Coo – con la missione di trasportarla a Kos e collocarla nel cimitero a fianco della lapide commemorativa: missione poi materialmente compiuta nell’ottobre del 2010 da Maria Franzini, moglie di uno dei 103 ufficiali assassinati. In Italia, dopo decenni di incomprensibile oblio da parte delle istituzioni dello Stato, solo nel 2014 il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in occasione delle celebrazioni del 25 Aprile, formulò un esplicito riconoscimento all’eccidio di Coo, rilevando nel comportamento di quegli ufficiali caduti “un esempio di fedeltà ai valori essenziali di coerenza, fierezza e amor di Patria”. Più recentemente, nel 2015, è stata organizzata una spedizione, denominata “Opera-

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zione Lisia” sostenuta dall’Associazione per i caduti di Kos e guidata dal colonnello in pensione Pietro Giovanni Liuzzi, alla ricerca delle restanti tre fosse comuni contenenti i resti dei 37 ufficiali che ancora mancavano all’appello. Una encomiabile missione dall’esito purtroppo limitato a causa dei tantissimi, ormai troppi, anni trascorsi. Fu localizzata una nona fossa e nella ricerca furono recuperati numerosi oggetti appartenenti agli ufficiali dispersi: bottoni delle divise, stellette militari, fibbie di vario tipo, monete italiane, medagliette d’oro e d’argento, un paio di occhiali da vista, una penna


stilografica e alcuni reperti dentali in oro. Infine, furono anche rinvenuti alcuni frammenti di ossa che furono analizzati in un laboratorio dell’Università di Trieste dove furono dichiarati – in base all’esame del DNA – essere compatibili con i resti degli ufficiali ancora dispersi. Ebbene, tra quei 103 ufficiali italiani del 10º Regina vilmente giustiziati dai tedeschi della Wehrmacht per la loro incondizionata obbedienza agli ordini ricevuti dal comando italiano e per non aver voluto rinnegare il solenne giuramento di fedeltà prestato alla Patria, c’era anche un giovane ufficiale brindisino, il Tenente Vincenzo Andrea Cappelli che operava con la 725ª Batteria: una delle tre batterie che erano appostate sulla collina di Ambavri, l’ultima delle tre ad arrendersi ai tedeschi sopraggiunti dal mare alle spalle della postazione. Il nome di Vincenzo Cappelli è inciso sulla lapide monumentale del ci-

mitero cattolico di Coo ed i suoi resti riposano, assieme a quelli degli altri 24 ufficiali non identificati, nel Sacrario dei Caduti d’oltremare in Bari. Vincenzo Andrea Cappelli era nato a Brindisi in via Indipendenza, solo 32 anni prima di quel tragico ottobre 1943, figlio di Adolfo e di Elvira Gatti. Si diplomò all’Istituto Commerciale di Lecce e poco dopo svolse il servizio militare da ufficiale di complemento dell’esercito. Quindi, iniziò a lavorare all’INPS di Brindisi, ma nel 1939 fu richiamato sotto alle armi con destinazione Coo, nel Dodecaneso. Nel 1942 Vincenzo e Fantasia Clio, la sua fidanzata rimasta a Brindisi, decisero di sposarsi e celebrarono il loro matrimonio nella chiesa del Monte di Brindisi il 23 marzo 1942. Presto nacquero due piccoli, i gemelli Giuliano e Franco, e Vincenzo corse subito a Brindisi in breve licenza per poterli conosce: fu l’unica volta che poté vederli ed abbracciarli. Nell’ottobre del 2012, a seguito del persistente interessamento del colonnello Pietro Giovanni Liuzzi, l’amministrazione comunale della città di Brindisi del sindaco Domenico Mennitti – supplendo, se pur solo in minima parte, al dovere tuttora inadempiuto dello Stato italiano – ha voluto ricordare ed onorare questo concittadino, l’eroico ufficiale Vincenzo Andrea Cappelli, dedicandogli il giardino sito in via Bastione San Giacomo in cui è affissa una stele commemorativa. É da auspicare che per il prossimo anno 2023, in occasione dell’ottantesimo anniversario dell’eccidio di Kos, anche a Brindisi si possa ufficialmente ed opportunamente ricordare l’eroico sacrificio del concittadino Vincenzo Andrea Cappelli.


Guerre d’altri tempi: così gli spagnoli riconquistarono Brindisi nel 1734 Ma

La cronaca degli eventi succedutisi in quei giorni lascia trapelare l’esistenza di consuetudini, princìpi e valori. Scenario: lo splendido castello di mare. di Gianfranco perri

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erto, son trascorsi quasi trecento anni e tanto basta perché le cose siano andate molto diversamente da come oggi verrebbe spontaneo immaginarsele. E certamente anche il contesto storico in cui si produsse quella guerra fu abbastanza peculiare, giacché si trattò di una vera e propria rivincita ed un ritorno, quello degli spagnoli nel regno di Napoli dopo 27 anni di occupazione austriaca. Eppure, la semplice cronaca degli eventi succedutisi a Brindisi durante quei poco più di 6 mesi del 1734 lascia trapelare l’esistenza di consuetudini, principi, e finanche valori – militari, ma anche civili – che in buona parte oggi avremmo difficoltà a considerare come elementi appartenenti alla nostra normalità. Ma per spiegare bene il tutto, niente di meglio che passare in rassegna – pur se necessariamente in maniera discontinua, adattata e riassunta – quella cronaca. Il relato più dettagliato – e comunque più interessante dal punto di vista che qui si vuol evidenziare perché redatto da un testimone oculare brindisino, il sacerdote Pietro Cagnes – di quanto accaduto in quei mesi a Brindisi lo si ritrova nelle pagine della “Cronaca dei Sindaci di Brindisi dal 1529 al 1787” di Cagnes e Scalese, nel cui manoscritto ben 43 pagine – dalla 171 alla 213 – raccontano i fatti in questione, che vanno dal 7 marzo al 4 ottobre del 1734: «A dì 7 marzo 1734 s’ebbe l’avviso a Brindisi che l’armata spagnola era entrata nel regno. Alcuni dicevano essere entrata in Napoli [in realtà gli Spagnoli vi entrarono il 12 aprile] da dove se n’era partito il viceré del governo austriaco conte Giulio Borromeo Visconti con tutti i ministri, e che generalissimo degli Spagnoli era l’infante Carlo di Borbone, figlio del secondo matrimonio di Filippo V re di Spagna con Elisabetta Farnese principessa di Parma e Piacenza... A dì 4 ottobre 1734 il castellano del forte di mare di Brindisi al servizio austriaco conte Matías de Acuña, partì sopra una tartana con sua moglie e servitù, con due ufficiali tedeschi e uno ussaro, secondo le capitolazioni convenute…»

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LE IMMAGINI A sinistra 'Tercio' spagnolo in batta-glia. Sopra Castello di mare - Matias Acuña castellano nel 1734. In basso Castello di terra - Francesco Duval castellano nel 1734. Però, per poter meglio giudicare i fatti e soprattutto le azioni e reazioni delle persone coinvolte, prima di proseguire con il racconto cronologico degli eventi è utile ricordare che l’effimera conquista austriaca del regno di Napoli del 1707 era durata solo 27 anni – di cui i primi 6, fino alla pace di Utrecht, non formalizzati – ed era seguita a quasi due secoli di vicereame spagnolo che avevano radicato – anche a Brindisi – tradizioni costumi lingua e finanche mentalità che erano in buona parte di fattura spagnola. Inoltre, una gran parte della struttura amministrativa del governo austriaco si era appoggiata direttamente sulle risorse umane locali – sia italiane e sia eventualmente anche spagnole, di quegli Spagnoli che avevano deciso di rimanere nel regno – disposte a collaborare con i nuovi governanti, e da questi furono ampiamente ricompensati e mantenuti come impiegati, funzionari, nobili, feudatari, eccetera. Una pratica che aveva interessato finanche i vari ranghi delle forze armate, come mostrato da quanto accadde a Brindisi all’arrivo dell’esercito austriaco – quella volta – in occasione della conquista austriaca della città alla Spagna: «A dì 4 giugno 1715 vennero di presidio in questa città 150 Tedeschi e 100 di loro andarono nel forte di mare e 50 passarono al castello di terra. Poi venne il generale tedesco Valles e andò nel castello e nel forte e sbarrò le piazze agli Spagnoli, però quelli che volevano servire l’Austria andassero al Montone in Napoli se vecchi e se giovani all’Ungheria. Discesero dal forte in questa città 700 anime e 100 in circa dal castello, mentre nessuno volle andare a servire. Poi però, a dì 24 luglio, venne un ordine nuovo e tutti gli artiglieri spagnoli con gli ufficiali furono reintegrati alle loro stesse piazze.» Ma tornando adesso alla riconquista spagnola di Brindisi del 1734, ecco in sintesi come andarono quei fatti: «…A dì 8 di marzo ritornò da Lecce il castellano del Forte di mare Acuña [o Achunas], quale era spagnolo, e portò lettera del signor vicario generale della provincia, conte della Cerra, ordinando che la città gli desse i cannoni, e il presente governo cittadino coglione, senza consultare il parlamento, gliene

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consegnò 10, e tutto Brindisi sparlò, e con ragione, del detto governo del sindaco Giacinto Perez. A dì 24 marzo venne ordine che i Tedeschi del castello di terra partissero per Barletta per unirsi coll’altre truppe alemanne e Francesco Duval [o Duvalles, castellano del castello di terra dal 1713] ottenne dal vicario generale della provincia di Lecce, conte della Cerra, che 21 soldati del battaglione della città facessero guardia al castello e che la paga la desse la città. A dì 22 aprile approdavano nel porto di Brindisi una nave, un pinco e quattro tartane e a dì 23 arrivarono altri quattro fragatoni con in totale due mila settanta due militari tedeschi, e il 24 – sabato santo – cominciarono a sbarcare e la città l’accomodò a tutte le case vacue palazzate con i loro magazzini e quelli fecero varie sfilate per le vie cittadine, alcune con musica e uniformi di gala. Detti soldati erano tutti giovani e bella gente, specialmente gli ufficiali, e fra questi era anche una compagnia veterana di militari spagnoli, catalani e portoghesi. A dì 28 aprile i soldati trasportarono tutti i restanti cannoni della città al castello di terra. A dì 7 maggio venne da Taranto in Brindisi il signor viceré Visconti, in pompa magna con tutta la corte e con la sua guardia – 150 granatieri e 600 tedeschi – e s’accomodò nel palazzo di monsignore Andrea Maddalena, e vi andava anche il signor viceré di Sicilia che s’accomodò in casa del signor Geronimo Montenegro. Giunse da Lecce il conte della Cerra e l’accomodarono in casa del signor Andrea Falces. A dì 10 l’eccellenza signor viceré andò a visitare il castello di terra e a dì 12 il forte di mare, andando in carrozza con quattro altre di seguito fino alla porta Reale, ove s’imbarcò sopra una feluca con ventiquattro remi, indorata ben adornata e coperta, fatta a simmetria di galera, tutta intagliata e indorata. A dì 13 il viceré assistette al Te Deum dell’arcivescovo nella Cattedrale e poi diede un lauto pranzo al viceré di Sicilia, ministri, castellani, governatore, monsignore e sindaco della città. A dì 14 cominciarono a partire per Barletta tutti i soldati tedeschi e il 15 partì per Bari il viceré con tutta la sua corte, collaterale e ministri. A dì 25 maggio comparvero due navi spagnole e una, avvicinatasi presso l’ultima isola Pedagna, sparò una cannonata e dopo passata una mezz’ora, bordeggiando il forte tirò una cannonata dentro il porto. A dì 26 una delle sopraddette navi s’avvicinò al


LE IMMAGINI Sopra Forte di mare - Matias Acuña castel-lano nel 1734. Sotto un 'Tercio' spagnolo in battaglia.

