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numero 7 _ giugno 2010

transatlantico • FRyDeRyk CHOPIN • PIER ANGELO CAROZZI • LEONARDO ZUNICA • PAOLO VANINI • STEFANIA BOSI • DOUGLAS HOFSTADTER • ARIEL TOAFF • PIERGIORGIO ODiFREDDI • IAIA FORTE • MICOL FERRETTI • valeria rossella • GIOVANNI PASETTI • FRIEDRICH HÖLDERLIN • LUIGI MANFRIN • claudia schirripa • SHANTENA augusto sabbadini • H.G. WELLS


trimestrale dell’associazione Diabolus in Musica

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editoriale Quando se ne parla - di Dio - qualcosa accade sempre. La metropolitana milanese non è molto affollata il primo pomeriggio della domenica, solo un gruppo di teenagers italo-asiatici, luccicanti e oscurati da occhiali da sole e jeans perlinati fermi alla banchina della fermata Bande Nere. Durante il viaggio, un signore rompe il ghiaccio rivolgendosi a una giovane signorina, di una bellezza inusitata, quasi rara, che sta leggendo Gomorra di Saviano. Il signore dice che quel libro “non gli è piaciuto molto” e che, un paio di anni prima, aveva letto un altro libro molto più interessante, un libro su Leonardo da Vinci. Ripete la cosa un pò di volte, cercando di rammentare il titolo; poi si corregge: è Il Codice da Vinci. “Un libro che parla di preti”, aggiunge con anticlericalità. La signorina non sembra turbata, però rischia di perdere la fermata. Salta giù dal treno con agilità improvvisa, meravigliosa, sbalorditiva. La guardo andarsene e mi rendo conto che il mio sguardo è parallelo a quello dell’attento lettore e di un suo vicino di viaggio - mi pare di origine slava - che se la ride, consapevole del primitivo sentimento (ovvero dell’abbandono che tutti abbiamo sentito) di aver perso l’oggetto di un desiderio leggiadro. Poco dopo cambio linea. Il signore che mi siede a fianco ha in mano l’ultimo libro di Ariel Toaff, Il prestigiatore di Dio. Gli chiedo subito cosa ne pensa, visto che Toaff sarà presto nostro ospite. “Abbastanza interessante”, dice lui, perplesso e poco sorpreso. Nel frastuono del treno, lo sento affermare che “il libro è ricco di documentazione storica, perché sa - aggiunge lui con fierezza - conosco bene i documenti che Toaff cita; sono un discendente del protagonista, Abraham Colorni”. Io capisco di essere colpito da una specie di grazia, di far parte di un caso stupefacente o di un qualche impossibile disegno. Non esito a pensare ad un fenomeno di sincronicità. “Allora” - gli domando - “lei ha origine mantovane?” “Si, anzi sono proprio mantovano” “Allora” - incalzo - “lei è forse Emanuele Colorni?” “Si”. “La volevo contattare per invitarLa alla conferenza di Toaff sullo Zohar; ero in classe alle elementari con Suo figlio Gabriele”. “Davvero?”, mi risponde, “Si sta per sposare!”. La mia fermata è la prossima. Saluto il discendente di Abramo come chi ha trovato qualcosa, con la promessa di telefonargli; risalgo poi le scale della metro come leggero, quasi volando. POSTILLA di SINCRONICITÀ Leggo, ne Il Prestigiatore di Dio, che il Nova Chirofisionomia di Abramo Colorni venne ultimato nel 1588. Il 1588 è anche l’anno di pubblicazione dello Zohar mantovano. Leonardo Zunica

direttore responsabile Leonardo Zunica redazione Leonardo Zunica Giovanna Venturini Paolo Vanini Micol Ferretti art director Paola Pradella editing Antonio Galuzzi

sommario numero 7 _ giugno 2010

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Intervista a Iaia Forte di Claudia Schirripa

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Intervista ad Ariel Toaff di Stefania Bosi

Pianeti di Leonardo Zunica

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La fisiognomica della mano di Ariel Toaff

L’inchiostro di Saturno di Paolo Vanini

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info transatlantico.mn@gmail.com dir.transatlantico@gmail.com

Chopin nel Limbo degli Sforzi Vani di Paolo Vanini

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Herzoghiana. La verità tradita, la verità rinata di Micol Ferretti

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Associazione Culturale Diabolus in Musica Via Eremo, 37/A 46010 Curtatone MN

Vita di Chopin attraverso le lettere a cura di Valeria Rossella

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Sospesi a guardare in basso... o in alto? di Giovanni Pasetti

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Intervista a Douglas Hofstadter di Piergiorgio Odifreddi

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Crystal light... just black light di Luigi Manfrin

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Sounds like Bach di Douglas Hofstadter

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Il paese dei ciechi di H.G. Wells

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Tao Te Ching di Shantena Augusto Sabbadini

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Nella torre di Friedrick Hölderlin

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si ringraziano Rizzoli editore LINDAU editore in copertina disegno di Valeria Bigardi stampa FDA Eurostampa Borgosatollo BS

www.eterotopie.it Registrato presso il Tribunale di Mantova N. 4/2008 Registro di stampa in data 16 Giugno 2008 Stampato in 1.000 copie

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Editoriale Epifanie di luce di Pier Angelo Carozzi


Epifanie di luce

Così canta, con ritmo danzante, Pindaro, l’arcaico e classico poeta ellenico, in un suo frammento, con versi quasi rituali di poema sinfonico. E il latino Ennio, vate della Roma repubblicana, osa scorgere indubitabilmente post nubila Phoebus in un suo esametro incalzante e precipite:

di Pier Angelo Carozzi

Da sempre e in qualsivoglia contesto di civiltà, il mito esprime, perché fonda veritativamente e autorevolmente, la visione del mondo e dell’uomo esperita dai molteplici gruppi etnici e formulata dagli svariati modelli culturali. Il rapporto dialettico, fondamentalmente aperto, tra ordine del giorno e mistero della notte, che permea il tragitto dell’umanità dal suo consapevole affacciarsi sul cosmo sino all’odierno atteggiamento di efficace (ma parziale e illusorio) dominio su di esso, già traspare nelle prime battute del poema babilonese della creazione, l’Enuma elish: Quando in alto non esisteva il cielo, quando in basso non esisteva la terra... non diversamente, su analoga lunghezza d’onda, la Torah ebraica, nel suo fissarsi in Scrittura, calibra in termini di rigorosa sintesi la trasformazione dal chaos in kosmos negli iniziali tre versetti di Bereshit, la Genesi dei Settanta e dei cristiani:

[...] e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque.

Gen 1, 1

Abisso e acque evocano, simbolicamente, ma non meno emblematicamente, Apsu e Tiamat mesopotamici, ossia miticamente, secondo i canoni del Vicino Oriente antico, il titanico disordine primordiale, oscuro e profondo, sinonimo di tenebra abissale: è un corso d’acqua irruente nella sua piena inarrestabile e travolgente o il mare in burrasca o un oceano agitato da maremoto. È a un tempo il manifestarsi del divino come horrendum e tremendum per l’uomo – vuoi primitivo, vuoi categoriale – che lo subisce nel sublime cosmico che lo sovrasta e lo annienta prima di giungere a contemplarlo come fascinans lusinghiero e attraente. Paradigmatico pertanto e chiave di volta di una lievitante ermeneutica è il versetto 3 di Genesi che invera, quale atto dinamicamente inesauribile, la potenzialità profetica e demiurgica già insita nella presenza aleggiante dello Spirito sulle acque:

Dio disse: “Sia la luce!” E la luce fu.

Gen 1, 3

Le innumerovoli pagine dei midrashim, vergate nei secoli dai commentatori giudaici, non basterebbero ad argomentare codesto celebre, ma apofatico effato. Antecedentemente Zarathustra, con versi oracolari, aveva fuso l’atto divino creatore nella sintesi di pensiero, gioia, luce: Chi primo pensò tutto questo, pervaso nella gioia delle luci celesti, per sua risoluzione, il Vero ha creato, con questo rese fermo l‘Ottimo Pensiero. Yasna, XXXI, 7 (trad. di M. Meli) Anche Esiodo, tra i greci antichi, fa iniziare la sua Teogonia - che è a dire una articolata cosmogonia mitica, finalizzata a una antropogonia, attraverso la necessaria mediazione di successive coppie divine, la cui figliolanza altro non è se non fondamento delle tappe del procedere storico e culturale dell’uomo - dal chaos, dall’erebo, dalla notte, per proiettare infine nella luce del giorno e nell’età dell’oro l’avvio del procedere umano civile e ordinato, che di poi si degrada. A un dio facile è trarre da nera notte incorruttibile luce, e in tenebra di oscuro nembo avvolgere il puro splendore del giorno... Frammenti Iporchemi, 45 (trad. di L. Traverso)

Cum superum lumen nox intempesta teneret.

Annales, fr. 102 V.

(Mentre la luce del cielo lassù una tenebra fitta teneva incarcerata a noi quaggiù.)

E quando, agli inizi dell’impero romano, il messaggio del rabbi di Galilea si diffonderà in lingua greca dal Mediterraneo orientale, l’ultimo dei suoi discepoli, il mistico Giovanni, non potrà non riecheggiare mitologemi già diffusi, con icasticità nuova:

[...] la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvagie. [...] Ma chi opera la verità viene alla luce.

Gv 3, 19 e 21

Trascorsi quattro secoli dalle origini cristiane, un dotto teologo siriaco, imbevuto di neoplatonismo teurgico prestato alla teoresi dell’evangelo di Gesù, lo pseudo-Dionigi Areopagita, nel suo trattato De divinis nominibus IV, 4 - che tanto offrirà alla mistica cristiana susseguente – così svilupperà i concetti espressi dall’evangelista efesino: La Luce deriva dal Bene ed è immagine della Bontà, perciò il Bene è celebrato con il nome della Luce, come l’archetipo che si manifesta nell’immagine. DN IV, 4 Non fa meraviglia pertanto leggere in quel metafisico sommo che è il nostro Alighieri – già diligentissimo scolaro ne le scuole de li religiosi e a le disputazioni de li filosofanti (Convivio II, XII) – le innumeri e rinnovate espressioni che, nella Commedia e soprattutto in quell’epos della luce e della grazia che è la terza cantica, variano poeticamente e misticamente il tema della luce e della illuminazione, sorgivamente sorseggiato dal versetto 11 del Salmo 26: Dominus illuminatio mea et salus mea. Ragion per cui principia il percorso paradisiaco nello splendore folgorante della gloria divina come epifania della luce, tratteggiata nell’allusività del linguaggio apofatico.

La gloria di colui che tutto move per l’universo penetra e risplende in una parte più e meno altrove. Nel ciel che più de la sua luce prende fu’io e vidi cose che ridire né sa né può chi di là su discende.

Parad. I, 1-6

Dante ci consegna il suo sacrato poema, in comunione con i beati, col lume di un sorriso (Parad. XVIII, 19), nella condivisione della perfetta letizia con coloro a cui esperienza grazia serba (Parad. I, 72), coerente con la giovanile ed entusiastica affermazione del Convivio III, VIII:

[...] e che è ridere se non una corruscazione de la dilettazione de l’anima, cioè uno lume apparente di fuori secondo sta dentro?

Varcata la selva oscura e percorse le bolge infernali, ascesa la montagna del purgatorio così da esser puro e disposto a salire a le stelle, l’altissimo poeta può così ultimare il cammino iniziatico nella trasfigurazione della luce. [...] se’l mio disir dee aver fine in questo miro e angelico templo che solo amore e luce ha per confine Parad. XXVIII 52-54 Giunto a penetrar per grazia il mistero della maestà divina, il poeta non potrà che esaltarla: o somma luce che tanto ti levi da’ concetti mortali... Parad. XXXIII, 67-68 e pervenire alla silente contemplazione adorante de l’amor che move ‘l sole e l’altre stelle

Parad. XXXIII, 145

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Intervista ad Ariel Toaff

di Stefania Bosi

Ripensando alla lettura dei suoi libri, da Il vino e la carne a Mostri giudei, da Mangiare alla giudia a Pasque di sangue, e naturalmente tenendo sempre presente la cura sua e di Suo padre del Libro dello Splendore, rifletto sul fatto che la Shoah ha avuto un doppio terribile risultato sulla conoscenza del popolo e della cultura ebraica: voglio dire che la Shoah ha in qualche modo “determinato” una visione dell’ebraismo totalmente e pesantemente privata della sua storia “altra”. È esatto?

Non credo possano esserci dubbi di sorta sul fatto che la memoria della Shoah, sempre più ingigantita, onnipresente e clamorosa, ha purtroppo paralizzato il dibattito nel mondo ebraico e trasformato la sua storia in mito edificante, dove i confini tra terra e cielo sono irrilevanti e le scansioni cronologiche inesistenti. La realtà frammentata, talvolta contraddittoria, di un popolo, quello ebraico, vivace e creativo, è stata ricomposta in un affresco oleografico dove tutto è virtuale e improbabile e dove il ricordo minaccioso della Shoah trasforma inevitabilmente i protagonisti in figure sempre edificanti e in vittime innocenti. È un quadro che risulta sempre eguale a se stesso, previsto e prevedibile sia da chi lo ridipinge continuamente sia da chi lo guarda ormai con malcelato fastidio e insofferenza. Dopo lo sterminio nazista, nutrito dei più vieti stereotipi antiebraici, la storia degli ebrei, anche quella che ha preceduto di secoli la Shoah, viene presentata alla coscienza moderna, scossa e commossa da quella tragedia di cui tutti si sentono responsabili in qualche misura, come l’agiografia di un popolo santo, costantemente vittima, indifeso e perseguitato in un quadro improbabile, privo di articolazioni e differenze. È nato così il mito della storia virtuale di un popolo virtuale, sempre positivo e silenzioso, perennemente angosciato dal pericolo costante che qualcuno lo spinga nel baratro e in perenne attesa di una mano amica, quando non quella stessa di Dio, che venga a salvarlo.

Si può dire, dunque, che occorre fare una distinzione tra la storia dell’ebraismo e la storia dell’antisemitismo?

Gli storici dell’antisemitismo non conoscono la storia degli ebrei e dell’ebraismo dall’interno né mostrano di avere per essa qualche interesse. Si limitano a piangere le sofferenze patite dagli ebrei, presentati come vittime perennemente passive nel lungo tragitto che va dalle crociate alla Shoah, e cercano di risalire all’origine degli stereotipi che, a loro avviso, presumibilmente le hanno provocate. Ma nello stesso tempo non si curano di nascondere che la loro principale preoccupazione continua ad essere rivolta alla società maggioritaria cui appartengono, per ammonirla e ammaestrarla utilmente. Uno dei più grandi storici dell’antisemitismo, Gavin Langmuir, non si curava di nascondere la sua opinione che gli ebrei fossero obnubilati dalla velleitaria presunzione di svolgere un ruolo di qualche peso nella storia. La vera storia degli ebrei e dell’ebraismo è tutt’altra cosa. È la storia di un popolo reale con i suoi pregi e i suoi difetti, con le sue sofferenze e la sua voglia di vivere e reagire, con le sue diatribe interne e i compromessi spesso adottati per sopravvivere, con il divario tra norma e prassi che l‘ha caratterizzata, i suoi atti eroici e le sue ipocrisie, la sua cultura e le sue superstizioni, i suoi tratti religiosi e spirituali originali e la sua grande creatività. È una storia reale, che è stata scritta in gran parte in ebraico.

Lei si è occupato di raccontare la storia ebraica attraverso la lettura dei testi e dei documenti in ebraico e yiddish, prestando attenzione alla cultura materiale (penso a Mangiare alla giudia), all’immaginario (Mostri giudei) o alla complessa ricostruzione di ritualità medievali (Pasque di sangue). In Il prestigiatore di Dio lei racconta il mondo dove tutto questo avviene. Com’è arrivato ad Abramo Colorni?

Quindici anni fa, scrivendo Mostri giudei, mi sono imbattuto nella figura di Abramo Colorni, che mi è subito apparsa, al di là della sua apparente eccezionalità, in un certo senso paradigmatica di un ebraismo vissuto e operante al di fuori delle strettoie non soltanto fisiche della vita dei ghetti. Un ebraismo fiero di sè, lontano dal vittimismo di maniera, colto e consapevole di poter fornire un contributo peculiare e originale all’Europa in trasformazione. Un ebraismo dove la seria ricerca scientifica non era mai disgiunta dal patrimonio spirituale e culturale della Bibbia, del Talmud e della Cabbalah, e anzi ne traeva linfa vitale. Un ebraismo che non si isolava e non si piangeva addosso, ma si mostrava aperto e fecondo ed era ovunque apprezzato e considerato meritevole di grande stima dalla società cristiana circostante, da papi, principi e imperatori. Il fatto che contraddicesse l’immagine stereotipa dell’ebreo eterna vittima, recluso e perseguitato, spiega meglio di ogni altra cosa perché su di esso si sia voluto stendere un velo di silenzio, del quale ritengo responsabili da una parte gli storici dell’antisemitismo, cui tali figure, per loro problematiche, sembrano contraddire le loro teorie, dall’altra le frange più ignoranti tra gli ebrei stessi, che si cullano nell’immagine rassicurante dell’ebreo eterna vittima, capace di suscitare compassione e sensi di colpa. La mia biografia di Abramo Colorni, mantovano e uomo del Rinascimento, vuole essere un omaggio a quegli ebrei che nella storia hanno voluto e saputo presentare con successo l’aspetto migliore di un ebraismo realmente e intensamente vissuto in un mondo che, al di là delle sue innegabili contraddizioni, mostrava di saperlo apprezzare traendone indubbio giovamento.

Lo Zohar, che la sua (ardua) traduzione dall’aramaico arcaico ci permette di leggere, è un testo conturbante ed enigmatico dove Dio è En Soph, senza fine ed insondabile. Che diffusione ha presso la popolazione ebraica?

Mio nonno Alfredo Sabato Toaff, rabbino capo di Livorno e grande studioso della Cabbalah, soleva dire che la meditazione sullo Zohar con la ricerca intima dell’En Soph, Dio nascosto e infinito, non sarebbe mai venuta a cessare tra gli ebrei e paradossalmente anche tra i cristiani, nonostante si abbia a che fare con un testo giudaico e per di più scritto in aramaico. Con lo Zohar ci troviamo di fronte all’espressione più significativa della teosofia ebraica e infatti i due temi centrali della sua indagine mistica sono appunto la definizione del concetto teosofico di Dio e la ricerca del rapporto tra l’uomo e Dio. Nel mondo attuale, che al di là del suo progresso tecnologico attraversa una profonda crisi di valori, la Cabbalah è in grado di fornire risposte e indirizzi ai giovani e meno giovani, ebrei e non ebrei, alla ricerca di valori spirituali che diano un significato alla loro vita, altrimenti condannata alla mera sopravvivenza biologica e materiale. In Israele, dove vivo, cosi come negli Stati Uniti, lo studio della Cabbalah non è più patrimonio di pochi, ma raggiunge un pubblico in continuo aumento, anche tra coloro che non possono annoverarsi tra gli osservanti delle norme religiose canoniche.

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La fisiognomica della mano Da “il Prestigiatore di Dio” di Ariel Toaff Gentilmente concesso da Rizzoli Editore

Narra delle vicende di Abramo Colorni, alchimista, inventore, ingegnere bellico e creatore di mirabolanti macchine sceniche, ebreo mantovano conteso per il suo eccezionale e poliedrico talento dalle signorie di mezza Europa.

