Exit Morandi_versione italiana

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Exit Morandi



Museo Novecento Firenze

Exit Morandi

a cura di Maria Cristina Bandera Sergio Risaliti



13 Giorgio Morandi. Lo sguardo che si apre sull’immediato Sergio Risaliti 21 Firenze, 28 giugno 1964 Maria Cristina Bandera 31 Morandi, un’altra lettura Maria Cristina Bandera 37 Giorgio Morandi Elévage de Poussière Claudio Parmiggiani 41 Giorgio Morandi: resistenza e persistenza Sean Scully /

48 Opere 102 Note biografiche 106 Bibliografia citata





Giorgio Morandi. Lo sguardo che si apre sull’immediato

Sergio Risaliti Direttore artistico Museo Novecento

Anche con soggetti così semplici, un grande pittore può raggiungere una maestosità visiva e un’intensità emotiva alle quali reagiamo all’istante. Giorgio Morandi

All’indomani della morte di Giorgio Morandi, il suo intimo amico “per oltre un trentennio” e massimo esegeta, Roberto Longhi, leggeva commosso un testo in televisione per il programma “L’Approdo”. L’inquadratura, in un anacronistico bianco-nero, ritrae lo studioso vestito con sobria eleganza ma disinvolto nella postura sulla soglia della odierna Fondazione Roberto Longhi; alle sue spalle, una pianta di oleandro a decorare l’intonaco assolato di Villa Il Tasso. Exit Morandi ha lasciato il segno nella storia e nella critica d’arte posteriori. Longhi, che aveva già parlato in altra stagione di “severa elegia luminosa” a proposito della “pittura silente e ferma” di Morandi, fa risaltare una coincidenza dalle conseguenze per lui perfino epocali: “Una nemesi capricciosa ma non priva di significato ha voluto che Morandi uscisse di scena il giorno stesso in cui venivano esposti a Venezia i prodotti della «pop-art»”. Il critico era convinto che statura e influenza di Morandi sarebbero cresciute a dismisura, mentre sarebbero stati ridimensionati i valori degli stagionali prodotti artistici commercializzati prima e dopo Morandi. La tesi di Longhi, in quel mondo spalancato al progresso dei gusti e dei consumi, poteva apparire quella di un critico un po’ reazionario e conservatore accampato in difesa di una tradizione pittorica occidentale che saldava il mondo di Giotto, Masaccio, Piero della Francesca, Bellini, Tiziano, con quello di Chardin e Corot, di Renoir e Cézanne, per culminare in Morandi, “austero viandante la cui «vox clamanti» raggiungeva anche le plaghe più desertiche dell’arte che gli fu contemporanea”. D’altronde quella era una stagione qualificata dalle spregiudicate avanguardie che ritenevano di poter azzerare la storia in nome di ready-made e icone popolari o commerciali (come le Brillo Box o la Marilyn di Warhol). Col tempo si è avverato il presagio di Longhi, non tanto nel senso del ridimensionamento dell’importanza epo-

cale della Pop Art, quanto in quello che indicava Morandi come faro e riferimento di tanti artisti contemporanei sintonizzati con i valori profondi e ricorrenti della storia dell’arte, quella a cui il pittore bolognese sentiva di appartenere nello svolgimento delle sue universali silenziose poesie. A Longhi l’arte estrema di Morandi, fonte di un’educazione sentimentale, si era rivelata nel 1934, anno della “scandalosa” prolusione all’Università di Bologna. Nel 1945 Longhi tornava quindi a scrivere splendide note su di un gruppo di dipinti scelti, del periodo tra il 1919 e il 1943, mentre Bologna veniva liberata dal gioco nazifascista. Due decenni dopo, nella prefazione alla mostra personale di Giorgio Morandi alla Biennale di Venezia del 1966, quando il pittore bolognese era già deceduto da due anni, Longhi spiegava la loro duratura e profonda intesa: “Eravamo, con uno stacco di pochi mesi, della stessa, identica generazione, ma la nostra intimità (che pur non ci fece deflettere dal “lei” dell’uso ottocentesco) fu cosa tutta mentale e si rispecchiò in una concordia di storiche preferenze che non ho mai ritrovato così profonda in alcun critico coetaneo. Per meglio intendere il moderno Morandi, io amavo, insomma, interrogarlo sugli antichi”. Morandi era dunque un cannocchiale rovesciato di cui l’occhio rapace di Longhi si avvaleva per scrutare da lontano il corso della storia fino al presente. Il passo forse più importante, nel rileggere oggi quel testo, non è tuttavia di filologia ma di critica generale. Longhi vi spiega quale fosse il discrimine per un artista che rifiutava ogni forma o espressione in cui “vedeva pungere anche un sospetto di eloquenza, di turgidezza, di agitazione, di retorica, della violenza fisica, della forza del titanico, del capaneico, e simili. Forse perché ne avvertiva, alla lontana, le conseguenze”. Ovvio che Morandi non amasse Botticelli, Pollaiolo, Michelangelo, certo “malinteso Primitivismo e