forte e tirò cinque cannonate, e subito s’allontanò verso la torre del Cavallo. La notte medesima un battello delle dette navi andò circondando il Forte, che gli tirò due cannonate e alcune schioppettate, e ciò fu a ore 6 della notte. Dopo apparvero altre due navi e il sopraguardia delle marina, Giuseppe Allevi, richiese alla città 50 uomini armati, affinché sorvegliassero dove pareva volessero far disbarco gli Spa-gnoli. Alcuni della città, specialmente il primo eletto Stanislao Monticelli, erano di parere che si dovessero mandare quegli uomini armati pa-gandoli i cittadini e alcuni altri erano contrari, sostenendo che fosse meglio “la città starsene quieta e non mostrarsi contraria, ma chi era più potente e restava vincitore, a quello si dovesse obbedire, non sapendosi il risultato di detta guerra”. E detta opinione fu quella infine ab-bracciata. A dì 27 maggio giunse a Brindisi di ritorno da Bari il reverendo Nicola Scalese, e portò la nuova della disfatta dell’esercito tedesco per mano di quello spagnolo sotto Bitonto il 25 di detto mese, e che dei Tedeschi, parte si rifugiarono in Bari, parte in Bitonto e altri per le campagne, mentre il signor viceré se n’era partito via mare, con tutti i ministri, il vicario generale della provincia e il viceré di Sicilia. In detto stesso giorno in Lecce intonarono il Te Deum per gli Spagnoli, che in 80 soldati e alcuni capitani erano sbarcati in San Cataldo e avevano eletto preside interino della provincia di Terra d’Otranto Nicola Palatino, che indisse i festeggiamenti. E i festeggiamenti ci furono: praticamente con uguale enfasi di quelli che qualche decina d’anni prima c’erano stati quando – quella volta, invece – erano stati gli Spagnoli ad essere stati scacciati dai Tedeschi. A dì 29, il proclamato preside di Terra d’Otranto emise da Lecce un ordine circolare chiedendo si acclamasse Filippo V re, ma a Brindisi quell’ordine fu respinto. Da Bari invece, giunse alla città una lettera compitissima del generale José Carrillo de Albornoz conte di Montemar comandante dell’armata spagnola, senza minima particola di comando e senza ancor motivar acclamazione o resa della città, ma solamente chiedendo di fare recapitare una lettera al comandante delle navi di guerra spagnole che da più giorni stavano bordeggiando il porto, e un’altra lettera al castellano di mare dicendoli se voleva tenere i due castelli in nome di Filippo V mentre era quasi tutto il regno conquistato, o capitolare col comandante delle navi spagnole, con tutto il suo onore. La città fece recapitare le lettere e rispose al generale con una bellissima lettera, fatta di consiglio maturo avanti monsignore nel suo palazzo. Anche il castellano di mare Acuña rispose al generale, dicendo di non poter accettare quanto offertogli, essendo il forte di Brindisi una piazza giurata all’imperatore al cui servizio lui stesso era da ventiquattro anni e che l’avrebbe difesa anche spargendo il proprio sangue. Al dì 31 maggio le quattro navi spagnole pigliarono il camino verso Bari e non si videro più,

ma a dì 7 giugno una nave delle sopraddette fu a vista di questo porto con due tartane e andò a gettare l’ancora sopra le saline, e alle due ore di notte in circa, venne in città un cavallaro portando la notizia che gli Spagnoli erano sbarcati a terra e che al mattino due ufficiali erano andati a Lecce. Al giorno seguente, il 9 giugno, un battello della nave spagnola che ancora dimorava alle saline, andò con tamburo e ban-

il7 MAGAZINE 30 21 ottobre 2022

diera bianca sotto il forte di mare dicendo di voler parlare, ma gli fu risposto che il castellano non voleva parlare con i nemici del suo imperatore. Poi, lo stesso giorno, il comandante spagnolo mandò una lettera al sindaco di Brindisi chiedendo dieci carrette per trasportare acqua alla sua nave e alle due tartane, e gli furono mandate. In detto giorno, dopo due mesi di sospensione del servizio, s’ebbero a Brindisi le lettere da Napoli e con quelle s’ebbe l’avviso delle feste fatte in Napoli e nel regno, acclamando per re di Napoli l’infante Carlo di Borbone. Del resto, in tutta la provincia di Lecce, come in quella di Bari, si erano fatte le feste e solamente Brindisi si manteneva a devozione dell’imperatore. Al dì 30 giugno si videro giungere cento militari spagnoli, che uniti con quelli già presenti in città posero la guardia alla porta Reale, alla croce del castello di terra e alle torrette, per impedire ai Tedeschi trincerati nelle due fortezze, di terra e di mare, di entrare in città a pigliare dei viveri. Ed il giorno dopo giunsero da Mesagne, San Vito, Ostuni e Carovigno altri soldati a cavallo per cordonare fiume piccolo, fiume grande, la masseria di Pascale Biasi e tutta la marina di San Leonardo – Materdomini – affinché i Tedeschi del forte non facessero qualche disbarco. Il giorno 4 di luglio il signor conte di Alessano, nominato vicario generale della provincia di Lecce, mandò tre lettere: una al sindaco Giacinto Perez ove lo destinava castellano interino del castello di terra, altra a Andrea Falces per castellano interino della fortezza di mare e l’altra al signor giudice dandogli facoltà di dare qualsiasi ordine ai comuni vicini per ciò che abbisognava per l’espugnazione dei due castelli di Brindisi. E il lunedì 5 luglio alle ore 11, dalla trincera che


il comandante spagnolo di Brindisi [il tenente colonnello Pedro Casanova] aveva fatto scavare nel giardino a mano destra dopo uscito dalla porta Mesagne, si videro quattro cannoni di ferro di nave cominciare a tirare al vicino castello di terra con gli Spagnoli che tiravano primieramente allo stendardo imperiale. “E furono viste da me scrittore, sei scaricate spagnole al detto stendardo, ma tutte in vano ed alte, così parimenti quelle dal castello andavano alte, ed io stavo con più persone sopra detta porta Mesagne e pareva una burla d’ambe le parti, come in effetto era, e durò fino alle ore 14; ma dato che si riconosceva da tutti la finzione, cominciarono a tirare a colpire il castello, ma ora tiravano ad una parte e ora tiravano ad un’altra. Il danno che facevano era come quando si desse con una accetta, facendo solamente il segno, ma non penetravano i muri, e quelli del castello tiravano tutti alti, e durò tutto il giorno. La notte poi rimasero quieti e la mattina il castello si vide senza lo stendardo imperiale e non si tirarono più. Verso mezzogiorno fecero l’atto della capitolazione: il castellano Francesco Duval sarebbe uscito libero con il suo bagaglio coperto, l’aiutante, il bombista e gli artiglieri che erano brindisini, assieme con un sergente tedesco con la sua spada e la schioppetta, il quale se ne sarebbe andato a Barletta per sposare la zitella a cui aveva dato parola di sposarla. Ad ore 21 in circa di quel 5 luglio 1734, andarono gli Spagnoli col tamburo battente ed entrarono dentro il castello e dopo uscito il castellano inalberarono lo stendardo di Spagna, che fu salutato dai quattro cannoni della trincera e poi da tutti i cannoni del castello. E questa fu la difesa di detto castello e li medesimi artiglieri dicevano, dopo usciti, che l’ordine che avevano avuto dal briccone del castellano era di tirare contro gli Spagnoli senza offendere, benché detto castellano s’avesse fatto fare un attestato da detti artiglieri, che essi stavano ammalati e che lui non si poteva difendere con solo aversi pigliato i viveri per tre mesi e i cannoni della città”. Tutti i soldati spagnoli che stavano acquartierati nel seminario passarono al castello, restando prigioniero di guerra tutto il presidio tedesco, con la riserva di chi voleva pigliare partito per Spagna, e molti pigliarono partito. A dì 14 luglio venne una nave di guerra francese e approdò vicino la nave di guerra spagnola dietro la torre Penna e portò l’avviso che in Taranto dimorava il principe d’Orleans, generale di sette galere e tre navi da guerra per l’espugnazione del forte di mare. A dì 18 vennero da Bari 180 granatieri per essere imbarcati sulla nave francese verso Taranto: una cinquantina di loro e tutti gli ufficiali erano francesi e gli altri erano italiani e tedeschi che avevano pigliato partito, e alcuni erano fiamminghi.

A dì 19 partì per Napoli la nave di guerra spagnola, restando al castello di terra un capitano con 50 soldati Spagnoli e 80 ammalati e via terra partirono scortati da soldati spagnoli a cavallo 60 prigionieri tedeschi diretti a Bari e a Napoli. Nel mentre, il forte di mare continuava a resistere l’assedio senza arrendersi. A dì 20 di luglio il castellano di mare pigliò una barca di pera d’Otranto, che veniva a venderle a Brindisi e poi ne prese un’altra che da Bari andava a Leuca portando riso e copeta. A dì 8 agosto capitò in porto un petacchio con bandiera inglese, e tutto il giorno e la notte scaricò viveri nel regio forte di mare, mentre il comandante dei granatieri spagnoli fremeva senza poter intervenire per impedirlo. A dì 16 agosto vennero da Pescara tre navi da guerra spagnole e un petacchio napoletano, e la sera il comandante di dette navi mandò sotto il forte un battello con un’ambasciata per il castellano Acuña. Il giorno dopo venne al molo della città la feluca del forte con bandiera bianca e sbarcò un ufficiale tedesco che con il tenente spagnolo che era di guardia a porta Reale andò a casa del comandante dei granatieri spagnoli e poi il tedesco e il comandante spagnolo andarono a cavallo alle saline, dove stavano le navi spagnole e parlarono con il comandante delle dette fino alle ore 23. Però non s’accordarono e la mattina dopo le navi spagnole salparono. Il 21 agosto verso le ore 14 il forte di mare tirò due cannonate alla città e la palla di una diede alla Cattedrale dietro la cappella di San Andre. Poi arrivarono da Bari due feluconi che furono armati con granatieri e giannizzeri di Brindisi per impedire ai Tedeschi di uscire dal forte per depredare e che barche andassero di notte a rifornire il forte. A dì 22 venne di nuovo al molo della città la feluca del forte per chiedere di poter inviare un messaggio da parte del castellano di mare al generale spagnolo Montemar che era in Napoli, e gli fu concesso a condizione che la lettera prima fosse letta dal comandante spagnolo dei granatieri di Brindisi. E così s’accordò. A dì 10 settembre il regio forte di Brindisi, essendo stato serrato tre mesi, per mancanza di viveri e accordato i termini, capitolò e a dì 11 entrarono nel forte 30 granatieri spagnoli fino al dì 15, giorno di mercoledì alle ore 22 in circa, quando, dopo usciti liberi il castellano e tutti gli ufficiali, con i soldati prigionieri di guerra andati al regio castello di terra, s’inalberò lo stendardo di Spagna e la città fece sparare più di un centinaio di mortaretti. Seguirono cinque giorni di solenni cerimonie e grandi festeggiamenti delle autorità cittadine e di tutto il popolo. Allo stesso modo di quando, solo pochi anni prima, erano stati gli Spagnoli ad essere stati battuti dai Tedeschi. A dì 21 settembre il tenente colonnello comandante dei granatieri spagnoli partì con i suoi soldati e loro ufficiali, restandone 70 al forte di mare e 40 al castello di terra, e in più 20 giannizzeri al forte e 13 al castello i quali pretesero essere pagati allo stesso modo che i soldati “altrimenti non avrebbero servito la Spagna gratis, come per tre mesi l’avevano servita”. A dì 4 ottobre 1734 il castellano del forte di mare conte Matias de Acuña, ad ore 3 della notte partì verso Bari sopra una tartana, con sua moglie e servitù, con due ufficiali tedeschi e uno ussaro, similmente il capitano tedesco con due altri ufficiali tedeschi e il tenente degli ussari con due altri ussari. E in Bari trovarono i loro passaporti inviati dal generale Montemar, il tutto rigorosamente secondo le capitolazioni che su 19 punti erano state concordate tra il castellano e il comandante spagnolo di Brindisi, tenente colonnello Pedro Casanova.» Che dire dunque? Ognuno potrà farsi un’idea propria e magari giudicare i fatti e le persone in base a quell’idea. Quello che comunque sembra richiamare di più l’attenzione, è quell’apparente naturalità con cui i militari – o quanto meno una cospicua parte di loro, indistintamente fossero brindisini, napoletani, spagnoli, tedeschi, eccetera – potevano decidere di passare dal servire, cioè combattere, per una bandiera, o un re, o un paese, a farlo per un’altra bandiera, o un altro re, o un altro paese, magari appartenente a chi fino al giorno prima avevano combattuto. In “quel viceregno di Napoli” del resto, per i cittadini e in genere per i civili di qualsiasi rango sociale, sembrerebbe che non importassero troppo i colori delle bandiere al governo e delle uniformi dei rispettivi militari: quei capovolgimenti sul trono di Napoli, pur se apparentemente drastici nonché violenti, venivano vissuti quasi – semplificando ed esagerando un po’ – come un brusco avvicendamento tra opposti partiti al governo del regno. Si festeggiavano e si applaudivano sempre i vincitori di turno nella speranza, o nell’illusione, che con i nuovi le cose potessero andar meglio che con i vecchi… quanto meno dal punto di vista personale. Poi, e per fortuna, anche per il regno di Napoli, i tempi, le cose, i valori e altro, sarebbero cambiati.

