S&H Magazine n. 287 • Gennaio 2021

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Celebriamo il nuovo anno con i migliori vini sardi secondo Gambero Rosso e la guida 5StarWines di SIMONA COLOMBU

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al punto di vista ampelografico, la Sardegna possiede un vero e proprio patrimonio formato dai suoi vitigni autoctoni. Si parla di ben 26.244 ettari di terreno impegnati per la coltivazione delle viti. Il Cannonau e il Vermentino sono i due tipi di vigna più caratteristici e conosciuti, tanto da coprire una superficie complessiva di 11.800 ettari, ma non mancano il Cari­ gnano, il Bovale, il Nuragus, la Malvasia, il Moscato, il Monica e la Vernaccia. La Sardegna è davvero una terra con un ricchissimo panorama vitivinicolo, tanto da essere quasi parte integrante del no­ stro DNA: in fondo una bottiglia di vino, bianco o rosso, non può mancare sulle tavole imbandite di tutta l’Isola.

Il nostro vino non teme rivali, tanto da aver ottenuto diversi premi e riconosci­ menti nelle guide nazionali ed interna­ zionali enogastronomiche, ma qual è quello più buono? Gambero Rosso e Vi­ nitaly hanno selezionato i migliori vini di tutta Italia, compresi quelli sardi, che hanno conquistato il palato degli esperti. Gambero Rosso, famoso per il suo lavoro nel settore agroalimentare e della ri­ storazione, sceglie i migliori vini d’Italia assegnando Tre Bicchieri come ricono­ scimento della loro eccellenza. Durante la degustazione di 3 giorni a Roma, sono stati rivelati e premiati ben 15 vini prodotti in Sardegna. Le Tenute Sella & Mosca conquistano il loro posto con il torbato Catore ‘18. Originario di Alghero, questo bianco dal sapore sapido ed avvolgente ci riporta ai profumi tipici

della macchia mediterranea. Oristano, invece, ottiene il riconoscimento con due vernacce: la Vernaccia di Oristano Riserva ‘68 delle cantine di Silvio Carta, e Antico Gregori ‘76 dell’azienda Contini. Un altro bianco presente nella guida è il Capichera VT ‘17, prodotto dall’omo­ nima cantina di Arzachena. Si tratta di uno dei primi vermentini a vinificare in barriques, dandogli un sapore caratte­ ristico, forte e profondo. Sempre par­ lando di vermentini, sono altri due i vini insigniti con Tre Bicchieri: il primo, sempre di Arzachena, è Sciala ‘19 dei vigneti Surrau, mentre il secondo è Stel­ lato ‘19 dell’azienda agricola Pala di Serdiana. Nella provincia di Nuoro, invece, ottiene Tre Bicchieri il Cannonau di Sardegna Dule ‘17, realizzato dal­ l’azienda agricola di Giuseppe Gabbas. Questo vino rosso, dopo un anno di maturazione in barriques di rovere fran­ cese e di affinamento in bottiglia, è pronto per accompagnare le carni rosse e salsate. Questo non è l’unico Cannonau che ha colpito gli esperti della guida del Gambero Rosso: Mamoiada presenta Mamuthone ‘17 dell’azienda vitivinicola di Giuseppe Sedilesu che, con i suoi profumi di spezie e frutti maturi, si sposa perfettamente con i piatti di cacciagione; mentre le Tenute di Perdarubia sono citate con il loro Cannonau Naniha ‘18. Questo rosso, dai riflessi violacei e dal­ l’intenso aroma fruttato, racchiude il sapore dell’Ogliastra con il suo gusto morbido e asciutto. Un altro Cannonau di Sardegna che viene consigliato è il Nepente di Oliena Pro Vois ‘15 dei F.lli Puddu che, con la sua grande struttura e morbidezza, accompagna perfetta­ mente i piatti tipici della cucina sarda. ...CONTINUA SUL WEB INQUADRA IL CODICE QR CON IL TUO SMARTPHONE PER CONTINUARE A LEGGERE L'ARTICOLO


S&H MAGAZINE Anno XXVI - N. 287 / Gennaio 2021 EDIZIONE CAGLIARI+SASSARI

Direttore Responsabile MARCO CAU

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03 03 I migliori vini della Sardegna Celebriamo il nuovo anno con i migliori vini secondo Gambero Rosso e Vinitaly

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09 Medicina popolare in Sardegna Come guarire dal malocchio e dagli spaventi secondo gli antichi rituali

