BURRI la pittura, irriducibile presenza

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BURRI

la pittura, irriducibile presenza

Bruno CorĂ



Sommario

BURRI la pittura, irriducibile presenza Bruno CorĂ

Alberto Burri nello studio di Grottarossa, Roma, 1966 ca.

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Il Grande Cretto di Gibellina Luca Massimo Barbero

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Opere in mostra

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Apparati Schede delle opere Esposizioni personali Biografia

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BURRI la pittura, irriducibile presenza Bruno Corà

“Le parole non mi sono d’aiuto quando provo a parlare della mia pittura. Questa è un’irriducibile presenza che rifiuta di essere tradotta in qualsiasi altra forma di espressione… ” Alberto Burri, in The New Decade – 22 European Painters and Sculptors, The Museum of Modern Art, New York 1955

Alberto Burri nello studio di via Nera, Roma, 1959

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Burri tra primordi e origini

AVVERTENZA Nel presente testo l’abbreviazione (cat.) seguita dal numero è riferita alla numerazione delle opere di Burri nel Catalogo generale, a cura di Bruno Corà, edito dalla Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri nel 2015.

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A un quarto di secolo dalla scomparsa di Alberto Burri, maestro rivoluzionario della pittura del XX secolo e di quella attuale, la sua arte – si potrebbe quasi dire – non avrebbe più bisogno di ulteriori letture. Tante sono state quelle spesso coeve o successive alla sua vita, di cui sono sature le bibliografie e le esegesi che lo riguardano. Tra i, rispettivamente precoci, magistrali e meditati saggi e contributi di James Johnson Sweeney, Giulio Carlo Argan, Francesco Arcangeli, Maurizio Calvesi, Enrico Crispolti, Cesare Brandi e da ultimo di Emily Braun, quello che ancora oggi per me conserva fortissimo un primato di insuperabile efficacia appartiene al reiterato esercizio, della prima e delle successive ore, di Emilio Villa. Nelle pagine di Villa, infatti, riaffiorano integre alcune intuizioni e illuminazioni non solo poetiche – che già di per sé basterebbero ad attribuirgli e rinnovargli un gran riconoscimento – ma anche nuclei di forza e felicità ermeneutica che impongono di riconsiderare ancora una volta gli aspetti e gli argomenti della sua rabdomantica azione critica. In particolare mi riferisco ai primissimi suoi testi, quelli degli iniziali anni ’50, in cui colgo un’indicazione di poetica attribuibile a Burri che lascia scaturire un’interessante traccia atta a individuare un’ulteriore sua partenza nel cammino compiuto in arte negli anni successivi ai suoi esordi romani. Se alla chiusura di un primo testo egli infatti afferma che quella di Burri è una “superiore iniziativa […] dal disfacimento cellulare del nulla sorgivo, del nulla cosmoctono […] una visitazione palingenica” (1951)1, dunque opera rivolta a una nuova origine, in un successivo testo Villa insiste: “Nostra dimessa cosmogonia, elegiaca esterrefatta composita, epos per istantanee, tragedie quotidiane, miniatura rapsodica delle grandi formazioni del tempo […]. Nella memoria delle palafitte c’è molto che può diventare materia di una breve e costernata superficie di pittura, una pittura per modo di dire; e, invece, di quella qualunque altra azione compiuta per rivelare sensi specifici e non confutabili: Burri Alberto coltiva come in vitro, anzi come in lino, queste contrattili anatomie di organismi inespressi, incerti tra una parvenza di materiali biologici fuori uso e un ideale di fulminei universi tra il gigantesco e il minimissimo: una ambiguità spalancata, un desiderio di stringere ricordi di cose che devono chiarirsi; lamentosa cosmogonia supposta con la semplice innocenza di materiali usuali, degli stracci rifiutati dal rione, delle vernici scadenti, delle paste amorfe tra deperimento e cristallizzazione, dei legnami scartati e destinati all’acqua o al fuoco, degli asfalti, delle mucillagini: un mondo di rifiuti popolari può farsi analogo e congeniale alle immaginazioni più imponenti: in un punto qualunque del mondo un occhio vivo e disinteressato come quello che accende la vista di Alberto Burri, può sorprendere e trar fuori lo scatto originato da grembi superiori, dove spira esatto il senso di una nostra epopea laica e popolare” (1952)2. Nella conclusione di questo secondo testo Villa non lascia dubbi su quale dimensione egli ritiene che Burri abbia indirizzato la sua azione artistica: “Io ricordo la grande invenzione di Burri: l’opaco, l’opacità ardita dopo tutto, pescata nel fondo degli altri colori, e formata in concrezioni molto espressive, l’esistenza del mondo allo stato puro, fatta quasi eleganza, leggerezza pensata all’interno della materia, prima dell’unità e prima delle separazioni…”3 È opportuno ricordare che negli anni trascorsi da Villa in Brasile, tra il 1951 e il 1952, impiegati a lavorare per il MASP (Museo d’Arte di São Paulo), egli si dedicò con fervore alla cultura dell’uomo preistorico. Né si può trascurare un nodo credo poco indagato, ma significativo, che riguarda quell’interesse di Villa per la “primordialità”, e al contempo la sua assidua frequentazione di un pittore come Corrado Cagli, teorico del “primordio” sin dagli anni ’30 e per il quale Villa già scriveva componimenti per un’opera sui Tarocchi del 1950. Alcuni recenti studi dedicati al Maestro anconetano4 che fanno derivare la sua poetica del primordio da quella di Giorgio de Chirico (ricavata a sua volta da Nietzsche) e trasmessa a Cagli da Massimo Bontempelli, affermano che dalla prima e unica mostra (gennaio 1951) del Gruppo Origine (Ballocco, Burri, Capogrossi, Colla) subito abortito, venne escluso Cagli (a cui si doveva la rielaborazione del concetto di “primordialità” con la conseguente rottura temporanea dell’amicizia tra Cagli e Capogrossi, riferita da Ballocco stesso). Il sodalizio Villa-Cagli, e quello successivo tra Villa e Burri, si può ritenere che abbia messo in campo più di uno stimolo di incoraggiamento da parte del poeta di Affori all’azione intrapresa da Burri nella propria concezione palingenetica, a partire dalla


