SYNTECHÈ - il volo della falena (Carla Saltelli)

Page 1


collana

FANTASY

Carla Saltelli nata a Torino in una località sperduta sulle colline definita ironicamente il “Paese delle stelle”. L’essere in continuo movimento da un paese all’altro ha favorito la sua propensione alla scrittura, prima orientata verso la poesia ed in seguito verso la prosa. Anche prima del concorso nazionale Pynariano in cui si è classificata prima, la sua fissazione l’ha sempre portata a riempire agende su agende di racconti mai finiti. L’occasione per completare un romanzo si è presentata durante il liceo, dove le materie classiche come la letteratura greca e latina hanno dato vita a svariate idee, tra cui anche quella che ha portato alla stesura di Syntechè, lasciando un’impronta profonda sul suo stile. Attualmente vive a Ravenna, dove si è laureata in legge, altra materia che ha influenzato profondamente la sua concezione del fantasy. Facebook: Syntechesaga

www.eifis.it


CARLA SALTELLI

SYNTECHè IL VOLO DELLA FALENA


“Musa, quell’uom di multiforme ingegno Dimmi, che molto errò, poich’ebbe a terra Gittate d’Ilïòn le sacre torri; Che città vide molte, e delle genti L’indol conobbe; che sovr’esso il mare Molti dentro del cor sofferse affanni, Mentre a guardar la cara vita intende, E i suoi compagni a ricondur: ma indarno Ricondur desïava i suoi compagni, Ché delle colpe lor tutti periro.” -Odissea, Libro I

© Copyright 2014 EIFIS EDITORE srl Syntechè - Carla Saltelli I Edizione Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta in nessuna forma senza il permesso scritto dell’Editore. Testo: Carla Saltelli Revisione: Laura Cigolini Gulesu Progetto Grafico: Davide Cortesi Impaginazione: Skymax_DG Stampa: Elcograf S.p.A. ISBN 88-7517-113-1 © 2014 Novembre – EIFIS EDITORE srl Viale Malva Nord, 28 - 48015 Cervia (RA) - Italia www.eifis.it - info@eifis.it L’Editore non assume responsabilità per l’utilizzo improprio delle informazioni contenute in questo libro. Tutto ciò che è inerente a persone o fatti o luoghi reali è assolutamente frutto della fantasia dell’autore.



Scrivere un libro per la prima volta è sempre un’impresa meravigliosa e piena di incertezze, un’odissea che attraversa un mare di idee diverse e anche di pensieri negativi. Arrivare alla fine è un poco come riuscire a mantenere la rotta di casa, nonostante tutte le tappe impreviste sul percorso. La partenza, tuttavia, è qualcosa che nessuno riesce mai a spiegare davvero: cosa spinge una persona ad intraprendere un viaggio simile? Quando anni fa ho iniziato a scrivere la prima bozza di questo libro, è stata la passione a spingermi. E per passione intendo un’euforia che non saprei definire se non come una strana agitazione, un’irrequietezza in grado di spingere una persona a fare la cosa più meravigliosa a cui chiunque possa pensare: creare. E tra tante vergogne nascoste in giardino, tra tanti pezzi di racconti mai finiti e storie lasciate a metà, ci sono delle creazioni che si vuole sinceramente condividere con gli altri. Per questo motivo dedico questo libro a quell’euforia, all’immaginazione che rende possibile qualsiasi cosa. Anche finire un viaggio del genere.


PROLOGO

“Mettersi insieme è un inizio, rimanere insieme è un progresso, lavorare insieme un successo.” -Henry Ford

S

yntechè non era l’esatta definizione di eccezione: pigro e assonnato, era un paese situato in una delle poche isole dell’arcipelago più assolato nella zona europea. Si dice che la situazione non fosse molto cambiata dopo la Marea, che il paese annoiato si fosse spostato verso la foresta e le montagne, nell’entroterra poi bagnato da acque troppo intrepide. Quando la terraferma era diventata una spiaggia, quando i pochi superstiti si erano ritrovati arroccati, tra alberi e roccia, era nato lo stesso villaggio, privo di entusiasmo come il precedente. Syntechè si stendeva come un gatto, arroccato alla base della montagna, con un occhio sempre attento e vigile sulla foresta poco distante. Le sue case non erano fatte di legno, perché la distesa di alberi non permetteva visitatori, né tantomeno boscaioli. Non era sembrato un problema, visti i pochi bisogni della gente umile di quelle parti. Perciò, gli abitanti di Syntechè, come tutti, avevano trovato una soluzione nelle vaste miniere della montagna, che fornivano in abbondanza la pietra utile alla poca edilizia necessaria. Col passare del tempo gli uomini avevano cercato, nel loro piccolo, di rendere la propria monotona vita piacevole e i paesi, un tempo simili a prigioni dimenticate, si erano coloriti di verde, le case e le strade erano state decorate e dappertutto erano spuntate fontane e statue. Le mura e le numerose torri di guardia vigilavano sul porto e sul confine del bosco, per evitare eventuali sortite di pirati o di bestie spinte dalla fame, perciò l’unico vero pericolo di Syntechè era la noia, in agguato dietro ogni angolo. La vita continuava, lenta e monotona, in perenne attesa ma in costante immobilità; eppure a Syntechè doveva esserci qualcosa deviante, di anormale, tanto da farne il centro di questa storia. 11


In effetti qualcosa c’era. Non molto evidente, né eclatante, né tanto meno così importante che sarebbe passata alla storia. A Syntechè, gli abitanti si erano trovati a far fronte ad uno strano avvenimento, insolito non tanto di per sé, ma per le circostanze in cui era capitato. Infatti, in una delle tante mattine di nebbia, che rendevano impossibile persino capire in quale stagione ci si trovasse, tanto erano uguali tra loro, i giovani pescatori in procinto di salpare, avevano trovato sulla spiaggia una donna. Non era una donna del villaggio, fu facile constatare: i pescatori avevano pochi passatempi, ma tra essi c’era sicuramente l’arte di corteggiare il gentil sesso. Tra le poche esponenti di spicco che potevano attirare la loro attenzione, non vi era, in nessun caso, una giovane donna dalla chioma rossa, di aspetto quasi banale. Quindi la donna doveva essere giunta fin lì da qualche altro luogo. Ma come? Le varie isole, anche quelle più distanti, erano sempre in contatto e non era giunta la notizia di un naufragio. E la ragazza, visibilmente incinta, non avrebbe mai potuto arrivare fino a Syntechè a nuoto, a meno che non fosse una sirena, ipotesi che, ovviamente, balenò subito nella mente di quei poveri pescatori. Così, pieni di soggezione, si avvicinarono a quella povera giovane distesa, forse addormentata, forse morente, sulla sabbia fredda della spiaggia. Sirena o no, aveva bisogno di cure e gli abitanti del paese non avrebbero mai lasciato morire così una persona bisognosa e tantomeno una donna. Perciò molto cautamente e armati di cavalleria, la issarono su una portantina di fortuna e svelti la portarono all’ospedale del villaggio, che offriva i suoi modesti, ma utili servigi agli abitanti. E lì, tra le bianche mura odorose di medicine, il capo medico in persona l’aveva visitata, con le sue sopracciglia bianche corrugate tanto da simulare il cipiglio di un gufo. Aveva esaminato la giovane con lievi pressioni al polso, al collo, al ventre tanto grande da sembrare sul punto di scoppiare. Aveva mormorato per lungo tempo ipotesi, cause, cure. Alla fine, tuttavia, aveva decretato che la donna era in procinto di partorire, ma difficilmente sarebbe sopravvissuta allo sforzo. Nello sgomento generale, uno dei pescatori si azzardò a ipotizzare che le sue condizioni fossero dovute alla fatica, al freddo, all’essere stata a lungo in acqua, senza cibo. Il medico, nella sua indole logica e pacata, aveva risposto che quella sarebbe stata anche la sua prima ipotesi, se non fosse che la ragazza non sembrava essere denutrita né disidratata e la sua temperatura corporea era quella di una persona che aveva passato