Ufficio Grafico GIUSEPPINA MEDDE Hanno collaborato a questo numero: SIMONA COLOMBU, FRANCA FALCHI, HELEL FIORI, ALBA MARINI, GIUSEPPE MASSAIU, DANIELA PIRAS, RAFFAELLA PIRAS, AURORA REDVILLE Redazione Sassari, Via Oriani, 5/a - tel. 079.267.50.50 Cagliari, tel. 393.81.38.38.2 mail: redazione@shmag.it

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05 La scomparsa degli insetti Una minaccia a livello globale

06 Cagliari teatrale La storia che vive attraverso i teatri

08 Ananda L'esordio alla regia di Stefano Deffenu

10 Le Caratzas La forza delle tradizioni che resistono

Stampa Tipografia Gallizzi S.r.l. - Sassari

12 L’arte di Gavino Ganau Un crocevia di tecniche e stili dal sapore metropolitano e introspettivo

14 SMART STORIES

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$ www.shmag.it telegram.me/sehmagazine issuu.com/esseacca Registro Stampa: Tribunale di Sassari n. 324/96. ROC: 28798. © 2021. Tutti i diritti sono riservati. È vietato riprodurre disegni, foto e testi parzialmente e totalmente contenuti in questo numero del giornale.

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in Copertina

LE CARATZAS DI FRANCO MARITATO Foto Laura Mele


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la scomparsa degli insetti una minaccia a livello globale di FRANCA FALCHI

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in da bambini abbiamo con­ siderato gli insetti come ani­ maletti da ama­ re o da temere. Ci siamo soffer­ mati spesso ad ammirare il volo delle farfalle o l’opera delle formiche seguendole sino alla loro tana. Abbiamo temuto le vespe, sia­ mo stati infastiditi da mosche e zan­ zare. Ma quanto ci siamo soffermati a riflettere sulla loro reale importanza nell’ecosistema? Ad oggi si conoscono più di 1,8 milioni di specie di insetti al mondo e, se si potesse fare un confronto, il loro peso complessivo supererebbe di 17 volte quello di tutti gli esseri umani. Questo porterebbe a pensare ad una forte disponibilità, se non fosse che la loro biomassa si è ridotta del 75% negli ultimi 30 anni ad un ritmo del 2,5% all’anno. Si stima che nel pros­ simo decennio circa il 40% delle specie sarà a rischio di estinzione ed entro un secolo non ci saranno più insetti sulla Terra. Un pianeta senza insetti potrebbe sembrare bellissimo: niente fastidi dalle mosche, niente zanzare o vespe che pungono ma essi sono un anello fondamentale per l’intera catena alimentare proprio anche grazie alla loro abbondanza e senza il loro mi­ nuzioso lavoro l’intero pianeta col­ lasserebbe. Gli insetti sono infatti indispensabili per il funzionamento degli ecosistemi e molte funzioni tra cui l’impollina­ zione, la decomposizione della materia e la fertilità del suolo senza di essi cesserebbero. Scomparirebbero tutte le piante che necessitano degli insetti pronubi (circa l’87%) e senza la fecon­ dazione non produrrebbero frutti e semi. Non avremo più mele, fragole, agrumi o pomodori con un ingente danno per la nostra economia.

Senza la tritura­ zione e la di­ gestione di foglie, tronchi, escrementi, carcasse e peli, il riciclo naturale della materia or­ ganica verrebbe ostacolato portando ad un impoverimento del suolo. Mancherebbe poi l’aiuto che molti di essi danno all’agricoltura, basti pensare all’azione delle coccinelle sugli afidi e a tutte quelle specie dan­ nose che in mancanza di competitori prolifererebbero a dismisura. La diminuzione e la progressiva scom­ parsa degli insetti condizionerebbe la presenza di molte specie animali che dipendono da essi per nutrirsi come gli uccelli insettivori, ma dimi­ nuirebbero anche tutti i carnivori che si cibano di quegli uccelli o gli erbivori che, in mancanza di impolli­ nazione, troverebbero sempre meno specie vegetali. Tutto questo ha portato diversi go­ verni ad adottare strategie comuni per ostacolare e rallentare una sesta estinzione globale. Le cause sono di­ verse: l’uso di pesticidi e di fertilizzanti che modificano la flora e uccidono molte specie di insetti. L’urbanizza­ zione che ha portato alla diminuzione degli habitat, l’inquinamento lumi­ noso che inganna le specie notturne e il cambiamento climatico che porta alla migrazione verso temperature più favorevoli. Si può ancora rimediare proteggendo la biodiversità, maggiore sarà la va­ rietà di ambienti maggiore sarà il numero di insetti presenti.