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sensibile spoliazione della propria condizione esistenziale e dalla determinazione radicale a farvi fronte ricorrendo alla tabula rasa di un’arte ricavabile dalla propria oggettiva miserabilità materiale quale, tuttavia, valore etico inespugnabile. Oltretutto, a fronte della situazione in cui versa Burri in quegli anni, non diverse appaiono le condizioni di artisti come Colla e Capogrossi, ma si potrebbe dire anche Fontana, più anziani di Burri, che nel dopoguerra, in modi analoghi, hanno sentito l’urgenza di ricalibrare le proprie proposizioni linguistiche attraverso svolte altrettanto radicali. Le opere di Burri, a partire dall’abbandono delle primitive esperienze figurative, e pertanto dai Catrami (1948) ai Sacchi (1949-50) (fig. 1), marcano un primordio generativo di tensione poetica che fa affidamento su un étant donné autoreferenziale nudo e crudo, scevro da preoccupazioni verso un esterno da compiacere, concentrato sui principi inalienabili della propria identità, memoria, coscienza e volontà di sovvertimento delle condizioni esistenziali e l’affermazione del proprio fuoco immaginario. La preoccupazione compositiva e il rigore ideativo di forma, spazio ed equilibrio nella concezione dell’immagine che governano da subito le sue opere sono talmente evidenti e poderosi da indicare obiettivi ben diversi da quelli suggeriti dalle supposte metafore della “ferita”, del sangue e degli atti chirurgici (come ipotizzate reminiscenze della passata professione di medico e conseguenze di un trauma che l’artista avrebbe subito negli anni di guerra e di prigionia) o da altre sofisticate ma poco attendibili analisi, di fatto riduttive della piena coscienza dei suoi atti artistici. La pittura di Burri, a mio parere, risulta essere l’esito di un’elaborazione consapevole di una tensione poetica molto lucida e di una precisione dichiarata “infallibile” dall’artista stesso in ordine all’obiettivo, realmente infine conseguito, di rivoluzionare la tradizione pittorica di cui, da un certo momento in poi della propria vita, si è riconosciuto depositario storico. Una tale impresa è meditato processo di una tenace coscienza che non ha avuto cedimenti, ma ha osservato senza mai esitare gli adempimenti che una fermezza nell’idealità dell’arte richiedeva a uno dei suoi maggiori interpreti. L’etica di Burri Per comprendere cosa abbia davvero significato l’azione di Burri in quel primo dopoguerra basterebbe rileggere le affermazioni di Salvatore Scarpitta, figura artistica emblematica di quelle esperienze che tra l’Europa – in particolare l’Italia – e gli USA si venivano compiendo con travasi e assunzioni di stimoli e novità dalle diversità che intanto si manifestavano nei due continenti: “[…] La mia storia non è estetica, è ricerca di contenuti […] il mio è un cammino individuale. Sai cosa ha fatto Burri? Ha stabilito una dignità che per noi era d’esempio. Non era necessario neanche guardare i suoi quadri, perché il suo aiuto è stato a un livello morale in un momento in cui c’erano tanti pittori sedotti dall’espressionismo astratto, che bisogna ammettere che senza l’esempio morale di quell’uomo lì la vita non sarebbe stata possibile. L’etica che lui ha portato nell’arte italiana è di gran lunga superiore a qualunque altra cosa…”5 Di questa qualità, di cui Scarpitta evidenzia il peso recato da Burri nell’arte del dopoguerra, si è poco parlato e soprattutto non si è a sufficienza posto in relazione il valore dell’etica artistica in quegli anni e successivamente con la produzione linguistica di Burri e di altri artisti. Ma il peso di quella dignità, anzitutto rilevabile nell’opera di Burri come pure dai suoi rifiuti di compromesso poetico e comportamentale, dev’essere stato

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qualsiasi altro discorso per significarci quegli atti formatori. L’azione di Burri con il fuoco è fortemente attraente perché trasgressiva nei confronti di una conoscenza verso un divieto sociale; oltretutto lo è doppiamente perché, come è accaduto per il punteruolo o la lama per fare i “buchi” e i “tagli” di Fontana, il fuoco, mentre sembra distruggere, in realtà è impiegato da Burri per costruire qualcosa prima sconosciuto e rinnovare alla radice l’aspetto della forma. È il desiderio, più che il bisogno, a spingere l’eccitazione poetica di Burri nell’impiego della fiamma. “Il fuoco – scrive Gaston Bachelard – suggerisce il desiderio di cambiare, di affrettare il tempo, di portare tutta la vita al proprio compimento, al proprio superamento. Allora l’immaginazione è veramente persuasiva e drammatica; amplia il destino umano”14. Ma nella volontà compositiva che muove l’atto formativo di Burri sulle materie lignee, plastiche e metalliche è insito un principio ordinatore che Bachelard ha ugualmente ben individuato: “Il fuoco separa le materie e annulla le impurità materiali […] ciò che ha ricevuto la prova del fuoco ha guadagnato in omogeneità e quindi in purezza”15. Dalla primarietà elementare del fuoco Burri passa, senza soluzione di continuità, agli altri cardini della materia: la terra, l’aria, l’acqua. Come vedremo più avanti, nei Cretti questi elementi si compendiano. 30

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Le Plastiche L’evento espositivo delle Plastiche trasparenti alla Galleria Marlborough di Roma nel 1962 segna, per numerose ragioni, uno snodo significativo rilevante tanto quanto i Sacchi e altre fondamentali stazioni del percorso linguistico di Burri. E nel conseguire da quel materiale vile e artificiale un’immagine effettivamente “inedita” e qualificata, Burri compie l’ennesimo miracolo trasformativo. È stato talvolta osservato che Burri ha iniziato a interessarsi al materiale plastico a partire già dagli anni ’50. In quel frangente infatti si riscontrano diverse opere come il Sacco 5P (fig. 23; cat. 220), 1953 con alcuni inserti di materia plastica e in seguito il Tutto Rosso P, 1956 (fig. 24; cat. 597), il Rosso P1, 1956 (fig. 25; cat. 604), la Combustione Plastica Rosso e Nero, [1956] (fig. 26; cat. 609), il Nero Rosso Combustione P57, 1957 (fig. 27; cat. 610) e in quello stesso anno altre quattro opere, Combustione Plastica, seguite nel 1958 da cinque Combustione Plastica, tre delle quali di piccole dimensioni, nonché, infine, il Nero, 1961 (fig. 28; cat. 890), il Rosso Plastica 3, 1961 (fig. 29; cat. 898) e i due Rosso Plastica, 1961 (figg. 30, 31; cat. 894 e 897), entrambi di piccole dimensioni. Prima di tale data si rammenta che Burri aveva eseguito la serie delle Combustioni, dei Ferri e dei Legni, tutte opere per le quali l’impiego del fuoco era stato elemento formativo determinante. Nel catalogo che accompagna e presenta il nuovo ciclo di lavori esposti


