13 Storie dalla strada. Fotografi senza fissa dimora

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STORIE DALLA STRADA fotografi senza fissa dimora



STORIE DALLA STRADA fotografi senza fissa dimora a cura di Dalia Gallico


Quando le strade diventano vie Dalia Gallico Curatore

Di solito le parole strada e via sono utilizzate come sinonimi. In effetti nel linguaggio di tutti i giorni i due termini hanno un significato sostanzialmente equivalente. Se però cerchiamo di individuarne il senso più profondo, e risaliamo alla loro accezione etimologica, possiamo scoprire alcune differenze sostanziali. Strada deriva dal verbo latino sternere – il cui participio passato è stratus – che equivale all’italiano stendere, rendere piano: le strade anticamente non erano che superfici pianeggianti e stratificate, in quanto perlopiù ricoperte di lastre di pietra. Via invece ha a che fare con un altro verbo latino, vehere, che designa il condurre, il porre in movimento, ma anche il mettersi in viaggio: la stessa parola viaggio scaturisce in fondo da via. In sintesi, la strada è un contesto aperto, in cui l’orizzonte è tutt’altro che definito, ma connotato da una durezza espressa da quel participio passato stratus che ci fa intuire quanto difficilmente scalfibile sia tale superficie pianeggiante. La via è un ambito caratterizzato da un moto, è lo strumento di un viaggio, di un movimento che presuppone una meta. Questa lunga premessa etimologica permette di cogliere l’idea sottesa al progetto da cui nasce la mostra “13 storie dalla strada – fotografi senza fissa dimora”: fare in modo che, nella vita di strada, si tracci una via, si possa impostare un percorso di riscatto della durezza che comporta un’esistenza senza fissa dimora. Anche la parola riscatto ha molto da dirci sul senso del progetto. In primo luogo perché, declinato al plurale, corrisponde al nome dell’associazione che lo ha svolto grazie al sostegno determinante della Fondazione Cariplo; il logo dell’associazione, peraltro, lo riporta in una versione con il trattino fra ri e scatti che, oltre a richiamare il linguaggio della fotografia – strutturato pur sempre per scatti –, mette in luce una sfumatura semantica del termine. Il ri infatti è un prefisso che suggerisce un movimento, e in questo caso un moto dal passato al futuro, una sorta di viaggio da compiere per riconquistare qualcosa di sé, della propria vi-

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cenda esistenziale. La fotografia può costituire la via lungo la quale intraprendere tale viaggio. Le tredici storie narrate dagli scatti dei fotografi senza fissa dimora formati dall’associazione Ri-scatti – che dal 2015 ha creato un’apposita Scuola di Fotografia per Senza Fissa Dimora – riguardano a loro volta una serie di progetti sostenuti dalla Fondazione Cariplo in Lombardia e soprattutto nel territorio della città metropolitana di Milano. Si tratta di iniziative che spaziano dall’agricoltura ecologica al circo contemporaneo, dalla creazione di appartamenti per ragazzi disabili al restauro di alcuni dipinti della collezione del Museo Nazionale della Scienza e della Tecnica, dal sostegno a palestre concepite come luoghi di incontro e integrazione sociale al welfare di comunità, dallo sviluppo delle tecniche agrarie più avanzate alle incentivazioni dei giovani talenti creativi e imprenditoriali, dalla valorizzazione dei giovani ricercatori all’ascolto delle esigenze dei bambini, ma anche all’ascolto delle esigenze delle periferie della città che possono trovare espressione grazie a validi streetartisti, le cui opere necessitano di un’adeguata tutela. Come si può notare da questo elenco sommario, lo spettro di interventi raccontati dalla mostra è alquanto vario. Narrare per immagini un ambito così vasto di iniziative richiede un’apertura, uno sguardo aperto e disponibile, alla quale la strada, con la sua orizzontalità, forse predispone. Di certo le foto rivelano la capacità di aprirsi alle situazioni documentate, di coglierne dettagli emblematici perché vitali. Gli scatti in mostra costituiscono infatti un ampio reportage della vitalità del tessuto sociale milanese e lombardo, dei suoi molteplici versanti, ma soprattutto della pluralità dei suoi volti. Le foto sono quasi sempre dei ritratti di donne e uomini in azione: di rado in posa, anche se abbastanza spesso guardano verso l’obiettivo, più di fre-