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CAGLIARI TEATRALE La storia che vive attraverso i teatri di ALBA MARINI

“Il teatro non è il paese della realtà: ci sono alberi di cartone, palazzi di tela, un cielo di cartapesta, diamanti di vetro, oro di carta stagnola, il rosso sulla guancia, un sole che esce da sotto terra. Ma è il paese del vero: ci sono cuori umani dietro le quinte, cuori umani nella sala, cuori umani sul palco.” (Victor Hugo)

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e pensiamo a Cagliari pensiamo al mare, pensiamo a Castello e al­ l’imponente Bastione Saint Remy. Pensiamo al porto, alle vie dello shopping e dei ristoranti ­ via Manno, via Garibaldi,

il Corso Vittorio Emanuele – e al caratte­ ristico quartiere di Villanova, con la chiesa di San Giacomo illuminata in occasione delle feste natalizie. Niente sembra farci pensare al teatro, eppure Cagliari ospita attualmente ben sei teatri operativi, troppo spesso tralasciati quando si parla della cultura artistica e degli edifici degni di nota del capoluogo. Se il teatro tradi­ zionale scorre nel nostro sangue come ‘luogo di pubblico spettacolo’ (dal greco théatron) dove agiscono e “recitano” le maschere sarde (dai Mamuthones e gli Issohadores ai Boes e i Merdules), il teatro moderno, di respiro più ampio (nazionale e internazionale) vive nelle case che sono state appositamente con­ cepite per lui. A Cagliari sono appunto sei i luoghi dove il teatro ha trovato attualmente riparo: il Teatro Civico, il

Teatro delle Saline, l’Auditorium comu­ nale e quello del Conservatorio, il Teatro Lirico e il Teatro Massimo. La storia del capoluogo sardo può essere raccontata – almeno in parte – proprio attraverso questi edifici, imponenti testimoni di cambiamenti della società, della nascita e la crescita di grandi artisti e di eventi catastrofici (come i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale). Cominciamo a parlare del Teatro Civico, situato in via de Candia, adiacente al Palazzo Boyl. Si tratta di uno dei primi teatri sorti a Cagliari, nato nel ‘700 su iniziativa del marchese Zapata di Las Plassas. Quando l’edificio fu acquistato dal Municipio, il progetto della costru­ zione di un nuovo teatro fu affidato a Gaetano Cima. Il nuovo teatro Civico fu completato nel 1836, ma non ebbe vita lunga. Infatti, nel 1943, un bombarda­ mento distrusse gran parte della struttu­ ra. Rimasero in piedi solo le mura peri­ metrali, ma andarono perduti i palchi e le decorazioni della copertura interna. Abbandonato per circa 60 anni, il Teatro Civico è stato di recente ristrutturato, ma la struttura non è più tornata – pur­ troppo ­ allo splendore di un tempo. Ecco un’altra storia di chiusure e riaper­ ture. Il Teatro delle Saline fu costruito

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nel 1931 come sede del dopolavoro degli impiegati delle saline. Chiuso quasi subito ­ nel ‘36 – rimase inattivo per 50 anni per poi “rinascere” sotto una nuova veste negli anni ‘90, grazie al restauro della compagnia Akròama. Il Teatro è in stile Art Nouveau, con decorazioni baroccheggianti e affreschi policromi. Immerso nel suggestivo contesto del Parco di Molentargius, il teatro delle Saline ha mantenuto la sua destinazione d’uso originaria anche dopo la ristruttu­ razione e, grazie ai suoi 332 posti a sedere e una biblioteca, si presenta come un centro culturale molto raffinato, ospitando durante l’anno anche diverse manifestazioni. Una storia lunga quella della chiesa di Santa Teresa, che ora ospita l’Auditorium Comunale in Piazzetta Dettori. Eretta dai Gesuiti nel XVII secolo, la chiesa – poi sconsacrata – ospitò l’Archivio di Stato, poi la Gioventù Italiana del Littorio per poi essere usata nel dopoguerra come sala concerti ed essere infine adat­ tata ad auditorium negli anni ‘80. Con oltre 800 posti a sedere l’Auditorium del Conservatorio – sito in Piazza Porrino – è il secondo teatro di Cagliari per ca­ pienza. Fu inaugurato negli anni ‘70 in­ sieme al nuovo Conservatorio a lui as­ sociato, che fu definito all’epoca come uno dei più moderni e funzionali d’Eu­ ropa. Molto apprezzato anche per la