il7 MAGAZINE 31 21 ottobre 2022


Ottant’anni fa morì in Libia il tenente pilota CARAVAGGIO eroe brindisino

Ma

L’ufficiale della Regia Aeronautica aveva solo 24 anni quando perse la vita durante le operazioni nel Nordafrica Insignito della Medaglia d’argento di Gianfranco perri

n questi giorni ricorre l’anniversario 80 della morte di Antonio – Antonuccio – Caravaggio, giovane brindisino, ufficiale pilota della Regia Aeronautica, pluridecorato, caduto in combattimento a soli 24 anni l’8 novembre del 1942 sul fronte libico-egiziano della Seconda guerra mondiale. Antonuccio lasciò a Brindisi la giovane moglie veneta, Palmina Meo in attesa di Piero, che non avrebbe conosciuto il suo “padre Eroe”, cui non avrebbe mai tralasciato un solo giorno di pensare ed onorare. Antonio Caravaggio, un concittadino di cui andare fieri, un giovane che sacrificò la propria vita servendo il suo – il nostro – Paese, con l’entusiasmo, la destrezza e il coraggio propri di quegli eroi che tutti dovremmo onorare e, con orgoglio, mai dimenticare. Iniziando quel tragico novembre del ’42, in Nordafrica le forze dell’8a Armata britannica comandate dal generale Bernard Montgomery, dopo mesi di cruenti combattimenti avevano sconfitto le forze dell’Asse comandate dal generale Erwin Rommel nella battaglia di El Alamein, in Egitto vicino al confine libico dove, malgrado la povertà degli armamenti e la soverchiante superiorità militare britannica, i soldati italiani della Folgore avevano scritto una delle pagine di guerra più eroiche della loro storia, arrendendosi solo il 6 novembre senza aver mai alzato la bandiera bianca agli inglesi e ricevendo da quei potenti nemici l’onore delle armi. Anche per l’italiana Regia Aeronautica di base a Tobruk in Libia, la situazione era divenuta specialmente drammatica e il giorno 7 novembre, in concomitanza col ripiegamento delle forze dell’Asse dal Fronte egiziano, il Tenente pilota Antonio Caravaggio e l’Aviere scelto Autiere Benicchio Battista, appartenenti entrambi al 101° Gruppo, furono inviati in missione speciale dal loro comandante, per poter recuperare un

I

il7 MAGAZINE 28 4 novembre 2022


LE IMMAGINI A sinistra il Sottotenente Pilota Antonio Caravaggio in Nordafrca, qui sopra il suo medagliere militare, più in basso un 'Picchiatello' Junkers JU87 della 208esima Squadriglia

indispensabile materiale aeronautico che era stato depositato in prossimità del golfo Sollum, per cui partirono d’immediato con un automezzo SPA33, guidato dall’aviere. Durante il viaggio l’automezzo venne intercettato da aerei britannici e, ripetutamente colpito da mitragliamenti, prese fuoco. Dei due militari italiani non si ebbero più notizie certe e furono pertanto dichiarati “dispersi” nella speranza che fossero caduti prigionieri del nemico. Purtroppo, i seguenti accertamenti svelarono che entrambi i due aviatori erano periti: ritrovati gravemente feriti in prossimità del loro automezzo distrutto, erano stati trasportati all’Ospedale da Campo 469 P.M.220, dislocato presso El Adem, l’ultimo aeroporto italiano nel golfo di Sollum, dove giunsero senza vita, e l’8 novembre 1942 le salme vennero tumulate nel Cimitero di guerra di Bardia Alta, in Sollum, Tobruk, Cirenaica, Libia, zona confinaria con l’Egitto. Al giovane pilota brindisino così scomparso in guerra, Sottotenente Antonio Caravaggio fu poi conferita – con Decreto del Capo Provvisorio dello Stato del 5 maggio 1948 – la Medaglia d’Argento al Valor Militare alla Memoria, con la motivazione seguente: «Provato e capace pilota, si distingueva per coraggio ed ardimento in un nuovo ciclo operativo portando la sua precisa offesa, con volo a tuffo, su munite basi nemiche. Nel corso di una violenta battaglia, nel tentativo di condurre a termine una missione in terra, veniva colpito a morte da mitragliamento aereo.” Cielo dell’Egitto, 1° luglio - 8 Novembre del 1942». La sua salma oggi riposa onorata in Bari

presso il Sacrario Militare dei Caduti d’Oltremare, dove fu traslata già finita la guerra. Purtroppo, quel traslato in Italia dalla Cirenaica dei resti dell’eroe Caravaggio non poté essere presenziato dalla signora Palma Mea, sua vedova, a causa di una serie di imperdonabili disguidi – tumulato nel settore esercito anziché aeronautica, con il nome Antonino anziché Antonio o Antonuccio – che ne ritardarono l’esatta ubicazione nel Sacrario. Però, grazie alla perseveranza del figlio Piero, supportato nella ricerca da due encomiabili ufficiali, finalmente il sepolcro fu rintracciato e correttamente identificato. Antonio Caravaggio era nato a Brindisi in via Cesare Braico il 24 aprile 1918, dal padre Pietro lavoratore della SACA di origini abruzzesi e da Esterina Antonucci. Dopo le elementari alla scuola Perasso e le medie alla Virgilio, si iscrisse all’Istituto Tecnico Commerciale dove puntualmente si diplomò. Attratto dall’aviazione e impulsato dal suo coraggioso entusiasmo giovanile, il 12 febbraio del 1937, non avendo ancora compiti i suoi 19 anni, gli riuscì di arruolarsi nella Regia Aeronautica, come Allievo Ufficiale Pilota, con Matricola N. 3043. Fu destinato al Regio Aeroporto Puntisella di Pola, in Istria, dove prestò il giuramento di rigore al re d’Italia. Quindi, frequentò la Scuola di Pilotaggio di Pescara e poi quella di Malpensa e finalmente, nel 1938, conseguì il tanto sospirato ‘Brevetto di Pilota Militare’ su CR 20 e quindi, la nomina a Sottotenente di Complemento ricevendo come prima destinazione il 5° Stormo d’Assalto di base a Ciampino Sud. Tra il 1938 e il 1939 il Sottotenente pilota Caravaggio fu ‘inviato come volontario’ a combattere in Spagna, dove la guerra civile volgeva al termine, prendendo parte alle azioni dell’Aviazione Legionaria

il7 MAGAZINE 29 4 novembre 2022


LE IMMAGINI Il Tenente Pilota Antonio Caravaggio Medaglia d'Argento al Valor Militare alla Memoria, sotto due Junkers JU87: i 'Picchiatelli' della 208a Squadriglia

con la 208a Squadriglia da Bombardamento a tuffo e con la 65a Squadriglia d’Assalto. In tutte le azioni cui prese parte, Caravaggio diede prova d’essere un pilota molto abile, tanto che di ritorno dalla Spagna gli fu conferita la Croce al Merito di Guerra e tanto che, completato il periodo del suo servizio militare obbligatorio, ‘per esigenze militari di carattere eccezionale’ venne trattenuto in servizio d’autorità a tempo indeterminato. In seguito, in occasione delle Grandi manovre aeree corrispondenti all’Anno 1940 (XVII), Antonio ricevette un ‘Encomio Solenne’ per la brillante attività eseguita pilotando i nuovi velivoli BA88. E agli inizi di quello stesso anno ricevette la prestigiosa Spilla d’oro – a forma di paracadutino – di Pilota Collaudatore, a seguito di un incidente di volo accorsogli in servizio, cadendo nel Po a Torino, con conseguente frattura di una gamba. Il 10 giugno del 1940 l’Italia, alleandosi alla Germania, dichiarò guerra alla Francia e alla Gran Bretagna. E, addestratosi al tiro in picchiata, Caravaggio venne assegnato al 101° Gruppo Autonomo Bombardamento, dove svolse l’incarico di Aiutante di volo del Comandante e quindi, partecipò come pilota Capo Squadriglia alle operazioni dell’aviazione contro la Francia, la Grecia e la Jugoslavia, meritando – giugno 1940 – una prima Medaglia di Bronzo al Valor Militare. Partecipò in seguito ad altre numerose operazioni sul Mar Mediterraneo e in Africa Settentrionale, meritando per quelle – nel novembre 1941 – anche una seconda Medaglia di Bronzo. Nel prosieguo della guerra, dopo aver prestato servizio presso il Regio Aeroporto di Gerbini in Sicilia, nel 1942 Caravaggio venne trasferito, a domanda, in Libia per operare con la 208a Squadriglia – degli aerei Picchiatelli, JU87, gli Stukas Junker 87 – con base presso il Regio Aeroporto di Abar Nimeir in Egitto. Poi, in quello stesso anno, la guerra avrebbe precipitato le intere forze armate italiane di stanza in Africa verso un rovinoso epilogo. Antonio Caravaggio fu indubbiamente un pilota veramente in gamba e, nella sua pur breve – troppo breve – carriera alata, si distinse in più occasioni per le sue elevate qualità di aviatore attento e coraggioso, tanto che a conferma del lusinghiero giudizio che su di lui era stato espresso ancor prima dell’entrata dell’Italia in guerra, con decretazione del 14 novembre 1941 era stato incorporato ‘per merito straordinario’ nel Servizio Militare Permanente Effettivo. Sul suo libretto caratteristico di volo, già per allora, tra molto altro si poteva leggere: «Pilota abile e gregario preciso e sicuro, mostrava le sue doti di equilibrio e calma in occasione di un incidente di volo – costretto al lancio con paracadute dopo collisione con altro aereo pilotato da pilota con scarsa esperienza – ed in altro evento in cui atterrava su di un solo carrello». Un eroe brindisino che, pur se certamente non

il7 MAGAZINE 30 4 novembre 2022

dimenticato, credo non sia stato ancora sufficientemente onorato dalla sua città. Un anno fa, nell’anniversario 79 della sua tragica morte, Antonuccio Caravaggio fu commemorato con una emotiva cerimonia che, organizzata da Assoarma, si tenne nella Cripta del Monumento al Marinaio nel contesto del “Dialogo con la Memoria”. Nella cerimonia presieduta dal Capitano di Fregata Claudio Mazzola, Giancarlo Sacrestano presentò la relazione sto-

rica, il cappellano militare Don Sergio Vergari officiò il rito religioso e il Generale Pilota Vitantonio Laterza lesse la preghiera dell’aviatore. In quell’occasione furono espressi gli auspici affinché Brindisi, la città natale di Antonuccio Caravaio, diventasse luogo perché una corona di alloro potesse essere collocata, con nobiltà e dignità, ai piedi di una targa in suo perenne ricordo. Lo speriamo fervidamente.



GOFFREDO E TANCREDI, I DUE CONTI NORMANNI A BRINDISI La città, superata la plurisecolare appartenenza ai bizantini, tra il 1000 e il 1100 divenne feudale. Due furono i grandi conti normanni che signoreggiarono di Gianfranco perri ompiutasi la conquista normanna della Terra d’Otranto e cacciati definitivamente i Greci-Bizantini, accanto alla contea di Mottola e Castellaneta e confinante col principato di Taranto e colla contea di Lecce, sorse anche la contea di Brindisi e Nardò, ch’ebbe notevole importanza e che fece parte della grande contea di Conversano.» [“I conti normanni di Nardò e di Brindisi” di G. Guerrieri, 1901] Il normanno Roberto d’Altavilla – il Guiscardo, figlio di Tancredi di Hauteville e di Fresenda, quarto duca di Puglia succeduto nel 1057 alla morte in sequenza dei suoi tre fratelli, Guglielmo, Drogone e Umfredo, che lo avevano preceduto con quel titolo – nel sinodo di Melfi del 1059 si dichiarò vassallo del papa Niccolò II in cambio dell’intitolazione del granducato di Puglia e Calabria, regioni allora ancora parzialmente sotto l’area d’influenza bizantina che includeva anche Brindisi. Nel maggio del 1060 il duca Roberto il Guiscardo, profittando di un momento di debolezza dei presidi bizantini, occupò Brindisi, ma in ottobre il miriarcha bizantino riconquistò temporalmente la città per poi, nel 1062 riperderla. Poi, nel 1067 una flotta imperiale bizantina al comando di Michael Maurikas, catapano d’Italia, riconquistò il controllo della rada di Brindisi e nel 1069 difese con successo la città da un nuovo attacco normanno del Guiscardo condotto sia da terra che da mare. Maurikas quindi, pose la città sotto il comando di Niceforo Carantenos, generale bizantino duca di Skopje. Questi, carente delle forze necessarie a sostenere a lungo i continui attacchi del Guiscardo, progettò un inganno nel quale caddero circa cento tra guerrieri e scudieri normanni che restarono uccisi miseramente e le loro teste tagliate furono inviate a Costantinopoli per essere offerte in trofeo all’imperatore Romano IV. L’inganno però, solo sarebbe servito a ritardare di qualche mese la definitiva conquista normanna di Brindisi, che avverrà tra 1070 e 1071 sempre ad opera del Guiscardo, coadiuvato dal fratello Rug-