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Francesco Arcangeli a metà degli anni cinquanta. Courtesy Fondazione di Studi di Storia dell’Arte Roberto Longhi, Firenze

futurismo balordo”. Perché “il monaco Morandi nella sua cella”, come lo immortala Longhi, costruisce “scavando dentro e attraverso la forma, e stratificando le «ricordanze» tonali, per uscire alla luce del sentimento più integro e puro”. Longhi comprende che Morandi è forse l’ultimo pittore dotato di un sentimento poetico tanto profondo quanto vasto del mistero delle cose; i suoi sono pochi “oggetti inutili, paesaggi inameni, fiori di stagione”, contemplati come forme pure con gli occhi di un artista concettuale che sa che la pittura è cosa mentale. È un mondo, quello di Morandi, in cui i soggetti si riducono all’essenziale per girare al minimo. Ecco perché la sua arte ci appare come azione estrema, quando giunta al limite di un cammino che altri avrebbero condotto all’astrazione, si ferma senza arretrare, avendo scelto da sempre una forma di gnosi pittorica che, estraendo dalla realtà la verità immota, giunge a perpetuare l’immagine di un oggetto nelle costanti variazioni sentimentali della forma-colore. Morandi per Longhi sceglie soggetti umili per dire poeticamente la verità: oggetti e luoghi che, isolati dal rapido corso del tempo e dal caos del mondo, restano, tra le mani dell’artista come “simboli necessari, vocaboli sufficienti ad evitare le secche dell’astrattismo”. Oggetti di casa, elementi affettivi, paesaggi contemplati dalla finestra, così dimessi e modesti da apparire remissivi ad un linguaggio metafisico cui è restituita lentamente la luce dell’immortalità. Un farsi evento dell’immagine nell’istante in cui la mimesi conosce il suo tramonto, la sua cecità. Potremmo dire con Massimo Recalcati che Morandi “dipinge l’oggetto non per raddoppiare la sua esistenza nella virtualità della sua rappresentazione, bensì per mostrare come nella sua immanenza sia ospitata una trascendenza che sfugge a ogni possibile rappresentazione”. Morandi “non si limita a dipingere la realtà visibile dell’oggetto ma, insistendo a dipingere

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l’oggetto visibile, finisce per derealizzarlo, per renderlo testimone dell’invisibile: l’immagine non si può tradurre mai in uno o più significati, ma, piuttosto, si tratta di evidenziare la sua eccentricità nei confronti del piano stesso della significazione. L’immagine che viene al posto dell’inesprimibile segnala la sua convergenza con il reale; è l’immagine non come copertura del reale, ma come indice del reale”. Anche Cesare Brandi in visita alla casa-studio di Morandi ritrova quegli oggetti che gli si presentano polverosi e poveri, e nota che dalla loro strategica disposizione sono nate “improvvise finestre sull’anima”. Li guarda come fa un bambino con le figure di un teatrino di piazza e quelle cose gli appaiono come fossero “i burattini attaccati in un canto dal feroce Mangiafuoco”; quella bottiglia Colombina, la palletta gialla e blu “forse raccattata in un prato, avanzo dei giuochi di un fanciullo, il barattolo che fu del caffè, o la sagoma di legno su cui fu la sveglia”. A Brandi non sfugge l’elemento di forza, possente e resistente, della poetica di Morandi; quel suo modo così singolare e assoluto di mantenere l’esserci figurativo di una cosa sull’orlo del suo non essere più, come quando un linguaggio astratto arriva a occupare tutto lo spazio della pittura. Tutto dipende dal colore, per Brandi, che pur astraendo il visibile dalla dipendenza della cosa ravviva l’oggetto che resta sul campo a difendere l’ultima vestigia di una qualche forma figurativa per noi riconoscibile, immagine specchio o riflesso del mondo in cui siamo e viviamo. Brandi parla, a tal proposito, del “colore di posizione” che è valore sostanziale dello spazio occupato da una forma e non dall’oggetto “per cui l’oggetto in quanto tale può essere e non essere, presente e assente, vicino e lontano, assente senza che l’immagine sia fatta astratta. Così, l’oggetto può rimanere evidente e irraggiungibile anche se offerto a portata di mano”. Forse è questa

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doppia azione, sul linguaggio e sul senso, a fare di Morandi un punto di riferimento per molti artisti contemporanei. Yves Bonnefoy sostiene che quella di Morandi è “un’esperienza del tutto diversa da quella dei suoi contemporanei, che constatano le illusioni del discorso e ne concludono che bisogna operarne la decostruzione. Questa la sua esperienza, questa la domanda in ogni caso: nell’illusorietà del discorso come restare arroccati a un senso, come conservare il contatto tra le parole e il mondo, come permettere loro, potremmo piuttosto dire, di creare un mondo? Che Morandi si ponga questa domanda è evidente. Le sue figure possono essere percepite solo come vestigia della vita, nel silenzio delle rovine, ma il loro colore ha conservato un’intensità che dimostra che il contatto con ciò che, in questo vuoto, si percepisce come essere non è interrotto: i fiori sono recisi, eppure non appassiscono. E il bouquet su quel tavolo silenzioso, non si può dire forse che è qualcosa di disposto? Di disposto in vista di un arrivo, di un’attesa?”. Il poeta e filosofo francese sostiene che per Morandi “le costruzioni del linguaggio sono solo marchingegni per produrre illusioni […], che le parole non hanno alcuna capacità di aprirsi un varco su qualcosa di diverso da ciò che sono, non hanno alcuna attitudine di verità al di fuori del linguaggio, là do-