la notte in casa all’asciutto e al caldo, non quella di un naufrago. Eppure stava morendo. “Si vede che era ora”, fu la frase conclusiva del medico, disponendo il lettino su cui era adagiata la giovane per il parto imminente. I pescatori non trovarono un senso in quella frase misteriosa, troppo giovani e senza memoria per sapere a che cosa si riferisse. A questo punto, il lettore penserà di aver capito da sé che c’era realmente qualcosa di strano nel piccolo paese di Syntechè. Eppure in quell’esatto momento, in altre isole e in altri villaggi sonnolenti nel mondo, giovani diverse venivano ritrovate sulle spiagge da ignari pescatori o mercanti. Continuate, quindi, a leggere, per capire cosa davvero sconvolse la piccola popolazione di Syntechè. Le previsioni del capo medico non avevano mai fallito e neppure questa volta fece eccezione: la giovane partorì e spirò senza quasi accorgersene, nel sonno, dando alla luce un maschio, sano, ma silenzioso. Il piccolo, infatti, era perfettamente sviluppato, un bel neonato, diverso dai soliti ragnetti urlanti e rossi a cui il medico era abituato. Aveva i grandi occhi celesti spalancati, altra cosa rara, per un bambino appena nato, ma quello sguardo calmo, troppo calmo, era fisso e vuoto. Non che non fosse reattivo, anzi: il medico aveva osservato con grande interesse e con una punta di pacato divertimento come il neonato si agitasse per le risate e gli scherzi dei pescatori, ancora riuniti nella stanzetta dell’ospedale per vedere quel bambino prodigio. Tuttavia, era chiaro che non aveva l’uso della vista, non perché il medico non aveva delle conoscenze approfondite sul tema, ma perché, semplicemente, doveva essere così. Non era neanche questo l’evento anormale nel nostro tranquillo villaggio. Comunque, nel paese l’arrivo dell’infante fu accolto con grande entusiasmo. Nessuno sembrava preoccuparsi di indagare sulle sue origini, all’inizio forse perché per gli abitanti annoiati quel bambino rappresentava qualcosa di assolutamente nuovo, che non avrebbero mai voluto cedere. Decidere quale famiglia l’avrebbe tenuto fu arduo, perché tutti erano disposti, anzi entusiasti, di accollarsi tale onere e onore. Ci furono persino accesi litigi tra le donne, alcune delle quali arrivarono persino alle mani per quel tanto desiderato bambino! Alla fine, il medico trovò in una delle infermiere un adeguato rifugio materno, sebbene la prescelta fosse, con grande scandalo delle signore per bene, a quarant’anni ancora nubile e con ferme convinzioni sull’inutilità dei matrimoni. Il suo nome era Kera e, a differenza delle altre donne del villaggio, la sua corporatura le avrebbe permesso di tener testa persino ad un uomo ed il suo carattere avrebbe ridotto al silenzio

12

13


qualsiasi accenno di aggressività, maschile o femminile che fosse. Kera era stata l’unica a non affannarsi per avere quel bambino. Non che non le importasse, ma più semplicemente riteneva che tutto quel trambusto non facesse bene a quella povera creatura, come ricordava sempre. “Lo renderete anche sordo”, brontolava prendendolo in braccio e allontanandosi dalla folla di donne e uomini che ogni giorno venivano a visitarlo e a richiederne l’adozione all’anziano dottore. Ovviamente, non tutti presero bene la decisione di affidare il bambino a Kera, ma nessuno avrebbe mai messo in discussione l’autorità del capo medico e nessuno mai si sarebbe lamentato di fronte alla neo mamma adottiva. Una volta risolto il problema dell’affidamento, venne quello del nome, poiché tutti avevano già pensato a decine, centinaia di possibili nomi da dare a quel povero bambino. Alla fine sempre il capo medico decretò che, dato che la madre del neonato era Kera, avrebbe deciso lei del nome, come di tutto ciò che avrebbe riguardato in futuro il bambino. Kera aveva sempre vissuto con il capo medico, per lei una sorta di zio, da quando i genitori erano deceduti in un naufragio al largo dell’isola di Syntechè. Era stata grata nei confronti dello zio acquisito e lo sarebbe sempre stata per averla tenuta con sé e per averle insegnato i rudimenti della medicina, affinché potesse rendersi utile in ospedale. Tuttavia, Kera conservava ancora un ricordo affettuoso dei suoi defunti genitori e proprio per questo decise di dare al bambino il nome di Yannis, in onore del padre. Molti tentarono di convincerla a cambiare idea in merito, sostenendo che “Yannis” fosse un nome troppo comune per un bambino tanto insolito, ma la donna fu irremovibile. Intanto, l’assemblea dei cittadini si era riunita su richiesta del capo medico e della bibliotecaria, gli unici che avessero passato la settantina e, quindi, i membri più anziani del villaggio. Loro erano i soli che sembravano avere una spiegazione sulle origini di quel neonato e sul perché non avrebbero assolutamente dovuto cercargli una casa in un’altra isola. Molti stentarono a credere al loro racconto, ma la reputazione del capo medico era tale che alla fine nessuno più aveva dei dubbi; dopotutto, le circostanze nelle quali si era svolto l’arrivo del bambino avevano un che di straordinario per cui non c’era motivo di escludere una spiegazione così incredibile. Alla luce dei nuovi avvenimenti, fu chiaro il cognome da dare al piccolo Yan, un cognome che era stato dato solo ad una bambina, comparsa dal nulla come lui, alcuni decenni prima. Il neonato, quindi, entrò a far parte del villaggio come Yannis

Anakeimai, ma, nonostante la nuova fama acquisita, nessuno tentò mai di isolarlo dagli altri e il bambino, accudito da una Kera insolitamente affettuosa, crebbe senza mai dimostrare alcun altro difetto fisico se non la sua cecità. A Syntechè, come in tutte le altre isole, era presente una scuola, suddivisa in classi a seconda dell’età degli studenti ed Yannis ebbe il permesso, come qualsiasi bambino, di frequentarla. Kera non ebbe neppure bisogno di ricorrere a minacce o punizioni per assicurarsi che il suo protetto studiasse. A dire la verità, il comportamento di Yannis non la costringeva quasi mai a far uso di alcun tipo di rimproveri, se non quando a causa della sua ingenuità rischiava di mettersi in pericolo. “Ficcheresti la testa nella bocca di un lupo, tu.”, lo rimproverava sempre la sera, mentre gli rimboccava le coperte e osservava il suo viso illuminarsi in un sorriso, perché alla fine, anche se quello era il suo più grande difetto, era anche quello che nessuno avrebbe potuto cambiare ed entrambi lo sapevano bene. Sembrava quasi che Yannis fosse un bambino modello, ma non era proprio così. Certo, il suo carattere era pacato, più portato a ragionare che ad agire senza pensare, la sua mente era sveglia e sensibile, ma alla fine non era poi tanto diverso dagli altri bambini e, forse, questo gli permise di essere accettato ancor più facilmente dagli abitanti del villaggio. Soltanto poche cose lo distinguevano dagli altri, anzi, è più corretto dire che dovevano distinguerlo dagli altri. Yannis era l’unico che si vestiva di bianco. E non saltuariamente, come se fosse stato un vezzo, ma tutti i giorni Kera aveva il compito di aiutare il bambino a vestirsi di indumenti solo ed esclusivamente bianchi. Persino le scarpe, con grande disperazione di Kera, perché il terreno attorno al villaggio era solitamente fangoso, dovevano necessariamente essere di quel colore. Era quasi pittoresco vedere quel bambino spiccare nel suo completo bianco in mezzo a tutti gli altri con le loro giacchette marroni e i loro pantaloni grigio scuro, come una macchia d’inverno capitata per caso nel pieno dell’autunno. Yannis non aveva solo l’abito che lo rendeva straordinario, se pur nella sua normalità di bambino come tanti. Lui era l’unico che poteva avventurarsi su per le montagne. Certo, i minatori potevano avvicinarsi, ma solo quel tanto che bastava per raggiungere le miniere e dovevano comunque stare attenti a non scavare troppo in profondità. La catena montuosa offriva al villaggio una protezione e una fonte di materia prima, ma non tollerava intrusi né interventi troppo invadenti e l’aveva dimostrato, in precedenza, con

14

15


frane ed inspiegabili invasioni di bestie feroci. Comunque sarebbe stato meglio dire che Yannis doveva avventurarsi sulle montagne, esattamente una notte a settimana, fin da quando aveva imparato a camminare. Nessuno sapeva cosa gli accadesse o cosa mai facesse in quel luogo desolato, tra le bestie feroci e le rocce, ma il piccolo non era mai tornato con una ferita, né tanto meno traumatizzato, quindi era chiaro che per lui la montagna non era un pericolo. Alle volte portava piante medicinali reperibili solo sulle creste dei monti e che potevano servire per la cura di qualche malato, altre volte, invece dopo la sua gita sulle montagne era in grado di rivelare l’ubicazione di una nuova miniera o i tracciati di una vecchia, le possibili tempeste e bonacce, le zone più pescose, l’eventuale arrivo di pirati e molto altro ancora. Un’abilità questa, che se possibile, lo rendeva ancor più benvoluto e accettato dagli abitanti. Perché, seppur Syntechè fosse composto per lo più da gente per bene, generalmente altruista e di buon cuore, non bisogna dimenticare che la natura umana tende comunque ad essere più socievole se trova un proprio tornaconto. Ad ogni modo, la vita nel paese, anche se con qualche anomalia, continuava nel medesimo modo in cui era proseguita in assenza del bambino. Qui inizia, quindi, la storia, o meglio, la sua storia. Qui la strada rettilinea di Syntechè prende un svolta degna di essere raccontata, da un’altra voce.