In gioventù, quando era ancora a Mantova alla corte dei Gonzaga, dilettandosi di giuochi di chiromanzia con i gentiluomini, riuniti con lui nella fastosa “fabbrica ducale di Marmiruolo”, Colorni era stato invitato da Guglielmo a scrivere un trattato sull’argomento. Il duca infatti, adottando con convinzione uno stereotipo assai in voga in questo periodo, attribuiva agli ebrei la padronanza di “secreti peculiari” e “oscuri artifizi”, che avrebbero consentito loro di pronosticare efficacemente gli avvenimenti futuri. Tra questi “secreti misteriosi” ci sarebbe stato anche quello di conoscere l’interpretazione delle pieghe della mano. In realtà il suo cortigiano ebreo, che si era messo subito al lavoro, lo avrebbe deluso non poco, affermando di considerare l’arte di predire il futuro leggendo i segni della mano alla stregua di una “supertitiosa vanità”. E questo anche se le sue fonti ebraiche, testi mistici e di Cabbalah che trattavano dell’arte chiromantica (chokhmat – ha-yad), sembravano dire il contrario. [...] Colorni aveva completato la sua Nova Chirofisionomia nell’ultimo scorcio del 1588, con la dedica a Vincenzo I Gonzaga. Alla copia in bella calligrafia e pronta per la stampa, premetteva la lettera di accompagnamento che aveva spedito da Ferrara a Garzoni1 il 29 novembre 1588, quando gli aveva fatto avere il manoscritto nella versione definitiva, e la risposta che ne aveva ricevuto dall’abate, che allora si trovava a Bologna, datata 8 dicembre 1588. [...] Garzoni concedeva volentieri il suo imprimatur morale a questa nuova fatica di Colorni e confessava che “la Nova Chirofisionomia mi piace sommamente, sì per la bellezza de’ pensieri, come per la sincerità delle cose trattate e discusse: fisicamente è contra al vanità manifesta de’ superstitiosi Chiromanti antichi et moderni”. Non andava leggero Colorni con questi problematici costruttori di oroscopi sui segni della mano, quando dava loro l’avvilente qualifica di lestofanti e truffatori, in grado di ingannare solo un pubblico incolto e altamente sprovveduto. Sono ridiculi i chiromanti che dicono che per la scienza de la mano si possa antivedere se uno debba ricevere offesa da nemici o ne la testa o ne le braccia, o ne le coste o ne le gambe o in altra parte del corpo, et similmente se ci sarà ferito con spada, o con lancia, o simili cose da narrare per favole a i putti, o ad alcune supertitiose donnicciole. Eppure se la chiromanzia era scienza falsa e ingannevole, non così andava considerata la chirofisionomia, che appariva saldamente ancorata alla medicina e alla razionale sperimentazione. I segni della mano erano bene in grado di rivelare caratteristiche e tendenze dell’animo, abitudini, pregi e difetti. Colorni, da “secretario di natura” perspicace e dotato di intuito sicuro come si considerava, oltre che di straordinaria percezione, bene ancorata a conoscenze scientifiche di provata validità, era persuaso di poter decifrare i segni della mano per risalire all’indole e al temperamento di chi glieli mostrava. Anche le mani occultate e sottratte alla vista, senza apparente necessità, costituivano indizio significativo e gravido di implicazioni, atto a identificare i briganti e genti di malavita. In un certo senso con le sue teorie anticipava la fisiognomica di Cesare Lombroso, proponendosi di dedurre dall’aspetto delle mani considerazioni di carattere psicologico e morale, oltre che attinenti all’antropologia criminale. Trovo che ai ladri et malfattori non si vedono quasi mani le mani scoperte, avenga che sempre le tengono ascose o avilupate nel mantello, et questo avviene per essere assuefati al robare, onde conviene loro asconder le mani per celare il mal tolto, et anco per dar meno sospetto che le vogliono adoperare, et giocare (come si dice) di mano, et però resta loro l’habito di tenere le mani ascose. Dalle linee della mano si poteva riconoscere l’uomo forte “che tenta et arditamente sopporta pericoli grandissimi” e così pure “l’huomo ingegnoso, sapiente et catolico”. Ma anche non era difficile individuare i “male inclinati”, come “l’abominevole lussurioso che non resiste a’ suoi appetiti”, l’uomo crudele e violento, dal sangue grosso e fibroso “per natura animosissimo, iracondo e furibondo come i tori e i cinghiali”, e “l’huomo lusinghevole adulatore et simulatore, che sa allettare gli animi semplici e molli, come delle donne et di persone effeminate, delicate et simili”. L’esame delle pieghe della mano denunciava senza errore anche l’eretico “che ha mala inclinatione in osservare le cose pertinente a la religione [...] et è perciò soggetto a persecutioni di uomini grandi e religiosi”, come pure “l’ebrio, vorace e discipatore della robba e leggero di cervello” e perfino “l’huomo infedele et lussurioso, et che non si satia di molte donne, onde ne conseguirà che sarà odiato da’ propri parenti et più da la moglie, sì che facilmente ne potrà riuscire omicidio o dell’uno o dell’altra”, Il chirosofo era una sorta di psicologo anatomico, cui nulla si poteva celare della propria natura e costituzione fisica, morale e intellettuale. “Ingegnoso et ardito discopritore” dei segreti dell’animo umano, Colorni si era preparato seriamente a questa delicata professione, frequantando con profitto i corsi di anatomia allo Studio di Ferrara. (1) Tommaso Garzoni, enciclopedico canonica lateranense di Bagnacavallo, estimatore di Abramo Colorni (ndr).

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Chopin nel Limbo degli Sforzi Vani

A Mi scusi, maestro, potrei rubarle un po’ di tempo? B È un modo curioso di chiedere il suo, o per lo meno, rubare il tempo è un’espressione equivoca. A Mi perdoni, non volevo confonderla, né essere inopportuno. Solo avrei bisogno di parlarle. Non sarò di troppe parole, le assicuro. B Io credo di non capire dove ci troviamo e non ricordo di conoscerla. Ho una forte emicrania, le mie mani sono come intorpidite, quali i piedi... e questo luogo... sa dirmi dove siamo?

B È un modo molto garbato, il suo, di mandare all’Inferno. Ma se lei è qui con me, rischio di non essere altrettanto educato, devo dedurre... A Non è esattamente una situazione logica. Qualcuno, da dove arrivo, mi ha chiesto di scrivere di lei. Sono passati due secoli da quando è nato, ed è una cosa che noi celebriamo. Io, però, non sono musicista, il mio orecchio non fa onore alle sue composizioni, e le mie parole probabilmente un torto. Ho dovuto pensarla come un mio personaggio, che è quasi una farsa, eppure era l’unico modo che avevo per poterla incontrare, per farmi raccontare qualcosa da lei. B Forse ha improvvisato bene, non fosse che questo è un luogo per anime e lei è ancora vivo.

A Non con certezza, ma dovremmo essere nel Limbo degli Sforzi Vani1. B Lei, non voglio ferirla in alcun modo, lei non è per nulla chiaro. Il limbo di che cosa? A Il Limbo degli Sforzi Vani: è un Inferno, o un Paradiso, di cui ha raccontato Kipling, in cui “vanno le anime di tutti i personaggi... creati da chiunque, uomo o donna, che abbia avuto la fortuna o la sfortuna di dare alle stampe i propri scritti”2.

A Fatta la legge, trovato l’inganno, soprattutto all’inferno. Al tempo di Kipling, il limbo era situato al di là dei gironi danteschi, oramai sovraffollati, e separato da essi dalla Fornace delle Prime Edizioni, un luogo più caldo del fuoco e più freddo della tana di Lucifero. Ora le cose sono cambiate, e prima dell’entrata del limbo c’è una seconda fornace, quella dei Diritti d’Autore. Il Demone del Malcontento, pena di ogni scrittore e signore di quaggiù, ha visto i suoi poteri aumentare all’infinito. Io ho barattato il diritto a mettere la mia firma su questa nostra conversazione per farmi traghettare qui e poterla incontrare.

B Continuo a non capirla. Io le sto parlando, la vedo, sento le mie mani che faticano a muoversi, i miei piedi che toccano terra, e per quanto le sue parole siano surreali come queste altre figure claudicanti che ci circondano, nulla mi lascia supporre di essere una finzione che cammina in una finzione insieme a un’altra finzione.

B Ma come faceva ad essere sicuro che mi avrebbe incontrato, in mezzo a tanta gente? E tutti questi zoppi sono opera sua?

A Le chiedo, per un momento, di avere fiducia in me, non fosse che io mi sto affidando a lei. Per quanto poco io corrisponda alla definizione che dovrebbe esserne lo specchio, quello con cui parla è uno scrittore, e gli scrittori sono, allo stesso tempo, causa ed effetto di questo limbo.

B Zoppicano perché sono stati scritti male?

B Non la seguo. A Ogni inferno prende la forma mutevole del mondo di cui è effetto e, per questa ragione, ogni girone dantesco è un limbo. Quando dalle nostre parti si è smesso di scrivere manoscritti, nel giro di alcuni decenni, l’invenzione della stampa creò il mondo dell’editoria, il quale, moltiplicando in maniera indefinita le parole, altrettanto indefinitamente moltiplicò i rimpianti di chi le aveva scritte e i fraintendimenti di chi le avrebbe lette. Il libro, all’epoca, si rivelò incapace di contenere tutte quelle glosse e quelle correzioni non scritte, come invece faceva al tempo degli amanuensi... B ...quindi, scomparso il Limbo del Manoscritto, si è creato quello degli Sforzi Vani? A Credo sia andata più o meno così. B Ma c’è una cosa che non capisco. Se noi due ci troviamo qui, significa che io interpreto il ruolo di compositore e lei quello di scrittore. Ma di chi siamo i personaggi? e perché lei sembra così diverso da me? A In questo momento, come forse accade a chiunque, io sono il personaggio di me stesso. Sa, dalle mie parti lei è molto famoso: è considerato uno dei grandi classici, e... come dirle... B Se siamo uno di fronte all’altro, perché dice “dalle sue parti”? A L’ha detto lei stesso, noi sembriamo molto diversi. È che io vivo ancora nei paraggi dei vivi; lei, essendo un classico...

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A Non ne ero sicuro, ma quel diavolo mi aveva dato la sua parola... e no, non sono tutti personaggi miei. A dire il vero, io ho scritto davvero poco.

A C’è una sola legge ripetuta tre volte quaggiù: farli reggere sulle proprie gambe. Nessun scrittore ci riesce, e una volta qui passa l’eternità a sentir le sue creature ripetergli: non ci hai capito. Succede pure ai grandi maestri, quelli che sapevano inciampare nella giusta direzione e arrivare lontano... è che in ogni personaggio c’è un rimpianto simile a uno zoppo in cerca di elemosina. B Degli Sforzi Vani, perché anche Ulisse non è altro che un’ombra, per quanto immortale... A ...un rimpianto che ripeteremmo fino all’aldilà, solo e soltanto per esserci convinti di averlo scritto bene. B Il modo in cui lei parla di questo limbo mi ricorda la Polonia, la mia terra. A La prego, mi racconti. B Ovunque io sia andato, anche in musica, è dalla Polonia che sono partito, col rimpianto di chi parte senza poter tornare. E dopo tanti anni, forse posso dirlo, il rimpianto di non esser voluto tornare. La Polonia era la mia famiglia, la nostalgia della mia infanzia, di quando ascoltai le prime Mazurche... La Polonia era la guerra, la grande guerra di un passato glorioso, e la guerra più imbarazzante a cui non partecipai... La Polonia erano gli amici più cari, l’accento della mia lingua, le storie che mi raccontava mia madre prima di addormentarmi... La Polonia era l’aristocrazia per cui ho sempre suonato, ma anche le pianure della Mazowia e della Kujawia, le mie vacanze estive, quando ho imparato che la voce della mia terra non la potevo trovare nei salotti di Varsavia, nonostante non abbia mai disdegnato di comporre in un soggiorno ben arredato. La Polonia è stata la partenza, e la Polonia è stata Parigi, la mia Parigi. “il punto più distante dal paradiso, [che] resta tuttavia il solo luogo dove sia bello disperare”3...


disegno di Valeria Bigardi

B Non sono un filosofo e non mi piace per nulla filosofare. Le dico che, oltre a essere la mia terra, la Polonia era la mia mèta musicale, e per far sì che si mantenesse tale non era sufficiente andar via e non tornare... la dovevo anche immaginare... la Polonia è stata la mia Utopia. A Ora sono io a non seguirla. B Non pensi che un’utopia sia un non luogo. Tutt’al più è un punto in cui lo spazio è stato rubato dal tempo. È una cosa che espressa a parole non dice nulla, ma con le note è diverso... A Perché in musica spazio e tempo coincidono? B La smetta, la prego, di filosofare e provi a sentirmi. Io amavo Bach e Mozart, ma la loro musica non mi bastava. Non potevo essere un classico, perché il mondo musicale di Bach era un luogo perfetto, in cui l’armonia dipendeva dalla simmetria. Ma il mio mondo, la mia Polonia, era un utopia, e l’utopia è una perfezione asimmetrica. La Polonia è stata il mio Limbo degli Sforzi Vani.Non lo capisce? Si guardi intorno, non vede? A Le giuro, non capisco. A Ma questo è Cioran. B Mi ha detto di chiamarsi così, magari era solo un suo personaggio. Ci siamo conosciuti quaggiù...

B Non c’è bisogno di giurare. Guardi dove sta appoggiando i piedi: è terra della Mazowia. Siamo in Polonia. Non sente il vento? Continua a ripetermi che non ho capito...

A Mi sarebbe piaciuto incontrarlo. Sa, di lei Cioran ha detto che “ha promosso il pianoforte al rango della tisi”4...

A No no, le assicuro... per noi lei, le sue composizioni... lei aveva capito più di chiunque altro, per questo la sua musica è così...

B ...e ha scritto che “se c’è qualcuno che deve tutto a Bach, questi è proprio Dio”5. Attraverso la musica di Bach siamo diventati amici. Io, poi, sono credente, e non penso che il Signore debba qualcosa a qualcuno, ma mi piace pensare che Dio un grazie a Bach lo ha detto volentieri. Ai miei allievi ho ripetuto fino alla fine di continuare a studiarlo. Senza Bach non c’è musica.

B La mia musica merita di stare accanto a quella di Bach, lo so, o almeno ci ho provato in tutti i modi. Ma non può capirmi. Lei non è musicista e non è nemmeno polacco... Ha detto, però, che tra me e lei sono passati duecento anni. Ci sono state altre guerre in Polonia?

A Dalle mie parti lei è considerato della stessa famiglia di Bach. Uno di quelli che non si può non studiare. E anche se non è andato in guerra, per la sua musica oggi è considerato un eroe nazionale. B Mi fanno sorridere le sue parole. Quando ero a Parigi molti miei connazionali volevano, di più - credevano fosse il mio destino - che io scrivessi una memorabile opera polacca per orchestra sulla Polonia. Si dimenticavano che io sono un pianista e un compositore per pianoforte, e non volevo essere altro. Me lo hanno rinfacciato in tanti. A Oggi, però, le sue note sono un simbolo della Polonia. Nessuno azzarderebbe sostenere che avrebbe fatto meglio a comporre altro. B Non all’epoca, e comunque sarebbe di poco gusto continuare a rivangare il passato. Quello che deve capire è che se è riuscito a portarmi qui è perché la Polonia è stata il mio personaggio. Sapevo di dover comporre musica che fosse la mia terra e sapevo che se fossi rimasto in Polonia non sarei riuscito a farlo. A Parigi, e durante le estati a Nohant, pensavo continuamente a casa mia, e ricordare è sempre dimenticare. La musica era la mia memoria. Ed era la mia vita. Se fossi andato in guerra sarei sicuramente morto. L’unica cosa che potevo fare era mettere il mio sangue in musica. Ma non è sufficiente. Ero andato via dalla Polonia e la rivivevo soltanto come un luogo del passato. A Ma il passato non è uno spazio, è un tempo.

A Purtroppo la guerra è stata ovunque...e la Polonia, come ai suoi tempi, è stata un limbo di molte sofferenze. Ma oggi va meglio... B Le mie mani, è strano... sento che il torpore se n’è a poco a poco andato. Anche i piedi... A Forse adesso può reggersi sulle proprie gambe... B ...e vorrei suonare con le mie mani. Crede che ci sia un pianoforte qui nei dintorni? A Sono certo che qualche scrittore migliore di me ha scritto di pianisti e pianoforti. Deve solo cercare. B Spero di trovare un Pleyel. Un’ultima cosa, posso chiederle, signore qual’è il suo nome? A Mi chiamo Paolo Vanini, ma credo che questa mia risposta sia contraria agli accordi col Demone del Malcontento... B Si ricordi, amico mio, fatta la legge trovato l’inganno. Sono solo felice di vedere che non siamo all’Inferno. (1) R. Kipling, La città della tremenda notte, tr. it. Milano, ed. Adelphi, 2007, pp. 233- 250. (2) Ivi, p. 234. (3) E. Cioran, Sillogismi dell’amarezza, tr. it. Milano, ed. Adelphi, 2009, p. 120. (4) Ivi, p. 100. (5) Ivi, p. 99.

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Vita di Chopin attraverso le lettere a cura di Valeria Rossella LINDAU, Torino 2007

A JULIAN FONTANA, LONDRA 18 AGOSTO 1848 CALDER-HOUSE, MID-CALDER, SCOZIA (a 12 miglia da Edimburgo, se ciò ti può fare piacere)

Amico caro, Se la salute fosse migliore, verrei a Londra domani per abbracciarti. Forse non ci vedremo così presto. Siamo vecchi cembali, su cui il tempo e le circostanze hanno suonato i loro trilli infelici. Sì. Vecchi cembali1, quand’anche tu rifiutassi una tale compagnia. Tutto questo non offende le bellezze né il decoro: la table d’harmonie2 è perfetta, solo le corde si sono strappate, alcuni cavicchi sono saltati. L’unica sventura è che siamo opera di un celebre liutaio, di uno Stradivario sui generis, che ormai non è più qui per aggiustarci. Noi non sappiamo emettere nuovi suoni sotto mani inabili e ci soffochiamo dentro tutto ciò che per mancanza di un liutaio nessuno saprà più trarre da noi. Io oramai respiro appena; je suis tout prêt à crever, e tu di certo diverrai calvo completamente e ti chinerai ancora sulla mia lapide, come quei nostri salici, ricordi? che mostrano nudo il capo. Non so perché ora il mio pensiero torna ai morti, a Jas, e Antek, a Witwicki, a Sobanski! Anche coloro con i quali ero in maggiore armonia, sono morti per me; persino Ennike, il nostro migliore accordatore, si è annegato. Quindi ormai non posso più disporre in questi mondi di un pianoforte accordato come piace a me. Moos è morto e nessuno ormai mi fa più scarpe così comode. Ancora quattro o cinque persone mi portano per le porte di S. Pietro, e tutta la mia vita si troverà meglio ad patres. I miei cari, mia madre e le mie sorelle vivono, grazie a Dio: ma c’è il colera! Anche il buon Tytus! Tu pure ci sei ancora, come vedi, nei miei più antichi ricordi, e io nei tuoi, perché pare tu sia più giovane di me (che importanza può avere oggi, il fatto che uno di noi abbia solo due ore più dell’altro!). Ti assicuro, che volentieri acconsentirei ad essere pesino molto più giovane di te, per poterti abbracciare in un momento del mio viaggio. Che tu non sia stato preso dalla febbre gialla, e io l’itterizia, è cosa inspiegabile, perché entrambi siamo stati fatti per questi giallori. Ti scrivo sciocchezze, perché non ho nulla di sensato in testa. Vegeto, e aspetto l’inverno pazientemente. Sogno a volte la mia casa, a volte Roma, a volte la felicità, a volte la sventura. Oggi più nessuno secondo il mio gusto, ma sono diventato così comprensivo, che potrei ascoltare l’Oratorio di Sowinski con piacere, e non morire. Mi ricordo il pittore Norblin3, il quale diceva che un certo pittore aveva visto a Roma il lavoro di un altro, e ne era rimasto così spiacevolmente colpito, che... morì. Tutto ciò che mi è rimasto, è un grande naso e un quarto dito non del tutto esercitato. Sei veramente indegno, se non rispondi una parola alla presente epistola. Hai scelto un cattivo tempo per il tuo viaggio. Tuttavia, che tu possa avere fortuna. Sii felice! Penso che tu abbia fatto bene a deciderti per New York, invece che per l’Avana. Se vedrai Emerson, quel vostro celebre filosofo, ricordami a lui, abbraccia Herbert, tu ricevi la mia amichevole stretta, e non te ne crucciare. Il tuo vecchio Ch.