Giorgio Morandi. Lo sguardo che si apre sull’immediato

ve comunque dobbiamo vivere, esseri mortali quali siamo, e ha ritenuto che rimanesse quindi solo la possibilità di giocare con gli aspetti che le parole colgono nelle cose: pratica insomma estetica, di cui ci si dovrebbe accontentare dato che l’arte, questo tipo di arte, si sostituisce alla nostra esistenza di vane ombre. Laddove gli antichi pittori di paesaggio amavano riconoscere il luogo della vita, Morandi sembra suggerire che ci si astiene dal vivere”. Vi sarebbe dunque al fondo della commovente elegia pittorica di Morandi una sfiducia esistenziale che ha sperimentato l’incontro con la realtà e con la vita come esperienza dell’assenza e del vuoto. Infatti la sua è opera della memoria e dell’oblio, come sostiene Recalcati: “Da una parte […] essa elegge il visibile – l’oggetto nella sua contingenza particolare – a suo centro esclusivo, dall’altra però sembra sottrarre questo stesso oggetto alla sua caducità inevitabile elevandola alla dignità dell’eterno. Morandi non si limita a dipingere la presenza dell’oggetto negando la sua assenza: opera esattamente al contrario. Accosta la presenza all’assenza, dipinge attraverso la presenza dell’oggetto la sua assenza, il suo essere perduto. E tuttavia nella sua pittura la contingenza particolare dell’oggetto – sottratto all’erosione del tempo – diviene un’immagine indelebile, un’immagine che resta”. Un’immagine senza tempo. Guardiamo certe composizioni di Morandi in cui gli oggetti sono deposti in bilico tra bordo del piano di appoggio e spazio circostante. Oggetti periclitanti, in precario equilibrio. Eppure immobili, resilienti. Stanno e non cadono. In virtù di una legge armonica che ne stabilizza la presenza fuori del tempo comune e a dispetto della legge di gravità. Hanno un corpo e una presenza che supera le leggi fisiche essendo di forme di natura suprema, immagini metafisiche. E nel momento in cui pensiamo al perturbante come zona d’ombra di quelle lumi-

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Firenze, 28 giugno 1964

Firenze, 28 giugno 1964: “Voglio dire che la statura di Morandi potrà, dovrà crescere ancora, dopo che quest’ultimo cinquantennio sarà stato equamente ridimensionato […]. Nulla perciò, più della sua morte, può stimolare a quell’opera di ridimensionamento; dopo la quale ben pochi resteranno a contarsi, forse sulle dita di una sola mano; e Morandi non sarà secondo a nessuno”. Questa l’autorevole, lungimirante previsione di Roberto Longhi, confermata oggi dall’attenzione internazionale per il pittore che davvero non ha confini. Non si trattò di un vaticinio avventato, ma di un giudizio critico ponderato, maturato lungo un trentennio, espresso dall’importante storico dell’arte sui gradini di accesso al proprio studio a Villa Il Tasso a Firenze, davanti alla telecamera che lo riprendeva per la trasmissione televisiva “L’Approdo”, programmata, a dieci giorni di distanza, per commemorare l’uscita di scena del pittore, avvenuta il 18 giugno 1964. Il parlato del video1, di cui si conservano le stesure manoscritte2, in seguito, limato e sfrondato dalle parole dettate dall’emozione per la perdita di “uno dei massimi amici”, divenuto testo scritto, fu pubblicato con il titolo Exit Morandi sulle pagine de “L’Approdo Letterario”3. Il sodalizio intellettuale e amicale tra Longhi e il coetaneo Morandi – anch’egli nato nel 1890 – era iniziato con un’altra imprescindibile asserzione dello storico dell’arte, espressa trent’anni prima, sul finire del 1934, in occasione della prolusione tenuta in veste di nuovo titolare della cattedra di Storia dell’Arte all’Università di Bologna, la città dove il pittore condusse la sua vita. Inaspettata, scosse l’uditorio dell’epoca, accalcato in “un’aula gremitissima”4, e rimase pietra miliare della letteratura critica sul pittore, che fino ad allora, sebbene quarantenne, aveva avuto l’esclusivo riconoscimento di amici artisti, letterati e pittori, Bacchelli, de Chirico, Soffici, Carrà e Longanesi (cui