16

1 “C’è un solo modo di dimenticare il tempo, usarlo.” -Charles Baudelaire

Yan lo fai ancora?” mi chiese nuovamente la voce acuta di Miriam. Risi al suono di quella voce, perché, anche se solitamente prediligeva toni non del tutto piacevoli, tra l’acuto e l’acutissimo, sapeva dare comunque delle sfumature tutte sue ad ogni frase. Per esempio, quelle semplici quattro parole che Miriam aveva appena pronunciato non esprimevano solo una richiesta, ma avevano uno sfondo di ansia mischiata ad una punta di imbarazzo. Imbarazzo che derivava dal fatto che quella era la terza replica che mi chiedeva. Sempre sorridendo, allungai la mano verso la pianura verde che si stendeva di fronte a noi. Dalla veranda della casa di Kera non si riusciva ad ammirare il sole che tramontava sul mare, ma la visuale si apriva sulle montagne, colorate dagli ultimi raggi. Era una delle poche cose che mi dispiaceva non essere in grado di vedere. Con il palmo teso, aspettai. Sapevo cosa sarebbe accaduto nell’attesa, potevo percepirlo nell’aria che veniva dalle montagne. Nel vento che soffiava sui nostri visi si aprì un piccolo spiraglio di aria tiepida, un po’ più dolce della solita brezza. Miriam non diede segno di avvertirlo, ovviamente, perché lei possedeva la vista. Lei poteva vedere, ma le erano escluse, come a tutti i vedenti, percezioni molto più sottili che per me invece erano ovvie come la differenza tra caldo e freddo. Poi, da lontano, iniziai a sentire un rumore di ali che sbattevano, in principio molto fioco, provenire dalla direzione dei monti. Il rumore crebbe, fino a diventare assolutamente nitido, come se l’origine del suono si fosse trovata vicino al mio orecchio. In quell’istante sentii un leggero tocco sul mio palmo teso e capii dal gridolino di Miriam, anche se non avrei avuto bisogno di conferma, che il suo spettacolo preferito si era ripetuto ancora. L’esserino sulla mia mano non badò al rumore causato dalla mia 17


piccola amica, anzi, sentii che, con estrema lentezza, stava dispiegando le sue ali. Non voleva fuggire, non sentivo la tensione in lui, desiderava solo essere ammirato dal suo affezionato pubblico prima di volare via di nuovo verso casa. “Hai visto come si pavoneggia? Lo fa per te, sai.” dissi a Miriam, avvicinando il palmo a lei perché potesse vedere. “Ma tutte le farfalle fanno così? E perché sono solo nere quelle che vengono da te?” mi chiese lei, pronunciando la parola “nere” come se fosse una brutta cosa. Scossi la testa, “No, le altre farfalle non si avvicinano agli umani, e neppure questa lo farebbe, se a chiamarla fosse un altro.” spiegai, cercando di non risultare vanesio, “Forse ci sono altre farfalle al di là delle montagne, ma non verranno mai da me, questo è sicuro. Il mio richiamo vale solo per le farfalle nere.” conclusi, con un notevole sforzo per semplificare. “Quindi viene davvero dalle montagne?” domandò con voce timorosa Miriam e sapevo che mentre mi poneva la domanda, i suoi occhi venivano attratti da quella muraglia rocciosa che circondava il paese. Io sbuffai al suo tono di voce così fioco, “Miriam! Non avrai mica paura della foresta, vero? Lo sai che non c’è nessun pericolo, sono solo favole.” la presi in giro, stando, però, sempre attento a non muovermi troppo per non urtare la sensibilità della farfalla. Dal silenzio che ne seguì potei quasi immaginare l’espressione corrucciata della bambina (orgogliosamente copiata da quella della madre quando era solita sgridarla): essendo lei di fama coraggiosa, le mie parole l’avevano offesa molto. “Però tu ci vai su per il sentiero, fino in cima e qualcosa c’è lì.” ribattè quindi, quasi a volermi sfidare a dire il contrario, “Perciò non sono favole, ecco.” concluse con la tipica logica dei bambini. Stavolta mi sforzai di non sembrare canzonatorio, “Certo che qualcosa c’è, Miriam, questo è ovvio.” le risposi gentilmente, “Ma spero che tu non creda a quelle frottole che dicono che sulle montagne ci siano draghi mangia uomini o pantere verdi.”. Il verso ilare che le strappai era sincero, ma sapevo che di notte, come tutti, non amava passare troppo vicino alle pendici della parete rocciosa, forse anche per paura di quelle inesistenti creature di cui si vociferava. Del resto, forse era meglio così, la paura era una buona protezione per gli abitanti di Syntechè. Sospirai e dal mio respiro la farfalla capì che il suo spettacolo era finito. Delicatamente, quasi avesse paura di rompermi, si librò di nuovo con grazia e tornò da dov’era venuta. Avrei dato qualsiasi cosa per seguirla,

ma quella sera non mi era stato concesso. “È tardi, ragazzina, è meglio se torni da tua mamma. Sarà preoccupata.” dissi, alzandomi. “Ma posso venire domani?” quasi implorandomi, tirando piano un lembo della mia manica. “Certo che puoi venire, che domande!”, dissi, senza dover simulare entusiasmo, “Ma ora vai, o la mamma sgriderà me!” aggiunsi e Miriam non se lo fece ripetere due volte. Saltellando in modo non esattamente soave scese a due a due gli scalini della veranda e si mise a correre nel prato, in direzione della sua casa. “A domani, Yan!” mi gridò, probabilmente senza voltarsi, intenta com’era a cercare di non cadere (cadeva con estrema facilità, sporcandosi sempre i vestiti) alla velocità a cui andava. Sospirai ancora, mentre il tempo rallentava sulle mie spalle, come scivolando su un enorme pavimento di melassa. Mi sentivo pesante e annoiato, una sensazione che i miei compaesani sembravano tollerare più di me, e tutto perché non potevo recarmi sulla montagna. Sapevo di essere l’unico ad avere simili desideri e questa cosa rendeva il tutto ancora più frustrante, per l’impossibilità di trovare alcun tipo di comprensione in giornate simili. Solitamente, per ammazzare la noia e passare il tempo infinitamente lento, mi buttavo anima e corpo nello studio, per tenere almeno la mente occupata. Era un compito difficile, con Kera pronta a buttarmi fuori di casa per permettermi di a suo dire “godermi la giornata all’aperto”. Di solito resistevo tre o quattro ore, prima di essere letteralmente buttato fuori dalla porta dalla mia tutrice. A quel punto l’unica cosa che potevo fare era aspettare, aspettare, aspettare. Tremila volte aspettare, un’azione troppo noiosa, persino per uno come me. Vedere non potevo, anche se teoricamente avrei dovuto esserci abituato fin dalla nascita, quindi niente contemplazione del paesaggio, niente disegno, niente lettura. Riuscivo a scrivere, quello sì, ma oltre agli scritti per la scuola, non avevo mai trovato interessante scrivere storie (non avevo la fantasia necessaria, probabilmente) e mi annoiava anche scrivere di ciò che mi succedeva ogni giorno. L’unico modo per impedirmi di pensare era stancarmi abbastanza così da superare la parte più difficile del giorno, la sera. Probabilmente i miei compagni mi trovavano divertente, mentre mi guardavano correre per i campi, avanti e indietro, dal villaggio ai campi, dai campi al villaggio. Percorrevo di corsa tutto lo spazio disponibile, fino ad arrivare alle pendici delle montagne e badando sempre a non cedere alla tentazione di inoltrarmi per il sentiero che arrivava fino alla vetta. Non sarebbe stato prudente andarci di giorno, persino per me. Sapevo

18

19


che a volte le donne, se spinte dall’istinto materno, si fermavano a guardarmi preoccupate, pensando forse che sarei caduto o andato a sbattere da qualche parte. Non mi era mai successo, a dir la verità e non sapevo perché, sapevo solo che quando correvo sapevo dove potevo andare e dove no, come se avessi avuto una specie di guida, o di mappa, per essere più pratici. Quando ero bambino pensavo non fosse un’ipotesi così strana, dopotutto, mi era venuta in mente solo dopo aver ascoltato un poeta che tentava di spiegarmi come riuscisse a scrivere le sue opere. Quando iniziava a comporre, sapeva quasi istintivamente quali parole usare, con la stessa naturalezza con cui sapeva in che ordine bisognasse poggiare i piedi quando si cammina. Se a lui succedeva una cosa del genere, perché non poteva succedere a me, anche se in un altro ambito? Ad ogni modo, la corsa mi rendeva abbastanza stanco da riuscire a non pensare ad altro che a raggiungere il mio letto appena alzatomi da tavola dopo cena. In quel momento, però, sebbene fossi esausto al punto giusto, non riuscivo a fare a meno di pensare ai monti. Li volevo rivedere, quella sera come non mai. Mi tenevo aggrappato con tutte le mie forze alla balaustra di legno per evitare di mettermi a correre verso le montagne. Sentii dei passi pesanti, ma non strascicati, provenire da dietro, attraverso la porta d’ingresso, poi sulla veranda e alla fine di fianco a me. Sapevo di chi si trattava e dentro di me la ringraziavo con tutto il cuore di essere uscita a vedere come stavo. Un diversivo forse mi avrebbe distratto abbastanza da quell’improvviso impulso di fuggire che mi era piombato addosso. “Fa freddo, è meglio che torni dentro. Tra un po’ è ora di cena.” mi informò Kera. Trovavo incredibile come riuscisse a dire tante cose in così poche parole. Il suo tono di voce, poi, era quasi inconfondibile: non avrei mai sentito in vita mia un’altra donna con una voce così bassa e allo stesso tempo tanto limpida. “Arrivo.” mentii, sapendo benissimo che non ero in grado di muovermi. Se avessi lasciato la balaustra in quel momento, neppure Kera avrebbe più potuto prendermi. Tutto quell’allenamento mi aveva reso molto veloce. Troppo, pensai stringendo i denti e rinforzando ancora di più la presa. Probabilmente Kera notò la mia posizione rigida oppure le nocche bianche per il troppo sforzo (immaginavo fossero così, dato che non me le sentivo più) e capì al volo la situazione. “Vuoi che ti porti in casa io?” mi chiese apparentemente con lo stesso tono di voce di prima. Ma c’era dolore nella sua domanda. Una parte di