BRE, 4/ 9 SETTEM

1848

PARIGI GRZYMALA, A WOJCIECH gow ia da Glas , a 11 migl LE ST CA ON JOHNST bene, colto moto ac o nn ha er . Mi abitavo in a Manchest rsone. Io ssimo. o pe ri at ca 0 à. st o 20 ic 1. no Am so erano fuori citt ho scritto, a bella, c’ cchi hanno una casa i ti er nt e ca la ch ri sa a bb a volt te; la imi fa più ri Dall’ultim di uno dei pr al pianofor i signori o È e i ic lt tt o. am vo tu Lé È e ); mo line. lta da sedere tr è troppo fu tipo uemila ster qualche vo ho dovuto in città c’ stato cinq hai visto otestante, é co l’ pr ch , e er ce er rs (p di st fo he si J. e; nc ma ab hé Ma hw rc campagna o, di Sc ebre ande cora, pe so il buon scambio. È o mino più gr tenermi an ro rn ca at be io tr li il gg Stavo pres e l so de nt de o solutame e il mi enitore as ti, possie nt st or ra so no of Du ; va de an ng le ). an pi li Vo di un gr a Stir amicizia ntile. i stesso è in grande n la signor armente ge o co ol ho on ic me (s rt ue da pa nq Cobden e lu ro a e, du da lo desti glie è stat di Le Havr e abiterà ch, che ve e Léo. Sua mo settimana signora Ri e Albrecht delle tass sc ta ra no re es ca co to qu la e at rà el ab es ve qu hw l’ ri e Sc e z, ar ch o. ar to an Lind to affit mmerci r Noss ho incontra r pagare l’ i è nel co ttera e pe a buona le i soldi pe da Schwabe, o: anch’egl tu o e digli Lé ht al la ec di ci r br ac lo pe Al atel sa. Abbr nostro ngrazio pe ri al ando mi i Ti lu e poi il fr re c. e mi davvero, qu o cach e a Lara ito tram5it ci proverò ro, parlan rsino il mi cora e ca pe an rs o subito sped hè no fo Mi rc so . Ma s pe iede se evarlo. 6 d’Orléan lvatico ch ll se re Mi so o ei ua . a tt Sq a ga rt rò in di il riusci rze, pa ir a Marcel o di usare o, se solo essi più fo l principess tt av de a ga e ll Se zi to ma non pens de ti o. es a proposit a letter chiede no subito qu e on to ò al bu es 7 er qu a qu ov un a il pr i, che ante ndato n Ostrowsk poste rest ! Mi hai ma di Chrystia a Ostenda a farà freddo la er ar a rm er fo tt a le e di in ta. L’altr a Londra, e una rispos rl da r pe subito 4

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dramma di Mickiewicz8; una volta lo aveva la signora Sand, che poi l’ha dato alla redazione della “Revue Indépendante”, dove c’era un gran disordine. Pernet, uno degli eredi, è morto, e l’altro, François, incolpa Pernet non sapendo dov’è finito il dramma. Ostrowski ha la stranezza di chiedermi quando è successo e se per caso non ci sia qualche copia, e dov’è adesso la signora Sand, per potersi recare da lei!!! So che già una volta hanno cercato questo dramma e non l’hanno trovato. A lettere simili, come quella di Ostrowski, non rispondo, e poiché comunque ti racconto cosa contiene la mia corrispondenza, ti prego, è meglio che tu apra le lettere e mi mandi solo quelle necessarie. Ora sto dai signori Houston. Lei è una sorella delle mie signore scozzesi. Il castello è molto bello e ricco, tenuto ad alto livello. Starò qui una settimana, poi andrò da lady Murray in un posto ancora più bello, dove mi fermerò un’altra settimana. Forse suonerò ad Edimburgo, per questo fino ad ottobre resterò in Scozia. Ti prego, ora indirizza così le tue lettere: à Mr. Le Docteur Lishinski Warrinston Crescent Edinbourgh – Scotland Lyszczynski è un Polacco, dottore omoepatico a Edimburgo, che si è sposato bene, se ne sta tranquillo e si è completamente inglesizzato. Lui saprà dove spedirmi le lettere. Questa lettera, incominciata ieri, la finisco oggi, ma il tempo è cambiato: fuori fa brutto, e io mi sento male, e sono triste, e la gente mi annoia con le sue cure eccessive. Non riesco a respirare, non riesco a lavorare. Mi sento solo, solo, solo, sebbene circondato dalla gente. Ma perché ti devo annoiare con le mie geremiadi? Tu stesso hai sventure fin sopra i capelli. Dovrei divertirti con le mie lettere. Se fossi di buon umore, ti descriverei una scozzese, tredicesima cugina di Maria Stuarda (sic! Il marito, che ha un cognome diverso dal suo, mi ha annunciato la cosa tutto serio). Qui ci sono solo cugini e cugine di grandi famiglie e grandi nomi, che sul continente nessuno ha mai sentito. Tutte le conversazioni sono sempre di carattere genealogico; è come nel Vangelo, da questo è nato quello, da quello quell’altro, da quest’altro un altro ancora, e così per due pagine intere fino a Nostro Signore. Mi stanno organizzando un concerto a Glasgow. Non so cosa ne uscirà. Sono molto cari, buoni, hanno per me grandi delicatezze. Qui ci sono diverse ladies, anziani lords si settanta-ottant’anni, ma manca la gioventù perché sono a caccia. Non si può uscire a causa di piogge e burrasche che imperversano da qualche giorno. Non so cosa ne sarà del mio viaggio a Strachar (da lady Murray); bisogna attraversare il Loch Long (uno dei più bei laghi locali), passare per il litorale orientale della Scozia, ma è solo a quattro ore da qui. Oggi è il 9, ti mando la mia vecchia del 4 settembre. Scusami tutti gli scarabocchi; sai che tormento sia a volte per me lo scrivere, la penna mi brucia fra le dita, i capelli mi spiovono sugli occhi, e non posso scrivere ciò che vorrei, solo mille inutili cose. Non ho ancora scritto a Sol né alla de Rozières. Lo farò appena i miei nervi saranno in uno stato migliore. Ti abbraccio. Tuo fino alla morte Ch.

Scrivi e che Dio ti protegga. Alla signora Etienne9 dì una buona parola e assicurala che non la dimenticherò. Ho dimenticato di scriverti che dopo la mia ultima lettera mi è accaduto uno strano caso, che per fortuna è finito in nulla, ma poteva costarmi la vita. Eravamo in viaggio per recarci a casa di un vicino che abita in riva al mare. La vettura su cui mi trovavo era una coupé con due belllissimi, giovani cavalli inglesi di razza. Ad un tratto un cavallo incomincia a ballare, incespica con una zampa, inizia a tirar calci, il secondo lo stesso; di colpo sbandano su una china del parco, si strappano le briglie e il cocchiere cade con una capriola (è rimasto gravemente contuso). La carrozza, sfasciata, ha continuato a sbattere di albero in albero; saremmo volati in un precipizio... se non fosse stato per una pianta che ci ha fermato. Un cavallo, liberatosi, se n’è volato via come un pazzo, e il secondo è caduto, schiacciato dalla carrozza. I rami hanno sfondato le ginestre. Per fortuna non mi è successo niente, solo un po’ di contusioni alle gambe per tutto quello sbattere in qua e in là. Il mio servitore è schizzato via agilmente, solo la carrozza si è sfasciata e i cavalli si sono feriti. La gente che da lontano vedeva tutto, gridava che due s’erano ammazzati, perché ne scorgeva uno sbalzato fuori e l’altro caduto a terra. Prima che il cavallo schizzasse via ho potuto uscire dalla carrozza e non mi è successo nulla, ma a nessuno di quelli che hanno visto, né a noi che ci eravamo dentro, è riuscito di capire come non ci fossimo completamente sfracellati. Mi è venuto in mente l’ambasciatore berlinese (Emanuel) sui Pirenei; anche lui è stato sballottato così. Ti confesso che vedevo tranquillamente avvicinarsi l’ultima ora, ma il pensiero di avere gambe e braccia rotte mi spaventava molto. Ho proprio ancora bisogno di diventare storpio.

1) Gioco di parole. In polacco la parola cymbal, cembalo significa anche stupido. 2) La Tavola Armonica 3) Jean Pierre Norblin, padre del violoncellista Ludwig Piotr Norblin, amico di Chopin. 4) 5) 6) 7) 8) 9)

Allusione al poema di Walter Scott The Lady of the Lake. Dove Chopin aveva il suo alloggio a Parigi. Marcelina Czartoryska. Krystyn Ostrowski, nel circolo di emigrazione a Parigi svolse attività letteraria e pubblicistica. Nel 1841 apparve un’edizione collettiva delle opere di Mickiewicz da lui tradotte in francese. I Confederati di Bar. Portinaia della casa in Square d’Orléans.

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Se oggi la logica e alcune delle sue idee epocali sono note a un vasto pubblico, anche non scientifico, lo si deve soprattutto a «Gödel, Escher e Bach» di Douglas Hofstadter, che ha esibito una rete di connessioni, spesso insospettate e sorprendenti, fra i linguaggi naturali, artistici, logici, biologici, informatici e artificiali, ed è valso al suo autore il Premio Pulitzer nel 1980. Sulla scia del successo del libro, e approfittando del pensionamento del mitico Martin Gardner, per due anni e mezzo «Scientific American» ha affidato a Hofstadter la rubrica mensile di (ri)creazione matematica. I suoi contributi, riuniti in un altro singolare volume dal titolo «Temi metamagici», lo hanno definitivamente trasformato in un «cult symbol» della divulgazione scientifica. Le altre sue opere, da «Ambigrammi: un microcosmo ideale per lo studio della creatività» a «Concetti fluidi e analogie creative», hanno infine (di)mostrato che è possibile studiare l’intelligenza umana in maniera “analogica” e naturale, contrapposta a quella “digitale” e artificiale che troppo spesso monopolizza l’informatica. Abbiamo intervistato Hofstadter il 29 maggio 2002 in Italia, un paese che visita regolarmente, e in italiano, una lingua che parla perfettamente.

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di Piergiorgio Odifreddi


Vorrei cominciare da suo padre, Robert Hofstadter, che vinse il premio Nobel nel 1961 per le sue ricerche sulla struttura dei nucleoni (protoni e neutroni), poi sfociate nel modello dei «quark». Era difficile essere figlio di un fisico famoso? No, è sempre stato un piacere avere un padre che si interessava ai misteri della materia. Io adoravo sia lui, sia le cose che lui indagava: sono sempre rimasto affascinato dalle particelle, specialmente le più piccole. Quando ha vinto il premio Nobel mi sono sentito onorato anch’io, e ho accompagnato mio padre alla cerimonia, con mia madre e la mia sorella maggiore. Lei dunque è nato come fisico. Anche come matematico. Già a tre o quattro anni mi interessavo profondamente ai numeri, oltre che alle particelle. E ho preso una laurea in matematica a Stanford, prima di fare il dottorato in fisica. E a Gödel come è arrivato? Il mio interesse per i problemi della mente è cominciato a dodici anni, quando ho iniziato lo studio della mia prima lingua straniera, il francese. Per me era un miracolo osservare il linguaggio e cercare di capire cosa facevo quando parlavo. Ho scoperto che usavo già inconsciamente in inglese le regole che stavo imparando consciamente per il francese. E anche la distinzione fra linguaggio e metalinguaggio, quando le regole del francese erano spiegate in inglese. Non so se ho fatto questa distinzione allora, ma un giorno ho trovato in una libreria «La prova di Gödel» di Nagel e Newman. Non avevo idea di cosa fossero Gödel o il suo teorema, ma il titolo mi ha attratto. L’ho sfogliato, e ho visto che era molto interessante. Ricordo ancor oggi le virgolette che indicavano la distinzione fra uso e menzione, cioè appunto fra linguaggio e metalinguaggio. È allora che ho incominciato a interessarmi alla logica. Poi l’ho studiata quando ero a Stanford: da solo, perché i corsi non erano molto interessanti. Strano, visto che a Stanford c’erano professori come Cohen, Feferman, Kreisel, Forse lei era interessato agli aspetti filosofici della logica, più che a quelli matematici. È vero. Il mio interesse per la logica aveva molto a che vedere con il mio interesse per le lingue, con una curiosità particolare per il funzionamento della mente: come pensiamo, come creiamo, come percepiamo, ecc. Ricordo che molto spesso compravo libri di logica che mettevano in luce le ricadute sul pensiero e sul linguaggio. Quelli troppo tecnici non mi interessavano. Che libri erano? Russell? Quine? Ho provato con Quine, ma era troppo denso. Ho letto qualcosa di Carnap, ma non era molto interessante. E naturalmente qualcosa di Smullyan, la «Teoria dei sistemi formali», che era bellissimo: ne ho letto solo venti o trenta pagine, ma bastavano, perché c’era una dimostrazione di Gödel molto concisa e bella, che mi ha influenzato. E perché, con questi interessi, non ha fatto un dottorato in logica? Nel 1966 mi sono effettivamente iscritto al dottorato in matematica a Berkeley, ma sono rimasto molto deluso: tutto quello che dovevo studiare (la topologia, l’algebra) era troppo difficile, troppo astratto. Mi sono arreso dopo un anno e mezzo, e sono passato a fisica perché volevo fare qualcosa che avesse ancora a che fare con la matematica. Ma volevo a tutti i costi evitare il contatto con quelli che oggi si chiamerebbero gli informatici, perché mi sentivo respinto dalla loro “purezza”. Volevo stare fra gente più civilizzata, e i fisici li conoscevo fin dall’infanzia. Avevo l’impressione che i fisici fossero persone molto colte, e vivessero in un mondo raffinato: da un lato l’indagine del mondo, dall’altro la musica di Bach.

Naturalmente, in «Gödel, Escher e Bach» lei affronta il problema dell’Intelligenza Artificiale. È un interesse che risale alle stesse fonti alle quali ho già accennato: qual è il rapporto tra la lingua, i concetti e le parole? che cos’è un concetto? che meccanismi usiamo per pensare? La logica forniva una prima approssimazione di risposta a queste domande. Da Leibniz a Frege, tutti volevano catturare il pensiero umano in regole, in leggi formali: pensiamo a «Le leggi del pensiero» di Boole. O al sottotitolo dell’«Ideografia» di Frege: “un linguaggio in formule del pensiero puro”. In quel senso l’Intelligenza Artificiale è radicata nella logica. Per me è stato molto difficile all’inizio, perché avevo studiato con riverenza la logica su testi che dicevano che la differenza tra “e” e “ma” era solo un sapore, una sfumatura, qualcosa che non conta e non ha interesse. Da giovane ci ho creduto, ci sono cascato totalmente. C’è voluto molto sforzo mentale per superare questo pregiudizio, che “ma” era una variante banale di “e”. Poi ho capito che in parole come “ma” risiede l’essenza del pensiero umano. In realtà questo lo sapevano già i greci, da Aristotele a Crisippo, che non pensavano certamente in termini di logica classica. Ma non è proprio questo il modo in cui procede la scienza, facendo semplificazioni drastiche per poter sviluppare una teoria? Certamente. E comunque per me la logica rimane una cosa bella. Anche se non è un modello fedele del pensiero, ci ha dato idee molto importanti e profonde: ad esempio, appunto, il teorema di Gödel. Dal suo lavoro, ad esempio sullo studio del processo creativo, mi sembra che lei abbia un’idea dell’Intelligenza Artificiale molto meno ingenua di quella che veniva propagandata negli anni ‘50. Forse perché la cosa che a me interessa veramente è il pensiero umano, e non il computer. Anche se da adolescente ho fatto moltissimi esperimenti numerici sul computer: era il mio accelleratore, e le mie particelle erano i numeri. Ho indagato migliaia di sequenze ricorsive e ho fatto migliaia di scoperte, piccole e grandi. In quel senso il computer mi incantava, e mi domandavo sempre se il programma stava pensando mentre calcolava. Soprattutto quando ho fatto, nel 1964, un programma che creava frasi in diverse lingue, e che a volte ne produceva di veramente buffe: mi domandavo cosa bisognava aggiungergli per farlo pensare veramente. Quindi ha seguito un suo percorso personale, indipendente dai tre grandi filoni legati ai nomi di Simon, Minsky e McCarthy. All’epoca non avevo nemmeno sentito parlare dell’Intelligenza Artificiale, e loro non li ho mai letti neppure dopo. In realtà queste problematiche sono rimaste in letargo, dormienti nella mia mente, per una decina d’anni. Sono poi riaffiorate agli inizi degli anni ‘70, quando mi sono imbattuto nel «Profilo di logica matematica» di Howard Delong: un libro fantastico, che sembrava scritto apposta per me. Ho cominciato a ripensare a tutte queste cose, e ho iniziato a scrivere «Gödel, Escher e Bach». Venticinque anni dopo, come rivede le speculazioni sull’Intelligenza Artificiale che aveva fatto nel libro? In linea di massima, sono ancora d’accordo con le idee che ho espresso allora. Anche se nel libro tenevo un po’ un piede in due scarpe: a volte mi ispiravo ancora al modello logico del pensiero, e altre volte pensavo all’intelligenza come a qualcosa di distribuito. L’idea del formicaio, della collettività che emerge da eventi totalmente autonomi.

E i matematici no? Erano troppo strani. Io volevo un contatto con esseri umani normali, non bizzarri. Ad esempio, ho incontrato tre o quattro volte Erdös, che era gentile ma mi repelleva. Lui era un caso estremo, ma tanti matematici gli assomigliano. E a me piacciono le persone semplici, la gente concreta.

Non è la “società della mente” di Minsky? Più o meno, anche se per lui gli “individui” della società della mente sono cose più grandi. Nel libro, comunque, a volte parlavo come se credessi ancora al vecchio modello logico, dove ci sono leggi e regole che controllano i simboli. Ma altre volte, anzi, nella maggior parte dei casi, parlavo di simboli “attivi”: dunque, non cose passive manipolate da regole. Il mio punto di vista stava cambiando mentre scrivevo: avevo ancora un residuo formalista, ma stavo orientandomi verso un’idea dell’intelligenza come fenomeno emergente.

Quando ha cominciato a scrivere «Gödel, Escher e Bach»? Nel 1972, e l’ho finito nel 1978. Ma ci ho lavorato a spizzichi, perché ero ancora uno studente e il dottorato “interferiva”. Poi, naturalmente, sono rimasto sorpreso dalla ricezione del pubblico. Il libro è un fenomeno molto più grande di me, e per molti è diventato quello che per me era stato il libro di Nagel e Newman.

Che pensa di PDP, la teoria dei “processi paralleli distribuiti”? Ha dato dei contributi importanti. È ovviamente molto importante fare un legame tra neuroni e simboli, stabilire qual è il ponte di collegamento fra il livello cerebrale e quello concettuale. Il problema è che si è finito col creare l’illusione che il livello simbolico non esista, che i simboli non abbiano una loro realtà. Sarebbe come voler eliminare ogni riferimento

al cuore, ad esempio, e voler parlare soltanto delle cellule di cui è costituito. Ma questo non è vero dovunque? Dalle neuroscienze è scomparsa la coscienza, cosí come dalla biologia molecolare è scomparsa la vita. No, no! I biologi «stabiliscono» i ponti tra i vari livelli di descrizione: aminoacidi, DNA, proteine, cellule, ... Certo. Ma, per dirla con Schrödinger, che cos’è la vita? Bohr si lamentava appunto del fatto che il lavoro di Watson e Crick non dà nessuna risposta alla domanda. Io non sono d’accordo. Sarebbe come dire: capiamo i fotoni, ma dov’è la luce? Oppure, vediamo gli alberi, ma dov’è la foresta? Si possono guardare gli alberi, o si può guardare la foresta. Basta avere la capacità di passare da un livello all’altro, e di vedere il collegamento tra di essi. Ma vedere il livello della vita significa, appunto, uscire dalla biologia. Anzi, gli scienziati hanno spesso diffidenza verso questo genere di problematiche, e dicono chiaramente che la scienza “descrive ma non spiega”. Per me la vita sta nella riproduzione e nella selezione. E potrebbe succedere anche sulla superficie di Marte, o di una stella di neutroni. Per von Neumann, invece, il segreto della vita era racchiuso nel teorema di Gödel. Il suo libro «Il computer e il cervello» anticipava di qualche anno il meccanismo della riproduzione genetica, basandosi appunto su quel teorema. È vero, nel teorema di Gödel c’è tutto: i lavori di Turing sui computer, di von Neumann sugli automi autoriproducentesi, di McCarthy sul linguaggio di programmazione LISP, ... Per quanto riguarda la coscienza, invece, che legame c’è con la meccanica quantistica? Secondo me, nessuno. E credere che ci sia è un tipo di misticismo, come nel caso di Penrose. Il quale, tra l’altro, usa il teorema di Gödel in maniera opposta alla sua: contro, invece che a favore dell’Intelligenza Artificiale. È vero, apparteniamo a religioni diverse. Ma ci deve pur essere qualcuno che espone l’altro punto di vista. Lasciando il passato, a che cosa sta lavorando ora? Sto pensando a un libro sulle analogie. Il titolo potrebbe essere «La fisica: un edificio costruito sulle analogie», oppure «Il sorprendente potere dell’analogia nella fisica». Dico “nella” fisica, e non solo “in” fisica, per sottolineare l’idea che i fisici prendono in prestito idee che preesistevano dentro la fisica stessa. Un esempio tipico è il “fonone”, che è il quanto del suono, derivato per analogia dal “fotone”, che è il quanto di luce. O lo “psicone” ... Ah, ah. Lasciamo perdere, per favore! Stavamo parlando seriamente ... Anche Eccles, credo, parlava seriamente. Sí, ma io volevo parlare di fisica e non di misticismo. Eppure, è sorprendente quante idee della fisica del Novecento siano state proposte sulla base di metafisiche imbarazzanti, per non dire insensate. Sono d’accordissimo, perché l’analogia è proprio un modo per evitare il pensiero razionale. Ma si tratta di magia, non di misticismo. Anche se “misticismo” ha la stessa radice di “mistero”. Oltre che di “mistificazione”, e magari anche di «mist», “nebbia”. Il prefisso mi fa venire in mente quello che probabilmente è il miglior gioco di parole che esista: «A mistress is halfway between a mister and a matress», “un’amante sta a metà tra un signore e il materasso”. Incredibile, no? Una “parola cerniera” nel senso di Lewis Carroll. Il quale fa dire alla Regina in «Alice»: “bisogna credere ogni giorno sei cose impossibili prima di colazione”. La fisica è cosí, per me. Ma quelle cose, impossibili da credere, devono essere verificabili o refutabili sperimentalmente. È lí che sta la differenza tra l’intuizione scientifica e il misticismo irrazionale.