sua architettura solenne – impreziosita da motivi musicali – il complesso del Conservatorio con annesso Auditorium ha contribuito a favorire il potenziamento della cultura musicale a Cagliari. Il più famoso e imponente teatro di Ca­ gliari è il Teatro Lirico, in via Sant’Aleni­ xedda. L’edificio fu originariamente ideato per rimpiazzare i teatri danneggiati o distrutti negli anni ‘40 (il Teatro Civico e il Politeama, incendiato nel ‘42). I lavori cominciarono negli anni ‘70, ma il teatro fu inaugurato nel 1993. Il Teatro Lirico di Cagliari è sede dell’omonima fonda­ zione che organizza le stagioni concer­ tistiche e di balletto, ospitando produzioni nazionali e internazionali di alto livello. Ultimo, ma non per importanza, il Teatro Massimo di via Trento. L’edificio vide la luce nel ‘47 grazie alla famiglia cagliaritana dei Merello e diventò subito un punto di riferimento per la città, ospitando grandi della lirica come Maria Callas e anche alcuni spettacoli televisivi, come la finale di Canzonissima del 1960. Il teatro venne chiuso nel 1982 per poi essere restituito alla città 27 anni più tardi. La rete dei teatri cagliaritani racconta pezzi di storia fondamentali, perfetti per guardare Cagliari da un altro punto di vista. I teatri del nostro tour di una “Ca­ gliari teatrale” sono stati messi a dura prova da incendi, bombardamenti e chiusure improvvise, ma non sono mai morti. In una città di mare e arte come Cagliari, i teatri non potevano certo essere davvero distrutti. Per questo si sono ria­ dattati, hanno assunto forme diverse per continuare a ga­ rantire ai cagliaritani la possi­ bilità di ascoltare storie e vedere spettacoli. In alto da sinistra: l’Auditorium del Conservatorio, il Teatro delle Saline, il Teatro Lirico, il Teatro Massimo e di lato il Teatro Civico.


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di HELEL FIORI

nia. “Il nome Ananda vuol dire felicità, beatitudine” spie­ metà tra il resoconto ga Stefano, ed attraverso que­ di viaggio e la fiaba, sta missione ci regala un viag­ un documentario dai gio interiore alla scoperta di tratti delicati accompagna il sé e del Sé. pubblico dalle coste del­ Il richiamo al romanzo di for­ l’Oceano Indiano fino alle mazione è quindi d’obbligo, pendici dell’Himalaya. ma su questa falsariga dieci Questo il primo lungometrag­ capitoli si inanellano senza gio di Stefano Deffenu, attore avere alcuna pretesa di inse­ e regista sassarese – noto per gnamento: la volontà è piutto­ la sua indimenticabile inter­ sto quella di mostrare, mo­ pretazione di Angelino nel strare dettagli, volti, partico­ film “Perfidia” (2014) di Bo­ lari, così da darci occasione nifacio Angius – che senza di porci domande, di non fer­ seduzione ci incuriosisce e marci in superficie, di com­ trascina alla ricerca dei leg­ prendere profondamente ciò gendari Ananda, tribù di bam­ che ci pare sconosciuto, igno­ bini che senza la presenza de­ to. Questo aspetto quasi mi­ gli adulti sembra abbia trovato stico, se vogliamo, fa da con­ la chiave per vivere in armo­ traltare alla critica al consu­ mismo e alla so­ cietà occidentale foriera di tracotan­ INQUADRA IL CODICE te saccenza che di QR CON IL TUO questo consumi­ SMARTPHONE PER smo ne ha fatto il CONTINUARE A proprio centro. LEGGERE L'ARTICOLO Non si tratta dun­

