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• LEONARDO ZUNICA • GILLES DELEUZE • GIOVANNA VENTURINI • MICOL FERRETTI • GIANLUCA GANDA • MAURO CARBONE • PIERGIORGIO ODIFREDDI • ROLAND BARTHES • GIOVANNI MALAVASI • PAOLO VANINI • MASSIMO BIASIONI • GIOVANNI PASETTI •

trimestrale dell’associazione Diabolus in Musica

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numero 3 _ inverno 08


trimestrale dell’associazione Diabolus in Musica

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editoriale A Natale si è tutti più buoni. Non inveiremo quindi contro la facile ed ovvia scelta di ospitare lo pseudo-autistico, perfetto e performativo comporre di Giovanni Allevi in occasione del concerto natalizio in Senato. Ha fatto un po’ tenerezza vedere in conferenza stampa il nostro “migliore pianista” smettere la felpa, icona soft, per indossare una giacca, con taglio che non concedeva troppo allo stile severo, hard. Per un Natale più buono e consapevole ci voleva il buonismo e il know-how politico-musicale della coppia Schifani/Allevi: padre il primo, figliuol prodigo il secondo. Così l’idea utopica di famiglia e di società è ripristinata nel candore soffuso, nel sorriso pacato, quand’anche nel singhiozzo. È la colonna sonora della vita. Non saremo buoni invece con la presunta riforma della scuola. Non per il disegno generale, ché non vi è spazio qui per porlo sotto disamina, ma per il cronico silenzio e la consueta superficialità dimostrati nei confronti della materia di cui si occupa in parte questa pubblicazione: la musica. Nella furia cieca ed ossessiva dei ridimensionamenti necessari e dei tagli opportuni, si dimostra l’inattaccabile passione per ciò che ci ha contraddistinto nella storia: il confronto, il dibattito, la chiacchera; ed anche una propensione, compulsiva e fallica, nel voler configurare qualcosa di assolutamente originale, quando basterebbe guardare fuori e prendere in prestito dagli altri paesi un modello, un sistema. L’umiltà e l’imitazione potrebbero essere strumenti progettuali da rivalutare; l’essere assolutamente se stessi, lo scolastico ed ipocrita “dillo con parole tue”, bisognerebbe a volte rigettarli nell’orizzonte del puro abbaglio. Non entreremo qui nel dettaglio della riforma dell’educazione musicale, poiché non vi è in verità nessuna riforma, o nessuna vera intenzione di ridisegnare efficacemente il rapporto confuso e dilettantesco che abbiamo con una materia tanto sfuggente. E quindi nessuna proposta fattuale, nessun progetto, originale o meno, che restituisca, ad oggi, la speranza di una cultura e di una conoscenza musicale seria, diffusa e globale. Leonardo Zunica

Direttore responsabile Leonardo Zunica redazione Leonardo Zunica Giovanna Venturini Micol Ferretti grafica Paola Pradella editing Antonio Galuzzi Paolo Vanini hanno collaborato Piergiorgio Odifreddi Massimo Biasioni Gianluca Ganda Mauro Carbone Giovanni Malavasi Giovanni Pasetti si ringraziano Giulio Einaudi editore Cronopio edizioni Mimesis edizioni Roberto Piccinini stampa FDA Eurostampa di Borgosatollo BS in copertina “Transatlantico” di Marco Culpo info transatlantico.mn@gmail.com Associazione Culturale Diabolus in Musica Via Eremo, 37/A 46010 Curtatone MN www.diabolusinmusica.org www.eterotopie.it Registrato presso il Tribunale di Mantova N. 4/2008 Registro di stampa in data 16 Giugno 2008 Stampato in 3.000 copie

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sommario

numero 3 _ inverno 08

Le cave di Micol Ferretti

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Radiofonia schizoide con inglesi in fila indiana di Giovanni Malavasi

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Intervista a Philp Glass di Piergiorgio Odifreddi

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Vessazioni d’oriente e d’occidente di Micol Ferretti

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Appunti sulla musica elettronica oggi di Massimo Biasioni

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Incontri per dissonanze di Gianluca Ganda

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Che cos’è l’atto di creazione di Gilles Deleuze

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Viste, lette e riviste di Giovanni Pasetti

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Arte e tradimenti di Paolo Vanini

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Dizionario di musica inudibile

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Varco. le vie dell’arte contemporanea

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Editoriale Musica Practica di Roland Barthes

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Il cinema e l’immagine del pensiero di Mauro Carbone

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Ogni cosa è (comunque) illuminata di Leonardo Zunica

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Menske ovvero essere umano di Giovanna Venturini

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di Roland Barthes L’artista cerca la sua “verità” e questa ricerca diventa un’ordine in sé, un messaggio globalmente leggibile, nonostante le variazioni del suo contenuto; o almeno la sua leggibilità si nutre di una specie di totalità dell’artista: la sua carriera, gli amori, le idee, il carattere, le sue intenzioni diventano tratti di senso.

continua dal numero 1_08

Nasce una biografia beethoveniana (sarebbe meglio dire: una bio-mitologia); l’artista prodotto come un eroe completo, dotato di un discorso (cosa rara per un musicista), di una leggenda (una buona dozzina di aneddoti), di una iconografia, di una razza (quella dei Titani dell’Arte: Michelangelo, Balzac) e di un male fatale (la sordità di colui che creava per il piacere delle nostre orecchie). Alcuni tratti probabilmente strutturali sono venuti a integrarsi in questo sistema di senso che ha il Beethoven romantico (tratti ambigui, ad un tempo musicali e psicologici): lo sviluppo parossistico dei contrasti di intensità (l’opposizione significante dei piano e del forte, la cui importanza storica forse è sopravvalutata poichè in fin dei conti, segna solo una minima parte della musica universale e corrisponde all’invenzione di uno strumento il cui nome è sufficientemente significativo, il pianoforte), l’esplosione della melodia, recepita come il simbolo dell’inquietudine e del pathos creativo, la ridondanza energica dei colpi e delle clausole (immagine ingenua del destino che abbatte), l’esperienza dei limiti (abolizione o inversione delle parti tradizionali del discorso), la produzione di chimere musicali (la voce che sorge dalla sinfonia). Tutto quello che si poteva trasformare metaforicamente in valori pseudofilosofici, da recepirsi in ogni caso musicalmente perchè si dispiegava pur sempre sotto l’autorità del codice fondamentale dell’Occidente, la tonalità. Ora, questa immagine romantica (il cui senso è in definitiva un certo scordato) produce un disagio nell’esecuzione: il dilettante non può padroneggiare la musica di Beethoven, non tanto per le difficoltà tecniche quanto per la mancanza del codice della musica practica precedente. Secondo tale codice, l’immagine fantasmatica (cioè corporea) che guidava l’esecutore era quella di un canto (che si “fila” interiormente); con Beethoven, la pulsione mimetica (il fantasma musicale non consiste forse nel situare se stessi, come soggetto, nella scena dell’esecuzione?) diventa orchestrale; sfugge dunque al feticismo di un solo elemento (voce o ritmo); il corpo vuole essere totale, così viene distrutta l’idea di un fare intimista o familiare: voler suonare Beethoven significa proiettarsi nella figura di un direttore d’orchestra (è il sogno di quanti bambini? il sogno tautologico di quanti capi che dirigono in preda ai segni del possesso panico?) L’opera beethoveniana abbandona il dilettante e sembra, in un primo momento. richiamare la nuova divinità romantica, l’interprete. Da ciò,una nuova delusione: chi (quale solista, quale pianista?) suona bene Beethoven? Si direbbe che questa musica inviti a scegliere tra un “ruolo” e la sua assenza, tra la demiurgia illusoria e la piattezza saggia, sublimata con il nome di rinuncia.

Forse perchè nella musica di Beethoven c’è qualcosa di inaudibile (la cui audizione non è il luogo esatto). Pensiamo al secondo Beethoven. Non è possibile che un musicista sia sordo per pura contingenza o per crudeltà del destino (il che è lo stesso). La sordità di Beethoven designa la mancanza in cui si situa ogni significazione: rinvia a una musica non astratta o interiore, ma dotata, per così dire, di un intelligibiIe sensibile, dell’intelligibiIe come sensibile. Questa categoria è di per sé rivoluzionaria, e non può essere pensata nei termini dell’estetica antica; l’opera che vi si sottopone non può essere recepita secondo la pura sensualità che è sempre culturale, e neppure secondo un ordine intelligibile che sarebbe quello dello sviluppo (retorico, tematico); senza di essa, né il testo moderno, né la musica contemporanea possono essere accettate. Come si sa dopo le analisi di Boucourechliev: questo Beethoven è in modo esemplare quello delle Variazioni Diabelli. L’operazione che permette di coglierlo (e la categoria che egli inaugura) non può essere né l’esecuzione, né l‘audizione, ma la lettura. Ciò non significa che sia necessario mettersi davanti a uno spartito di Beethoven per ottenere un ascolto interiore (che resterebbe ancora tributario dell’antico fantasma animista); ma che, per coglierla in modo astratto o sensuale, poco importa, bisogna mettersi, nei confronti di questa musica, nella condizione, o meglio nell’attività di un esecutore, il quale sappia spostare, raggruppare, combinare, collegare, e cioè (usando un termine fin troppo noto): strutturare (il che è ben diverso dal costruire o ricostruire nell’accezione classica). Come la lettura di un testo moderno (quale almeno può essere postulata, richiesta) non consiste nel ricevere, conoscere, o sentire quel testo, ma nel riscriverlo, nel traversare la sua scrittura con una nuova iscrizione, cosi leggere questo Beethoven significa operare la sua musica, attirarla (vi si presta) in una prassi sconosciuta. Possiamo così ritrovare, modificata secondo il movimento della dialettica storica, una certa musica practica. A che serve comporre se si deve confinare il prodotto entro i limiti del concerto o nella solitudine della ricezione radiofonica? Comporre è, almeno tendenzialmente, dare da fare, non dare da sentire, ma dare da scrivere. Il luogo moderno della musica non è la saIa ma la scena in cui i musicisti trasmigrano in un movimento talora pieno di luce, da una fonte sonora a un’altra: siamo noi che suoniamo, anche se ancora per procura; ma possiamo immaginare che - più tardi? - il concerto diventi esclusivamente un atelier, dal quale non trabocchi nulla, nessun sogno o nessun immaginario, in una parola nessuna “anima”, e dove tutto il fare musicale sia assorbito in una prassi senza resto. È questa utopia che un certo Beethoven, che non è suonato, ci insegna a formulare - ciò in cui è possibile presentire in lui un musicista d’avvenire. tratto dal volume “L’ovvio e l’ottuso” gentilmente concesso da Giulio Einaudi Editore

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Intervista a PHILIP GLASS di Piergiorgio Odifreddi

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La musica classica ha imboccato nel Novecento una strada pericolosa, di un intellettualismo esasperato, che l’ha sempre più allontanata dal grande pubblico. Fra i pochi compositori contemporanei che sappiano combinare l’intelligenza con la leggibilità spicca Philip Glass, che prima di dedicarsi alla musica si è laureato in matematica e filosofia nel 1955, a soli diciannove anni, alla prestigiosa Università di Chicago. Glass ha attirato l’attenzione nel 1974 con “Musica in dodici parti”, uno sterminato lavoro minimalista, ma ha raggiunto il successo soprattutto con due trilogie: il commento musicale ai film di sole immagini di Godfrey Reggio (“Koyaanisqatsi”, “Powaqqatsi” e “Naqoyqatsi”), e il ciclo di opere sugli uomini che hanno cambiato il mondo nella scienza (“Einstein sulla spiaggia”), nella politica (“Satyagraha” su Gandhi) e nella religione (“Akhnaten”). Oggi Glass è uno dei musicisti più popolari del mondo, e nella sua musica ci si può imbattere nelle occasioni più disparate: dalla cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Los Angeles, alle colonne sonore di film che vanno da “Kundun” a “The Truman Show”. In questi giorni Glass è in tournèe in Italia, e l’abbiamo intervistato nell’occasione.

Vogliamo cominciare da dove lei ha cominciato, cioè dalla scienza? Già da bambino ero interessato, oltre che alla musica, all’astronomia: ad esempio, mi piaceva costruire telescopi. Nei primi anni dell’università ho studiato molta scienza e matematica, ma ero circondato da gente troppo brillante e ho capito che in quel campo non sarei riuscito a emergere. E poi il mio vero interesse era la musica, che gradualmente mi ha coinvolto completamente.