(copyright Piergiorgio Odifreddi novembre 2002)

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Sounds like Bach di Douglas Hofstadter

Quand’ero giovane – ai tempi in cui scrissi “Gödel, Escher, Bach” – mi chiesi: “Potrà mai un computer scrivere bella musica?” e, assecondando suggestioni di tal sorta, arrivai a dirmi: “Non ci saranno nuovi tipi di bellezza scoperti da programmi per la composizione musicale ancora per molto tempo. Il pensare – e ho sentito questa ipotesi – che fra non molto potremmo essere capaci di comandare una “scatola musicale” da scrivania, pre-programmata, prodotta in massa, da ordinare per posta con venti dollari, e far sì che dai suoi sterili circuiti venga alla luce quello che Chopin e Bach avrebbero potuto scrivere se solo fossero vissuti più a lungo, è una mistificazione, grottesca e vergognosa, della profondità dello spirito umano”. Cosa me ne faccio oggi di tali speculazioni, un quarto di secolo dopo? Non ne sono sicuro. Sono stato alle prese con questioni del genere per molti anni ed ancora non vedo chiaramente una soluzione. Nella primavera del 1995 mi imbattei nel volume Computers and Musical Style, scritto da David Cope, un docente di musica all’Università della California a Santa Cruz. Tra le sue pagine notai una mazurka che era presumibilmente nello stile di Chopin, scritta dal programma EMI (abbreviazione per Experiments in Musical Intelligence) sviluppato dallo stesso Cope. Tutto ciò mi intrigò parecchio perché, avendo venerato Chopin per tutta la mia vita, ero sicuro che nessuno potesse gettarmi fumo negli occhi. Così andai dritto al mio pianoforte e lessi la mazurka di EMI diverse volte, con crescente sorpresa e confusione. Sebbene trovassi piccoli difetti qui e là, ero impressionato, poiché il pezzo sembrava “dire” qualcosa. Se qualcuno mi avesse detto che era stato scritto da una persona, non avrei avuto nessun dubbio circa la sua espressività. Suonava leggermente nostalgico, con un pizzico di stile polacco, e non sembrava fosse opera di plagio. Era chiaramente “alla chopin” nello spirito e non sembrava emozionalmente vuoto. Ero veramente scosso. Come poteva della musica “emozionale” uscire da un programma che non aveva mai sentito una nota, mai vissuto un momento di vita, mai provato una qualsiasi emozione? Più venivo alle prese con tutto ciò, più ne ero disturbato e, nel contempo, affascinato. Vi era qualcosa di contrario al senso comune, un paradosso, qualcosa che ovviamente mi prendeva in grande contropiede; e non sarebbe stato comunque da me negare tutto e liquidare EMI come triviale o anti-musicale. Se avessi fatto questo sarei stato un codardo e un disonesto. Volevo affrontare direttamente quel paradosso; volevo confrontarmi con quel programma che minacciava di ribaltare il cestino delle mele nel quale erano custodite molte delle mie vecchie, profonde e amate certezze sulla sacralità della musica. Voglio dire, la musica come la cosa più santa dello spirito umano, l’ultima faccenda che sarebbe potuta cadere nelle spire dell’AI (Artificial Intelligence) in relazione a ciò che riguarda il pensiero, l’introspezione, la creatività. Se avessi solamente letto della struttura di EMI e non avessi sentito nessuno dei suoi prodotti (output) non ci avrei fatto molto caso. Sebbene Cope fosse andato molto lontano con questo programma, più di ogni altro ricercatore nei progetti sull’intelligenza artificiale, i suoi principi basilari non mi suonavano radicalmente nuovi. Ciò che fece la differenza fu l’ascolto attento delle composizioni di EMI. Nei mesi che seguirono feci molte conferenze su EMI, negli Stati Uniti e in Canada, e quel che trovavo sorprendente era che nessuno, tra il mio pubblico, sembrava sconvolto dai colpi inferti da Cope nel modellare la creatività; nessuno sembrava seriamente spaventato o preoccupato. Io, d’altra parte, sentivo che qualcosa era stato sottratto alla profondità e alla sublime bellezza della mente umana. Mi sembrava umiliante, qualcosa che aveva a che fare con un incubo. Il principio profondo soggiacente a EMI era quello che Cope chiamava “musica ricombinata” (recombinant music), ovvero l’identificazione di strutture di vario tipo, ricorrenti in una composizione, e il riutilizzo delle medesime con nuove combinazioni, così da costruire un pezzo diverso ma “nello stesso stile”. Si poteva quindi fare man bassa nella Nona Sinfonia di Beethoven e lasciare che EMI se ne venisse fuori con la Decima.... Il nodo centrale del modus operandi di EMI, dati una una serie di input, consiste in due fasi: 1) 2)

lo sminuzzamento (chop up); il riassemblaggio

Ci sono ovviamente principi significativi che indicano di volta in volta la direzione da prendere, e che sono formulati al fine di garantire la coerenza. Sintetizzo questi due principi qui sotto: 1) costruire un “modello di flusso tipico” (local flow pattern) corrispondente ad ogni voce simile a quella del pezzo sorgente; 2) comporre un posizionamento globale di frammenti simile a quello che si trova nel pezzo sorgente; Ciò può essere comparato a quei due tipi di principi costruttivi che si applicano nella costruzione di un mosaico:

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Il giorno in cui la musica sarà irrevocabilmente ridotta a un modello sintattico o solo ad un semplice schema, sarà, per il mio antiquato modo di vedere le cose, un giorno davvero molto triste.

1) la forma di ciascun pezzo si incastra saldamente con il pezzo vicino; 2) il contenuto mostrato in ogni pezzo prende senso nel contesto generale della figura. Il primo di questi principi può essere caratterizzato come “reticolo sintattico” (syntantic meshing), basato solamente sulla “forma”, mentre l’ultimo può essere caratterizzato come “reticolo semantico” (semantic meshing), basato solamente sul contenuto. Isolati l’uno dall’altro nessuno dei due sarebbe troppo significativo, ma se usati insieme, essi formano una potente coppia di regole. Lo spazio a mia disposizione mi impedisce, sfortunatamente, di descrivere qui i molti tipi di meccanismi complicati dei quali EMI si serve per estrarre le caratteristiche stilistiche ed effettuare le ricombinazioni, le quali agiscono su diversi livelli, che Cope ha programmato. Nelle mie conferenze al riguardo, ho quasi sempre fatto ascoltare al mio pubblico una manciata di piccoli pezzi a due voci. Gli ascoltatori erano avvertiti che, nel gruppo, c’era almeno un pezzo di Bach e almeno uno di EMI nello stile di Bach: loro dovevano intuire quale fosse dell’uno e quale dell’altro (o dell’altra cosa). Dopo che i pezzi erano stati eseguiti, chiedevo al pubblico di votare. Normalmente, la maggior parte riconosceva il vero Bach, ma erano solo i 2/3 della maggioranza, con il restante terzo che grossolanamente si sbagliava. EMI si sta evolvendo, i suoi obbiettivi sono in continuo sviluppo. Cope iniziò a lavorare sul suo programma nel 1981, ed in tutti questi anni non ha ancora saldato il conto. Le prime composizioni di EMI sono, come quelle di ogni altro compositore alle prime armi, cose carine da amatori, ma i suoi ultimi prodotti suonano piuttosto impressionanti, e Cope ha aumentato, nel tempo, le proprie ambizioni. Sebbene fosse inizialmente fiero della produzione di EMI di semplici invenzioni a due voci e piccole mazurche, egli ora si ritrova con un programma che può produrre intere sonate, concerti e sinfonie. C’è addirittura una “Mahler Opera” in cantiere, qualcosa che sarebbe certo una sfida per qualsiasi compositore umano. Lo stile, ovviamente, è un fenomeno che va considerato su più livelli. Ci sono aspetti più o meno profondi che lo concernono. È possibile che qualcuno sia in grado di catturare la maggior parte delle caratteristiche distintive di un compositore e tuttavia non sia in grado di centrare il bersaglio nel momento in cui ci si trova a che fare con l’essenza. E così non ci capita di essere ingannati, quando, nell’ascoltare un pezzo di musica, reagiamo con una serie di gesti che in passato abbiamo associato al compositore X, ed esclamiamo a noi stessi “questo pezzo suona come X”? Potremmo mai distinguere chiaramente tra risposte a livello superficiale e risposte a livello profondo? Infatti qual è la differenza, in musica, tra livelli di stile superficiali e livelli di stile profondi, tra “sintassi” e “semantica”, tra “forma musicale” e “contenuto musicale”. Ci sono realmente delle differenze? Sempre nei miei incontri, proponevo anche un secondo interludio musicale, per esempio prendendo delle mazurke, una di Chopin e l’altra di EMI. In una conferenza che tenni presso la famosa Eastmann School di Rochester, a New York, quasi tutte le classi di composizione e teoria musicale erano state ingannate dalla mazurca di EMI, prendondola per un genuino Chopin ( e il vero pezzo di Chopin, al contrario, come un rozzo canto prodotto da un computer). Una studentessa di Eastman, Kala Pierson, mi scrisse un email nella quale diceva “ho votato il secondo pezzo come il vero Chopin, e lo stesso hanno fatto i miei amici. Quando Lei annunciò che il primo era Chopin e il secondo EMI, vi è stato un sussulto collettivo, una conseguenza di quello che potrei solo descrivere come delizioso orrore. Non ho mai visto così tanti teorici e compositori svuotati dalla loro presuntuosa compiacenza in un sol colpo (me stessa inclusa)! E’ stato qualcosa di veramente bello!”. La lezione sbalorditiva che si può trarre dalle mie conferenze alla Rochester (e certo di tutte le volte che ho tenuto conferenze su EMI), è che persone con considerevoli qualità musicali e con alle spalle decine d’anni di pratica, possono, se gliene si dà l’occasione, confondere un prodotto di EMI con un “prodotto genuino”: e ricordo – ci siamo appena imbarcati, noi umani, nel tragitto che ci porta verso la realizzazione del sogno di una “scatola musicale – da scrivania - da venti dollari - preprogrammata – prodotto in massa – da ordinare per posta”. Quelle scatole sui cui “circuiti sterili” avevo riversato tutto il mio disprezzo, quando scrissi GEB1. Cosa potremmo ottenere in altri venti anni di duro lavoro? E in cinquanta? Che cosa ci aspetterà nel 2084? Chi sarà ancora in grado di distinguere “una cosa vera” dalla spazzatura? Chi saprà, chi si accorgerà, chi dirà ad


alta voce che non saremmo mai in grado di penetrare nelle profondità dello stile, e che l’obbiettivo di estrapolarlo non sarà stato raggiunto (e mai lo sarà). Cosa ne sarà di quei minuziosi dettagli, quando nuovi capolavori di Bach e Chopin applauditi da tutti sgorgheranno da circuiti di silicone più velocemente che molecole di H20 dalla cima delle cascate del Niagara? Non sarà forse che la nuova e meravigliosa eta d’oro della musica sia altro da “qualcosa di veramente bello!”? Consideriamo la “Decima Sonata di Prokofiev”, così come la chiama Cope. Nelle note di copertina del primo compact disc di EMI, intitolato Bach by Design, Cope scrive: “Questa Sonata di Prokofiev composta dal computer è stata completata nel 1989. La sua composizione fu ispirata dal tentativo di Prokofiev di comporre la sua decima sonata, un tentativo interrotto dalla sua morte. Così essa rappresenta un altro dei molti potenziali utilizzi di programmi come EMI (per esempio il completamento di lavori incompiuti).“ Questa precisazione mi sembrava fosse prossima alla blasfemia. Cosa mi preoccupa delle simulazioni al computer non è l’idea che noi stessi potremmo essere macchine; ho avuto per molto tempo la convinzione della veridicità di questa affermazione. A disturbarmi è il pensiero che cose che mi toccano nel profondo – sopra tutto le composizioni musicali, che ho sempre interpretato come messaggi diretti da un’anima verso un’anima – possano essere effettivamente prodotte da meccanismi migliaia, se non milioni di volte, più semplici che l’intricata macchina biologica dalla quale sorge l’anima umana. Questa prospettiva, resa più viva e forse più verosimile dallo sviluppo di EMI, mi preoccupa enormemente e, nel più cupo dei miei umori, ho articolato tre cause di pessimismo: 1) Chopin (per esempio) è molto più superficiale di quanto abbia mai pensato. 2) La musica è molto più superficiale di quanto abbia mai pensato. 3) L’animo umano è molto più superficiale di quanto abbia mai pensato. Lasciatemi infine commentare brevemente tutto ciò. Pensiamo al primo punto. Nel momento in cui si potrebbe dimostrare che EMI può sfornare pezzi che “parlano alla Chopin” a me – e dico quel “me” che, nel corso della mia vita, è stato profondamente conquistato dalle composizioni dell’autore polacco - allora sarei costretto a ricollocare retrospettivamente tutti i significati che ero convinto di aver potuto individuare nella musica di Chopin, perché non avrei più fiducia che tutto ciò possa provenire da una fonte umana profonda. Non accetterei che Fryderyk Chopin fosse stato un mero e tremendo artigiano piuttosto che un artista dai sentimenti profondi, il cui cuore e a cui anima ero sicuro di averli conosciuti fin da quando ero bambino. Questa perdita sarebbe per me una inconcepibile fonte di dolore. In un certo senso, tale perdita non sarebbe peggiore di quella che incorrerebbe nel secondo punto, in quanto Chopin ha sempre simboleggiato per me il potere della musica come un’unità. Non di meno suppongo che gettare tutti i grandi compositori fuori dalla finestra è qualcosa di più preoccupante che gettarne uno solo. Nel terzo caso, di certo, sarebbe un definitivo affronto alla dignità umana. Sarebbe la realizzazione del fatto che il “potere computazionale”, che risiede nel cervello umano con 100 bilioni di neuroni e, pressappoco, dieci quadrilioni di connessioni sinaptiche, possa essere bypassato con una manciata di chips all’avanguardia, e che tutto quello che serve per produrre la più grande rivoluzione artistica di tutti i tempi (e altre molte di uguale forza, se non più grande) è una porzione nanoscopica di questi – e che tutto questo possa essere realizzato, grazie molte, da una entità che non sa niente del conoscere, del vedere, del sentire, del gustare, del vivere, del morire, dell’addolorarsi, del soffrire, dell’invecchiare, del bramare, del cantare, del danzare, del lottare, del baciare, dello sperare, del temere, del vincere, del perdere, del piangere, del ridere, dell’amare, del desiderare, del curare. Sebbene Kala Pierson e molti altri hanno salutato tutto questo come “qualcosa di veramente bello”, il giorno in cui la musica sarà irrevocabilmente ridotta a un modello sintattico o solo ad un semplice schema, sarà, per il mio antiquato modo di vedere le cose, un giorno davvero molto triste.

traduzione di Leonardo Zunica

1) GEB, Godel, Escher, Bach

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Cos’è dunque questo Dao?

Alcune letture possibili di questo verso sono:

via, strada, cammino; tracciare un cammino, condurre, connettere; corso d’acqua o condotta; via da seguire, principio guida, norma, dottrina; seguire una dottrina, essere adepto di una disciplina; il Dao, la Via; modo di procedere, arte, metodo; opera magica o tecnica; potere dell’indovino, del mago o del re; reggere, governare; discorso, dire, insegnare, parlare, spiegare, esprimere, comunicare; sapere, essere consapevole.1

‘ogni via che può essere detta/insegnata/comunicata non è una via costante/eterna’ ‘ogni norma che può essere detta/insegnata/comunicata non è una norma costante/eterna’ ‘ogni dottrina che può essere detta/insegnata/comunicata non è una dottrina costante/eterna’. ‘ogni dire che può essere detto non è un dire costante/eterno’.

La maggior parte dei significati della parola dao preesistono al daoismo: il termine era già di uso corrente ai tempi in cui il daoismo ebbe origine. Ma i daoisti se ne servirono in una maniera particolare, in un senso nuovo e specifico che, seguendo la convenzione, indico con l’iniziale maiuscola: il Dao, la Via. Per comprendere l’origine di questo nuovo uso della parola dobbiamo in primo luogo farci un’idea di come il termine dao fosse usato nel dibattito filosofico all’epoca.

Tutte queste letture corrispondono alla posizione epistemologica dei daoisti. Esse dicono sostanzialmente: ogni discorso è contingente, ogni rappresentazione della realtà è solo condizionalmente valida, ogni norma prescrittiva è relativa, non esiste un fondamento ultimo per l’epistemologia e per l’etica.

dao

I temi principali di questo dibattito erano di natura epistemologica ed etica: riguardavano la distinzione fra il vero e il falso, fra il giusto e lo sbagliato, i principi che devono guidare il comportamento dell’individuo e i fondamenti delle norme che devono reggere la società. Il dibattito dunque riguardava ‘i dao’, i principi guida, le norme, le dottrine, così come la validità dei discorsi, delle argomentazioni in merito. In esso si affrontavano diverse scuole di pensiero che possono essere divise in due grandi campi, tradizionalisti e innovatori. I confuciani, rappresentanti per eccellenza del campo conservatore, “erano sacerdoti del rituale culturale e sociale. Essi sottolineavano l’approvazione e l’autenticazione convenzionale.”2 Per loro la suprema autorità etica era la via tracciata dagli antichi re-saggi, tramandata nelle norme e nei rituali sociali. Una delle loro preoccupazioni era la ‘rettificazione dei nomi’, l’uso appropriato del linguaggio: linguaggio corretto, comportamento corretto e ordinamento corretto della famiglia e della società erano intimamente connessi. In tutti e tre i casi occorreva ritornare a una tradizione più antica e più pura per porre rimedio al disordine e alla corruzione del presente. I moisti, i seguaci di Mozi (circa 480 a.C.), sono invece un esempio paradigmatico del campo innovatore. Essi “erano carpentieri, ingegneri, strateghi militari. I criteri di validazione per loro erano più legati al mondo e meno alla società...”3 Ai loro occhi le norme tradizionali, in quanto creazione umana, non erano dotate di un valore intrinseco e universale. L’ideale moista era un’etica universale in quanto fondata nella natura, non nella cultura. Questo fondamento veniva individuato nella distinzione naturale fra il beneficio e il danno: compito delle norme etiche era dunque assicurare la massima utilità sociale, massimizzando il beneficio e minimizzando il danno. In questo dibattito i daoisti intervennero in maniera radicale, mettendo in discussione i presupposti sia degli uni che degli altri e spostando il discorso a un metalivello. Moisti e confuciani discutevano su quale fosse il giusto dao a livello individuale e sociale. I daoisti chiesero invece: esiste un giusto dao? Esiste una norma, una dottrina, un discorso che sia costante, universale? Si può parlare di un giusto e di uno sbagliato in senso assoluto? Oppure il giusto e lo sbagliato, il vero e il falso sono relativi e dipendenti dal contesto? Moisti e confuciani discutevano su quali fossero i fondamenti dell’etica e su quali norme fossero più appropriate per lo sviluppo dell’individuo e della società. I daoisti misero in discussione l’idea stessa di etica. Ai loro occhi l’imposizione di un’etica, qualsiasi etica, era un allontanarsi dalla spontaneità, dalla natura originaria e autentica dell’essere umano. Fondamentalmente dunque i daoisti spostarono il discorso da ‘cosa è vero e giusto’ a ‘cosa si può dire in generale del vero e del giusto’. Spostarono cioè il discorso a un metalivello, dove inevitabilmente si trovarono ad affrontare il problema dei limiti del linguaggio, la frattura fra rappresentazione e realtà e, in nuce, tutti i dilemmi del pensiero postmoderno contemporaneo.

Questa è essenzialmente anche la prospettiva che sta alla base del pensiero postmoderno. Una formulazione classica di essa è la famosa metafora di Korzybski: “la mappa non è il territorio” . Un’affermazione apparentemente ovvia, che tuttavia intesa in senso ampio colpisce alla radice ogni tentativo di catturare la realtà in un sistema di pensiero. Quel che Korzybski dice è che ogni descrizione della realtà mediante un linguaggio è una mappa. L’universo del discorso è l’universo delle mappe: la realtà, il ‘territorio’, resta eternamente al di là di tale universo.

