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numero 4 _ febbraio 09

transatlantico trimestrale dell’associazione Diabolus in Musica

• CHARLES BAUDELAIRE • GIORGIO RAIMONDI • CECILIA FONTANESI • FILIPPO TOMMASO MARINETTI • PAOLA SOMENZI • MICHELE EMMER • SIMONE BORGHI • IVAN FIACCADORI • GILLES DELEUZE • LEONARDO ZUNICA • LUIGI RUSSOLO • GABRIO TAGLIETTI •


trimestrale dell’associazione Diabolus in Musica

transatlantico

editoriale Dedichiamo questo numero di transatlantico al centenario della pubblicazione, su Le Figaro, il 20 febbraio del 1909, del Manifesto del futurismo. Unica fra le avanguardie italiane a corroborare la vita culturale europea, il futurismo ci lascia certo una mole di documenti e opere di qualità discontinua. Ma come non condividere, ridendo con gusto e nascondendo una certa amarezza dell’oggi, l’impeto di certe parole del manifesto, come non abbracciare immediatamente quelle invenzioni, prestandosi con stupore ai metallici gracidii degli intonarumori, alle scomposizioni di Boccioni, alle parole libere di Marinetti o Palazzeschi? O alle costruzioni di Sant’Elia? I futuristi erano certi che qualcuno, prima o poi, avrebbe preso (o rubato?) il loro posto. Non si tenevano stretti alla sedia. Fedeli ad una presenza istantanea, corrosiva, volevano che qualcuno presto li soppiantasse, carpendone lo spirito e forse anche l’ironia. Incenerendo, come essi avevano tentato di fare, la pesantezza di certa rinnovata accademia, i cortocircuiti di cui la società e la politica, in ogni generazione, si trova innervata. Essi sono stati fra gli inventori inconsapevoli di quella che qualche tempo fa si chiamava contro-cultura, atto legittimo di una dialettica oggi paradossalmente liquefatta nella cultura di massa, che ingloba tutto ma non offre nessuna alternativa plausibile. Ma se certa accademia teme ancora l’abolizione delle sue istanze, e il nuovo è parola di vigore consunto come quello di uno spettro, occorrerebbe forse guardare a quella forza rinnovatrice, a quell’impeto un po’ missionario, per recuperare fra le macerie, ancora una volta, ciò che vi è di buono.

Leonardo Zunica

direttore responsabile Leonardo Zunica redazione Leonardo Zunica Giovanna Venturini Micol Ferretti art director Paola Pradella editing Antonio Galuzzi hanno collaborato Simone Borghi Gabrio Taglietti Giorgio Raimondi Michele Emmer Paola Somenzi Cecilia Fontanesi Ivan Fiaccadori si ringraziano Cronopio edizioni Nicola Malaguti Gabriella Pauletti Giovanni Pasetti Daniele Bollea stampa FDA Eurostampa Borgosatollo BS

sommario

numero 4 _ febbraio 09

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L’arte dei rumori di Luigi Russolo Dal manifesto della danza futurista di Filippo Tommaso Marinetti

Che cos’è l‘atto di creazione (II) di Gilles Deleuze

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Conversazione con Ariella Vidach di Cecilia Fontanesi

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La casa e il cosmo di Simone Borghi

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Al di là del giornalismo di Paola Somenzi

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Attualità di Janácek ˇ di Gabrio Taglietti

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Un evento importante di Marco Tariello

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Editoriale Il mondo sta finendo di Charles Baudelaire

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in copertina “Marevento”di Giacomo Balla, collezione privata

Il caso Janácek ˇ di Leonardo Zunica

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Antropologia jazzistica di Giorgio Raimondi

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info transatlantico.mn@gmail.com dir.transatlantico@gmail.com

Opere grafiche di Gabriella Pauletti

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Visibili armonie di Michele Emmer

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Fondazione e manifesto del futurismo di Filippo Tommaso Marinetti

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Ogni cosa è (comunque) illuminata (II) di Leonardo Zunica

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Emilio Jesi, una vita per l’arte di Ivan Fiaccadori

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Associazione Culturale Diabolus in Musica Via Eremo, 37/A 46010 Curtatone MN www.diabolusinmusica.org www.eterotopie.it Registrato presso il Tribunale di Mantova N. 4/2008 Registro di stampa in data 16 Giugno 2008 Stampato in 2.000 copie

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Il mondo sta finendo

di Charles Baudelaire

Il mondo sta finendo. La sola ragione per la quale potrebbe durare, è che esso esiste. Questa ragione è debole, confrontata a tutte quelle che annunciano il contrario, particolarmente a questa: che cosa gli rimane ormai da fare sotto il cielo? — Perché, supponendo che esso continui ad esistere materialmente, sarà essa un esistenza degna di questo nome, tale da rientrare nel dizionario della storia? Non dico che il mondo sarà ridotto agli espedienti e al disordine buffonesco delle repubbliche del Sud-America — che forse ritorneremo allo stato di selvaggi e andremo, attraverso le rovine erbose della nostra civilizzazione, a cercare il nostro cibo, con il fucile alla mano. No; — perché questa sorte e queste avventure supporrebbero ancora una certa energia vitale, eco dei primi tempi. Nuovo esempio e nuove vittime delle inesorabili leggi morali, noi periremo laddove abbiamo creduto di vivere. La meccanica ci avrà talmente americanizzato, il progresso avrà così bene atrofizzato in noi tutte le nostri parti spirituali, che niente, tra i sogni sanguinari, sacrileghi, o anti-naturali degli utopisti, potrà essere confrontato ai suoi risultati positivi. Domando ad ogni uomo che pensa di mostrarmi cosa sussiste alla vita. Della religione credo sia inutile parlarne e cercarne i resti poiché darci la pena di negare Dio è il solo scandalo in simili materie. La proprietà era scomparsa virtualmente con la soppressione del diritto di nascita; ma verrà il tempo dove l’umanità, come un orco vendicatore, strapperà l’ultimo pezzo a quelli che hanno creduto essere gli eredi legittimi delle rivoluzioni. Ma ancora non sarà il male supremo. L’immaginazione umana può concepire, senza darsi troppa pena, repubbliche o altri stati comunitari, degni di una qualche gloria, se essi sono dirette da uomini sacri, da certi aristocratici. Ma non è particolarmente per una qualche istituzione politica che si manifesterà la rovina universale, o il progresso universale; poiché poco m’importa il nome. Sarà per l’avvilimento dei cuori. Devo proprio dire che il poco che resterà della politica si dibatterà penosamente nelle spire di una animalità generale, e che i governanti saranno costretti, per mantenere e per creare un fantasma d’ordine, a ricorrere a mezzi che farebbero fremere la nostra attuale umanità, anche se indurita? — Allora il figlio fuggirà dalle famiglie, non a diciotto anni, ma a dodici, emancipato dalla sua ingorda precocità; la fuggirà, non per cercare eroiche avventure, non per liberare una bellezza prigioniera in una torre, non per immortalare una misera soffitta di pensieri sublimi, ma per fondare un commercio, per arricchirsene, e per fare concorrenza al suo infame papà, — fondatore e azionista di un giornale che diffonderà i lumi e che farà considerare il

“Secolo” (Siècle, ndt) come un partigiano della superstizione. Allora, le errabonde, le declassate, coloro che hanno avuto qualche amante, e che talvolta chiamiamo Angeli, in ragione e in ringraziamento della sventatezza che brilla, luce del caso, nella loro esistenza logica come il male, — allora a costoro, dico, non saranno che saggezza impietosa, saggezza che condannerà tutto, all’infuori del denaro, tutto, anche gli errori dei sensi! ... Allora, ciò che assomiglierà alla virtù, — che dico, — tutto quello che non sarà l’ardore verso Pluto, sarà coperto di ridicolo. La giustizia, se in questa epoca fortunata può ancora esistere una giustizia, farà interdire i cittadini che non avranno saputo fare fortuna. — la tua sposa, o Borghese! la tua casta metà, la cui legittimità è per te poesia, introducendo ormai nella legalità una infamia irreprensibile, guardiana vigile e amorosa della tua cassaforte, non sarà che l’ideale perfetto della mantenuta. Tua figlia, con una infantile nubilità, sognerà nella sua culla, di vendersi per un milione. E tu stesso, oh Borghese, — meno poeta di quanto tu sia oggi, — tu non ci troverai niente da ridire; tu non avrai nulla di cui rammaricarti. Poiché ci sono delle cose nell’uomo, che si fortificano e prosperano nella misura in cui altre si rendono più delicate e si ammorbidiscono, e, grazie al progresso dei tempi, delle tue interiora non resteranno che budella! Quanto a me, che sento qualche volta il ridicolo d’un profeta, io so che non troverò mai la carità di un medico. Perduto in questo mondo bruto, sgomitato dalle folle, sono come un uomo stanco il cui occhio non vede indietro, negli anni profondi, che disillusione e amarezza, e davanti a lui che una tempesta in cui non vi è contenuto nulla di nuovo, né insegnamento, né dolore. La sera in cui quest’uomo ha rubato al destino qualche ora di piacere, cullato nella sua digestione, dimentico — per quanto possibile — del passato, contento del presente e rassegnato all’avvenire, inebriato dal suo sangue freddo e dal suo dandismo, fiero di essere meno spregevole di quelli che passano, si dice contemplando il fumo del suo sigaro: Che m’importa dove vanno quelle coscienze? Credo di essere andato alla deriva, verso quello che la gente del mestiere chiama antipasto. Eppure, lascerò queste pagine, — perché voglio datare la mia collera. Tristezza. (traduzione di Leonardo Zunica)

tratto da Charles Baudelaire JOURNAUX INTIMES FUSÉES / XV

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Che cos’è l’atto di creazione di Gilles Deleuze

continua dal numero 3_08

Un’idea cinematografica è, per esempio, la famosa dissociazione vedere-parlare in un tipo di cinema relativamente recente: Syberberg, gli Straub, Marguerite Duras, prendo solo gli esempi più noti. Che cosa c’è di comune e in che senso fare una disgiunzione fra il visivo e il sonoro è un’idea propriamente cinematografica? Perché non si può fare in teatro? O, almeno, lo si può anche fare, ma allora, se si fa in teatro e se il teatro trova dei mezzi, si potrà dire, salvo eccezioni, che il teatro l’ha presa in prestito dal cinema. Cosa che non è necessariamente un male. Ma assicurare la disgiunzione del vedere e del parlare, del visivo e del sonoro è un’idea talmente cinematografica che potrebbe essere una risposta alla domanda: che cos’è un’idea in cinema?

Una voce parla di qualcosa. Si parla di qualcosa. Allo stesso tempo ci viene mostrata un’altra cosa. E infine ciò di cui si parla è sotto ciò che si vede. Questo terzo punto è molto importante. Capite che è proprio questo che il teatro non può fare. Il teatro potrebbe fare sue le prime due operazioni: si parla di qualcosa e ci viene mostrato qualcos’altro. Ma che ciò di cui si parla si metta allo stesso tempo sotto ciò che ci viene mostrato – e questo è necessario perché altrimenti le prime due operazioni non avrebbero né senso né interesse – lo si può dire in un’altra maniera: la parola si leva nell’aria, mentre la terra che vediamo sprofonda sempre di più. O, meglio, mentre questa parola si leva nell’aria, ciò di cui essa ci parlava sprofonda sotto terra. Che cos’è allora, se c’è solo il cinema che possa farlo? Non dico che debba farlo, ma che il cinema l’ha fatto due o tre volte, posso dire solo che sono stati dei grandi registi ad avere avuto questa idea. Ecco un’idea cinematografica. È straordinario perché questo assicura, nel cinema, un’autentica trasformazione degli elementi, un ciclo che fa sì che improvvisamente il cinema sia in sintonia con una fisica qualitativa degli elementi. Questo produce una specie di trasformazione, una grande circolazione degli elementi nel cinema a partire dall’aria, dalla terra, dall’acqua e dal fuoco. Tutto questo non sopprime una storia. La storia resta, ma ciò che ci colpisce è che la storia sia così interessante solo per il fatto che c’è tutto questo, dietro di essa e con essa. In questo ciclo che ho appena definito così rapidamente – la voce si leva mentre ciò di cui essa parla si nasconde sotto terra – avrete sicuramente riconosciuto la maggioranza dei film degli Straub, il grande ciclo degli elementi negli Straub. Ciò che vediamo è sotto la terra deserta, ma questa terra deserta è per così dire gravida di tutto ciò che sta sotto. E mi direte: ma di quello che c’è sotto, che cosa ne sappiamo? È proprio di questo che la voce ci parla. Come se la terra si incurvasse sotto il peso di quanto la voce ci dice, sotto il peso di quanto viene a mettersi sotto terra a suo tempo e suo luogo. E se la voce ci parla di cadaveri, di tutta la stirpe dei cadaveri che prende posto sotto terra, in quello stesso momento il minimo fremito di vento sulla terra deserta, nello spazio vuoto che sta sotto i vostri occhi, il minimo vuoto in questa terra, tutto questo acquista senso. Mi dico che avere un’idea non è comunque dell’ordine della comunicazione. È a questo che vorrei arrivare. Non tutto ciò di cui si parla è riducibile alla comunicazione. Poco male. Che cosa vuol dire? In primo luogo che la comunicazione è la trasmissione e la propagazione di un’informazione. Ma che cos’è un’informazione? Non è difficile, tutti lo sanno, un’informazione è un insieme di parole d’ordine. Quando venite informati, vi dicono ciò che si presume

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tratto dal volume “Che cos’è l’atto di creazione” di G. Deleuze gentilmente concesso da Cronopio Edizioni

che crederete. In altri termini informare è far circolare una parola d’ordine. Le dichiarazioni della polizia sono chiamate giustamente dei comunicati. Ci comunicano informazione, ci dicono ciò che si presume che possiamo, dobbiamo o siamo tenuti a credere. O anche a non credere, ma facendo come se ci credessimo. Non ci viene chiesto di credere, ma di comportarci come se credessimo. Questa è l’informazione, la comunicazione, e senza queste parole d’ordine e senza la loro trasmissione, non c’è informazione, non c’è comunicazione. Ciò significa che l’informazione è proprio il sistema del controllo. È evidente, e oggi ci concerne particolarmente. È vero che stiamo entrando in una società che si può chiamare società di controllo. Un pensatore come Michel Foucault aveva analizzato due tipi di società abbastanza vicine a noi. Le prime, le chiamava società di sovranità e le seconde società disciplinari. Il passaggio tipico da una società di sovranità a una società disciplinare, lo faceva coincidere con Napoleone. La società disciplinare si definiva – le analisi di Foucault sono restate giustamente celebri – attraverso la costituzione di spazi di reclusione: prigioni, scuole, fabbriche, ospedali. Le società disciplinari ne avevano bisogno. Quest’analisi ha prodotto delle ambiguità in alcuni lettori di Foucault perché si è creduto che fosse il suo ultimo pensiero. Evidentemente no. Foucault non ha mai creduto che queste società disciplinari fossero eterne e lo ha detto molto chiaramente. Anzi pensava che stiamo entrando in un nuovo tipo di società. Certo, dappertutto ci saranno resti delle società disciplinari, ancora per anni e anni, ma sappiamo che siamo già in un altro tipo di società che bisognerebbe chiamare, secondo il termine proposto da Borroughs – per il quale Foucault aveva una grande ammirazione – società di controllo. Stiamo entrando in società di controllo che si definiscono molto diversamente dalle società di disciplina. Coloro che vegliano sul nostro bene, non avranno più bisogno di spazi di reclusione. Tutto questo, le prigioni, le scuole, gli ospedali, sono già un argomento di continue discussioni. Non sarebbe meglio dispensare le cure a domicilio? Sì, questo sarà probabilmente il futuro. Le officine, le fabbriche fanno acqua da tutte le parti. Non sarebbe meglio il subappalto o il lavoro a domicilio? Non ci sono altri mezzi per punire che non siano la prigione? Le società di controllo non passeranno più per gli spazi di reclusione. Neanche per la scuola. Bisogna stare attenti ai temi che nascono, che si svilupperanno tra quaranta o cinquant’anni e che ci dicono che la cosa formidabile sarà fare allo stesso tempo la scuola e la professione. Sarà interessante capire quali saranno l’identità della scuola e della professione

con la formazione permanente che è il nostro futuro e che non comporterà più necessariamente il raggruppamento di alunni in uno spazio chiuso. Il controllo non è la disciplina. Con un’autostrada non si reclude nessuno, ma facendo autostrade si moltiplicano i mezzi di controllo. Non dico che questo sia l’unico fine delle autostrade, ma si può andare in giro all’infinito e “liberamente” senza essere affatto reclusi, pur essendo completamente controllati. È questo il nostro futuro.

che cos’è che resiste alla morte? Basta guardare una statuetta di tremila anni avanti Cristo per trovare che la risposta di Malraux è in fondo una buona risposta. Si potrebbe dire allora, meno bene, dal punto di vista che è il nostro, che l’arte è ciò che resiste, anche se non è la sola cosa che resiste. Di qui il rapporto così stretto fra l’atto di resistenza e l’opera d’arte. Non ogni atto di resistenza è un’opera d’arte, benché, in un certo senso, lo sia. Non ogni opera d’arte è un atto di resistenza e tuttavia, in un certo senso, lo è.

Mettiamo che l’informazione sia questo: il sistema controllato delle parole d’ordine che valgono in una determinate società.

Che cosa vuol dire avere un’idea in cinema?

Che cosa può avere a che fare con questo l’opera d’arte? Non parliamo di opera d’arte, ma diciamo almeno che c’è contro-informazione. Ci sono dei paesi dittatoriali, nei quali, anche in condizioni particolarmente dure e crudeli, c’è controinformazione. Ai tempi di Hitler gli ebrei, che arrivavano dalla Germania ed erano i primi a dirci che c’erano i campi di sterminio, facevano controinformazione. Ma bisogna constatare che la controinformazione non è mai stata sufficiente a fare qualcosa. La contro-informazione non ha mai dato fastidio a Hitler. Tranne che in un caso. Qual è questo caso? È importante. La sola risposta è che la controinformazione diventa effettivamente efficace solo quando è – e lo è per natura – o diventa un atto di resistenza. E l’atto di resistenza non è né informazione né contro-informazione. La contro-informazione è effettiva solo quando diventa un atto di resistenza. Che rapporto ha l’opera d’arte con l’informazione? Nessuno. L’opera d’arte non è uno strumento di comunicazione. L’opera d’arte non ha niente a che fare con la comunicazione. L’opera d’arte non contiene letteralmente la minima informazione. C’è invece un’affinità fondamentale tra l’opera d’arte e l’atto di resistenza. Questo sì. Essa ha qualcosa a che fare con l’informazione e la comunicazione in quanto atto di resistenza. Qual è questo misterioso rapporto tra un’opera d’arte e un atto di resistenza, se gli uomini che resistono non hanno né il tempo né talvolta la cultura necessaria per avere il minimo rapporto con l’arte? Non so. Malraux sviluppa un bel concetto filosofico, dice una cosa molto semplice sull’arte, dice che è la sola cosa che resiste alla morte. Torniamo al principio: che cosa si fa quando si fa filosofia? Si inventano concetti. Secondo me questa è la base di un bel concetto filosofico. Riflettete...