E oggi ha perso l’interesse per la scienza? Oh, no! Leggo sia “Scientific American” che libri divulgativi, come quelli di Steven Hawking sui buchi neri o di Brian Greene sulla teoria delle stringhe.

3.

Ha mai usato la matematica che ha studiato, nella musica che ha scritto?

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Pierre Boulez, che ha anch’egli studiato matematica, le ha però usate nel suo lavoro.

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Lei comunque non si definirebbe un musicista, se non “matematico’’, almeno “logico’’?

È difficile da dire. Benchè la matematica e la musica siano linguaggi astratti autonomi, si intersecano parzialmente nel campo delle strutture ritmiche. Soprattutto nella musica tradizionale indiana. Da giovane ho passato molto tempo nell’India del Sud, a studiare con Ravi Shankar, ed è là che ho cominciato veramente a capire le relazioni fra la matematica e la musica. Nella musica occidentale non sono cosí pronunciate.

Si tratta di un genere di calcoli molto diverso. La difficoltà che io trovo con quel tipo di musica è che ha un impatto concettuale, ma non uditivo. I calcoli ritmici sui quali si basa la musica indiana possono essere percepiti da tutto il pubblico, e diventano un’esperienza fisica: in quel caso la dimensione mentale, sensoriale ed emotiva formano un tutto unico. Quando invece la musica diventa troppo concettuale, io perdo l’interesse. E’ per questo che quando mi sono dedicato alla musica, ho messo da parte le basi concettuali della matematica.

La logica era precisamente la parte della matematica che mi interessava. La gente pensa che sia qualcosa di astratto, ma in realtà non è altro che il modo in cui concettualizziamo qualsiasi cosa. E certamente la mia è una musica logica, nel senso che affida la proporzione e l’equilibrio a strutture razionali ben definite.

Matematica a parte, la scienza compare addirittura nei titoli di due sue opere: “Einstein sulla spiaggia” e “Galileo”. In “Einstein sulla spiaggia”, il librettista era interessato all’immagine popolare della scienza: cosí ci siamo concentrati più sull’impatto che Einstein ha avuto sul mondo, che sulle sue idee. In “Galileo”, invece, ho musicato direttamente alcuni dei suoi “Dialoghi”. E ho inserito anche alcuni esperimenti che avevo riprodotto quando andavo a scuola.


7.

Quali, precisamente?

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Che in fin dei conti è un metronomo.

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Quello del piano inclinato, ad esempio. La gente pensa che la scienza sia arida e astratta, ma quando si vede un balletto di scienziati che “giocano a palla’’ sui piani inclinati, si percepisce un po’ del divertimento che si prova a fare esperimenti. E poi, naturalmente, c’è il pendolo.

Beh, ha ragione! Tra l’altro, in una scena Galileo spiega alla figlia l’isocronismo del pendolo misurando il tempo col battere del polso. E a proposito di tempo, nell’opera la vita di Galileo è raccontata al contrario, dalla vecchiaia all’infanzia. Alla fine il bambino assiste alla rappresentazione di un’opera di suo padre, che era un musicista, e l’opera si sdoppia.

Visto che prima ha citato il libro di Greene, dopo Galileo e Einstein farà un’opera sulle stringhe? Quello che più mi interessa della teoria delle stringhe è l’esistenza di una moltitudine di dimensioni aggiuntive “arrotolate’’ su se stesse. Questa sí che è una possibilità! D’altronde, quando si vuole trasferire un’idea scientifica nel teatro si devono trovare aspetti che funzionino scenograficamente.Oppure potrei andare all’indietro nel tempo, ed esplorare la scienza greca e la figura di Archimede.

E magari usare la musica pitagorica. Forse. Qualcuno ci ha provato. Ma quando si vuole fare un’opera scientifica bisogna cercare di tradurre veramente le idee in musica, e non limitarsi a fare esercizi. È lo stesso problema di cui parlavamo prima a proposito di Boulez: quando le cose diventano troppo astratte, perdono la capacità di toccare e muovere le emozioni.

Anche nella matematica ci sono emozioni! È verissimo, ma in genere la gente non lo sa e non le conosce. È proprio questo che bisognerebbe riuscire a trasmettere attraverso la musica e il teatro, dove le emozioni sono di casa. Non è facile trovare il modo, ma è ciò che ho cercato di fare trasformando gli esperimenti di Galileo in balletti.

A proposito di piccole dimensioni “arrotolate’’ su dimensioni più grandi, si potrebbe dire che il minimalismo è appunto un modo di raffigurarle musicalmente? Uhm, questo è interessante. Dovrei pensarci. Io non ci sono certo arrivato cosí.

E come, invece? Attraverso la teoria musicale. Negli anni ‘60 noi giovani studiavamo la musica concettuale di gente come Boulez, e la vedevamo come un vicolo cieco: meglio di loro non si poteva fare, e non c’era senso a diventare un Boulez di seconda categoria. Io mi sono guardato attorno, e nel 1964 ho incontrato Ravi Shankar: da lui ho imparato il modo di concepire la musica sulla base di strutture ritmiche, invece che tonali. E’ cosí che sono arrivato a quello che viene chiamato minimalismo.

Perchè, lei come lo chiamerebbe? “Musica del processo’’. È una musica in cui forma e contenuto coincidono: le strutture ritmiche diventano il contenuto. Volendo, si potrebbe anche chiamarla “musica strutturalista’’. Ma questi termini non hanno mai attecchito: era il periodo del minimalismo nelle arti visive, e cosí critici e giornalisti hanno affibbiato anche a noi questa etichetta, che poi ci è rimasta.

(copyright Piergiorgio Odifreddi novembre 2004)

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appunti sulla composizione elettronica

oggi

di Massimo Biasioni Il compositore di musica elettronica vive oggi una situazione che non credo sia mai stata sperimentata prima nel corso della storia della musica: la tecnologia procede sempre più velocemente, gli strumenti di lavoro cambiano continuamente, quello che solo 10 anni fa era impensabile, ora si realizza con un computer da pochi soldi. Quando il compositore finisce un pezzo, spesso ha già a disposizione strumenti nuovi che gli offrono nuove possibilità. Che succede se tentiamo un parallelo con la situazione di qualche secolo fa? Tutti sappiamo come Beethoven utilizzi le nuove caratteristiche di robustezza e potenza sonora che il pianoforte stá sviluppando all’epoca, sviluppo che modellerà uno strumento rimasto tuttora fondamentalmente invariato: il pianoforte di Beethoven è lo stesso strumento che verrà usato poi da Chopin, Liszt, Scriabin, Debussy o Boulez.

E se alla fine della stesura dell’opera 106, Beethoven avesse avuto a disposizione un nuovo strumento con nuove e inaspettate caratteristiche? La storia della musica sarebbe stata molto diversa, sarebbe mancata una costrizione – a cui si sono adattati i compositori – che li ha visti operare su strumenti fissi, non modificabili se non in particolari assolutamente marginali. Strumenti ottimizzati nella produzione di spettri armonici, in cui le altezze sono discretizzate secondo la formula del temperamento equabile. Tale limite ha prodotto una storia della tecnica compositiva basata per lo più sui procedimenti combinatori a livello di altezze e sovrapposizione delle stesse, a scapito dello sviluppo degli strumenti e dell’esplorazione timbrica. Da questo punto di vista, gli anni Sessanta del Novecento

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si mostrano cruciali: nascono brani ed esperienze in cui si nota come una ricerca musicale basata solo sulle procedure combinatorie non soddisfa più i compositori, oltre al fatto che tali procedure sono spesso scollate da quello che è l’aspetto percettivo. Tra le varie esperienze assistiamo dunque all’affermarsi della musica elettronica come genere portante dell’esperienza musicale novecentesca. Non crediamo sia casuale il crescente interesse che oggi si sta manifestando attorno alla figura di Pierre Scheaffer, che teorizza e realizza una musica in cui il timbro è il parametro centrale, portante. Forse il primo a teorizzare il superamento del concetto di “nota” a favore di quello di “oggetto sonoro”, inteso come entità unitaria e coerente, percepita come tale indipendentemente dalla sua fonte di produzione. Un concetto che si presta al tentativo di rendere conto della totalità dell’universo sonoro. La distinzione fra suono e rumore cade, il compositore può selezionare i materiali sonori con estrema libertà, non è più costretto a sceglierli all’interno di un insieme definito che è quello dei suoni prodotti dagli strumenti musicali tradizionali. La tecnologia poi rende le procedure più semplici e il personal computer entra prepotentemente nella rosa degli strumenti utilizzabili, con una caratteristica inedita rispetto al passato: il computer, nelle sue componenti hardware e software, è uno strumento con cui è possibile costruire strumenti, ognuno dei quali con caratteristiche, grammatiche e comportamenti propri. Dunque il compositore può porsi non più come manipolatore di dati astratti, ma come realizzatore di macchine in grado di generare musica. La tecnologia ha poi un ruolo primario nella ricerca sull’acustica: gli sviluppi dell’analisi del suono resi possibili dai nuovi strumenti offrono materiali sempre più sofisticati, l’attenzione si sposta sempre più verso le caratteristiche dinamiche interne del suono rispetto a quelle strutturali statiche. Come scrive Dufourt, “l’acustica contemporanea vede nel suono una struttura dinamica, che si mantiene o si ricostruisce in conformità a una legge che regola la dipendenza o l’interdipendenza reciproca degli elementi”. E ancora Dufourt: “Ciò che conta sono il processo, l’evoluzione temporale, le transizioni, gli stati misti, le soglie e gli scarti, l’interazione nella sua globalità”. Dunque una visione totalmente inedita dei parametri acustici e dunque musicali, una visione che non si lascia più ingabbiare in categorie fisse come altezza, durata, intensità. E’ sulla ricerca di tali leggi interne al suono che in un certo senso

possiamo leggere la ricerca di Gérard Grisey, che sull’onda di un pensiero più “cibernetico” che “combinatorio” vede il procedimento compositivo orientato alla costruzione di “macchine” che in base alle loro caratteristiche intrinseche siano in grado di generare musica. Il compositore costruisce lo strumento, e quest’ultimo suona, genera musica secondo quella che è la sua natura, secondo le caratteristiche che lo contraddistinguono. Un approccio dunque molto più vicino alla composizione algoritmica, in questo senso più legato ad un pensiero di tipo cibernetico. Ecco dunque attuato uno degli aspetti realmente rivoluzionari degli ultimi decenni: il passaggio da una poietica impostata sulle procedure combinatorie, ad una impostata sulla produzione di regole strettamente correlate fra loro e dalla implementazione di queste in uno strumento operativo. Passaggio che si può osservare chiaramente in compositori – come il citato Grisey – che operano nel campo della musica strumentale, stimolando fortemente anche lo sviluppo di nuove prassi esecutive. Dunque in questo contesto si inserisce il compositore “elettronico”: superato sul suo stesso terreno da chi ha realizzato il progetto apparentemente utopico di trasporre strumentalmente le più profonde e sorgive caratteristiche del suono disvelate dai nuovi strumenti tecnologici, è ora alla ricerca di una nuova definizione del proprio lavoro compositivo. Principalmente mi sembrano tre le attuali tendenze principali: una derivata dall’impostazione tracciata da Schaeffer, che in maniera analoga agli spettralisti spinge la ricerca all’interno dell’oggetto suono, alla sua spettro-morfologia intesa come fatto dinamico, come rete di relazioni, ed anche al suo rapporto con l’universo sonoro reale, rapporto che si può dipanare su vari piani di mimesi. Altra tendenza – derivata anche dalle esperienze di Xenakis sulla composizione algoritmica - è quella più orientata alla produzione di macchine, di automi, anche in grado di autoregolarsi con opportuni controlli dei feedback interni, producendo dunque il brano nella sua totalità. Altra tendenza che si sta affermando, ora che la tecnologia permette un alto livello di manipolazioni del suono in tempo reale, è lo sviluppo di interfacce sempre più sofisticate per il live electronics, ovvero per l’interazione con strumentisti o anche fra vari computer, sviluppo che permette anche il fiorire di iniziative basate su un approccio di tipo improvvisativo. Chiaramente non vediamo una reale opposizione tra le varie tendenze. Il nostro è solo un tentativo di circoscrivere a grandi linee degli ambiti all’interno dei quali il compositore elettronico si muove modellando il proprio spazio di azione, ambiti che proponiamo nel tentativo di dare una lettura a quella che possiamo definire realmente la musica del ventunesimo secolo.