Tao Te Ching Traduzione e cura di Augusto Shantena Sabbadini Apogeo/URRA, Milano 2009

estratto dall’introduzione del libro Un’altra, splendidamente ironica, formulazione dello stesso assioma (una formulazione che indubbiamente sarebbe piaciuta a Laozi) è la pipa di Magritte. Nel 1929 il surrealista belga René Magritte dipinse questo quadro, intitolato L’inganno delle immagini:

via, strada, cammino; principio guida, norma, dottrina; modo di procedere, arte, metodo; discorso, dire, insegnare, parlare, spiegare, esprimere, comunicare, il Dao, la Via ke3 potere, permettere, essere in grado, consentire, approvare, appropriato, possibile, veramente via, strada, cammino; principio guida, norma, dottrina; dao4 modo di procedere, arte, metodo; discorso, dire, insegnare, parlare, spiegare, esprimere, comunicare, il Dao, la Via fei1 non essere, non, diverso, opposto, contraddizione chang2 costante, durevole, sempre, frequente, assoluto, permanente via, strada, cammino; principio guida, norma, dottrina; dao4 modo di procedere, arte, metodo; discorso, dire, insegnare, parlare, spiegare, esprimere, comunicare, il Dao, la Via

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‘ogni dao di cui si può parlare non è l’eterno/costante Dao’ ‘ogni via che può essere insegnata non è l’eterna/costante Via’ ‘il Dao, non appena se ne parla, non è già più l’eterno/costante Dao’ o anche, concisamente (con Addiss e Lombardo): ‘Dao detto Dao non è Dao’. È importante a questo punto comprendere che questi nuovi significati non escludono quelli indicati in precedenza. Il testo cinese li comprende tutti simultaneamente (e altri ancora). È una caratteristica della lingua cinese (una delle caratteristiche che ne fanno uno straordinario mezzo di poesia) il fatto che ogni parola contenga una molteplicità di risonanze e ogni frase possa essere letta in vari modi. Ma ciò che è in gioco qui è qualcosa di più della flessibilità della lingua: è lo spirito stesso del daoismo che accoglie gli opposti come complementari

e tiene insieme letture diverse della stessa cosa. Si consideri, per esempio, questo passo del Zhuangzi, l’altro grande classico del daoismo, all’incirca contemporaneo o di poco posteriore al Laozi: “Perciò ‘quello’ emerge da ‘questo’ e ‘questo’ dipende da ‘quello’ - che val quanto dire che ‘questo’ e ‘quello’ si generano a vicenda. Dove c’è nascita dev’esserci morte; dove c’è morte dev’esserci nascita. Dove c’è accettabilità dev’esserci inaccettabilità; dove c’è inaccettabilità dev’esserci accettabilità. Dove c’è il riconoscimento del giusto dev’esserci il riconoscimento dello sbagliato; dove c’è il riconoscimento dello sbagliato dev’esserci il riconoscimento del giusto. Perciò il saggio non procede in questo modo, ma illumina tutto nella luce del cielo. Anch’egli riconosce un ‘questo’, ma un ‘questo’ che è anche un ‘quello’, un ‘quello’ che è anche ‘questo’. Il suo ‘quello’ contiene sia un giusto che uno sbagliato. Perciò, di fatto, ha ancora un ‘questo’ e un ‘quello’? O di fatto non ha più un ‘questo’ e un ‘quello’? Lo stato in cui ‘questo’ e ‘quello’ non trovano più il loro opposto è detto il perno della Via.” (Zhuangzi, 2)5

Questo libro vuole essere un invito a leggere il Laozi nello spirito “in cui ‘questo’ e ‘quello’ non trovano più il loro opposto”. Vuole essere una ‘traduzione daoista’ del Laozi, che permetta al lettore di abbracciare diverse risonanze del testo, di tenere insieme interpretazioni contrapposte senza dover necessariamente scegliere, bensì contemplandole come strati di significato che si arricchiscono a vicenda.

Dao ke dao...

dao4

Tenendo presente quest’altro uso della parola dao, le letture possibili del primo verso del Laozi si allargano a comprendere le seguenti:

Una guida all’interpretazione del libro fondamentale del taoismo

La risposta daoista alla domanda ‘cosa si può dire in generale del vero e del giusto’ è fondamentalmente scettica e relativista. I daoisti ironizzano sulla presunzione di coloro che pensano di poter catturare la realtà in un sistema intellettuale. Sono altresì convinti che cercare di imporre una norma di comportamento agli individui e alla società, sforzarsi di migliorare le cose, è fare il primo passo nella direzione sbagliata ed è la sorgente ultima del disordine. Meglio è astenersi dall’interferire nel corso naturale delle cose, adottare una forma di azione fluida e minimale che può essere descritta come ‘non azione’ (un’idea di cui avremo modo di occuparci spesso nel commento al testo) e ritornare a una condizione di semplicità descritta metaforicamente dall’immagine del ‘blocco di legno grezzo’.

Riesaminiamo dunque il primo verso del Laozi alla luce del contesto tratteggiato sopra. Il verso consiste di sei caratteri: dao4 ke3 dao4 fei1 chang2 dao4.

indicato con l’iniziale maiuscola. Il Dao, la Via è ciò che sta oltre il dicibile, ciò che non ha nome e di cui pertanto si può solo parlare per paradossi e allusioni, ciò che è più antico di ‘cielo e terra’, il ‘vuoto’ che sta prima della dualità di soggetto e oggetto, coscienza e mondo. Il Laozi può essere letto come un invito a un viaggio esperienziale in questa dimensione del ‘vuoto’ - il ‘vuoto’ che è ‘la madre dei diecimila esseri’, il ‘vuoto’ da cui ogni cosa scaturisce e a cui ogni cosa ritorna.

L’inganno di cui Magritte parla non si limita alle immagini, ma si estende a ogni forma di rappresentazione: un persistente errore umano è la reificazione dei nostri costrutti mentali, scambiare il concetto per la cosa (scambiare la mappa per il territorio, nel linguaggio di Korzybski). Ma, se daoismo e pensiero postmoderno condividono la stessa epistemologia relativista come punto di partenza, essi divergono nei loro sviluppi. La realtà è indicibile, è eternamente al di là dell’universo del discorso: questo è il punto di partenza comune. Ma l’interesse del pensiero postmoderno si concentra sull’universo del discorso come creatore di realtà intersoggettivamente condivise, di mondi sociali. L’interesse dei daoisti invece è tutto rivolto verso la realtà indicibile. Il loro interesse per la sfera del discorso è solo critico e ironico. La dimensione esistenziale è la sola che conta per loro. Essi introducono perciò un nuovo uso della parola dao, l’uso che ho

1) Voce del Dictionnaire Ricci de caractères chinois, Instituts Ricci (ParigiTaipei), Desclée de Brouwer, Parigi, 1999 (mia traduzione semplificata). 2) Chad Hansen, A Daoist Theory of Chinese Thought, Oxford University Press, Oxford e New York, 1992, p. 99. 3) Ibid. 4) Questa frase compare per la prima volta in una presentazione che Korzybski tenne a un convegno della American Mathematical Society a New Orleans nel 1931. 5) Burton Watson, The Complete Works of Chuang Tzu, Columbia University Press, New York and London, 1969, pp. 39-40.


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Iaia Forte l’attrice napoletana si racconta

di Claudia Schirripa Quest’anno l’abbiamo vista impegnata in tre spettacoli: Eva Peron di Copi, Molly B. tratto dall’Ulisse di Joyce e Erodiade di Testori di cui ha curato anche la regia. Tre donne in cui la fisicità è molto forte come lei stessa ha dichiarato in altre interviste: ha trovato un particolare filo conduttore per percorrere queste tre vite? C’è, evidentemente, la bellezza ad accomunarle: sono tre figure dai profili eterogenei, ma tutte portatrici di una potenza. Ecco, forse la potenza, declinata anche in forme diverse, perché sono tutte e tre donne con una dimensione di vita molto forte, con una grandissima vitalità che può essere, nel medesimo tempo, disperazione, ed è il caso di Evita e di Erodiade; oppure qualcosa di molto vicino all’esplosione della terra, e si pensi a Molly. C’è anche una potenza del linguaggio e, nel suo teatro, mi pare sia una componente molto importante. Mi riferisco proprio a Molly, che parla in dialetto napoletano... Sì, certo. Quando abbiamo allestito lo spettacolo con Cecchi, ci siamo resi conto che l’irlandese è una lingua molto più vicina al napoletano di quanto non lo sia l’italiano. E poi bisogna considerare il rapporto con la propria memoria, la propria tradizione. Io sono napoletana, per cui quella è la mia radice, e il dialetto aveva una valenza sia musicale che mnemonica in una qualche maniera. Potevo attingere a qualcosa di ancestrale. E Molly, inoltre, rappresenta il trionfo della natura femminile, del ventre, di un’affermazione della vita e di ciò che la vita ha generato, che la accomuna e la avvicina alla Terra. Ci è sembrato allora necessario cercare una lingua che avesse una radice materna e non matrigna con le parole della protagonista, per questo abbiamo optato per il dialetto partenopeo. E nell’Ulisse di Joyce, in realtà, Molly è originaria, non di Dublino, ma della Gibilterra, che un luogo di mare, un luogo in cui la natura ha una prepotenza diversa e maggiore. Invece, com’è il suo rapporto con il cinema? Io mi considero un’attrice di teatro che fa anche cinema, quando capita la giusta occasione. Ma la mia priorità, il luogo in cui sento di esprimermi totalmente, è il teatro. Poi ritengo che il cinema possa insegnare molte cose da saper riproporre sul palco, come l’approfondimento dei movimenti del proprio corpo e il controllo delle espressioni del viso. Viceversa, anche il teatro deve insegnare qualcosa al cinema. Mi riferisco alla possibilità di attraversare un personaggio completamente nell’arco della durata di uno spettacolo. Il cinema è più frammentato, ed è facile perdersi, perché è nell’occhio del regista la

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composizione del personaggio. L’attitudine teatrale, in questo contesto, aiuta a non dimenticarsi che il tuo personaggio è un soggetto che devi esplorare e approfondire ad ogni momento, anche se sei di fronte a una cinepresa. Credo che, insomma, una cosa abbia alimentato l’altra; poi il mio divertimento - se si può dire così - forse è più forte in teatro. Tra le sue attività, Teatro Iaia mi sembra un progetto molto bello e articolato. Vorrebbe raccontarci quali sono i principi che ne stanno alla base? Teatro Iaia è nato per darmi uno spazio di libertà. Non rinuncio a lavorare con i registi - quest’anno lavorerò ancora con Federico Tiezzi, apriremo la sala del Piccolo in via Rovello con I Promessi Sposi alla prova di Testori - ma parallelamente ho deciso di creare una struttura dove potermi esprimere, dove potermi permettere la libertà di mettere in scena le piéces di cui sento personalmente il bisogno. Avere l’idea di una struttura che sostenga i miei desideri, le mie necessità, le mie ricerche assolutamente individuali, che corrono parallelamente al mio lavoro con i registi, mi sembra un atto per un attore quasi necessario. Per un artista cambiare è fondamentale, ma cercare lo è ancora di più. È un gesto anche di responsabilità personale, bisogna smettere di pensare agli attori come a dei burattini: un attore è un essere pensante, con una creatività autonoma. Gli attori che mi interessano non sono quelli semplicemente bravi, ma sono gli attori che si fanno portatori di un mondo. Quindi cercare una propria cifra stilistica e raccontare il proprio universo attraverso i lavori che si fanno è secondo me un obbligo etico per un attore contemporaneo. Parlando della sua formazione musicale, che rapporto ha con la musica? Ho frequentato il conservatorio, sono diplomata in solfeggio e, prima della recitazione, ho studiato violino. Per cui, quando ho iniziato a lavorare come attrice - e ancora oggi - il mio rapporto con la lingua è molto più musicale che psicologico. Mi oriento verso un testo e tendo a decodificarlo come una partitura piuttosto che come un processo mentale. È il ritmo che spesso mi suggerisce l’andamento del personaggio; quando, per esempio, facevo Shakespeare con Cecchi, avevo quella certezza del verso, quella sorta di struttura che apparteneva proprio all’epoca in cui Shakespeare ha scritto. Fare subito dopo Molly, con questa lingua totalmente atomizzata, mi ha fatto intuire il passaggio al Novecento con una percezione diversa da quella che avrei avuto studiandolo a tavolino, attraverso i testi critici. Invece, con il corpo, ho capito che questa lingua atomizzata raccontava molto più

profondamente quella sorta di frattura novecentesca che è stata poi verbalizzata criticamente da persone molto più eccelse di me. Io ne ho fatto esperienza attraverso la recitazione, e questi sono i doni che un attore riesce ad avere quando si accosta a delle grandi lingue, a dei grandi drammaturghi. Abbiamo parlato di alcune eccezionali figure femminili, e presto si preparerà a interpretare George Sand. Cosa pensa di questa prossima esperienza? Geroge Sand è stata un’importante scrittrice e un’intellettuale azzardata per i suoi tempi. Questa figura così poco ortodossa si innamorò del più pacato e osservante Chopin che, attraverso il pianoforte, si sarebbe però imposto come un eroe romantico a livello musicale. Nella loro storia d’amore si intrecciano le contraddizioni nate tanto dalle divergenze dei loro caratteri quanto dalle qualità delle loro virtù, in quella che era la Parigi (e l’Europa scossa dalle guerre) della prima metà dell’Ottocento. Interpretare George Sand, per me, significherà passare attraverso tutte queste congiunzioni, e anche attraverso Chopin, perlomeno nella misura in cui il loro amore è stato un incontro musicale. La serie di tali sovrapposizioni prenderanno forma, nel nostro spettacolo, attraverso la regia di un musicologo, Sandro Cappelletto, la performance di un’attrice – quale sono io – la cui formazione è comunque musicale, e l’interpretazione di un pianista, Leonardo Zunica, che non si troverà a suonare un concerto, ma a recitare a teatro. Recitare con un pianoforte, comporre musicalmente delle parole: forse l’amore tra Chopin e George Sand non può non passare per di qua... Ha già pensato personaggio?

a

come

affronterà

questo

La vera preparazione, la vera scoperta sarà lavorare con Leonardo Zunica e quindi lavorare attraverso Chopin; siccome è un incontro d’amore, il mio incontro d’amore sarà con la musica in questo caso, essendo la figura di Chopin tradotta musicalmente. Quindi lavorerò il testo tutto in rapporto alla musica. Poi voglio studiare George Sand, che non conosco così bene come vorrei, più a fondo. Anche queste sono occasioni belle, lo studio che ti regala un personaggio quando lo vai a interpretare, conoscere uno scrittore e leggere tutto di lui. In realtà non avendo ancora iniziato le prove lo scopriremo in atto, però sono felice di provarlo con un musicista. Sarà una scoperta fatta in atto con la musica.


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I T P

I

A

N

E

di Leonardo Zunica

“Fu apprendista in tre mestieri differenti: tappezziere, chimico, droghiere; praticò il primo lavoro per tre mesi, il secondo per sei e l’ultimo per due anni. A 16 anni si trovò a Liverpool senza un soldo, senza un amico e fu costretto a dormire sulla strada; dodici mesi dopo si era conquistato una splendida posizione in quella città. A 18 anni si ritrovò in miseria, in un altro grande centro, ma la sua sorte cambiò di nuovo bruscamente, perché a 20 anni lavorava in proprio ed aveva sotto di lui un gran numero di operai, per precipitare ancora in miseria, a 22 anni, rovinato dalla disonestà del suo direttore che gli rubò fino all’ultimo soldo!”

Così ho trovato, nei tanto preziosi archivi elettronici, un auto-ritratto in terza persona dell’inglese W.F. Allen, alias Alan Leo considerato oggi uno dei fondatori dell’astrologia moderna (era del segno del Leone); fu forse per quelle vicende biografiche che nacque in lui il desiderio di dedicarsi all’astrologia. La vita allora doveva essere molto difficile. La passione per l’astrologia, allora come oggi, poteva declinarsi come una specie di passatempo, un impegno leggero e serio allo stesso tempo, nel sondare le leggi oscure dell’universo e i tentennamenti del destino; oppure come una sorta di disciplina divinatoria, per cui agli astrologi era richiesto un ruolo centrale nelle decisioni, nei sentimenti, nel denaro. Le opere di Allen dovevano essere parecchio celebri. Ho scoperto, sempre in quell’infinito archivio elettronico, di cui non conosco però la locazione, che fu in un viaggio a Maiorca che il compositore inglese Gustav (von) Holst (il von era stato aggiunto dal padre, una volta sbarcato dalla Scandinavia, per ottenere maggiore credibilità come insegnante di musica) subì la fascinazione delle implicazioni astrologiche inerenti le cose umane, approfondendo successivamente l’argomento con il libro di Allen, Che cos’è un oroscopo? A quel tempo Gustav Holst stava lavorando ad una suite di sette pezzi, alla quale ancora non aveva trovato un titolo, ed un’immagine (i musicisti a volte procedono con l’individuazione di un materiale musicale puro; a questo poi decidono di aggiungere riferimenti iconografici). Le implicazioni psicologiche che Allen attribuiva ai pianeti, le influenze sui destini umani, furono sufficienti. Tutti adorano le coincidenze. Esse permettono di considerare il caso come non assolutamente casuale; esse lasciano spazio ad una primitiva fantasia, e riescono a bilanciare la nostra continua oscillazione tra libertà assoluta ed ordine, evitandoci, per brevi ed assoluti momenti, di pensarci abbandonati a processi, in definitiva, irreversibili. La lettura delle coincidenze è affatto personale, e quanto è più esoterica tanto più

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è interessante. Ed ovviamente giustificabile solo privatamente. Sembra valga comunque il principio fondato dalla setta degli epistemologi moderni, per i quali la realtà non è cosa fissa e indipendente, oggetto squadrato ed analizzabile lì davanti a noi, ma si costruisce con e attraverso il nostro sguardo e il nostro pensiero. Chi osserva è fondamentale per l’osservazione; mi viene da pensare al lettore che insieme a me, una volta completato questo testo, lo ri-creerà di volta in volta. Mi devo scusare ancora una volta con il lettore esigente, se ora mi abbandono ad una specie di elenco casuale, quasi una fantasia personale; ho trovato su un vecchio dizionario la definizione esatta della parola inglese whimsical: significa fantastico, stravagante; compare in alcune composizioni dell’anglofono George Crumb, che scrive una suite di pezzi zodiacali, intitolati Makrokosmos. Appare qui, anche se in termini acustici, e quindi difficilmente spiegabili, il riferimento alle teorie rinascimentali del Microcosmo e di Macrocosmo, un visione del mondo in cui le parti si integrano l’una nell’altra, in una specie di danza cosmica. In alcuni autorevoli critici inglesi l’aggettivo whimsical si adatta perfettamente alla musica di Holst, sottolineando inoltre quell’afflato mistico, che aveva ispirato molti altri compositori del tempo, dal russo-pietroburghese Aleksandr Nikolajevich Skrjabin ad Erik Satie (che fondò una chiesa di cui era l’unico membro), e molto più tardi dallo svizzero-ebreo Ernst Bloch (che compose un Nirvana, per pianoforte); lo stesso Holst era stato iniziato alla conoscenza teosofica e alla cultura orientale in giovane età. Affascinato dalla cultura indiana, e dalle dottrine esoteriche di Madame Blavatsky, aveva confessato in una lettera di sprofondare nello studio


Holst compose la maggior parte dei Pianeti nel cottage che aveva affittato nella tranquilla cittadina dell’Essex, Thaxed. I luoghi, come spesso dimentichiamo, sono fondamentali nella vita dell’uomo, come ben sanno i geomanti cinesi. A Thaxed viveva un parroco, tale Conrad Noel detto Il dispensiere, fervido sostenitore del socialismo inglese. Si dice che avesse appeso una bandiera rossa davanti la sua chiesa durante il great strike del 1926; a Thaxed, viveva inoltre una ricca ereditiera, tale Daisy Warkick, figlia dell’eccentrica contessa di Warwick, che voleva creare un cenacolo di artisti “socialisti” (left-wing artists) presso la sua enorme tenuta di Easton Lodge; troviamo, tra questi, oltre a Holst, Charlie Chaplin, che appariva con le sue sciarade, George Bernard Shaw, e Herbert George Wells (ricordo come da bambino mi affascinavano – ed ancora recentemente – i racconti di Wells ed uno in particolare, “il Paese dei Ciechi”). La Warwick fu anche una fervente animalista, ed accudiva, nel suo parco, una comunità di scimmie, forse per studiarne comportamenti. Tarzan sarebbe stato scritto in quegli anni. Ora però, caro lettore, devo assolutamente uscire da questo labirinto, ché una sensazione di disagio, di quasi orrore, forse anche meraviglia, mi assalta. Voglio chiudere questo breve resoconto, con le annotazioni frammentarie, piacevolmente sintetiche, sui Pianeti lasciati da un segreto ed anonimo ammiratore di Gustav Holst; non sono riuscito purtroppo a trovare alcuna notizia su di lui. Forse l’aveva incontrato, forse ne aveva tratto qualche segreto. Forse è solo un’invenzione di qualche biografo disonesto. A quanto pare fu alla “prima” del 1918. La rivoluzione sarebbe scoppiata di lì a poco.