lei, probabilmente non quella che Kera era solita mostrare ogni giorno agli altri, avrebbe dato qualsiasi cosa per non usare la violenza con me, anche se per il mio bene. Sapevo, però, che se le avessi risposto di sì, avrebbe messo a tacere quella parte, comportandosi come la guardia efficiente che era sempre stata con me quando si parlava della mia salute. “No, ce la posso fare.” dissi, forse più a me stesso che a lei, “Puoi continuare a parlare? Mi distrae.” aggiunsi, sentendo che potevo rilassarmi un poco. Sapevo che Kera si trovava più a suo agio quando stava in silenzio, ma pensai che sarebbe stato più crudele chiederle di usare la forza senza neppure aver provato a domarmi con le buone maniere. “Per cena ho preparato uno sformato di patate”, mi informò con voce assorta. Sapevo che si stava sforzando di trovare qualcosa di nuovo da dirmi. Impresa ardua, dato che stavamo assieme tutto il giorno. “Patate, buone.” “Tu odi le patate.” mi ricordò lei. Sapevo anche senza vedere che le avevo strappato un sorriso. Sorrisi anch’io e, con la consapevolezza di poterlo fare, allentai la presa sulla balaustra e mi sgranchii le dita ormai insensibili. Sentii Kera di fianco a me rilasciare un sospiro di sollievo e ringraziai il mio controllo che le aveva risparmiato una nottataccia. “Beh…” ribattei stirandomi un poco le braccia e le gambe, “…i tuoi sformati sono sempre squisiti. Secondo me riescono a rendere buone anche le patate.” “Vedremo. Ora torna in casa, la stagione è più fredda del solito.”, borbottò Kera prendendomi per un braccio. Sapeva che non ce n’era bisogno, (anche se ero cieco ormai sapevo esattamente quanti passi e in quale direzione bisognasse compiere fino alla porta) ma probabilmente non si fidava ancora del tutto a lasciarmi andare. La mia apprensiva tutrice. Da giovane era stata una delle donne più belle del villaggio, avevo sentito dire dal dottore, ma aveva sempre tenuto gli uomini alla larga col suo carattere forte e non proprio domabile, pienamente convinta di non aver bisogno di un fidanzato o un marito. Era sempre stata molto alta (altra fonte di timidezza per gli uomini locali, solitamente bassi) e muscolosa, tanto da poter competere nelle gare di forza durante le sagre. Io ero affascinato dalle sue mani, lunghe, affusolate e forti, ricoperte da calli a causa dei lavori pesanti che si ostinava a fare. Mi lasciai guidare finché non sentii lo spostamento dell’aria provocata dalla porta e il piacevole turbinio di calore che mi accolse appena entrai

20

21


in casa. “I tuoi reumatismi ne saranno pazzi, allora.”, scherzai io, ricordando bene con quanta precisione i pochi acciacchi di Kera segnalassero l’arrivo della stagione fredda, aumentando d’intensità con l’avvicinarsi del gelo intenso. Con sicurezza attraversai la stanza navigando attorno ai pochi mobili del soggiorno, un divano imbottito di paglia collocato di fronte al piccolo camino, una libreria intagliata nel legno grezzo e un tavolino, probabilmente con dei fiori sopra. Kera non era mai stata portata per il giardinaggio, ma io sì e insistevo ogni volta perché due o tre di quei pochi fiori che riuscivano a sbocciare nel nostro giardino venissero messi in un vaso nel salotto. Arrivai in cucina, dove il calore era più intenso, segno che la stufa, utilizzata da Kera sia come fornello che come forno, era ancora accesa. Aguzzai le orecchie e sentii un lieve borbottare, accompagnato da un odore dolce e famigliare. Latte. “Non dovevi dirmi quando avremmo finito il latte? È compito mio andarlo a prendere da Syon.”, il mio tono non era esattamente di rimprovero, ma di dispiacere. Kera faceva già troppe cose per me e non mi permetteva mai di aiutarla, come se fossi stato un bambino troppo piccolo. Anzi, mi ricordavo bene che da bambino mi era concesso dare una mano nei lavori domestici molto più di quanto mi fosse permesso in quel momento. “Ero di strada. Siediti, è tutto pronto.”, mi rispose spingendomi con delicatezza da parte per poter mescolare il latte. Mentre cercavo al tatto lo schienale di una sedia (dopo che Kera aveva spostato quella su cui ero solito sedermi controllavo tastando che la sedia fosse veramente dove pensavo che fosse) sentii un rumore come di due ferri che sfregavano l’un contro l’altro, uno scroscio e lo sfrigolio del fuoco che si spegneva. Mi sedetti e aspettai che Kera, una volta messa la pentola col latte sul ripiano di legno che usava per cucinare, mi imitasse. Tastai di fronte a me, finché non trovai il piatto da portata, quello su cui vi era lo sformato. Avevo sentito dire che osservare un cieco mangiare facesse capire davvero la ritualità del pasto: ero consapevole che i miei gesti fossero lenti, anche se abituali, ma la cosa non mi turbava. Presi il coltello alla destra del mio piatto e con esso trovai il centro da cui dovevo tagliare. Da quando ero stato in grado di utilizzare le posate, Kera mi aveva sempre lasciato esercitare, in modo che fossi capace di mangiare senza farmi male. Tagliai la prima fetta e aspettai che Kera la prendesse. Nonostante il mio odio per i tuberi, dovevo ammettere che il profumo che si levava da quello sformato era veramente magnifico, o,

forse, mi sembrava tale perché ero molto affamato. Comunque fosse, non barai sulla mia porzione come di solito facevo quando c’era qualcosa che non mi piaceva (dato che servivo io, potevo anche decidere quanto cibo prendere) anzi, mi servii abbondantemente, sperando che una cena sostanziosa mi avrebbe definitivamente tolto ogni energia per pensare alle montagne. Avevo ragione, gli sformati di Kera avrebbero reso qualsiasi cibo delizioso, persino le patate. Trangugiai la mia porzione senza neppure fermarmi un momento per bere, inghiottendo bocconi troppo grossi ad una velocità che non poteva essere classificata come civile. Persino Kera era stupita dai miei modi, non so se per il fatto che mi stavo abbuffando di patate, o perché mi stavo abbuffando e basta, cosa che di solito non facevo. Anzi, normalmente ero io tra i due che finiva di mangiare tardi, intento com’ero ad aggiornare la mia povera balia su tutto quello che si era persa, oppure a discutere dei pochi avvenimenti del villaggio. “Ti devi incontrare con una ragazza?”, fu l’inaspettata domanda di Kera, incredula lei stessa mentre me la faceva. Per lo stupore rischiai quasi di strozzarmi con un pezzo di patata troppo grosso. Non la cosa più facile da fare, quando le patate in questione sono per lo più purea. Praticamente in apnea, allungai il braccio per prendere la brocca dell’acqua e versarmene un po’ nel bicchiere. La mandai giù senza neppure pensarci due volte su e per fortuna il blocco che minacciava di asfissiarmi svanì di colpo. “Kera!” protestai appena fui di nuovo in grado di esprimermi a dovere, “Ma ti pare? Ma quale ragazza!” “E che ne so io? Stai mangiando come se ne andasse della tua vita!” ribattè lei, facendomi arrossire, o almeno credo. In effetti, il mio comportamento poteva ricordare vagamente quello di barbari affamati da una settimana che si fossero ritrovati davanti un cinghiale abbrustolito. “Mi dispiace, è che avevo una fame assurda… e lo sformato è veramente buono, credimi.” cercai di scusarmi, posando finalmente la forchetta sul mio piatto vuoto. “Mi fa piacere, anche perché è nel menu di domani.” mi informò ridendo Kera, “E poi non ci vedrei nulla di strano che tu trovassi una ragazza. Hai già quindici anni, dopotutto.” aggiunse, tornando seria. “Non strano, Kera, lo troverei crudele. Tutte le ragazze della mia età sognano che il loro ragazzo chieda loro di sposarle, motivo per cui io non sono adatto” spiegai versandomi un altro bicchiere d’acqua. Sapevo che Kera non avrebbe chiesto di versarla anche a lei, ai pasti le piaceva bere un bicchiere di vino.