Massimo Biasioni. Compositore. Suoi brani sono stati incisi e radiotrasmessi per RAI Radio Tre e altre emittenti. È stato eseguito in importanti manifestazioni fra cui “World Music Days” (ISCM) a Yokohama, Festival “Synthèse” di musica elettroacustica a Bourges, Festival L.I.M. a Madrid, “Sonopolis” a Venezia, Teatro Argentina a Roma, Festival Musica ‘900 Trento.


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Che cos’è l’atto di creazione di Gilles Deleuze

Vorrei porre anch’io delle domande. Porre delle domande a voi e a me stesso. Domande di questo tipo: che cosa fate voi che fate cinema? E io che cosa faccio quando faccio o spero di fare filosofia? Potrei porre la domanda anche in questi termini: che cos’è avere un’idea al cinema? Se si fa o si vuol fare cinema, che cosa significa avere un’idea? Che cosa accade quando si dice: “Ecco, ho un’idea”? Perché, da una parte, tutti sanno che avere un’idea è un evento che accade raramente, è una specie di festa, abbastanza rara. E poi, d’altra parte, avere un’idea non è qualcosa di generale. Non si ha un’idea in generale. Un’idea - proprio come colui che ha l’idea -

è già consacrata a questo o

quell’ambito. Può essere un’idea in pittura, in narrativa, in filosofia, oppure in scienza. Ed evidentemente non è la stessa che può avere tutto questo. Le idee bisogna considerarle come dei potenziali già impegnati in questo o in quel modo d’espressione e inseparabili dal modo d’espressione, e quindi non posso dire che ho un’idea in generale. In funzione delle tecniche che conosco posso avere un’idea in un certo ambito, un’idea in cinema o un’idea in filosofia.

Che cos’è avere un’idea in qualcosa? Riparto allora dal principio che io faccio filosofia e che voi fate cinema. Una volta ammesso questo, sarebbe troppo facile dire che, poiché la filosofia è pronta a discutere su qualsiasi cosa, perché non rifletterebbe sul cinema? È stupido. La filosofia non è fatta per riflettere su qualsiasi cosa. Se trattiamo la filosofia come la potenza di “riflettere su”, sembra che le concediamo molto e invece le togliamo tutto. Perché nessuno ha bisogno della filosofia per riflettere. Le sole persone capaci di riflettere effettivamente sul cinema sono i cineasti o i critici cinematografici, o anche quelli che amano il cinema. Nessuno di loro ha bisogno della filosofia per riflettere sul cinema. L’idea che i matematici abbiano bisogno della filosofia per riflettere sulla matematica è un’idea comica. Se la filosofia dovesse servire a riflettere su qualcosa, non avrebbe ragione d’esistere. Se la filosofia esiste, è perché ha il suo contenuto proprio. Che cos’è il contenuto della filosofia? È molto semplice: la filosofia è una disciplina che crea e inventa come le altre. Crea o inventa concetti. E i concetti non esistono già belli e fatti in una specie di cielo dove aspettano che il filosofo li afferri. I concetti bisogna fabbricarli. Certo, non si fabbricano così. Non è che un bel giorno ci si dica: “Ecco, ora invento questo concetto!”. Proprio come nessun pittore un bel giorno si dice: “Ecco, ora faccio un quadro così!”, o un regista: “Ecco, ora faccio questo film!”. Ci vuole una necessità, in filosofia come altrove, altrimenti non c’è proprio niente. Uno che crea non lavora per il suo piacere. Uno che crea fa solo ciò di cui ha assolutamente bisogno. Resta il fatto che questa necessità – che è una cosa molto complessa, se esiste – fa sì che un filosofo (in questo caso, almeno so di che cosa si occupa) si proponga di inventare, di creare concetti e non di riflettere, neanche sul cinema. Io dico che faccio filosofia, cioè che cerco di inventare concetti. Se dico che voi fate cinema, che cosa fate? Ciò che voi inventate non sono concetti – non è il vostro compito – ma dei blocchi di movimento/durata. Se si fabbrica un blocco di movimento/durata, si fa forse cinema. Non si tratta di far ricorso a una storia o di rifiutarla. Tutto ha una storia. Anche la filosofia racconta storie. Racconta storie con dei concetti. Il cinema racconta storie con blocchi di movimento/durata. La pittura inventa un altro tipo di blocchi. Non sono né blocchi di concetti né blocchi di movimento/durata, ma blocchi linee/colori. La musica inventa ancora un altro tipo di blocchi, altrettanto particolari. Per parte sua, la scienza non è meno creatrice. Non vedo tanto un’opposizione tra le scienze e le arti. Se domando a un uomo di scienze quel che fa, anche lui inventa. Non scopre – la scoperta esiste, ma non è così che si definisce un’attività scientifica – ma crea tanto quanto un artista. Uno scienziato – non è una cosa complicata – è qualcuno che inventa o crea delle funzioni. Ed è solo lui a farlo. Uno scienziato in

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tratto dal volume “Che cos’è l’atto di creazione” di G. Deleuze gentilmente concesso da Cronopio Edizioni

quanto scienziato non ha niente a che fare con i concetti. È proprio per questo che, per fortuna, c’è la filosofia. C’è, invece, una cosa che solo uno scienziato sa fare: inventare e creare funzioni. Che cos’è una funzione? Ci sono funzioni quando c’è corrispondenza regolata di almeno due insiemi. La nozione di base della scienza – e non da ieri, ma da molto tempo – è la nozione di insieme. Un insieme non ha niente a che vedere con un concetto. Non appena mettete in una correlazione regolata degli insiemi, potete dire: “Faccio scienza”. Se chiunque può parlare a chiunque, se un cineasta può parlare a un uomo di scienza, se un uomo di scienza può aver qualcosa da dire a un filosofo e viceversa, è nella misura e in funzione dell’attività creatrice di ciascuno. Non è che si debba parlare della creazione – la creazione è piuttosto qualcosa di estremamente solitario – ma è in nome della creazione che ho qualcosa da dire a qualcuno. Se mettessi in fila tutte queste discipline che si definiscono per la loro attività creatrice, direi che c’è un limite comune. Il limite comune a tutte queste serie di invenzioni, invenzioni di funzioni, di blocchi durata/movimento, di concetti, è lo spazio-tempo. Se tutte le discipline comunicano fra di loro, è sul piano di ciò che non si libera mai per se stesso, ma ciò che è impegnato in ogni disciplina creatrice, cioè la costituzione degli spazi-tempo. In Bresson, com’è noto, ci sono raramente degli spazi interi. Sono spazi che si possono chiamare sconnessi. Per esempio c’è un angolo, l’angolo di una cella. Poi si vede un altro angolo o un pezzo di parete. È come se lo spazio di Bresson si presentasse come una serie di pezzetti, la cui connessione non è predeterminata. Ci sono grandi registi che usano invece spazi d’insieme. Non voglio dire che sia più facile maneggiare uno spazio d’insieme. Ma lo spazio di Bresson costituisce un tipo di spazio particolare. Certamente è stato ripreso successivamente, è servito in maniera creatrice ad altri che l’hanno rinnovato. Ma Bresson è stato uno dei primi a fare lo spazio con piccolo pezzi sconnessi, cioè con dei piccoli pezzi la cui connessione non è predeterminata. E direi questo: al limite di tutti i tentativi di creazione ci sono degli spazi-tempo. C’è solo questo. I blocchi di durata/movimento di Bresson tendono, fra l’altro, verso questo tipo di spazio. La questione allora è questa: da che cosa sono connessi questi piccoli pezzi di spazio visivo, la cui connessione non è data in anticipo? Dalla mano. Non si tratta né di teoria né di filosofia. Non si deduce così facilmente. Lo dico: il tipo di spazio di Bresson è la valorizzazione cinematografica della mano nell’immagine. Il raccordo dei piccoli pezzi di spazio – per il fatto stesso che sono dei frammenti, pezzi sconnessi di spazio – può essere solo un raccordo manuale. Di qui l’esaustività della mano in tutto il suo cinema. Il blocco d’estensione/movimento di Bresson riceve allora, come carattere proprio di questo creatore e di questo spazio, il ruolo della mano che ne deriva direttamente. C’è ormai solo

la mano che possa operare effettivamente delle connessioni da una parte all’altra dello spazio. E Bresson è probabilmente il più grande regista che abbia reintrodotto nel cinema i valori tattili. Non solo perché sa rendere mirabilmente le mani in immagine, ma perché ne ha bisogno. Uno che crea non lavora per il suo piacere ma crea solo ciò di cui ha assolutamente bisogno. Ancora una volta avere un’idea in cinema non è la stessa cosa che avere un’idea altrove. E tuttavia ci sono delle idee in cinema che possono valere anche in altre discipline, che possono essere eccellenti in narrativa, per esempio. Ma in questo caso non si presentano nella stessa maniera. E poi, ci sono idee in cinema che possono essere solo cinematografiche. Tuttavia, anche quando si tratta di idee in cinema che possono valere anche in narrativa, esse sono già impegnate in un processo cinematografico che fa sì che vi siano già consacrate in anticipo. Questo è un modo per porre una domanda che mi interessa: che cosa fa sì che un regista abbia veramente voglia di adattare, per esempio, un romanzo? Mi pare evidente che lo faccia perché ha delle idee in cinema che stanno in consonanza con quanto il romanzo presenta come idee in narrativa. Ed è così che si fanno spesso dei grandi incontri. Non pongo la questione del regista che adatta un romanzo notoriamente mediocre. Può avere bisogno del romanzo mediocre, e ciò non esclude che il film sia geniale, sarebbe interessante trattare questo problema. Ma pongo un’altra questione: che cosa accade quando un romanzo è un grande romanzo e si rivela questa affinità per cui qualcuno ha in cinema un’idea che corrisponde a ciò che era l’idea in romanzo? Uno degli esempi più belli è quello di Kurosawa. Perché ha familiarità con Shakespeare e Dostoevskij? Perché ci vuole un giapponese per essere in tale familiarità con Shakespeare e Dostoevskij? Proporrò una risposta che, secondo me, tocca in qualche modo anche la filosofia. Nei personaggi di Dostoevskij si produce molto spesso una cosa abbastanza curiosa che può risultare da un piccolo dettaglio: generalmente sono molto agitati. Un personaggio se ne va, scende in strada e dice: “Tania, la donna che amo, mi chiede aiuto. Corro, morirà se non ci vado”. Scende le scale e incontra un amico o vede un cane investito, e dimentica, dimentica completamente che Tania l’aspetta, morente. Dimentica. Si mette a parlare, incontra un altro compagno, va a prendere il tè da lui e d’un tratto dice di nuovo: “Tania mi aspetta, devo andare”. Che cosa vuol dire? In Dostoevskij i personaggi sono eternamente nell’urgenza, in questioni di vita o di morte, sanno anche che c’è una questione ancora più urgente, ma non sanno quale sia. Ed è questo che li ferma. Come se anche nella massima urgenza – “C’è un incendio, devo andarmene” – dicessero: “No, c’è qualcosa di più urgente. E non mi muoverò finché non lo saprò”. È l’Idiota. È la formula dell’Idiota: “Sapete, c’è un problema più profondo. Che problema sia, non so bene. Ma lasciatemi. Tutto può bruciare... bisogna trovare questo