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Ri-scatti, fotografi senza fissa dimora Federica Balestrieri Fondatrice Ri-scatti Onlus

Nel 2014 era sembrata una follia l’idea di dare ai senza fissa dimora una macchina fotografica e convincerli a frequentare un corso di fotografia, diventando reporter delle loro vite. Nessuno potrà mai fotografare un disagio con la stessa forza espressiva e intensità di chi lo sta vivendo in prima persona. Per questo i risultati sono stati sorprendenti. Da quell’idea è nata Ri-scatti Onlus che utilizza la fotografia come mezzo di riscatto: umano e personale prima ancora che sociale. Il format dei progetti di Ri-scatti parte sempre da un workshop di fotografia che guida i partecipanti nella tecnica dello storytelling per immagini, realizzato da chi spesso non ha mai preso in mano una macchina fotografica ma che accetta di mettersi dietro, e non davanti all’obiettivo. L’attenzione di Ri-scatti negli anni si è rivolta a varie forme di disagio e nei corsi di fotografia sono stati coinvolti di volta in volta migranti, adolescenti malati di cancro, giovani sopravvissuti al terremoto di Amatrice o vittime di bullismo. Ma al primo workshop nel 2014 alcuni dei partecipanti erano senza fissa dimora. Già dal 2010 mi occupavo di assistenza ai senza tetto. Avevo fondato l’associazione MIA Milano in Azione e insieme a mio marito, la sera, rientrati a casa dal lavoro, ci mettevamo ai fornelli, cucinavamo e poi uscivamo a distribuire cibo caldo e generi di conforto ai senza fissa dimora irriducibili, quelli che non ne vogliono sapere di entrare nei dormitori o di mettersi in fila alle mense del Comune. Sera dopo sera, anno dopo anno, siamo diventati amici di alcuni di loro. Abbiamo iniziato a capire le dinamiche del loro mondo e le radici delle loro scelte. Li abbiamo coinvolti nell’organizzazione dell’associazione, ne abbiamo scorto le enormi potenzialità, la dignità e la voglia di riscatto. E quando abbiamo creato Ri-scatti Onlus è stato naturale rivolgerci a loro per invitarli a partecipare a un corso tenuto dai fotografi professionisti del Witness Journal.

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Durante i corsi siamo entrati nelle loro vite, abbiamo osservato la loro forza e la loro fragilità ma anche la capacità di mettersi in gioco per uscire dalla solitudine, rompere silenzi e superare paure. Li abbiamo visti crescere in autostima e consapevolezza giorno dopo giorno attraverso la forza espressiva della fotografia. Da quell’esperienza quattro di loro sono maturati fino a diventare fotografi che oggi saltuariamente scattano su commissione durante eventi, matrimoni, conferenze stampa, coordinati da Ri-scatti Onlus. Per loro la strada è oramai solo un ricordo. La loro realtà oggi è fatta di servizi fotografici ma anche di un lavoro più stabile trovato con l’aiuto della nostra associazione. Ci è sembrato naturale proporli come fotografi a Fondazione Cariplo, che oggi li contatta regolarmente. Ma anche rivolgerci a Fondazione Cariplo, sempre attenta a sostenere dinamiche di riscatto, le più diverse all’interno del territorio lombardo, per dare continuità all’idea della fotografia come moltiplicatore di autostima e di fiducia. Con il supporto di Fondazione Cariplo, i workshop di fotografia per i senza fissa dimora sono diventati un appuntamento immancabile e vi partecipano uomini e donne, italiani e stranieri, selezionati con l’aiuto dell’Assessorato alle Politiche Sociali del Comune di Milano. L’anno scorso ai fotografi senza fissa dimora è stato chiesto di allargare lo sguardo oltre la propria realtà e di documentare tredici progetti di Fondazione Cariplo. È stato curioso per noi osservarli per la prima volta di fronte a storie di disagio e riscatto diverse dalle loro, alle quali mai prima avevano alzato lo sguardo. La fotografia sociale non è una novità. Fin dall'Ottocento l’obiettivo dei grandi fotografi si è rivolto alle tematiche sociali diventando uno strumento privilegiato per raccontare le parti oscure della nostra società civile. Noi abbiamo semplicemente ribaltato l’obiettivo della macchina fotografica, mettendola in mano a chi con il disagio convive, e rendendola uno strumento del loro riscatto.