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gero e dal nipote Goffredo d’Altavilla, figlio di un fratellastro, Goffredo. Secondo altri autori, invece, Goffredo sarebbe stato nipote del Guiscardo perché figlio di una sua sorella, Beatrice. Brindisi quindi, superata ormai la plurisecolare appartenenza bizantina, divenne città feudale, infeudata dal granduca Roberto il Guiscardo al conte Goffredo. In quello stato feudale Brindisi sarebbe rimasta fino al 1132,

il7 MAGAZINE 28 18 novembre 2022


LE IMMAGINI In alto cavalieri normanni nel 1066, qui sopra i Normanni per mare e a destra lo Stemma del Conte Goffredo Altavilla posizionato a sinistra sul campanile della Chiesa e Monastero di San Benedetto

quando la città divenne demaniale per decisione di Ruggero II d’Altavilla, figlio del sopra citato Ruggero fratello del Guiscardo e re del novello Regno di Sicilia, che la sottrasse alla signoria del conte Tancredi, succeduto a suo padre Goffredo dopo alcuni anni di reggenza della madre Sichelgaida. Due furono quindi i conti normanni di Brindisi: Goffredo e Tancredi d’Altavilla, i quali signoreggiarono la città per circa sessant’anni, dalla conquista normanna del 1701 all’incorporazione al demanio del 1132, intercalati dagli anni intercorsi tra la morte di Goffredo, circa il 1104, e – forse – quella di Sichelgaita, durante i quali fu costei che, di fatto, esercitò la signoria del feudo brindisino. Goffredo fu vassallo, prima del duca Roberto il Guiscardo e poi – dalla morte di questi nel 1085 – del suo primogenito Boemondo, divenuto principe di Taranto. Tancredi fu vassallo, prima di Boemondo II – dalla morte di Boemondo nel 1111 – e poi, dal 1127, di Ruggero II, al quale in quell’anno Boemondo II aveva ceduto i diritti sul principato di Taranto. Di Goffredo, personaggio di indubbio spessore militare e politico, non si conoscono con esattezza né le origini, né le gesta e le vicissitudini previe alla sua comparsa sullo scenario militare brindisino al fianco dei conquistatori normanni, i fratelli Roberto e Ruggero d’Altavilla, suoi zii. Dato per certo che il padre – o la madre – fosse figlio del capostipite Tancredi di Hauteville e della prima moglie di quello, Muriella sorella di Fresenda, e data per certa l’ascendenza longobarda della moglie Sichelgaita, è probabile che dalla Normandia sia giunto in Puglia dopo una tappa nel meridione italiano al servizio della corte longobarda di Salerno, dove sarebbe giunto ai primi del 1047 al seguito dello zio, Roberto il Guiscardo. Si sa anche che ebbe per fratello maggiore Roberto conte di Montescaglioso e che ebbe almeno tre figli: Roberto, Alessandro e Tancredi, e una figlia, Sibilla. Abbastanza certo è invece, che Goffredo d’Altavilla, conte di Conversano, Brindisi, Nardò, Monopoli, eccetera, non sempre riconobbe l’autorità del potente zio né quella del cugino Boemondo che al Guiscardo era succeduto quando gli fu intitolato il principato di Taranto, cui anche Brindisi apparteneva. Anzi, frequentemente si mostrò loro

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ribelle e soggetto, almeno di nome, alla sovranità di Michael, Niceforo e Alessio Commeno, imperatori di Costantinopoli, riferendo i quali più d’una volta intitolò gli atti delle sue tante donazioni. Ad esempio, nel 1086, Goffridus inclitus dominator civitati Monopolis fece porre innanzi a un suo diploma: Anno V dom. Alexio Imp. Goffredo fu uno dei principali capi della rivolta divampata nel 1064 allorché il Guiscardo era in Sicilia e lui, col fratello Roberto di Montescaglioso, con Amico di Giovinazzo e con Agelardo, congiurò contro lo zio conducendo trattative tra i conti normanni ribelli e il catapano bizantino Abulcare finché, nel 1068 con la caduta di Montepeloso, la rivolta fu sedata e Goffredo venne perdonato dal potente zio. Nel 1078 però, Goffredo aderì a una nuova rivolta contro il Guiscardo impegnato in Calabria e questi, quando fra il 1079 e il 1080 ridusse all’obbedienza tutte le città sollevatesi, nuovamente perdonò il nipote ribelle. Tutto ciò non impedì tuttavia a Goffredo, mentre nel 1082 il duca era impegnato in Oriente contro Bisanzio, a invaderne le terre cingendo d’assedio, pur senza esito, Oria. Ne seguì un nuovo riavvicinamento, tant’è che nel 1084 Goffredo s’imbarcò a Brindisi al seguito del Guiscardo per la nuova campagna alla conquista di Costantinopoli e così, il 17 luglio del 1085, a Cefalonia, si trovò presente anche lui intorno al letto di morte del grande condottiero Roberto. Da signore di Brindisi, Goffredo si adoperò insistentemente perché il titolo arcivescovile ritornasse nell’antica sede brindisina e nel 1089, in occasione del sinodo di Melfi, il conte normanno ottenne che il papa Urbano II si recasse nella città pugliese di cui era dominator per consacrarvi il perimetro della nuova cattedrale e per sancire il definitivo rientro dei presuli dalla sede oritana a quella originale di Brindisi. Nel febbraio del 1097 Goffredo, comes di Brindisi, donò all’abadessa del monastero di Santa Maria Veterana, divenuto poi monastero di San Benedetto e sito nella parte antica della città, il casale di Tuturano con le due chiese dei Santi Cosma e Damiano e di San Eustachio, e tutti i beni annessi. Nell’agosto del 1100, Goffredo e la moglie Sichelgaita concessero alla chiesa di San Leucio e all’arcivescovo Balduino tutte le chiese della parrocchia dipendenti


LE IMMAGINI I fratelli Roberto il Guiscardo e Ruggiero d'Altavilla in una stampa di Lemercier del primo '800 da Santa Maria Veterana e da San Andrea dell’isola, con molti altri beni, diritti e privilegi. Nel 1102, in circostanze non del tutto chiare, Goffredo pare che abbia favorito lo sbarco a Brindisi di truppe ungheresi e veneziane mentre suo cugino Boemondo, il principe di Taranto di cui era divenuto vassallo dopo la morte del Guiscardo, era ancora in Oriente prigioniero dei Turchi. [“1102 Quando la normanna Brindisi fu occupata dagli Ungheresi” di G. Perri - il7 MAGAZINE del 12 agosto 2022]. Alla morte di Goffredo, presumibilmente sopravvenuta nel 1104 – anno della sua ultima donazione al monastero di Nardò – o poco dopo, Brindisi passò ad essere infeudata al figlio Tancredi, sotto la tutela della madre che assunse la reggenza della signoria. Con un diploma del 19 aprile 1107 Sichelgaita, infatti, quale Goffredi comitis venerande memorie quondam uxor e signora di Brindisi, insieme al conte Tancredi suo figlio, effettuò una nuova e più ampia concessione a favore del monastero di Santa Maria Veterana: oltre al casale di Tuturano con tutte le persone ivi dimoranti, il casale di Valerano, quello di Fenestrito, alcune saline, molti beni rustici vicini alla città ed altri terreni compresi nel territorio dell’ampia contea brindisina. Anche di Tancredi, il secondo conte normanno di Brindisi – nonché figlio minore del primo – si conoscono dati e fatti non sempre precisi, e comunque episodici. Ancora minorenne alla morte del padre – dovrebbe essere nato intorno al 1090 – assunse la signoria solo dopo la reggenza della madre Sichelgaita che deve esser durata almeno fino a dopo il 1111, anno della morte dei due fratelli, Ruggero Borsa duca di Puglia e Calabria al quale succedette il figlio Guglielmo e Boemondo principe di Taranto e di Antiochia al quale succedette il piccolo figlio Boemondo II sotto la reggenza della madre Costanza, figlia del re di Francia Filippo I. Tancredi divenne così vassallo del principe di Taranto Boemondo II finché questi, radicatosi nel suo principato di Antiochia fondato dal padre, nel 1127 cedette i diritti del principato di Taranto a Ruggero II – il secondo conte di Sicilia, divento in quello stesso anno 1127 titolare anche del ducato di Puglia e Calabria in seguito alla morte prematura del duca Guglielmo – del quale pertanto Tancredi divenne, e per partita doppia, formale vassallo. Anche il rapporto di Tancredi con la propria famiglia non fu sempre pacifico e in un primo periodo fu segnato da un’evidente ostilità nei confronti del fratello maggiore Alessandro – l’altro fratello Roberto era già morto – contro il quale nel 1116, all’epoca conte di Conversano, centro originario e nevralgico del dominio familiare, organizzò una spedizione nell’area al confine fra le attuali Puglia e Basilicata, insieme con Costanza, vedova di Boemondo e reggente del principato di Taranto per il figlio Boemondo II. La fama di Tancredi però, si deve soprattutto al ruolo di primo piano da lui svolto nell’opposizione al cugino di suo padre, Ruggero II conte di Sicilia, nel 1127 conte di Puglia e Calabria, e nel 1130 primo re di Sicilia. Contro le pretese del nuovo duca di Puglia e Calabria Ruggero II, e inizialmente sostenuti e aizzati dal papa Onorio II, si furono sollevando numerosi conti normanni

gelosi dei loro privilegi, di fatto quasi sempre ereditari, messi a repentaglio dal nuovo ambizioso duca d’Altavilla. E tra quei conti ribelli – Goffredo d’Andria, Grimoaldo di Bari, Roberto di Capua, Ruggero di Ariano, Rainulfo d’Alife – vi era anche Tancredi, il conte di Conversano signore di Brindisi. Ruggero II però, finì con l’aver ragione sulla coalizione ribelle e costrinse il papa Onorio II a riconoscere, con il negoziato del 22 agosto 1128, tutte le sue pretese intestazioni territoriali. Ruggero II infatti, ridusse uno ad uno tutti i baroni insorti e sottomise le loro città, Brindisi inclusa, che alla fine capitolò per fame dopo un prolungato e rigido assedio impostogli da terra e da mare durante la primavera di quel 1128. Tancredi in quell’occasione, dopo aver ceduto all’assedio fu in certa misura perdonato dal cugino Ruggero II e fu da questi lasciato nominalmente a governare Brindisi, senza che in realtà avesse sinceramente rinunciato a congiurare per l’autonomia della sua contea dal granducato di Puglia e Calabria e nonché dal principato di Taranto. Ma il duca, nella primavera del 1129 ritornò in Puglia e a giugno ripose, senza però portarlo a termine, l’assedio a Brindisi, salvo poco dopo, a settembre, fatta una pace effimera nelle assise di Melfi, riuscire ad imporre a Tancredi la presenza “a difesa della città” di un contingente di milizie ducali. In un diploma dell’aprile del 1130, Tancredi di Conversano conte di Brindisi, ricordando i genitori Goffredo e Sichelgaita e il fratello Roberto maggiore già defunto, donò all’arcivescovo Bailardo e alla chiesa di San Giovanni Battista i terreni e i villani del casale di Sandonaci con tutti i loro beni che erano appartenuti alla madre e che gli erano toccati in successione. Nel seguito, Tancredi perseverò nella ribellione contro Ruggero II, nel mentre già proclamato re di Sicilia, e dopo aver dovuto rassegnarsi ad accogliere il presidio di milizie regie nella rocca di Brindisi, nel corso del 1131 e mentre Ruggero II era in Sicilia, tentò per sorpresa di scacciarle, ma incontrò una forte resistenza e dovette desistere, finché a dicembre le truppe regie assediate da tre mesi giunsero ad un compromesso con il principe

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Grimoaldo di Bari, giunto a sostenere Tancredi che nel mentre si era allontanato per porre l’assedio a Gallipoli. Poi, nella primavera del seguente anno, 1132, Ruggero II ritornò sul continente deciso a stroncare la ribellione, e Tancredi, presto vinto, quella volta fu scacciato dal re, che dopo la ribelle Bari aveva ripreso anche Brindisi. Ma neppure in quella occasione, la partita tra Tancredi e Ruggero II si era conclusa del tutto. «Tancredi di Conversano, atterrito dalla sorte funesta toccata a Grimoaldo di Bari tratto vilmente incatenato in Sicilia, non osò più lungamente resistere alla potenza del Re. E vistosi assediato in Brindisi e costretto ad arrendersi, fu poi per forza o per tradimento obbligato a vendere le sue terre per venti schifati e giurare di esulare a Gerusalemme… Tancredi di Conversano, che costretto a vendere le sue terre aveva indugiato a recarsi oltremare aggirandosi per la Puglia, udita la lieta novella dei rovesci militari subiti da Ruggero II a mano di Roberto di Capua e di Dainulfo d’Avellino, mutò consiglio ed accolto come signore dagli abitanti di Montepeloso, prese ad infestare le terre del Re. Occupò Acerenza per volontà dei cittadini che gli si arresero scacciando Plutinio ligio a Ruggiero, s’alleò con Goffredo d’Andria e con Alessandro – suo fratello – conte di Matera e mandò ambasciatori al principe di Capua impegnandosi a non far tregua o pace separata. Nel mentre, Ruggiero II, rifatto d’animo, con le milizie che poté riunire riprese il cammino per la Puglia dove riuscì a ottenere che Bari non si unisse ai ribelli e convocò in Melfi i Baroni rimastigli fedeli ed impose ad essi di guerreggiare senza posa contro Tancredi di Conversano. Quindi, nei primi giorni del dicembre del 1132, navigò in Sicilia.» [“L’insurrezione pugliese e la conquista normanna nel secolo XI” di G. De Blasi, 1873] In primavera – siamo nel 1133 – il re Ruggero II ritornò in Puglia, seminando terrore tra feroci rappresaglie contro le città che gli si erano mantenute contrarie e deciso ad annientare gli ultimi Baroni ancora ribelli, tra i quali Tancredi di Conversano, che percorrendo la Puglia con mille cavalli e moltissimi fanti aveva ottenuto Venosa ed altre terre. Ultimo ricovero dei ribelli superstiti rimase Montepeloso dove, avvicinandosi l’esercito regio, si rifugiò anche Tancredi rimanendovi a combattere sotto assedio per vari giorni, fino all’inevitabile resa incondizionata. Catturato, Tancredi fu da Ruggero II nuovamente graziato della vita, ma questa volta fu immediatamente inviato nelle prigioni di Palermo “per languirvi miseramente sino al termine dei suoi giorni”. Il 28 settembre del 1133 il consolidato re Ruggero II confermava a Lucia, abbadessa di Santa Maria Veterana di Brindisi, tutte le concessioni e i privilegi largiti da Goffredo e Sichelgaita e dai figlioli loro, Tancredi incluso, nei feudi di Tuturano, di Brindisi, di Mesagne e di Nardò, chiamando con orgoglio di sovrano ‘nostra’ la città di Brindisi, e dichiarando estinta la stirpe dei conti di Conversano. [“Codex diplomaticus brundusinus”] E Tancredi, il secondo e ultimo conte normanno di Brindisi, se pur certamente non tornò più ad essere signore di Brindisi – città ormai divenuta demaniale – riuscì, secondo una versione comunque solo presunta e mai confermata, a ritornare in ombra a Conversano dove, nel 1148, finì i suoi giorni.