Prendete il caso, per esempio, degli Straub, quando operano quella disgiunzione fra voce sonora e immagine visiva che essi prendono in questa maniera: la voce si leva, si leva, si leva, e ciò di cui ci parla passa sotto la terra nuda, deserta, che l’immagine visiva ci stava mostrando, immagine visiva che non aveva nessun rapporto diretto con l’immagine sonora. Ora qual è quest’atto di parola che si leva nell’aria mentre il suo oggetto passa sotto terra? Resistenza. Atto di resistenza. E in tutta l’opera degli Straub, l’atto di parola è un atto di resistenza. Da Mosé e Aronne all’ultimo Kafka (Rapporti di classe) passando attraverso – non cito nell’ordine – Nicht versöhnt o Bach (Cronaca di Anna Magdalena Bach). L’atto di parola di Bach – è la sua musica che è l’atto di resistenza, lotta attiva contro la ripartizione del sacro e del profano. Quest’atto di resistenza nella musica culmina in un grido. Così come c’è un grido in Woyzeck, c’è un grido anche in Bach: “Fuori, fuori! Andatevene, non voglio vedervi!”. Quando gli Straub lo sottolineano, questo grido, quello di Bach o quello della vecchia schizofrenica di Nicht versöhnt, tutto questo deve rendere conto di un duplice aspetto. L’atto di resistenza ha due facce. È umano ed è anche l’atto dell’arte. Solo l’atto di resistenza resiste alla morte, sotto forma di opera d’arte o sotto forma di una lotta di uomini. Che rapporto c’è fra la lotta umana e l’opera d’arte? Il rapporto più stretto e, secondo me, più misterioso. Proprio ciò che Paul Klee intendeva dire quando diceva: “Sapete, il popolo manca”. Il popolo manca e allo stesso tempo non manca. Il popolo manca vuol dire che questa affinità fondamentale tra l’opera d’arte e un popolo che non esiste non è ancora chiara e non lo sarà mai. Non c’è opera d’arte che non faccia appello a un popolo che non esiste ancora.

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la casa e il cosmo di Simone Borghi La musica o l’arte in senso lato non sono, secondo Deleuze e Guattari, un’esclusiva dell’uomo e del suo mondo. Nel mondo animale, infatti, possiamo facilmente trovare fenomeni che a tutti gli effetti, dicono i due filosofi, dobbiamo considerare artistici. Certo, per posizionarci in un tale punto di vista dobbiamo, da una parte, lasciarci dietro le spalle la nostra abitudine a porre una distanza o una netta frontiera fra l’uomo e l’animale; dall’altra, non vedere l’opera d’arte come il risultato del lavoro individuale di un soggetto, ma di un divenire espressivo molto più generale. Per queste ragioni, la nostra analisi unirà nella sua prima sezione l’estetica con l’etologia, prendendo in considerazione le teorie sul mondo animale di Von Uexküll e quelle sul territorio di Lorenz, ai quali Deleuze e Guattari fanno esplicito riferimento. In entrambi i casi vedremo come il pensiero dei due etologi venga accolto nel pensiero dei due filosofi francesi. Il problema non è affatto, comunque, quello di eguagliare l’uomo e l’animale, come neanche di spingerci verso un’ideale primitivismo o un’animalizzazione dell’umano. La vera questione sta invece nel dover porre un piano filosofico sul quale la distinzione fra naturale e artificiale perda di senso, per far posto a nozioni che ritagliano o distribuiscono il reale in modo sensibilmente diverso. Non più uomini, animali o vegetali, anche se continueremo ad usare questi termini, ma milieux (ambienti), territori, agencements (concatenamenti) e piani cosmici. Concetti, questi, che non tengono per nulla conto delle differenze di specie che siamo soliti utilizzare, poiché prendono in considerazione un’unica materia “quasi fluida” per tutti gli esseri, per tutte le realtà concrete o astratte che siano, e dei gradi di stabilità strutturale oppure di potenza creativa che possiamo di volta in volta discernere e valutare. Queste nozioni non rinviano dunque a strutture o ad archetipi sui quali i viventi si installerebbero, ma a tipologie di agglomerati di materia aventi ognuna le proprie possibilità espressive, così come le proprie forme più o meno rigide. Lo scopo di tali concetti è quello di permettere l’individuazione delle forze o dei movimenti attraversanti ogni essere, cioè di renderle pensabili, proprio nel senso in cui Klee diceva che l’arte deve “rendere visibile” e non riprodurre il visibile. I movimenti che analizzeremo sono: la codificazione, la decodificazione, la territorializzazione, la deterritorializzazione relativa e assoluta, e la riterritorializzazione. Analizzeremo dunque le forme di vita che popolano la filosofia di Deleuze e Guattari, dalle più semplici basate su dei codici fino alle instaurazioni di un piano cosmico informale, sul quale un materiale “molecolarizzato” con una sua propria valenza non ha più bisogno di una forma vera e propria che lo strutturi. La loro presentazione sarà sequenziale ma esse non dovranno essere pensate come i termini di un’evoluzione, bensì contemporanee e mescolate l’una nell’altra come all’interno, per così dire, di un caleidoscopio. La loro logica né strutturalista né gerarchica, o quello che potremmo dire il loro “libero gioco”, è ciò che il concetto di ritornello riassume in sé in quanto molteplicità qualitativa. Una logica del divenire che trascina nel suo complicato dinamismo, strutturante ed espressivo allo stesso tempo, a gradi e in modi di volta in volta diversi, tutto il vivente. In sottofondo, la presenza di Spinoza nel pensiero di Deleuze e Guattari è evidente: non più soggetti, non più coscienze o essenze, ma buoni o cattivi incontri, affetti positivi o negativi e gradi di potenza. L’analisi sul ritornello ci obbligherà inoltre a dover ripensare le nostre transatlantico6

classiche categorie di spazio e di tempo, aiutandoci con la riflessione di due compositori contemporanei ai quali Deleuze e Guattari devono molto: Olivier Messiaen e Pierre Boulez. Non più un solo tempo e un solo spazio dove tutti gli esseri viventi si muovono e svolgono la propria vita, ma una pluralità di durate e di spazi diversi a seconda delle situazioni. Non più soltanto il tempo come misura, ma anche come differenza, e non più lo spazio solo come estensione, ma anche come intensità. Raddoppieremo dunque le due nozioni e parleremo di due coppie concettuali in perenne commistione: uno spazio e un tempo tipico di una certa abitudine della materia, o di una ripetitività reiterata, che si mischiano rispettivamente ad un altro spazio e un altro tempo di natura diversa e ben più complicati da capire, appartenenti invece ad ogni atto espressivo o creativo. Gli uni sono sempre già dati, gli altri sono invece da “conquistare”. L’importanza del concetto di ritornello è allora evidente: non soltanto un’originale teoria del divenire, ma anche una nuova concezione dello spazio e del tempo. Dalla più piccola cellula all’organismo più complesso, è il ritornello che imprime o “produce” sia una ritmicità sia uno schema spaziale trascendentale, per il suo sviluppo detto regolare. Ma allo stesso tempo è sempre a causa del suo interno dinamismo che ogni organismo può essere costretto ad intraprendere un movimento espressivo, a rivedere i propri schemi spazio-temporali, e cioè a crearne di nuovi. Il ritornello non è una struttura, non ha una forma, perché è una forza o un complicato movimento che nel suo ripetersi dà di volta in volta risultati diversi. Verranno in luce infatti come due poli o due modi di pensarlo: il piccolo e il grande ritornello. Il concetto centrale di questo studio intrattiene poi col suono una stretta relazione, come testimonia la definizione dell’arte musicale dataci da Deleuze e Guattari, in quanto “attività che consiste nel deterritorializzare il ritornello”, essendo quest’ultimo il “contenuto proprio della musica”. Da una parte il presente lavoro è un’analisi del concetto di ritornello e, dall’altra, ha lo scopo di rendere chiara la definizione di musica di cui sopra. In filosofia, come in musica o nelle altre arti, si è creduto per lungo tempo di non poter pensare, comporre o dipingere, senza ricorrere a certe forme o luoghi privilegiati, ritenuti imprescindibili. Si riteneva impossibile fare musica senza le note, così come in filosofia si diceva: “Fuori della persona e dell’individuo, non distinguerete nulla!”. Senza le note c’era solo il rumore, ed al di là del soggetto solo un fondo indifferenziato, la notte dove tutte le mucche sono nere. Ma fra la fine del XIX° e l’inizio del XX° secolo, la nota ed il soggetto hanno subìto a ben vedere lo stesso destino, poiché si è scoperto che al di là di essi c’è un modo informale, e non per questo meno rigoroso, di organizzare i suoni, i pensieri o le proprie affezioni. E non si tratta, ben inteso, di abolire ogni uso delle note o della tonalità, ma di non esserne assoggettati. Presteremo un’attenzione particolare, dunque, ad un certo tipo di musica contemporanea, ma senza la minima intenzione di svalorizzare quella precedente.

tratto dal volume “La casa e il cosmo” Il ritornello e la musica nel pensiero di Deleuze e Guattari Ombre Corte, Verona 2008, pp. 7-9


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di Gabrio Taglietti

Parlare dell’attualità di Leóš Janáček può apparire una contraddizione in termini, trattandosi di un compositore per cui l’essere ‘moderno’ sembra essere una delle ultime preoccupazioni. La sua originalità non passa attraverso particolari ricerche nel campo dell’armonia; se dovessimo giudicarlo in base al gradiente di ‘emancipazione della dissonanza’ dovremmo anzi archiviarlo come un compositore piuttosto arretrato: il suo linguaggio armonico è sostanzialmente tonale, con solo qualche sfumatura modale, alquanto lontano, negli anni DieciVenti, dalle posizioni più avanzate dell’epoca, in particolare dalla Seconda scuola di Vienna. Del resto ciò ha a che fare con fattori anagrafici e biografici: ricordiamo che Janáček era nato in Moravia nel 1854, e aveva dunque vent’anni più di Schönberg, trentuno più di Berg. Le sue opere più significative nascono però quasi tutte nel suo ultimo decennio di vita, attorno ai settant’anni: tra il 1921 e il ‘28 in una straordinaria fioritura tardiva egli scrive i suoi più grandi capolavori, tra cui La piccola volpe astuta, i due Quartetti per archi, la Messa glagolitica e Da una casa di morti. Men che meno possiamo identificarlo con l’invenzione di un qualche sistema compositivo: la peculiarità della sua scrittura ha scoraggiato qualunque tipo di epigonismo, e nella storia Janáček è uno degli autori che vanta meno tentativi di imitazione. Né postulò mai una qualche necessità storica del nuovo: le uniche teorie da lui postulate riguardano l’orgogliosa affermazione dell’identità nazionale, la valorizzazione della musicalità della propria lingua e la ricerca della ‘verità’ espressiva, il che suona terribilmente vago o ingenuo. In effetti molti commentatori hanno proprio accusato Janáček di ingenuità; all’inizio del Novecento, gli stessi cechi guardavano a lui con un po’ di diffidenza, giudicandolo espressione di una cultura provinciale, legata al piccolo contesto di Brno. Eppure, paradossalmente, è proprio a partire da questo punto - o meglio: da una lettura assolutamente originale e radicale di questo punto - che si può cercare di comprendere l’originalità di Janáček, un’originalità ancora in grado di parlare alle orecchie contemporanee. Come sottolinea Milan Kundera, “le sue opere sono il massimo omaggio che mai sia stato reso alla lingua ceca, ma si tratta di un omaggio in forma di sacrificio, poiché Janáček ha immolato la sua musica universale a una lingua pressoché sconosciuta”1. La scelta quasi autosacrificale di chiudersi nel suo piccolo mondo può però essere letta in un senso assai particolare: ricordiamo che Deleuze e Guattari, parlando di Kafka, sostenevano come ogni transatlantico8


vera opera letteraria è in una certa misura l’invenzione di un linguaggio nuovo, quasi un dialetto, kafkianamente la costruzione di una “tana”: “Di grande, di rivoluzionario non c’è che il minore... Interessante la possibilità di fare della propria lingua un uso minore. Essere nella propria lingua come uno straniero...”2. Il lavoro di Janáček alla ricerca dell’adesione al tono e al ritmo della lingua parlata, guardando più alla propria piccola regione che a un più prestigioso palcoscenico internazionale, non ha nulla di superficialmente folcloristico: la sua è una ricerca della verità psicologica della musica come linguaggio umano, ma senza nulla di astratto, di volontaristico o cerebrale. In tal modo egli si costruisce un linguaggio musicale assolutamente personale e profondamente poetico: il tentativo di modellare (anche nella musica strumentale pura) la musica sul parlato quotidiano lo porta a lavorare quasi sempre su brevi cellule che, ripetute in modo quasi ossessivo, con minime varianti, vengono caricate di un’enorme energia espressiva. Ne è un esempio clamoroso il primo movimento del Concertino per pianoforte e 6 strumenti, basato interamente su un’unica cellula di tre note, con una radicalità che anticipa certe composizioni successive nel concepire la musica come costruzione di ‘oggetti sonori’. La ripetizione secondo una caleidoscopica tecnica di metamorfosi, apparentemente asistematica ma a in realtà assai raffinata e precisamente calcolata, è funzionale alla ricerca spasmodica del segreto contenuto emotivo del piccolo frammento. A questo proposito abbiamo un’illuminante testimonianza di Ludvík Kundera (padre di Milan) il quale racconta che, passando davanti alla casa di Janáček, lo si poteva sentire “martellare i tasti quanto più forte possibile, per lo più col pedale abbassato, suonando con le dita un motivo di un paio di note... Ripeteva quel motivo più volte, ora in forma identica, ora con qualche piccola variazione. Dalla vivacità con cui suonava si poteva capire quanto egli fosse preso e trascinato dal sentimento contenuto in quel motivo...”3. La stessa libertà inventiva, fatta di capricciose accensioni e brusche fermate, si può riscontrare nell’articolazione ritmica, metrica e formale della musica di Janáček. Pensiamo a certe battute apparentemente assurde di 1/4 che in realtà sono la rappresentazione del naturale respiro tra una frase e l’altra. Pensiamo a certi strani ritmi (il primo tema del Secondo Quartetto, ansante e inquieto nelle alternanze

di duine e terzine interrotte da pause) che seguono le asimmetrie della prosa, a certe sovrapposizioni metriche che sembrano riprodurre la naturale polifonia di una piccola folla al mercato. E anche la strumentazione offre colori assolutamente personali. Non tanto per l’uso di particolari impasti o effetti sonori, ma per la colorata fantasia ottenuta più per sottrazione che per addizione: una strumentazione che privilegia i timbri puri, con coraggiose e imprevedibili invenzioni, macchie violente di colore stese con dolcissima rabbia sulla tela. Pensiamo ad esempio al rullo di tamburo, quasi circense, che nel bel mezzo del Credo della Messa glagolitica compare al culmine di un crescendo per poi esplodere in un delirante assolo dell’organo. Mentre il discorso musicale, teso più a limare che a far proliferare, procede per giustapposizioni più che per trasformazioni: le figure retoriche più tipiche della sua musica sono l’irruzione e la lacerazione, l’alternarsi di zone di grande dolcezza ed espressività a episodi lancinanti e violenti (ricordiamo il mostruoso tremolo al ponticello nel finale del Secondo Quartetto). In tal modo Janáček costruisce un rapporto assolutamente nuovo e personale con il tempo della musica, in una sorta di narrazione che segue fedelmente le intermittenze della psiche in un vero e proprio elettrocardiogramma dell’anima, ora in spasmodiche accelerazioni, ora in fasi di totale stasi, di blocco del tempo. Come forse solo in Schubert o in Mahler, anche in Janáček il tema più banale può assumere l’aura della memoria che lo rende dolce e straziante al tempo stesso. Nel terzo movimento del Secondo Quartetto c’è un passaggio in cui risuona una melodia da orchestrina di località termale, e sembra - quasi inequivocabilmente - un messaggio cifrato alla donna amata: “Ricordi quel giorno, come eravamo felici?”. La musica di Janáček veramente mette a nudo il cuore dell’autore e altrettanto richiede all’ascoltatore: è una musica che, quando ci tocca, fa vibrare le nostre corde emotive più profonde, più nascoste e intime. Tutto ciò in una totale assenza di volontarismo ideologico e tuttavia nella piena assunzione di responsabilità nei confronti della storia e della propria opera. Oggi Janáček ci può forse servire da segnavia alla ricerca di una strada che eviti le secche di un malinteso modernismo ideologico, slegato dalla verità dell’ascolto, come pure il vicolo chiuso del postmoderno, che nell’indifferenza per la storia conduce inevitabilmente alla superficialità. Egli trovava

la propria originalità in quella che si potrebbe definire una semplicità necessaria, risultato di una depurazione della complessità, di un duro lavoro di sfrondamento del superfluo fino a trovare l’essenziale. In un percorso che non parte da astratte verità, ma sempre va alla ricerca della necessità interiore di ogni evento sonoro, della poesia insita in ogni oggetto, per comune o bizzarro che sia. D’altronde la capacità di rileggere in modo creativo oggetti apparentemente banali è molto evidente anche nelle opere teatrali di Janáček, nel modo come egli rilegge e adatta i testi originali. La piccola volpe astuta, ad esempio, si basa come è noto su una serie di disegni umoristici pubblicati su un piccolo giornale locale: le avventure di una giovane volpe in un piccolo ambiente rurale. In questa storia semplice (si narra che la sua cameriera ne fosse un’appassionata lettrice) Janáček introduce qualche piccolo ma significativo cambiamento: la volpe, simbolo della libertà, della giovinezza e dell’amore, a un certo punto viene uccisa da un bracconiere. Ma la vita continua. Così alla fine può scattare il colpo di genio, che con un piccolo tocco poetico dà il senso a tutta l’opera. Il guardiacaccia, che un anno prima aveva catturato la piccola volpe cercando inutilmente di addomesticarla, la sogna; svegliandosi cerca di afferrarla e si trova fra le mani una rana (come esattamente un anno prima): “Io già ti conosco!”, le dice. “No, risponde il ranocchio, quello che tu conoscevi era mio nonno, che infatti mi aveva raccontato di te!”. Con questo piccolo episodio che chiude ciclicamente l’opera Janáček ci dice che la vita è appunto questo, una continua rinascita dopo la morte, nel tempo che inesorabilmente trascorre: La piccola volpe astuta si trasforma così (senza inutili enfasi, quasi inavvertitamente) da piccola storia comica a fumetti in una parabola bellissima e straziante sulla nostalgia dell’anziano per la vita che ora è inevitabilmente alle sue spalle. Una nostalgia dolce e struggente, senza recriminazioni, di chi ha vissuto fino in fondo e contempla lo scorrere del tempo con serenità e tenerezza. 1

Milan Kundera, I testamenti traditi, Milano 1994.