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a Roma, Cesare Brandi, sottolineando la novità della materia impiegata da Burri, la plastica trasparente, che definisce “inedita”, afferma che le nuove opere “rappresentano la ripresa” dopo l’interruzione dovuta effettivamente a un intervento chirurgico che lo aveva costretto, suo malgrado, a osservare una pausa di breve periodo dal lavoro. Brandi ritiene perfino che le Plastiche “costituiscono la sublimazione di tutte le precedenti esperienze di Burri” e che di quella fornitura presa in considerazione dall’artista, molto simile al cellophane, egli evidenzia la congenita scarsa facoltà di “materiare un’immagine” a causa dell’uso quotidiano a cui è destinata e a ragione dell’obiettiva “difficoltà di riuscire a intenzionarla” diversamente16. Rispetto, però, alle Plastiche presentate nella mostra romana della Marlborough, in tutti gli altri casi sopra indicati il polimero usato ha una diversa e maggiore consistenza: è impenetrabile alla vista, possiede altro colore e in gran parte dei casi appare elaborato con il fuoco ma si avvale di un supporto di tela, di cellotex o d’altro materiale. Nella mostra di Roma la plastica, “quasi uguale alla ‘cellophane’ ” (Brandi), si costituisce in immagine in virtù dei diversi strati posti l’uno sull’altro, recanti diversa luce a seconda della posizione e del grado di umbratilità prodotta dalla combustione di ampie zone della superficie trasparente, con un esito spaziale che richiama le disgregazioni di tessuti biologici registrati dalle lastre usate in radiografia. È ancora Brandi ad asserire che “Questa stratigrafia è struttura dell’immagine e rappresenta la dimensione nuova, in profondità, dell’immagine di Burri”. Nella sensibile adesione della sua lettura, Brandi giunge a formulare il confronto-richiamo di queste opere trasparenti di Burri con le antiche vetrate in grisaille, condensatrici in pittura del grigiore dei cieli nordici. E non si rivela distante l’associazione formulata dallo storico senese da un certo destino assegnato da Burri a questa sua coniazione linguistica quando, alcuni anni più tardi rispetto a questo episodio espositivo e di presentazione delle sue prime Plastiche, egli ne concepisce una di vaste dimensioni, a forma di losanga, da collocare davanti al lucernario del Coro della Chiesa di Sion in Svizzera, denominando l’opera proprio Vetrata, 1968 in cui la combustione di plastica trasparente è montata su un telaio di ferro. La destinazione di questa grande Plastica induce ad alcune particolari riflessioni che sarà opportuno sviluppare, ma dopo aver esaminato altri specifici punti di seguito considerati. Il primo, che appare degno di approfondimento, riguarda la struttura in trasparenza “profonda” dell’immagine delle Plastiche. Se si eccettuano le vetrate di decorazione di edifici sacri eseguite da alcuni artisti nella modernità e nella contemporaneità, gli unici esempi di opere dotate di trasparenza a cui si possa far riferimento per una riflessione di carattere spaziale ma non iconografico sono Glissière contenent un moulin à eau en métaux voisins, 1913-15 e il celebre Grande Vetro, ovvero La Marièe mise à nu par ces célibataires, même, elaborate tra il 1915 e il 1923 e mai terminate, entrambe opere di Marcel Duchamp. Nelle pagine 28-29: Vetrata, 1968 plastica, combustione su telaio in ferro, coro della Chiesa di Sion, Svizzera

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In questa pagina e nelle pagine 32-33: Ugo Mulas, Alberto Burri, Grottarossa, 1962

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A pagina 31: Grande Nero Plastica L.A., 1964

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Nonostante la lontananza tra le opere di Duchamp e di Burri – come peraltro è stato già accennato recentemente17 – imponga l’opportuna prudenza ermeneutica, è possibile fare però ulteriori considerazioni. Pur diverse, le opere “materiano” entrambe un’immagine impiegando materiali inusuali quali supporti essenziali della rispettiva pittura: Duchamp il vetro, Burri la plastica (come nella Plastica, 1964, fig. 32, tav. pp. 126-127; cat. 978) in tutti e due i casi veicoli trasparenti; Duchamp non elabora il vetro, lo usa come “camera” per sospendervi la sua enigmatica composizione da tutti ritenuta ermetica e complessa. Burri brucia con la fiamma alcuni fogli di plastica trasparente e poi li suggella con altrettante superfici trasparenti che racchiudono le parti combuste. L’opera di Duchamp, esposta in permanenza nel Philadelphia Museum of Art, risulta una costruzione incompiuta per volontà dell’autore e sino a oggi sono numerose le interpretazioni che ne hanno tentato la decifrazione, ma nessuna compiutamente rivelatrice. C’è chi l’ha considerata orizzonte finale della prospettiva che ha avuto corso nella cultura visiva occidentale e come un vero e proprio muro che non potrebbe essere scavalcato, lasciando davanti e dietro di sé l’osservatore perplesso a valutare una cifra artistica ugualmente enigmatica e ad osservarsi osservare. Si direbbe un cul de sac irrisolvibile. Michelangelo Pistoletto, proteso sin dal 1961 nell’invenzione del “quadro specchiante”, effettivamente supera lo scacco introducendo nella sua opera l’elemento del rispecchiamento che ribalta e riapre una nuova prospettiva a base spazio-temporale. Le Plastiche di Burri dal canto loro lasciano trasparire l’ambiente su cui si proiettano le forme sospese dalle lacerazioni delle combustioni miste di bagliori e fugaci campi rilucenti, offrendo una spazialità resa drammatica dal gesto artistico che suscita un cogito meditativo individuale provocato dalla materia nuova e dai segni venuti alla luce. È una diversa ma analoga domanda sulla condizione umana, oppure il cielo piagato, contaminato per sempre, della nostra epoca? Burri ricusava ogni riduzione figurale o simbolica della sua opera, pertanto la domanda resta senza risposta. È noto che la “quasi eterea opera d’arte di Burri” osservata da Brandi non avrebbe risparmiato nel prosieguo versioni meno rarefatte del suo aspetto, più drammatiche, quasi infernali in quanto a pronunciamento poetico. Le Plastiche rosse e le Plastiche nere suscitano nell’immaginario individuale una “discesa agli Inferi”, come raramente si è manifestata nel firmamento della pittura di tutti i tempi, dopo Bosch. Ma la trasparenza delle Plastiche di Burri non è della stessa qualità limpida e uniforme del vetro, e ancor meno di quello attraversato dalle fratture, come nell’opera poc’anzi evocata di Duchamp, bensì velata dal fumo, maculata dalla combustione e parzialmente attraversabile dallo sguardo a causa degli strati di cellophane sovrapposti l’uno sull’altro definendosi “non più rispetto a un fondo, ma come struttura a sé” (Brandi). Mentre l’articolazione di ciascuna immagine delle Plastiche trasparenti esposte alla Marlborough è il risultato di una combustione che, mediante il vuoto delle lacerazioni e dei crateri, il nero della materia combusta e dei suoi cascami, le ombre lievi e sfumate prodotte dalla fiamma e dal fumo e i molteplici aghi di luce sprigionati sulle superfici, giunge a una complessità che equivale a struttura, le Plastiche rosse e nere si distinguono per altre diverse proprietà. Con le Plastiche rosse Burri rinuncia alla trasparenza in favore di una frontalità escludente ogni attraversamento dello sguardo che semmai cerca di orientarsi nell’irriducibile presenza della materia lacerata, ora lampante come una bava lucida, ora attraversata dalle ombre sfumate della fiamma e ora di colore nero abissale e cieco dell’acrilico steso sul fondo della tela nelle zone circoscritte da crateri, come si evidenzia nel Rosso Plastica M 3, 1961 (fig. 33, tav. pp. 118-119; cat. 933), in questa mostra; nelle Plastiche nere la dinamica dell’immagine è giocata e ottenuta dal contrasto tra la combustione del cellophane di superficie, lacerato anch’esso e costellato di raggrinzimenti, pieghe e ispessimenti – tutte sollecitazioni e sensibilizzazioni della materia ottenute con la fiamma – e il fondo nero opaco dell’acrilico muto e spalancato oltre gli orli dei crateri prodotti dal fuoco, come nel Grande Nero Plastica L.A., 1964 (tav. p. 123; cat 981), anch’esso in mostra.