22

23


“Lascialo decidere a loro se sei adatto o meno. Sei un bel ragazzo, Yan.” ribattè prima di mettersi in bocca un altro pezzo di sformato. Io sospirai alle sue parole, “bel ragazzo” non era la definizione che più mi si addiceva, ma anche se così fosse stato, non avrebbe risolto gli altri problemi. “Smettila di sbuffare tutta quell’aria, sembri un mantice.” mi rimproverò Kera, “E poi sei già crudele con tutte quelle povere ragazze che ti sospirano dietro e che non guardi neppure.” Sì, immaginavo, ondate e ondate di ragazze desiderose di diventare le mie fidanzate. Come no. Del resto, avevo il tipico aspetto da consumato Don Giovanni. “A sentirti sembra che la metà della popolazione femminile del paese abbia un debole per me, Kera!”scherzai “Non pensavo fossi il tipo da stravedere per il tuo figlioccio, non è che stai invecchiando?”, aggiunsi, allontanandomi per sicurezza. Kera non amava che si toccasse il tasto dell’invecchiamento o che si mettessero in dubbio le sue capacità di giudizio. Probabilmente era troppo impegnata col cibo per potermi dare una risposta adeguata (chiamasi ceffone), perciò si limitò a brontolare:”Oh, taci e comincia a sparecchiare. Io ho quasi finito, tanto.” mi intimò in un tono che sfiorava la minaccia. Mi alzai, con molta prudenza, prendendo il mio piatto con dentro le posate per poi deporlo all’interno della bacinella già piena d’acqua. Tornai sui miei passi per recuperare anche il bicchiere e la brocca d’acqua. Lasciai lo sformato al suo posto perché non ero sicuro che Kera non l’avrebbe preso ancora: ero io quello che si era strafogato in pochi minuti. “Ti dispiace se non ti faccio compagnia? Sono parecchio stanco.” mi scusai con lei, dato che sentivo che se mi fossi seduto non mi sarei più sollevato. Kera si limitò a mugolare un suono affermativo troppo presa dallo sformato per poter pronunciare parole d’assenso. E poi ero io il barbaro. Sorridendo ritornai in salotto e presi l’altra porta, a sinistra, che dava sulla camera da letto di Kera. Quando mi avevano affidato a lei, gli abitanti del villaggio l’avevano aiutata a costruire proprio in quella stanza un piano rialzato che potesse poi diventare la mia camera. Era stato provvisto anche di ringhiera, perché non cadessi sporgendomi troppo dal pianerottolo. Per arrivare su bisognava risalire una semplice scala a pioli, che poggiava davanti al letto di Kera (lasciando giusto lo spazio per poterci girare attorno) di fronte alla porta. Tutto era stato congegnato per rendermi la vita semplice e in effetti era molto comodo non dover neppure pensare

costantemente a tenere le mani sollevate nel pericolo di sbattere contro qualcosa. Non che in casa mia corressi spesso questo rischio, se si escludevano le volte in cui ero troppo stanco per prestare la dovuta attenzione o per calcolare le misure che di solito mi venivano naturali, ma con le disposizioni strategiche dei mobili mi sentivo a mio agio come se avessi potuto realmente vedere. Il più velocemente possibile mi arrampicai sulla scala, soddisfatto nel sentire che i muscoli delle gambe erano dolenti per il troppo sforzo della giornata. Forse la notte non sarebbe stata così traumatica, allora. Con passo sicuro mi avvicinai alla ciotola appoggiata al comodino, che conteneva l’acqua per sciacquarsi il viso. Il letto sembrava stranamente caldo e invitante, nonostante il profumo intenso che proveniva da fuori la finestra. Kera aveva ragione, le serate arrivavano prima e portavano con sé molto più gelo di pochi giorni prima. Per non cadere in tentazione, chiusi i vetri della finestra e anche l’ultimo straccio di volontà svanì miseramente. Ciò che desideravo in quel momento era solamente una qualsiasi superficie orizzontale su cui distendermi. Se non ci fosse stato il letto credo che mi sarei accontentato di buon grado anche del pavimento. Mi cambiai velocemente e mi infilai sotto le coperte, attento a non sciupare il completo bianco che sapevo essere la dannazione di Kera. La mia tutrice era costretta consumarsi le mani, ogni giorno, sui miei indumenti candidi fino a togliere ogni più piccola macchia. Quella volta potevo dirmi veramente soddisfatto di me stesso: neppure un singolo pensiero riuscì a sfiorarmi o a vincere il sonno che mi prese quasi subito. Non sognai neppure, tanto che, in una zona della mia mente, mi preoccupai di essere svenuto, anziché addormentato. Come sempre, furono i rumori in cucina che mi svegliarono. Kera si alzava solitamente alle prime luci dell’alba, eccetto la domenica, in cui si concedeva qualche ora in più di sonno, e iniziava fin da subito a svolgere i lavori domestici, a cominciare dai piatti della sera prima. Era il rumore che facevano l’acqua e le stoviglie che si urtavano leggermente a svegliarmi. Non avevo quasi mai avuto bisogno della sveglia, a parte, forse, le prime volte in cui ero rimasto alzato fino a tardi. Passata la notte, dovetti sforzarmi di accogliere il mattino facendo leva su qualsiasi spirito masochista albergasse in me. Muovermi fu d’aiuto, come lo fu l’acqua gelata sulla testa, un freddo promemoria di svegliarsi prima per mettere a scaldare il necessario per lavarsi. Mi asciugai rapidamente faccia e capelli e mi cambiai, col primo completo che riuscii a raggiungere nell’armadio. Un tempo era Kera che mi preparava i vestiti per il giorno successivo, sprecando anche un

24

25


sacco di tempo a far i giusti abbinamenti tra i vari modelli, cosa che a me pareva ridicola, data la scarsa varietà nel mio guardaroba. Quando glielo facevo notare, però, lei continuava a rimbeccarmi dicendo che non avevo il senso del buon gusto e che se fosse stato per me mi sarei vestito come un barbone. Alla fine anche lei si stancò di fare ogni giorno gli abbinamenti giusti per qualcuno che neppure se ne accorgeva o poteva gioirne, perciò mi lasciò padrone del mio vestiario, augurandosi fortemente che un giorno o l’altro svilupassi quel famigerato buon gusto. Di solito per non farla dannare, presentandomi con degli abbinamenti secondo lei ridicoli, cercavo di tastare i miei vestiti alla ricerca di una coppia pantalone-giacca che fosse accettabile. Per fortuna avevo disposto l’armadio in modo da poter trovare sempre e subito quel che cercavo anche i giorni in cui non avevo voglia di perdere tempo a decidere come vestirmi. Una volta vestito e dopo aver tentato nuovamente di asciugarmi i capelli ancora fradici (non osavo immaginare cosa mi avrebbe detto Kera) mi catapultai letteralmente giù dalla scala (forse non ero del tutto sveglio) e mi avviai in cucina. La colazione era, ovviamente, già pronta, mi sentii dire senza, per fortuna, nessuna aggiunta di commenti sul mio abbigliamento. Mi sedetti al mio solito posto e tastai alla ricerca della mia ciotola di latte. “Ti vedo stanco.”osservò Kera mentre io facevo colazione distrattamente, tentando di sentire se c’erano movimenti al di fuori della casa. “Già, non so che mi prenda. Forse ho esagerato troppo con la corsa ieri. O forse sto invecchiando.” azzardai. Non mi ero mai sentito le gambe così indolenzite come quella mattina, neppure la prima volta che avevo corso sul serio. Kera ridacchiò, “Beh, spero che ti rimetta entro sera, perché c’è la sagra del paese.” m’informò con tono allegro. Mi era stato chiaro fin da subito: Kera amava le sagre, vinceva sempre qualcosa nelle gare di bevute o di braccio di ferro. “Beh, mi spiace che questa volta me la perderò, poi me la racconterai tu, vero?” chiesi sorridendo, finendo l’ultimo sorso di latte e allungandomi per prendere un altro biscotto. Il silenzio di risposta non mi piacque. Smisi di mangiare e inclinai la testa nella direzione in cui era seduta Kera, intenta a lavare i panni nella bacinella, “Il dottore è venuto stamattina, vero?” chiesi, improvvisamente consapevole della risposta. Nella mia mente i pensieri facevano a pugni tra di loro: il dottore doveva essere di certo venuto, era più di una settimana che non andavo sulle montagne, non poteva essere altrimenti. Di nuovo silenzio da