2

Deleuze-Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, Macerata 1999.

3

Cit. in Jaroslav Vogel, Leóš Janáček, Kassel-Prag 1958.

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di Leonardo Zunica

stesura della partitura pianistica del “Diario di uno scomparso”, considerata oggi uno dei capolavori di Janáček. In seguito, dopo la morte del compositore (1928) curerà l’edizione critica delle opere pianistiche. Poco importa se vedremo poi Milan sbizzarrirsi come pianista jazz nei locali parigini.

Il caso Janáček Se si sfoglia la lista dei personaggi famosi e illustri (Famous Czech People) nati tra i confini della Cecoslovacchia (e della Repubblica Ceca) non si può non rimanere stupiti dalla moltitudine “rumorosa” di scrittori, musicisti, poeti. Tra i primi troviamo Bohumil Hrabal, autore di prose metalliche e vorticose, Milan Kundera, Max Brod e Franz Kafka, ovviamente. Ancora nel catalogo: Milos Forman, regista di Amadeus, film girato molto a Praga, e anche un criminale, tale Victor Lustig, truffatore sui transatlantici di spola fra Parigi e New York, l’uomo che vendette la Tour Eiffel, e che tentò di truffare anche Al Capone, che finì per marcire ad Alcatraz. Fra i compositori e musicisti Antonin Dvořák, l’onnipresente Smetana e il dimenticato Erwin Schulhoff, fra i primi del secolo scorso a sentirsi attratto dalle calde atmosfere del jazz (Hotmusic) e ad ammettere la musica fra le arti dadaiste: con In Futurum compone un intricato pezzo fatto di sole pause, anticipando John Cage. Non dimentichiamo inoltre la sua versione musicale del “Manifesto del Partito Comunista”. Non da ultimo l’impegnato Leós Janáček. Appaiono pianisti nella lista: Rudolf Firkusny, Ivan Morawetz (entrambi presenti nella ormai storica collana di CD della Sony, Great Pianists of the Century) e ancora Ignaz Moscheles, autore ottocentesco ed autoritario di un celebre metodo (nel quale appare anche il contributo di Chopin con tre delicatissimi Etudes). Vi troviamo anche un amico e allievo di Janáček, Ludwig Kundera, padre di Milan. Infine, Alfred Brendel, che ha lasciato recentemente la scena concertistica per dedicarsi alla scrittura e alle conferenze. Fra i boemi di lingua tedesca Gustav Mahler, Adolf Loos, Reiner Maria Rilke, Adalbert Stifter, Franz Werfel, Gustav Meyrink, autore de il Golem, romanzo orrorifico. Ne I testamenti traditi, Milan Kundera si sofferma a lungo su due compositori: Igor Stravinsky e Leós Janáček. Stupisce la perizia con cui Kundera affronta gli argomenti musicali e come insista, partendo dal complesso rapporto Brod/Kafka, sul fatto ricorrente che spesso interpreti e lettori tradiscono le intenzioni più intime e più chiare degli autori, quelle intenzioni che il testo, nella sua chiarezza, esibisce senza ambiguità, senza possibilità alcuna di tradimento. Sembra una querelle tutta fra cechi: Brod che tradisce Kafka, gli esecutori che tradiscono Janáček. Brod è stato anche il primo biografo di Janáček. La prossimità di Milan Kundera a Janáček è il trait d’union tra Kundera e la musica. Il padre di Milan, Ludvik, pianista e musicologo – che impartisce al figlio una educazione musicale - diventa assistente e collaboratore di Janáček, e aiuta il compositore boemo alla transatlantico10

L’incontro di chi scrive con la musica di Janáček fu qualche anno fa, alla Hochschule di Vienna. Un amico austriaco mi aveva fatto ascoltare un disco con musiche pianistiche del compositore di Brno, interpretate da Ivan Morawetz, che avevo incontrato qualche anno prima. Al ritorno da Vienna il mio maestro mi diede la partitura della Sonata “1.x.1905” per pianoforte, dicendomi che non era musica che poteva piacere molto al pubblico. Pensai per la prima volta che cosa potesse veramente piacere al pubblico. Forse pensai per la prima volta al pubblico. Il secondo tempo della Sonata è intitolato Smrt ed è l’atto finale di un dramma, storia di un operaio ucciso. Smrt in ceco vuol dire “morte” e non poteva che essere raffigurata da una parola che si tronca in bocca, fatta di sole consonanti. La produzione delle opere significative di Janáček è pressoché concentrata negli ultimi vent’anni della sua vita: Sonata per pianoforte e Sonata per violino e pianoforte – Quartetto La Sonata a Kreutzer e Quartetto Lettere Intime, – Diario di Uno Scomparso – Nella Nebbia (pianoforte) – Concertino e Capriccio composto per il pianista – monco Paul Wittgenstein, fratello di Ludwig – Messa Glagolitica – La volpe astuta – Da una casa di morti – L’affare Makropulos.

Appuntamenti in Conservatorio, Auditorium Monteverdi MantovaMusicaContemporanea 3 Aprile 2009 Ensemble Contemporaneo, direttore Gabrio Taglietti Leonardo Zunica, pianoforte Musiche di Wolff, Crumb, Janáček 4 Aprile 2009 Oleksandr Semchuk, violino Leonardo Zunica, pianoforte Musiche di Schubert, Messiaen, Ravel, Janáček

Le sue composizioni sono fatte di momenti, cellule di un inventiva che sembra presentarsi immediatamente al compositore, e fissata sulla carta - e che l’esecutore acquisisce come gesto, a volte anche parossistico. Il suo linguaggio armonico è l’espressione di tale parossismo. Un linguaggio che scava se stesso. Attraverso le lettura di Hemholtz, con un paziente lavoro, Janáček considera aspetti della dissonanza che lo portano ad allontanarsi dalle regole ferree dell’armonia tradizionale, come fissandosi su frequenze, su vortici di suono. Dirà in seguito: “la storia della musica è un percorso di adattamento dell’uomo alle dissonanze”. Per fare ciò il suo istinto aveva bisogno di una pratica decennale. Alcuni i presunti aborti distrutti dal compositore. Emblematico il caso della Sonata per pianoforte: appena ascoltata, Janáček ritenne opportuno distruggerla; bruciò il terzo movimento e gettò i manoscritti dei primi due nel fiume Vltava. Il salvataggio fu operato dalla stessa pianista che eseguì per la prima volta l’opera. Ma era riuscita a ricopiarne solo i primi due movimenti.


pastello, tempera, carboncino su carta

zattere

Gabriella Pauletti

Opere grafiche

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pastello, carboncino su cartongesso

senza titolo

pastello, ferro e gesso su cartongesso

senza titolo


FONDAZIONE E MANIFESTO DEL FUTURISMO

di Filippo Tommaso Marinetti

Avevamo vegliato tutta la notte -i miei amici ed io- sotto lampade di moschea dalle cupole di ottone traforato, stellate come le nostre anime, perché come queste irradiate dal chiuso fulgòre di un cuore elettrico. Avevamo lungamente calpestata su opulenti tappeti orientali la nostra atavica accidia, discutendo davanti ai confini estremi della logica ed annerendo molta carta di frenetiche scritture. Un immenso orgoglio gonfiava i nostri petti, poiché ci sentivamo soli, in quell’ora, ad esser desti e ritti, come fari superbi o come sentinelle avanzate, di fronte all’esercito delle stelle nemiche, occhieggianti dai loro celesti accampamenti. Soli coi fuochisti che s’agitavano davanti ai forni infernali delle grandi navi, soli coi neri fantasmi che frugano nelle pance arroventate delle locomotive lanciate a pazza corsa, soli cogli ubriachi annaspanti, con un incerto batter d’ali, lungo i muri della città. Sussultammo ad un tratto, all’udire il rumore formidabile degli enormi tramvai a due piani, che passavano sobbalzando, risplendenti di luci multicolori, come i villaggi in festa che il Po straripato squassa e sràdica d’improvviso, per trascinarli fino al mare, sulle cascate e attraverso i gorghi di un diluvio. Poi il silenzio divenne più cupo. Ma mentre ascoltavamo l’estenuato borbottio, di preghiere del vecchio canale e lo scricchiolar d’ossa dei palazzi moribondi sulle loro barbe di umida verdura, noi udimmo subitamente ruggire sotto le finestre gli automobili famelici. - Andiamo, diss’io; andiamo amici! Partiamo! Finalmente, la mitologia e l’ideale mistico sono superati. Noi stiamo per assistere alla nascita del Centauro e presto vedremo volare i primi Angeli!... Bisognerà scuotere le porte della vita per provarne i cardini e i chiavistelli!...Partiamo! Ecco, sulla terra, la primissima aurora! Non v’è cosa che agguagli lo splendore della rossa spada del sole che schermeggia per la prima volta nelle nostre tenebre millenarie!... Ci avvicinammo alle tre belve sbuffanti, per palparne amorosamente i torridi petti. Io mi stesi sulla mia macchina come un cadavere nella bara, ma subito risuscitai sotto il volante, lama di ghigliottina che minacciava il mio stomaco. La furente scopa della pazzia ci strappò a noi stessi e ci cacciò attraverso le vie, scoscese e profonde come letti di torrenti. Qua e là una lampada malata, dietro i vetri d’una finestra, ci insegnava a disprezzare la fallace matematica dei nostri occhi perituri. Io gridai: - Il fiuto, il fiuto solo, basta alle belve! E noi, come giovani leoni, inseguivamo la Morte, dal pelame nero maculato di pallide croci, che correva via pel vasto cielo violaceo, vivo e palpitante. Eppure non avevamo un’Amante ideale che ergesse fino alle nuvole la sua sublime figura, né una Regina crudele a cui offrire le nostre salme, contorte a guisa di anelli bisantini! Nulla, per voler morire, se non il desiderio di liberarci finalmente dal nostro coraggio troppo pesante! E noi correvamo schiacciando su le soglie delle case i cani da guardia che si arrotondavano, sotto i nostri pneumatici scottanti, come solini sotto il ferro da stirare. La Morte, addomesticata, mi sorpassava ad ogni svolto, per porgermi la zampa con grazia, e a quando a quando si stendeva a terra con un rumore di mascelle stridenti, mandandomi, da ogni pozzanghera, sguardi vellutati e carezzevoli. - Usciamo dalla saggezza come da un orribile guscio, e gettiamoci, come frutti

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pimentati d’orgoglio, entro la bocca immensa e tôrta del vento!... Diamoci in pasto all’Ignoto, non già per disperazione, ma soltanto per colmare i profondi pozzi dell’Assurdo! Avevo appena pronunziate queste parole, quando girai bruscamente su me stesso, con la stessa ebrietà folle dei cani che voglion mordersi la coda, ed ecco ad un tratto venirmi incontro due ciclisti, che mi diedero torto, titubando davanti a me come due ragionamenti, entrambi persuasivi e nondimeno contraddittorii. Il loro stupido dilemma discuteva sul mio terreno... Che noia! Auff!... Tagliai corto, e, pel disgusto, mi scaraventai colle ruote all’aria in un fossato... Oh! Materno fossato, quasi pieno di un’acqua fangosa! Bel fossato d’officina! Io gustai avidamente la tua melma fortificante, che mi ricordò la santa mammella nera della mia nutrice sudanese... Quando mi sollevai -cencio sozzo e puzzolente- di sotto la macchina capovolta, io mi sentii attraversare il cuore, deliziosamente, dal ferro arroventato della gioia! Una folla di pescatori armati di lenza e di naturalisti podagrosi tumultuava già intorno al prodigio. Con cura paziente e meticolosa, quella gente dispose alte armature ed enormi reti di ferro per pescare il mio automobile, simile a un gran pescecane arenato. La macchina emerse lentamente dal fosso, abbandonando nel fondo, come squame, la sua pesante carrozzeria di buon senso e le sue morbide imbottiture di comodità. Credevano che fosse morto, il mio bel pescecane, ma una mia carezza bastò a rianimarlo, ed eccolo risuscitato, eccolo in corsa, di nuovo, sulle sue pinne possenti! Allora, col volto coperto della buona melma delle officine -impasto di scorie metalliche, di sudori inutili, di fuliggini celesti- noi, contusi e fasciate le braccia ma impavidi, dettammo le nostre prime volontà a tutti gli uomini vivi della terra:


9. Noi vogliamo glorificare la guerra -sola igiene del mondo- il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertarî, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna. 10. Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d’ogni specie, e combattere contro il moralismo, il femminismo e contro ogni viltà opportunistica o utilitaria. 11. Noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere o dalla sommossa: canteremo le maree multicolori o polifoniche delle rivoluzioni nelle capitali moderne; canteremo il vibrante fervore notturno degli arsenali e dei cantieri incendiati da violente lune elettriche; le stazioni ingorde, divoratrici di serpi che fumano; le officine appese alle nuvole pei contorti fili dei loro fumi; i ponti simili a ginnasti giganti che scavalcano i fiumi, balenanti al sole con un luccichio di coltelli; i piroscafi avventurosi che fiutano l’orizzonte, le locomotive dall’ampio petto, che scalpitano sulle rotaie, come enormi cavalli d’acciaio imbrigliati di tubi, e il volo scivolante degli aeroplani, la cui elica garrisce al vento come una bandiera e sembra applaudire come una folla entusiasta.

20 febbraio 1909 MANIFESTO DEL FUTURISMO 1. Noi vogliamo cantare l’amor del pericolo, l’abitudine all’energia e alla temerità. 2. Il coraggio, l’audacia, la ribellione, saranno elementi essenziali della nostra poesia. 3. La letteratura esaltò fino ad oggi l’immobilità pensosa, l’estasi e il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno. 4. Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità. Un automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo... un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia. 5. Noi vogliamo inneggiare all’uomo che tiene il volante, la cui asta ideale attraversa la Terra, lanciata a corsa, essa pure, sul circuito della sua orbita. 6. Bisogna che il poeta si prodighi, con ardore, sfarzo e munificenza, per aumentare l’entusiastico fervore degli elementi primordiali. 7. Non v’è più bellezza, se non nella lotta. Nessuna opera che non abbia un carattere aggressivo può essere un capolavoro. La poesia deve essere concepita come un violento assalto contro le forze ignote, per ridurle a prostrarsi davanti all’uomo. 8. Noi siamo sul promontorio estremo dei secoli!... Perché dovremmo guardarci alle spalle, se vogliamo sfondare le misteriose porte dell’Impossibile? Il Tempo e lo Spazio morirono ieri. Noi viviamo già nell’assoluto, poiché abbiamo già creata l’eterna velocità onnipresente.

È dall’Italia, che noi lanciamo pel mondo questo nostro manifesto di violenza travolgente e incendiaria, col quale fondiamo oggi il «Futurismo», perché vogliamo liberare questo paese dalla sua fetida cancrena di professori, d’archeologi, di ciceroni e d’antiquarii. Già per troppo tempo l’Italia è stata un mercato di rigattieri. Noi vogliamo liberarla dagl’innumerevoli musei che la coprono tutta di cimiteri innumerevoli. Musei: cimiteri!... Identici, veramente, per la sinistra promiscuità di tanti corpi che non si conoscono. Musei: dormitorî pubblici in cui si riposa per sempre accanto ad esseri odiati o ignoti! Musei: assurdi macelli di pittori e scultori che vanno trucidandosi ferocemente a colpi di colori e linee, lungo le pareti contese! Che ci si vada in pellegrinaggio, una volta all’anno, come si va al Camposanto nel giorno dei morti... ve lo concedo. Che una volta all’anno sia deposto un omaggio di fiori davanti alla Gioconda, ve lo concedo... Ma non ammetto che si conducano quotidianamente a passeggio per i musei le nostre tristezze, il nostro fragile coraggio, la nostra morbosa inquietudine. Perché volersi avvelenare? Perché volere imputridire? E che mai si può vedere, in un vecchio quadro, se non la faticosa contorsione dell’artista, che si sforzò di infrangere le insuperabili barriere opposte al desiderio di esprimere interamente il suo sogno?...Ammirare un quadro antico equivale a versare la nostra sensibilità in un’urna funeraria, invece di proiettarla lontano, in violenti getti di creazione e di azione. Volete dunque sprecare tutte le forze migliori, in questa eterna ed inutile ammirazione del passato, da cui uscite fatalmente esausti, diminuiti e calpesti? In verità io vi dichiaro che la frequentazione quotidiana dei musei, delle biblioteche e delle accademie (cimiteri di sforzi vani, calvarii di sogni crocifissi, registri di slanci stroncati!...) è, per gli artisti, altrettanto dannosa che la tutela prolungata dei parenti per certi giovani ebbri del loro ingegno e della loro volontà ambiziosa. Per i moribondi, per gl’infermi, pei prigionieri, sia pure: -l’ammirabile passato è forse un balsamo ai loro mali, poiché per essi l’avvenire è sbarrato... Ma noi non vogliamo più saperne, del passato, noi, giovani e forti, futuristi! E vengano dunque, gli allegri incendiarii dalle dita carbonizzate! Eccoli! Eccoli!... Suvvia! date fuoco agli scaffali delle biblioteche!... Sviate il corso dei canali, per inondare i musei!... Oh, la gioia di veder galleggiare alla deriva, lacere e stinte su quelle acque, le vecchie tele gloriose!... Impugnate i picconi, le scuri, i martelli e demolite senza pietà le città venerate! I più anziani fra noi, hanno trent’anni: ci rimane dunque almeno un decennio per compiere l’opera nostra. Quando avremo quarant’anni, altri uomini più giovani e più validi di noi, ci gettino pure nel cestino, come manoscritti inutili - Noi lo desideriamo! Verranno contro di noi, i nostri successori; verranno di lontano, da ogni parte, danzando su la cadenza alata dei loro primi canti, protendendo dita adunche di predatori, e fiutando caninamente, alle porte delle accademie, il buon odore delle nostre menti in putrefazione, già promesse alle catacombe delle biblioteche. Ma noi non saremo là... Essi ci troveranno alfine -una notte d’inverno- in aperta campagna, sotto una triste tettoia tamburellata da una pioggia monotona, e ci vedranno accoccolati accanto ai nostri aeroplani trepidanti e nell’atto di scaldarci le mani al fuocherello meschino che daranno i nostri libri d’oggi fiammeggiando sotto il volo delle nostre immagini. Essi tumultueranno intorno a noi, ansando per angoscia e per dispetto, e tutti, esasperati dal nostro superbo, instancabile ardire, si avventeranno per ucciderci, spinti da un odio tanto più implacabile inquantoché i loro cuori saranno ebbri di amore e di ammirazione per noi. La forte e sana Ingiustizia scoppierà radiosa nei loro occhi. - L’arte, infatti, non può essere che violenza, crudeltà e ingiustizia. I più anziani fra noi hanno trent’anni: eppure, noi abbiamo già sperperati tesori, mille tesori di forza, di amore, d’audacia, d’astuzia e di rude volontà; li abbiamo gettati via impazientemente, in furia, senza contare, senza mai esitare, senza riposarci mai, a perdifiato... Guardateci! Non siamo ancora spossati! I nostri cuori non sentono alcuna stanchezza, perché sono nutriti di fuoco, di odio e di velocità!... Ve ne stupite?... È logico, poiché voi non vi ricordate nemmeno di aver vissuto! Ci opponete delle obiezioni?...Basta! Basta! Le conosciamo... Abbiamo capito!... La nostra bella e mendace intelligenza ci afferma che noi siamo il riassunto e il prolungamento degli avi nostri. -Forse!... Sia pure!... Ma che importa? Non vogliamo intendere!... Guai a chi ci ripeterà queste parole infami!... Alzare la testa!... Ritti sulla cima del mondo, noi scagliamo, una volta ancora, la nostra sfida alle stelle!...