problema più urgente”. Non è da Dostoevskij che Kurosawa l’ha imparato. Tutti i personaggi di Kurosawa sono così. Ecco un bell’incontro. Se Kurosawa riesce ad adattare Dostoevskij, è perché almeno può dire: “Ho una questione in comune con lui, un problema comune, questo”. I personaggi di Kurosawa si trovano in situazioni impossibili, ma, attenzione, c’è un problema più urgente. E debbono capire qual è. “Vivere” è forse uno dei film di Kurosawa che va più lontano. Ma tutti i suoi film vanno in questa direzione. “I sette samurai”, per esempio: tutto lo spazio di Kurosawa ne deriva, uno spazio necessariamente ovale, battuto dalla pioggia. Ne “I sette samurai”, i personaggi sono in un’urgenza – hanno accettato di difendere il villaggio – e da un capo all’altro del film sono tormentati da una questione più profonda, che sarà nominata alla fine, dal capo dei samurai, quando se ne vanno: “Che cos’è un samurai? Che cos’è un samurai, non in generale, ma in quell’epoca?”. Uno che non è più buono a niente. I signori non ne hanno più bisogno e i contadini sapranno ben presto difendersi da soli. Per tutto il film, nonostante l’urgenza della situazione, i samurai sono ossessionati da questa questione degna dell’Idiota: noi, i samurai, che cosa siamo? Un’idea in cinema è di questo tipo, una volta che si è già impegnata in un processo cinematografico. In questo caso potete dire: “Ho un’idea”, anche se la prendete da Dostoevskij. Un’idea è una cosa molto semplice. Non è un concetto, non è filosofia. Anche se, forse, da ogni idea si può trarre un concetto. Penso a Minnelli, che ha un’idea straordinaria del suo sogno. È un’idea molto semplice – la si può dire – ed è impegnata in un processo cinematografico che è l’opera di Minnelli. La grande idea di Minnelli sul sogno è che esso concerne innanzitutto coloro che non sognano. Il sogno di coloro che sognano concerne coloro che non sognano. Perché questo li concerne? Perché non appena c’è sogno dell’altro, c’è pericolo. Il sogno degli altri è sempre un sogno divorante che rischia di inghiottirci. Che gli altri sognino, è molto pericoloso. Il sogno è una terribile volontà di potenza. Ciascuno di noi è più o meno vittima del sogno degli altri. Anche la fanciulla più graziosa è una terribile divoratrice, non per via della sua anima, ma per via dei suoi sogni. Diffidate del sogno dell’altro, perché se siete presenti nel sogno dell’altro, siete fregati. Un’idea cinematografica è, per esempio, la famosa dissociazione vedere-parlare in un tipo di cinema relativamente recente: Syberberg, gli Straub, Marguerite Duras, prendo solo gli esempi più noti. Che cosa c’è di comune e in che senso fare una disgiunzione fra il visivo e il sonoro è un’idea propriamente cinematografica? Perché non si può fare in teatro? O, almeno, lo si può anche fare, ma allora, se si fa in teatro e se il teatro trova dei mezzi, si potrà dire, salvo eccezioni, che il teatro l’ha presa in prestito dal cinema. Cosa che non è necessariamente un male. Ma assicurare la disgiunzione del vedere e del parlare, del visivo e del sonoro è un’idea talmente cinematografica che potrebbe essere una risposta alla domanda: che cos’è un’idea in cinema? (Continua...)

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il cinema e l’immagine del pensiero di Mauro Carbone

“Si avvicina il tempo in cui non sarà più possibile scrivere un libro di filosofia come se ne scrivono da un bel pezzo: ‘Caro, vecchio stile...’

La ricerca di nuovi mezzi di espressione fu inaugurata in filosofia da Nietzsche e oggi deve essere proseguita in relazione con il rinnovamento di altre arti, quali il teatro o il cinema”1 . Così, com’è noto, Gilles Deleuze si avviava a concludere la “Prefazione” a Differenza e ripetizione, da lui pubblicato nel 1968. E l’anno successivo, parlando di sé e Guattari, altrove aggiungeva: “In due, vorremmo essere l’Humpty Dumpty della filosofia, o il suo Stanlio e Ollio. Una filosofia-cinema”2. Nel cinema, insomma, Deleuze trovava proiettati gli interrogativi della filosofia non solo sul reale, l’immaginario e il simbolico, ma – inevitabilmente – anche su di sé: sul proprio stile d’espressione e dunque, giacché fa tutt’uno con questo, sullo stile stesso del proprio pensiero. [...] Occorre però osservare che, quando la ricerca di Deleuze arriva infine a incontrare direttamente il cinema – col quale impegna il più importante confronto elaborato da un filosofo negli ultimi vent’anni del Novecento: quello consegnato ai due volumi rispettivamente intitolati L’immaginemovimento3 e L’immagine-tempo4 – egli assume una prudenza teoretica singolare (e singolarmente significativa) che finisce per lasciare aperto l’interrogativo intorno a cosa sia, dunque, “una filosofia-cinema”. Come se per lui valesse, rispetto a questa, quanto Jean-Luc Godard ha dichiarato per sé rispetto al cinema: “Fino a poco tempo fa sapevo che cos’è, ora non più”. In fondo, però, non può essere altrimenti. Perché quella di “una filosofia-cinema” non è la questione di un pensatore: essendo, come lasciava intendere la “Prefazione” a Differenza e ripetizione, affare di un’epoca, è affare del pensiero stesso. Proprio in quanto affare di un’epoca, d’altra parte, non risulta allora sorprendente trovarlo carsicamente affiorare lungo tutto il corso di questa. A ben guardare, anche Jean-Paul Sartre sembra averlo attraversato, con l’imprudenza dei vent’anni, in pagine pubblicate postume: quest’ultime risalgono, pare, all’ultimo trimestre di Khâgne (1924) o al primo anno di École Normale Supérieure (1924-25) – in ogni caso ben prima del suo incontro con la fenomenologia che avverrà una decina d’anni più tardi – e hanno per titolo Apologie pour le cinéma. Défense et illustration d’un Art international.5 In tali pagine Sartre sceglie di partire dall’opinione che uno dei più influenti maîtres à penser di quel periodo – lo scrittore Emile-Auguste Chartier, noto con lo pseudonimo di Alain – aveva espresso in uno dei suoi Pensieri sull’estetica pubblicati nel 1923: quello significativamente intitolato “L’immobilità”. Così Alain esordiva: “L’arte esprime la potenza umana per mezzo dell’immobilità. Non c’è segno migliore della forza d’animo che l’immobilità, dacché vi si riconosce il pensiero”6. E concludeva affermando che, di questa ricerca artistica dell’immobile, “l’arte dello schermo fornisce transatlantico10

una prova a contrario, e senza che la cerchiamo; perché il moto continuo è la legge dei film, non solo per il fatto che la parola manca del tutto; e si capisce che essere muto dalla nascita non è tacere; ma sopra tutto perché l’attore si crede obbligato ad agitarsi senza tregua, quasi per rendere omaggio all’invenzione meccanica”7. Se insomma ogni arte è “ricerca dell’immobile nel movimento”8 e, abbiamo letto, “il moto continuo è la legge dei film”, allora “l’arte dello schermo” non è davvero arte: questo, all’ingrosso, il sillogismo che Alain propone. Ma nelle sue considerazioni il giovane Sartre sottolinea di ravvisare “gli elementi [d’un problema] ben più importante delle sterili discussioni di un Winckelmann: [la bellezza consiste] nell’immobilità o nel cambiamento?”9. È infatti il passo in cui abbiamo sentito Alain affermare che il pensiero si riconosce nell’immobilità a toccare il problema più importante per Sartre, il quale infatti lo rilancia imprimendogli nel contempo una significativa torsione: la tesi di Alain che suggerisce come il pensiero, per la sua stessa essenza, si riconosca nell’immobilità esprime piuttosto, giudica Sartre, l’attaccamento (appunto “attaché” è il termine da lui utilizzato) dello spirito umano “a quanto è immobile, e non certo solo in estetica”10. Ecco allora Sartre esplicitare: “È più [agevole com]prendere l’immutabile. Soprattutto è più agevole amare ciò che non cambia ed è a questo punto che ci si sforza di accecarsi: ‘Non sei cambiato. Sei davvero sempre lo stesso’”11. In questo accecarsi per non vedere il cambiamento consiste in fondo il platonismo inteso quale pensiero dell’essere in quanto perdurare, sembra suggerire Sartre, che infatti prosegue: “Una filosofia nuova ha detronizzato quella delle Idee immutabili: al momento, non vi è realtà se non nel cambiamento. Non ne beneficerà l’estetica?”12, si chiede. E’ questa la domanda che gli permette d’introdurre nella sua riflessione il cinema, giacché – spiega poco più in là – “esso inaugura la mobilità in estetica”13. Inaugurando la mobilità in estetica – sembra insomma di poter sintetizzare – il cinema ha contribuito, per Sartre, a svelare che il presunto riconoscersi essenziale del pensiero nell’immobilità non era altro che attaccamento a quanto risultava più “agevole”. Con ciò stesso, il cinema investe allora inevitabilmente la filosofia, “detronizzando” il platonismo e dandole, letteralmente, di nuovo da pensare. Dove quanto occorre pensare di nuovo le impone, altrettanto inevitabilmente, di pensarsi, potremmo dire con Deleuze, quale “filosofia-cinema”. 1 G. Deleuze, Différence et répétition, P.U.F., Paris 1968, tr. it. di G. Guglielmi rivista da G. Antonello e A. M. Morazzoni, Differenza e ripetizione, Raffaello Cortina, Milano 1997, p. 4. 2 G. Deleuze, Logique du sens, Éd. de Minuit, Paris 1969, tr. it. di M. de Stefanis, Logica del senso, Feltrinelli, Milano 1975, p. 294. 3 G. Deleuze, Cinéma 1. L’image-mouvement, Minuit, Paris 1983, tr. it. di J.-P. Manganaro, L’immaginemovimento. Cinema 1, Ubulibri, Milano 1984. 4 G. Deleuze, Cinéma 2. L’image-temps, Minuit, Paris 1985, tr. it. di J.-P. Manganaro, L’immagine-tempo. Cinema 2, Ubulibri, Milano 1989. 5 J.-P. Sartre, Défense et illustration d’un Art international, in Id., Écrits de jeunesse, édition établie par M. Contat et M. Rybalka, Gallimard, Paris 1990, pp. 388-404. 6 Alain, Propos sur l’esthétique [1923], P.U.F., Paris 1948, tr. it. di E. Bonora, Pensieri sull’estetica, “Prefazione” di A. Di Benedetto, Guerini e associati, Milano 1998, p. 24. 7 Ibidem, pp. 25-26. 8 Ibidem, p. 25. 9 J.-P. Sartre, Apologie pour le cinéma, in Id., Écrits de jeunesse, cit., p. 388. Il saggio di Giovanni Invitto dal titolo “Un dibattito sul cinema tra filosofi francesi: Alain, Sartre, Merleau-Ponty” (in Id., L’occhio tecnologico. I filosofi e il cinema, Mimesis, Milano 2005, pp. 31-47) offre un utilissimo inquadramento alle questioni su alcuni aspetti delle quali ci si sta qui concentrando, ma in proposito tutto il volume in cui è contenuto va ovviamente tenuto presente. 10 J.-P. Sartre, Apologie pour le cinéma, in Id., Écrits de jeunesse, cit., p. 388. 11 Ibidem. 12 Ibidem. 13 Ibidem, p. 389.

tratto dal volume “Sullo schermo dell’estetica. La pittura, il cinema e la filosofia da fare” di M.Carbone Mimesis, Milano 2008, pp. 81-83


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testo e foto di Leonardo Zunica

ogni cosa è (comunque) illuminata La strada sembra infinita, verso l’Ucraina. In verità è una lunghezza astratta, risultato della somma di due confini. O solo del confine tangibile che ancora impregna l’immagine collettiva di un aldilà, il territorio liminare post-post sovietico. Poco più di mille chilometri, passando attraverso l’Austria (alla dogana un orologio fermo, ma le lancette sono innocentemente occultate dietro il nastro adesivo) e l’Ungheria, dove ci accodiamo, per far prima, ad un furgone di instancabili ucraini che fa la spola due volte alla settimana tra l’Italia e l’Ucraina. Tagliamo così per il centro di Budapest, che ci sfavilla davanti agli occhi, mentre una Ferrari ci romba alle spalle. Il passaggio alla dogana ucraina ci riserva tuttavia il colpo di scena, che ci riporta al di qua, dietro quel confine che in fin dei conti non è così astratto. Il kontroll si sofferma sui violini che ci portiamo in viaggio. Essi, loro malgrado, non hanno certificato di proprietà e sono, secondo il rigido ed inflessibile ragionamento della guardia - ovvero materialisticamente parlando - merce di contrabbando. Non ci resta che tornare a Kisvarda, ultima città ungherese, mangiare qualcosa e pensare al domani.

E sull’Ucraina scese la notte. Passata la lingua dolcemente montagnosa dei Carpazi, la strada che porta da Uzgorod a Ternopil è fra le più tremende che si possano percorrere. Qui, in teoria, passa il corridoio 5, che congiunge Kiev al resto d’Europa. Sulla carta la strada è segnata come misnarodni, cioè internazionale. Ovvero autostrada. Ma la velocità media che si riesce a percorrere è di circa 50 km orari. Sembra che la terra, in questo tratto lungo quasi 200 km, abbia riversato le sue rughe, flagellando la strada con una varietà infinitesimale di buche, cunette, sterrati. A volte mancano le righe di segnalazione e, al buio, sembra di percorrere un corridoio senza uscita. Già, il buio. Appena scende l’oscurità nulla più si riconosce, neanche gli orribili qvartiri, o le tradizionali isbe, case basse disseminate sulla strada. Nemmeno le chiese lignee che di giorno, nuovamente, fanno luccicare le cupole argentee o dorate. Di fatto ogni paese che si incontra è immerso totalmente nel buio. Nessuna luce sulla strada, nessun palazzo illuminato. Solo qualche umile finestra, che lascia trapelare insieme alla vita un colore rosso rapa, come il borsch. E allora appaiono, come anime sperdute, le faccie stravolte di giovanotti color della terra che guidano carri trainati da cavalli e che sbuffano sigarette, ucraini che aspettano, avvolti da una sinistra ma abituale oscurità, il passaggio di un sudicio autubus. L’Ucraina è buia, al calar della notte. E nera come la pece.