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1. ALLA RICERCA DI UN MONDO PULITO

Milo e Flora hanno gli occhi e i vestiti verdi perché hanno una missione: insegnare ai bambini ad amare e rispettare l’ambiente. Sono gli eroi dai super poteri ecologici delle favole Milo alla ricerca di un mondo pulito - Spegni la Luce! e Milo alla ricerca di un mondo pulito - Tutti alla raccolta! che hanno portato fortuna ai loro autori: la classe quarta C dell’Istituto Galvani. Una classe che è diventata anche una piccola azienda: si chiama Fratelli Green e ha vinto la terza edizione di Green Jobs, il percorso di alternanza scuola-lavoro nato per promuovere sostenibilità e auto imprenditorialità tra i ragazzi delle scuole superiori. Fratelli Green ha sbaragliato le altre mini imprese in concorso. Tarik è l’orgoglioso project manager: “Non ci immaginavamo quanto lontano potesse portarci un’idea. Abbiamo voluto sfidare la tecnologia con il nostro libro cartaceo, inizialmente avevamo pensato a un eBook ma abbiamo fatto un sondaggio tra le mamme delle scuole elementari e ha vinto la carta, riciclata naturalmente”. La tecnologia l’hanno sfidata ma anche sfruttata, perché tra le start up in gara sono stati i più bravi a comunicare il loro progetto.

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Luca, che ha curato le pagine social di Milo e Flora si è così appassionato al suo ruolo che sta pensando a un futuro come social media manager. Anche Alessandro, il responsabile marketing, dice: “Il mio sogno è la musica ma occuparmi di marketing mi è piaciuto, ci sto riflettendo anche per la scelta dell’università”. In questa avventura tutti hanno avuto un piccolo ruolo, perché è una storia corale “Ognuno aveva un ruolo nell’azienda” spiega la professoressa Anna Barbagallo, “il coach li stimolava ma hanno fatto tutto i ragazzi: hanno ideato i personaggi, scritto la storia, curato la grafica”. E siccome ogni azienda ha un capo, Nur è l’amministratore delegato di Fratelli Green. Parla con l’equilibrio e l’autorevolezza di un bravo leader: “Ci siamo suddivisi in aree: produzione, gestione finanziaria, comunicazione, marketing, risorse umane, progettazione, IT, in base alle nostre competenze o a quello che ci piaceva fare. Il più grande ostacolo è stato quello di passare da un’idea a un progetto economicamente sostenibile”. Così raccontano il momento in cui hanno saputo della vittoria: “Siamo stati felicissimi, ovvio, però un po’ ce l’aspettavamo perché il progetto stava realmente in piedi da solo, grazie ai finanziatori che abbiamo convinto a credere in noi”. Ma a contribuire alla vittoria c’è un’altra idea che ha proiettato Fratelli Green oltre le barriere linguistiche e ha fatto viaggiare Milo e Flora fra i sentieri del mondo: “Abbiamo tradotto i nostri libri in tante lingue: arabo, la mia lingua – io sono siriano – e poi filippino, francese, inglese, sloveno, indi”. E alla domanda su come hanno reso possibile tutto questo rispondono: “Siamo una classe multiculturale, sono molte le lingue che conosciamo”.