Marte, il portatore di Guerra. “Alan Leo dice “colui che dà energia”, “l’angelo distruttore,” “la collera di Dio”. Augusto Cornelio Agrippa nel suo De Occulta Philosofia, riserva a Marte la “capacità di infondere coraggio e ardire”. Spada? Fuoco? Guerra? Rivoluzione? [...] Venere, il portatore di Pace [...] Dopo il fragore di Marte, la serenità di Venere. Agrippa: “rendere l’uomo tranquillo, placido”. “Ovunque crea ordine nel disordine” (Holst?)

del sanscrito nel treno che lo portava, studente, al Royal College of Music di Londra. Fu comunque, stando agli elementi biografici che mi sono pervenuti, una grave tendinite ad un braccio (per quanto procurata da uno studio accanito della Fantasia sul Don Giovanni di Liszt, pezzo terribile) a costringere Skrjabin ad una dura riflessione e ad approfondire aspetti dell’esistenza che saranno poi centrali nella sua produzione. Le sue parole, lasciate su foglietti miracolosamente ritrovati, sono inequivocabili:

“20 anni: il danno progressivo al braccio: la provvidenza manda un ostacolo al raggiungimento del disegno sperato: splendore, gloria...il primo serio fallimento della vita. La prima seria meditazione: l’inizio dell’analisi. Dubbio nella possibilità di recupero, e l’umore più tetro. La prima seria riflessione sul valore della vita, sulla religione, su Dio...”

Fu una nefrite ad un braccio che obbligò Holst a rinunciare alla carriera concertistica, a dedicarsi al trombone, e a scrivere una versione per due pianoforti di quella che sarebbe diventata poi la raccolta di pezzi “i Pianeti” suonata per lui dai suoi amici, la composizione alla quale è legata la fama planetaria di Holst. Trovo curioso pensare che anche Skrjabin ebbe influenze certe con il pensiero di M.me Blavatsky. Nel 1905 confessava ad una amica che l’opera della Blavatsky “La Chiave della Teosofia”, “è un testo notevole, sorprendentemente vicino al mio pensiero”.

Mercurio, il messaggero alato. Leggerezza, ironia. Velocità. Pensiero. Agrippa: “l’immagine di Mercurio rappresentata da un giovane con barba [...] e le ali ai piedi; scienza, eloquenza, guarisce dalle febbri”. Giove, il portatore di gioia. Agrippa: “È chiamato padre giovevole, magnanimo, tonante [...] il migliore di tutti. Alan Leo: “colui che innalza”. Saturno, il portatore della vecchiaia. “Albumasar afferma che l’immagine di Saturno impressa su un magnete contribuisce ad allungare l’esistenza e menziona certe contrade delle Indie, poste sotto la dominazione di questo pianeta, i cui abitanti non muoiono che estremamente vecchi”. Urano, il Mago. La carta dei Tarocchi? Leo afferma “colui che risveglia”. L’Apprendista Stregone di Paul Dukas? Nettuno, il mistico. Verso lo spazio infinito; il coro finale. Stupendo.

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L’inchiostro di Saturno di Paolo Vanini

Verso l’ora in cui è sera e la campagna si addormenta, un disco si posò sul tetto della chiesa. Don Pietro, che era a letto con un libro in mano e un toscano nell’altra, si affacciò al davanzale. Dal disco uscirono due esserini strani, alti non più di un metro e dieci, che si incamminarono in direzione della croce in cima alla facciata. Il parroco gridò loro di fermarsi, ma essi risposero di non preoccuparsi: dopo diverso tempo che giravano intorno alla Terra, erano scesi soltanto per capire cosa fossero quelle strane antenne formate da due aste perpendicolari, che stanno “dappertutto, in cima alle torri e ai campanili, in vetta alla montagne, e poi ne tenete degli eserciti qua e là, chiusi da muri, come se fossero vivai. Puoi dirmi, uomo, a cosa servono?” 1. Dino Buzzati introduce all’incirca così, nel suo racconto Il disco si posò 2, il dialogo tra don Pietro e quelli che il medesimo aveva reputato essere due marziani ma chissà da quale pianeta venivano. Per spiegar loro cosa sono e a cosa servono le croci, il prete deve narrare la storia della Bibbia, del peccato della redenzione di Gesù e della salvezza; e si sente un verme, quasi sprofonda dalla vergogna, perché i due esserini raccontano che anche sul loro pianeta c’è l’albero del bene e del male, ma nessuno ne ha mai assaggiato il frutto, perché la legge lo proibisce. Non avevano disubbidito, non avevano ucciso il figlio di Dio, erano come senza peccato. Don Pietro cadde in ginocchio, coprendosi la faccia con le mani, e pregò. Forse per ore, forse minuti. Uno dei due gli chiese allora cosa stesse facendo. Gli alieni non pregavano Dio, non sapevano nemmeno cosa fosse la preghiera. Il disco già ripartiva, orientato verso i Gemelli, e il parroco, che poco prima si era sentito un bruco, pensò: “Eh eh... voi non avete il peccato originale con tutte le sue complicazioni. Galantuomini, sapienti, incensurati. Il demonio non lo avete mai incontrato. Quando però scende la sera, vorrei sapere come vi sentite! [...] Dio preferisce noi di certo. Meglio dei porci come noi, dopo tutto, avidi, turpi, mentitori, piuttosto che quei primi della classe che mai gli rivolgono la parola. Che soddisfazione può avere Dio da gente simile? E che significa la vita se non c’è il male, e il rimorso, e il pianto?” 3 Che Dio debba preferire dei porci avidi e turpi, lascerebbe forse perplessi i due alieni; che la vita abbia da ringraziare il male il rimorso e il pianto, abbandona nel dubbio noi stessi. In quella raccolta di «cronache metafisiche» che è La boutique del mistero, l’enigma dell’essere umano è dipinto non attraverso contraddizioni manichee, ma per via di semplici incongruenze che scivolano le une nelle altre fino all’assurdo di un quotidiano che entra nella dimensione del Tempo attraverso le debolezze e le solitudini di giorni che si scoprono troppo lontani dalla Genesi e non ancora Apocalisse. Il surreale e il mistero, e la stessa meraviglia, prendono voce da parole e cose consuete, perché l’indecifrabile e l’improbabile Buzzati sembra cercarli nella normalità degli eventi. Se, quasi per gioco, cambiamo d’improvviso spazio e tempo e ci aggiriamo nei paraggi del Rinascimento, ci troviamo in un perimetro in cui l’indecifrabile e l’improbabile assumevano i tratti del magico e dell’esoterico, quando cioè il normale mutava in soprannaturale. Il Rinascimento è stata un’epoca particolare, nella quale l’uomo, nel contempo, ha rivendicato una posizione centrale in quella cosa che chiamiamo universo senza considerarsi padrone di quell’altra cosa che chiamiamo mondo. L’uomo si era messo al centro, se non per modestia, per grazia e senso della misura. Marsilio Ficino, il medico-filosofo che di quel periodo è stata una delle voci più importanti, scrisse che l’universo è un organismo unito e ordinato, in cui tutti gli esseri “non vivono [...] di vita propria, ma della vita stessa del tutto, che hanno in comune col corpo del mondo” (De vita, III, XI). A tenere insieme quest’intima unità dell’essere è l’anima, la copula mundi che congiunge le superiori ed eterne realtà di Dio e degli angeli a quelle, inferiori e temporali, del corpo e della qualità, ovvero: transatlantico20

“dall’altezza di ciascuna stella (per parlare come i Platonici) giù fino alle bassure estreme pende la serie delle cose che le è propria” (De vita, III, XIV). Lungo il grande edificio del cosmo, il Ficino sviluppa una filosofia magica in cui l’anima umana diviene veicolo del dialogo della reciproca attrazione fra le sfere dei corpi e le Idee divine, unendo nel suo libero movimento l’essere intellegibile e quello sensibile. Il mondo, che è stato creato nel modo migliore, proprio per questa ragione non può essere soltanto corporeo: similmente al singolo individuo, anche l’universo è costituito da una sorta di materia eterea, lo spiritus, che “di per sé esso è un corpo sottilissimo, quasi non più corpo, quasi già anima” (De vita, III, III). Partendo dal principio per cui ciò che viene dopo non agisce su ciò che viene prima (posteriora non agunt in priora), le stelle, entità materiali, non possono determinare gli atti intellettuali, quali le decisioni e le volizioni. Ma l’anima, per quanto sia soggetto e non oggetto di movimento, fa parte di quell’immenso universo attraversato in ogni dove dal medesimo spiritus. Il Ficino, che non rinuncia mai ad affermare la libertà della nostra azione, è consapevole però che essere un elemento del mondo deve significare essere in sincronia e in affinità con esso. L’uomo si trova in bilico tra sé e il tutto, e in questo spazio pare giocarsi il suo contraddittorio destino di essere libero. Entra qui il concetto di simbolo, quale segno della connessione nascosta fra ciò che è apparentemente separato - quale “oggetto reale [che] in virtù d’una eguaglianza di essenza indica un altro oggetto reale”4. In prospettiva astrologica, ciò significa che l’astro simboleggia le corrispondenti complessioni umane, e per capire queste bisogna dunque saper leggere il suo rapporto con gli altri astri e la sua posizione nelle case: I corpi celesti non sono da cercare in alcun luogo esterno a noi: il cielo, infatti, è tutto dentro di noi, che abbiamo in noi il vigore del fuoco, e origine celeste. Prima di tutto la Luna: che cos’altro significa in noi, se non il continuo movimento del corpo e dell’anima? Marte, poi, indica la prontezza; Saturno, invece, la lentezza. Il Sole significa Dio, Giove la legge, Mercurio la ragione, Venere l’umanità (humanitas) 5 E in un’altra lettera indirizzata a Zenobio Romano, il Ficino risponde: Benché io hora appresso di me quelli istrumenti non habbia, con gli quali le cose celesti particolarmente e apponto esaminare, e giudicar si sogliano, non dimeno per dire al presente qualche cosa così a la grossa di quello che mi domandate, Vi dico che quella figura del cielo non troppo mi piace, ne la quale Marte sia nel mezzo del cielo, Saturno la sesta occupi, Giove sia dal Sole infiammato troppo, e la Luna in quadrato riguardi il Sole. Ma a me non piace predire mali, né è conveniente troppo a queste cose credere. Percioché essendo spesso ne le cose a noi vicinissime e che ogni giorno vediamo il nostro giudizio fallace, certo è che ne le lontanissime è fallacissimo; massime che da molte altre cagioni, oltre a le stelle le cose nostre dependano; come de la genitura, dal nutrimento, dal luogo, da l’educatione, dal consiglio, e da la sorte. Il che per questo è manifestamente chiaro, che anchora quelle cose che in un medesimo momento sono seminate, e nascono, non dimeno, tra loro, di spetie, di genere, di numero, di qualità, di fortuna, e di esito assaissimo sono differenti. 6 Contro ogni forma fatalistica, o «giudiziaria», dell’astrologia, si delinea una visione per cui, se per natura il corpo è soggetto al fato o al determinismo, con l’intelligenza l’anima si pone al di sopra del destino, o meglio: per quanto i corpi celesti non possano agire sulle anime, “le energie celesti non scaturiscono dai pianeti, ma dallo spiritus che agisce attraverso essi; questi ultimi non sono cause di effetti terrestri,


ma soltanto significatori di forze spirituali delle quali sono semplici tramiti”7. Così l’anima può dominare le inclinazioni che gli astri imprimono al soma, e i pianeti allora non determineranno natura e vocazione di noi stessi, ma semplicemente le significheranno. Questo principio il Ficino lo applica in primo luogo a se stesso, nato sotto Saturno, segno ambiguo come la natura del dio, che può indicare tanto una disposizione alla meditazione che facilmente sfocia in malinconia, quanto un recupero di uno stato armonico e felice che questa attitudine filosofica dovrebbe porsi. All’amico Giovanni Cavalcanti, come gli capiterà in molti altri scambi epistolari, il maestro dell’Accademia fiorentina si lamenta di una melanconia che mi sembra impressa in me fin dalla nascita da Saturno, posto nel mio Ascendente più o meno alla metà dell’Aquario, e che nell’Aquario stesso riceve Marte e la Luna in Capricorno, e forma un quadrato con Sole e Mercurio, che in Scorpione occupano la nona casa. 8 Se nella corrispondenza privata spesso si duole dell’umor nero legato al suo segno, il Ficino sa che, come l’anima assomiglia alla propria dominante planetaria, allo stesso modo non esistono pianeti e transiti in assoluto benefici o malefici. Il disegno delle stelle è un’immagine viva e in movimento, al pari dell’anima, e siamo noi che dobbiamo saperlo indagare e interpretare dinamicamente, perché in questa possibilità risiede il nostro essere liberi, la nostra inclinazione alla divina sapienza capace di portare luce anche nel simbolo più scuro: Come infatti il Sole è nemico degli animali notturni, mentre è amico di quelli diurni, così Saturno è avverso agli uomini che conducono apertamente una vita volgare o, pur evitando la consuetudine col volgo, continuano tuttavia ad avere sentimenti volgari. Saturno lasciò infatti a Giove una vita in società, mentre rivendicò per sé una vita separata e divina. È poi amico delle menti degli uomini che, per quanto è loro possibile, sono già veramente separate, in quanto sono in un certo modo a lui congiunte. Infatti proprio Saturno (per parlare platonicamente) svolge le funzioni di Giove nei confronti degli spiriti che abitano le regioni più alte dell’aria, come Giove è un padre premuroso per gli uomini che conducono la vita in società (De vita, III, XXII). Per il piacere, verso la fine, di tornare da dove si era partiti, un altro riferimento a Buzzati. Ne Il colombre 9, Stefano Roi, ancora bambino, vede il mostro marino la cui apparizione è profezia di sciagura per chi naviga i mari. Senza arrendersi al proprio

fato, il protagonista, una volta adulto, decide di passare la sua vita in mezzo agli oceani, e questo fa per cinquant’anni, ottenendo molti successi e denaro, ma sempre con l’ombra infelice del colombre che ogni sera lo attende al di là della prua. Ormai anziano, una notte Stefano decide di andare incontro a colui che “mi ha scortato da un capo all’altro del mondo con una fedeltà che neppure il più nobile amico avrebbe potuto dimostrarmi. Adesso io sto per morire. Anche lui, ormai, sarà terribilmente vecchio e stanco. Non posso tradirlo” 10. Scende allora dalla sua magnifica nave con un barchino e, alcuni metri più tardi, incontra l’orribile creatura. Il colombre, però, gli porge in dono la Perla del Mare, che dona felicità e amore a chi la possiede, “perché non ti ho inseguito attraverso il mondo per divorarti, come pensavi. Dal re del mare avevo avuto soltanto l’incarico di consegnarti questo”... 11 Iniziare un romanzo, scriveva Calvino, significa “accomiatarsi dalla vastità del cosmo, per dedicare tutta la propria attenzione [...] alla rappresentazione minuziosa di una storia singola”12; è congedarsi dalla continuità refrattaria ad ogni forma che è l’universo, per trovarne una che sia delimitata dalla prima e ultima parola di quel determinato racconto. In letteratura, diceva ancora Calvino, esistono alcuni esempi di inizi cosmici, e richiamava alla nostra memoria le prime righe de L’Aleph 13 di Borges: L’incandescente mattina di febbraio in cui Beatriz Viterbo morì, dopo un’imperiosa agonia che non si abbassò un solo istante al sentimentalismo né al timore, notai che le armature di ferro di Plaza Constitución avevano cambiato non so quale pubblicità di sigarette; il fatto mi dolse, perché compresi che l’incessante e vasto universo già si separava da lei e che quel mutamento era il primo d’una serie infinita.

1) D. BUZZATI, La boutique del mistero, Milano, Mondadori editore, 1992, p. 141. 2) Ivi, pp. 139-145. 3) Ivi, p. 144. 4) P.O. KRISTELLER, Il pensiero filosofico di Marsilio Ficino, Firenze, Le Lettere, 1988, 5) M. FICINO, Scritti sull’astrologia, a cura di Ornella Pompeo Faracovi, Milano, Rizzoli, 1999, Lettera a Lorenzo de’ Medici, il giovane, p.230. 6) Le divine lettere del gran Marsilio Ficino. Tradotte in lingua toscana da Felice Figliucci senese, a cura di Sebastiano Gentile, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2001, vol. II, c. 75b (anastatica dell’edizione originale del 1548). 7) O. P. FARACOVI, Scritto negli astri, Venezia, Marsilio editore, 1996, p. 213. 8) FICINO, Scritti sull’astrologia, cit. p. 225. 9) BUZZATI, La boutique del mistero, cit. pp. 176-182. 10) Ivi, p. 181. 11) Ivi, p. 182 12) I. CALVINO, Lezioni americane, Milano, Mondadori, 1993, p. 142 13) J. L. BORGES, L’Aleph, Milano, Adelphi, 1988, p. 123.

Via Cremona 25, 46100 Mantova (MN) Telefono 0376 380178 - Fax 0376 268518 w w w. m a l a v a s i d e m o s . i t

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Herzoghiana La verità tradita, la verità rinata “Bisogna stare attenti alla realtà nel cinema, io ci credo molto poco. Il cinema si alimenta di sogni, di nostalgie e di desideri collettivi, molto più che di realtà. [...] Hanno detto che sono un appassionato della natura perché ho girato nella giungla e nel deserto, ma è completamente sbagliato. Credo che la natura sia stupida, oscena e sbagliata”. di Micol Ferretti Negli anni a partire dall’adolescenza, attraversando le scuole in cui mi sono trascinato tra neuroni e feromoni gonfi come palloni, fino alla disoccupazione intermittente di questo periodo che sembra infinito, pochissimi registi o scrittori non mi hanno mai lasciato in panne. Uno di questi è Werner Herzog. Questo breve inciso biografico vuole scansare ogni equivoco sulle mie intenzioni: le parole che seguono sono partorite senza levatrice, ossia non seguono un percorso lucido e critico e ponderato bensì saranno una sequela di suggestioni che negli anni sono comparse come bengala nella notte e solo ora mi trovo a unire i fili di questa costellazione evanescente. Partirò dalla dicotomia onnipresente nella filmografia, anzi nella critica herzoghiana fra realtà documentaristica e finzione. Pagherei perché un noto illusionista qual’era Orson Welles si presentasse a testimoniare al mio fianco, con la sua tunica nera e il cappello a tesa larga (vedi F for Fake, titolo illuminante), ma è chiedere troppo. Dunque, per tagliare la testa al toro, diciamo che a mio parere Herzog non ha mai fatto un documentario, né docufizioni né mocumentari di sorta. Rifiuta il cosiddetto cinema-verità, quest’arte che raccoglie la realtà al volo, con la telecamera a spalla, come se fosse l’unica “verità raccontabile”. Herzog ricorda da vicino l’oltre giornalismo di Ryszard Kapuscinski, ma a differenza di quest’ultimo non ha mai nascosto, direi anzi l’esatto contrario, di aver inventato di sana pianta delle scene per le sue opere. Non gli interessa la verità dei fatti così come si presentano ogni giorno, direi quasi che la sottostima. Non fa la ben che minima distinzione tra i suoi documentari e le pellicole di finzione. Ogni suo film non è né l’una né l’altra cosa, o quanto meno è una strana amalgama di entrambi. Film travestiti da documentari? Ma che importa! Basti pensare che Herzog considera il suo miglior documentario Fitzcarraldo (leggere a proposito il diario dei due anni a dir poco folli scritto durante le riprese della pellicola: La scoperta dell’inutile. Chi troverà assonanze con lo Zibaldone di Leopardi non si senta solo). Herzog consegue meravigliosamente questo obiettivo in Rintocchi dal profondo, che tratta della fede e della superstizione in Russia. L’inizio è straordinario e allucinante: un gruppo di persone sfidano la superficie di un lago ghiacciato cercando di guardarvi attraverso, come se stessero pregando di fronte ad un dio invisibile. Viene spiegato che questa gente è alla ricerca di una grande città sommersa, Kitej, che giace sotto il ghiaccio di questo lago senza fondo. Kitej fu saccheggiata secoli orsono dai Tartari, ma dio inviò un arcangelo per salvare i suoi abitanti permettendogli di vivere nella felicità subacquea, dove potevano dedicarsi a cantare inni e far suonare le campane – il subacqueo torna spesso come luogo che salva, buio che riscatta nel mistero: dopo i cieli di nuovo l’acqua sorgente –. Meraviglia unica e insieme magia: l’immagine, di una bellezza ossessiva, è completamente costruita. Durante le riprese andò a cercare alcuni ubriachi nel caffè della città e li pagò perché si sdraiassero sul lago. Lui stesso ricorda che «uno di loro teneva il muso direttamente sul transatlantico22