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Welcome to Hotel Ruta Medova ulica significa via del miele. In questa via sfracellata di Ternopil si trova l’Hotel Ruta, di stile eminentemente sovietico. Oggi rimangono le pareti come ingiallite dai neon, e quell’odore di polvere e di vecchio, inconfondibile, di un paese al quale non resta che lasciar consumare gli oggetti che appartengono al proprio passato. L’acqua calda è disponibile dalle 19 alle 23 di sera: il direttore dell’albergo dice che è cosi per tutta la città di Ternopil. Il teatro filarmonico è in pieno remont, come dicono qui. Si dice che siano arrivati un po’ di soldi dal ministero e che per questo alcune “filarmonie” dell’Ucraina abbiano deciso di interrompere la programmazione. Ci sono i soldi per rifare i teatri, ma non per le orchestre. Meglio di niente. Per il resto Ternopil è una città che ha qualcosa di balcanico, con un piccolo lago sul quale si affaccia un fax simile di tempio greco, dove è insediato il Maxim, il locale notturno più trendy della città, mentre le vecchie case rivelano un centro storico vitale come i brulichii transiberiani dei racconti di Checov. La cena riserva un autentico spaccato di vita ucraina: tavoli imbanditi in un sotterraneo illuminato con luci stroboscopiche e vecchie canzoni remixate in stile nazionale (tra le quali anche la colonna sonora di un film con Phoebe Cates, Paradise). Donne coi capelli lunghi e uomini rigorosamente con taglio corto. Stile nuovi russi. E vodka, vodka a fiumi.

La nebbia di Luzk Aleksandr Ivanovic è un ebreo di Odessa. Abita a Ternopil, da quando vi è stato spedito per assolvere gli obblighi militari. Abita in una casa nel centro storico, a due passi dal monumentale teatro di prosa, e versa 0,25 cl di vodka con un ritmo molto saggio e deciso, offrendoci burro e salsiccia. È un maestro di violino e si rivolge agli amici con l’inconfondibile appellativo di tovarish. Ha settant’anni e berrà vodka probabilmente per altri quindici ancora. Qui si dice che sia un ebreo buono. Non così, evidentemente, molti ebrei di Odessa. Ci saluta calorosamente e ci augura buona fortuna. Prendendo la direzione a nord di Ivano-Frankivsk si raggiunge, passando per Leopoli, la città di Luzk. Il confine polacco è a poco più di un‘ora di macchina. È la regione (oblast) di Volyn’, dove il clima umido e la pioggia degli ultimi giorni fanno salire una densissima nebbia che confonde, per 150 km, il confine fra cielo e terra. Alle 2.30 di mattina, dopo circa 4 ore, una Mercedes appare sul ciglio della strada. È segno che siamo arrivati. La Philarmonia di Luzk è stata appena restaurata. Prima del concerto il direttore ci accoglie col suo lucido abito grigio. “Italisky”, mi dice, stringendomi la mano. Ci fa vedere la stanza per cambiarci. Non è riscaldata, e in tutto il teatro fa un freddo pungente ma sopportabile. Il pubblico arriva poco a poco. Molti giovani, molti anziani. Nessuno qui ha mai sentito musiche di Messiaen. È la prima ucraina della sua Fantasia per violino e pianoforte. Siamo liberi di sentirci relativamente importanti.

Cani randagi Aleksandr Dudek è il factotum del teatro di Xmelnizk. È il fondatore di un ensemble (voce, violino, flauto, fisarmonica o bajan) che ha voluto chiamare Alfresko. Repertorio: barocco italiano e tedesco. La cartolina, che ha un fondo di colore rosso - krasni che in russo significa rosso ha la stessa radice di bello, krassiva – recita: “Alfresko – (Italian al fresco in fresh, to paint over the fresh stucco), for our ensemble it’s the fresh, live sound, live voice ”.

Verso la strada per Xmelnizk (250 km a sud ovest di Luzk), infiniti villaggi solitari, come del resto in tutta l’Ucraina, e una quantità che non si calcola più di chiese in costruzione. Forse l’Ucraina è il paese dove oggi si costruiscono più chiese al mondo. È un Dio in remont, quello degli ucraini. Dopo il concerto veniamo invitati dal direttore del teatro a partecipare al ricevimento per il 70° anniversario del teatro. Nella linea temporale scandita dall’anno zero staliniano, tutti i teatri si ritrovano ad avere la stessa età. Tutti festeggiano il settantesimo compleanno. Ci sono i membri dell’orchestra, i custodi, i segretari. E, come al solito, ci sono vodka e cognac moldavo, formaggio e aringhe marinate; anche il locale champagne (champagnsky). E tutti sono felici. L’Ucraina è piena di cani randagi. Piccoli branchi di bastardi trotterellano per le strade, nelle città. Sdraiati e inconsapevoli, si godono l’ultimo sole, prima che la temperatura scenda a venti gradi sotto zero. Raggiungiamo la città di Vinnizia abbastanza comodamente. Giunti di fronte al teatro, una grossa costruzione in stile sovietico, vedo due cani che stanno copulando. Sono a due passi da un monumento ripulito da falci e martelli in cui sono mostrate le foto dei cittadini che si sono meritati il plauso dell’amministrazione locale: c’è un militare, una pianista, impiegati, imprenditori. Lo stile è ancora sovietico, però. In teatro ci accolgono una miriade di bambini e molti fiori – è usanza portarne agli artisti durante gli applausi – che non sappiamo più dove mettere. Anche questo è sovietico. Finito il concerto rimango in compagnia di Lesia, una delle segretarie del teatro, che ha presentato il concerto e che parla molto bene inglese. Beviamo tè nero e ci raccontiamo la nostra vita. Vorrei una birra, ma dopo le nove di sera, secondo una nuova legge del governo ucraino, non si possono più vendere alcolici (poi scopro che nessun rivenditore segue la legge). Lesia mi mostra la città già addormentata; ha 23 anni, due figli maschi, separata e bellissima. Guardo il cielo e non riconosco nessuna costellazione. Lei mi dice che sono romantico. Cerco di negare. Davanti alle luci giallastre dell’albergo ci scambiamo le mail e ci salutiamo come vecchi amici che forse un giorno si rincontreranno.

Verso Kiev Zhytomir dista poco più di cento chilometri da Vinnizia. La grande piazza centrale è un modello sovietico, con la statua del poeta nazionale Taras Shevcenko, il cinema, il palazzo del comune (già Casa del Partito Comunista). Si dice sia una città di ebrei; si dice anche che la maggior parte dei villaggi e delle città di questa parte d’Ucraina sia stata fondata e sviluppata da comunità ebraiche, provenienti dalla Polonia, chiamate quaggiù per incrementare le attività commerciali. A Zhytomir è nato uno dei più grandi pianisti del XX° Secolo: Sviatoslav Richter. In teatro Aleksander Ivanovich mi rivela con visibile orgoglio che il pianoforte che suonerò fu suonato anche da Richter stesso: marca Estonia, modello Royal, con falce e martello impressi sul telaio di ghisa. A parte questi dettagli, invitanti solo per i nostalgici di simbologie sovietiche, il pianoforte è completamente da buttare. Dopo il concerto, un bimbo mi regala un portafortuna: un portachiavi e una specie di biglietto d’auguri, che cambia colore quando se ne cambia l’inclinazione. Poi Aleksander Ivanovich, che ha rinunciato qualche anno fa alla carica di direttore della Philarmonia, apre i brindisi con il cognac: dice che si vergogna del pianoforte, che la casa di Richter è a pochi metri dal teatro, che non ci sono soldi, che la regione di Zhytomir è stata una di quelle zone colpite dalla nube di Chernobyl (che, amaro destino o ironia della storia, significa letteralmente essere nero); dice anche che mi piaceranno le donne ucraine e che io piacerò a loro. Qualche lacrima gli solca il bel viso da cosacco. Ricorda qualche personaggio dei film di Ejzenstein, pur assomigliando incredibilmente a Sean Connery. Alziamo i bicchieri infinite volte e dopo infiniti saluti, partiamo per Kiev.

(Continua...)

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foto Roberto Piccinini


essere umano di Giovanna Venturini

La compagnia belga Ultima vez ha recentemente presentato in Italia il suo ultimo lavoro, Menske, che ha incontrato da parte di pubblico e critica pareri discordanti. Le discussioni, e quel particolare “rumore” che spesso accompagna creazioni coraggiose e innovative, sia dal punto di vista dei contenuti che dello stile, confermano una volta di più l’idea che questa compagnia rappresenti una delle realtà artistiche più controverse e interessanti della scena contemporanea. Menske è una parola fiamminga che significa uomo, individuo, ma che contiene in sé anche la radice del termine latino mens, mente, quasi ad annunciare una sorta di dicotomia tra pensiero e azione, parola e gesto, testa e corpo, in una costante ricerca di risoluzione, di ricomposizione, di armonia che sembra irraggiungibile. La struttura stessa del lavoro per altro è dicotomica, a metà strada tra la danza e il teatro, in quel territorio ibrido, in quella zona di confine tra differenti linguaggi espressivi, attraverso i quali non è semplice muoversi mantenendo una coerenza compositiva e un equilibrio armonico. Il lavoro rappresenta inoltre un traguardo, un punto d’arrivo dopo circa vent’anni di attività della compagnia, ma segna anche una sorta di ritorno da parte del regista e coreografo Wim Vandekeybus al teatrodanza dopo altre creazioni incentrate interamente sulla danza pura, sull’esclusività del movimento, come il fisicissimo Spiegel. La produzione, che ha debuttato a Bruxelles nel novembre del 2007, è affidata ad un ensemble variegato, multiforme, ma fortemente compatto di danzatori e interpreti provenienti da otto diversi paesi, capaci di portare sulla scena una grande maturità artistica e interpretativa,

Wim Vandekeybus Ultima vez (Belgio) una straordinaria padronanza del gesto e una particolarissima densità fisica ed emotiva. Proprio l’apparente naturalezza del movimento, che tuttavia presuppone una profondissima coscienza del corpo, l’energia, la potenza, la spontaneità vitale e frenetica con cui questi artisti abitano la scena, sono alcuni degli elementi che più catturano e coinvolgono lo spettatore. Lo spazio scenico è dominato da un grande palo elettrico da cui si irraggia una matassa di fili disposti a rete, evocando l’idea di un nido che protegge e allo stesso tempo ingabbia e imprigiona. In una dimensione desolata, fumosa, illuminata da potenti neon bianchi i danzatori si scontrano, si trascinano, si sollevano dando vita a personaggi - simbolo che raccontano una mitologia contemporanea senza più alcuna traccia di eroismo. Sullo sfondo di muri carichi di graffiti, in mezzo a sacchi dell’immondizia i personaggi vivono in una comunità troppo piccola, che fa emergere prepotentemente i diversi caratteri, tanto da arrivare ad un punto di rottura, ad una

collisione, in cui i corpi stessi sono usati come armi spianate contro nemici immaginari. Ciascuno esplora i suoi limiti ascoltando le diverse voci che lo abitano, tentando di plasmare la realtà secondo i propri desideri o più semplicemente di resistere. Si crea così un gioco di personaggi, alternato a frammenti di dialoghi o monologhi, uno zoo umanizzato dove indossare maschere grottesche, in precario equilibrio all’interno di una società incomprensibile, forse perché in perenne trasformazione. L’individuo, ad un tempo vittima e manipolatore, appare fragile e piccolo di fronte ad un mondo su cui non ha alcun controllo, un mondo troppo grande, troppo complesso, troppo esigente. Cosa si fa quando i valori più importanti perdono di significato? Come ci si relaziona a norme e regole sempre differenti? Si ha veramente il coraggio di andare verso ciò che non si conosce? Quanto può essere determinante la capacità di adattamento? È giusto seguire il flusso, aggrappandosi ad abitudini e linguaggi comuni o è legittimo lottare per affermare se stessi? L’esplorazione viscerale dei conflitti fisici e psicologici dell’uomo è uno dei tratti del linguaggio di Ultima vez e uno dei temi cardine di questa ultima creazione. Menske, anche grazie ad uno uso sapiente delle luci, ad una colonna sonora originale del musicista belga Daan, i cui ritmi elettronici riempiono lo spazio, ad apparati scenografici sorprendenti, sa delinearsi come spettacolo che racconta e indaga la contemporaneità, non dimenticando l’ironia, l’immaginazione, il senso poetico, senza indugiare mai ad una critica sterile o ad uno sguardo patetico e sconfitto.