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appartenne la Natura morta, 1929 circa, V. 151, ora esposta5). In quell’occasione Longhi concluse la sua illuminata revisione dei Momenti della pittura bolognese rivolgendogli un autorevole encomio, il primo da parte della critica ufficiale: “E finisco col trovar non del tutto casuale che, uno dei migliori pittori viventi d’Italia, Giorgio Morandi, ancor oggi, pur navigando tra le secche più perigliose della pittura moderna, abbia, però saputo sempre orientare il suo viaggio con una lentezza meditata, con un’affettuosa studiosità, da parer quelle di un nuovo incamminato”6. Come ricorda Attilio Bertolucci, fu una vera e propria “deflagrazione”, dal momento che il pittore “era considerato dalla maggior parte degli uditori, con sospetto ‘un futurista’”7. Insomma, a quella data, Longhi riconobbe da subito la grandezza assoluta di Morandi e soprattutto la sua unicità, in grado all’epoca di smuovere acque stagnanti. Un decennio dopo, come si ricava nel memorabile testo introduttivo della piccola e commovente mostra monografica, apertasi il 21 aprile 1945 alla Galleria il Fiore, nella Firenze appena liberata, ma ancora sulle macerie della Seconda guerra mondiale, il critico affidò al pittore il compito “di servire da lezione ai migliori” quando ancora non si sapeva se “la palla della pittura […] sarebbe andata a cadere nel cesto dei cenci colorati di un più che frettoloso romanticismo o in quello della più ‘centristica’ nullità mentale?”8 A distanza di anni, in un incalzare critico dettato dal lasso temporale, ma soprattutto dal mutare della situazione artistica, Morandi venne assunto da Longhi come antidoto a “tutte le deviazioni di gusto astrattistico”. Lo si ricava in un passo della lettera scritta nell’aprile 1962, indirizzata a “Momi”, come familiarmente chiamava l’allievo di un tempo Francesco Arcangeli (già possessore della Natura morta, 1948 , V. 612, ora esposta a Firenze), esprimendogli il

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Ghitta Carell, Roberto Longhi, 1934. Courtesy Fondazione di Studi di Storia dell’Arte Roberto Longhi, Firenze

proprio dissenso sulla lettura morandiana avanzata nella sua monografia – pubblicata, com’è noto, dopo la morte del pittore, non avendone ricevuto in precedenza l’assenso9, – di cui gli aveva sottoposto in anticipo il dattiloscritto per averne l’autorevole parere, contestandone l’“eccessiva ambientazione bolognese/italiana/europea” a favore di una interpretazione che “ammette che Morandi è stato da subito in grado di reagire e anzi di rifiutare il proprio ambiente”10. Documento che vale la pena di rileggere per un’esatta comprensione del pensiero di Longhi in antitesi a quello di Arcangeli, sottolineato con insistenza dalla reiterata ripetizione dell’indicazione “per me”, certamente non casuale: “Per me Morandi è anzi un rimprovero acerbo a tutte le deviazioni di gusto astrattistico (sia platonico che cosmologico-spirituale) che vengono tra il 10 e il 20. E qui il nostro dissenso verte sul giudizio di valore, molto diverso, che noi due diamo ai movimenti moderni; tu positivo, io sostanzialmente scettico e negativo (una volta salvatine, s’intende i nomi dei primi cubisti, di Klee e di Soutine). Tutti gli altri per me non sono da citare in vicinanza o in tangente con Morandi, la cui frase ‘nulla di più astratto del mondo visibile’ è la più alta dichiarazione di antiastrattismo che mai sia data”11. Su questa linea, sempre in coerenza con il proprio pensiero, non stupisce che Longhi si servisse proprio della morte di Morandi quale barriera da anteporre all’ondata americana che si stava propagando sulla Biennale, sottolineando nell’obituary dedicatogli nel 1964, quell’Exit Morandi da cui abbiamo preso avvio, come “una nemesi capricciosa ma non priva di significato” avesse voluto che ciò avvenisse “il giorno stesso in cui venivano propalati ed esposti con grande pompa a Venezia – [assunto corretto nel testo scritto in “esposti a Venezia”] – i prodotti della pop-art”12. E nel pronunciare la frase per la registrazione audiovisiva de “L’Approdo”, do-

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po le prime battute caratterizzate dall’inflessione commossa della voce per l’amico scomparso, Longhi recupera la propria teatralità, tanto pone l’accento con tono di sprezzo e con voce recitativa nel sottolineare le assonanze vocali, sulle parole che esprimevano il proprio dissenso critico: “propalati […] con grande pompa”, “prodotti” e “pop-art”. Sebbene non sia questa l’occasione di dibattere sulla divergenza d’opinione tra Longhi e Arcangeli, tanto sono stati versati fiumi d’inchiostro sull’argomento soprattutto nel secolo scorso – essendo questa la collocazione temporale del contendere circa una tangenza o meno della pittura di Morandi con le tendenze astrattistiche del suo tempo, ormai metabolizzata – va comunque ricordato che anche il più giovane e ‘schierato’ dei due studiosi non mancò di sottolineare nella sua travagliata biografia, che reca in calce la data di stesura “luglio 1960 – dicembre 1961”, come la “fama” del pittore, per lui e per gli amici della sua generazione già “un mito ormai alto”13, “fosse destinata a salire nel mondo”14. Va tuttavia ricordato come l’immagine che Morandi volle dare del proprio operare – spesso scegliendo in prima persona la sequenza delle opere da esporre nelle mostre personali15 – si ponga in sintonia con l’esegesi longhiana. Una lettura che, non aderendo alla supremazia del ‘moderno’, lo sfila dalle contingenze e dalla prossimità con le correnti artistiche del suo tempo, anche quelle internazionali, sebbene di esse Morandi avesse una conoscenza approfondita e selettiva, al fine di sottolinearne la strada intrapresa in forte autonomia. Una risoluta e tenace consapevolezza del proprio lavoro che fece scrivere a Morandi nella propria Autobiografia stilata nel 1928, come, dopo un periodo formativo in cui rimeditò sui “vecchi maestri, che costantemente alla realtà si ispirarono”, avesse compreso la necessità di abbandonarsi “interamente” al proprio “istinto, fidando” esclusivamente