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l’Arte dei Rumori Caro Balilla Pratella, grande musicista futurista, A Roma, nel Teatro Costanzi affollatissimo, mentre coi miei amici futuristi Marinetti, Boccioni, Carrà, Balla, Soffici, Papini, Cavacchioli, ascoltavo l’esecuzione orchestrale della tua travolgente MUSICA FUTURISTA mi apparve alla mente una nuova arte che tu solo puoi creare: l’Arte dei Rumori, logica conseguenza delle tue meravigliose innovazioni. La vita antica fu tutta silenzio. Nel diciannovesimo secolo, coll’invenzione delle macchine, nacque il Rumore. Oggi, il Rumore trionfa e domina sovrano sulla sensibilità degli uomini. Per molti secoli la vita si svolse in silenzio, o, per lo più, in sordina. I rumori più forti che interrompevano questo silenzio non erano nè intensi, né prolungati, né variati. Poiché, se trascuriamo gli eccezionali movimenti tellurici, gli uragani, le tempeste, le valanghe e le cascate, la natura è silenziosa. In questa scarsità di rumori, i primi suoni che l’uomo poté trarre da una canna forata o da una corda tesa, stupirono come cose nuove e mirabili. Il suono fu dai popoli primitivi attribuito agli dèi, considerato come sacro e riservato ai sacerdoti, che se ne servirono per arricchire di mistero i loro riti. Nacque così la concezione del suono come cosa a sé, diversa e indipendente dalla vita, e ne risultò la musica, mondo fantastico sovrapposto al reale, mondo inviolabile e sacro. Si comprende facilmente come una simile concezione della musica dovesse necessariamente rallentarne il progresso, a paragone delle altre arti. I Greci stessi, con la loro teoria musicale matematicamente sistemata da Pitagora, e in base alla quale era ammesso soltanto l’uso di pochi intervalli consonanti, hanno molto limitato il campo della musica, rendendo così impossibile l’armonia, che ignoravano. Il Medio Evo, con gli sviluppi e le modificazioni del sistema greco del tetracordo, col canto gregoriano e coi canti popolari, arricchì l’arte musicale, ma continuò a considerare il suono nel suo svolgersi nel tempo, concezione ristretta che durò per parecchi secoli e che ritroviamo ancora nelle più complicate polifonie dei contrappuntisti fiamminghi. Non esisteva l’accordo; lo sviluppo delle parti diverse non era subordinato all’accordo che queste parti potevano produrre nel loro insieme; la concezione, infine, di queste parti era orizzontale, non verticale. Il desiderio, la ricerca e il gusto per l’unione simultanea dei diversi suoni, cioè per l’accordo (suono complesso) si manifestarono gradatamente, passando dall’accordo perfetto assonante e con poche dissonanze di passaggio alle complicate e persistenti dissonanze che caratterizzano la musica contemporanea. L’arte musicale ricercò ed ottenne dapprima la purezza, la limpidezza e la dolcezza del suono, indi amalgamò suoni diversi, preoccupandosi però di accarezzare l’orecchio con soavi armonie. Oggi l’arte musicale, complicandosi sempre più, ricerca gli amalgami di suoni più dissonanti, più strani e più aspri per l’orecchio. Ci avviciniamo così sempre più al suono-rumore. Questa evoluzione della musica è parallela al moltiplicarsi delle macchine, che collaborano dovunque coll’uomo. Non soltanto nelle atmosfere fragorose delle grandi città, ma anche nelle campagne, che furono fino a ieri normalmente silenziose, la macchina ha oggi creato tanta varietà e concorrenza di rumori, che il suono puro, nella sua esiguità e monotonia, non suscita più emozione. Per eccitare ed esaltare la nostra sensibilità, la musica andò sviluppandosi verso la più complessa polifonia e verso la maggior varietà di timbri o coloriti strumentali, ricercando le più complicate successioni di accordi dissonanti e preparando vagamente la creazione del rumore musicale. Questa evoluzione verso il “suono rumore” non era possibile prima d’ora. L’orecchio di un uomo del settecento non avrebbe potuto sopportare l’intensità disarmonica di certi accordi prodotti dalle nostre orecchie (triplicate nel numero degli esecutori rispetto a quelle di allora). Il nostro orecchio invece se ne compiace, poiché fu già educato dalla vita moderna, così prodiga di rumori svariati. Il nostro orecchio però se ne accontenta, e reclama più ampie emozioni acustiche. D’altra parte, il suono musicale è troppo limitato nella varietà qualitativa dei timbri. Le più complicate orchestre si riducono a quattro o cinque classi di strumenti ad arco, a pizzico, a fiato in metallo, a fiato in legno, a percussione. Cosicché la musica moderna si dibatte in questo piccolo cerchio, sforzandosi vanamente di creare nuove varietà di timbri. Bisogna rompere questo cerchio ristretto di suoni puri e conquistare la varietà infinita dei “suonirumori”. Ognuno riconoscerà d’altronde che ogni suono porta con sé un viluppo di sensazioni già note e sciupate, che predispongono l’ascoltatore alla noia, malgrado gli sforzi di tutti i musicisti novatori. Noi futuristi abbiamo tutti profondamente amato e gustato le armonie dei grandi maestri. Beethoven e Wagner ci hanno squassato i nervi e il cuore per molti anni. Ora ne siamo sazi e godiamo molto più nel combinare idealmente dei rumori di tram, di motori a scoppio, di carrozze e di folle vocianti, che nel riudire, per esempio, l’”Eroica” o la “Pastorale”. Non possiamo vedere quell’enorme apparato di forze che rappresenta un’orchestra moderna senza provare la più profonda delusione davanti ai suoi meschini risultati acustici. Conoscete voi spettacolo più ridicolo di venti uomini che s’accaniscono a raddoppiare il miagolìo di un violino? Tutto ciò farà naturalmente strillare i musicomani e risveglierà forse l’atmosfera assonnata delle sale di concerti. Entriamo insieme, da futuristi, in uno di questi ospedali di suoni anemici. Ecco: la prima battuta vi reca subito all’orecchio la noia del già udito e vi fa pregustare la noia della battuta che seguirà. Centelliniamo così, di battuta in battuta, due o tre qualità di noie schiette aspettando sempre la sensazione straordinaria che non viene mai. Intanto si opera una miscela ripugnante formata dalla monotonia delle sensazioni e dalla cretinesca commozione religiosa degli ascoltatori buddisticamente ebbri di ripetere per la millesima volta la loro estasi più o meno snobbistica ed imparata. Via! Usciamo, poiché non potremmo a lungo frenare in noi il desiderio di creare finalmente una nuova realtà musicale, con un ampia di ceffoni sonori, saltando a piè pari violini, pianoforti, contrabbassi ed organi gemebondi. Usciamo! Non si potrà obbiettare che il rumore sia soltanto forte e sgradevole all’orecchio. transatlantico14

di Luigi Russolo

Mi sembra inutile enumerare tutti i rumori tenui e delicati, che danno sensazioni acustiche piacevoli. Per convincersi poi della varietà sorprendente dei rumori, basta pensare al rombo del tuono, ai sibili del vento, allo scrosciare di una cascata, al gorgogliare d’un ruscello, ai fruscii delle foglie, al trotto d’un cavallo che s’allontana, ai sussulti traballanti d’un carro sul selciato e alla respirazione ampia, solenne e bianca di una città notturna, a tutti i rumori che fanno le belve e gli animali domestici. E a tutti quelli che può fare la bocca dell’uomo senza parlare o cantare. Attraversiamo una grande capitale moderna, con le orecchie più attente che gli occhi, e godremo nel distinguere i risucchi d’acqua, d’aria o di gas nei tubi metallici, il borbottio dei motori che fiatano e pulsano con una indiscutibile animalità, il palpitare delle valvole, l’andirivieni degli stantuffi, gli stridori delle seghe meccaniche, i balzi dei tram sulle rotaie, lo schioccar delle fruste, il garrire delle tende e delle bandiere. Ci divertiremo ad orchestrare idealmente insieme il fragore delle saracinesche dei negozi, le porte sbatacchianti, il brusio e lo scalpiccìo delle folle, i diversi frastuoni delle stazioni, delle ferriere, delle filande, delle tipografie, delle centrali elettriche e delle ferrovie sotterranee. Né bisogna dimenticare i rumori nuovissimi della guerra moderna. Recentemente il poeta Marinetti, in una sua lettera dalle trincee bulgare di Adrianopoli, mi descriveva con mirabile stile futurista l’orchestra di una grande battaglia: ‘’Ogni 5 secondi cannoni da assedio sventrare spazio con un accordo TAM-TUUMB ammutinamento di 500 echi per azzannarlo s m i n u z z a r l o sparpagliarlo all’infinito. Nel centro di quei TA M - T U U M B spiaccicati ampiezza 50 chilometri quadrati balzare s c o p p i tagli pugni batterie a tiro rapido Violenza ferocia regolarità q u e s t o basso grave scandire gli strani folli agitatissimi acuti della battaglia Furia affanno orecchie occhi narici aperti! attenti! forza! che gioia vedere udire fiutare tutto tutto taratatatata delle mitragliatrici strillare a perdifiato sotto morsi schiaffi traak-traak frustate pic-pac-pum-tumb bizzarie salti altezza 200 metri della fucileria Giù giù in fondo all’orchestra stagni diguazzare buoi bufali pungoli carri pluff plaff impennarsi di cavalli flic flac zing zing sciaaack ilari nitriti ììììì.... scalpicii tintinnii 3 battaglioni bulgari in marcia croooc-craaac (lento due tempi) Sciumi Maritza o Karvavena croooc-craaac grida degli ufficiali sbatacchiare come piatti d’ottone pan di qua paack di là cing BUUM cing ciak (presto) ciaciacia-ciaciaak su giù là là intorno in alto attenzione sulla testa ciaack bello! Vampe vampe vampe vampe vampe vampe ribalta dei forti laggiù dietro quel fumo Sciukri Pascià comunica telefonicamente con 27 forti in turco in tedesco allò! Ibrahim! Rudolf! allò allò! attori ruoli echi suggeritori scenari di fumo foreste applausi odore di fieno fango sterco non sento più i miei piedi gelati odore di salnitro odore di marcio Timpani flauti clarini dovunque basso alto uccelli cinguettare beatitudine ombrie cip-


1916 cip-cip brezza verde mandre don-dan-don-din-bèéè Orchestra i pazzi bastonano i professori d’orchestra questi bastonatissimi suonare suonare Grandi fragori non cancellare precisare ritagliandoti rumori più piccoli minutissimi rottami di echi nel teatro ampiezza 300 chilometri quadrati Fiumi Maritza Tungia sdraiati Monti Ròdopi ritti alture palchi loggione 20.000 shapnels sbracciarsi esplodere fazzoletti bianchissimi pieni d’oro TUM- TUMB 20 000 granate protese strappare con schianti capigliature nerissime ZANG-TUMB-ZANG-TUMB-TUUMB l’orchestra dei rumori di guerra gonfiarsi sotto una nota di silenzio tenuta nell’alto cielo pallone sferico dorato che sorveglia i tiri”. Noi vogliamo intonare e regolare armonicamente e ritmicamente questi svariatissimi rumori. Intonare i rumori non vuol dire togliere ad essi tutti i movimenti e le vibrazioni irregolari di tempo e d’intensità, ma bensì dare un grado o tono alla più forte e predominante di queste

del movimento. Ogni manifestazione della nostra vita è accompagnata dal rumore. Il rumore è quindi famigliare al nostro orecchio, ed ha il potere di richiamarci immediatamente alla vita stessa. Mentre il suono estraneo alla vita, sempre musicale, cosa a sé, elemento occasionale non necessario, è divenuto ormai per il nostro orecchio quello che all’occhio è un viso troppo noto, il rumore invece, giungendoci confuso e irregolare dalla confusione irregolare della vita, non si rivela mai interamente a noi e ci serba innumerevoli sorprese. Siamo certi dunque che scegliendo, coordinando e dominando tutti i rumori, noi arricchiremo gli uomini di una nuova voluttà insospettata. Benché la caratteristica del rumore sia di richiamare brutalmente alla vita, l’arte dei rumori non deve limitarsi ad una riproduzione imitativa. Essa attingerà la sua maggiore facoltà di emozione nel godimento acustico in se stesso, che l’ispirazione dell’artista saprà trarre dai rumori combinati. Ecco le 6 famiglie di rumori dell’orchestra futurista che attueremo presto, meccanicamente: 1. - Rombi, Tuoni, Scoppi, Scrosci, Tonfi, Boati. 2. - Fischi, Sibili, Sbuffi. 3. - Bisbigli, Mormorii, Borbottii, Brusii, Gorgoglii. 4. - Stridori, Scricchiolii, Fruscii, Ronzìì, Crepitii, Stropiccìì. 5. - Rumori ottenuti a percussione su metalli, legni, pelli, pietre, terrecotte, ecc.. 6. - Voci di animali e di uomini: Gridi, Strilli, Gemiti, Urla, Ululati, Risate, Rantoli, Singhiozzi. In questo elenco abbiamo racchiuso i più caratteristici fra i rumori fondamentali; gli altri non sono che le associazioni e le combinazioni di questi. I movimenti ritmici di un rumore sono infiniti. Esiste sempre come per il tono, un ritmo predominante, ma attorno a questo altri numerosi ritmi secondari sono pure sensibili.

vibrazioni. Il rumore infatti si differenzia dal suono solo in quanto le vibrazioni che lo producono sono confuse ed irregolari, sia nel tempo che nella intensità. Ogni rumore ha un tono, talora anche un accordo che predomina nell’insieme delle sue vibrazioni irregolari. Ora, da questo caratteristico tono predominante deriva la possibilità pratica di intonarlo, di dare cioè ad un dato rumore non un solo tono ma una certa varietà di toni, senza perdere la sua caratteristica, voglio dire il timbro che lo distingue. Così alcuni rumori ottenuti con un movimento rotativo possono offrire un’intera scala cromatica ascendente o discendente, se si aumenta o diminuisce la velocità

CONCLUSIONI: 1. - I musicisti futuristi devono allargare ed arricchire sempre di più il campo dei suoni. Ciò risponde a un bisogno della nostra sensibilità. Notiamo infatti nei compositori geniali d’oggi una tendenza verso le più complicate dissonanze. Essi, allontanandosi sempre più dal suono puro, giungono quasi al suono-rumore. Questo bisogno e questa tendenza non potranno essere soddisfatti che coll’aggiunta e la sostituzione dei rumori ai suoni. 2. - I musicisti futuristi devono sostituire alla limitata varietà dei timbri degl’ istrumenti che l’orchestra possiede oggi, l’infinita varietà di timbri dei rumori, riprodotti con appositi meccanismi. 3. - Bisogna che la sensibilità del musicista, liberandosi dal ritmo facile e tradizionale, trovi nei rumori il modo di ampliarsi e rinnovarsi, dato che ogni rumore offre l’unione dei ritmi più diversi, oltre a quello predominante. 4. - Ogni rumore avendo nelle sue vibrazioni irregolari un tono generale predominante, si otterrà facilmente nella costruzione degli strumenti che lo imitano una varietà sufficientemente estesa di toni, semitoni e quarti di toni. Questa varietà di toni non toglierà a ogni singolo rumore le caratteristiche del suo timbro, ma ne amplierà solo la tessitura o estensione. 5. - Le difficoltà pratiche per la costruzione di questi strumenti non sono gravi. Trovato il principio meccanico che dà un rumore, si potrà mutarne il tono regolandosi sulle leggi generali dell’acustica. Si procederà per esempio con la diminuzione o l’aumento della velocità, se lo strumento avrà un movimento rotativo, e con una varietà di grandezza o di tensione delle parti sonore, se lo strumento non avrà movimento rotativo. 6. - Non sarà mediante una successione di rumori imitativi della vita, bensì mediante una fantastica associazione di questi timbri vari e di questi ritmi vari, che la nuova orchestra otterrà le più complesse e nuove emozioni sonore. Perciò ogni strumento dovrà offrire la possibilità di mutare o no, e dovrà avere una più o meno grande estensione. 7. - La varietà dei rumori è infinita. Se oggi, mentre noi possediamo forse mille macchine diverse, possiamo distinguere mille rumori diversi, domani, col moltiplicarsi di nuove macchine, potremo distinguere dieci, venti o trentamila rumori diversi, non da imitare semplicemente, ma da combinare secondo la nostra fantasia. 8. - Invitiamo dunque i giovani musicisti geniali e audaci ad osservare con attenzione continua tutti i rumori, per comprendere i vari ritmi che li compongono, il loro tono principale e quelli secondari. Paragonando poi i timbri vari dei rumori ai timbri dei suoni, si convinceranno di quanto i primi siano più numerosi dei secondi. Questo ci darà non solo la comprensione ma anche il gusto e la passione dei rumori. La nostra sensibilità moltiplicata, dopo essersi conquistati degli occhi futuristi avrà finalmente delle orecchie futuriste. Così i motori e le macchine delle nostre città industriali potranno un giorno essere sapientemente intonati, in modo da fare di ogni officina una inebbriante orchestra di rumori. Caro Pratella, io sottopongo al tuo genio futurista queste mie constatazioni, invitandoti alla discussione. Non sono musicista: non ho dunque predilezioni acustiche, né opere da difendere. Sono un pittore futurista che proietta fuori di sé in un’arte molto amata la sua volontà di rinnovare tutto. Perciò più temerario di quanto potrebbe esserlo un musicista di professione, non preoccupandomi delle mia apparente incompetenza, e convinto che l’audacia abbia tutti i diritti e tutte le possibilità, ho potuto intuire il grande rinnovamento della musica mediante l’Arte dei Rumori.