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Fedele Fedele

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1. ALLA RICERCA DI UN MONDO PULITO


Massimo Francesco Aquil

Green Jobs è un programma di Fondazione Cariplo, InVentoLab e Junior Achievement Italia. Un’esperienza di alternanza scuola lavoro e un progetto di educazione all’imprenditorialità che ha permesso a migliaia di liceali lombardi di dare vita a piccole imprese sostenibili. A partire dal 2018/19, grazie all’adesione di alcune delle Fondazioni di origine bancaria che fanno parte dell’Associazione di Fondazioni e di Casse di Risparmio (ACRI), Green Jobs è diventato un programma nazionale.

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7. STREET ART 2.0

Nelle strade di Milano c’è un nuovo museo a cielo aperto, puoi passargli accanto, intorno, davanti, ma se non sai che esiste non lo vedi, perché è un luogo, anzi tanti luoghi, in cui i soli occhi non ti bastano. “Quando racconti alle persone come funziona l’arte aumentata, e come devi utilizzare l’applicazione che serve a far animare i graffiti, ti guardano un po’ perplessi, poi puntano il cellulare verso il murales e io vedo i loro volti cambiare: sono piccole mosse quasi impercettibili, accenni di sorriso. Ecco, quello è il momento più bello, quella piccola magia inaspettata: so che loro la stanno vivendo”. Le “piccole magie” sono le storie che prendono vita dai graffiti delle periferie milanesi, come burattini mossi dai fili invisibili della tecnologia: lucertoloni preistorici che attraversano i muri per inoltrarsi in giungle e foreste, o che si mordono la coda in loop, per ribadire in eterno la ciclicità del tempo. Sono visi di donne fissate dagli spray degli artisti a ridosso di un cavalcavia che scuotono i capelli e corrono per le strade di città immaginarie. Si chiama MAUA, Museo di Arte Urbana Aumentata. È un museo gigan-

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tesco e diffuso, potenzialmente infinito che scorre nelle pareti della città. Grazie a un’applicazione, sviluppata dalla cooperativa Bepart, 500 graffiti milanesi sono stati “aumentati” dall’opera di artisti digitali. Ogni opera, inquadrata con lo smartphone, ne genera una nuova e si trasforma in un lavoro di digital art, creato per il museo grazie a tecnologie di realtà aumentata. Jacopo Iaccarino è uno degli sviluppatori, accompagna le persone in itinerari attraverso la città e osserva i loro volti quando inquadrano un graffito: “È un’occasione per esplorare quartieri sconosciuti e per far nascere creatività e bellezza dove non c’erano. MAUA è un progetto che coinvolge decine di artisti digitali ed è diventato un format per la valorizzazione delle periferie che funziona. Dimostra che ogni operazione artistica ne può generare un’altra e valorizza opere d’arte che non vengono mai connesse e raccontate”. Il territorio non è solo sfondo ma è parte del quadro: un graffito a ridosso di una stazione può dare vita a una storia digitale dove un treno sferraglia lungo una prateria, una griglia di ferro può trasformarsi in un’angusta prigione. Nella mappatura dei graffiti sono stati coinvolti gli abitanti e le associazioni di quartiere: “la street art è spesso legata alla vita del quartiere, te ne accorgi di continuo: poco tempo fa è spuntato sul muro del Giambellino un murales di Espi che raffigura Corto Maltese, perché in quei giorni era morto un personaggio simbolo della zona, chiamato il Marinaio. L’artista lo ha omaggiato così”. Nel Museo 2.0 di Milano c’è solo l’inizio della storia, il fermo immagine prima del movimento, in attesa che un altro artista ne scriva il seguito.