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nelle proprie “forze e dimenticando nell’operare ogni concetto artistico preformato”16. Un’indipendenza di pensiero che un decennio dopo – intervistato da Piero Bargellini nel 1937, che, nel suo ruolo di direttore della rivista “Il Frontespizio”, si occupava di brevi biografie di Artisti italiani – gli avrebbe suggerito di esprimere con lucidità e senza esitazione la finalità della propria arte: “Quello che importa è toccare il fondo, l’essenza delle cose”17. Un’asserzione centrale della poetica di Morandi che il suo intervistatore così commenta: “Dice essenza e si sente che intende dire essere. Non parere, essere”18. Partendo da questi presupposti le pagine di Longhi – risultato della trentennale “intimità tutta mentale” con Morandi19, corroborato da forti condivisioni artistiche20 e soprattutto sor-

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retto da una profonda stima reciproca che li ha portati a non deflettere mai dal ‘Lei’, quella terza rispettosa persona, con cui interloquivano e si scrivevano – sono illuminanti per comprendere il pittore, la sua “traiettoria ben tesa”, la sua “lunga strada”. Un’intensa affinità intellettuale resa tangibile dagli apprezzamenti che si scambiarono l’un l’altro nella loro corrispondenza, concentrati e privi di compiacimento: “In questo momento mi giungono le sue acqueforti, ammirevoli”, scrisse Longhi nel 193821, con riferimento a quelle entrate nella sua collezione, oggi esposte in questa rassegna: Natura morta (natura morta con la statuina), 1921, V. inc. 17; Paesaggio (Veduta dell’Osservanza di Bologna), 1922, V. inc. 16; Paesaggio con la ciminiera (Sobborghi di Bologna), 1927, V. inc. 2722. Morandi, a sua volta, nel 1951, rivolgendosi allo storico dell’arte, scrisse: “Sono già stato alla mostra del Caravaggio. Magnifica.”23, alludendo a quella epocale da poco apertasi nelle sale di Palazzo Reale a Milano. Per intensità spicca l’elogio del critico nelle “Avvertenze” dei propri Scritti giovanili editi nel 1961: “[Morandi] è ancora oggi la punta più avanzata dell’arte moderna”24, cui fa eco quello del pittore ugualmente pregnante: “sto leggendo, come può immaginare col più vivo interesse, i Suoi Scritti giovanili. Anche questi, come tutta la Sua opera hanno insegnato, insegnano ed insegneranno sempre.”25 Si trattò di un sodalizio tra i più intensi che la storia della cultura rammenti tra un artista e un critico, che farà sì che, com’è noto, Morandi tenesse fino ai suoi ultimi giorni sul suo tavolo la monografia del suo mentore su Piero della Francesca, edita dai “Valori Plastici” nel 192726, che per l’assunto critico e la ricchezza delle sue illustrazioni dal taglio innovativo gli fu di costante stimolo, tanto da serbarne traccia in molte sue opere27. Ciò è evidente, in mostra, nella Natura morta, 1941, V. 31, in cui le bottiglie

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Giorgio Morandi. Natura morta, 1937 ca.-1938 ca., V. 232, olio su tela, 42 × 63 cm (dettaglio) Courtesy Collezioni Civiche, Raccolta Alberto Della Ragione, Firenze