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La danza ha sempre estratto dalla vita i suoi ritmi e le sue forme. Gli stupori e gli spaventi che agitarono l’umanità nascente davanti all’incomprensibile ed intricatissimo universo, si ritrovano nelle prime danze che dovevano naturalmente essere danze sacre. Le prime danze orientali pervase dal terrore religioso erano pantomime ritmate e simboliche che riproducevano ingenuamente il movimento rotatorio degli astri. La «ronda» nasce cosí. I diversi passi e i gesti del prete cattolico nel celebrare la messa derivano da queste prime danze ed hanno lo stesso simbolo astronomico. Le danze cambogiane e javanesi si distinguono per la loro eleganza architettonica e la loro regolarità matematica. Sono lenti bassorilievi in marcia. Le danze arabe e persiane sono invece lascive: impercettibili fremiti delle anche accompagnati da un battito monotono di mani o di tamburo; sussulti spasmodici e convulsioni isteriche della danza del ventre; enormi balzi furenti di danze sudanesi. Sono tutte variazioni sull’unico motivo di un uomo seduto a gambe incrociate e di una donna seminuda che con abili mosse cerca di persuaderlo all’atto d’amore. Morto e sepolto il glorioso balletto italiano, incominciarono in Europa stilizzazioni di danze selvagge, elegantizzazioni di danze esotiche e modernizzazioni di danze antiche. Pepe rosso parigino + cimiero + scudo + lancia + estasi davanti a idoli che non significano piú nulla + ondulazioni di cosce montmartroises = anacronismo erotico passatista per forestieri. Prima della guerra a Parigi si raffinavano le danze sud-americane: tango argentino spasmodico furente, zamacueca del Chile, maxixe brasiliana, santafé del Paraguay. Quest’ultima danza descrive le evoluzioni galanti di un maschio ardente e audace intorno ad una femmina attirante e seduttrice che egli finalmente afferra con un balzo fulmineo e trascina con sé in un valzer vertiginoso. Molto interessante artisticamente il balletto russo organizzato dal Diaghilev, che modernizza i balli popolari russi con una meravigliosa fusione di musica e danza, penetrate l’una nell’altra, e dà allo spettatore un’espressione perfetta e originale della forza essenziale della razza. Col Nijinsky appare per la prima volta la geometria pura della danza liberata dalla mimica e senza l’eccitazione sessuale. Abbiamo la divinità della muscolatura.

danzava in libertà, spensieratamente, come si parla, si desidera, si ama, si piange, su una arietta qualsiasi, anche volgare, come quella di Mariette, ma petite Mariette strimpellata su un pianoforte, non riusciva a dare che emozioni complicatissime di nostalgia disperata, di voluttà spasmodica e di giocondità, infantilmente femminile. Vi sono molti punti di contatto tra l’arte di Isadora Duncan e l’impressionismo pittorico, come pure tra l’arte del Nijinsky e le costruzioni di forme e di volumi di Cézanne. Cosí, naturalmente, sotto l’influenza delle ricerche cubiste e in particolar modo di Picasso, si creò una danza di volumi geometrizzati e indipendenti quasi dalla musica. La danza diventò un’arte autonoma, equivalente della musica. La danza non subiva piú la musica, la rimpiazzava. Valentine de Saint-Point concepí una danza astratta e metafisica che doveva tradurre il pensiero puro senza sentimentalità e senza ardore sessuale. La sua métachorie è costituita da poesie mimate e danzate. Disgraziatamente sono poesie passatiste che navigano nella vecchia sensibilità greca e medievale; astrazioni danzate ma statiche, aride, fredde e senza emozione. Perché privarsi dell’elemento vivificatore della mimica? Perché mettersi un elmo merovingio e velarsi gli occhi? La sensibilità di queste danze risulta monotona limitata elementare e tediosamente avvolta nella vecchia atmosfera assurda delle mitologie paurose che oggi non significano piú nulla. Geometria fredda di pose che non hanno nulla a che fare con la grande sensibilità dinamica simultanea della vita moderna. Con intenti molto piú moderni il Dalcroze ha creato una ginnastica ritmica molto interessante, che limita però i suoi effetti alla igiene dei muscoli e alla descrizione dei lavori agresti. Noi futuristi preferiamo Loie-Füller e il cake-walk dei negri (utilizzazione della luce elettrica e meccanicità). Bisogna superare le possibilità muscolari, e tendere nella danza a quell’ideale corpo moltiplicato dal motore che noi abbiamo sognato da molto tempo. Bisogna imitare con i gesti i movimenti delle macchine; fare una corte assidua ai volanti, alle ruote, agli stantuffi; preparare cosí la fusione dell’uomo con la macchina, giungere al metallismo della danza futurista.

Isadora Duncan crea la danza libera, senza preparazione mimica, trascurando la muscolatura e l’euritmia, per concedere tutto all’espressione passionale, all’ardore aereo dei passi. Ma essa in fondo non si propone che di intensificare, arricchire, modulare in mille modi diversi il ritmo di un corpo di donna che languidamente rifiuta, languidamente invoca, languidamente accetta e languidamente rimpiange il maschio donatore di felicità erotiche.

La musica è fondamentalmente e incurabilmente passatista e perciò difficilmente utilizzabile nella danza futurista. Il rumore, essendo il risultato dello strofinamento o dell’urto di solidi, liquidi o gas in velocità, è diventato mediante l’onomatopeia uno degli elementi piú dinamici della poesia futurista. Il rumore è il linguaggio della nuova vita umano-meccanica. La danza futurista sarà dunque accompagnata da rumori organizzati e dall’orchestra degli intonarumori inventati da Luigi Russolo.

Isadora Duncan, che io ebbi molte volte il piacere di ammirare nelle sue libere improvvisazioni fra i tendaggi di fumo madreperlaceo del suo atelier, quando

La danza futurista sarà: disarmonica - sgarbata - antigraziosa - asimmetrica sintetica - dinamica - parolibera.

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1917

di Filippo Tommaso Marinetti

FUTURISTA

dal Manifesto della Danza


mantovabanca

www.eterotopie.it

per la danza

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di Cecilia Fontanesi

A cento anni dalla pubblicazione del Manifesto Futurista, il Comune e l’Assessorato alla Cultura di Milano danno vita al progetto FuturisMI, una ricca serie di mostre, spettacoli ed eventi per celebrare la nascita della prima avanguardia artistica italiana. Dal 5 febbraio al 7 giugno sarà presente a Palazzo Reale la mostra “Futurismo 1909-2009 Velocità + Arte + Azione”, comprensiva di circa cinquecento opere fra dipinti, sculture, progetti, scenografie teatrali e fotografie. Ad inaugurare la mostra sarà la performance “Rissa in galleria”, messa in scena dell’omonimo dipinto di Umberto Boccioni. Il progetto nasce con l’intento di “accogliere, fondere e far scontrare” il pubblico della Galleria Vittorio Emanuele II, attraverso un’azione dinamica ed energica di un gruppo di danzatori-attori, diretto da Ariella Vidach. Ariella lavora come coreografa da oltre un ventennio, fra l’Italia e la Svizzera, utilizzando il linguaggio fisico in stretto rapporto alle tecnologie multimediali. Insieme al videoartista Claudio Prati fonda nel 1988 l’associazione A.i.E.P. (Avventure in Elicottero Prodotti), e un decennio più tardi la Compagnia di danza contemporanea Ariella Vidach – A.i.E.P. Il nostro incontro avviene presso il DiDstudio, dove la compagnia è attualmente impegnata nelle prove di InterVITA, ultima produzione che porterà a Neuchatel il 14 febbraio. Ariella mi offre un the “marocchino” al sapore di menta, speziato.

conversazione con ariella vidach

A.i.E.P. è un punto di incontro di artisti di diversa provenienza, come nasce la vostra associazione culturale? ”Ho conosciuto Claudio negli Stati Uniti. Lui è svizzero, io sono italiana. In quel periodo costruire e mantenere un’associazione in Svizzera era sicuramente più semplice e meno costoso che in Italia. A.i.E.P. è nata a Lugano con il contributo di altri due amici, uno scultore e un produttore televisivo. Usavamo le nostre diverse competenze, con la funzione di imparare a stare insieme”.

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Avete scelto un acronimo curioso, “Avventure in Elicottero Prodotti”. A cosa si riferisce? “È Claudio che inventa i titoli. “Avventure in elicottero” era una serie televisiva che lui vedeva da piccolo. Racconta di una squadra di soccorso alpino, una squadra che si muove in elicottero. Per Claudio il volo è sempre stato una grande sfida, aveva una forte passione per il parapendio. “Prodotti” indica il risultato, ciò che deriva della sperimentazione di questo gruppo”. In che modo siete riusciti a portare l’associazione in Italia? “A metà degli anni ‘90, venne istituita per la prima volta la Commissione consultiva della Danza del Dipartimento dello Spettacolo. Prima esisteva solo una Commissione Musica che valutava anche i progetti relativi alla danza. In quegli anni cercavamo di ottenere maggiore visibilità, partecipando a diverse “vetrine” della danza in Italia. Su consiglio di Stefania Donnini, ex danzatrice di Virgilio Sieni, ho deciso di fondare a Milano una compagnia di danza contemporanea. Con il riconoscimento ministeriale siamo riusciti a mettere insieme i fondi provenienti dalla Svizzera e quelli dall’Italia. Ancora oggi questo è l’unico modo che ci permette di lavorare”. Come hai trascorso gli anni che precedono la tua formazione negli Stati Uniti? “Sono nata in Istria, sono una profuga istriana. Dall’età di due anni mi sono spostata con la mia famiglia in diversi campi profughi in Italia, a Udine, Tortona, Marina di Ravenna, fino ad arrivare a Milano. In seguito ho deciso di vivere a Roma per qualche anno, fra il ’77 e l’80. Mi interessavano più che altro le correnti teatrali di avanguardia, la sperimentazione delle “cantine” romane. Quello che avevo visto sul movimento non era qualcosa in cui mi riconoscevo. Poco dopo ho avuto modo di conoscere un gruppo che faceva Contact Improvisation. Allora ho capito che era quello che cercavo e mi sono detta: se voglio fare qualcosa che viene dagli Stati Uniti, preferisco farlo là! Così mi sono trasferita a New York, avevo ventiquattro anni”. Quali influenze hai raccolto in America in quel periodo? “Ho vissuto a New York per dieci anni, dall’80 al ’90. Il paese era ricchissimo, l’America di Regan, del boom economico. In molti locali si poteva lavorare come danzatori e performer, bastavano due giorni alla settimana per poter vivere. Scambiavo gli spazi delle sale prove con qualche ora come baby-sitter, potevo prendere lezioni, avere un mio gruppo e riuscivo a pagare i miei danzatori. Studiavo danza classica una volta al giorno, ma spesso seguivo laboratori intensivi a New York, così come a San Francisco, Seattle e in Colorado. Ho conosciuto il lavoro di Steve Paxton, Dana Reitz e dei grandi protagonisti delle correnti postmoderne. Ricordo il carisma di Bill T.Jones, il movimento particolare e distintivo di Steven Petronio”. Che cosa ti ha portato dalla Contact Improvisation a lavorare con tecnologie interattive? “Nella Contact Improvisation ci si educa all’ascolto, alla percezione dell’altro e alle risposte che ci fornisce. In fondo si impara ad essere interattivi, si ha già una mente organizzata in questo modo. Poi, indipendentemente dallo strumento scelto, rimane il modo in cui lo usiamo. L’altro danzatore, la persona, così come l’ambiente visivo o sonoro, fornisce una chance in più rispetto all’essere da soli. Le uniche due realtà in Italia che lavorano con la danza e le nuove tecnologie sono A.i.E.P. a Milano e Altroteatro a Roma. La stessa fondatrice, Lucia Latour, ha lavorato per molti anni nella Contact Improvisation, per poi sviluppare l’interazione con gli spazi virtuali. I nostri due percorsi sono del tutto indipendenti, è un’assoluta coincidenza”.

Come si inserisce, nel tuo lavoro, il rapporto uomo-macchina? “Personalmente mi interessano le diverse possibilità di utilizzare la scena, in un collage di modalità, in cui la danza fornisce un’opportunità in più, uno strumento. A metà degli anni ’80 Merce Cunningham ha sviluppato Life Forms, un software in grado di riprodurre i movimenti dei danzatori. In quel caso la modalità offerta dal computer era qualitativamente diversa da quella di un corpo organico. I suoi danzatori erano costretti a muoversi con una cinesi non umana, a capire i movimenti disimparando i propri e rimparandone altri attraverso l’immagine. Penso che il computer possa offrire alcune componenti, il movimento altre. L’aspetto creativo sta nel trovare delle soluzioni, combinando elementi diversi per farli diventare espressivi”. Che tipo di informazioni possono scambiare il danzatore e il sistema artificiale? “Molti esperimenti sulla tecnologia interattiva sono stati condotti fra gli anni ’60 e ‘70. Da allora non c’è stata una grande evoluzione concettuale. Piuttosto, l’estetica delle immagini è molto migliorata. Le proposte visive possono dare un diverso impatto al lavoro, ma non è la potenza della macchina che lo cambia. All’inizio usavamo un Commodore Amiga 3000, che ci forniva elementi interessanti su cui lavorare, nonostante la grafica un po’ “underground”. Nel ’95 abbiamo prodotto Exp, vero e proprio esperimento, in cui il danzatore si trovava a muoversi di fronte all’immagine della propria silhouette collocata in un sistema di oggetti virtuali. In scena si aveva la sensazione che quegli oggetti esistessero realmente. Oggi sperimentiamo l’utilizzo di accelerometri, sensori realizzati dalla STMicroelectronics. Questi oggetti, indossati dal danzatore, sono in grado di rispondere al movimento associando diversi suoni a caratteri differenti: così la voce è quella del corpo. Altri coreografi, come Wayne McGregor, vogliono entrare nella “mente” del sistema artificiale per capire come la struttura della macchina possa cambiare l’agire del danzatore. A me non interessa entrare nel merito di un meccanismo, piuttosto amo considerarlo un mezzo espressivo. Quello che mi affascina è la possibilità di dare vita ad uno spazio”. Quali sono le differenze nel rispondere ad una persona piuttosto che a uno stimolo digitale? “Nel contatto con una persona passano informazioni diverse. Tuttavia non sono importanti solo gli input che ricevi, da che cosa siano generati, ma come sei capace di elaborarli. La storia ci ha abituato a realtà sconvolgenti. Possono esistere situazioni, con persone in carne e ossa, che non smuovono nessuno. In altri casi, anche solo l’immagine di una sottoveste può commuovere. Si potrebbe prendere spunto da una bottiglia che cade, da qualcosa di diverso, per giocare a trasformare queste informazioni in modo espressivo e creativo”. Trovi qualche affinità fra il tuo lavoro e le idee futuriste in Italia? “Il nostro rapporto con le macchine non ha niente a che fare con il Futurismo. Tuttavia, quando mi è stato proposto il quadro di Boccioni, ho trovato che contenesse una bellissima energia e ho pensato che fosse quella la cosa da proporre. Mi interessava trasformare un ambiente, farlo diventare molto energico. Non avevo mai lavorato ispirandomi ad un dipinto, pur apprezzando le esposizioni d’arte. Mi è capitato di trarre ispirazione dalla mostra Post-Human, con opere di Matthew Barney e Jeff Koons. Penso che gli artisti visivi siano molto efficaci nello spiegarsi. Mi piace l’idea di prendere un oggetto e contestualizzarlo in modo creativo, trovo possa offrire nuovi punti di vista sullo stato dell’arte”.