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testo e foto di Micol Ferretti

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Le cave Le cave come cumulo di materiale non ancora in uso, e tuttavia già classificato e lavorato con scrupolosa attenzione, mi ha incuriosito per motivi tutt’altro che fotografici. Innanzitutto l’indifferenza entro cui prolifica. Spesso si riduce a un grumo di mondo incastrato fra la coda dell’occhio e il vetro di una macchina, o di un treno. Al meglio, il turista involontario di questo sito archeologico al contrario, che scava per erigere e non per riportare alla luce qualcosa che già stava sotto, vede il necessario lavorio per costruire case e strade. Ammirando un campo di grano toccato dal sole, voleva il filosofo, pregustiamo il pane che addenteremo a cena. I cumuli di sabbia, torba, o ciottoli, non sono altro che la necessaria fonte di sostentamento delle macchine al loro fianco. Ciò che viene completamente rimosso guardando una cava è la possibilità che quelle dune possano diventare un paesaggio. Addentrandomi furtivamente in una di queste enormi buche polverose, perché anche l’accesso materiale è precluso ai curiosi e agli ostinati, ho trovato un mondo. L’indifferenza verso ciò che sembrava indistinto ha riconosciuto di colpo vie principali e secondarie, piccoli avvallamenti, dorsali frastagliate e aspri picchi in lontananza. Escludendo per un attimo questo mondo, a fiato sospeso – se ogni oggetto fotografato non è altro che la traccia lasciata da tutto il resto – i macchinari in fondo alla valle mi sono sembrati i demiurghi di un pianeta desolato e primitivo. Ora la cava è un pianeta lontano anni luce dalla civiltà, i cumuli montagne lunari, le erbacce sono alberi non ancora suddivisi in gruppi. Un disastro della tassonomia è compensato dalla netta impressione di essere un cosmonauta alle prime armi. Proseguendo nel percorso delirante, ho trovato anche alcuni oggetti plasmati dalla natura, talvolta troppo precisi per credere che una mano attenta non li abbia lavorati per utilizzarli, o per adorarli. Sembrava alludessero implicitamente ad un tentativo di ordine. Questa ostinata qualità, squisitamente umana, mi ha riportato a Mantova, nella cava tra i rifiuti, con la macchina fotografica ciondolante e i piedi lerci di polvere bianca. L’esperimento, in parte, sembra essere riuscito.

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di Giovanni Malavasi

La sera, quando i gechi cominciano a sghignazzare come delfini sulle pareti e gli abitanti del villaggio si radunano per i puja notturni nelle capanne che come spugne riassorbono gli uomini all’imbrunire per strizzarli fuori al mattino, io allora estraggo la mia radio.

La impugno come fosse un acciarino magico, l’accendo e vengo travolto dal fronte d’onda dei popoli asiatici. Nello spazio radio del delta del Gange la Cina preme, sempre. Distinguo poi Corea e Thailandia, un giapponese lontano, russi ben piantati e cingalesi schioccanti: la radio mi funziona come un proiettore olografico di volumi di distanze. Tendere l’orecchio alla radio in cerca d’inglese è come portare l’occhio non sai bene se ad un telescopio sonoro, per coprire le vastità asiatiche, o ad un microscopio, per mettere a fuoco nel brulicare compatto di popoli un timbro familiare, uno smozzico d’inglese. Faccio scorrere col pollice la manopola della frequenza come un giocatore di poker si apre “spolpastrellando” a poco a poco le carte in mano (le emittenti straniere giungono in onde corte, il che significa che pochi nanometri sulla manopola ti portano da Radio Islamabad a Buongiorno Seul. Riuscire quindi a sintonizzarsi su una stazione inglese è lavoro da orologiai). L’orecchio però si affina in questa Babele e ancora prima di poter distinguere, discernere parole distinte, riconosci nella marea anche solo l’accento, la fisionomia sonora dell’inglese. Come viaggiare su una jeep e mentre ti scorre accanto il carnaio umano asiatico riconosci una cravatta e dei capelli biondi. transatlantico18

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radiofonia schizoide con inglesi in fila indiana

L’inglese è la mia madre patria sonora, il filtro attraverso cui la realtà mi diventa percepibile e comprensibile. Mi solleva e consola. È il mio visore linguistico all’infrarosso per orientarmi nelle giungle e steppe asiatiche. È la mia epidermide sociale. Gli inglesi hanno vita difficile: devono spintonarsi tra notiziari mandarini, bollettini coreani, annunci birmani e rivendicazioni tibetane. Un lavoraccio. Li cerco, mi pare di riconoscerli, li intrasento. Ci sono. Sento la voce di Lucy Thristy, inviata della BBC. Ma un assalto di comunicati tamil mi sequestra Lucy e se la inghiottisce chissà dove. Vedo allora questa piccola stazione della BBC, separata dalle mangrovie da una cancellata liberty, accerchiata da maosti nepalesi, impiegati di Pechino, e buddhisti birmani. Gli inglesi, in fila indiana, a mani in alto, sudati ma ben pettinati, lasciano la postazione. Sono perso anch’io. Poco dopo però i sudditi della regina riescono a riconquistare la banda 23, good job lads, mi accendo un bidi e sorseggio il mio tè delle otto e mezza. Servizi a volo d’uccello sulla Birmania e Thailandia, zoomate sull’Afghanistan, interviste a popolazioni tribali pachistane. Poi Napoli, Casal Di Principe. Sussulto. Un reportage sulla camorra, intervista a Roberto Saviano, servizio live all’interno di una volante dei carabinieri. Sento le parole in lingua italiana prima che la giornalista le traduca in inglese. Le voci dall’Italia mi arrivano commentate, didascalizzate, etichettate, come prima mi arrivavano le voci dei taliban. Ho una sensazione stranissima di intimità estraniata come se le viscere che condivido con quel mondo mi arrivassero sotto forma di prelievo di umore etnico da analizzare. Il mio visore linguistico all’infrarosso si è posato su casa mia, restituendomi una familiarità stravolta. Mi ritrovo nel contempo ai due estremi del tele-microscopio radiofonico, scisso e filtrato io stesso dall’inglese. Stavo stringendo gli occhi così tanto per poter decifrare le lontananze sonore che adesso, sbattuto contro alla mia stessa epidermide, non vedo più niente: un momento in cui non capisco né il sottofondo italiano né la voce della giornalista. Mi sono d’improvviso ritrovato a guidare la mia Ambassador con volante a destra sulla Salerno – Reggio Calabria. E mi sono incasinato.


di Micol Ferretti

“Pour se jouer 840 fois de suite ce motif, il sera bon de se préparer au préalable, et dans le plus grand silence, par des immobilités sérieuses”

Per suonare questo motivo 840 volte consecutivamente a se stessi, sarà utile prepararsi in anticipo, e nel silenzio più assoluto, per una seria immobilità. Questa la sola indicazione di Erik Satie al pianista. Il tema e le due armonizzazioni, che di per sé poco o nulla hanno di originale, devono essere ripetute ad un tempo “très lent”, molto lento, fino a quando l’ottocentoquarantesima volta non sia giunta al termine. Questo significa per lo spettatore, e per gli esecutori, partecipare ad un vero e proprio atto eroico, o di fede, che può durare dalle dodici ore ad un’intera giornata. Ecco la chiave di volta. La ripetitività estenuante che gira intorno a se stessa, fa ironicamente il verso a quella musica “germanica” che Satie tanto odiava. La musica wagneriana che tende all’infinito, senza mai un accordo risolutivo, è rovesciata in una filastrocca meccanica bastevole delle sue rade note, indipendente da un contesto drammatico, o da una qualsivoglia interpretazione psicologizzante. Una critica che tocca anche il Perpetuum mobile, genere molto in voga nel diciannovesimo secolo, che ripeteva virtuosisticamente brani separati un indefinito numero di volte. La “seria – o seriosa – immobilità”, le numerose ripetizioni tuttavia definite e aventi un numero preciso, un tempo lento contrapposto ai rapidi movimenti del Perpetuum mobile, ne fanno certamente una parodia. Se il sarcasmo e l’ironia di Satie portano inevitabilmente a leggere “Vexations” come uno schiaffo geniale e derisorio, è altrettanto necessario ricordare che la partitura rimase muta per settant’anni dalla sua stesura. Composta nel 1893, prese forma e venne eseguita solo nel 1963, anno in cui John Cage vi inciampò involontariamente. È noto quanto il compositore americano fosse attratto dalle forme di spiritualità orientale, dalla meditazione e dall’esperienza circolare e ipnotica che da questa deriva. Inutile dire che Cage rimase entusiasta. “Vexations” prende le sembianze di un mantra. Il pianista intona una preghiera, e non ha bisogno di aver fede in quello che sta facendo, non importa se è confuso o imbarazzato. Nessuno lo obbliga a credere, o a pensare in qualcosa quando comincia. All’inizio conta solo la quantità. Poi, più avanti, questa diventa automaticamente qualità. Le forme orientali di pensare il mondo sanno bene che qualsiasi nome di Dio, o meglio, un nome qualunque, ha questo particolare potere autoattivo, che comincia a funzionare subito dopo averlo messo in moto. Se ci si imbatte spesso in questo consiglio, è lecito credere non sia una coincidenza. Religiosi così addentro, e niente affatto fasulli, continuano a sostenere che se ripeti senza sosta il nome di Dio qualcosa deve succedere. In India, ad esempio, dicono di meditare sull’«Om». È la stessa cosa, il risultato è identico. Riesci a vedere Dio. Sono queste le “vessazioni” che il pianista infligge a se stesso come farebbe un penitente. È incredibile ritrovare un’atmosfera simile nelle parole di Alfred Cortot a commento delle Gnossiennes di Satie. Nel 1938 scriveva che all’ascolto, «non ci si può impedire di condividere il piacere quasi ipnotico del musicista, che ripete a se stesso, senza stancarsi, la stessa frase che accarezza il suo orecchio, come un orientale che respiri, un minuto dopo l’altro, il penetrante profumo di una rosa che si sfoglia».