zio della gara con l’Astrattismo internazionale. Come un pugile che combatte senza lasciare lo sgabello nell’angolo del ring, quasi che il solo gesto di alzarsi per lottare sia troppo conformistico e compromettente. Morandi usa un colore tenue, quasi smorto, incapace o restio a emergere. Invece di protendersi nello spazio per comunicare la potenza visiva, lascia che sia chi guarda a protendersi verso di lui. Siamo noi ad avvicinarci. Il quadro aspetta. Permette, anzi invita, a passare oltre e ignorarlo, ed è solo dopo aver visto molti altri dipinti che vi si torna con i propri dubbi. Morandi incarna la pazienza e la diffidenza della storia. Il quadretto nato smorto non ha bisogno di essere sconfitto dal tempo e dalla storia, sua progenie. Morandi, impregnato di storia, comprende che l’opera può affacciarsi alla vita in quel modo, quasi fosse già stata indebolita dal tempo durante la stessa creazione. Sacerdote della sovversione e della deferenza, siede nella sua stanzetta sfiorando le umili superfici con la vibrante accettazione dell’impossibilità e della necessità della resistenza. Resistenza alla maggioranza e resistenza al progresso. Quando il fascismo divampava in Europa come un incendio, Morandi era un giovane studente d’arte che cercava di affermarsi nel mondo contemporaneo. Alla vita pubblica e artistica si affacciò dialogando attivamente con i concetti visivi del tempo, fra cui dominava il Cubismo. I suoi paesaggi e le sue nature morte degli anni 1913 e 1914 dimostrano la volontà di fare ciò che tutti i giovani artisti fanno, cioè apprendere le lezioni dell’arte recente. Nel suo caso, però, quel dialogo ha vita breve e il rifiuto dell’internazionalismo scaturisce da una reazione negativa, profondamente sentita, alla guerra e alle sue conseguenze. Pertanto Morandi cominciò il suo singolare cammino viaggiando in direzione opposta rispetto ai contemporanei.

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L’atto di guardare con Cézanne Vedere e lavorare. Dipingere in modo predeterminato e dipingere un soggetto che di fatto era sempre lo stesso, liberando così lo stile pittorico che rappresentava il soggetto senza pregiudizi, direi, e la libertà di leggerlo come spazio, luce, colore e forma. Morandi dipinge oggetti esistenti sebbene privati di tutti i pesanti riferimenti alla funzione sociale e alla storia o ai contesti politici. Il suo modesto stile espressivo ben si accorda a soggetti altrettanto modesti in quanto veicoli e contenitori, il cui significato è aperto ed esiste al di fuori dell’evidente riferimento politico o funzionale. Siamo liberi di apprezzarli e di percepirli come accadrebbe con un dipinto astratto, pur essendo fedeli e misteriose rappresentazioni di oggetti esistenti. Riuniti in rapporti di intima dipendenza reciproca, a tal punto che i contorni si toccano e i raggruppamenti e il contatto permettono loro di ergersi, umili eppure nobili, sul semplice scaffale. Rappresentano se stessi senza dire esattamente cosa. La ripetitività del soggetto amplifica la reazione immaginativa. Morandi ha imparato le lezioni dell’Astrattismo. Ha compreso come la potenza della ripetizione e il costante ritorno allo stesso motivo, o a uno simile, schiudano le profondità emotive e la gamma interpretativa. Se l’Astrattismo astraeva la realtà per approdare alla sponda non oggettiva della nuova esperienza, lui ribalta il percorso restituendo questa possibilità alla semplice realtà osservata. In ciò è assai diverso da Cézanne, suo grande esempio, che conobbe l’Astrattismo solo in tarda età, anche se ne fu pioniere sistematizzando la pittura. In tal senso, però, superò l’apparenza con la struttura. Morandi non ebbe bisogno di farlo, perché l’apparenza delle cose nel mondo era già stata conquistata dall’Astrattismo.

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In un documentario sulla pittura di Cézanne, l’artista si muove come un uccello, inclinando a scatti la testa verso il soggetto, la tela, il soggetto e di nuovo la tela. Avanti e indietro in un rapporto triangolare fra pittore, soggetto e dipinto. Lo faceva anche Morandi nel ritrarre i vasi o il panorama che vedeva dalla finestra di Grizzana. Sempre in un triangolo. Mentre dipingo, io guardo la tela sulla parete. Mi sposto avanti e indietro dallo sgabello al quadro in linea retta, fra me e l’opera. Il dipinto è sia soggetto sia oggetto. Non c’è nessun triangolo. Quando inizio a lavorare, ho già dentro di me tutto ciò che mi occorre. Ed è una differenza cruciale. Esistono somiglianze, ma la differenza è profonda. Robert Irwin definì Morandi autore di un genere unico di Espressionismo Astratto. Pur condividendo questa opinione generosa, e nutrendo lo stesso apprezzamento per la sua opera, io ne darei una definizione opposta. Gli Espressionisti Astratti lavoravano in un clima favorevole grazie al sostegno reciproco, e alla loro ascesa nella cultura mondiale contribuì trovarsi nel posto giusto al momento giusto. Le varie foto di gruppo scattate a de Kooning, Pollock, Krasner, Motherwell, Newman e non solo testimoniano lo slancio culturale di cui furono beneficiari. Gli Espressionisti Astratti operavano in armonia con la storia culturale del loro tempo e le

Giorgio Morandi: resistenza e persistenza

rispettive carriere prosperarono di conseguenza. Sfruttando l’arte europea, come esemplificato da Surrealismo e Astrattismo Geometrico, la rifiutarono e la migliorarono a vantaggio di una nuova arte americana “eroica”. Dalla loro avevano scrittori come Greenberg, Sandler e Hess, mecenati facoltosi come Peggy Guggenheim e nuovi musei appositamente costruiti in America per contestualizzare in senso critico, acquistare ed esporre le nuove e potenti opere. Il semplice fatto che a tutt’oggi Morandi rappresenti ancora una “causa” che altri artisti si sentono in dovere di sostenere dimostra quanta resistenza opponesse il suo lavoro. I suoi quadri non venivano collezionati perché non si adattavano. Perché negli anni cinquanta e sessanta, quando vennero create le grandi collezioni d’America ed Europa, ad “adattarsi” era solo l’Astrattismo. Se per molti pittori il “soggetto” di Morandi non è importante, e l’aspetto figurativo del suo lavoro si può ignorare per godere di quello astratto, le principali istituzioni lo ignorarono per un buon motivo. In parole povere, cioè, non è astratto. Pertanto non può essere legittimamente considerato una forma di Espressionismo Astratto. Andrebbe letto come figurativo.