PERCHè PIGONATI NO E MONTICELLI Sì

Il canale d’accesso al porto interno sarebbe più giusto intitolarlo a Monticelli-Marzolla, o a Monticelli-Mati, o finanche a Monticelli-Bixio di Gianfranco perri

ualche anno fa – il 3 novembre 2014 – scrissi su Senza Colonne News un articolo tuttora consultabile online, che aveva più o meno lo stesso titolo – “Pigonati” No, “Monticelli” Sì – di questo mio nuovo scritto, in cui mi preme ratificare, rettificare, integrare e chiarire meglio quanto a suo tempo sostenuto. Quell’articolo iniziava così: «Il riferimento è naturalmente all’intitolazione del canale che a Brindisi separa il porto interno da quello esterno e che notoriamente si chiama canale Pigonati in riconoscimento del fatto che nel 1778 fu Andrea Pigonati a realizzare il suo ‘riaprimento’ dopo secoli [all’incirca dalla fine del 400, dopo che il principe Orsini Del Balzo aveva fatto affondare nell’imboccatura una nave colma di enormi sassi] di disastroso abbandono. Eppure, invece, sarebbe giustizia intitolarlo a Monticelli. Perché Andrea Pigonati, che fu l’ingegnere siracusano contrattato per realizzare quell’opera – che in effetti completò in tempi e costi limitati – lo fece commettendo tanti e così gravi errori di progettazione che in pochissimi anni invalidarono completamente gli effetti della stessa. E perché Giovanni e Francescantonio Monticelli furono invece due illustri brindisini che lottando contro la potente e spregiudicata lobby gallipolina, tra il 1831 ed

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LE IMMAGINI Sopra il canale d’ingresso al porto interno di Brindisi, a sinistra la Mappa dell'ing. Tellera del 1900 con le opere principali del progetto Mati giàeseguite il 1834 si prodigarono riuscendo a scongiurare per Brindisi la morte ormai già di fatto decretata, convincendo – coadiuvati dal cartografo brindisino Benedetto Marzolla – il re Ferdinando II a non desistere dal recuperarne il porto, come in effetti e per fortuna avvenne.» Naturalmente, tutta la questione è abbastanza più complessa ed articolata di quanto sopra concentrato in pochissime parole e, ad esempio, si potrebbe cominciare col dire che se piena giustizia si volesse fare davvero, quell’intitolazione potrebbe o dovrebbe includere anche Marzolla, Mati e addirittura Bixio. Benedetto Marzolla per quanto sopra detto, Tommaso Mati per essere stato lui l’ingegnere che elaborò un progetto di recupero del porto tecnicamente corretto e in buona parte gradualmente attuato e il generale Nino Bixio, decisivo con l’aver veementemente sostenuto nel parlamento del regno la bontà e l’urgente necessità di approvare quel progetto. Ma vorrei qui spiegare soprattutto il perché del “Pigonati No” e vorrei farlo anche perché – ironia della sorte – è proprio solo a lui che sembrerebbe siano stati riservati i meriti con l’intitolazione, non solo del canale, ma anche

di una via cittadina del rione Sciabiche, che è poi lo storico rione in cui per tanto tempo avevano risieduto gli appartenenti alla nobile famiglia Monticelli. Senza quelle due intitolazioni, probabilmente si sarebbe parlato molto meno o quasi per nulla dell’ingegnere siciliano, che magari nelle cronache cittadine sarebbe rimasto relegato quale uno dei vari autori dei tanti tentativi falliti di recuperare il porto interno di Brindisi. E magari gli si sarebbe anche risparmiato che, da alcuni dei suoi tanti detrattori, gli venissero infondatamente attribuite colpe e nefandezze di cui, poveretto, in realtà sembrerebbe non abbia avuto responsabilità. Colpe e nefandezze in effetti inverosimili, di cui Nazareno Valente ha stilato un dettagliato elenco: «Si racconta che Pigonati, avendo bisogno di pietre per mandare avanti i suoi lavori, se l’era procurate demolendo la porta Reale e la chiesa di Santa Maria de parvo ponte. Sempre per lo stesso motivo, si dice avesse fatto abbattere una delle due torrette angioine, alle cui fondamenta si attribuisce l’origine della secca, chiamata anch’essa angioina; in questo caso, oltre a depauperare la città d’un bene artistico, Pigonati causò anche un dissesto ambientale. Di malefatta in malefatta si è narrato che persino ponte Grande, ancora in piedi quando l’ingegnere faceva da decenni parte del mondo dei più, fosse stato da lui demolito. In effetti, porta Reale fu sacrificata per dare spazio alla banchina costruita dall’ingegnere Pollio nel 1791.

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La torretta Angioina risultava ancora integra nel 1789, quando fu riprodotta da J.P. Hackert nella tela ‘Baja e porto di Brindisi’ e agli inizi dell’Ottocento nel periodo di dominazione francese. La chiesa di Santa Maria de parvo ponte è riportata ‘diruta’ come lo era ai tempi di Pigonati, nella mappa di Tironi del 1811. Il ponte Grande è visualizzato ancora in piedi nella stessa mappa di Tironi ed in molte altre carte del XIX secolo ed era quindi ancora visibile quando Pigonati nel frattempo era morto.» [“La lunga agonia del porto interno di Brindisi” di N. Valente - Il 7Magazine del 24 giugno 2022] D’accordo! Quindi, tante scuse a Pigonati e grazie a Nazareno per aver segnalato quei discrediti relativi all’agire di Pigonati a Brindisi. Ma ritorniamo alla sostanza della questione che è, invece, che Pigonati nella realizzazione della sua opera si sbagliò del tutto: un’opera d’ingegneria – che sia stata più o meno puntualmente eseguita o che sia stata più o meno costosa, non ne inficia il risultato – i cui effetti perseguiti siano del tutto miseramente e platealmente svaniti dopo poco tempo d’essere stata completata, altro non può essere considerata che “un’opera realizzata in modo palesemente sbagliato”. Un’opera, infatti, che alla fine e per risolvere il problema, fu completamente smantellata, senza che nessun altro progetto riuscito la desse per buona o da recuperare per poi eventualmente mantenerla con l’annuale manutenzione proposta dal Pigonati. E questo, comunque, indipendentemente dal fatto che i dettagli tecnici degli errori attribuiti all’autore dell’opera vengano correttamente o meno spiegati, e indipendentemente dal fatto che alcuni di quelli che numerosissimi hanno denunciato e continuano a denunciare il fiasco dell’opera abbiano – in buona fede o meno, in tutto o solo in parte – ragione sulle critiche avanzate. È, per esempio, abbastanza comune che si dica – semplicisticamente, o comunque per semplificare – che l’errore di Pigonati fu aver orientato incorrettamente il canale, mentre probabilmente quel solo particolare non sarebbe stato motivo per sé sufficiente del clamoroso fallimento, non potendosi, né escludere che contribuì in qualche misura all’esito disastroso dell’opera, né darsi per scontato che la sola diversa angolazione avrebbe impedito il rinterramento: i lavori che includevano la correzione dell’orientamento intrapresi dall’ingegnere Albino Mayo, infatti – malamente avviati e condotti senza essere portati adeguatamente a termine – furono interrotti nel 1848 per la morte improvvisa dello stesso ingegnere, senza così poter giungere ad alcun risultato veramente chiarificatore della eventuale bontà dell’idea. Un’opera d’ingegneria dunque, sbagliata in tutto dal Pigonati, dalla sua concezione alla sua realizzazione: certamente sbagliata la geometria – sezioni e lunghezza – del canale, certamente sbagliata la struttura – troppo fragile – del canale, e certamente sbagliata la profondità del canale, senza che nulla possa togliere alle colpe del progettista la sua affermazione che quest’ultima non fosse stata una sua scelta, giacché un ingegnere progettista è sempre responsabile di ciò che decide o accetta di eseguire. Pigonati, del resto, al pari degli altri che subito prima e subito dopo di lui tentarono di risolvere il problema, probabilmente fallì soprattutto perché non diagnosticò correttamente la situa-


zione – tant’è che sostenne la teoria che incolpava dell’ostruzione del canale i moli di Cesare eseguiti quasi duemila anni prima per bloccare Pompeo – e di fatto non capì quali fossero tutti i processi che portavano all’interrimento del porto interno. Un grave errore concettuale non certo intaccato dal fatto che sia vero o meno che finanche la locale gente di mare gli avesse segnalato alcuni degli aspetti per cui il suo progetto fosse sbagliato, cosa comunque abbastanza verosimile che sia potuta accadere. Però: se il canale naturale nel corso dei millenni aveva funzionato, perché per risolvere il problema Pigonati non pensò semplicemente di cercare di ripristinare quelle condizioni che erano state naturali, scavando quindi e dragando tutto quanto possibile con il solo obiettivo di approfondire ed allargare il varco? Vabbè, forse non sarebbe stato del tutto così facile e neanche – probabilmente – sarebbe stato per sé sufficiente, ma perlomeno non c’è prova certa che sarebbe stato inutile come invece certamente lo fu, alla fin fine, l’opera del Pigonati. Io qui, comunque, non voglio certo avventurarmi in speculazioni tecniche guidate dal senno di poi, anche perché non avrei tutta la necessaria competenza tecnica e scientifica per farlo, e così, per meglio dettagliare quei già citati errori del Pigonati, preferisco invece riportare – tra le tante autorevoli, disponibili e pienamente condivisibili – le opinioni dei due, Giovanni e Francescantonio, Monticelli e di Benedetto Marzolla, illustri brindisini ed in certa misura quasi contemporanei dei fatti, visto che loro di titoli per opinare ne ebbero a sufficienza, certamente più di me, e per fortuna di Brindisi furono anche in buona misura ascoltati.

LE IMMAGINI Sopra la costruzione della Banchina Montenegro - Foto Dante Cappello «…Pigonati sventuratamente, sulle spiagge laterali e di poca acqua di quella foce [lo stretto di comunicazione del porto interno con quello esterno] cavò un nuovo canale assai più lungo – 2752 palmi, circa 715 metri – della foce naturale e in diversa direzione, più largo – 200 palmi, circa 52 metri – nella parte del porto esteriore e più stretto – 160 palmi, circa 42 metri – dalla parte della città, e lo formò in linea retta e non curva, prendendo quasi d’infilata l’unica traversia che in qualche modo agita la rada. Ed a questo suo canale formato a lati verticali, e non a scarpa, non diede altra profondità se non quella di 19 palmi [circa 5 metri] mentre nel porto riconosceva una profondità assai maggiore che giungeva in alcune parti a 50 palmi [circa 13 metri]. Vi costruì infine due moli, uno dei quali è più lungo [800 palmi, circa 210 metri] dell’altro [560 palmi, circa 145 metri], il lungo era precisamente quello che riguarda la cala delle navi [Fontanelle], contrariando così il cammino naturale della corrente che ne discende. Quale cala, che egli stesso confessa essere continuamente corrosa dalla corrente che scende verso ovest e che in conseguenza doveva scorrere lungo la testa della foce naturale, roderla e passare oltre… Tutte queste novità e tutti questi lavori furono concepiti dal Pigonati senza niuna dimostrazione, come rilevasi dalla di lui “Memoria del riaprimento del porto di Brindisi” del 1781. Solo si augurò che il suo ca-