parte di Kera. “Kera, è venuto, giusto?”, insistetti, mentre le voci più pessimiste della mia testa prendevano il sopravvento. “No.” fu la secca risposta. Stavolta il silenzio fu mio, troppo impegnato a capire cosa diavolo potevo aver mangiato senza accorgermene di così pesante da bloccarmi completamente lo stomaco. Nove giorni erano passati dall’ultima volta che ero salito sulle montagne. Nove! Com’era possibile che non m’avessero ancora richiamato? Perché poi? La tradizione diceva che una volta ogni sette sere sarei dovuto entrare nei territori delle montagne e finora si era sempre rispettata questa regola. Certo, non era rispettare quella dannata regola, la cosa che più m’importava in quel momento. Ma io volevo rivedere le montagne, lo volevo con tutto me stesso, con più forza di quanto avessi mai voluto la vista. Per me era una necessità, una necessità a stento capita, persino da Kera, che in quel momento ero sicuro mi guardasse con aria preoccupata, cercando ancora una volta di capire perché fossi così arrabbiato e triste. Mi sentivo come una bambino privato della sua unica ora di gioco con gli amici dopo giorni in cui non aveva potuto vederli. O almeno, ero certo di avere queste sembianze agli occhi della mia tutrice. “Yan, almeno potrai dormire un po’ di più anche questa notte.” tentò di consolarmi Kera, anche se non capiva bene perché dovesse farlo. Ai suoi occhi, come agli occhi di tutti i miei compaesani, le montagne erano una barriera cupa e opprimente, che non lasciava sbocchi al paese e che a volte minacciava con pretesti per loro assurdi di sommergerlo con delle frane. Questa visione così ottusa solitamente mi infastidiva soltanto, ma in quell’occasione mi fece saltare i nervi. “Che vuoi che me ne importi di dormire?” sbottai, prendendo bruscamente la ciotola vuota e buttandola in malo modo nell’altra tinozza già piena d’acqua. “Oh, misericordia! Proprio non capisco perché ti devi comportare così! Non dovresti essere contento, di essere libero così a lungo? Di non doverti preoccupare di andare in quel posto orribile?” esclamò con la voce della pura esasperazione, vomitando probabilmente in quell’occasione tutte le domande senza risposta che si era sempre fatta vedendomi in quello stato. In quel preciso momento, infuriato com’ero, non m’importava nulla della sua preoccupazione, “Prima di tutto,” iniziai, cercando, nonostante la rabbia, di tenere un tono di voce moderato, “Le montagne sembrano orribili solo a voi, perché non le avete mai viste, non le volete vedere e vi

26

27


rifiuterete sempre, da bravi… codardi, di capire qualcosa che sta più di tre metri lontano dal vostro naso!”, dissi in un sol fiato. Sapevo di essere duro, ma non avevo ancora finito e non mi sarei interrotto neppure se Kera mi avesse preso a ceffoni. “In secondo luogo, io voglio andare nelle montagne, perché, checché ne pensiate voi, sono il luogo più bello in cui io abbia mai avuto la fortuna di capitare!” aggiunsi, con la voce che iniziava a tradire il mio stato d’animo. Capivo da solo l’inutilità del mio discorso e ne percepivo i risvolti patetici, come se il mio atteggiamento fosse quello di un ragazzino viziato qualsiasi. “Yan quello che dici non sta né in cielo né in terra. Nessuno, neppure quelli come te hanno mai detto cose del genere. Come potresti essere desideroso di passare una notte in quei monti sperduti, in compagnia di quei mostri?”, l’ultima parola mi paralizzò letteralmente. Sentii lo stomaco dare un altro strattone doloroso, mentre una vampata calda mi saliva alla testa, facendomi pulsare le tempie tanto che avrei voluto urlare o spaccare qualcosa. Se possibile, entrambe le cose. “Loro… non sono… mostri!” riuscii ad esalare furiosamente, prima di voltarmi e dirigermi verso il salotto a passo di marcia. Era così difficile da capire? Perché nessuno aveva la volontà, una volta tanto, di farsi delle domande, o di cercare di vedere la verità? Non avevamo imparato nulla dagli sbagli dei nostri antenati? A scuola prima la maestra e poi il professore ci avevano ripetuto un’infinità di volte che era stato per la cecità dei nostri predecessori che non aveva fatto loro comprendere fin dove potesse arrivare il potere dell’uomo e dove dovesse subentrare quello della natura, che ora eravamo costretti su isole, lottando ogni giorno contro il mare che si prendeva la poca terra rimasta. Eppure la gente non era cambiata. Sempre lì a pensare che tutto fosse lì ad uso e consumo del genere umano, che tutto ruotasse attorno ad esso, che ogni cosa gli fosse necessariamente dovuta. Pensieri inutili, quanto ripetitivi, come le domande esistenziali che iniziano a vorticarti in testa quando cominci a ragionare. Quegli stessi pensieri non aiutavano certo a calmare la mia rabbia, mentre con lo stesso passo mi dirigevo verso la scuola, forse con troppo anticipo. Non mi ero curato di salutare Kera, poco preoccupato com’ero del suo stato: che rimuginasse pure sulle mie parole! Se non era arrivata a capirmi in quindici anni di convivenza, voleva dire che era decisamente ora che cominciasse. Quel pensiero trasformò bruscamente la rabbia in tristezza:

indubbiamente avrei preferito la prima, almeno una volta arrivato a scuola qualcuno per sfogarmi l’avrei trovato. Non so, in effetti, se il termine “scuola” fosse appropriato per descrivere il luogo in cui si tenevano le lezioni. Prima di tutto, non aveva affatto l’aria di un edificio allegro, dove senti bambini felici e maestre che corrono dietro agli alunni, o anziani professori dall’aria seria che spiegano la lezione a dei giovani adulti. In verità, prima di diventare una scuola, quel luogo veniva usato come caserma e, nonostante le modifiche alla struttura e i tentativi di rendere l’ambiente più allegro, non sembrava tanto cambiata. Almeno, quella era l’impressione che avevo avuto fin da bambino, quando per la prima volta avevo respirato quell’aria e avevo avvertito solo severità, disciplina, poca volontà di farsi capire o di capire. A scuola imparavi che non dovevi fare tutta una serie di cose, ma nessuno ti dava l’occasione di capirne il motivo. I giovani adulti che ne uscivano erano bravissimi a recitare la nostra storia, a individuare le specie animali e vegetali, a riconoscere gli astri e a sapersi orientare con essi. Sapevano un mucchio di cose, sia pratiche che teoriche, conoscevano a menadito le nostre leggi, che imponevano il rispetto della natura e dei suoi abitanti, ma non ne conoscevano la ragione. Certo, non per questo trasgredivano alle leggi, ovvio che no. La punizione sarebbe stata molto severa, molto più di quanto loro potessero temere. Tuttavia ero sicuro che, se non ci fossero state quelle leggi o meglio, se non ci fosse stata alcuna punizione per qualcuno che vi trasgredisse, nessuno si sarebbe curato di rispettare la natura. Il disastro climatico che aveva sconvolto il mondo aveva avuto l’unico effetto di insinuare nell’uomo il terrore per la natura, a volte persino l’odio. Non avevo mai capito questa mentalità, in fin dei conti, la natura avrebbe potuto decidere di ucciderci tutti, tanto per essere sicura che nessuno la potesse minacciare di nuovo. Invece ci aveva dato un’opportunità, rischiando tra l’altro, di ritrovarsi nella stessa situazione iniziale. Inspirai a fondo l’aria fredda delle montagne: forse facevo pensieri così negativi semplicemente a causa del mio malumore. O forse no, ma era sicuro che se avessi continuato così, sarei stato irritabile per il resto della giornata e avevo fatto preoccupare Kera tanto da farmi venire i sensi di colpa. Perciò mentre varcavo l’atrio della scuola mi impegnai a svuotarmi la mente, cercando di pensare al ciclo di lezioni che mi attendeva. Avevo con me il mio piccolo registratore, una delle poche cose moderne che si erano salvate dopo il disastro. Il problema era che, dopo lo spaventoso innalzamento delle acque, erano andate perse moltissime fonti di

28

29


energia, necessarie al buon funzionamento di praticamente ogni cosa nel nostro mondo. Il risultato era che solo ciò che non sfruttava l’elettricità, il petrolio o l’energia nucleare era sopravvissuto. Il mio piccolo registratore andava ad energia solare e, sebbene ce ne fosse poca a Syntechè, ne aveva a sufficienza per il suo funzionamento, minuscolo com’era. Tuttavia, nei villaggi piccoli come quello non c’era la possibilità di sfruttare quelle che un tempo erano dette “energie alternative”, a volte per mancanza di spazio, altre per mancanza di fondi o di condizioni climatiche adeguate. A Syntechè, per esempio, alle pendici delle montagne, c’erano solo alcuni apparecchi per sfruttare la forza del vento, che provvedevano al riscaldamento delle case in inverno. Nelle stagioni intermedie, l’autunno e la primavera, gli abitanti dovevano preoccuparsi di ripararsi da soli del gelo, imbottendo il più possibile i vestiti di stoppa. Il problema non era restare in casa, ma andare in luoghi come l’ospedale, la biblioteca e, soprattutto, la scuola. In questi luoghi la temperatura solitamente era a dir poco glaciale, per la notoria mancanza di mezzi in paese che mantenessero un clima per lo meno vivibile. Ignorando per la prima volta il freddo che mi accolse (freddo umido, l’ideale per avere i reumatismi a quindici anni) meglio di quanto avrebbero potuto fare i professori o i miei compagni, ma con il medesimo calore, mi diressi verso la piccola biblioteca scolastica, per tentare di ingannare il tempo in attesa dell’inizio delle lezioni. Non che i libri custoditi in quel luogo avessero il potere di incantare me, o chiunque fosse così disperato da azzardarsi a leggerli. I temi variavano da “Sviluppo dell’edilizia, dal 1990 ad oggi”, utile forse per chi soffrisse d’insonnia, a “Vite dei Santi e Martiri”, noioso anche per un religioso. Non dico che avrei gradito delle letture di intrattenimento, come dei fantasy, o gialli, ma solamente qualcosa di utile e abbastanza interessante, un trattato di storia, di arte, di scienze… qualche classico. Avevo persino provato a richiedere dei libri nuovi per la nostra biblioteca (oltre che noiosi i nostri erano anche ammuffiti), ma mi era stato detto in risposta che la scuola non aveva abbastanza soldi per procurarsi delle letture oscene che avrebbero danneggiato la mente dei loro studenti. Danneggiare le menti? Ma quali menti? Non sapevo che gli alunni di questa scuola ne fossero provvisti, in effetti, e la risposta mi lasciò quindi così spiazzato che non riprovai più a fare altre inutili richieste. Finché non avessero capito che erano loro stessi ad annichilire le facoltà cerebrali di ogni singolo studente della scuola, non ci sarebbe stato molto da fare.