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que di un documentario geo­ grafico o etnografico, è piutto­ sto la trasposizione di un vuo­ to generazionale che desidera (necessita) essere colmato, di una perdita di cui va preso atto e metabolizzata l’evolu­ zione. Sembra allora un tiro mancino del destino, quello che lascerà un vuoto anche nella vita privata del regista, e che farà tardare la lavora­ zione del film di parecchi anni. “Ananda è la mia personale ricerca di una pace interiore che forse non troverò mai”, prosegue Stefano. Il girato originale del 2011 assume dunque nuovi signi­ ficati, la versione finale del 2020 ci consegna il disincanto della voce narrante del regista che marca nettamente la di­ stanza dalle immagini oniriche che ci scorrono davanti. Scelta vincente, che ci permette di conoscere Deffenu pur senza mai vederlo. Il volto è invece quello di un cicerone giocoso seppur silenziosamente pro­

fondo, a cui si deve l’ispira­ zione del film: “Un giorno, un mio amico, Pierre Obino, di ritorno da un viaggio in India mi parlò di una tribù leggen‐ daria di bambini che vivono soli nella giungla, senza ge‐ nitori. Sono bastate queste poche parole a farmi scattare la scintilla e seguirlo nella sua incantata ricerca della tribù fantasma”. Ricerca che li por­ terà come detto fino alle so­ glie dell’Himalaya, nel villaggio di Malana, annoverato tra le più antiche democrazie del mondo e i cui abitanti si dice discendano direttamente da Alessandro Magno. Il tratto registico con cui Deffe­ nu ci porta con sé è multifor­ me, variegato, la scelta obbli­ gata della camera a mano si rivela un’ottima carta da gio­ care in fase di montaggio grazie all’esaltazione di alcune scene tramite la messa a fuoco, dan­ doci illusione che l’obiettivo sia il nostro stesso sguardo. ...CONTINUA SUL WEB


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La medicina popolare in Sardegna Come guarire dal malocchio e dagli spaventi secondo gli antichi rituali di ALBA MARINI

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stock.adobe.com | Robert Przybysz

ozioni miracolose, formule magi­ che con richiami religiosi, trucchi che si tramandano di generazione in generazione. Ogni cultura tradizionale ha la sua medicina popolare e quella sarda non fa eccezione. Tra le pratiche della medicina popolare più famose in Sardegna figurano la me­ dicina dell’occhio, la terapia dello spa­ vento e la terapia delle ustioni. La medicina dell’occhio è una pratica diffusa ancora oggi, tanto che si stima che sull’isola ci siano almeno 500 guaritori ancora attivi. Detta in sardo “sa mexina de s’ogu”, questa pratica ha lo scopo di levare il così detto malocchio. I riti contro il malocchio sono presenti in svariate tradizioni, ma quello sardo è diverso da quello più conosciuto. Mentre la medicina dell’occhio “classica” prevede una dia­ gnosi di malocchio effettuata con l’utilizzo di un piatto con acqua e olio, quella sarda può prevedere l’uso di un bicchiere d’acqua in cui vengono versati sale grosso e grano: a seconda di quante bolle si formano o di quanti chicchi sal­ gono a galla il guaritore si rende conto se la persona è affetta o no da malocchio. Ovviamente esistono diverse varianti anche all’interno della Sardegna e ogni guaritore (che ha appreso la tecnica da una persona più grande) ha il suo metodo prediletto. La diagnosi, a cui segue la cura vera e propria, è accompagnata da

formule e preghiere pronunciate dal guaritore. Per la diagnosi e la cura del malocchio sono utilizzati diversi elementi, che variano – appunto – a seconda del guaritore e della tradizione sarda che segue: i brebus (preghiere come il Padre Nostro o l’Ave Maria) sono sempre pre­ senti, mentre possono esserci variazioni sull’uso del grano (a volte sostituito da orzo, riso o simili) e l’uso opzionale di carbone, occhi di Santa Lucia e carta. Il rito sardo che aiuterebbe a guarire dallo spavento prende appunto il nome di terapia dello spavento e generalmente prevede l’utilizzo di acqua, terra presa nel luogo in cui è avvenuto lo spavento e fumo (prodotto con la cera o l’incenso, oppure bruciando tessuti o capelli ap­ partenenti al “malato”). Ad accomunare questa terapia popolare a quella del ma­ locchio è sempre l’utilizzo di formule magico­religiose spesso tenute segrete. A intrecciarsi più comprensibilmente con la medicina ufficiale è la terapia delle ustioni. In questo caso l’elemento empirico, infatti, è fondamentale. I gua­ ritori utilizzano sostanze oggettivamente efficaci contro le ustioni, tanto che a volte – almeno a livello locale – può in­ staurarsi una collaborazione o quanto­ meno una tolleranza reciproca tra me­ dicina popolare e medicina ufficiale. I guaritori sardi delle ustioni curano attra­ verso oli, decotti e unguenti e, talvolta, accompagnano la somministrazione della cura con le loro formule rituali.