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nale sarebbe stato durevole, perché avendo protratto i lati al di fuori della foce, tutte le alghe e tutte le arene che la traversia ed il flusso avrebbero menate verso di quella, bizzarramente immaginò che si sarebbero protratte dietro ai lati – chiamati da lui aloni – fermate e radunate, e non sarebbero più entrate nel porto. È chiaro, invece, che il beneficio del riflusso accordato dalla natura si rende inutile quando il canale di comunicazione tra i due porti è meno profondo del fondo stesso del porto. Entrando le acque torbide col flusso e con la traversia nel porto interno, vi si spandono e vi perdono velocità, ed in conseguenza vi formano all’istante alcuni depositi che, tutti o nella maggior parte, sarebbero portati via dal riflusso se questo avvenisse in un canale ugualmente profondo che lo stesso porto. E l’aver fatto il canale largo più verso il flusso che verso il riflusso è poi certamente un errore idraulico e marittimo, perché si fa entrare colla forza del mare grande un’amplissima colonna di acqua nel canale e nel porto interno, e ne fa uscire una minima; cioè le torbide entrate nel porto sono assai più copiose di quelle che ne possono uscire col riflusso... Tutte le operazioni del Pigonati fatte a caso, e senza alcun principio scientifico o sperimentale, produssero effetti del tutto opposti alle di lui speranze. Il porto si vide dietro le tempeste inondato di alghe e di arene, il canale ben presto fu di nuovo insabbiato ed i suoi aloni perfettamente colmati dagli stessi materiali trasportati dal mare. I suoi moli, piantati sopra fascine e terreno, si ruppero in più siti…» [“Difesa della città e del porto di Brindisi” di Giovanni Monticelli & Benedetto Marzolla, Napoli 1832] «…Dalla bocca detta di Puglia scende una corrente assai potente, la quale erodendo la Cala


LE IMMAGINI A destra il prospetto orientale della citta di Brindisi - Andrea Pigonati 1778 delle navi cammina all’ovest e di sbieco è arrestata imbattendosi nei moli di Pigonati e nelle scogliere di Pollio; e quindi non potendo proseguire ulteriormente il suo corso, vi deposita le arene e le alghe che seco trasporta nell’angolo tra tali artifizi e la spiaggia. Lo stesso avviene nell’altro angolo tra gli artifizi di Pigonati e di Pollio nella spiaggia opposta… Dalla storia del porto e dalle sue vicende deduciamo il vero modo di restaurarlo: o stabilmente, distruggendo gli artifizi degli antichi e gli errori dei moderni architetti con lo sfangamento totale e durevole per molti secoli – l’antica naturale foce, dopo Cesare si andò interrando così lentamente che vi corsero 15 secoli e vi volle un artifizio singolare del principe di Taranto perché si presentasse nel 18º secolo quasi tutta interrata – oppure con uno sfangamento parziale, unico mezzo praticato in tutti i porti soggetti all’interrimento, specialmente ora che agli antichi cavafango sono stati sostituiti i più economici mossi dal vapore… Non spetta a me fare il progetto per restituire l’antica e nativa perfezione del porto e della rada, ma solo dirò che senza distruggere gli inutili moli di Pigonati e le scogliere di Pollio, la rada ed il porto interno saranno perduti, così come lo dimostrano i bassi fondali che si sono moltiplicati ed estesi nella rada e nel porto dall’epoca di Pigonati al giorno d’oggi…» [“Terza memoria in difesa della città e de’ porti di Brindisi” di Francescantonio Monticelli, Napoli 1833] Quella del dopo Pigonati, durata più di un secolo, fu per il porto di Brindisi una storia tribolata e sofferta, fatta di tentativi sventati in extremis di condannare la città o quanto meno il porto interno di Brindisi alla scomparsa e di progetti – spesso condotti tra sprechi e ritardi – di opere alle volte malamente, e comunque quasi mai completamente, realizzate. Nei migliori dei casi furono opere palliative e mai del tutto risolutive [vedi il dettagliato saggio: “Dall’alba della nuova Italia all’Unità. Progettualità e azioni politiche in Brindisi” di Giacomo Carito, 2020-22]. Il tutto, infatti, nonostante le enormi risorse finanziarie destinatevi a più riprese dal governo di Napoli non fu sufficiente a garantire piena agibilità al porto e ulteriori notevolissimi interventi si sarebbero resi comun-

que necessari – e per vari decenni ancora – anche nel periodo postunitario. Nel luglio del 1861 l’ingegnere Tommaso Mati fu incaricato di studiare il problema e proporre una soluzione. Mati studiò a fondo la situazione e suppose che all’interrimento del canale concorrevano in buona misura gli apporti solidi provenienti dalle già più volte segnalate erosioni delle coste Guacina e Morena prodotte dai flutti e dalle correnti marine, ed in base anche a quella corretta considerazione articolò, formulò e, nel novembre dello stesso anno, presentò il suo progetto: “La già avviata riapertura del canale tra porto esterno e porto interno – da approfondire a 10 metri e allargare alla foce a non meno di 80 metri, corredandola in entrambi lati da robusti muri di sponda – sarebbe stata integrata da nuove scogliere di protezione dai fenomeni di erosione delle coste Guacina e Morena, ed in più dalla chiusura di Bocca di Puglia e da due altri sbarramenti marini, dal castello di mare verso SSE e da costa Morena verso ENE, nonché dall’eliminazione delle secche e dalla costruzione delle banchine nel porto interno e nella rada. Integrando il tutto e creando un grande avamporto protetto, oltre ad elevare enormemente lo status dell’intero porto e per conseguenza dell’intera città, avrebbe al contempo risolto il problema degli interramenti.” Superati ostacoli di varia indole, politica, tecnica ed economica, il 22 luglio 1863 il progetto fu approvato dalla Camera dei deputati, di-

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venne legge nel gennaio del 1864 e i lavori, tra difficoltà e con la solita lentezza, si avviarono nel maggio del 1866, iniziandosi a eseguire più o meno in parallelo tutte le opere previste meno il molo di costa Morena, la cui approvazione era rimasta sospesa. I lavori durarono anni, continuarono nel secolo seguente e per certi versi continuano tuttora con dragaggi e banchinamenti, però già dopo qualche anno dal loro avvio il porto interno aveva raggiunto una funzionalità sufficiente a poter ricevere, non senza difficoltà e tra numerose interruzioni, ogni tipo di navi all’epoca in circolazione, tra cui i bastimenti della Valigia delle Indie [“La Peninsular and Oriental Company, la Valigia delle Indie e Brindisi” di Franco A. Mastrolia, 2020-22]. Peccato che Pigonati non ebbe quella stessa intuizione di Mati, quella stessa accortezza nello studiare con intelligenza il problema, quella stessa forza per sostenere le proprie tesi e quella stessa capacità di progettare accertatamente opere utili alla vera soluzione dei problemi. Fosse stato chiamato al posto di Pigonati un ingegnere come Mati, sarebbe stata una fortuna, e Brindisi si sarebbe risparmiata anni di sofferta attesa e di astronomiche spese. E già, ma i desideri e i rimpianti non possono cambiare i trascorsi e quindi, quanto meno, non resta che dare ai fatti il loro giusto peso e dare alle cose – alle opere, per esempio – il loro corretto attributo: “sbagliata e inutile quella di Andrea Pigonati, corretta e risolutiva quella di Tommaso Mati”.


IL 1956, UN VERO ANNUS HORRIBILIS

DELLA STORIA BRINDISINA

In città iniziò un processo di «devastazione» che portò all’abbattimento della Torre dell’Orologio e del teatro Verdi. E alla eliminazione del parco della Rimembranza di Gianfranco perri pur vero che alla fine di quel 1956 si mise anche la natura a completare l’opera demolitrice alacremente intrapresa dai brindisini però, in fondo e visto a posteriori, il ’ciclone’ del 19 novembre fu, di fatto, poca cosa: anche se produsse danni ingenti, infatti, si trattò di danni temporali e comunque per lo più riparabili, al contrario di quelli ben più incisivi e duraturi provocati invece dalla persistente volontà di quei cittadini di Brindisi che allora ‘contavano’ e tra l’indifferenza di ‘quasi’ tutti gli altri, concentrati, com’erano i più, a sbarcare il lunario. Poco dopo mezzogiorno, un uragano proveniente dal mare investì in pieno la città. La sua durata fu di soli alcuni minuti, che bastarono però per sconvolgere gli abitanti e abbattere numerose abitazioni e varie strutture. Una zona molto colpita fu quella del parco della rimembranza e in pieno centro crollarono alcuni tetti della scuola elementare Perasso e dell’istituto commerciale Marconi, e fu danneggiata anche la cupola del Verdi. Qualche stabilimento vinicolo soffrì danni seri e due edicole furono spazzate via: quella di Cosimo Silvestro al centro città, l’altra di Mario Barba al Casale. Anche al Casale, infatti, il ciclone si sentì con forza, specialmente in prossimità dell’aeroporto: ricordo bene che mio padre – militare dell’aeronautica in servizio anche quel giorno al suo posto presso l’idroscalo – raccontava che, rifugiatosi assieme agli altri colleghi presenti nella piccola struttura in muratura addossata a uno dei quat-

È

tro hangars Savigliano, videro tutti con timorosa incredulità l’intera enorme pesante struttura metallica dell’hangar sollevarsi di qualche centimetro da terra e quindi fragorosamente ricadere intera su se stessa, scuotendo paurosamente il tutto. In città, i danni del ciclone erano stati rilevanti soprattutto per le abitazioni vetuste di San Pietro degli Schiavoni e l’amministrazione comunale dovette provvedere alla sistemazione d’emergenza per le circa cento famiglie rimaste senza tetto, erogare sussidi per i cittadini più

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colpiti e richiedere agli organi governativi competenti di riparare i danni agli edifici pubblici, quelli scolastici in particolare. Alla Camera dei deputati di Montecitorio, nella seduta del 27 novembre 1956 fu presentata un’interrogazione al Presidente del Consiglio e ai ministri dell’interno, dei lavori pubblici, della difesa e dei trasporti, per sapere quali provvedimenti s’intendevano adottare per riparare gli ingenti danni – calcolati in un miliardo di lire – causati dal nubifragio abbattutosi il 19 novembre sulla città di Brindisi provocando la distruzione di


LE IMMAGINI La demolizione della Torre dell’Orologio nel centro di Brindisi, in basso un’immagine della Torre nel primo Novecento. Nella pagina accanto l’inizio della demolizione del teatro Verdi

molti impianti di pubblica e privata utilità, nonché di oliveti ed altre coltivazioni nelle campagne vicine, e per cui centinaia di famiglie sarebbero rimaste prive di alloggio per i crolli e per i danni agli edifici.

In effetti la natura si era mostrata poco benevola con Brindisi fin dall’inizio di quel fatidico 1956, un anno destinato a rivelarsi emblematicamente ‘sfortunato’ per le sorti della città, che ancora stentava a riprendersi dall’ecatombe so-

cioeconomica in cui l’aveva indotta la seconda guerra mondiale, pur conclusasi da ormai un decennio. Già a fine gennaio, infatti, c’era stata una inusuale pesante nevicata che aveva comportato tutta una serie di gravi ripercussioni, specialmente nel già per sé sofferto settore agricolo di Brindisi che allora costituiva ancora la base primaria della incipiente e circoscritta economia postbellica cittadina. Nelle campagne brindisine tutti i lavori stagionali furono sospesi, mentre la neve aveva danneggiato fortemente ulivi, mandorli, ortaggi e tanto altro, colpendo non soltanto produttori e mezzadri, ma indirettamente anche la popolazione che vide improvvisamente aumentare il prezzo di molti dei beni di prima necessità. Il 22 febbraio del 1956 moriva Francesco Lazzaro, sindaco ancora in carica che era stato rieletto dopo le amministrative del 1951, succedendo a Vincenzo Guadalupi e seguito da Antonio Di Giulio, sindaco interino per pochi mesi, dal 3 marzo 1956 al 18 giugno 1956. In seguito, alle amministrative del 1956 fu eletto Manlio Poto, sindaco dal 26 giugno 1956 al 3 aprile 1959, succeduto dal commissario prefettizio Pasquale Prestipino. Lazzaro era stato un brindisino che da sindaco, e non solo, aveva speso buona parte della propria azione operando per il bene pubblico, perché si realizzassero le legittime aspirazioni della sua città e preoccupandosi soprattutto di migliorare le condizioni di vita dei tanti cittadini colpiti dalle criticità del difficile dopoguerra. La sua quasi quinquennale amministrazione – con gli assessori Antonio Di Giulio, Antonio Quarta, Arnaldo Stefanelli, Giuseppe Ribezzi, Mario Marino Guadalupi, Matteo Ancona, Renato Volino e Vincenzo Battista – però, finì con avallare e finanche in buona misura promuovere di fatto, tutta una serie di imperdonabili azioni demolitrici, favorite ‘forse’ anche dalla pressante necessità di promuovere l’occupazione, ma anche ‘forse’ cedendo a volte a meschini interessi locali e altre volte alle spinte dei vari Enti interessati alla frettolosa ricostruzione o realizzazione delle proprie sedi provinciali. «Realizzazioni spesso gestite da anonimi uffici tecnici nella completa ignoranza delle problematiche architettoniche urbanistiche e socioculturali locali. Interventi quasi sempre del tutto estranei alla realtà della città, elargiti dall’alto e prontamente corrisposti dalla scarsa sensibilità di tutti i ceti dirigenti locali – sia di quelli di maggioranza del governo cittadino quanto, in numerosi casi, di quelli dell’opposizione – alla conservazione ed al miglioramento del patrimonio storico e architettonico, oltre che ambientale, della città: dalla demolizione di edifici di un certo pregio, alla lenta progressiva ed inesorabile fagocitazione del verde, sia pubblico che privato.» [Annamaria Mita in “La difficile ricostruzione. Brindisi 1946-1960” – Ed. Hobos 2007]. E così, dopo una gestazione ormai giunta a maturazione, toccò al 1956 –