Come hai vissuto la creazione di “Rissa in galleria”? “La produzione di questa performance ha richiesto uno sforzo di coordinamento, di regia, piuttosto che di coreografia. In generale mi piace poter compiere un lavoro sottile, un lavoro sulle forme. Lavorare con un gruppo così vario di danzatori, è stato molto frammentario, difficile e faticoso. Inoltre in strada tutto ciò che è piccolo non si vede, perciò ho dovuto scegliere qualcosa di vigoroso, che fosse efficace. La “rissa” è sempre stata la parte più vera della performance, era un momento appassionato, convincente. Avere un interlocutore ti obbliga a non fingere e permette alle persone di trovarsi una con l’altra. Apprezzo molto la qualità grezza dei corpi che emerge in questa circostanza, quando c’è un forte desiderio”. Che cosa ti colpisce di un danzatore, di un interprete? “Quando non assomiglia a nient’altro, quando vedo un movimento pieno. Se si lavora insieme è ancora diverso, cerco la componente creativa. Anche se mi piacerebbe tornare a proporre le mie sequenze, è molto difficile riuscire a valorizzare alcuni movimenti, e quando non vedo questo, mi pesa. È necessaria una lunga esperienza di frequentazione. Quando non riconosco più la stessa intensità di un’improvvisazione, vorrei smettere di fare coreografia. Preferisco che un interprete si mantenga ricco entrando nel discorso, avanzando proposte, facendo proliferare le proprie idee. Il lavoro è fatto da tutti quelli che partecipano. Con i ragazzi delle Scuole Civiche di Milano ho imparato che nei giovani non esiste un modello scontato, c’è una grande capacità di offrirsi, quando ancora non sanno chi sono e si scoprono nuovi agli occhi degli altri e di se stessi. Dopo anni di esperienza si possono smussare molti angoli, diventare più compiuti. Bisogna essere capaci di affinare la propria sensibilità e creatività, per non rischiare di impoverirsi maturando”. Quando ti trovi ad essere dall’altra parte, da spettatrice, cosa cerchi sulla scena? “La ricerca sul movimento. Non voglio arrivare a comprendere che una mente ha escogitato quel meccanismo, ma guardare qualcosa che sia capace di portarmi altrove, di portarmi via. Sono reduce da una “vetrina” di danza in Svizzera. Nei lavori proposti il movimento era quasi assente, ciò che rimaneva era soltanto l’idea scenica. Ricordo di essere stata a vedere uno spettacolo di Saburo Teshigawara, chiamato in Italia un paio di anni fa da La Milanesiana. Durante i primi quindici minuti di Black Water ho pensato ‘non è possibile che qualcosa mi faccia ancora quest’effetto’. Saburo Teshigawara in scena non si può descrivere, è come se arrivasse subito, come se nei suoi gesti ci fosse una potenza che non ho mai visto, qualcosa di commovente, e non sai cosa tocca. Non è un coreografo, dopo un po’ il lavoro si sgretola, ma sa creare immagini, lavorare sulle luci. Vedevo i capelli di queste donne, talmente neri che proiettavano luce. I danzatori giapponesi sono molto radicati, ma insieme velocissimi nelle braccia e nelle gambe, capaci di fondere un senso di ampio respiro con l’imprevisto”. Cosa cerchi nel futuro? A cosa volgerai lo sguardo per un nuovo lavoro? “In questo momento sto cercando di capire, forse mi piacerebbe andare contro la mia natura. Con Dana Reitz lasciavamo che i nostri movimenti fossero come i colpi necessari a scrivere gli ideogrammi, con precise direzioni, diversa intensità e variazioni di pressione. Cerco questa immediatezza, il senso di esistere in quel preciso momento, senza perdere il vero senso. Io penso che il movimento scriva lo spazio, lo suoni. Vorrei fare dei segni più profondi e più larghi”.

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al di là del giornalismo La principale attività di Mino Somenzi fu quella di giornalista e divulgatore delle idee e dell’arte futurista. Tra le altre occupazioni al “servizio” del movimento Futurista (moltissime, per la verità), organizza nel 1933, a Roma, in Piazza Adriana, la Prima mostra nazionale d’arte futurista, dopo aver presenziato alla precedente esposizione futurista di Mantova (maggio 1933) ed essere stato “l’artefice morale” della mostra, tenuta nel giugno dello stesso anno, alla Galleria Pesaro di Milano, in occasione delle Onoranze a Boccioni. Appassionato aviatore e membro del Reale Aereo Club d’Italia, collabora con riviste specializzate (“L’Aviazione”) e come corrispondente in caso di eventi aeronautici o come esperto di volo per altri periodici. Fonda, inoltre, e dirige il periodico “Futurismo - quindicinale [poi settimanale] dell’artecrazia italiana”, organo di stampa del Futurismo, nella cui direzione e scelte editoriali si mantiene in costante rapporto con F.T. Marinetti. Ma la sua opera più significativa è, senz’altro, un libretto dal titolo “Difendo il Futurismo”, edito nel 1937 dalla Casa Editrice A.R.T.E. E’ un libello di 142 pagine, nel quale Mino si rivolge al Prof. Ano Ano, definito “spirito ed essenza del professorume intellettualoide tipo italietta ottocentesca, fortunatamente agonizzante”, un professore, parte dell’Accademia tanto aborrita e rifuggita dai Futuristi che, secondo Mino, pronuncia “inascoltabili parole - escrementi.” Al quale Mino, però, risponde con approfondite argomentazioni dando, inconsapevolmente, prova di quanto il professorume riesca comunque a condizionare il desiderio fortissimo di eversione di questi nuovi artisti. Che non riescono, nonostante le dichiarazioni e i manifesti di vera avanguardia culturale, a staccarsi dalla cultura in cui vivono. Il Futurismo, in Mino, appare come una vera filosofia di vita che viene espressa nella risposta alle critiche che l’Accademia muove alla definizione futuristica di pagliaccismo, parola coniata non per definire il “clown che fa capriole e piglia a schiaffi” ma per dare l’idea quasi filosofica di “doversi adeguare alle diverse esigenze della vita, talora contrastanti col nostro carattere e con la nostra volontà”. Mino sostiene che “se andassimo dietro al feretro di un lontanissimo conoscente, della cui morte non ci è importato nulla, ridendo e ballando, saremmo scambiati per pazzi; ma andandovi col viso atteggiato ad una mestizia di circostanza, siamo dei pagliacci che dimostrano ciò che non sentono: con la parola pagliaccismo si sono volute individuare tutte le menzogne convenzionali a cui, la civiltà, l’educazione, l’obbligo della convivenza coi

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nostri simili, quotidianamente ci costringono”. Pur molto critici verso la società in cui vivono, quasi tutti gli artisti che si sono, in fasi diverse della vita, accostati al Futurismo e l’hanno sostenuto con le loro opere aderendo alla poetica del movimento d’avanguardia, hanno fatto l’esperienza della guerra. Una guerra che, anche se contava nuove strategie e nuove armi, ha costretto uomini di ogni età spesso al combattimento fisico, alla prova di forza e alla devastante esperienza del guardare negli occhi il nemico. Tratta in salvo la vita e tornati alle proprie case, alcuni reagiscono con fierezza a questa dimostrazione di coraggio, che è orgoglio personale - sono convinta prima che amore per la patria, difesa di una nazione o di un’ideologia e cercano di affermare con forza la propria esperienza. Mino scrive, sempre nell’introduzione e sempre rivolto al professore tacitamente considerato dal futurista anche socialmente un po’ vile, nel suo arroccarsi in musei o biblioteche: “dopo ogni guerra ed ogni rivoluzione, si scatena una reazione nel campo dell’arte, tendente a distruggere o solamente a denigrare coloro che, artisti ed insieme uomini d’azione, abbiano compiuto qualcosa fuori del comune o di grande, nell’uno o nell’altro settore”. Individua, poi, in D’Annunzio e Marinetti due artisti dalle personalità opposte che hanno, però, saputo trasfondere la loro sensibilità artistica in un sentimento patriottico nuovo esprimendo così il loro “italianissimo ideale: ARTE-PATRIA”. E chiede al Prof. Ano Ano: “ammettete o no la nostra ARTEPATRIA? ... Ammettete la funzione politica dell’arte?”. Funzione, che “ha maggior pregio e quindi ragion d’essere, solo quando serva a uno scopo universale, nazionale o politico, rappresentando e valorizzando l’atmosfera civile, il clima spirituale e storico dai quali trae l’ispirazione e la sua fonte di vita”. Alla fine della parte introduttiva, Mino scrive del Futurismo dal punto di vista strettamente artistico, ribadendo “originalità e priorità del Futurismo su tutti i movimenti artistici d’avanguardia”. Esprime posizioni sue e del movimento, corredando il tutto di fotografie di opere e di eventi futuristi. Il binomio futurismo/fascismo ha reso sempre ostico per me da digerire questo movimento d’avanguardia. In realtà leggendo le pagine di Mino, mi rendo conto che la tentazione di fare un’apologia del Futurismo è forte. È forte la tentazione di riconoscere come valori che andrebbero riscoperti nella nostra epoca quelli, per esempio, della funzione politica dell’arte, del coraggio di affermare le proprie idee senza incamminarsi per una strada già tracciata, più comoda, più sicura ma senz’altro priva di

di Paola Somenzi originalità e di linfa vitale. Ci sono espressioni del Futurismo che piacerebbero anche oggi a menti che vivono un po’ al confine, che non si riconoscono nella cultura diffusa, che osano ma mai completamente. Attira la capacità di “uscire”, di esprimersi, di poterlo fare senza essere additati per matti o per disadattati. Piacerebbe, forse, poter dare luce alla propria creatività sostenuti da chi la può ”sponsorizzare”, magari anche politicamente (costume molto diffuso anche ai giorni nostri). Anche se oggi condividere questi aspetti del futurismo può essere rischioso. Anche se da esso può derivare il tacito ed involontario appoggio ad un’ideologia che sta divenendo sempre meno condivisibile e sempre più temibile. Mino ha creduto molto in questa forza eversiva dell’arte, l’ha sostenuta per tutta la vita. L’ha fatto anche insieme a sua moglie, quella Brunas, pittrice, pure appassionata di volo, che ha affermato il tentativo femminile di farsi strada nella cultura del tempo. Mino ha sostenuto il Futurismo con la sua scrittura di giornalista, quella che forse più di altre, ha permesso l’esistenza sociale della poesia, della pittura, della scultura e dell’arte futurista. Sopra tutti, ha appoggiato Marinetti. Al quale ha ceduto, come scrive Claudia Salaris nel suo Dizionario del Futurismo, la paternità del manifesto dell’aeropittura, così come la paternità del concetto stesso di aeropittura. Mino, nella purezza delle sue idee e nell’entusiasmo di sostenere amici artisti e movimento non si è accorto che il tempo stava cambiando. È rimasto solo e senza lavoro quando, nel gennaio del 1939, il suo giornale viene soppresso dal Regime, ormai avverso all’arte moderna, accusata di minare il senso della romanità. E, contrariamente a quanto scrive a chiusura del suo coraggioso libretto: “... la giustizia ce la renderà, come in parte ce l‘ha già resa, il Tempo”, il Tempo, a lui, non ha reso purtroppo una giustizia che si possa... toccare.

Nella foto l’arrivo a Roma della II crociera atlantica descritta al microfono da Marinetti (a destra Mino Somenzi), a sinistra Ritratto di Mino eseguito da Marinetti e sullo sfondo due opere di Brunas, moglie di Mino e pittrice aerofuturista


Un evento importante che ha cambiato la mia vita: la musica

di Marco Tariello, 5a elementare

VIALE DON LUIGI STURZO, 4 • 46100 MANTOVA www.consorziocsp.it

Un evento che ha cambiato i miei giorni, il tempo che trascorre, i sentimenti, le emozioni della mia vita è stato sicuramente l’apprendimento della musica, lo studio, ma anche l’ascolto della musica. Il mio primo contatto con la musica è avvenuto all’età di quasi 4 anni (ero molto piccolo), quando ho iniziato a frequentare la scuola di propedeutica musicale dove ho incominciato a comprendere il senso, il ritmo della musica e tutti gli elementi fondamentali che la caratterizzano. Così, andando avanti a studiare, a cinque anni ho deciso di suonare, come strumento principale, il pianoforte che a quel tempo (probabilmente, perché non riesco a ricordarmelo) mi ispirava passione oppure un sentimento sconosciuto che con il tempo avrei espresso. Nel 2003, quindi, ho iniziato a frequentare la “Nuova Scuola di Musica”, dove ho toccato, guardato e capito il pianoforte e ho iniziato a studiarlo piano piano con un’insegnante di nome Mirella. Quando sono entrato per la prima volta nella stanza dove si svolgeva la lezione e in cui ho visto il piano in tutto il suo aspetto, ero un po’ incerto e nervoso, ma poi, schiacciando un tasto nero, sfiorando un tasto bianco e toccando questo magnifico strumento, mi è passata tutta l’incertezza. Con il passare del tempo, imparando le note, il ritmo, i simboli e le legature, a leggere la musica ed esprimere emozioni attraverso il suono,

m’accorgevo che più suonavo, più mi tranquillizzavo e mi riempivo di gioia, serenità e di molti altri sentimenti che non si possono solamente esprimere con le parole. Così, cambiando continuamente maestri e professori, ho imparato sia ad interpretare la musica con il suono che con le parole, l’immaginazione ma anche con le orecchie, ascoltandola nei teatri, dai CD, l’opera, che si esprime anche con gli occhi, e tutti gli altri tipi di musica che possono piacere ed essere suonati. Insomma, ho capito che è la mia guida, la mia fonte di emozioni che riempiono il mio cuore, è lei che mi dice come agire e affrontare le difficoltà e la sento sempre dentro di me. Per la preparazione ai saggi, esami, concorsi, ma anche a singole lezioni, ho appreso inoltre che l’impegno è fondamentale per lo studio e per raggiungere dei grandi risultati. L’esercizio, però, occupa molto del mio tempo libero e dopo 8 ore di scuola devo impegnarmi ugualmente, ma tutto questo sacrificio verrà sicuramente ricompensato con qualcosa (ma questo è ovviamente un mistero). La musica ha riempito molte pagine e capitoli bianchi della mia vita e ne riempirà ancora un’infinità. Spero che seguendo i suoi consigli diventerò un bravissimo e famosissimo pianista che suonerà e comporrà molti brani, farà concerti in tutto il mondo, ma questo sarà tutto regalato dalla passione, dall’impegno, dallo studio che ho avuto e che dovrò avere per la musica.

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Antropologia Jazzistica

Fotografia di Nicola Malaguti

di Giorgio Raimondi Per quanto mi riguarda, il jazz ha fatto chiarezza su due punti: la necessità di una relatività del gusto e il bisogno di diversificare lo sguardo sui modi d’esistenza di un opera d’arte”. Con queste parole, leggibili in un intervista concessa a “Jazz Magazine” nel giugno 2001, Girard Genette ribadisce l’importanza che ha avuto la musica afroamericana sulla sua attività di studioso, consentendogli di verificare la validità di concetti che egli applica in ambito critico-letterario. Considerato tra i più importanti teorici della letteratura, Genette è stato infatti direttore della prestigiosa École des hautes Études en Sciences Sociales e ha dedicato a Thelonius Monk il suo fondamentale Palimpsestes, del 1982. Ma il suo non è un caso isolato, quanto piuttosto l’ennesima conferma della serietà con cui, oltralpe, il mondo accademico si misura con il jazz. E d’altra parte è cosa nota: dacchè questa musica sbarcò sul suolo di Francia dopo il primo conflitto mondiale non se n’è più andata, e molti sono i musicisti che su quel suolo hanno poi scelto di risiedere e di lavorare. Ciò è all’ origine della ricchezza degli studi, dell’ invenzione dei “festival” jazzistici, della creazione delle prime riviste specializzate e di importanti spazi di riflessione teorica come gli storici “Cahiers du jazz”. Non è dunque accidentale il fatto che proprio in Francia la scoperta della musica nera sia stata una sorta di catalizzatore per la formazione e la generazione di antropologi ed etnologi: da Michel Leris, che ne riconobbe l’insostituibile contributo per pensare il Novecento e le sue contraddizioni, ad André Schaeffner. Autore nel 1926 del primo importante studio sul Jazz e successivamente fondatore Dipartimento di Etnomusicologia presso il Museo del Trocadéro. La continuità di questo interesse è documentata anche dall’editoria. E non intendo riferirmi alla produzione specialistica e musicologia quanto, soprattutto, agli studi interdisciplinari. Nel settembre del 2001, ad esempio, “L’Homme”, prestigiosa rivista di antropologia fondata da Emile Benveniste, Pierre Gourou e Claude Levi-Strauss, oera diretta da Jean Jamin, ha intitolato un suo numero Jazz et Anthropologie. Sfogliandone le pagine si incontrano interventi come quelli di Denis-Constant Martin (De l’excursion à Harlem au débat sur le “Noirs”), che ricorda il prevalere, nel campo jazzistico, di analisi condotte senza l’indispensabile “inchiesta sul campo” e di Xavier Daverat (Sur des erres de jazz), che riflette sul rapporto del jazz con la storia e la tradizione, cioè a dire sulla trasmissione del sapere jazzistico all’interno di una dimensione che, privilengiando la circolarità, instaura una sorta di tempo mitologico. Ora, che il jazz sia oltre che un problema estetico anche un fatto sociale, non costituisce in sé una novità. Nel suo Blues People LeRoi Jones-Amiri Baraka aveva già criticato ogni concezione essenzialistica della musica nera, riconducendone le radici all’interno della comunità afroamericana e cercando di far coincidere fatto musicale e fatto sociale. Ma queste indicazioni di metodo non hanno avuto molta fortuna. Senza trascurarne la portata estetica, si tratta dunque di ripensare il jazz come “oggetto culturale” che fin dal suo arrivo in Europa ha stimolato la riflessione nei più diversi campi del sapere. Si tratta forse di riconoscere che il jazz è prima di tutto un modo di vivere il cui legame con alcuni luoghi (quelli “mitici” dell’origine e poi della diaspora come New Orleans, Chicago, ecc.), situazioni (il rapporto fra minoranze nere e società bianca), circostanze (una nascita contemporanea a quella della registrazione sonora) di fatto lo istituisce come un oggetto privilegiato di indagine antropologica. E, a ben vedere, sembra proprio che il jazz stesso abbia dovuto in qualche modo farsi antropologia, ovvero visione del mondo, in grado di leggere criticamente e dunque trasformare la propria condizione. Come intendere altrimenti il fatto che Charlie Parker e Dizzy Gillespie chiamarono Anthropology il loro rifacimento di I Got Rhythm? Ma non basta. Nelle edizione Parenthèse di Marsiglia, nella collana Jazz et musique improvisées diretta da Philippe Fréchet, troviamo titoli come La france du jazz. Musique, modernité et identité dans la premiére moitié du XXe siécle, di Denis-Costant Martin e Olivier Roueff e Le champe Jazzistique di Alexandre Pierrepoint. Martin e Roueff sono entrambi sociologi ma con interessi storici e antropologicia Pierrepoint è una figura atipica, che unisce la passione per il movimento surrealista all’attività di ricercatore di antropologia ed etnologia all’università di Paris VII. Sono infatti di tipo etnologico i presupposti che gli consentono di considerare il “campo jazzistico” come uno spazio socio-culturale a tutti gli effetti. Avvalendosi di un vastissimo numero di testimonianze – fitte sequenze di spezzoni di interviste che formano l’indispensabile controcanto all’indagine – egli, mostra come il jazz non sia tanto un’etichetta musicale quanto un universo di valori potenziali, non esclusivamente centrati sulla musica. Per questo nel corso della sua evoluzione ha potuto metabolizzare le esperienze più varie, allargando il suo territorio fino al punto da non possederne più uno proprio. Nell’immaginario comune, infatti, la comunità jazzistica non condivide un preciso spazio simbolico ma semmai una condizione d’esilio, dal momento che i musicisti creatori portano con sé il loro territorio. Il quale appunto si definisce di volta in volta e in base alle circostanze, non in riferimento a uno specifico luogo ma piuttosto alla variabilità degli incontri. Tale condizione produce due importanti conseguenze. Da un lato collega l’esistenza del jazzman alla capacità di costruire giorno per giorno lo spazio del proprio sentire, dall’altro propone un inedito concetto di appartenenza legato ad un’idea di comunità senza territorio e senza sovranità, per la quale non è tanto questione di condividere procedure tecniche e compositive quanto piuttosto un diverso modello relazionale. A una domanda idealistica circa l’”essenza” del jazz si sostituisce così un campo di forze che riattualizza il discorso di Amiri Baraka sulla musica nera come espressione di un‘attitudine concernente principalmente il mondo, e solo secondariamente la tecnica musicale. Ovvero – lo ricorda Andela Davies – come