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Foto Laura Mele

di RAFFAELLA PIRAS

CARATZAS, LE MASCHERE TIPICHE DEL CARNEVALE BARBARICINO LA FORZA DELLE TRADIZIONI CHE RESISTONO

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hi è stato anche solo un giorno nella vita in Sardegna sa quanto l’isola sia indissolubilmente le­ gata alle sue tradizioni. Un ruolo fon­ damentale per la loro conservazione è svolto dalle piccole e preziose botte­ ghe di artigianato sardo presenti so­ prattutto nelle zone interne e nei centri storici dell’Isola. È il caso di Ottana, piccolo comune della provincia di Nuo­ ro dedito prevalentemente all’agricol­ tura e famoso per il suo Carnevale. Di origini antichissime, il Carnevale di Ottana è legato ai valori tipici del mon­ do agricolo e pastorale, incarnati at­ traverso le tipiche maschere tradizio­ nali locali, che colpiscono per fattezze e fascino e che sono cariche di significati. Le maschere tipiche del carnevale tra­ dizionale, le caratzas, sono tre: i “boes” (i buoi), i “merdùles” (i pastori, i padroni dei buoi), e la “filonzana” (la filatrice, un uomo vestito da donna con in mano fuso e conocchia che usa per filare un lungo filo di lana che rappre­ senta il corso della vita). Con le carat­ zas viene riproposto il tema dello stori­ co conflitto tra uomo e animale, in cui il primo, il merdùle, cerca di prevalere sull’animale, il boe. La filonzana, infine, sancisce la morte dell’animale al termi­ ne del suo ciclo vitale. Dietro la preparazione delle centinaia di maschere tradizionali che animano il Carnevale, non ci sono fabbriche o pro­ duzioni in serie, ma il lavoro di nume­ rosi artigiani che impiegano settimane di fatiche per produrle. A Ottana è fa­ mosa la bottega di Franco Maritato, ar­ tigiano che produce proprio le carat­ zas, attraverso la lavorazione a mano del legno di ontano. Un’arte antica, appresa in giovanissima età e che, col tempo, dopo un periodo di lavoro in ambito industriale, è diven­ tata il lavoro della sua vita: “A 15 anni


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avevo seguito un corso estivo presso dei maestri artigiani di Ottana che in‐ segnavano come realizzare maschere in legno, ‐ racconta Maritato ‐ così, da quel momento, iniziai a realizzarne qualcuna, più che altro come hobby. Nel 2001 lavoravo in un’industria, poi verso il 2003 cominciai a ricevere mol‐ te richieste per realizzare le caratzas, in tanti volevano acquistarle, così deci‐ si di prendere un anno di aspettativa non retribuita per perfezionarmi. In quel periodo gli affari andarono molto bene perciò decisi di aprire una botte‐ ga artigiana e dedicarmi completa‐ mente a questo lavoro. Con l’avvento di internet e poi dei social network riu‐ scii a far conoscere sempre di più le mie maschere, iniziai a partecipare alle Cortes Apertas e alla fine ad espander‐ mi, assumendo dei dipendenti. Oggi ri‐ fornisco i negozi di artigianato ed esporto in tutto il mondo.” Le caratzas piacciono così tanto che la produzione per il Carnevale rappre­ senta solo una piccola parte di quella complessiva: “Quella per il Carnevale rappresenta solo il 5% della mia produ‐ zione di maschere, ­ spiega l’artigiano ­ le richieste maggiori provengono da collezionisti e turisti che le vedono esposte nei ristoranti e nei negozi e, ri‐ manendone colpiti, si informano e ven‐ gono da me ad acquistarle. Di grande aiuto è anche il punto vendita che ho aperto e che viene gestito presso il Mu‐ seo di Mamoiada. Questo museo regi‐ stra quasi 20 mila presenze all’anno e almeno un terzo dei visitatori viene poi nella mia bottega, potendo anche assi‐ stere al processo di lavorazione. Sono sempre venute a trovarci anche molte scolaresche, noi lavoriamo fuori dal nostro negozio, è la nostra modalità di operare.” La lavorazione di queste maschere richiede tem­ po, dedizione e fatica: “Nella mia bottega si rea‐ lizzano almeno 700 ma‐ schere all’anno, ­ afferma il signor Franco – ciascu‐ na, sia quelle zoomorfe come i boes e altri anima‐ li secondari, che quelle antropomorfe come i merdùles e la filonzana, richiede in media 6 ore di lavorazione, ma dipende anche dalle richieste spe‐ cifiche. Per una maschera con un’espressione parti‐ colare si può arrivare fino alle 12 ore di lavoro”.