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Giorgio Morandi. Natura morta (natura morta di oggetti in viola), 1937, V. 222, olio su tela, 61,8 × 76,3 cm (dettaglio) Courtesy Fondazione di Studi di Storia dell’Arte Roberto Longhi, Firenze

Contrappeso al predominio della pittura americana degli anni cinquanta, Morandi ha un ruolo incontestabile e oggi sembra fornire molteplici spunti ed esempi ai giovani pittori. Il suo lavoro non negozia con l’Espressionismo Astratto come ad esempio fa quello dell’autorevole artista francese Yves Klein, che compete con le dimensioni e la schiettezza concettuale degli americani, o di altri europei quali Soulages, Schumacher e Tàpies, che lavoravano su scala altrettanto grande. L’estrema originalità ottenuta da Morandi fa da contrappunto a tutto questo. Lui è l’autentico “opposto”. Invece di gareggiare con l’arte americana fa il contrario, operazione che l’arte americana non è in grado di fare perché nessuna cultura può rappresentare con efficacia il proprio opposto. Una volta, al telefono, raccontavo a un’amica di un dipinto che avevo appena finito dal titolo Wall of Light Sky. Mi aveva chiesto di descriverglielo e, dopo qualche minuto, le ho detto: “Posso farlo descrivendoti una cosa che non può esistere”. Le ho spiegato che, essendo fatto con molti grigi a cui avevo aggiunto rosa, rosso e blu, forse somigliava a un Morandi gigante disegnato su una griglia discontinua. Parlavo quindi di come a un soggetto semplice si possa conferire una complessa storia condensata sovrapponendo strati di colore incerti. Lei ha capito al volo anche se le avevo descritto l’impossibile, poiché un Morandi gigante è l’esatto contrario di un Morandi, della sua essenza e di come si colloca nel mondo artistico. Morandi è in tutti i sensi l’opposto dell’Astrattismo in scala eroica. L’isolamento in cui lavorava è parte integrante del significato che sta al cuore della sua opera. Scelse di resistere al Modernismo come non fece, e non dovette fare, per esempio Jackson Pollock. Pollock era attivo in una cultura nascente che aveva appena vinto un conflitto mondiale e contribuito a sconfiggere il fascismo. Dopo la Seconda guerra mondia-

Giorgio Morandi: resistenza e persistenza

le l’America fu invasa da immigrati riconoscenti e ansiosi di mostrarsi patriottici, e traboccava di fiducia in se stessa. New York rappresentava apertura, libertà e, soprattutto, ricchezza. Non c’era ragione per cui i suoi artisti le opponessero resistenza. In fondo erano l’equivalente di Masaccio che lavorava nella Firenze del XIV secolo. New York era la nuova Firenze, l’accesso a un futuro di libertà e benessere. Il mondo di Morandi era molto diverso. Non era grande nel senso che si apriva alla luce, bensì piccolo nel senso che, nel bel mezzo della crisi personale, del fascismo e delle tenebre incombenti, l’artista doveva dipingere in un angolo sfruttando “ciò che restava”, ciò che poteva salvare. Non tanto ciò che era possibile in termini di creazione, crescita e libertà, quanto piuttosto ciò a cui poteva aggrapparsi, come essere umano, in un contesto di speranze deluse e pericolo. Nel 1915, quando l’Italia entrò in guerra, Morandi si arruolò nell’esercito, evento che gli costò un esaurimento nervoso. Fra l’altro da un punto di vista politico il Modernismo, rappresentato in Italia dal Futurismo, a tratti era stato vagamente collegato al fascismo. Dopo l’esaurimento, Morandi si rifugiò nell’insegnamento. Così poté distanziarsi dal mondo polarizzato degli estremismi politici, dalla guerra e dall’avanguardia italiana. A mio avviso è allora che cominciò a staccarsi dalla comunità artistica internazionale per creare il proprio spazio privato, popolato da oggetti muti, piccoli e familiari. I suoi vasi, bicchieri e scatole, piccoli e intimi, gli donarono stabilità e quella pace vitale per il benessere mentale. Con questo soggetto unico riuscì a ricostruire la sua sfera emotiva e ad avviare la graduale formulazione di una grande opera sobria che rappresentava il ritorno alla pittura in scala ridotta nella tradizione di Chardin e Manet.