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per la danza

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INCONTRI PER DISSONANZE occasioni di rispetto

di Gianluca Ganda Quante storie potremmo raccontare per dire che gli innovatori sono diventati tali quando hanno cercato di allontanarsi dalle regole? Chi è stato in grado di regalare capolavori, d’arte o di pensiero, nuovi nello stile e nel messaggio e ha saputo cogliere nel proprio animo un certo dissenso per le convenzioni; chi ha saputo mettere in crisi i codici espressivi e i contenuti della tradizione, creando opere d’arte. Sulle pagine di questo libro immaginato, un primo pensiero va alla musica e a Schoenberg, per la sua intransigenza nel produrre ciò che il suo animo gli dettava, musica come emozione e che dava emozione. Ai critici regalava disgusto: ma questi paragonarono una sua opera, “Notte trasfigurata”, ad un “vitello a sei zampe”, per noi che ancora oggi la ascoltiamo, è un’espressione di misteriosa inventiva. Si sa d’altronde che l’elitè dei critici e degli artisti che si riconoscono vicendevolmente, spesso stabilisce i criteri secondo i quali si può definire un buon prodotto. Sembra che un critico accolse la prima mostra di Paul Cézanne con commenti alquanto ostici e inospitali: per lui “La casa dell’impiccato” era stato dipinto da un pazzo col delirium tremens. In effetti questo quadro può risultare un po’ ipnotico, tanto da rendere faticoso staccargli gli occhi di dosso. Un’altra sensazione strana coglie chi si trova ad ascoltare John Cage e i suoni che escono da un pianoforte preparato, ma anche i suoni che arrivano dalla “composizione indeterminata”, una composizione affrancata dalle costrizioni dell’armonia, dalla memoria individuale e dalla tradizione. Una composizione che si crea nel caso, grazie all’estrazione aleatoria delle tavolette de I Ching, con un metodo che può parere allo stesso tempo logico e irrazionale. Per arrivare poi ai suoi silenzi, riempiti dai rumori aleatori del pubblico, forse il vero contenuto dell’opera 4’33’’. Sempre, quando ci accostiamo ad un prodotto creativo, siamo chiamati a un confronto. Una parte di noi si accorda al prodotto per quanto ci risulta prevedibile, mentre un’altra parte può stupirsi per quanto quell’opera si pone fuori dagli schemi con cui siamo soliti leggere la realtà. Strano concetto, questo, di realtà! Quante ce ne sono? Una sola, ingabbiata da codici di lettura che sono uguali e dati? O le “realtà” sono molteplici? Può essere. Basta accettare che molte e possibili siano le descrizioni del mondo, della vita, degli atti e degli scambi tra esseri umani. È possibile, se riteniamo che la “realtà” sia il risultato di una reciprocità, frutto di un accordo, tra chi produce e chi fruisce del prodotto. Il postmoderno ci pone di fronte a questi interrogativi nel momento in cui ci rendiamo consapevoli che i principi con cui diamo senso a ciò che arriva a noi non sono più utili di altri. Ma ancora prima che questo filone di riflessione venisse affrontato dai filosofi del secolo scorso, Marcel Duchamp transitava il senso dell’opera d’arte da un’estetica stabilita dal senso comune a un’estetica stabilita dal soggetto: la Gioconda con i baffi, ad esempio. Un’opera che ha un valore, la Gioconda, si trasforma in un’opera che sembra non averne e proprio per questo scivola

fuori dai criteri di valore canonico, per entrare in un’area dove chi guarda è chiamato ad assumersi la responsabilità di attribuirvi valore. Questo esempio per dire che l’opera, come elemento di rappresentazione, ci chiede sempre di riflettere sul codice estetico che le vogliamo applicare. Si potrebbe dire che siamo continuamente interpellati, interrogati senza possibilità di mancare alla domanda: qual è il senso che diamo a ciò che incontriamo? E come costruiamo quel senso? Vana è la ricerca di un rifugio a questi interrogativi. Se vogliamo sfuggire alle domande vi stiamo comunque rispondendo: chi afferma che le domande siano senza senso dice che la realtà è una sola e come conseguenza: una cosa è giusta e una sbagliata. Poco spazio per l’immaginazione, quasi niente da inventare. Se non è interessante chiederci come diamo significato a ciò che incontriamo e siamo in possesso di un unico criterio, come ce lo siamo formati? E come ci sentiamo se, nostro malgrado, rileviamo la paradossalità dell’unico criterio, la sua limitatezza? Come ci appaiono i danni che ci arrivano se vogliamo restargli coerenti, pur di non cambiare? È una battaglia quella con la diversità. Difficile anche perché qualsiasi cultura in cui siamo inseriti, come ha mostrato Michel Foucault, può limitarci nel produrre atti dissonanti da essa. Francois Lyotard sostiene che il sistema tende a favorire l’adattamento delle aspirazioni individuali ai suoi propri fini, anche attraverso “l’eliminazione o la minaccia di eliminazione di un interlocutore dal gioco linguistico. [...] adattate le vostre aspirazioni ai nostri fini, altrimenti...”: è interessante che per il filosofo francese l’esclusione di un essere umano dal dialogo sia un atto di terrorismo. Nella letteratura abbiamo un caso emblematico, in negativo, rappresentato da Winston, il protagonista di 1984. Sconvolto dal rifiuto della società in cui vive e dei codici che essa impone, cerca di farsi “catturare” da essa, per venirne riprogrammato e assimilato. Si consegna ai codici che lo estraniano da se stesso, per la paura di estraniarsi dalla società o per il terrore che tale straniamento lo alieni addirittura da se stesso. E forse questa è la paura che ci coglie tutte le volte che incontriamo l’estraneo, paura acuita dalla possibilità di trovare in lui o in lei qualcosa di diverso, che ci pare genuino e che ci pone problemi, sulla base di un sentimento che accomuna. Fa paura vivere tra esseri umani: tanto più se scopriamo di esseri diversi e uguali. Sull’onda di Von Foerster, che parlava di “divenire umano”, si potrebbe pensare ad una forma di essere umano che è anche processo, una procedura che ci chiede di divenire consapevoli di noi-mentre-interagiamo. L’epistemologo e cibernetico, ha mostrato che la realtà è costruita dal singolo e poi condivisa, contrattata con gli altri, per venir infine “com-presa”. La molteplice irriducibilità del divenire umano è un incontro di culture e di varietà, quella dell’immigrato e del vicino di casa.

Ci sono molte voci da ascoltare, sia dentro che fuori di noi; incontriamo così anche un “io sono” che può essere disponibile a evolversi per lasciare spazio e arricchirsi con nuove forme. Un processo possibile solo se ognuno si avvicina agli altri con il rispetto per la loro diversità. Nella psicoterapia questo è il rifiuto dell’hybris. La sfida risiede nella ricerca dei punti di contatto, dell’armonia, degli accordi: anche quando questi possono sembrare, dal di fuori, per chi è estraneo alla relazione, suoni dissonanti. La ricerca di una armonia di movimenti, azioni ed emozioni, a partire da un dialogo dove conoscenza e giudizio non siano più presuntuose ma presuntive. La musica atonale di Schoenberg, che con le sue composizioni inneggia all’emancipazione delle dissonanze; oppure le sonorità di John Cage e George Crumb; ma anche la versione di George Gershwin di “Ain’t necessarily so”, quella di Miles Davis, dei Police o dei Bronski Beat; creatività diverse nella musica, semplicemente “diversità dell’Altro” nei rapporti umani: B. Pierce lo chiama “cosmopolitismo”, Habermas “multiculturalismo”. Tutte esperienze che possono creare scompiglio, permettono anche di pensare alle regole di accettazione o rifiuto di una “identità”. Difficile rispondere alla domanda “cos’è l’opera d’arte”. Meglio osservare che un’opera, quando può permettersi di usare nuovi linguaggi per veicolare l’occasione di un ritorno a un’interezza e una unità, fa emergere da sè una nuova proprietà: è un accadimento poetico, creativo, cioè spinge all’evoluzione. È un evento, che in sé porta anche lo stupore di una scoperta: dal nulla può venire un universo, con la sua complessità; da ciò che sembrava arido si ri-genera una forza dinamica. Molti psicoanalisti (Freud, Klein) ritrovano nel processo della creatività mentale la capacità di dare e preservare la vita: creatività come lavoro per nutrire, far crescere e riparare il danno, il dolore del proprio limite, la consapevolezza di essere divisi dagli altri (Lacan, Laplanche). Negli anni ‘70 vale l’equazione Arte = Vita, tutto può diventare arte, l’arte è già nella vita. Anzi, niente di meglio che un’opera che si arricchisce di linguaggi desueti per il mondo che fino a quel momento era codificato come Arte. Niente di meglio di un’opera che sfrutta gli elementi comuni, poveri, quotidiani della vita: per elevarli a “segno di arte”, per organizzarli in modo tale che acquisiscano forza vitale, e mostrare che anche da essi può venire una scintilla poetica. L’artista come il dottor Frankestein perde un po’ di onnipotenza se cerca di nobilitare ciò che esiste già, ciò che vive già. Oggi sembra che questa sfida si trasferisca anche alla semplice interazione umana di tutti i giorni. Una sfida sociale che ci attende è quella che ci muove – ci interpella con l’ineludibilità della risposta – ad amalgamare certe differenze tra le persone; a stabilire, con molta attenzione, quali comportamenti e idee vadano contro il riconoscimento e il reciproco rispetto delle differenze tra gli esseri umani, perché la “produzione dell’esclusione” non divenga una violenza etica.

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viste, lette e riviste di Giovanni Pasetti La leggenda di Mantova lontana dal mondo, un luogo dove i sentieri si perdono, una bellissima dimora che non riesce a comunicare all’esterno i propri pensieri, sembra contraddetta nel corso della storia dalla grande produzione di scritti che elevati intellettuali o volonterosi cittadini hanno dispensato. Sembra quasi che il relativo isolamento culturale del Ducato abbia prodotto una fioritura letteraria spesso sottovalutata, poiché essa sembra cosa piccola di fronte alle meraviglie artistiche ospitate nell’intero territorio della provincia. Eppure ognuno sa che queste meraviglie sono in larghissima parte da attribuire all’invenzione di ingegni stranieri; al contrario, le opere vergate su carta che da qui si dipartono hanno impresso fin dalla nascita un marchio singolare di ingegno padano, che le rende eccezionali e stravaganti. Basti pensare a Teofilo Folengo, a Sordello, a Baldassare Castiglioni, a Pietro Pomponazzi; alle figure, leggermente più distanti ma in ogni caso familiarmente compenetrate nel mantovano di Pico della Mirandola e di Ippolito Nievo. A fronte di tali vette, parallelo appare il diffondersi di pubblicazioni, periodici, libelli di ogni genere che animano la vita politica e il tessuto sociale del mantovano. Se la Gazzetta di Mantova vanta il titolo di primo quotidiano d’Italia, se lo scriptorium di San Benedetto è uno dei maggiori della penisola, se nel 1558 viene pubblicato per la prima volta nella città virgiliana lo Zohar, testo fondamentale della Cabala, altrettanto significativa è la produzione continua che verrà infine ospitata nelle sale della nostra augusta Biblioteca. In particolare, avventuroso e significativo è il cammino di alcune riviste del ‘900 mantovano. Dimenticando per in attimo l’inesausto fiorire di periodici a diversa intonazione politica, frutto certamente della viva presenza del socialismo e delle lotte contadine nel nostro territorio, due eventi sembrano contrappuntare nel dopoguerra il dibattito intellettuale e la provocazione artistica. Tra il 1964 e il 1970 un gruppo di giovani fonda e pubblica “Il Portico”, che diviene presto luogo privilegiato di elaborazione e dibattito. Tra i numerosi partecipanti spiccano le personalità di Umberto Artioli, Francesco Bartoli, Gino Baratta; a questi si aggiungono i nomi di Mario Artioli, Badiali, Baroni, Margonari, e tanti altri. Il primo intento che si pone il gruppo è di sprovincializzare non solo Mantova, ma un mondo culturale italiano che appare incrostato da pregiudizi e privilegi. In assonanza con il Gruppo ‘63, la fluttuante redazione propone escursioni geniali nell’universo dello strutturalismo, nelle avanguardie teatrali, poetiche e pittoriche, seguendo la bussola dell’onestà intellettuale e dell’approfondimento entusiasta. Non a caso, i medesimi interpreti saranno protagonisti negli anni a seguire delle imprese culturali mantovane più feconde, giungendo spesso a sintesi teoriche ardite che ancora oggi stupiscono per energia innovativa. Diversa appare l’avventura de “La Corte”, periodico che ebbe vita tra il 1988 e il 1995, il cui svolgersi si deve a un ristrettissimo manipolo di persone, radunato dall’ingegno di Alessandro Gennari, tra cui merita ricordare, oltre a chi vi scrive, il temperamento esuberante di Ubaldo Zunica, e i contributi di Adriano Amati, Mario Benini, Stefano Iori. Là dove “Il Portico” era diretto e innovativo nella grafica, “La Corte” si presentava come una rivista patinata di 100 pagine a numero, ricca di immagini, nell’intento di attraversare il variegato paesaggio degli anni ’80. Puntuali tuttavia giungevano i contributi prestigiosi, da Carmelo Bene ad Alberto Moravia, dai giovani poeti italiani allo stesso Umberto Artioli. Quelle pagine stracolme di scritti teorici, versi, racconti, recensioni erano certamente meno rigorose dell’appassionata prosa de “Il Portico”. Così, il mondo che si presentava ai nostri occhi era confuso, ingannevole, seduttivo e infido. Il tragico percorso esistenziale di alcuni fra i redattori de “La Corte” sembra aver contrappuntato il destino difficile di una generazione che si è trovata a combattere guerre non dichiarate e invisibili. Ma il medesimo istinto va riconosciuto ad entrambi i gruppi. La chiave di entrambe le esperienze sta infatti nel desiderio di risvegliare se stessi e gli altri, valicando il confine trasparente della provincia, dialogando con i maggiori ingegni dell’epoca. Esprimendo un sentimento di complessa appartenenza alla storia intellettuale del secolo trascorso.