Il dilagare dell’epidemia di Covid­19 ha inevitabilmente inciso anche sulle pro­ duzioni artigianali, come conferma lo stesso Maritato: “Nella nostra bottega arrivavano pullman carichi di turisti. Con le restrizioni e con la capienza dei pullman ridotta c’è stato un crollo. Con‐ tinuano, invece, le vendite tramite in‐ ternet. Le richieste si sono ridotte, ma fortunatamente non ci siamo mai fer‐ mati”. Ad Ottana Maritato è l’unico a svolgere questa attività, ma anche in questo settore non mancano plagi e imitazio­ ni: “Sono l’unico ad essere iscritto al‐ l’albo e a svolgere questa attività come mestiere, ­ precisa il signor Franco ­ è capitato che persone di altri comuni sardi provassero ad imitare le nostre maschere, anche per venderle a prezzi proibitivi in negozi di artigianato che non sapevano come soddisfare le ri‐ chieste. Si era creato un mercato pa‐ rallelo di falsi. Grazie alla mia attività ho contribuito a far comprendere quali sono le maschere originali di Ottana, stiamo studiando anche un marchio DOC. Le mie maschere ormai sono co‐ nosciute da tutti gli appassionati, per‐ ché sono ovunque”. I tempi cambiano, così come le profes­ sioni del presente e del futuro ma, no­ nostante le diverse ambizioni dei gio­ vani barbaricini, questa forma d’arte e queste tradizioni continuano a resiste­ re: “L’interesse c’è sempre, ­ assicura Franco Maritato ­ si tratta di tradizioni molto sentite”. Di fronte a maschere così caratteristi­ che e suggestive come le caratzas di Ottana, la speranza è che questa forma d’arte verrà trasmessa perpetuamente di generazione in generazione, nel sol­ co della tradizione.


“Possession”, acrilico su tela, 60x50 cm, 2018

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sapore metropolitano e introspettivo di DANIELA PIRAS

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fuor di dubbio che in Sardegna regni un intenso fermento cul­ turale e artistico, specie per quanto riguarda l’arte pittorica con­

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temporanea. Tra i suoi esponenti spic­ ca Gavino Ganau, tempiese di origine ma residente a Sassari. Il suo interesse per l’arte visiva nasce quando è stu­ dente della facoltà di Agraria; quasi per gioco inizia a dipingere e a studiare

con sistematicità la storia dell’arte, in un percorso totalmente autodidatta e improntato alla sperimentazione. La sua prima mostra, “Exit”, tenutasi a Bologna nel 1998, è stata curata da Edo­ ardo Di Mauro ed incentrata sull’esplo­ razione delle modalità creative nell’arte visiva di fine anni Novanta. Negli anni successivi Ganau ha realizzato diverse opere, ottenendo importanti segnala­ zioni dalla stampa italiana: si parla di lui sulla rivista “ARTE Mondadori” e sull’in­ serto del Corriere della Sera “Sette”.

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L’arte di Gavino Ganau Un crocevia di tecniche e stili dal

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Le sue (prime) opere si confrontano con i linguaggi tipici della comunicazio­ ne moderna e con le icone popolari contemporanee; Ganau attinge a pie­ ne mani dalle immagini pubblicitarie, accostandogli delle brevi frasi a cui at­ tribuisce significati ben precisi: «Innan‐ zitutto c’è la valenza estetica della scritta, del carattere tipografico, del suo mettersi in relazione con l’immagi‐ ne – spiega –. Questo rapporto, con‐ nesso con la grafica pubblicitaria ha, in realtà, origine nella poesia visiva, un movimento artistico che si sviluppa a partire dagli anni Sessanta nell’ambito delle neoavanguardie. Oltre al fattore estetico, hanno lo scopo di potenziare l’evocatività dell’opera ritratta». Didascalie apparentemente fuorvianti e sganciate dall’immagine, che lancia­ no messaggi chiari e a volte inquietan­ ti, ribaltando lo scopo della comunica­ zione pubblicitaria, solitamente am­ miccante e leggera, come nel caso di Possession del 2018, in cui è ritratta una ragazza durante un’esposizione, la quale osserva un’opera che recita “I shop therefore I am” (compro quindi sono). Messaggi con valenza sociale e politica che prendono corpo grazie anche a in­ fluenze provenienti dal mondo della fotografia e del cinema, in un inter­ scambio costante tra queste forme d’arte e tra le tecniche che le contrad­ distinguono. Un’influenza che non è nuova, poiché molti artisti visivi trova­ no nel cinema un punto di partenza per la loro ricerca. «Molti registi co‐ struiscono i loro film per inquadrature pittoriche. Personalmente – afferma – ho sempre sfruttato la perfetta calibra‐ zione di certe immagini filmiche. I set cinematografici sono un ottimo punto di partenza per tentare un racconto pittorico della realtà partendo dal massimo della finzione».