Entrai in biblioteca con passo deciso e sentii lo strusciare di una matita su un foglio alla mia sinistra. “Salve, signora Gloria.” salutai, aspettando che desse segno di riconoscermi. La bibliotecaria della scuola era forse una delle menti che, con grande disappunto del nostro preside, non erano ancora state del tutto messe fuori uso e forse questo lei lo doveva al fatto di essere in buona parte miope (dote utile: così non vedi certi soggetti) e per il resto sorda. In pratica, una talpa, ma una talpa con un gran senso dell’umorismo. “Ehilà, Yan!” mi salutò di rimando dopo un lungo silenzio in cui doveva aver cercato di mettermi a fuoco, “Scommetto che morivi dalla voglia di sapere come continuava il tuo libro preferito!” aggiunse ridacchiando. Il mio libro “preferito” in quei giorni era “Le mille facce del comunismo”, un argomento di per sé interessante, ma rovinato dal pessimo stile dello scrittore (non certo uno Shakespeare o un Dante Alighieri), più preso dai suoi monologhi interiori che dalla spiegazione di fatti storici e nella discussioni delle varie opinioni possibili. Ecco quel che intendevo con gran senso dell’umorismo. Un’altra cosa che mi piaceva della signora Gloria era che non si sentiva in imbarazzo di fronte a me, per il fatto che fossi cieco. E non mi trattava come se avessi gravi mancanze mentali, né si mostrava fintamente compassionevole per la mia condizione. Scherzava con educazione sulla mia cecità e se facevo qualcosa che non andava lei non esitava a dirmelo, come avrebbe fatto con un qualsiasi studente vedente. In più, si dimostrava terribilmente paziente (tanto da mettermi in imbarazzo) nell’offrirsi di leggermi ad alta voce tutti i libri che volevo, anche quelli che non facevano parte della collezione della biblioteca. “In effetti, non saprei proprio come passare questo tempo interminabile senza quel libro.” risposi con una tragicità non del tutto finta. “Ma come? Ho sentito che passi i pomeriggi a correre come un forsennato! Di’ la verità, tenti di sbattere contro un albero per perdere la lucidità!” scherzò ancora, mentre tirava fuori con un tonfo il libro che avevamo iniziato. “In effetti non è un’idea malvagia, la tua.” ribattei, nascondendo la tensione rimanente e cercando la sedia davanti alla cattedra su cui era solita sedersi lei per ordinare le schede dei libri. La signora Gloria ridacchiò ed aprì con un fruscio il grosso libro. Eravamo arrivati al capitolo quinto e fino a quel punto la lettura non aveva promesso bene, come ho già spiegato. Poteva solo peggiorare. Quel mattino, tuttavia, nulla mi sembrò più interessante degli sproloqui e dei pensieri di quel povero scrittore ingiuriato e incompreso che

30

31


tentava di dire la sua sul comunismo. Ad un certo punto, tanta era la mia concentrazione, mi illusi anche di aver capito parte dei suoi ragionamenti, ma fui subito smentito da una frase che negava tutto quello che era scritto nei primi cinque capitoli. Ad ogni modo, ero così preso che non sentii neppure il suono imperioso della campanella (meglio definibile come campanaccio da mucca). Lo capii solo quando mi accorsi che la signora Gloria aveva smesso di leggere. “Scommetto che conterai i minuti che ti separano dal sentirne il seguito.” ironizzò un po’ con la voce roca e segnata dalla noia. La signora Gloria aveva una bella voce, dolce e bassa, anche di volume, ma tendeva ad arrochirsi dopo poco. In più, faceva una gran fatica a distinguere le parole, quindi la sua lettura era molto lenta e spesso capitava che facesse degli strafalcioni, inventando parole del tutto inusuali. “Beh, o sono molto disperato, oppure questa parte è stata più interessante delle precedenti.” dissi alzandomi. “La prima.” ribatté lei con sicurezza e poi ridacchiò di nuovo. Risi anch’io e la salutai, avviandomi verso la mia classe. All’inizio era stato facile memorizzare il percorso da compiere nella scuola per raggiungere i luoghi più importanti, tanto che in seguito ero riuscito a capire la posizione di tutte le classi. Qualche mio compagno malevolo scherzava senza allegria sul fatto che un giorno sarei entrato per sbaglio in una classe di bambini, il posto giusto per me. Inutile spiegare a tipi del genere che sia in fatto di cultura che di allenamento fisico avrei potuto batterli a occhi chiusi (questa era ironia). L’unica cosa che avevano più di me era la vista, ma dato l’uso che ne facevano non è che ci guadagnassero molto. Varcai la soglia della mia classe, conscio, dato l’allegro chiacchiericcio che si sentiva, che il professore non aveva fatto ancora il suo ingresso. “Ciao Yan!” mi salutò Katia, seguita da altre mie compagne. Mentre ricambiavo il saluto, mi vennero in mente le parole che Kera mi aveva detto la sera precedente e mi sentii in imbarazzo. Ma perché ero finito a parlare di ragazze con Kera? Con Kera! Mi sedetti al mio posto senza che il mio vicino si spostasse in modo da agevolarmi il passaggio: dalla parte maschile della mia classe non era arrivato nessun cenno di saluto. Non ci feci neppure caso, mentre tiravo fuori dal mio zaino, vecchio di almeno mezzo secolo, il registratore e lo deponevo sul banco. Per fortuna, ero in prima fila, perché non mi sarebbe piaciuto chiedere ai miei professori il permesso di appoggiarlo sulla cattedra. Finsi di ignorare le battute che già volavano sul mio conto, tanto uguali a quelle precedenti quanto noiose da sentire. Questo era il problema dei

miei compagni, non avevano nulla di cui parlare e non l’avevano avuto per tutti i loro quindici anni di vita, per cui erano un po’ incattiviti. Sentivo una leggera ventata di comprensione verso di loro. Eppure in quel momento mi sarebbe piaciuto che la rabbia che prima mi aveva invaso tornasse anche solo per un istante. Avrei dato loro qualcosa di cui parlare per settimane, almeno i segni che gli avrei lasciato. “Ehi, Yan!” mi chiamò ad un certo punto la voce di Katia, “Ci sei stasera alla sagra?”, chiese con fin troppo entusiasmo, a parer mio, considerando che si stava parlando di una sagra che era sempre la stessa da quando eravamo nati e anche prima. “Ovviamente,” risposi, “Kera ha intenzione di dare il meglio di sé e io non me la voglio perdere.” Sentii che ridevano alla mia battuta, ma probabilmente si ricordavano dell’epica gara di braccio di ferro dell’anno prima. “E tu non partecipi a qualche gioco?” mi chiese un’altra. Raechel, capii subito dopo. Non mi fu data occasione di rispondere. “Sì, magari il tiro al bersaglio. Lo sappiamo tutti che hai una vista incredibile, Yan.” fu il commento di un mio compagno, dietro di me. Mi voltai nella direzione da cui avevo sentito provenire la sua voce: sapevo che la cosa li avrebbe spiazzati, come ogni volta, essendo loro ignari della precisione con cui si potesse individuare un suono. “Sai, Victor, la vista non serve a molto, se è collegata ad un cervello come il tuo. Tu non centreresti un albero neanche volendolo, se tu puoi partecipare al tiro a segno, potrei benissimo farlo anch’io.” replicai con il tono più pacato che mi riuscì. Piuttosto, avevo addosso una gran voglia di ridere, insieme al dispiacere di non poter vedere la faccia di Victor in quel momento. Non doveva essere malaccio, perché sentii parecchie risatine femminili provenire da dietro di me e anche qualcuna, incontrollabile, maschile. Speravo di averlo pungolato abbastanza affinché si decidesse a passare a maniere un po’ più forti, così io avrei potuto finalmente sfogarmi, ma sapevo bene che Victor in realtà era un gran codardo. Non avrebbe mai ingaggiato una rissa in un campo minato come la scuola, in cui pullulavano bidelli e professori pronti ad assegnare punizioni. Forse avrei avuto una possibilità quel pomeriggio. “Questa me la paghi dopo scuola, cieco!” ringhiò Victor, quasi a volermi dare ragione. Per inciso, sebbene ogni volta il piccolo Victor si fosse sempre presentato con tutta la banda per tentare di darmi una lezione, non mi aveva più battuto dalle elementari. Certo, dopo la prima