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Il Grande Cretto di Gibellina Luca Massimo Barbero

Di queste case non è rimasto che qualche brandello di muro Di tanti che mi corrispondevano non è rimasto neppure tanto Ma nel cuore nessuna croce manca È il mio cuore il paese più straziato.

Giuseppe Ungaretti, San Martino del Carso, 1916

Grande Cretto Gibellina (particolare), 2012

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Ho voluto aprire con Ungaretti, poeta caro ad Alberto Burri, per quel senso di commozione di fronte alle macerie, simbolo di tragedia e distruzione, che li ha accomunati: per Ungaretti erano i resti del villaggio friulano distrutto dai bombardamenti, per Burri fu l’incontro con Gibellina vecchia, cancellata dal terremoto del Belice. La storia è tristemente nota: nel gennaio del 1968, due scosse a distanza di un giorno rasero al suolo la cittadina di Gibellina, causando centinaia di vittime e lasciando senza un tetto centomila superstiti nell’intera valle del Belice. L’amministrazione locale decise di abbandonare quel luogo e ricostruire una nuova città a una ventina di chilometri di distanza, più prossima alla strada statale. A compensazione delle radici storiche perdute la nuova Gibellina sarebbe stata però “nobilitata” da una densa presenza di opere d’arte, poiché “l’arte non è superflua”1 come titolava un lungo articolo del 1979 a firma di Ludovico Corrao, lungimirante sindaco nell’intera valle del Belice. L’arte avrebbe rifondato l’identità di Gibellina che rischiava altrimenti “la perdita assoluta di identità che potrebbe farla apparire come il quartiere di periferia di una qualsiasi città. Da ciò la necessità di un ancoraggio alle proprie radici storiche e culturali. Il primo problema che ci poniamo è quello di recuperare quanto è possibile della memoria della vecchia città distrutta per conservarne non il monumento ma la memoria come fonte alla quale ci si possa richiamare”2. Al principio Corrao pensava di intervenire solo a Gibellina Nuova dove invita Ignazio Moncada, Carmelo Cappello, Turi Simeti, Paolo Schiavocampo, Emilio Isgrò, Rosario Bruno, Carla Accardi, Franchina, Staccioli... e – con una presenza preponderante – Pietro Consagra3. È infatti più ampio e programmatico l’intervento dello scultore, natio di Mazzara del Vallo, al quale vennero affidate alcune sculture, le porte del cimitero e una monumentale Stella quale accesso alla Valle del Belice, Meeting (1972) – punto di ritrovo della nuova Gibellina – nonché la progettazione di un intero teatro – rimasto incompiuto – che porta lo scultore ad un confronto diretto con l’architettura. Lui che fin dal 1968 – due anni prima dunque dell’invito di Corrao – stava elaborando il concetto di “Città frontale”, una forma di scultura dai grandi volumi, al punto da poter essere abitata senza però perdere né la fruizione frontale né la dimensione scultorea. Il suo teatro dalla forma plastica è in realtà una prefigurazione delle grandi macchine dell’architettura contemporanea in tempi però non maturi e in una terra nella quale è difficile portare a termine i progetti. L’originalità però dell’avveniristica visione architettonica di Consagra è evidente, in particolare se osservata nella prospettiva dell’evoluzione formale maturata dall’architettura degli ultimi decenni che ci ha regalato edifici paragonabili a immense sculture. L’architetto Alberto Zanmatti, che seguì la realizzazione dell’opera di Consagra, fu anche il tramite tra Burri e Corrao che invitò l’artista a prendere parte all’utopia di Gibellina. Nel 1981 Burri visita Gibellina Nuova ma non la “sente”, comprende probabilmente che i margini di manovra sono limitati e che gli spazi sono già connotati dalla presenza degli altri artisti. Chiede allora di vedere il luogo della tragedia, luogo di perenne pellegrinaggio a detta di Corrao: “La gente continua ad andare continuamente là, tra le macerie della città distrutta, a riflettere, a meditare a rivedere la propria casa”4. Ed è là tra i resti, tra le macerie ancora intrise di dolore, che l’artista si commuove e ha la visione del Grande Cretto: una coltre bianca a protezione del cuore martoriato della città. Un gesto pressoché alchemico, di trasformazione del luogo: da sito della tragedia a spazio della memoria. L’immersione di Burri nelle rovine di Gibellina è duplice, ha due livelli: è fisica in occasione della sua prima visita, e poi è azione con la colata di cemento immacolato che segue il tracciato del tessuto urbano. Nella testimonianza diretta di Corrao si legge il ricordo della tragedia, che è narrata già con il tono e l’energia di una volontà di ripresa; il terremoto è descritto con parole evangeliche, come “[…] liberazione dell’energia latente nelle viscere della terra come dal cuore spezzato delle madri […]. La disperata tensione che dalle viscere della terra emerge proclama un nuovo ciclo di rigenerazione anche per l’umanità”5. Corrao è conscio che “Quelle pietre non potevano restare tombe perenni, votate all’oblio, come quelle scoperchiate nel vicino cimitero”6 e, con grande coraggio, non solo ha creduto nell’intervento di Burri ma lo ha difeso di fronte agli attacchi della Democrazia Cristiana siciliana che vedeva nel progetto, “la follia delirante di Burri e Corrao”7. L’amministrazione locale, specchio di una mentalità reazionaria, ragionava in piccolo; mentre i due erano grandi visionari – gioco forza anche l’orgoglio intrinseco al carattere