Dalle tecniche fotografiche, Ganau ha per lungo tempo attinto, creando ope­ re in chiaro scuro e dai forti contrasti, sfruttando il dinamismo e il potere del­ la luce, proprio come avviene con l’uso della fotocamera. Dal realismo che ne consegue ha poi preso le distanze, an­ dando avanti con le sue sperimenta­ zioni. Oggi l’artista segue una direzione più vicina all’illustrazione e a un gesto pittorico più libero e creativo, utilizzan­ do maggiormente il colore. Sono dav­ vero tantissime le sfumature delle sue opere, le diverse influenze dalle quali ha tratto ispirazione; le varie ricerche hanno fatto sì che la sua produzione ri­ specchi due decenni di studio e di si­ gnificati complessi. Molto intriganti le opere dal respiro in­ ternazionale, anche se spesso raccon­ tano la quotidianità della vita di pro­ vincia, in un cerchio dal sapore univer­ sale, come spiega: «Si può raccontare il sentimento comune usando lo scenario del piccolo paese sardo o della grande metropoli. La scelta è legata anche alle mie frequentazioni filmiche, musicali e letterarie che non hanno nessuna limi‐ tazione territoriale. Molto raramente ho usato l’iconografia della nostra iso‐ la, ricontestualizzandola fortemente poiché non voglio alimentare un certo tipo di folklorismo già molto presente. Amo la Sardegna, la sua cultura, le sue tradizioni, i suoi artisti ma vorrei pro‐ durre stimoli visivi a partire anche da altri contesti o, meglio, da contesti più vicini al mio sentire». Tra le ultime serie realizzate, troviamo quella dei Birdtree. Uccellini che na­ scono quasi per caso, da un progetto a quattro mani che Ganau inizia con sua figlia Alice. «Ho pensato alla pittura calligrafica giapponese – spiega l’arti­ sta tempiese –, ad Ann Craven, pittrice americana che realizza delle curiose opere di grandi dimensioni a tema or‐ nitologico (e non solo), e a tutta una

serie di riferimenti iconografici e cro‐ matici». Il risultato è una serie di pic­ cole opere che hanno alla base un’idea di natura idealizzata che riporta a qual­ cosa di arcaico, semplice ed evocativo allo stesso tempo. Figure di donne intente nelle contem­ plazione di messaggi propagandistici, trasfigurazione di icone pop e spot pubblicitari, squarci di ordinaria vita la­ vorativa, persone comuni in spazi me­ tropolitani, ritratti che riflettono l’in­ tensità di dubbi esistenziali e, a un tratto, una serie dedicata agli uccellini, completamente slegata dal resto: quel­ la di Ganau è una produzione variega­ ta, nella quale ci si addentra magica­ mente, dove i significati si intersecano con i significanti in un mondo così ric­ co nel quale è impossibile non ricono­ scersi. Di recente, alcune sue opere possono essere ammirate anche nelle vetrine delle librerie, essendo state scelte per illustrare copertine dell’autore tem­ piese Francesco Cossu e di “La morte si nasconde negli orologi”, edito dalla Max88. Dietro a queste collaborazioni ci sono rapporti di amicizia e stima: «Con Francesco abbiamo sempre pen‐ sato alle copertine come un qualcosa di organico a ciò che aveva scritto, in diversi casi l’opera è stata realizzata appositamente dopo un confronto te‐ matico. Ci conosciamo dai tempi del‐ l’università, abbiamo anche convissuto da studenti. Anche per il romanzo di Emiliano Deiana ho realizzato la coper‐ tina appositamente per il libro, sono stato contattato dall’editore Massimo Dessena e abbiamo discusso su una potenziale direzione dell’immagine, gli ho sottoposto dei progetti e siamo arri‐ vati a un’idea funzionale all’opera. È encomiabile l’intenzione di Massimo di far realizzare le copertine ad autori lo‐ cali, una bella operazione di fusione tra arti». www.studiomassaiu.it

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