ghiaccio e sembrava che fosse immerso in una profonda meditazione. La verità: il soggetto portava addosso una bella sbornia e dovemmo svegliarlo quando la ripresa finì». Quindi, c’è il trucco? «No, perché è solo mediante l’invenzione, l’elaborazione e la messa in scena che si ottiene un grado di verità più intenso, altrimenti introvabile». Sarebbe il caso di citare anche il meraviglioso The wild blue yonder, dove il materiale di repertorio viene talmente privato del proprio grado di realtà che alcune riprese subacquee al polo nord immergono lo spettatore in un pianeta azzurro, l’ignoto spazio profondo, e una missione della NASA si tramuta nell’odissea spaziale alla ricerca di una nuova Terra, essendo il vecchio pianeta a rischio di un contagio senza precedenti. Il repertorio vince nettamente sulle riprese nuove di zecca, mentre la colonna sonora di Ernst Reijseger, con il contributo dei Tenores e Cuncordu de Orosei (ascoltateli!), rende l’opera pura audiovisione, in cui il montaggio è ridotto al minimo. Suoni, volti e natura compiono il miracolo. Somiglia ad numero di magia, in cui la verità è sempre un passo avanti alla realtà: la prima parte è la promessa, l’illusionista mostra qualcosa di ordinario; la seconda è la svolta, ciò che era ordinario viene trasformato in straordinario, ma ancora il pubblico non applaude. Far sparire qualcosa non è sufficiente, bisogna anche farla riapparire. Quest’ultima fase, quella della rivelazione, ha a che fare con un approccio alla verità molto particolare, e il segreto non lo trovate perché in realtà non vi importa, è il trucco nel suo intero ciò che vi illumina. Bisogna avere fede nella grande bugia. In una intervista alla Biblioteca pubblica di New York Herzog ha chiarito: «Cerco qualcosa che assomigli più all’estasi della verità, una cosa che cerchiamo oltre noi stessi, che assomiglia talvolta alla religione vissuta dai mistici medievali». La ricerca dell’estasi, la solitudine dell’essere umano nella natura selvaggia, le verità nascoste, i mistici medievali: caratteristiche che fanno virare i miei pensieri al romanticismo ottocentesco. Senti Wagner, trovi l’amore per Hölderlin, e come ogni buon romantico il paesaggio gioca un ruolo fondamentale, è parte integrante della ricerca verso la visione autentica. E vedi inevitabilmente Friedrich. Herzog descrive con una cura ineguagliabile l’orrore fecondo della selva, l’arido terrore del deserto e la maestosità siderale dell’alta montagna (nuova suggestione: mi sembra che Herzog abbia riabilitato le montagne agli occhi dei tedeschi, un accidente geografico caro al nazismo e al suo cinema con Leni Riefenstahl). Ma non usa i paesaggi come sfondo, perché la natura è un vero e proprio personaggio. «In realtà si tratta dei nostri sogni, delle nostre emozioni più profonde, dei nostri incubi. Questo non è un luogo ma uno stato d’animo, con caratteristiche umane. È un elemento vitale per i paesaggi interiori dei personaggi». Nell’universo herzoghiano si rivelano in continuazione parabole della lotta titanica, destinata al fallimento, dell’uomo contro i limiti della natura. La maggior parte dei suoi eroi vive in un mondo percettivo particolare in cui è più forte la pressione della natura rispetto a tutto


il resto. Vedono di più, sentono e toccano di più, per questo soffrono terribilmente. La loro non è una visione “protetta”. Ed è proprio attraverso lo smarrimento, la perdita di sé che scoprono la loro identità, le loro verità profonde. E l’immersione nel passato dei suoi personaggi non risulta affatto anti-modernista ma, in un certo senso e ancora, romantica, sempre alla ricerca di paesaggi e storie capaci di definire con precisione la condizione umana, la sua natura corrotta e la corruzione stessa della natura. Ecco un’altra dicotomia onnipresente: quella dell’eroe tragico bigger than life e della natura primitiva, magnifica e insieme sorda, oscena nei confronti della vita umana, un conflitto che non si risolve se non attraverso lo slancio verso l’abisso, l’ignoto, o la morte. Come sottolinea la citazione iniziale, non si può certo dire, perché è stato ripetuto, che Herzog sia un ambientalista. Che si tratti di sogni, come quello di Fitzcarraldo, di voli atletici, come quelli di Steiner in La grande estasi dell’intagliatore Steiner o di esperimenti sul volo, come in The White Diamond, la visione ininterrotta di Herzog è quella di un uomo convinto che la creazione non sia perfetta, e che non si debba

necessariamente accettarla così com’è. Che la catastrofe abbia luogo o meno non è rilevante. È lo sforzo fisico, muscolare e psicologico, che porta all’allucinazione rivelatrice. E l’ossessione che si schianta contro i limiti dell’ossessione è uno sforzo che deforma, porta all’abnorme, allo straordinario, al diverso. Herzog non è un collezionista di folli e tizi strampalati per mania o banale amore per gli emarginati. Il movimento è l’esatto opposto. Chiudo questa sbrodolata herzoghiana – per ora, tornerò su queste stesse pagine, sempre che il direttore me lo permetta – chiamando in appello di nuovo il nostro amato crucco per sostenere le sue tesi (e ascoltiamoli una buona volta questi registi!): «Molti mi descrivono come un regista che filma dei pazzi o degli storpi, ma non è vero. Una persona come Kaspar Hauser [vedi anche Timothy Treadwell di Grizzly Man e molti altri] non è un emarginato. È uno che esteriorizza la propria dignità di uomo in modo così radicale, che si può pensare che sia l’uomo attorno a cui girano tutte le cose». Touché. In memoria di Franco Caldera transatlantico23


sospesi a guardare in basso... o in alto? di Giovanni Pasetti

Il dualismo tra Luce e Buio è sintomo di perplessità e di tormento per la cosiddetta civiltà occidentale. Questo binomio, di origine naturale e quasi infantile, è la controparte estetica della coppia formata dall’Essere e dal Non essere, di cui rappresenta una specie di semplificazione letteraria e onirica. “Ciò che Orfeo ha detto è questo. All’inizio apparve a Chronos l’Etere, creato dal dio, e dopo l’Etere vi fu il Caos, e la Notte oscura conteneva tutte le cose e nascondeva ciò che era sotto l’Etere.” Nel ricordo imperfetto dello storico bizantino di cui stiamo citando le parole, la notte oscura opera togliendo all’uomo la possibilità di vedere l’universo nella sua totalità, gli vieta dunque di cogliere all’istante l’essenza infinita del mondo, come un lenzuolo nasconde il grembo materno, celando allo sguardo l’origine delle Cose. Il contraltare del Buio, ovvero la Luce, diviene allora il gemello simultaneo ma fragile dell’oscurità, un messaggero a sua volta divino, che può portare con sè il seme della ragione e dell’intelletto, ma che di fatto fallisce nel trasmettere la copia di ciò che è. La luce infatti incarna, nel suo sofferente splendore, uno strano dilemma: può esprimere l’aura mistica dell’intuizione, nel paradiso meridiano di un bagliore abbacinante e per questo vacuo, ovvero diventare parte della fallibilità del ragionamento, proclamando gli inganni della visione, travestendo di fantasie e di falsità l’evidenza più concreta. Detto in termini sbrigativi: siamo condannati a contemplare l’abisso oscuro, oppure a vagare perduti nella cecità parziale delle parvenze terrene. Dalla Grecia antica alla Divina Commedia dantesca poco in effetti cambia rispetto a simile enigmatico indovinello. Anche se correnti diverse di pensiero collaborano a gonfiare d’acqua il fiume in cui naufraga la navicella della fiducia ingenua nelle scoperte del pensiero. La Cabala ebraica, ad esempio, costruisce una complessa mitologia del Divino che spiega l’origine della mancanza, del male e del peccato grazie ad una catastrofe cosmica, causata dalla non accettazione da parte del creato di un quantum insopprimibile di nulla originario. Sul versante opposto, tra le guerre che dilaniano il Medio Oriente, la meditazione di alcuni

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pensatori islamici conduce ad una Teologia della Luce che influenza in modo duraturo alcuni versanti della Cristianità. “Come potrò enunciare qualcosa di così sottile? Notte luminosa, mezzogiorno oscuro!” Così scrive nel suo Roseto mistico Mahmud Shabestari, un contemporaneo dell’Alighieri vissuto a Tabriz, alta voce del sufismo. Il perenne malessere originato dalla contrapposizione tra la forza delle tenebre e i proclami morenti dei raggi del sole viene spinto sotto il cielo iraniano fino all’incandescenza, provocando la sintesi tra gli eterni contendenti, nel trionfo di quella che verrà chiamata nelle nostre terre teologia apofatica, ovvero teologia del non dire, della non parola. La Notte, sì, proprio lei, l’eterna avversaria, proclama nel dolore la verità di Dio, come era avvenuto a Cristo nel Giardino degli Ulivi. L’uomo trae dal fallimento devastante delle sue provvisorie speranze la fede per proseguire un cammino rivestito di cecità. Non era Omero, d’altronde, il primo cantore delle gesta degli eroi e del ritorno continuamente interrotto di Ulisse verso la propria casa? Dante non costruisce in mezzo al vapore opaco dell’Inferno la muraglia a gradini che dà conto degli errori e degli inganni di ogni vita? Chi rifiuta il male, come Virgilio, non può oltrepassare il Limbo dei ricordi sospirosi, della congelata Arcadia. Accettare il cataclisma significa appunto dimorare tra buio e luce, accettandoli per un attimo entrambi. Poi verrà la Scienza a diffondere le sue provvisorie certezze, rimanendo impigliata per decenni a decidere in merito alla natura corpuscolare ovvero ondulatoria di un semplice lampo di luce. Poi verranno le discipline dell’informazione a spiegarci che nel battito tra lo zero e l’uno (tra il nulla e il qualcosa) sta l’unica possibilità di scrivere una frase, di comprendere una lettera, decodificando un messaggio. Ma il battito è certamente intervallo, un lasso di tempo che ci spinge a credere pulsante una stella già esplosa, o ci sprofonda nell’equivoco in merito alle reali intenzioni di un nostro interlocutore. Come scrisse Pico della Mirandola: “L’amore da Orfeo è descritto come senza occhi: perché è al di sopra del nostro intelletto.” Gli occhi infatti sanno guardare, ma non attendere.


Crystal light... just black light di Luigi Manfrin

Crystal light... just black light o, affidandoci alle parole di Paolo Mauri, la frammentarietà di un «buio dentro-buio fuori-buio storico-buio cosmico...». Attraverso, e contemporaneamente, all’esecuzione dei Notturni op. 15 di Chopin, questo brano per pianoforte, percussione ed elettronica passa da una passione cosmica a una religiosa nel segno di una sfida radicale alla creazione o, perlomeno, all’esistenza tendente all’annichilimento assoluto nel buio che non parla, che è prima della parola e del pensiero e che fa a meno dell’essere umano. Tale possibilità di mancanza, dalla quale è partito il nostro lavoro, Mauri la coglie quando parla del celebre pittore Rothko, morto suicida a New York nel 1970. Nelle ultime opere di questo artista prevale sempre più il nero, segno di un’immagine essenziale del rapporto buio-morte che nel caso di Rothko irrompe sulla superficie pittorica delle sue «tele nere». Questa raffigurazione della regressione nell’orizzonte del nulla è una sottrazione verso l’oscurità quale simbolo del movimento a ritroso prima o contro l’esistenza. Ma non solo. Il buio si può raccontare anche come fabulazione creatrice: se ci interroghiamo sulla narrazione letteraria, possiamo scorgere che il centro vitale di ogni racconto è la realizzazione-descrizione di un mutamento che, come ogni spostamento, ha bisogno di uno spazio vuoto, che spesso ha un legame magico col buio e con l’onirico. Se pensiamo ad Alice e a Gregor Samsa, leggiamo di metamorfosi le cui trasformazioni avvengono in un’oscurità, sia quella di un tunnel o quella notturna, nella quale l’identità va progressivamente perdendosi. Sottrazione, ritiro e black-out da una parte, metamorfosi, divenire e rigenerazione dall’altra parte, danno insieme un’alternanza di sensi o orientamenti possibili annessi all’esperienza del buio. Come non pensare, allora, al celebre inizio di Zur Farbenlehre di Goethe, ove vengono teorizzate due condizioni primarie della vista legate al buio e alla luce, dalla cui tensione deriverebbe l’intero spettro del visibile? Non si vuole richiamare l’opera di Goethe nel suo intento esplicativo, ma attingere al valore espressivo immediato delle sue descrizioni enantiodromiche che, letteralmente, agiscono come una corsa (dromos) all’opposto (enantios). In Crystal light... just black light, il duplice orientamento di sottrazione e rigenerazione trasfigurativa («divenire vegetale, animale o minerale») è condensato in una metafora acustica di tipo tensivo-visivo: figurare lo spazio sonoro come una pellicola o una superficie che si sottrae continuamente, per così dire, dalla “luce o dalla udibilità”, oscurandosi o de-traendosi dalla sensorialità. Questo ritiro teso e costante, tuttavia, non si compie mai poiché, paradossalmente, è destinato a rovesciarsi nel rilancio della udibilità da cui la superficie pur nasce, sebbene assentandosi da essa. Da un punto di vista compositivo, questa immagine si è tradotta nello svanire costante, quasi periodico, di tessiture sonore luminose e cristalline, agili e nervose, poste sovente sull’estremo acuto del pianoforte e punteggiate dal timbro del glockenspiel e della marimba, con immediata e rapida precipitazione sul grave, dagli

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effetti oscuri di rumore alimentati dal timbro percussivo delle pelli, delle lastre e del suono elettronico. É come se il suono si ritirasse e riemergesse in continuazione dalla propria inudibilità di fondo. Così, da tale gioco di alternanze timbriche, passiamo a un ripensamento musicale di una diversa, ma affine, tecnica pittorica: le tensioni chiaroscurali, i movimenti vorticosi e gli improvvisi effetti di bagliore presenti nelle grandi opere del Tintoretto a Venezia. È noto che le graduazioni di luce rivestono un’importanza strutturale fondamentale nelle opere di Jacopo Robusti, segnando non solo i personaggi dipinti, ma principalmente la loro gestualità reciproca, la loro dinamica posturale e la loro relativa posizione occupata nella scena. Gli effetti in tal modo ottenuti sono però impossibili senza il buio che contribuisce a formare drammaticamente le immagini sulle tela. La luce, dunque, traccia gli ambiti d’azione contrapponendosi all’oscurità ma, a sua volta, il buio rimane fecondo per la luce dosandone le intrinseche graduazioni. Nei lavori del pittore veneziano, ad ogni modo, sorprende il movimento generato dal contrasto delle direzioni dei corpi e dagli sguardi che attraversano la superficie. Ad esempio, nella Resurrezione della sala grande di San Rocco, meraviglia la contrapposizione tra il Cristo folgorante che ascende, promanante dalla luce, e l’oscurità che avvolge in basso le guardie assopite; quattro angeli semioscuri sono collocati sul piano intermedio, due incurvati con lo sguardo rivolto verso l’alto, due in discesa che guardano alla loro sinistra. La verticalità dello spazio sonoro, con la contrapposizione tra l’estremo grave e l’estremo acuto, gioca un ruolo basilare anche in Crystal light... just black light. Vi sono sovente figurazioni rapide e turbinanti, che appaiono improvvisamente sull’estremo acuto e che gradualmente scendono oscurandosi nell’estremo grave; inoltre, la distribuzione delle densità e delle transizioni armoniche dei campi di frequenza richiamano le graduazioni chiaroscurali presenti nella pittura del Tintoretto. Gli sbalzi improvvisi tra accordalità contrastanti e la contrapposizione immediata dei loro livelli dinamici costituiscono i piani dell’organizzazione spaziale del brano. Ma oltre a quella spaziale, vi è un’evoluzione emporale: accade una mozione “affettiva” (nel senso deleuziano, antisoggettivo, del termine) che compenetra l’intero excursus della composizione e che approda progressivamente, nell’ultima parte, ad un diradamento della densità armonica dal tempo dilatato. Tale mozione è carica di valenze o risonanze immaginative legate di nuovo all’oscurità, sebbene essa si palesi particolarmente dalla scomposizione timbrica tessente la conclusione del brano. È un approdo al limite del suono o alla sua inesistenza, secondo la logica sottrattiva che corrode dall’interno l’intera metamorfosi acustica di Crystal light. Il senso “affettivo” funge da raccordo con l’atmosfera malinconica del notturno in sol minore di Chopin: un collegamento che si concretizza in un ampio arabesco discendente derivato dal notturno medesimo, un riepilogo accelerato eppure ritardato, allusivo, della metamorfosi oscura che alimenta il divenire di Crystal light.

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il paese dei ciechi di H.G. Wells

Nella parte più deserta e selvaggia delle Ande ecuadoriane, ad oltre quattrocentocinquanta chilometri da Chimborazo, a centocinquanta dalle nevi del Cotopaxi, sta quella misteriosa valle montana che è il paese dei ciechi, completamente segregata dal mondo abitato. Molti e molti anni fa, la vallata era in comunicazione con il resto del mondo [...] Poi ci fu la sbalorditiva eruzione del Mindobamba, quando Quito rimase immersa nelle tenebre per diciassette giorni, e a Yaguachi le acque bollirono, facendo venire a galla i pesci morti fino a Guayaquil. Ovunque, sul versante del Pacifico, ci furono frane sui pendii, repentini disgeli, improvvise inondazioni, ed un intero fianco della vecchia cima dell’Arauca slittò e venne giù con rumore di tuono, chiudendo per sempre l’accesso del paese dei ciechi all’intraprendente piede dell’uomo. Nel momento del tremendo cataclisma, uno di quei coloni s’era per caso trovato di qua dalle gole; per forza di cose, dovette rinunciare a moglie, figli, amici, beni, lasciati lassù, e ricominciare una nuova vita nel mondo sottostante. La ricominciò; ma la malattia, cioè la cecità, lo colse e poi egli morì ai lavori minerari, ove scontava una pena. Però la storia che aveva raccontato fece nascere una leggenda che ancor oggi sopravvive lungo la cordigliera delle Ande. [...] C’era nella valle, egli diceva, tutto ciò che un uomo può desiderare di meglio: acqua dolce, pascoli, un clima uniforme, pendii di terra scura e fertile [...] Gli immigrati vi si trovarono assai bene. Le loro bestie vi si trovarono bene, e si moltiplicarono. Una sola cosa offuscava la loro contentezza; ma bastava ad offuscarla gravemente. Un male strano li aveva assaliti, colpendo di cecità tutti i figli che avevano avuto lassù, ed anzi colpendo anche alcuni dei maggiori. Egli aveva ridisceso le gole, a prezzo di fatica, difficoltà e pericoli, appunto per cercare un antidoto o un talismano contro quella cecità. [...] e la leggenda messa in circolazione dal suo racconto misero e stentato è diventata quella dell’esistenza di una razza di ciechi, da qualche parte “lassù”, che ancor oggi si ode raccontare.E tra la sparuta popolazione di quella valle ormai isolata e dimenticata, la malattia seguì il suo corso. I vecchi, diventati mezzo ciechi, andarono a tastoni, i giovani ci videro appena, e i figli che misero al mondo non ci videro affatto. [...] Una generazione seguì l’altra. Essi dimenticarono parecchie cose, altre ne escogitarono. La tradizione dell’esistenza d’un più vasto mondo, dal quale erano venuti, si fece vaga, prese color di mito. Tranne che nella vista, erano, in tutto il resto, forti ed abili, e non tardò che, al caso delle nascite e dell’ereditarietà, comparve tra loro un individuo d’intelletto originale, dotato di parola persuasiva, poi un altro ancora. Anche dopo la morte di quei due ne restò il segno, e intanto la piccola comunità cresceva di numero e d’intelligenza, sistemava i problemi sociali ed economici man mano che si presentavano. A un certo punto nacque un bambino che aveva un salto di quindici generazioni tra sé e quell’avo ch’era uscito dalla valle con una sbarra d’argento per andare a procacciarsi l’aiuto di Dio, non facendo più ritorno. E allora accadde che, dal mondo esterno, un uomo capitò in seno alla comunità. Questa è la sua storia. Era un montanaro del territorio nei pressi di Quito, un uomo che era sceso fino al mare e aveva visto il mondo, che leggeva libri a suo modo: un uomo intraprendente, e di mente acuta. Una spedizione alpinistica inglese, venuta a scalar montagne nell’Ecuador, l’aveva assunto in sostituzione di una delle tre guide svizzere, che si era ammalata. Si arrampicò qua, si arrampicò là, e infine venne il tentativo di scalare il Parascotopetl, ch’è il Cervino delle Ande, nella qual occasione il mondo di fuori lo diede per disperso. [...] Ma l’uomo che era precipitato, sopravvisse. Dal fondo del nevaio, dopo un volo di oltre trecento metri, andò a cadere, tra una nuvola di neve, sul pendio di un altro nevaio ancor più ripido [...] affondato nel mucchio della bianca massa che lo aveva accompagnato, attutendo la caduta e salvandolo. Rinvenne con la vaga impressione d’esser malato a letto; poi afferrò la situazione, con il suo cervello di montanaro, e fece in modo di liberarsi, finché, dopo un attimo di riposo, non uscì a rivedere le stelle. [...] Si calò da un punto scosceso, e giunse così al muro e al canale che circondavano la valle [...] Egli ora vedeva lontano, nei prati, alcuni uomini e donne che si riposavano su mucchi di fieno, come se facessero la siesta; nei pressi del paese, alcuni bambini sdraiati;