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Lavori di costruzione del Grande Cretto

dell’artista: “Che l’orgoglio sia una fondamentale componente della personalità di Burri non è un’impressione ma una constatazione”, scriveva Calvesi nel 19718 – ed erano già consci della portata del progetto, in particolare della sua universalità. I meri numeri del Cretto raccontano in maniera tangibile l’immensità di quell’operazione. Il terreno fu preparto, come nella prassi artistica di Burri, accorpando i resti per blocchi seguendo l’originale disposizione delle vie. I lavori iniziarono il 28 agosto 1985 e terminarono il 3 dicembre 19899, impegnando cinque differenti ditte sotto l’egida dell’Italcementi di Giampiero Pesenti che fornì il cemento “Aquila bianca” a copertura di una superficie di 86.000 metri quadri, per una spesa complessiva di 5.643.000.000 di lire. Sono cifre impressionanti, certamente uno dei più grandi investimenti nella cultura della Sicilia e dell’Italia intera con una ricaduta – non immediata – d’attenzione che fa sì che il Cretto di Gibellina sia oggi nei circuiti della grande arte internazionale10. Nel catalogo della recente retrospettiva dedicata a Burri dal Museo Guggenheim di New York, Emily Braun, curatrice della mostra, parla del Cretto come, “a white monochrome that speaks of purification”11, un rito di purificazione, un atto sciamanico12, che rimanda ai gesti di fondazione di una città. La personale newyorchese insisteva sul concetto di trauma – The trauma of painting era l’efficace sottotitolo – secondo una lettura assai accreditata che affonda le proprie ragioni nelle vicende biografiche dell’artista e legge l’opera di Burri come metafora della sutura. Personalmente non voglio arrendermi a una così netta specularità tra vita e arte: vanno certamente tenuti nel giusto peso alcuni passaggi, come la laurea in medicina, l’esperienza statunitense, il campo di concentramento, il ritorno in un’Italia devastata dalla guerra – forse quella stessa situazione che riconosce a Gibellina molti anni più tardi e che perciò lo commuove – ma a pareggiare l’altro piatto della bilancia ci sono le sue radici umbre. Burri è un artista autodidatta, cresciuto nel cuore dell’Italia dove Piero della Francesca aveva lasciato una impareggiabile lezione di rigore, di equilibrio, quell’idea di tecnica inappuntabile alla quale ogni opera di Burri tende. Il suo guardare al primo Rinascimento si concentra sulla convivenza possibile di semplicità e ricchezza, di elementi metallici – dorati e punzonati persino – applicati a un disegno controllato e a una prospettiva calibrata. Burri vede certamente a San Sepolcro il dettaglio del manto “crepato” della devota nel Polittico della Misericordia di Piero ma anche un’infinità di “fondi oro” spesso segnati da complesse craquelure. Quando nel 1961 Giuseppe Marchiori scrive che “Spesso di fronte a un quadro di Burri vien fatto di pensare ad un pittore, antico, forse per la caratteristica universalità emblematica”13

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Umbria Vera 1952

99,2 × 149,3 cm Sacco, olio su tela Fondation Gandur pour l’Art, Genève

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Sabbia 1952

90 × 110 cm Olio, sabbia, vinavil su tela Collezione Intesa Sanpaolo Gallerie d’Italia - Piazza Scala, Milano

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Combustione Sacco 1956

129 Ă— 113 cm Sacco, tela, olio, vinavil, combustione su tela Collezione privata

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Combustione 14 1957

80,5 Ă— 191 cm Carta, acrilico, vinavil, combustione su tela Collezione privata

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Legno Sp 1958

129,5 Ă— 200,5 cm Legno, tela, acrilico, combustione, vinavil su tela Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri, CittĂ di Castello

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Combustione Plastica 1958

98 Ă— 84 cm Plastica, stoffa, acrilico, vinavil, combustione su tela Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri, CittĂ di Castello

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Cellotex 1979

150,5 Ă— 126,5 cm Cellotex, acrilico, vinavil Collezione privata

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Cellotex CW 1 1981

252 Ă— 610 cm Cellotex, acrilico, vinavil su tavola Collezione privata

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Nero 1987-88

150 Ă— 150 cm Acrilico, pietra pomice su cellotex Collezione privata

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Nero e Oro 1993

106 Ă— 161,5 cm Acrilico, oro in foglia, cellotex su tela Collezione privata

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Schede delle opere in mostra AVVERTENZA Per i rimandi delle voci espositive e bibliografiche delle schede delle opere in mostra si vedano gli apparati presenti nel tomo VI della pubblicazione Burri Catalogo generale, a cura di Bruno Corà, edita dalla Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri nel 2015. Per quanto riguarda la sezione delle esposizioni, i puntini di sospensione indicano mostre itineranti in più città, mentre gli esponenti rimandano all’ordine cronologico nella stessa città ed anno; per le bibliografie gli esponenti identificano i testi scritti da un medesimo autore nello stesso anno.