LE IMMAGINI Alcune fasi dell’abbattimento della Torre dell’Orologio, sotto Francesco Lazzaro Sindaco di Brindisi dal 1946 al 1948 e dal 1951 al 1956 l’annus horribilis per Brindisi – partorire in macabra sequenza: la demolizione della settecentesca Torre dell’orologio, la chiusura definitiva del Teatro Verdi condannandolo all’abbattimento, lo sradicamento del Parco della rimembranza, nonché il risanamento, alias la cancellazione, di quel che restava del rione Sciabiche. E fu proprio allora che divenne cinica moda tra i politici parlare di ‘piccone risanatore’. Si trattò quindi di una meditata calcolata ed attuata scelta politica: la scelta della classe politica dirigente brindisina dell’epoca di distruggere il vecchio, le antiche casupole, i vicoli e tutto quanto in pieno centro storico fosse considerato antigienico o d’intralcio all’evoluzione della vita moderna e al traffico sempre più travolgente. «E così, la necessità di occupare tutti i migliori spazi possibili per la costruzione di grossi edifici squadrati, privava Brindisi di quelle strade, di quei palazzi, di quelle ville, di quei giardini che ne narravano la storia.» [Annamaria Mita - 2007]. «Una ingiustificata euforia s’impadronì dei brindisini e [soprattutto] degli amministratori cittadini quando, agli inizi degli anni Cinquanta, non si sa bene per quale sorta e disgraziata programmazione, si scelse con terrificante leggerezza l’abbruttimento della città. Quella ventata di modernismo, l’insipienza politica e la incultura di alcuni amministratori permisero, legalmente, che al posto di monumenti e di contenitori di particolare valore artistico monumentale e storico, fossero edificati ‘nuovissimi’ cubi di cemento o, peggio ancora, che lo spazio ricavato fosse occupato dal nulla.» [Antonio Caputo in “N’cera na vota 2” – Editrice Hobos, 2002]. • Nel settembre del 1763, il sindaco Stefano Palma aveva dato inizio ai lavori per la costruzione della nuova Torre dell’orologio, in piazza Sedile in prossimità del palazzo comunale. La torre campanaria precedente, di dimensioni molto più modeste edificata in quello stesso posto, era stata distrutta dal terremoto del febbraio 1743. Quella nuova Torre dell’orologio invece, testimone di tanti avvenimenti storici specialmente del periodo risorgimentale, fu demolita nel febbraio 1956 per dar luogo all’erigendo palazzo della Previdenza sociale. Per tale demolizione, clamori e proteste si levarono da più parti, anche attraverso la stampa, che però non valsero a far ritornare sulle proprie decisioni gli amministratoti promotori della scellerata risoluzione d’abbattimento, da alcuni dei quali la Torre fu finanche giudicata essere ‘brutta esteticamente… niente di importante’. Nel 1952, con l’unanimità espressa per alzata di mano dei presenti, il Consiglio comunale presieduto dal sindaco Lazzaro aveva accordato cedere tutta l’area centrica di 1.285 metri quadrati all’Inps per 11 milioni di lire. Poi, quando agli inizi del 1956 rimaneva ancora in piedi solo la Torre dell’orologio, quasi nessuno fra gli esponenti della classe dirigente politica brindisina di allora sentì la necessità o l’obbligo di

opporsi alla funesta delibera della sua demolizione, approvata all’unanimità dei consiglieri presenti in quella seduta del Consilio comunale del 13 febbraio 1956. Solo qualche consigliere non volle presenziare quella infausta seduta e solo qualche politico esterno al Consilio comunale decise di manifestare la sua contrarietà: il senatore Antonio Perrino, allora presidente della Provincia, reclamò il mantenimento della Torre “per il suo valore artistico, storico – alla sua base c’erano quelle due carceri che avevano ospitato molti patrioti – ed affettivo”. E neanche mancò il posteriore dissenso degli intellettuali. «Gli odierni barbassori del cemento armato hanno progettato il solito scatolone che sarà adibito a sede della Previdenza sociale. Gli accaniti congiurati, che impuniti imperversano sotto il segno della bruttezza contro le nostre belle città, avevano condannato alla demolizione l’interes-

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sante barocca Torre dell’orologio, poiché per loro era più facile demolire che creare opere che potessero reggere il confronto con quelle pur modeste del passato.» [Nicola Vacca in “Brindisi ignorata” – Vecchi & C. Editori, 1954]. «Subito dopo il 13 febbraio 1956, il piccone demolitore cominciò ad affondare i suoi colpi sulla cupoletta a fastigio della Torre, provocando nei cittadini stupore e sdegno per tanto delitto, di cui presto o tardi si risponde al tribunale della Storia. Se un po’ d’amore per le cose della città degne di essere conservate avesse albergato nel cuore di quanti ne decretarono la morte, la Torre dell’orologio oggi sarebbe ancora in piedi.» [Alberto Del Sordo in “Vecchia Brindisi tra cronaca e storia” – Editore Adda, 1978]. «I saccenti fautori del cemento armato scaricarono il loro livore, insieme al disamore per questa città, contro un baluardo di Brindisi, testimone fin dal lontano 1763 di vicende, lotte, tradimenti e personaggi. Tra l’indifferenza più assoluta, nessuno si curò che il monumento era stato punto di riferimento della sofferta storia della città per 193 anni, equivalenti a varie generazioni di brindisini; per questo, la Torre dell’orologio, senza aforisma, sapeva tutto della città.» [Antonio Caputo - 2002]. • Il 23 agosto del 1956 la Questura di Brindisi emise l’ordine di chiusura definitiva del Teatro Verdi, dopo che il prefetto Alberto Novello lo aveva dichiarato ‘inagibile’ a seguito del verbale stilato dall’apposita commissione di vigilanza sui locali di pubblico spettacolo, in cui veniva rilevato ‘che il cinema teatro Verdi non offre più le garanzie di stabilità e che è indispensabile salvaguardare l’incolumità pubblica’. Chiuso al pubblico, il teatro venne definitivamente abbandonato senza più una minima manutenzione e quando il 19 novembre il ciclone sconvolse la città, il teatro che aveva già subito l’asportazione di diverse lamiere della copertura della cupola non venne inserito nell’elenco degli edifici da riparare e fu lasciato alla mercé delle intemperie che naturalmente contribuirono a deteriorare ulteriormente quanto si era fino ad allora salvato. «A questo


LE IMMAGINI Sopra il bellissimo Parco della Rimembranza sostituito poi dalla colata di cemento degli uffici finanziari punto si può parlare, senza tema di smentita, di abbandono volontario da parte degli amministratori dell’epoca, abbandono che fu causa dell’ulteriore degrado dello stabile su cui fondò ed ebbe attuazione, senza incontrare ostacoli, la decisione di demolirlo.» [Elena Lenzi in “La fabbrica del teatro” – ASB, 1986]. Poi, il 30 settembre 1959 il commissario prefettizio Pasquale Prestipino – insediatosi il 4 aprile 1959 a causa della crisi politica che aveva investito l’amministrazione retta dal sindaco Manlio Poto – avrebbe ordinato ‘l’immediata demolizione dell’intero complesso edilizio del Teatro Comunale Giuseppe Verdi’. Nel febbraio 1960 cominciarono i lavori di demolizione e a maggio del teatro Verdi di Brindisi non vi era più traccia. Il teatro, inaugurato il 17 ottobre 1903 e per più di mezzo secolo contenitore d’arte e fulcro della vita sociale cittadina, era stato leggermente danneggiato durante la Seconda guerra mondiale da bombe esplose nelle sue vicinanze ed era stato più volte riparato tra il 1949 e il 1951. Il 21 luglio 1951 una commissione di cui facevano parte tecnici del genio civile, della provincia e dell’ordine degli ingegneri, concluse che ‘il teatro non rispondeva più alle esigenze per le quali era stato costruito, che non era un monumento degno di essere conservato, che l’area di grande valore in cui si trovava poteva essere meglio utilizzata’. Non ci sono le prove definitive, ma quelle conclusioni inducono, anzi obbligano, a sospettare la malafede di quella commissione: la sola ignoranza e l’indolenza dei personaggi, infatti, non avrebbero potuto da sole spiegare l’assurdità di quella conclusione. «Nell’attento e scrupoloso lavoro di ricerca documentale svolto dai funzionari dell’Archivio di Stato di Brindisi non si è inoltre trovata traccia di una qualsiasi forma di dissenso della popolazione brindisina, nessuna manifestazione, nessuna iniziativa venne intrapresa dai cittadini o dalle associazioni culturali e politiche. Tutto si svolse nell’indifferenza, e le polemiche iniziarono - come spesso accade - solo a cose già del tutto fatte.» [Giovanni Membola in “Sessant’anni fa la folle demolizione del teatro Verdi: la pagina più nera del Comune” - il7 MAGAZINE n.38 del 27 settembre 2019]. • Il grande Parco delle Rimembranze, l’unico vero polmone verde della città, inaugurato il 9 novembre 1927 in memoria dei caduti della prima guerra mondiale – ogni albero era contrassegnato dalla traghetta recante l nome del caduto brindisino che commemorava – mediante una serie di delibere dell’amministrazione comunale fu gradualmente sradicato per far posto alla costruzione, in successione, della sede dell’Acquedotto pugliese, del Palazzo degli uffici finanziari e di civili abitazioni. Con il ‘ciclone’ del 19 di novembre 1956, una gru alta 37 metri, utilizzata nei già avviati lavori di costruzione del palazzo delle finanze, crollò sulla – an-

cora rilevante – porzione allora superstite del parco, diradando una parte del bosco. Ma, anziché provvedere alla riparazione e al rinfoltimento del parco, l’amministrazione comunale presto ne deliberò l’eliminazione per creare lo spazio destinato ad anonime brutture di mattoni e cemento. I soliti barbassori delle costruzioni cubiche, con le solite complicità politicamente altolocate, avevano ormai decretato la proditoria morte del parco: un polmone di verde per l’intera città, ricco di alberi di pino con al centro una statua in ferro dell’eroe Giambattista Perasso, di cui fino ad oggi è stato assolutamente impossibile poter reperire il destino che gli fu riserbato. «L’opera delittuosa, per la quale non pensiamo possa esserci assoluzione nei confronti dei responsabili, ebbe termine quando non c’era più niente da distruggere: dopo che per anni, giorno dopo giorno, si erano andate grattando alla chetichella piccole porzioni di terreno per dar posto alle gabbie di cemento e dopo che sul finire del fatidico 1956 fu formalmente deliberata la totale distruzione del parco, messa celermente in opera dall’amministrazione comunale con leggerezza impressionante se non per insipienza, arrecando non solo una grave ingiuria ai caduti e alle loro famiglie, ma anche togliendo alla città una difesa, pur tenue, contro l’inquinamento atmosferico.» [Alberto Del Sordo - 1978]. • A questo punto si potrebbe, anzi forse si dovrebbe, continuare con il racconto della ‘cancellazione’ dello storico quartiere marinaro delle Sciabiche, ma per questa volta lo risparmio al lettore visto che l’ho già in più occasioni raccontato. [“Lo sventramento delle Sciabiche brindisine” in brindisiweb.it – 2012 e “Lo sradicamento delle Sciabiche: 1900-1959” in Archivio Storico Brindisino N.1 - MMXVIII, 2019]. Del resto, invero, si trattò di una cancellazione che era già iniziata molto tempo prima. L’affanno demolitore dell’ammodernamento, infatti, aveva già intrapreso la sua inarrestabile avanzata sulle Sciabiche con l’inizio del ´900 quando tra i primi caseggiati designati non furono risparmiati né il palazzo dove era nato lo scienziato Teodoro Monticelli né quel che restava dell’immobile quattrocentesco appartenuto alla famiglia di Pompeo Azzolino. L’avanzata incontrò poi nuove energie, abbondanti ed incontrastate, inseguendo il miraggio della ritrovata gloria imperiale durante la seconda parte del ventennio fascista. E poi, semplicemente, accadde che l’abbattimento riprese vigore dopo la conclusione della seconda guerra mondiale, proseguendo e completando l’opera demolitrice agli albori del miracolo economico e della fantomatica industrializzazione della città. Apparentemente quindi, quella smania del ‘piccone risanatore’ che imperversò a Brindisi tra gli anni ’50 e ’60, in fondo forse non costituì una moda proprio del tutto innovatrice, ma forse solo ravvivò una antica e ben radicata ‘magagna’ cittadina. Pertanto – e per concludere – resta solo da sperare che, finalmente, si possa considerare del tutto chiusa e veramente abbandonata per sempre quella assolutamente deprecabile ‘smania’ degli amministratori brindisini.