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Opere


Bagnante, 1918, P. 1918/1, acquerello su carta, 24 Ă— 10 cm Courtesy Collezioni Civiche, Raccolta Alberto Della Ragione, Firenze

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Natura morta, 1929, V. 151, olio su tela, 30 Ă— 60 cm Courtesy collezione privata

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Opere


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Paesaggio, 1936, V. 213, oil on canvas, 60 Ă— 60 cm Courtesy Collezioni Civiche, Raccolta Alberto Della Ragione, Firenze

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Natura morta in un tondo, 1942, V. inc. 109, etching on paper, 377 Ă— 45 mm Courtesy Collezione Banca Monte dei Paschi di Siena

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Note biografiche

Maria Cristina Bandera

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1890 Giorgio Morandi nasce a Bologna il 20 luglio, primo di cinque figli. 1907 S’iscrive all’Accademia di Belle Arti di Bologna che frequenterà fino al 1913. 1909 Conosce Osvaldo Licini, suo compagno d’Accademia; visita la VIII Biennale di Venezia. Ha modo di vedere i primi quadri di Cézanne riprodotti nel volume Gl’impressionisti francesi di Vittorio Pica (1908); segue gli scritti di Ardengo Soffici sulla rivista “La Voce”. 1910 Visita la IX Biennale di Venezia, succeduta alla precedente con l’intervallo di un anno; è l’occasione di vedere, tra l’altro, dipinti di Renoir, cui è dedicata un’intera sala. Un viaggio a Firenze gli consente di studiare Giotto, Masaccio, Paolo Uccello. 1911 All’Esposizione Internazionale di Roma vede per la prima volta opere originali di Monet. Data il primo quadro pervenutoci (Paesaggio, V. 2). 1912 Incide la prima acquaforte a tiratura dichiarata (Il ponte sul Savena a Bologna, V. inc. 1). 1913 Si licenzia dall’Accademia di Bologna e dipinge i primi paesaggi di Grizzana; conosce i fratelli Bacchelli, lo scrittore Riccardo e il pittore Mario. Nella primavera assiste alla Serata Futurista di Modena. 1914 In gennaio visita l’Esposizione di Pittura Futurista organizzata a Firenze dalla rivista “Lacerba”, quindi assiste alla Serata Futurista al Teatro del Corso a Bologna, dove incontra Umberto Boccioni e Carlo Carrà. Il 20 marzo espone all’hotel Baglioni di Bologna, per una mostra di una notte e due soli giorni, assieme a Mario Bacchelli, Osvaldo Licini, Severo Pozzati e Giacomo Vespignani. Partecipa alla Prima Esposizione Libera Futurista della Galleria Sprovieri di Roma, quindi alla Seconda Esposzione della Secessione, dove può vedere tra l’altro una scelta di acquerelli di Cézanne e alcuni dipinti di Matisse. Studia Giotto, prima ad Assisi poi a Padova. Inizia a insegnare disegno nelle scuole elementari, incarico che manterrà fino al 1930.

1915 Richiamato alle armi nel Secondo Reggimento Granatieri (per la sua statura) si ammala gravemente e viene definitivamente esentato dalle armi. 1916 Passa l’estate in una località dell’Appennino emiliano, Tolè di Vergato e si dedica alla pittura. 1917 Dipinge pochissime opere a causa di una grave malattia. 1918 La rivista bolognese di Giuseppe Raimondi “La Raccolta” riproduce l’acquaforte Natura morta con bottiglia e brocca del 1915 (V. inc. 3). Tramite l’amico Raimondi conosce le opere metafisiche di Giorgio de Chirico e Carlo Carrà attraverso riproduzioni; dipinge le sue prime opere “metafisiche”. Conosce Mario Broglio che in questo anno fonda la rivista “Valori Plastici”. Una prima segnalazione critica sull’artista appare sul quotidiano “Il Tempo” a firma di Riccardo Bacchelli. 1919 I suoi primi dipinti vengono pubblicati su “La Raccolta” e su “Valori Plastici”. A partire da questo anno Mario Broglio acquista le sue opere e ne divulga la conoscenza. Incontra Carrà che visita il suo studio. A Roma, dove raggiunge Raimondi, conosce i letterati de “La Ronda” e de Chirico. Nella stessa occasione, con il letterato, intraprende lo studio delle opere del Caravaggio nelle chiese e nei musei romani. 1920 Visita la Biennale di Venezia dove ha occasione di vedere la sala dedicata a Cézanne allestita nel padiglione della Francia. Riprende l’attività incisoria interrotta nel 1915. 1921 Espone accanto a Carrà, de Chirico, Martini, Melli, Zadkine, alla prima mostra del gruppo di Valori Plastici organizzata da Mario Broglio a Berlino. 1922 Partecipa con de Chirico, Carrà e Martini alla Fiorentina Primaverile che si tiene a Firenze, presentato in catalogo da Giorgio de Chirico. 1926 È presente con tre dipinti alla “Prima Mostra del Novecento” che si tiene al Palazzo della Permanente a Milano. L’Ente Nazionale della Cul-

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Quello che importa è toccare il fondo, l’essenza delle cose. Giorgio Morandi

29,90 €

ITA

ISBN 978-88-55210-00-3


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