Catrame, [1949] Catrame, olio, pietra pomice su tela 57,5 × 64,5 cm Firmato Collezione privata Bibliografia Rubiu, 1963, p. 184 n. 15 ill. b/n; Krimmel1, 1967, pp. 6, 17 n. 1 tav. b/n, 37 n. 2; Krimmel2, 1967, pp. 6, 8; Calvesi1, 1971, p. 22 n. 3 tav. col.; Rubiu, 1975, p. 119 n. 2 tav. b/n; Quintavalle, 1984; Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri, 1990, pp. 20 n. 43, 21 ill. col.; Negri, Pirovano, 1993, p. 210 n. 270 ill. col.; Vetrocq, 1994, pp. 26, 42 n. 1 ill. col.; Appella, 1997, p. 3 ill. b/n; Cassim, 1998, p. 15 ill.; Kitatani, 2000, p. 37; Sarteanesi C.2, 2000, p. 145; Katō, 2000, p. 128; Burgazzoli, 2001, ill.; Michelon, 2001, p. 20 n. 2 ill.; Colombo, 2004, p. 20 nota 55; C. S., 2006, p. 73 ill.; Corà, 2007, p. 23; Quattrini, 2007, p. 19 ill.; Casanova, 2007, p. 107 n. 2 ill. col.; Perazzoli, 2007, p. 23 n. 3 ill. col; Fraccaro, 2007, p. 66 ill. col.; De Sabbata, 2008, pp. 30-31 tav. col., 31 n. 17; Celant, 2009, n. 31 ill. col. [Nero, 1951]; Corà, 2009, pp. 20, 22; Lumetta, 2009, p. 9 ill. col.; Corà1, 2010, p. 21; Gargiulo, 2010, p. 27; Daverio1, 2011, p. 33 tav. col.; Corà4, 2012, p. 86; Manescalchi1, 2013, cop. col., p. 90 ill. col. Esposizioni Roma1, 1953 (dépl.); Darmstadt, 1967, n. 3 ill. b/n (cat.); Rotterdam, 1967, pp. 17 n. 1 tav. b/n, 37 n. 2 (cat.); Milano1, 1984, p. 26 n. 4 tav. col. (cat.); New York..., 1994-95, n. 1 ill. col. (cat.); ...Milano..., 1995; ...Wolfsburg, 1995; Roma2..., 199697, p. 147 tav. col. (cat.); ...Monaco di Baviera..., 1997 p. 147 tav. col. (cat.); ...Bruxelles, 1997; Nagoya..., 199798, pp. 35 n. 1 tav. col., 145 (cat.); ...Tokyo..., 1998; ...Tottori...,1998; ...Hiroshima..., 1998; ...Taipei, 1998, pp. 33 n. 1 tav. col., 137 (cat.); Toyota, 2000, pp. 42 n. 1 tav. col., 100 (cat.); Lugano, 2001-02, pp. 94, 95 tav. col., 187 n. 46 (cat.); Madrid, 2006, pp. 32, 33 tav. col. (cat.); Mamiano di Traversetolo, 2007, pp. 51 n. 1 tav. col., 122 (cat.); Lione, 2008-09, pp. 300 ill. col., 301 n. 164 (cat.); Catania, 2009-10, pp. 26, 27 tav. col., 210 (cat.); Milano3, 2010, p. 58 n. 33 tav. col. (cat.)

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Bianco, [1949] Olio, smalto, pietra pomice su tela 91 × 111,5 cm Collezione privata Bibliografia Rubiu, 1963, p. 184 n. 18 ill. b/n; Quintavalle, 1984; Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri, 1990, pp. 20 n. 44, 21 ill. col.; Christov-Bakargiev1, 1996, p. 54; Appella, 1997, p. 3; Sarteanesi C.2, 2000, p. 147; Corà4, 2012, p. 86 Esposizioni Bologna, 1976, n. 1 tav. b/n (cat.); Milano1, 1984, p. 25 n. 3 tav. col. (cat.); Roma2..., 1996-97, p. 149 tav. col. (cat.); ...Monaco di Baviera..., 1997, p. 149 tav. col. (cat.); ...Bruxelles, 1997; Toyota, 2000, pp. 43 n. 2 tav. col., 100 (cat.); Madrid, 2006, pp. 34, 35 tav. col. (cat.)

Nero Catrame, 1950 Catrame, olio, pietra pomice, vinavil su tela 80 × 110 cm Firmato e datato Collezione privata, Roma Bibliografia Brandi1, 1963, n. 1 tav. b/n; Nordland, 1977, pp. 20- 21; Averini, 1977, p. 63; Nordland2, 1978, p. 86; Nordland3, 1978, p. 31 ill. b/n; Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri, 1990, pp. 424 n. 1826, 425 ill. b/n; Vedrenne-Careri, 1992, p. 42; Farci, 1995, p. 8; Sarteanesi C., 1995, p. 27; Terrosi, 1995, p. 12 ill. b/n; Corà, 1996, p. 14 [Catrame]; Sarteanesi C., 1996, p. 22; Minervino, 1996, p. 27; Sarteanesi C.1, 2000, ill. col.; De Sabbata, 2008, pp. 40 n. 23, 40-41 tav. col.; Iori2, 2012, p. 148 Esposizioni Roma1, 1952 (dépl.); Beirut..., 1963, tav. b/n [Nero su nero] (cat.); ...Damasco..., 1964; ...Téhéran..., 1964; ...Ankara..., 1964; ...Tunisi, 1964; Roma, 1976, n. 3 tav. col. (cat.); Bologna, 1976, n. 2 ill. b/n (cat.); Lisbona, 1977, n. 3 ill. b/n (cat.); Madrid, 1977, n. 3 ill. b/n (cat.); Los Angeles..., 1977, p. 14 n. 6 ill. b/n (cat.); ...San Antonio..., 1978; ...Milwaukee..., 1978; ...New York, 1978; Roma1, 1980, pp. 148 n. 49, 149 tav. b/n (cat.); Prato, 1996, p. 99 n. 4 tav. col. (cat.)


Nero Bianco, 1951 Carta, olio, smalto, sacco su tela 90 × 90 cm Firmato e datato Collezione privata

Sacco, 1952 Sacco, olio, AM-lire, lire, vinavil su tela 58 × 86 cm Collezione privata

Bibliografia Rubiu, 1963, p. 188 n. 47 ill. b/n; Quintavalle, 1984; Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri, 1990, pp. 42 n. 139, 43 ill. col.; Buscaroli B., 1995, ill. b/n; Corà, 1996, p. 14; Christov-Bakargiev1, 1996, p. 52; Sarteanesi C., 1996, p. 23; Höhn, 1996, cop. col.; Rizzi1, 1996, ill. b/n; Tellaroli, 2001, p. 116 ill. col.; Serafini, 2005, p. 27; De Sabbata, 2008, p. 106