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FRONTE DEL DON OTTANTA ANNI FA LA TRAGEDIA DEGLI ITALIANI Tra le novantamila vittime del nostro Esercito un prezzo altissimo anche per i soldati brindisini: lì un terzo dei morti dell’intera II Guerra mondiale di Gianfranco perri el trascorso della Seconda guerra mondiale, dall’agosto del 1941 a metà dicembre 1942 i soldati dell’esercito italiano caduti o dispersi sul Fronte orientale ammontavano a circa cinquemila uomini, mentre alla fine del seguente mese di marzo il loro numero sfiorò i novantamila. Pertanto, tra dicembre del 1942 e gli inizi del 1943, sul “Fronte del Don” si consumò la peggiore tragedia umana del regio esercito italiano. Ed ancora di più quella tragedia assurge a dimensioni uniche, quando quei tanti caduti si confrontano con il totale dei circa 220mila uomini che avevano costituito l’8ª Armata italiana – Armir: Armata italiana in Russia – e con il totale delle perdite italiane subite nel corso di tutta intera quella lunga Seconda guerra mondiale, che ammontarono complessivamente a quasi 320mila militari, di cui quindi, sul fronte russo ne perirono in 3 mesi più di un quarto. Solamente dopo il 1991, quando il governo italiano ottenne di poter accedere agli archivi della KGB sovietica, recuperando e analizzando circa 60.000 schede relative ai prigionieri italiani catturati sul fronte russo, fu possibile precisare con migliore approssimazione la macabra contabilità per un totale di 89.629 caduti, di cui: 56.689 dispersi; 24.643 morti in prigionia; 7.980 morti in

N

eventi bellici e 317 dispersi in prigionia. In merito alla cifra dei morti e dispersi in prigionia però, rimangono inevitabilmente molte lacune per le numerose carenze delle informazioni russe. È stato infatti accertato che solo una parte dei prigionieri era stata correttamente censita e, di conseguenza, la documentazione consultata negli archivi sovietici non poteva certo contenere i dati di tutti i dispersi. [“Seconda Guerra Mondiale: I Caduti del Fronte orientale” del Col. SM

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Massimo Multari, 2010] Il 16 dicembre 1942, sul fronte russo che vedeva opposta l’Unione Sovietica alle forze dell’Asse che l’avevano invasa un anno e mezzo prima, l’Armata rossa sferrò una violenta offensiva – Operazione Piccolo Saturno – sul fronte del Don, a sostegno delle truppe impegnate nella battaglia che da settimane infuriava nell’assediata città di Stalingrado. E l’Armata italiana, assegnata in comando al generale Italo Gariboldi, fu in-


LE IMMAGINI Il Giardino dei Dispersi sul fronte Russo 1941-1943 - inaugurato a Torino nel 1997. Sotto il Monumento Nazionale ai Caduti e Dispersi del C.S.I.R. - A.R.M.I.R. 1941-1943. A sinistra la tragica ritirata italiana dalla Russia

vestita da una potenza di fuoco soverchiante da parte delle truppe sovietiche. Iniziò dunque per le forze italiane una tragica ritirata in cui intere unità scomparvero nella battaglia, nelle nevi e nel gelo della steppa; de-

cine di migliaia di soldati morirono o furono fatti prigionieri e per l’Italia cominciò ad apparire palese il dramma di un’avventura bellica condotta, senza raziocinio strategico, da semplice ruota ausiliare dell’alleato tedesco.

Fu quella, una dura offensiva frontale cui gli italiani tennero testa finché non furono letteralmente sommersi dalla preponderanza dei numeri sovietici e dalla propria carenza logistica, materiale e organizzativa. L’offensiva sovietica si avvalse infatti anche di centinaia dei nuovi carri T34 contro cui, anche per la mancanza di munizioni specifiche, le truppe del regio esercito poterono ben poco. Le divisioni della fanteria italiana affrontarono le avanzate di forze nemiche soverchianti, ma sulla distanza ben poco poterono per frenarle. Il freddo fino a -30° mise allo scoperto l’insufficienza delle dotazioni invernali e mise fuori uso buona parte dei mezzi motorizzati, e così per l’Armir giunse presto il momento di non avere altra scelta che intraprendere la ritirata. Ma l’inverno nordico, il crollo del fronte e l’assenza di sostegno tedesco, la trasformarono inevitabilmente in una rotta, con le truppe frammentate in miriadi di battaglioni, colonne, unità e drappelli di militari intenti a indietreggiare nella neve combattendo al contempo gli incalzanti sovietici finché, solo dopo settimane di marcia, esausti e decimati, i fanti superstiti poterono raggiungere le retrovie tedesche. Iniziando il 1943, il 15 gennaio, anche le truppe alpine dell’Admir subirono la contundente offensiva russa sul Don – Operazione Ostrogorzk-Rossoš – e, affrontando disperate battaglie di sfondamento delle linee nemiche, in tanti s’immolarono per riuscire a rompere l’accerchiamento. Quello che si ritirava nella neve però, ormai non era più un esercito ma una somma di combattenti in disperata ricerca della sopravvivenza, e nelle nevi russe della steppa infinita quegli alpini scrissero pagine di eroica resistenza e di vana – di fatto innecessaria ai fini strategici del conflitto – gloria militare. Alla fine di gennaio del 1943 ormai l’Armir, di fatto, non esisteva più. Era svanita in un bagno di sangue per i cui sopravvissuti l’unica vittoria - a fronte della prigionia - fu il rimpatrio. Di quei 56.689 militari italiani tuttora considerati ‘ufficialmente’ dispersi in Russia, non rientrati in Italia ed i cui nomi mancano ad ogni altro appello, una parte sarà certamente morta nel corso della ritirata o subito dopo, molti altri invece saranno morti in qualcuno delle centinaia di campi di prigionia sparsi in tutta la Russia senza che di loro sia stato riportato un registro ed altri, infine, chissà realmente in pochi, “restarono con vita sul Don”. Molti dei prigionieri, infatti, furono costretti a marciare per centinaia di chilometri e poi a viaggiare su carri bestiame per settimane, in condizioni allucinanti, senza mangiare, senza poter riposare la notte con temperature siberiane. Coloro


LE IMMAGINI Gli alpini durante la ritirata in Russia, in basso una cartina del Fronte del Don

che riuscirono a raggiungere i lager di smistamento erano talmente denutriti e debilitati che le epidemie di tifo e dissenteria ne falciarono, presto o tardi, gran parte. Di certo infatti, si sa solo che non furono altri che diecimila i prigionieri italiani che tra il 1945 e il 1946 furono restituiti con vita dai lager sovietici. «… Tutti negano, ma i soldati italiani letteralmente scomparsi in Russia, cioè quelli di cui non si ha certezza della morte, insomma quelli che avrebbero deciso di restare, potrebbero essere stati numerosi. Ma chi furono questi italiani scomparsi nel nulla? Sicuramente si trattò di superstiti miracolati della tragica ritirata dal Don; probabilmente giovani uomini sull’orlo della morte salvati dall’amore di qualche contadina, o magari militari antifascisti timorosi del ritorno a casa, oppure sbandati opportunamente ‘rieducati’ dai sovietici. Chissà! È però ormai quasi impossibile che qualcuno dell’Armir sia tuttora vivo. Pur non potendo assolutamente escludere che in Russia vi sia ancora qualche italiano vivo, confuso o mimetizzato, si deve infatti suppore che i non rimpatriati siano tutti deceduti, vittime innocenti di una guerra e di un nemico implacabile. Però, nella ricerca di una verità così lontana che sembrava ormai sepolta, accanto ai morti sarebbe forse valsa la pena di cercare soprattutto i vivi...» [da una recensione di Pino Scaccia al libro “Ritorniamo sul Don” di Franco La Guidara] Certo è che comunque la si voglia raccontare, quella campagna militare in Russia costituì una enorme tragedia umana e nel popolo italiano generò una mesta memoria collettiva, che per molti si protrasse per anni, che per alcuni vive ancora, e che per la storia della nazione non potrà essere mai cancellata. E Brindisi e i brindisini non solo non rimasero esenti da quell’immane tragedia bellica, ma la patirono finanche in eccesso se i numeri della macabra contabilità delle vittime possono essere considerati quali indici del dolore umano. Furono infatti ben 38 i militari brindisini caduti in Russia e la maggior parte di loro – esattamente 29 – risultarono ufficialmente “dispersi” su quel fronte di guerra del Don a cavallo tra il 1942 e il 1943, mentre cinque dei restanti nove deceduti morirono nei campi di prigionia russi. Furono, quei 38, quasi un terzo del totale dei 125 militari brindisini appartenenti all’esercito caduti nell’intero arco della Seconda guerra mondiale. Ecco i nomi dei trentotto soldati brindisini caduti sul fronte russo: Mario Abruzzese, Ernesto Aiello, Oreste Barba, Ferdinando Barnaba, Alfredo Brando, Antonio Brucatelli (marò), Pasquale Bruno, Tommaso Cantoro,

Oronzo Carrozzo, Alfonso Conserva, Francesco Cozzetto, Antonio Crovace, Augusto D’Amico, Antimo De Ceglia, Vito De Simone, Vito De Simone (aviere), Angelo Faggiano, Antonio Fischetto, Bruno Fonzetti, Angelo Francioso, Damiano Frascaro, Lidio Giovanniello, Luigi Greco, Luigi Leccisi, Francesco Libardo, Cosimo Maffei, Armando Marulli, Francesco Melacca, Vito Menga, Teodoro Montenegro, Armando Parnasso, Cosimo Pecora, Angelo Pisani, Pietro Quadraro, Vincenzo Scazzeri, Raffele Spagnolo, Salvatore Sperto e Umberto Toscano. A tutti i loro discendenti e familiari, giunga la solidarietà ed il rispetto alla memoria di quei loro cari scomparsi così tragicamente. Oramai, e per nostra fortuna, sono varie le

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generazioni di italiani, e quindi di brindisini, la cui vita privata è trascorsa esente dalla guerra, eppure ci sono ancora tra noi persone, spesso care, che in qualche misura vissero l’ultima di quelle guerre e che portano nella carne e nella psiche i segni e i ricordi delle criticità affrontate. Testimoniando ciò, che quell’ultima tragica guerra italiana non è poi così lontana dalla nostra realtà quotidiana, quanto meno non tanto da poterci far escludere del tutto che un qualche suo sventurato rigurgito possa rinvestirci. Perciò, anche il conservare la memoria, il sapere e ricordare cosa e perché accadde ai nostri padri e ai nostri nonni, può essere un importante contributo al necessario e dovuto apprezzamento della pace tra i popoli.



BRINDISI "filia solis" Nella parte più a nord del Salento è situata Brindisi, città antichissima crogiolo di culture e teatro di vicende entrate a buon diritto nei manuali della grande storia, città nobile e antica che secondo alcuni si dovrebbe chiamare Brunda. È noto a tutti che questo nome significa testa di cervo, non in greco o latino, ma in lingua messapica, il porto di Brindisi ha infatti la forma di una testa di cervo, le cui corna abbracciano gran parte della città. Il porto è famosissimo in tutto il mondo e da ciò nacque il proverbio che sono tre i porti della terra: Junii, Julii et Brundusii. La parte più interna del porto è cinta da torri e da una catena; quella più esterna la proteggono gli scogli da una parte e una barriera di isole dall'altra: sembra l'opera intelligente di una natura burlona, ma accorta. La costa, che dal monte Gargano fino a Otranto è quasi rettilinea ed incurvata in brevi tratti, nei pressi di Brindisi si spacca ed accoglie il mare, formando un golfo che si insinua nella terra con uno stretto delimitato, come già detto, dalle torri e dalla catena. Un tempo, questa stretta imboccatura era profondissima e poteva essere attraversata con navi di qualsiasi grandezza. Da questo stretto, il mare si riversa per un lungo tratto dentro la terraferma attraverso due fossati naturali che circonvallano la città; è sorprendente, soprattutto nel corno destro, la profondità del mare che in qualche punto, dicono, supera i venti passi. La città ha all'incirca la forma di una penisola, tra i due bracci di mare. Sul corno destro, ha una fortezza di straordinaria fattura, costruita con blocchi di pietra squadrata per volere di Federico II, e poi ha il castello Alfonsino, il Forte a mare dei brindisini. Brindisi è cresciuta sul più orientale porto d'Italia che ne ha determinato il destino. Le colonne terminali della via Appia, specchiandosi dall'alto della loro scalinata nelle acque del porto interno, vigilano su quella che la tradizione vuole come l'ultima dimora di Virgilio. E poi Brindisi cela tantissimi altri frammenti di storia, le cui testimonianze sono ancora leggibili nel tessuto urbano, attraverso itinerari che si devono percorrere per ammirare l'eleganza dei suoi numerosi palazzi, le maestose dimore dei Cavalieri Templari, la ricchezza del suo patrimonio chiesastico e da ultimo, per scoprire l'essenza autentica della città che il grande Federico II definì "filia solis", esaltando la mediterranea solarità di questo straordinario avamposto verso l'Oriente.


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