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capacità di tenere insieme la creatività artistica e l’emancipazione culturale. Da cui discende che il “campo jazzistico” è in grado di proporsi come spazio politico in senso lato, poiché interviene sulle modalità di costituzione della polis praticando un altro modo di stare insieme, una diversa ipotesi di società. Non sono questioni di poco conto, e suggeriscono qualche riflessione sullo stato della ricerca in Italia e sulla connessa attività editoriale. Se in Francia si studia il jazz osservandolo da molti punti di vista, è perché lo si considera una chiave interpretativa del moderno e della sua complessità. Ciò consente di estendere il concetto di “campo jazzistico” oltre i limiti della musica, comprendendovi tutte quelle pratiche discorsive che ne precisano il senso e sostengono la ricezione, a cominciare dal lavoro critico. Al quale in Francia contribuisce la parte migliore del mondo accademico, quella che non ha perduto il coraggio di raccogliere le sfide intellettuali e che interpreta la propria funzione condividendo un ambito di ricerca e non difendendo un sapere gerarchizzato. (...) Naturalmente lo studioso italiano non ignora la produzione straniera, e nel suo lavoro ne tiene debito conto. Tuttavia la mancata traduzione impedisce talvolta di comprendere l’importanza, o addirittura di conoscere l’esistenza, di un problema. Quanti, per esempio, in mancanza di testi di lingua italiana hanno potuto riflettere sul dibattito che un tempo coinvolse LeRoi Jones (non ancora Amiri Baraka), Ralph Ellison e Albert Murray sulla funzione del Blues, ovvero sul senso più profondo dell’esperienza musicale nera? Aveva forse ragione Madame de Stäel, quando ai primi dell’Ottocento ci stimolava a tradurre i contemporanei per capire il presente? E non si tratta solo di un problema di politica editoriale, dunque di mercato, che penalizza il pubblico dei lettori. Si tratta di un problema che influisce anche sull’orientamento degli studi, sul fatto che mentre si affinano progressivamente gli strumenti di indagine non si riflette abbastanza sullo statuto della critica. In ambito jazzistico, infatti, chi si affida a un modello scientista tende a supporre che il discorso possa comprendere l’oggetto, ricoprirlo interamente riconducendolo alle leggi della propria dialettica interna. Ma le pratiche discorsive non sono innocenti, e interagiscono fra loro e con il mondo in modo problematico: le parole, insomma, non sono le cose (e nemmeno i suoni). Dal canto suo, chi si muove in ambito storiografico pare invece che l’ostensione dei dati basti a se stessa, che la loro organizzazione e interpretazione non faccia problema. Questo perché c’è una diffusa resistenza ad ammettere (comprendere?) che la trasparenza è più che altro un orizzonte di riferimento, che l’istanza critica si misura con forze (prime fra tutte quelle relative all’atto di scrittura) più vicine alla disordinata spinta del desiderio che alla quiete, un po’ mortifera, dell’appagamento. Ciò si traduce in una evidente difficoltà a valutare le implicazioni teoriche connesse allo svolgimento del proprio lavoro, a risalire dalla attualità del dato alla più ampia cornice di un progetto culturale. Se poi il sapere accademico appare poco attento ai temi transculturali (nessun dubbio che in Italia sia così), non si può ignorare che da sempre si interroga sul proprio statuto e non cessa di porsi il problema dell’interpretazione, della sua possibilità filosofica e praticabilità etica. Fra le caratteristiche del sapere istituzionale c’è forse la rigidità, non il dilettantismo. Come fra i pregi del sapere non istituzionale s’incontra più spesso il gusto dell’avventura che una reale consapevolezza dei propri strumenti. Per questo il mancato colloquio è una doppia iattura: chi snobba il jazz non sa cosa perde, in termini di possibilità conoscitive, e chi lo difende a oltranza tende a scivolare nell’equivoco di una critica ingenua o risentita. Tutto questo è puntualmente registrato dal nostro panorama editoriale, spia (ma anche causa) di un paradosso che vede da un lato la colpevole disattenzione di quanti, accademici di professione, si limitano a gestire la rendita del loro potere simbolico ed economico, e dall’altro lo zelo un po’ naïf di chi ambisce soprattutto a un risarcimento, e sentendosi istituzionalmente sottostimato cerca poi di procurarsi una cattedra universitaria. Si tratta di una situazione interessante e che chiarisce, se mai ve ne fosse bisogno, coma l’accademia non sia solo uno stato di fatto ma anche, e forse soprattutto, uno stato d’animo. Tuttavia la particolarità francese è forse più marcata sotto il profilo dello stato degli studi che non dello svolgersi delle vicende che costituiscono l’oggetto d’analisi. Basti pensare all’ampiezza della ricezione jazzistica nell’Italia degli anni venti e trenta: che determinò la moda del “nero”, la passione per i ritmi sincopati, un’ampia letteratura di genere (non sempre di scarso rilievo), innumerevoli polemiche giornalistiche e l’insorgere di una vera e propria “febbre” del jazz. Senza dimenticare un osservatore attento come Antonio Gramsci, che in alcune lettere dal carcere si mostra preoccupato dell’influenza della musica sincopata sui costumi degli italiani. Se tutto ciò è plausibile, s’intende come da noi scarseggi non tanto il materiale di studio ma l’interesse degli studiosi, scarseggino insomma la cultura del confronto e la passione dell’interdisciplinarietà. Per questo stentiamo a comprendere che l’importanza del jazz non risiede in quella o quell’altra sua caratteristica ma nella rete di relazioni che ha saputo istituire. Si potrebbe allora ipotizzare che il “campo jazzistico” italiano goda di una salute incerta. Poiché fatica a costituirsi come modello di una sociabilità aperta ma anche a proporsi come luogo di un sapere innovativo, come istanza intellettuale in grado di inventarsi, sono parole di Pierrepont, “la sua misura del possibile”. tratto dal volume “Il suono in figure” pensare con la musica, edito da Scuola di Cultura Contemporanea


visibili armonie di Michele Emmer Nel 1999 Peter Greenaway partecipò a un convegno della serie “matematica e cultura” a Venezia. Tra l’altro, arrivò con molte ore di ritardo con l’aereo da Amsterdam perché lo spazio sopra la città nella laguna era chiuso. Era il primo giorno del bombardamento sulla ex Jugoslavia. Greenaway aspettò a lungo e arrivò alla sera tardi. Voleva arrivare perché come disse non voleva “che la guerra fermasse la cultura”. Veniva a Venezia a presentare il film Drowning by Numbers (“affogare con i numeri”); il titolo italiano, in cui si perde il sapore numerico, era Giochi nell’acqua. Veniva a parlare della sua fascinazione per i numeri, da sempre, sin dai primi film. In un lungo articolo dal titolo Come costruire un film, Greenaway ha descritto molto chiaramente come è nato l’interesse per i numeri e per le griglie numeriche da usare nei suoi film. Non a caso aveva intitolato Fear of Drowning by Numbers, in italiano “Paura dei numeri”, un suo libro dal sottotitolo “100 pensieri sul cinema”. Qual’è il ruolo privilegiato dei numeri nel cinema?

Contare è il modo più semplice e primitivo di narrare – 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 – una storia con un principio, un centro, una fine e un senso della progressione – che culmina in un finale a due cifre – , uno scopo realizzato, un epilogo raggiunto. L’esigenza che aveva Greenaway era di ricercare qualcosa di più sostanziale della narrazione per tenere insieme il vocabolario del cinema:

Ho costantemente ricercato, citato e inventato principi organizzatori che riflettessero il passare del tempo con più successo della narrazione, che

codificassero il comportamento più in astratto che nella narrazione e adempissero a questi compiti con una qualche forma di distacco appassionato. [Per far questo] i numeri aiutano. I numeri possono significare strutture definibili, facilmente comprensibili in tutto il mondo. Con coerenza – alle volte anche eccessiva – Greenaway ha quasi sempre applicato questo dogma numerico al suo cinema, cominciando dalle 92 mappe che erano contenute in The falls (1980) e ai 92 personaggi di A Walk through H. (1978). Greenaway indica anche un responsabile principale di questa “fuga dal testo, dalla trama, dalla storia e dall’intreccio per mettere in risalto i numeri”: il musicista John Cage. Negli anni cinquanta Cage aveva inciso su disco tanti racconti, ognuno di sessanta secondi. Greenaway si sbagliò e contò 92 racconti, mentre in realtà erano solo 90. Quando il film The falls venne mostrato a Washington uno spettatore entusiasta disse a Greenaway che gli era piaciuto molto l’utilizzo del numero 92, numero atomico dell’uranio, in un film che trattava come il mondo poteva finire! In molti film ha prevalso poi l’utilizzo del numero 100 ( i 100 numeri erano disseminati in tutte le scene di Giochi nell’acqua). 100 era anche il numero di oggetti nella mostra organizzata da Greenaway 100 Objects to Represent the World, che ha girato a lungo in Europa. A Venezia nel 1999 il regista inglese annunciò che con il prossimo progetto, Tulse Luper Suitcases (sottotitolo “il racconto dell’uranio”), sarebbe ritornato “pieno di speranze alle primitive mitologie e al magico numero atomico 92”. E in effetti i numeri sono tra i protagonisti del film, una lunga storia, divisa in diverse parti, della vita di Tulse Luper. Che in realtà è qualcosa di diverso da un film, un’opera multimediale si potrebbe dire, banalizzando. Con alcuni momenti molto coinvolgenti, e altri dove prevale il “racconto”, anche irritanti, ma comunque sempre molto curati visivamente. Tutto è numerato nel film, catalogato si potrebbe dire. I personaggi, che saranno 92, i secondi dei filmati d’epoca che compaiono nella pellicola. Il tempo è sempre stato un fattore importante del cinema di Greenaway, e d’altra parte non esisterebbe il cinema senza lo scorrere del tempo, calcolato in 24 fotogrammi al secondo. Ci sono numeri che volano sulle immagini che compongono forme. Sono numerati i pugni che riceve in ogni sequenza il protagonista. Alle volte le figure che compongono i numeri servono a distrarre dalla visione stessa delle scene, a far cogliere che si sta guardando della sequenze della vita del protagonista ma non si deve essere troppo coinvolti. Stiamo assistendo a una catalogazione, a un esperimento numerato, filmato, contato. Che alle volte coinvolge, altre volte no. Chi è il protagonista, Tulse Luper? È un collezionista, si potrebbe dire, è il regista, che ogni tanto immette nel film alcuni richiami di altri suoi lavori. Greenaway riprende le idee che funzionavano molto bene nel documentario su Darwin e nel film Prospero’s Book. Nel primo, sulla scrivania dello scienziato apparivano immagini di animali, mondi, navi, oggetti, uomini. Tutto il mondo passava da quella scrivania senza che mai Darwin si muovesse. Il

mondo in una scatola, la scatola cinematografica. Così come nel film tratto da La Tempesta di Shakespeare, (Prospero’s Book) è l’enciclopedia del sapere che riempie la scena. Per capire, per comprendere, bisogna catalogare, numerare, avere un sistema, avere delle liste, ricordare. Certo non per caso si parla del nazismo, della violenza, dei numeri dei deportati. Il metodo, il sistema, che diventa la perversione, l’inferno, l’uomo come numero, senza nessun coinvolgimento. Tutto è numero. I pezzi di carbone, che diventeranno le montagne nelle avventure di Luper. Perché tutto è già scritto, numerato. E ogni oggetto, gli oggetti che descrivono il mondo tornano a essere 92, e 92 è il carbone. E tutto viene sistemato in valigie. In un gigantesco gioco dell’oca, in cui ogni casella ha una sorpresa. Come catalogavano tutto i nazisti. I nasi, le bocche, i visi. Il bambino è il numero 15; 43 è la macchina da presa. L’avventura umana ricondotta in scatole e numeri. Il pesce 53, la vasca da bagno 5. Negli scaffali dove tutto il contenuto delle valigie di Luper viene sistemato, un uomo, rannicchiato, ha il numero 92. Il fascino dei numeri, ma anche il fascismo dei numeri. Il delirio di trasformare milioni di persone i numeri, del contare, della contabilità di milioni di persone (o di semplici numeri, che sono molto più facilmente contabili). Il film non finisce, ovviamente; continua, la numerazione deve arrivare a 92. Numeri, numeri ovunque che segnano il tempo della nostra vita, che ci indicano, che ci condizionano. E dai sognatori di numeri, i matematici. Il fascino dei numeri, il fascino dei matematici. Oramai per vincere un premio come miglior attore, per essere candidato a un Oscar, bisogna interpretare il ruolo di un matematico, fascinatore e sognatore. Che personaggio poteva essere in un film il candidato a un trapianto di cuore, che dopo l’intervento decide di andare alla ricerca del donatore, lo trova, nel senso che scopre che il donatore è stato ucciso in un incidente d’auto? Quindi vuol conoscere la moglie, la vedova, la seduce e quando sono a letto e lei scopre le cicatrici dell’intervento al cuore e di chiede cosa si tratta, risponde “È il cuore di tuo marito” e allo sgomento di lei – comprensibile credo – se ne esce con una delle battute memorabili della storia del cinema: “Ma è un cuore buono!!!”. Non può trattarsi che di un matematico, che per affascinare la recentissima vedova se ne esce con battute del tipo: “ Tutto è numero, la natura opera tramite la matematica”. La geometria della natura è caotica, frattale. Insomma, i sistemi complessi visti tante volte al cinema. La stessa matematica che hanno utilizzato matematici e psicologi per cercare i modelli di una “matematica del matrimonio”. “È la matematica che ha permesso il nostro incontro”. Non Dio, come crede l’altro protagonista, il cattivone pentito (Benicio del Toro). Si tratta del film 21 Grams di Alejandro Gonzáles Iñárritu; protagonista, il matematico Sean Penn. Coppa Volpi al Festival del Cinema di Venezia, candidato all’Oscar come migliore attore. Certo un film di un regista messicano, barocco, ricorsivo, ossessivo, frattale. Eccessivo, ripetitivo. Preferisco il fascino dei numeri astratti, sarebbe troppo facile dire...senza cuore.

tratto dal volume “Visibili armonie” di Michele Emmer, Bollati Boringhieri 2006

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di Leonardo Zunica

ogni cosa è (comunque) illuminata - II parte Intermezzo 1. Coincidenze Carl Gustav Jung, in uno dei suoi ultimi scritti, cerca di spiegare come alcune cose a volte accadono secondo un principio stocastico non ortodosso, che lui chiama sincronicità. Ovvero coincidenze, fatti che si presentano alla nostra esperienza e ci forzano a considerare principi non razionali. Lui, questi principi, li definisce nessi a-causali. Oppure, più semplicemente, si potrebbe anche pensare che ognuno viva la propria esperienza secondo un proprio ignoto ma svelabile archetipo, il quale fa del mondo una continua fabbricazione di coincidenze, su misura, a propria immagine: un mondo come postulava William James, e poi anche i cibernetici, in cui la nostra esperienza del reale produce di continuo il reale. Il libro che Giovanna mi ha prestato per il viaggio, parla di Ebrei ucraini ed è ambientato a Luzk. Il nome dell’autore (Safran) è anche il nome di un bar di Vinnizia (più vecchio del libro). L’ultimo concerto che facciamo è in una sinagoga, adibita, dopo le epurazioni staliniste, a sala da concerti. Il protagonista del libro è vegetariano, come Xenia, la fidanzata di Oles che ci segue nel viaggio. E mangia solo patate, come la fidanzata di Oles. L’altro libro che ho preso con me è di Henry James, fratello di William James. L’ex direttore della Philarmonia di Zhytomir assomiglia a Sean Connery. Anche l’amico di Kiev, Anatoly, incontrato l’anno scorso, assomigliava a Sean Connery. L’attuale direttore della Philarmonia di Zhytomir è stato a Poggiorusco (Mn). Non sono mai stato a Poggiorusco. Ma è come se ci fossi stato. Lesia e la sua amica, le uniche due ragazze con le quali faccio amicizia, sono dello Scorpione. transatlantico24

Intermezzo 2. Kiev appare nel suo splendore. E’ illuminata come un palazzo orientale, e ingioellata come una donna. La gente si riversa sul kreshatik, la grande, monumentale via centrale, e canta e balla. Kiev non è l’Ucraina come New York non è gli Stati Uniti. Al di là dello Dnepr si accalcano i nuovi quartieri, sulle macerie delle periferie di ieri. Giganteschi silos inzuppati di vite umane sembrano nascere dal nulla. Come a Las Vegas nascono dalla polvere di un deserto, queste nuove, sterminate cose abitate, fanno pensare ai racconti di fantascienza, in cui i panorami disumanizzati sono lì a testimoniare un mondo che fatica a riconoscersi.