Bibliografia Gotham Guide, 1954, cop. b/n (amb.); Villa, 1960, p. 7 ill. b/n [Collage]; Rubiu, 1963, p. 191 n. 77 ill. b/n [Collage]; Fagiolo dell’Arco, 1966, p. 66; Calvesi1, 1971, p. 5; Calvesi2, 1971, p. 41; Garrone, 1972; The private collection of Martha Jackson, 1973, p. 3 ill. b/n (amb.); Rubiu, 1975, p. 119 n. 13 tav. b/n; Di Genova G., 1978, ill. b/n; Di Genova G., 1982, p. 177 nota 8 [Collage]; Calvesi1, 1987; Di Genova G., 1990, p. 202 nota 12 [Collage]; Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri, 1990, pp. 40 n. 135, 41 ill. col.; Terrosi, 1995, p. 10; Christov-Bakargiev1, 1996, p. 50 ill. b/n; Serafini, 1999, p. 45; Appella2, 2003, p. 9; Quintavalle, 2003, p. 248 ill. col.; Serafini, 2005, p. 27; Zancan, 2005, p. 24 ill. b/n; Fabbri M. C., 2005, ill.; Celant1, 2007, p. 10 n. 10 ill. col.; Calvesi1, 2008, p. 20; De Sabbata, 2008, pp. 180-181 tav. col.; Daverio1, 2011, pp. 42, 43 ill. col.; Iori2, 2012, p. 170; Finizio, 2013, pp. 18, 19 n. 7 ill. b/n

Esposizioni Milano1, 1984, p. 33 n. 11 tav. col. (cat.); Prato, 1996, p. 102 n. 7 tav. col. (cat.); Firenze, 2005, p. 67 n. 14 tav. col. (cat.)

Esposizioni New York1, 1953; New York2, 1953; New York1, 1954 (dépl.); Bologna2, 2003, pp. 24, 25 tav. col. (cat.); Acqui Terme, 2003, p. 47 tav. col. (cat.); Torino2, 2003, p. 18 n. 4, 19 tav. col., 135 (cat.); Firenze, 2005, p. 77 n. 19 tav. col. (cat.)

Grande Sacco, 1952 Sacco, stoffa, olio, corda su tela 150 × 250 cm Firmato e datato Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma (dono dell’artista) Bibliografia Villa, 1953, ill. b/n; F. P., 1953, p. 41 ill. b/n; Arcangeli1, 1957; Priori, 1957; Venturoli, 1959, [Sacco grande]; Brandi1, 1963, n. 14 tav. b/n; Fagiolo dell’Arco, 1966, p. 67; Savonuzzi, 1967; Pinto2, 1968, pp. 18 n. 3 ill. b/n (amb.), 19, 20 n. 5 ill. b/n, nota 2; Ruggeri, 1969; Vincenti, 1969, p. 27 ill. col.; De Marchis, 1970; Pinto, 1970, nota 12; Calvesi1, 1971, p. 22 n. 11 tav. col.; Lambertini2, 1971; Bucarelli, 1973, p. 131; Rubiu, 1975, pp. 11, 119 n. 14 tav. b/n; Mantura1, 1976, p. 9; Giannattasio, 1976; Micacchi, 1976; Trucchi1, 1976, ill. b/n; Morini, 1976, p. 3 ill. b/n; Bramanti, 1976; Argan, 1976; Novi, 1976; Bortolon, 1976, p. 51; Guzzinati, 1976, p. 46; Montealegre, 1976, p. 48 n. 1 ill. b/n [1956]; Nordland, 1977, pp. 31, 32-33; Arcangeli, 1977, n. 75 tav. b/n; Ucla Daily Bruin, 1977, p. 2; Averini, 1977, p. 63; Lambertini, 1978; Nordland2, 1978, p. 90; Nordland3, 1978, pp. 34, 35; Bramanti, 1979, p. 9; De Feo, 1980, p. 152; De Marchis, 1982, p. 585, n. 499 ill. b/n; Argan, 1982, p. 39; Rosini, Gandini, [1982]; Trucchi2, 1982, p. 83 ill. b/n [1972]; Pirovano2, 1984, p. 191; Fréchuret, 1987, p. 157 ill. col.; Dentice, 1987, p. 130; Ercoli, 1987, p. 3; Calza, Maffini, 1988, p. 277 ill. col.; Buratti, 1988, p. 134; Volpi, 1988, p. 5 ill. b/n; De Dominicis, 1989, p. 483; Hollingsworth, 1989, pp. 474-475 n. 20 ill. col.; Celant2, 1990, pp. 16 ill. col., 371-372; Christov- Bakargiev, 1990, p. 23; Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri, 1990, pp. 36 n. 114, 37 ill. col.; Zevi, 1990; Gianelli, 1991, p. 7 ill. b/n; Curto, 1991; Cilli, 1991, pp. 62-63 ill. b/n; Minervino, 1991, p. 96; Negri, Pirovano, 1993, p. 214 n. 278 ill. col.; Engelke, 1993, pp. 4 n. 3 ill. col., 6; Castellano, 1994, pp. 79- 80, 83 nota 3, 289 n. 18 ill. col.; Piccioni G., 1994, p. 19; Ferraris Rosazza, 1995, p. 45; Gallian2, 1995; Sarteanesi C., 1995, p. 25; Zorzi1, 1995, pp. 35, 46, 47, 48; D’Amico, 1995, p. 33; Zorzi2, 1995, p. 16; Rosci2, 1995; Pancera, 1995, p. 86; Christov-Bakargiev1, 1996, pp. 49, 51, 52; Sarteanesi C., 1996, p. 23; D’Amico, 1996; Gigliotti, 1996, p. 32; Ghezzi, 1997, p. 212 n. 62 ill. b/n; Pinto, Piantoni, 1997, ill. col.; Sarteanesi C.5, 1998, p. 87 [Grande Bianco]; Serafini, 1999, pp. 12, 13, 40, 56, 58 ill. col., 59, 242 n. 38; Morelli,