arte e tradimenti Secondo alcune fonti, accreditate di notevole autorità, la totalità delle incongruenze che chiamiamo esistenza è dovuta, in primo luogo, all’aver dato retta a un serpente nutrizionista e, qualche anno dopo, nell’aver consegnato a un governatore che se ne lavò le mani quel promesso nutrizionista che ci doveva offrire qualche giro di “acqua della vita eterna”1 . L’ultimo episodio, nonostante fosse necessario per ovviare alle conseguenze implicite nel precedente – per questo redenzione e riscatto, e riscatto e ricatto, in teologia sono parole così vicine – passò alla storia come il primo, e forse peggiore, esempio di tradimento. Tradimento che, come poi sarebbe stato in molti stati militari, si concluse con un’impiccagione. A distanza di duemila anni manteniamo ancora una certa diffidenza verso questo verbo, ma “tradire” (dal latino tradere, composto di trans- ‘oltre’ e do - dare) significa semplicemente “consegnare”, e non consegnare al nemico. Allo stesso modo la “tradizione” è quel qualcosa che ci viene consegnato nel tempo, anche se non sempre ci è dato sapere attraverso quanti e quali tradimenti. Un proverbio sudamericano, mi pare, dice che il tempo non è povero di giorni. La tradizione è questa secolare ricchezza di momenti, in parte consegnati all’oblio in parte venduti alla memoria che, direbbe Borges, sono entrambi aspetti della nostra immaginazione. E così ci immaginiamo vivi e viviamo... A causa del suo “automatismo nel declino”, scrive Cioran, “l’uomo sta cominciando a passare di moda... In realtà, relitto quasi soprannaturale, va verso una condizione limite: un saggio roso dalla saggezza”2. Quando si legge Cioran si ha la sensazione che la storia, e con essa la tradizione, sia quell’irreale parodia di un escatologico accumulo di conoscenze, peripezie e contingenze – in cui caos e necessità, cosmo e individuo, Dio e Nulla sembrano contendersi il titolo di inessenziale – che non ha altro scopo che un’ironica frenesia della fine, quando saremo “finalmente emancipati dalla impertinenza del sangue e dalle rivendicazioni della carne”3. transatlantico22

di Paolo Vanini

1 Antares 2 Capella 3 Canopo 4 Arturo 5 Agreetor 6 Anektor 7 Duendin 8 Algerib 9 Agena 10 Lalandry 11 Vega 12 Golubin 13 Spica (il ladro in ‘Il cuoco, il ladro, sua moglie, l’amante’) 14 Capra 15 Acrab 16 Deneb 17 Saffo 18 Castore 19 Polluce 20 Storcha 21 Teno 22 Riga 23 Cursa 24 Tuban 25 Mira 26 Adara 27 Macra 28 Seginus 29 Kenturus 30 Yed 31 Mirach 32 Almach 33 Altair 34 Nollar 35 Schreddar 36 Albireo 37 Dipda 37 Dipda 38 Spica 39 Caff 40 Corboda 41 Ceti 42 Kruger 43 Spira 44 Procione 45 Crucis

Cioran non era un disfattista, ma secondo Ceronetti, uno “squartatore misericordioso”. Apologeta del baratro della nostra condizione, questa era la sua via per portare alla luce un inesauribile attaccamento all’esistenza. “Esistere è un fenomeno colossale – che non ha nessun senso. È così che definirei lo sbalordimento nel quale vivo giorno dopo giorno”4. (Ceronetti ha chiamato questo “filosofo squartatore”. Leggerlo è ritrovare, finalmente, un po’ di ossigeno in paragrafi impregnati di verità irrespirabili, dirette contro le più respirabili “intossicazioni del secolo”). Affrontare la contemporaneità, sia in arte che in filosofia, è farsi carico delle consequenzialità di tradizioni eterogenee che, nel divenire contraddittorio dei loro presupposti, si sono rivelate inadatte a render conto di quell’irrazionale complessità che caratterizza il nostro attuale. Illusione cartesiana, illusione hegeliana, illusione romantica... da qui l’esigenza di sperimentare nuovi percorsi che, nel tentativo di consegnarci qualcosa di altro, possono tradire quanto ci era stato dapprima consegnato e insegnato. Ma è un tradire innocente, direbbe Croce. E se il traditore innocente andasse a impiccarsi? In fondo il suicidio, prima di essere una corda intorno a un collo, è il biasimo che la tradizione riserva ai traditori. Di fronte a questo dubbio, oltre a rammentarci brevemente i nomi di molti “traditori”, ricordiamo un aforisma di Cioran: “Lo si voglia o no il suicidio è una forma di promozione. Un imbecille che si uccide non è più un imbecille”...

Giovanni 4:14 E. Cioran, Squartamento, Adelphi Edizioni, Milano 1981, pp. 62, 63 3 Ivi, p. 71 4 Ivi, p. 96 1

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dizionario di musica inudibile

Elenco delle 100 stelle citate in Drowning by numbers di Peter Greenaway

46 Banquo 47 Kilye (assonanza voluta col pittore Kitaj) 48 Kneller (anch’egli pittore) 49 Hannah 50 Betelgeuse 51 Mesra 52 Lapit 53 Kracklite (protagonista di ‘Il ventre dell’architetto’) 54 Salcis 55 Okkra 56 Bolstar 57 Bestall (illustratore per bambini) 58 Procis 59 Salamon 60 Groombridge 61 Scheet 62 Nath 63 Strat 64 Diss (una città) 65 Bosch (celebre pittore) 66 Plin 67 Zeta 68 Paul 69 Bolse 70 Droma 71 Alcano 72 Spiller 73 Polcis 74 Hoyten (nome del direttore dello zoo in ‘Lo zoo di vetro’) 75 Luper (nome del protagonista di molti cortometraggi di Greenway) 76 McCay (illustratore) 77 Regolo 78 Eridano 79 Branca (nome del compositore di parte della colonna sonora di ‘Il ventre dell’architetto’) 80 Bellatrix 81 Muriel (titolo di un film) 82 Stobart 83 Gobin 84 Adnam 85 Boston 86 Locis 87 Borick 88 Crupal 89 Indi 90 Smeltza 91 Fabritius (pittore olandese) 92 Colcis 93 Boudica 94 Centauri 95 Sopul 96 Jonah 97 Riback 98 Rostra 99 Procione 100 Elettra

John Cage: 4’33’’ (1952). Un classico. In tre movimenti. Composizione eseguita per la prima volta da David Tudor al pianoforte, suona piuttosto bene anche in altre trascrizioni. Da non confondersi con 0’00’’ (1962), “da eseguirsi in ogni modo da chiunque”,“ in una situazione provvista di massima amplificazione”, o lo scolorito Tacet (1960), che “andrebbe seguito da (qualunque) esecutore o una combinazioni di esecutori e durare il più a lungo possibile”. Registrazioni consigliate: la realizzazione acustica di Frank Zappa di A Chance Operation [Koch 7238] o la versione elettronica di Render ad opera di Lassigue Bendthaus [KK Records 115]; la registrazione definitiva di 0’00’’ è di Peter Pfister [ART CD 2-6070]. Per una reale catalogazione di licenze artistiche (molte licenze, in realtà) si consulti la compilation di Roel Meelkop, dove si troveranno nove diverse esecuzioni di 45:18 [Korm Plastics 3005]. Alphone Allais. Marche funèbre pour les funerailles d’un grand homme sourd (1897). Il bis-nonno dei pezzi silenziosi. Allais – qualcosa a metà fra Erik Satie, Raymond Roussel e Joel Stein – è probabilmente meglio conosciuto per la sua prosa pioneristica, basata sugli ologrammi. Ma è stato anche un compositore. Se lo si può definire così. Il primo movimento della sua Marcia funebre è semplicemente fatto di nove battute vuote [si veda anche Album Primo Avrilesque, Parigi 1897]. Nessuna registrazione, fino a questo momento, ma una scontata versione per quartetto d’archi al Festival Mankè (Nizza) nel 2000, sotto la direzione di Ismael Robert (che forse si è ispirato alla partitura di Henry Flynt e del gruppo Fluxus, del 1961, che recita “le istruzioni per questo pezzo sono dall’altra parte del foglio”. Ovviamente l’altra parte è bianca. Stephen Vitiello. Fear on high places and natural things (2004). Come un mix di pezzi nello stile di Allais, ma sostanzialmente più animato, l’installazione di Vitiello presso il City Sculture Center di Long Island visualizza il suono in una muta coreografia. Una serie di coni di diffusori, disposti in semicerchio, pulsano e si gonfiano, deformandosi con i potentissimi suoni che producono. Ma provate, se riuscite – teste inclinate e orecchie ben aperte – a sentire qualcosa: i suoni sono a così bassa frequenza che non possono essere uditi da nessun orecchio umano. Quegli sbuffi di aria espansa, comunque, possono essere immaginati come gli forzi ansimanti dei woofer, nel loro tentativo di danzare, senza un suono, eternamente sospesi nel grand jètè del loro etereo balletto. Ken Friedman. Zen for record (1966). Un vinile “vergine”, in omaggio al film di Nam June Paik, Zen for film (1964): un film in 16 millimetri che consiste nella ripresa di pura pellicola (accertato in una durata di un’ora, la proiezione che io vidi fu dichiarata di 10 minuti, sebbene fosse stata cronometrata in 8). Da non confondere con il lavoro di Christine Kozlov, Transparent Film #2 del 1967. La colonna sonora del film di Paik è molto più rumorosa del disco di Friedmann. Se ne avete possibilità, sedetevi vicino al proiezionista: dopo soli otto minuti non dimenticherete più il pigolio dell’otturatore, ammiccante come un ciclope accecato nel sole del tramonto....

Steve Reich: Pendulum Music (1968). Come nel vostro laboratorio di fisica al liceo, ma senza ingannare sui risultati. Alcuni microfoni (senza nessun input) sono sospesi, con un cavo, sopra i diffusori, con gli amplificatori sistemati in modo tale che possano generare un feedback solo quando i microfoni e le casse sono allineati. I microfoni vengono lasciati muovere nel loro percorso a pendolo, starnazzando appena passano davanti alla cassa e fermandosi naturalmente in un leggero fruscio. La prima esecuzione fu a cura di Reich e William Wiley. Due buone registrazioni si hanno dall’Ensemble Avantgarde [Wergo 6630-2] e dai Sonic Youth nell’album Goodbye 20th Century. [SYR4] Matmos. Always Three Words (1998). Prima parola: un registratore a quattro piste. Seconda parola: walkie-talkie (nessun input). Terza parola: un altro walkie-talkie (nessun input). Entrambi i walkie-talkie, messi nel modo trasmissione, sono spostati sopra il registratore producendo così un interferenza che può essere manipolata con ampi gesti circolari. Ultima parola: carino, divertente e con un certo ritmo. [Quasi-objects, Vague Terrain 001] Mike Batt. One minute of silence (2002). Una di quelle cose che danno un cattiva reputazione all’avanguardia. Un estratto da 4’33’’ di Cage, impazientemente arrangiato dall’impresario inglese Batt, e incluso nell’album Classical Graffiti. Impostore-fanciullo del Silenzio e del Tempo, Batt fu immediatamente denunciato dagli editori di Cage per infrazione dei diritti d’autore [EMI 5 57316 2] Ives Klein. Symphonie Monoton-Silence (1957). Pensato per essere una equivalente sonoro dei suoi dipinti monocromatici, il secondo movimento della sinfonia di Klein consiste di dieci minuti di silenzio – un tempo ragionevole per dare al pubblico la possibilità di togliersi dalle orecchie il senso di ronzio: i primi venti minuti consistono in un accordo di re maggiore tenuto. Il lavoro fu originariamente concepito per un’orchestra wagneriana al completo, ma fu eseguito nel 1960 nella Galerie International d’Art Contemporain da una piccola orchestra da camera che memorizzò la partitura dopo appena un solo sguardo (sebbene dopo una breve occhiata alla versione scritta, scrupolosamente preparata da Pierre Henry, qualche anno prima). Vi è inoltre una più tarda, atmosferica versione per coro misto, archi, flauti, oboi e corni. Da non confondersi con il film di Guy Debord, Hurlements en faveur de Sade (1952), che, aggressivamente, si prolunga per ulteriori quattro minuti. Sebbene negasse qualsiasi influenza, Klein, e non era una pura coincidenza, fu presente alla prima del film. Ci sono voci che dicono che Klein realizzò una versione completamente silenziosa, nel 1959, di un Concert de vide [concerto di vuoto] (da non confondersi con il concerto, rudemente contemporaneo, di cleaners sotto vuoto di Sir Malcom Arnolds [op. 57, 1956] ).

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