Pop Star L’autobus che porta a Rivne parte dalla stazione dei treni di Kiev. Non è un vero e proprio autobus. È un cabinato, a 12 posti, che qui chiamano marshrutka. Costa il doppio degli autobus statali, ma è molto più veloce. Ogni giorno, in Ucraina, milioni di persone si spostano con questi mezzi. Impieghiamo 4 ore per arrivare a Rivne, città che ogni giorno si affolla di gente per il bazaar, mercato all’aperto dove si trova tutto il necessario. A pranzo Pavlo Baginsky, il direttore d’orchestra, coreano di Mosca, figlio delle politiche transrazziali del comunismo orientale e trapiantato in Ucraina, mi delucida sulle differenze tra gli aggettivi rusky – russisky. Dice: “Tutto quello che si riferisce alla grande stagione culturale della Russia fino al crollo della Soyuz è chiamato rusky. Tutto quello che viene dopo, invece, è russisky”. Leggo in questo attento specificare un tono quasi dispregiativo,nei confronti della nuova Federazione Russa. Non corre buon sangue fra molti russi e molti ucraini. Dopo il concerto, foto finale con ragazzine che studiano il francese ma che evidentemente trovano l’Italiano egualmente esotico. Poi aspettiamo le due di notte nella stazione degli autobus, circondata da qualche locale notturno dal quale fuoriescono barcollanti minigonne e chiassose sacche di pelle nera; involucri accattivanti i primi e disgustosi i secondi, che contengono la vita notturna di Rivne. Arriviamo a Kiev alle sei e trenta, dopo una notte insonne passata ad ascoltare alla radio le pop stars dell’ex-madre russia.

il lungo ritorno (1) Nella mia stanza c’è un odore acre e pungente di piscio. Alzo la testa sul soffitto e scopro una colonia di zanzare che sopravvivono purtroppo anche con il freddo. È l’Hotel che ci ospita a Dnipropetrovsk, città che non ha ancora cambiato i nomi delle vie dopo il crollo dell’Unione sovietica. La sala della Philarmonia si trova in Lenin Uliza, mentre l’albergo nelle vicinanze della Marxiskaja. Il teatro è in remont e i soldi per la ristrutturazione si raccimolano ospitando all’entrata un bazaar che vende ogni cosa: spazzolini da denti, accessori per la casa, indumenti a costi popolari, giornali, pellicce sintetiche. Si accede sul palco da un’entrata laterale, dove in vestito da concerto passiamo attraverso una fumosa sala da biliardo (noto al tavolo una bionda e una mora con pantaloni neri attillati che maneggiano la stecca, soddisfando appieno il più esigente immaginario maschile) e di video poker, che qui chiamano automaty, ai quali sono automaticamente attaccati giovani dall’aria poco simpatica. A Dnipropetrovsk in pochi parlano ucraino. Il russo è la lingua ufficiale. L’Italia, come al solito, è un immaginario collettivo, una specie di sogno presente nelle vie, nella gente: ma un sogno che si frantuma nella catena di ristoranti Celentano (dove si mangia malissimo), nelle canzoni di Ramazzotti e Masini alla radio, nel concerto di Toto Cotugno. E vedere il suo nome in cirillico fa un certo effetto. Arriviamo, scendendo a sud-est da Kiev verso Poltava, da Kharkov, ex capitale ucraina dell’era sovietica. Fa un milione e mezzo d’abitanti e vi si trova la più grande piazza d’Europa, come dice la guida, in stile post-cubista. In piena crescita economica Kharkov è una città viva, piena di cafè-bar, negozi e ristoranti. La Russia è a soli 15 chilometri. Alla sera dopo il concerto si mangia con Sergey, moscovita ma con origini del Kazakstan, che vive da quindici anni a Singapore ed è appassionato di musica. Di lavoro installa impianti audio per auto. Entusiasta del nostro concerto ci offre la cena in uno dei ristoranti più frequentati dai nuovi ucraini, legittima estensione dei nuovi russi: il Pappagallo Verde. Effettivamente, come mi mostra fieramente un cameriere fin troppo ossequioso, il variopinto animale se ne sta nella sua gabbia. Insieme a lui popolano il ristorante energumeni dai colli schiacciati, vestiti di nero o panna con cravatte sgargianti, accompagnati da bionde ossigenate in rosso-viola-rosa, con stivali neri fino alle ginocchia, e che fumano, una dietro l’altra, le sigarette sottili, quasi-simbolo dell’emancipazione femminile. Prima di andare a dormire guardo fra le mie cose, e trovo uno spartito che una tale Olga Eduardovna (come leggo sul biglietto da visita) mi ha consegnato subito dopo il concerto. Mi dice: “questa è una mia composizione, tu devi suonarla”. Poi farfuglia qualcosa che non capisco. I suoi occhi sono segnati da un’incalcolabile tristezza, e il suo corpo, ricurvo e modesto, appare provato, forse da qualche malanno cronico. Nello stringerle la mano e nel


ringraziarla le provoco una smorfia di dolore che non so recuperare. Si prova qualcosa che deve assomigliare alla vergogna nel non capire ciò che le persone dicono, nel non sapere, alla fine, chi sono e da dove vengono.

Intermezzo 3. prima del lungo ritorno Cioran dice, in Storia e Utopia, che il popolo russo (estendo la cosa anche agli ucraini) possiede una speciale inclinazione ed ossessione per la grandezza. Bolshoy (grande; sic) kolossalna, catastropha, sono normali aggettivazioni disseminate nei discorsi degli abitanti di questo pezzo di pianeta. Vi è nell’eloquio un’appariscente e megalomane tendenza all’approssimazione per eccesso. Il risorgimento dell’anima slava/russa/ucraina si attacca ad un’isterica quanto encomiabile attenzione per le manifestazioni di quell’individualismo eroico e anche un po’ maschilista (e oggi, comunque, consumistico e lievemente pornografico) che l’etica comunista ha cercato di estirpare, ottenendo al contrario una generazione di nazionalisti e sessisti, per la verità, un po’ goffi.

il lungo ritorno (2) Quattro giorni ci separano dalla frontiera ungherese. Sulla via sbagliamo strada e ci troviamo faccia a faccia con la Moldavia. Non nascondiamo una certa curiosità di varcare il limite, visto, a quanto si dice, che in Moldavia ci siano delle donne bellissime. Non appuriamo la cosa e, dopo 900 km di autostrada ucraina, pensiamo bene di fare rotta verso Ivano – Frankivsk e poi, l’indomani, verso Uzgorod, dove abbiamo l’ultimo concerto. Ci fermiamo per una visita alla città. Di fronte alla chiesa della Madre del Nostro Signore di Ivano-Frankivsk (nome attribuitole solo negli anni ‘60, in onore al poeta nazionale Ivan Franko) ci si rende conto di come Dio qui sia forte e fisico, corporeo. Il senso religioso che trasuda dalla gente è fatto di ardenti baci alle icone, di un continuo e danzante segnarsi in senso contrario al segno cristiano-romano, di ex-voto depositati ai piedi delle immagini votive. L’inginocchiamento repentino e senza esitazione di vecchi e giovani ha qualcosa di imbarazzante e allo stesso tempo ammirevole, come è imbarazzate ed ammirevole ogni segno che unisce in sé abbandono, fiducia, speranza, rassegnazione. A Uzgorod, tranquilla cittadina adagiata sul fiume Uz, e appoggiata al confine slovacco, alloggiamo nel sovietico Hotel Zakarpathia, al decimo piano, in classe economica, cioè senza televisione. L’acqua calda c’è, come sempre, al mattino e alla sera. Di fronte alla mia stanza una nuova cattedrale ortodossa. Ma pare di stare a Baghdad. Mangiamo benissimo in un ristorante che si chiama Old Continent, a nostre spese. Un opuscolo turistico rivela come qui vivano, side by side, ucraini, rom, slovacchi, cechi, ebrei, ungheresi. Il concerto è domani alle 18.00, mentre alle sette e mezza di mattina dobbiamo essere pronti per apparire su TeleUzgorod, per l’ennesima intervista. Siamo sicuri che andrà tutto bene.

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nella foto Emilio Jesi e Marino Marini la poesia è tratta dalla raccolta ‘Lathe biosas’ Galata Edizioni, Genova 2008 gentilmente concessa dall’autore

di Ivan Fiaccadori

Il tempo è galantuomo, si dice. Eppure talvolta anche chi galantuomo lo è stato può subire l’oblio, quasi una damnatio memoriae, se viene a mancare quell’attenzione e curiosità per la sostanza che forma la Storia. Forse questo è quanto accade oggi a Emilio Jesi (1902 - 1974). Nell’anno dei festeggiamenti per i 200 anni della Pinacoteca di Brera, il visitatore attratto dalla ricorrenza, dopo aver osservato già qualche decina di capolavori di scuola veneta e lombarda, oltrepassato il salone delle grandi tele, quasi magicamente rischia d’imbattersi in una rassegna di autori che costituiscono l’ossatura dell’arte novecentesca italiana, quali Boccioni, Carrà, de Pisis, Modigliani, Morandi, Marini, Sironi e Severini, solo per citarne alcuni, tutti collocati in una stretta manica che costringe ad una visione fin troppo incalzante delle opere. Ebbene, la formazione di questa sezione straordinaria per qualità e coerenza si deve soprattutto alla donazione fatta allo Stato da Emilio Jesi e dalla moglie Maria, che hanno voluto dedicare la propria raccolta, distillato mutevole della loro vita, “agli artisti e agli amatori d’ieri, d’oggi e di domani”. Ed è stata questa ri-scoperta artistica, propiziata da frequentazioni estive e da incombenze milanesi, e non il napoleonico bicentenario, a sollecitarci la necessità curiosa di conoscere meglio la figura di Emilio Jesi. Alcune persone scelgono anche inconsciamente di assegnarsi un proprio ruolo nel mondo, ed Emilio Jesi si è ritagliato quello del cultore dell’arte, o forse meglio del savoir vivre, in senso profondo, più che semplicemente mondano. Come uomo, egli è vissuto per l’arte a lui contemporanea nel segno della ricerca/raccolta/lascito. È per questo che la sua vicenda umana pare meritevole di attenzione per l’estrema passione artistica e civile, ma anche per una certa riservatezza nel condurre la propria vita. La traccia della sua visione dell’arte è paradossalmente molto evidente, sotto gli occhi di tutti, ed è rintracciabile tra queste due polarità: l’impressionante collezione di opere del Novecento che porta il suo nome presso Brera e la Torre Belforti di Montecatini Val di Cecina, piccolo borgo toscano affacciato sulle crete di Volterra. Tra queste due evidenze si snoda la storia di un uomo che, come ricordato dal nipote Daniele Bollea, considerava le opere d’arte come ‘amici’, come graditi ospiti in grado di portare significato e vita nella sua austera ed elegante casa, ma anche di sviluppare relazioni personali complesse con artisti, critici e mercanti. Attratto fin da giovane dall’arte, Emilio Jesi, terminati gli studi giuridici, aveva scelto di dedicarsi all’attività di famiglia, restando comunque intimamente legato al mondo artistico romano, ma ampliando poi il suo raggio d’azione tra Genova e Milano, con

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quella disinvoltura tipica dell’intellettuale prestato agli affari. Suggestivo il racconto di Miriam Mafai del 1982, in visita al primo nucleo della collezione Jesi nell’allestimento pensato da Ignazio Gardella. Lì testimonia che il rapporto tra i propri genitori (Mario e Antonietta Raphael) e il committente non era fatto solo di rapporti economici, ma soprattutto di frequentazione, di affetto e persino di protezione, specialmente durante i tempi duri della guerra e della discriminazione razziale trascorsi a Genova. Ma l’interesse per condividere il suo “distillato” artistico con la società viene perseguito anche prendendo dei rischi. È infatti Gian Alberto Dell’acqua, funzionario all’epoca della Soprintendenza milanese, che ci ricorda come Emilio Jesi, nel 1942, avesse prestato 14 opere per una mostra monografica su Carrà nelle sale di Brera sotto la dicitura di “Collezione della Lanterna” scegliendo quindi l’anonimato per motivi di cautela nel periodo delle persecuzioni antisemite. Quella mostra era stata pensata per occupare gli spazi lasciati liberi dalle tele degli antichi maestri, già trasferite per precauzione a Perugia, ed era stata voluta per mantenere vivo il confronto sulla scena milanese. Va infatti riconosciuto a quell’ambiente artistico un alto senso d’appartenenza civica, come dimostrato in quegli anni difficili dall’associazione degli Amici di Brera che nel 1939 aveva deciso di donare alla Pinacoteca la Cena di Emmaus di Caravaggio. L’amicizia e la stima reciproca con Russoli, soprintendente milanese tra il 1973 e il 1977, consentono a Jesi di realizzare il suo disegno critico sull’arte moderna attraverso la donazione a Brera della sua collezione/creazione, scegliendo di metterla in relazione con l’arte del passato per diventarne riscontro, e non di venire ammutolita nella ‘specializzazione’ e nell’autoreferenzialità dei musei monotematici. E così, con perfetta simmetria d’intenti, alla fine degli anni ‘60, in cambio di un credito commerciale inesigibile, decide di riscattare il rudere della torre Belforti di Montecatini Val di Cecina e di dar corso ai lavori di restauro del manufatto lapideo trecentesco, quasi a voler saturare in modo definitivo la sua passionale attrazione per la scultura. Il manufatto storico, riferimento pubblico su scala territoriale, come un enorme totem piantato nelle colline toscane, può essere interpretato come un punto esclamativo posto alla fine di un lungo, costante, devoto e operoso discorso recitato proprio “agli artisti e agli amatori d’ieri, d’oggi e di domani”. È per tanti motivi, ma soprattutto per questa idea di patrimonio artistico aperto e inserito nel continuum del tempo e della civitas, che dobbiamo ricordare la visione di Emilio Jesi e forse ricominciare a seguire e decifrare quelle tracce che ha lasciato durante il suo cammino nell’arte e nella società.

Filippo de Pisis, Fiori alla finestra

Filippo de Pisis, Natura morta con fiori e bottiglia

Filippo de Pisis, Le peonie

Filippo de Pisis, Natura morta con cestino di frutta

Filippo de Pisis, San Moisè

Filippo de Pisis, Grandi fiori

Filippo de Pisis, Lungosenna agli Invalidi

Filippo de Pisis, Parigi con la fabbrica

Filippo de Pisis, Natura morta marina con la pavoncella

Filippo de Pisis, Natura morta marina con scampi

Filippo de Pisis, I pesci sacri

Filippo de Pisis, Natura morta con le uova

Carlo Carrà, La segheria dei marmi

Carlo Carrà, La casa dell’amore

Carlo Carrà, Madre e figlio

Carlo Carrà, La camera incantata

Carlo Carrà, La musa metafisica

Carlo Carrà, Ritmi di oggetti

Massimo Campigli, Il giardino

George Braque, Le gueridon vert devant la fenètre

Pierre Bonnard, Ritratto di Marta Bonnard

Umberto Boccioni, La città sale

Umberto Boccioni, Rissa in Galleria

Afro Basaldella, Silver dollar club

presso la Pinacoteca di Brera

Collezione Jesi

Emilio Jesi, una vita per l’arte


la torre del merlo

di Daniele Bollea

Mecenate prossimo alla morte

mio zio restaurò un’antica torre.

Lo rattristava l’arte del tempo

e il Medio Evo sentiva alle porte.

Forse per espiare, ascendeva zoppo

le molte scale della torre Belforti,

o forse per trovarsi in assetto

per rampe ultraterrene. Ateo incerto,

di tutto dubitava salvo del bello:

base indefinibile di tutto, per cui

puoi vivere senza sapere cos’è.

Ma poi che sulla verità non si fa tana

e a nessuno è concessa l’esclusiva

soleva dire: tu sai quel che sai dire,

il resto è inganno.

Come a lasciarsi dietro tanti inganni

saliva quelle scale Emilio Jesi.

La terza sala in verticale

ha finestre da ogni parte,

vedi città, paesi, monti, laghi e il mare.

Sospeso in quella aereo-nave del ‘300

sostava ammutolito il vecchio ebreo,

così come attonito si arresta,

in vista della meta, il pellegrino.

Poi, pensando al costoso supplizio,

rideva di sè dicendo che quella

era la torre del merlo.

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Wols, Composizione IV

Ardengo Soffici, Santa Cristina

Ardengo Soffici, Cocomero e liquori

Mario Sironi, Paesaggio urbano con ciminiera

Mario Sironi, Paesaggio urbano con viandante

Mario Sironi, Paesaggio urbano

Mario Sironi, La lampada

Mario Sironi, L’atelier delle meraviglie

Mario Sironi, Il camion

Gino Severini, Grande natura morta con la fruttiera

Gino Severini, Grande natura morta con la zucca

Gino Severini, Le Nord-Sud

Scipione, Ritratto della madre

Scipione, Natura morta con sogliole e moneta

Scipione, Il cardinale Vannutelli sul letto di morte

Medardo Rosso, Dame à la voilette

Medardo Rosso, Bambino ebreo

Medardo Rosso, La petite rieuse

Ottone Rosai, Concertino

Ottone Rosai, Casa toscana

Ottone Rosai, Natura morta: il banco del falegname

Antonietta Raphael de Simon Mafai, Passeggiata archeologica

Serge Poliakoff, Composizione

Pablo Picasso, Testa di toro

Giorgio Morandi, Paesaggio (1936)

Giorgio Morandi, Paesaggio (1932)

Giorgio Morandi, Natura morta (1929)

Giorgio Morandi, Natura morta (1929)

Giorgio Morandi, Paesaggio (1925)

Giorgio Morandi, Autoritratto

Giorgio Morandi, Natura morta (1921)

Giorgio Morandi, Natura morta metafisica con la squadra

Giorgio Morandi, Natura morta (1919)

Giorgio Morandi, Natura morta (1918)

Giorgio Morandi, Fiori

Giorgio Morandi, Paesaggio (1916)

Giorgio Morandi, Paesaggio (1914)

Amedeo Modigliani, Ritratto d’uomo (trafugato nel 1986)

Amedeo Modigliani, Testa di giovane donna

Amedeo Modigliani, Ritratto del pittore Moisé Kisling

Arturo Martini, Ofelia

Arturo Martini, Bevitore

Marino Marini, Miracolo (Cavallo e cavaliere)

Marino Marini, Pomona (Nudo)

Marino Marini, Ritratto di Emilio Jesi

Marino Marini, Il miracolo(Cattedrale)

Marino Marini, Giovinetta (Nudo femminile o Nuda)

Marino Marini, Pomona sdraiata (Pomona)

Mario Mafai, Fiori secchi

Mario Mafai, Bue squartato

Osvaldo Licini, Angelo ribelle con luna bianca

Osvaldo Licini, Il bilico

Maurice Estève, Interieur à la baie

Filippo de Pisis, Natura morta marina con la penna

Filippo de Pisis, Ritratto di donna

Filippo de Pisis, Fiori nel bicchiere e libro



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