1999, p. 20 ill. b/n; Sarteanesi C.1, 2000, ill. col.; Pontiggia, 2001, p. 9 [Sacco]; Corgnati, 2001, p. 18; Fagiolo dell’Arco, 2002, p. 61; Nakai1, 2002, p. 215; Sensi, 2002, p. 39; Forti, 2003, p. 39, nota 8; Fagiolo dell’Arco, 2003, p. 40; Casero, 2004, pp. 378- 379 ill. col.; Colombo, 2004, pp. 11 n. 10 ill. b/n, 20 nota 55; Calvesi3, 2005, p. 17; Picciau, 2005, p. 27; Vernizzi, 2005, p. 13; Carboni, 2005, p. 213; Barbuto, 2005, p. 315 n. 23.3 ill. col.; Zevi, 2005, p. 31; Madeo, 2005, p. 101; Diez, 2005, p. 152 [Sacco]; Pirani, 2006, p. 134; Neira, 2006, p. 34; Palumbo, 2007, pp. 53, 70, 103; Casanova, 2007, p. 106; Calvesi1, 2008, p. 21; Tomassoni, 2008, p. 52 [Sacco]; Vettese, 2008, pp. 175 n. 18, 176-177 tav. col.; De Sabbata, 2008, pp. 26, 133, 136-137 tav. col., 138, 139 tav. col. (part.); Masoero, 2008, p. 47; Margozzi, 2009, p. 32 [Grosso Sacco]; Marini Clarelli, 2009, p. 11; Ferrario, 2010, pp. 131, 194, 203, 205, 206, 237, 309 nota 25; Panichi, 2010, pp. 73-74; Valentini, 2011, pp. 99, 102, 104, 105, 108; Colombo, 2011, p. 235; Gazzola, 2011, pp. 24, 26; Iori2, 2012, pp. 148, 149, 152, 162, 167, 176, 183 e-f, 191; Lorenzoni, 2012, pp. 218, 222, 223, 224; Sensi, 2012, p. 33; Finizio, 2013, p. 76 n. 40 ill. b/n Esposizioni New York2, 1953; Bologna..., 1957 (dépl.); ...Torino2..., 1957 (dépl.); ...Brescia, 1958; Venezia, 1964, p. 21 n. 1, VI tav. b/n (cat.); Roma, 1976, n. 6 tav. col. (cat.); Lisbona, 1977, n. 6 ill. col. (cat.); Madrid, 1977, n. 6 ill. col. (cat.); Los Angeles..., 1977, p. 20 n. 12 ill. b/n (cat.); ...San Antonio..., 1978; ...Milwaukee..., 1978; ...New York, 1978; Madrid, 1980, n. 18 tav. col. (cat.); Colonia, 1981, p. 420 n. 476 a (cat.); Milano1, 1984, p. 46 n. 24 tav. col. (cat.); Ravenna, 1985, p. 34 tav. col. (cat.); Saint-Étienne, 1987-88, pp. 157 ill. col., 309 (cat.); Francavilla al Mare, 1988, tav. b/n (cat.); Roma, 1990-91, p. 49 tav. col. (cat.); Ferrara, 1995-96, p. 59 n. 12 tav. col. (cat.); Roma2..., 1996-97, p. 164 tav. col. (cat.); ...Monaco di Baviera..., 1997, p. 164 tav. col. (cat.); ...Bruxelles, 1997; Tokyo, 2001, p. 89 ill. col.; Nuoro, 2005, n. 5 tav. col. (cat.); Madrid, 2006, pp. 44, 45 tav. col. (cat.); Roma, 2009, pp. 150 ill. col, 179 (cat.); Roma1, 2011, p. 108 (cat.)

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Biografia

Alberto Burri nasce a Città di Castello (Perugia) il 12 marzo 1915 da Pietro Burri, commerciante di vini, e Carolina Torreggiani, insegnante elementare. Nel 1940 si laurea in Medicina presso l’Ateneo di Perugia. Prende parte alla Seconda Guerra Mondiale quale ufficiale medico volontario nell’esercito italiano; viene fatto prigioniero dagli alleati in Tunisia nel 1943 e inviato nel campo di Hereford, in Texas, USA, in seguito, decide di abbandonare la professione medica per la pittura. Tornato in Italia nel 1946, continua a dipingere e si stabilisce a Roma, dove nel ’47 e ’48 tiene le sue prime mostre personali. Dal 1948 la scelta astratta s’impone definitivamente e il suo interesse verte sulle potenzialità espressive della materia. Nel 1950 realizza i primi Sacchi, che predomineranno nelle successive mostre personali che, dopo Roma, si tengono oramai anche in varie città americane ed europee. Nel 1951 è presente alla fondazione del gruppo Origine con Mario Ballocco, Giuseppe Capogrossi ed Ettore Colla: il gruppo si estingue la sera stessa. Nel 1952 partecipa per la prima volta alla Biennale di Venezia, alla quale sarà invitato ancora nel ’56, ’58, ’60, ’64, ’66, ’68, ’84, ’86 e ’88. Nel 1995 è invitato alla rassegna “Venezia e la Biennale. I percorsi del gusto”, tenutasi al Palazzo Ducale in occasione della 46. Biennale di Venezia. Tra il 1952 e il 1953, l’arte di Burri s’impone all’attenzione internazionale con mostre personali a New York e Chicago. Nel corso degli anni ’50 e durante gli anni ’60 realizza diversi cicli di opere mediante l’impiego del fuoco e di differenti materiali. Prendono così forma le Combustioni, i Legni, i Ferri, le Plastiche. Negli anni ’70, mentre si susseguono mostre personali e collettive in prestigiose istituzioni e rassegne nazionali e internazionali (Museo Civico di Torino, 1971, Musée National d’Art Moderne di Parigi, 1972, Triennale di Milano, 1973, Tate Gallery di Londra, 1974, Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, 1976, Solomon R. Guggenheim Museum di New York, 1978), avvia e sviluppa i cicli dei Cretti e dei Cellotex. Alla conclusione degli anni ’70, Burri concepisce e formalizza una serie complessa di cicli di opere a struttura polifonica, che ripercorrono le varie fasi della sua vicenda artistica. Il primo nucleo di opere, Il Viaggio, viene presentato a Città di Castello nel 1979 e nell’anno successivo a Monaco di Baviera; seguono altri cicli tra i quali: Orti (1980), Sestante (1983), Rosso e Nero (1984), Annottarsi (1985-1987), Metamorfotex (1991) e Il Nero e l’Oro (1991-1993). Nel 1978, a Città di Castello, istituisce la Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri, dono dell’artista alla sua città. In questa sede espone in permanenza una mirata selezione di opere con un allestimento da lui stesso curato e tutt’ora conservato. A Milano, nel 1984, per l’avvio del progetto Brera 2, rivolto al settore del contemporaneo, come parte organica della Grande Brera, viene presentata l’esaustiva mostra monografica dedicata all’opera di Alberto Burri. Nel 1989 la Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri acquisisce l’intera area di archeologia industriale degli Ex Seccatoi del Tabacco di Città di Castello. Queste architetture divengono, per la visionarietà del Maestro Burri, spazio espositivo ideale per i grandi cicli pittorici e per le sculture appositamente da lui create a completamento del nucleo storico esposto nel Palazzo Albizzini. Alberto Burri muore a Nizza il 13 febbraio 1995.

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Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri

In collaborazione con

euro 50,00

Paola Sapone MCIA

ITA

ISBN 978-88-99534-94-3


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