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Nel 1904 Herbert George Wells (1866-1946), l’autore de L’uomo invisibile e de La macchina del tempo, pubblica The Country of the Blind, un racconto nel quale un viaggiatore della città di Bogota, Nuñez, che coi suoi occhi ha visto e girato molti luoghi, a seguito di un incidente durante una spedizione alpinistica sulle Ande si ritrova nel Paese dei Ciechi, un piccolo e isolato mondo nel quale il protagonista scoprirà, contro ogni sua ambizione, che non sempre “tra i ciechi l’orbo ad un occhio è re”. Pubblichiamo qui alcune parti della narrazione.

e infine, più vicini a lui, tre uomini che, con gioghi d’acquaiolo, portavano secchi percorrendo un sentiero che andava dal muro di cinta verso le case. [...] Il loro comportamento aveva un’aria rassicurante di prosperità, di rispettabilità e perciò Nuñez, dopo un attimo di esitazione, si fece avanti, mettendosi in vista come meglio poteva sulla sua roccia, ed emise un potente grido di richiamo, che echeggiò per tutta la valle. I tre uomini si fermarono, e mossero il capo, come guardandosi attorno. Girarono il viso di qua e di là, e Nunez gesticolò a tutto andare. Ma, con tutto il suo agitar di braccia, non parvero vederlo, e dopo un poco, rivolti verso le lontane montagne sulla destra, gridarono come per rispondere. Nuñez cacciò fuori un altro urlaccio, e allora, nuovamente, nel fare i suoi inutili gesti, la parola “cieco” s’impose alla sua mente. “Quegli sciocchi devono essere ciechi”, si disse. [...] Ma Nuñez avanzava col passo fiducioso del giovane che va incontro alla vita. Si era rammentato di tutte quelle antiche storie sulla valle perduta e sul paese dei ciechi, e come un ritornello gli girava e rigirava per la mente un vecchio proverbio: “Tra i ciechi l’orbo d’un occhio è re, tra i ciechi l’orbo d’un occhio è re”. Li salutò con molta cortesia. E usava gli occhi, mentre parlava. Uno chiese: - Fratello Pedro, di dove arriva? - E’ uscito e sceso dalle rocce. - Vengo da oltre i monti - disse Nuñez. - Sono uscito dal paese che sta di là, un paese dove gli uomini vedono. Dai pressi di Bogota, dove abitano centinaia di migliaia di persone e la città si estende fuor di vista. - Vista? - mormorò Pedro. - Vista? - E’ uscito dalle rocce - disse il secondo cieco. [...] - Vieni qua - disse il terzo cieco, accompagnando il suo movimento e agguantandolo bellamente. Tennero Nuñez e lo tastarono, senza dir altro. - Piano! - esclamò egli, avendo un dito in un occhio. E capì che costoro ritenevano in lui una stranezza, quell’organo dalle palpebre che sbattevano. Insistettero ancora a tastarlo. - Una strana creatura, Correa - disse colui che chiamavano Pedro. - Senti un po’ che pelo ruvido ha. Come quello del lama. - E’ rude come le rocce che l’hanno partorito - disse Correa, esplorando il mento non rasato di Nuñez, con mano morbida e leggermente umida. - Forse si raffinerà. - Nuñez, sotto quel contatto indagatore, si dibatteva un poco, ma essi lo tenevano saldamente. - Piano! - ripeté. - Parla - disse il terzo. - E’ certamente un uomo. - Uh! - fece Pedro, sentendo com’era grossolano il suo cappotto. - E così, sei venuto al mondo? - chiese Pedro. - “Dal” mondo! Di là da montagne e ghiacciai; proprio di là, oltre quel punto, a metà strada dal sole. Vengo dal mondo grande e vasto, che scende giù, per dodici giorni di cammino, fino al mare. Non sembravano quasi dargli retta. - I nostri antenati dicevano che gli uomini possono essere creati dalle forze della natura - disse Correa. - Dal calore delle cose, e dall’umidità, e dall’imputridimento... dall’imputridimento. - Portiamolo agli anziani - disse Pedro. [...] Dopo essersi consultati, gli permisero di alzarsi. La voce di un vecchio cominciò a interrogarlo, e Nuñez fu costretto a cercar di spiegare il vasto mondo dal quale era piombato giù, il cielo, i monti, la vista e simili prodigi, a quegli anziani che sedevano immersi nelle tenebre, nel paese dei ciechi. Ma non capivano, non credevano a quello che diceva; e questo non se l’era davvero aspettato. Non riuscivano a capire molte sue parole. Erano ciechi da quattordici generazioni, completamente segregati dal mondo dotato di vista, e il nome di ogni cosa attinente al senso ottico si era cancellato o trasformato, la storia del mondo esterno si era cancellata, trasformata in una fiaba, ed essi avevano perso ogni interesse per tutto ciò che stava di là dei pendii rocciosi, incombenti sul loro muro di cinta. [...] Il più anziano dei ciechi gli spiegò la vita, la filosofia, la religione; gli disse che il mondo (cioè la loro valle) era stato dapprima un buco vuoto tra le rocce, e poi erano venute cose senz’anima e senza il dono del tatto, poi i lama e alcune altre creature di scarso intelletto, poi ancora gli uomini, e infine gli angeli, che si udivano cantare e far rumori che battevano dolcemente l’aria, ma che non si riuscivano mai a

toccare. Ciò lasciò Nuñez molto perplesso, finché non pensò agli uccelli. [...] Quattro giorni trascorsero, e il quinto trovò il re dei ciechi ancora in incognito, tra i suoi sudditi, che lo consideravano semplicemente uno straniero goffo e inetto. [...] Descrisse le bellezze della vista, lo spettacolo dei monti, il cielo e l’alba; ma quelli stettero ad ascoltarlo, increduli e divertiti, passando ben presto alla disapprovazione. Gli dichiararono che invece i monti non esistevano, e che, là dove terminavano le rocce tra cui brucavano i lama, finiva il mondo; da quel punto sorgeva la copertura cavernosa dell’universo, dalla quale cadevano la rugiada e le valanghe; e quando egli si ostinò a sostenere che, contrariamente a quanto supponevano, il mondo non aveva fine né tetto, gli dissero che i suoi pensieri erano perversi. Il cielo, le nuvole, le stelle ch’egli si sforzava di descrivere come meglio poteva, a loro facevano l’impressione di un orrendo vuoto, di un terribile nulla in luogo del liscio tetto delle cose, in cui essi credevano: era articolo di fede che il tetto di quella caverna fosse deliziosamente liscio al tatto. [Dopo un grottesco tentativo di “coup d’État”, Nuñez - che gli indigeni chiamano Bogota – considerato una sorta di ritardato che ancora deve imparare, inizia a far parte della comunità come servo di Yacob. Nuñez si innamora della figlia del suo padrone, Medina-Saroté, e chiede al padre di poterla sposare. Yacob porta allora la questione agli anziani...] In seguito, poi, uno degli anziani, gran pensatore, ebbe un’idea [...]: - Queste strane cose chiamate occhi, che esistono per formare nel volto una lieve e piacevole depressione, in Bogota sono malate di modo che gli disturbano il cervello. Sono molto dilatate, hanno le ciglia, con palpebre che si muovono; di conseguenza, il suo cervello è in uno stato costante d’irritazione e di distruzione [...] Io credo di poter dire con ragionevole certezza che, per guarirlo completamente, non abbiamo da fare altro che una piccola operazione chirurgica, facile e semplice, cioè rimuovere questi elementi irritanti. Poi sarà perfettamente sano di mente, e un cittadino del tutto ammirevole. - Sia ringraziato il cielo per averci dato la scienza! - disse il vecchio Yacob, e se ne andò subito da Nuñez ad informarlo delle sue liete speranze. Ma gli parve proprio, con sua sorpresa, che Nuñez ricevesse la buona notizia con una freddezza molto deludente. Perciò gli disse: - Si potrebbe quasi credere, dal modo in cui parli, che di mia figlia non t’importi nulla. Fu Medina-saroté a convincere Nunez ad affrontare i chirurghi ciechi. Egli le disse: - Non vorrai, proprio tu, ch’io perda il mio dono della vista? Ella scosse la testa. - La vista è il mio mondo. Ella chinò ancor più la testa. - Ci sono le belle cose, piccole cose bellissime: i fiori, i licheni tra le rocce, la morbida lucentezza di una pelliccia, il cielo lontano con le nuvole che passano scivolando, i tramonti, le stelle. E ci sei tu. Solo per te è bello avere la vista, per vedere il tuo viso dolce e sereno, le tue labbra affettuose, le tue mani care e belle congiunte insieme... Questi miei occhi che tu hai conquistato, questi occhi che mi legano a te, quegli idioti me li vogliono togliere. Dovrei invece toccarti, sentirti, e non rivederti mai più. Dovrei anch’io venire sotto il tetto di roccia, di pietra, di tenebra, quell’orribile tetto sotto il quale si curva la vostra immaginazione.... No! Non vorrai ch’io faccia una cosa simile? Lo aveva assalito uno spiacevole dubbio. Si fermò, e lasciò l’interrogativo senza risposta. - Io vorrei - ella disse - a volte... - e s’interruppe. - Ebbene. - diss’egli, un poco in ansia. - Vorrei a volte... che tu non parlassi così. - Così, come? - So che è grazioso. E’ la tua fantasia. Mi piace tanto, “però”... Egli si sentì gelare. - Però? - fece, fievolmente. Ella rimase muta. - Tu vuoi dire... tu credi... ch’io starei meglio, starei meglio forse... [...]


Nella torre Riproponiamo i testi di Friedrich Hölderlin scelti dal compositore Gabrio Taglietti per la sua opera da camera “Nella torre”, ispirata alla vita del grande poeta tedesco

L’ autunno

Favole che la terra abbandonarono, dello spirito che fu e che ritorna, tornano agli uomini e molto noi impariamo dal tempo al breve volger del suo termine.

Le immagini passate la natura non lascia impallidir come fa il giorno; torna in terra a fin d’estate l’autunno e al veggente riappare in ciel lo spirito.

In breve tempo molte cose passano, presso l’aratro apparso il contadino vede che l’anno inclina al lieto fine, completo è il dì dell’uomo a tali immagini.

L’orizzonte di rocce coronato non dilegua di sera al par del nembo, esso con luce dorata si mostra, la Compiutezza è priva di lamento. La veduta

Quando lontano all’uom l’usata vita lontano va ove brilla la vendemmia, spoglio d’estate anche il campo rimane, il bosco col suo scuro volto appare.

Se la natura specchia le stagioni, se essa resta e quelle passan presto ciò è Compiutezza: il cielo all’uom rifulge come all’albero i fiori fan corona.

Hyperion 1 Un tempo io fui felice, Bellarmino! Non lo sono ancora? Non lo sarei, anche se il sacro momento in cui la vidi per la prima volta fosse stato l’ultimo? Se voglio parlare di lei devo dimenticare ciò ch’essa è nella sua interezza. Devo fingere che sia vissuta in tempi antichi, ch’io sappia qualcosa di lei per averlo sentito narrare, se non voglio che la vivente immagine di lei mi colga e ch’io mi perda nell’estasi e nel dolore, se non voglio morire una morte piena della gioia per lei e una morte di lutto per lei. Solo dovrei dimenticare il suo canto, solo quei suoni dell’anima non dovrebbero più tornare nei miei sogni incessanti. È incredibile che l’uomo debba temere la suprema bellezza, ma è così. Io stesso sono pur fuggito cento volte di fronte a questi istanti, a questa mortale voluttà dei miei ricordi, e ho volto altrove il mio sguardo, come un bambino davanti ai lampi! Una sola volta io l’ho visto, quell’unico che la mia anima cercava, e ho sentito presente quella perfezione che poniamo lontana, al di sopra delle stelle, che collochiamo alla fine del tempo. Era qui, il divino, qui nella sfera della natura umana e delle cose! Io non domando più dove sia; è stato nel mondo e può nel mondo tornare, ora è solo più nascosto in esso. Non chiedo più cosa sia: l’ho visto, l’ho conosciuto. O voi che cercate il sommo bene nelle profondità del sapere, nel tumulto dell’azione, nell’oscurità del passato, nel labirinto del futuro, nelle fosse o sopra le stelle! Sapete il suo nome? il nome di ciò che è uno e tutto? Il suo nome è bellezza. Sapevate ciò che volevate? Io ancora non lo so, ma ne ho il presagio: è il nuovo regno della nuova divinità, verso cui mi affretto, afferrando gli altri e portandoli con me, come il fiume conduce gli altri fiumi nell’oceano. E tu, tu mi hai indicato la via! Con te cominciai. Non sono degni di parole i giorni in cui non ti conoscevo ancora. O Diotima, Diotima, essere celeste! Hyperion 2 Bellarmino! Mai avevo provato così pienamente quell’antica e ferma parola del destino, che una nuova felicità sorge per il cuore se è in grado di reggerla e di superare la mezzanotte dell’angoscia e che, come un canto d’usignolo nelle tenebre, solo nel profondo dolore risuona per noi divino il canto di vita del mondo. Poiché ora io vivevo tra alberi in fiore come insieme a genii, e i chiari ruscelli che scorrevano a valle mi toglievano l’affanno dal cuore col loro mormorio simile a voce divina. Così mi abbandonai sempre più e quasi fin troppo perdutamente alla Natura beata. Avrei tanto voluto tornare bambino per starle accanto, avrei voluto sapere di meno ed essere come il puro raggio di luce per poter essere più vicino a lei! Come ghiaccio si discioglieva quanto avevo appreso e fatto nella vita, tutti i sogni della giovinezza risuonavano in me, e voi, cari che siete lontani, morti e vivi, quanto intimamente eravamo fusi in un tutto! Un giorno sedevo lontano in un campo, vicino a una sorgente, all’ombra di rocce ricoperte di edera verde e sovrastate da cespugli fioriti. Era il più bel meriggio che io conosca. Dolci venti spiravano e il paesaggio splendeva ancora avvolto dalla frescura mattutina e la luce sorrideva placida nel suo etere nativo; solo era il mio amore con la primavera e un’ineffabile nostalgia era in me. Diotima, esclamai, dove sei, dove sei? E mi parve di udire la voce di Diotima, la voce che un tempo mi dava serenità nei giorni felici. Sono coi miei, diceva, con i tuoi, che lo spirito umano smarrito disconosce. Un soave terrore mi colse e il mio pensiero si annebbiò: “Oh cara parola di bocca sacra, esclamai quando fui ridesto, caro enigma, ti afferro?” E ancora una volta riguardai alla fredda notte degli uomini e tremai e piansi di gioia perché ero così felice e dissi parole, mi sembra, ma erano come il crepitio della fiamma quando si alza e lascia la cenere dietro di sé. “Oh tu, Natura, con i tuoi dèi!,” pensai, “io ho finito di sognare il sogno delle cose umane e dico che tu sola vivi, e ciò che gli inquieti ricercano e inventano si scioglie come perle di cera alla tua fiamma! Liberi siamo! Noi non siamo divisi, Diotima, e le lacrime che ho pianto per te non lo capiscono. Suoni viventi noi siamo, ci accordiamo nella tua armonia, o Natura! Chi può romperla, chi può separare gli amanti? O anima, anima, bellezza del mondo! Indistruttibile, ammaliante! Con la tua eterna giovinezza! tu esisti, cos’è mai la morte e tutto il dolore degli uomini? Tutto nasce dal piacere, e tutto termina nella pace. Come un litigio fra amanti sono le dissonanze del mondo. Conciliazione è in mezzo al conflitto e tutto ciò che è stato diviso si ritrova. Le vene si dipartono dal cuore e al cuore ritornano e tutto è un’unica, eterna, ardente vita”. Così pensai. Presto avrai di nuovo mie notizie.

di ERMES e FAUSTO FAVA & C.

via Virgilio, 27 - 46047 BANCOLE di P. Mantovano (MN)

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telefono 0376 396260 tel e fax 0376 399386

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MANTOVA 18/27 giugno 2010 venerdi . 18 . giugno

ore 20.30 - Teatro Bibiena

IVO POGORELICH pianoforte / musiche di Chopin, Sibelius, Ravel ore 22.30 - P.zza Leon Battista Alberti

ZODIACO ELETTRICO Aidoru performs Karlheinz Stockhausen’s Tierkreis Mirko Abbondanza basso / Michele Bertoni chitarra, basso, batteria / Dario Giovannini chitarra Diego Sapignoli batteria, percussioni, campionamenti, glockenspiel, melodica, tastiera

sabato . 19 . giugno domenica . 20 . giugno

Les nuits chopiniennes PIANO di Franco Tomi - ore 22.30 il bicentenario della nascita di Fryderyk Chopin nelle case mantovane

Les nuits chopiniennes

Casa della Beata Osanna Andreasi - Casa Angelini - ore 22.30 - Entrata ad invito

lunedì . 21. giugno

ore 17.30 - Galleria Disegno

AI CONFINI DEL TEMPO con Shantena Augusto Sabbadini ore 18.30 - Galleria Disegno - 21/21/22 Giugno

DIALOGARE CON IL CASO seminario di Augusto Shantena Sabbadini ore 21.00 - Sala dei Cavalli di Palazzo Te

SOUNDS LIKE CHOPIN con Douglas Hofstatder / Leonardo Zunica, pianoforte musiche di Chopin, Emi (experiment in music intelligence), Hofstadter

martedì . 22 . giugno ore 22.30 - Madonna della Vittoria

NELLA TORRE Opera da camera in un atto su testi di Friedrich Hölderlin musica ed ideazione, Gabrio Taglietti / Sandro Lombardi, attore / Anna Ussardi, mezzosoprano Paolo Piubeni, pianoforte / Daniela Cima, flauto / Gabrio Taglietti, elettronica / Gianni Celati, voce registrata

Les nuits chopiniennes a Casa Guidi - ore 22.30 - Entrata ad invito mercoledì . 23 . giugno

ore 19.00 - Sala dei Cavalli di Palazzo Te

IL BUIO E LA LUCE con Giovanni Pasetti ore 20.00 - Sala dei Cavalli di Palazzo Te

CRYSTAL LIGHT... JUST BLACK LIGHT musiche di Luigi Manfrin, Fryderyk Chopin Gruppo 40.6 - pecussioni / pianoforte / live electronics ore 21.00 - Sala Polivalente di Palazzo Te

MUSICAXIMMAGINI a cura di Paolo Cavinato e Stefano Trevisi Sette cortometraggi realizzati dagli studenti dell’Istituto d’Arte Giulio Romano musiche originali di Corrado Malavasi - Nicola Lamborghini - Riccardo Caleffi ore 23.00 / 24.00 - Sala dei Giganti di Palazzo Te

IL PAESE DEI CIECHI lettura in penombra del racconto di Herbert George Wells Claudio Soldà, voce recitante / Stemax, flauto e live electronics

Les nuits chopiniennes a Casa Guidi - ore 22.30 - Entrata ad invito giovedì . 24 . giugno venerdì . 25 . giugno

Les nuits chopiniennes a Casa Diabolus in musica - ore 22.30 - Entrata libera ore 20.30 - Teatro del Bibiena

LA META’ DELL’OMBRA MM Company interpreti Susanna Giarola, Vincenzo Capezzuto, Giovanni Napoli, Enrico Morelli, Paolo Lauri coreografie Michele Merola ore 21.30 - Cortile d’onore di Palazzo Te

MURCOF LIVE SET ore 22.30 - Cortile Meridionale di Palazzo Te

L’ULTIMA RIGA DELLE FIABE Giovanna Venturini, Alice Zannoni, Enrico Morelli coreografie Michele Merola

info e biglietti via san longhino, 1/b

ore 21.00 - Esedra di Palazzo Te

numero verde 800.085992

domenica . 27 . giugno

www.tiketone.it

Leonardo Zunica + Flavia Casari, pianoforti / Carlo Miotto + Didier Bellon, percussioni Coro Ricercare Ensemble / Romano Adami, direttore / Umbero Guidoni, astroguida Musica di Gustav Holst

www.teatrofestival.org

THE PLANETS Gruppo 40.6


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