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Dario Dario

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7. STREET ART 2.0


Fedele Traoré

Bepart è una start up che ha vinto la prima edizione di IC Innovazione Culturale di Fondazione Cariplo. Il programma punta ad assistere l’imprenditorialità in ambito culturale, sostenere l’avvio di attività creative e formative e favorire la diffusione di servizi innovativi che migliorino la produzione e la fruibilità della cultura.

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13. EQUILIBERI DI ESSERE

Nel centro di Desio c’è una cascina che si apre in una corte verde. Sui lunghi ballatoi si affacciano appartamenti dove vivono perlopiù vecchietti soli, che escono per fare la spesa o per curare le piantine che abbelliscono la loro porzione di ballatoio. Qui c’è anche la Casa di Giada. È un appartamento che ospita ogni settimana persone con disabilità che partecipano al progetto TikiTaka Equiliberi di essere. Insieme agli operatori, fanno esperienza di “vita vera” con la prospettiva di abitare, in futuro, in autonomia. A turno fanno la spesa, cucinano, dormono, scelgono come passare la serata. Davide, 25 anni, ha la sindrome di down: “A casa decide mia nonna cosa si mangia, a me va bene tutto. Però mi piace scegliere”. Oggi il menù prevede pasta all’arrabbiata, saltimbocca, insalata. L’unica preoccupazione di Davide è che quando non c’è lui la nonna non si ricordi di prendere le sue pastiglie. È molto protettivo e va d’accordo con gli anziani, infatti sta facendo un tirocinio in una casa di riposo. Il programma per la serata non è stato ancora stabilito: “Forse

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andiamo al cinema” ipotizza Alessandro Filippi, l’operatore della cooperativa Il Seme che segue i ragazzi: “a loro piacciono molto anche il bowling e il mini golf. L’autonomia passa anche da queste piccole decisioni, cosa fare nella propria serata, che vestiti indossare, cosa mangiare. All’inizio erano molto spaventati dal pensiero che la mamma e il papà non sono eterni, ma iniziando a progettare la propria vita si sono sentiti via via più sicuri”. Nella Casa di Giada succedono cose bellissime, perché è così che avviene quando le persone si mescolano. Qui Veronica, 28 anni, con un ritardo mentale dalla nascita, arriva con il batticuore perché incontra il suo fidanzato, si sono conosciuti in questo appartamento: “Lui mi dice sempre che è stato fortunato a incontrarmi, anche io penso la stessa cosa”. Veronica sogna di andare ad abitare con lui un giorno, ma ci sono ancora un po’ di cose da imparare: “Ho il terrore di accendere la manopola del gas, nella Casa di Giada va meglio perché ci sono le piastre a induzione”. I ragazzi hanno una nonna speciale, è Silvia, “all’anagrafe Silvestra” specifica lei. È una delle vecchine che abita gli appartamenti affacciati sul ballatoio. I ragazzi e gli operatori la aiutano a cambiare le lampadine, a sistemare la televisione quando non si accende. Lei in cambio fa la pizza insieme a loro, cucina torte: “Io abito qui da 18 anni, sono sola e quando vengono qui passo la serata con loro. Dovrebbe vederli come sono bravi a fare la pizza, uno tagliava i würstel, l’altro il salame, uno spianava la pizza. Le ragazze sono più brave con le torte, invece. Poi quando cuciniamo vogliono che mi fermi con loro a mangiare, uno mi chiama zia. Questi ragazzi mi fanno commuovere, mi rubano l’affetto”.

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Aquil Aquil

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13. EQUILIBERI DI ESSERE


Aquil Fedele

Tikitaka è un progetto avviato nel distretto di Desio-Monza per innovare il sistema di welfare in sostegno alle persone con disabilità, facendo sì che non siano considerate unicamente come utenti di servizi, ma come persone che possono realizzare il proprio percorso di vita all’interno della comunità di appartenenza. Tikitaka è uno dei progetti sostenuti dal Bando Welfare di Comunità e Innovazione sociale di Fondazione Cariplo.

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ISBN 978-88-55210-07-2

euro 18,00


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