32

33


inaspettata rivincita che mi presi, non si fecero più vedere per anni, nè ci furono più scontri programmati, ma solo piccole risse tra me e lui, quando o l’uno o l’altro perdeva la pazienza per il troppo punzecchiarsi. Quindi quella volta o stava solo bluffando oppure era un grandissimo stupido. “Sì, immagino… Cos’è, hai reclutato qualcun altro? Vi presenterete in dieci, stavolta? Perché sembra che tu da solo non ce la possa fare.” risposi, stavolta ridendo sul serio. Lo sentii sibilare dalla rabbia, prima di allungare la mano e afferrarmi per il bavero. Non sono mai stato una sorta di campione della lotta, né ho mai avuto una forza degna di nota. Il mio unico pregio era la velocità, aiutata da una flessibilità inusuale per un ragazzo. Tuttavia, quello che mi aiutava davvero era l’ignoranza altrui: la mia cecità poteva essere un problema in alcuni casi, ma non mi rendeva impotente. Bastava poi conoscere qualche trucco, nel mio caso insegnatomi da Kera, e una mano intenta ad afferrarti poteva diventare un polso rotto. Fu così che torsi velocemente il braccio del mio compagno, ovviamente senza rompergli le ossa ma torcendogli abbastanza la mano da fargliele sentire scricchiolare. Non fui né veloce nell’eseguire quel gesto, né esercitai particolare forza (non ne serve tanta per fare male, se si conoscono i punti giusti), ma i riflessi di Victor, come del resto di molti miei coetanei, erano così lenti che non ebbi difficoltà. Mi fermai quando lo sentii gridare, più preoccupato dal fatto che potesse attirare qualcuno che dall’idea di avergli fatto del male. “Me l’hai rotto!” strillò con voce acuta per il panico. “Non te l’ho rotto, altrimenti non avresti potuto liberarti da solo.” replicai calmo. Attorno a noi la classe era abbastanza tranquilla: le lotte non erano la normalità, ma le scaramucce non creavano disordini. “Me la paghi, ti giuro che me la paghi…!” ribattè lui con lo stesso tono, senza neanche dar segno di aver sentito quel che avevo detto. “D’accordo, dopo chiami i tuoi amichetti e me la fai pagare. Ora fai silenzio.” gli ordinai. Tutto quel rumore non aiutava me a stare fermo né la classe a passare inosservata alle orecchie dei professori. “Credi che non lo farò? Eh?” mi provocò lui, praticamente isterico. E tutto questo perché gli avevo fatto perdere la faccia ancora una volta davanti a tutta la classe. “Oh, no, Victor. Io spero che tu lo faccia. Ma questa volta non ti farò solo scricchiolare le ossa, è meglio che lo dici ai tuoi compagni. Voglio che siano tutti preparati.” replicai con più veleno nella voce di quanto avessi mai potuto sperare. Penso che avrei potuto far calmare il latte, per

dirla alla maniera di Kera. Victor si dimostrò preoccupatamene percettivo, quella volta: non solo capì che sarebbe stato pericoloso continuare con quel tono da isterico (sembrava che gli avessi tolto i genitali, anziché il polso), ma probabilmente afferrò anche che sarebbe stato inutile organizzare uno scontro dopo. Lo conoscevo bene, se avesse avuto quell’idea, avrebbe reagito molto diversamente, non si sarebbe seduto tranquillo, come fece in realtà, ma avrebbe tirato fuori la sua migliore voce da bullo arrogante e mi avrebbe ricordato che aveva un conto in sospeso con me. Il silenzio che seguì la nostra discussione fu breve. Dopo pochi secondi, con un tempismo che aveva dell’incredibile, entrò in classe con passo pesante il nostro professore di storia. Uno di quegli individui che, invece di riuscire a farti sopportare (amare o piacere sarebbe troppo) una materia, te la rendeva talmente indigesta che era un miracolo se qualcuno non fosse ancora scappato urlando dalla classe nel bel mezzo di una sua lezione. Non potevo vederlo, grazie al cielo, ma intuivo, dalla sua voce e dai rumori che faceva mentre camminava che l’aspetto non doveva essere migliore di come si annunciava e non invidiavo i miei compagni che erano in grado di ammirare la vista. Ci alzammo, obbedienti, e aspettammo che lui si sedesse e ci ordinasse con voce brusca e annoiata di rimetterci seduti. Con estrema lentezza, il professore aprì il cassetto della cattedra e ne tirò fuori il registro, per fare l’appello. Avrei tanto, tanto, enormemente voluto dire “assente” quando quell’odioso individuo chiamò il mio nome come se fosse stato una cosa marcia (faceva così con tutti, ma io non lo sopportavo), ma purtroppo non era vero e uno scherzo del genere non sarebbe stato gradito da nessuno, specie dal professore. “Oggi ripassiamo le due guerre mondiali.” ci informò con tono nauseato. Avrei voluto dirgli che la prospettiva di ascoltarlo non elettrizzava neppure me, ma glissai e accessi il registratore. “Chi sa dirmi quale fu il motivo che portò l’Italia a decidere di cambiare alleanza?”, domandò annoiato. Teoricamente, per un ripasso fatto realmente bene, sarebbe dovuto partire per lo meno dalla causa scatenante il primo conflitto mondiale, ma forse mi aspettavo troppo. Alzai la mano, come penso molti altri: non era mai stata una classe di zucconi, la mia. “Signor Anakeimai?” “L’Italia sapeva che la Triplice Alleanza avrebbe avuto più possibilità di vincere e quindi, se fosse stata al tavolo dei vincitori avrebbe potuto farsi

34

35


restituire i territori occupati dal Regno austro-ungarico.” spiegai tutto d’un fiato con tono piatto. Tentai di fare il più velocemente possibile, perché sapevo che se la risposta era troppo lunga, il professore tendeva ad interrompere a metà con uno sbrigativo “Sì, sì, corretto, corretto”. “Corretto.” sentenziò lui. “Secchione.” sentii sibilare da dietro di me. Victor, ovviamente. In quel momento sapeva di poter dire tutto quel che voleva perché non avrei avuto modo di fargliela pagare con il professore lì a meno di mezzo metro. Era la sua unica possibilità di vendetta, dopotutto. Il ripasso continuò e così alcune sporadiche battute, le rare volte in cui mi era concesso di rispondere alle domande. Le ignorai, come ignoravo molti altri scherzi sussurrati alle mie spalle e che io avevo la sfortuna di poter sentire. Forse sembrerà che io avessi una reazione esagerata alle battute di un babbeo, ma l’individuo in questione e la sua banda appartenevano alla spiacevole categoria di persone che fingevano con me un atteggiamento premuroso e attento a causa (a detta loro) della mia sfortunata menomazione e che poi, pensando di non venire uditi, rivelavano tutt’altro carattere. Certo, Victor e la sua banda avevano esaurito da un bel pezzo la pazienza di fingere gentilezza in mia presenza, perché io avevo fatto capire loro fin da subito quanto odiassi quell’atteggiamento. Tuttavia, ricordavo molto bene come da bambino li avessi sentiti parlar male di me, della mia natura che mi portava a dover visitare le montagne periodicamente e persino di Kera. Grosso sbaglio quest’ultimo. Ero uscito dal mio nascondiglio da cui avevo sentito tutto e mi ero buttato fra di loro menando pugni a tutto spiano. Ne avevo presi un sacco anche io, è vero, ma almeno dopo non avevo dovuto sopportare la loro falsa gentilezza ancora una volta: avevano capito che ormai era sprecata. Dopo storia quella mattina ci fu biologia. Poi letteratura, lingue straniere e matematica, un vero supplizio quest’ultima, data la mia poca affinità coi numeri. Mi sembrava di passare di argomento in argomento come un ubriaco che tenta di attraversare un fiume di notte saltando su massi scivolosi. Una tortura, specie perché l’insegnante non aveva il benché minimo interesse a farci capire seriamente la materia e si limitava a ripetere (testimonianza di Kera) quello che era scritto nei libri. Ad ogni modo anche le torture finiscono, prima o poi, e, dopo lungo soffrire, arrivò il misericordioso suono della campanella, anche se qualche istante di gioia più tardi mi ricordai di ciò che m’attendeva quel pomeriggio e, soprattutto, quella sera, e il mio buonumore svanì

del tutto. Spensi il registratore e salutai le mie compagne, le quali non mancarono di ricordarmi entusiasticamente l’appuntamento alla sagra, la sera. Il grazioso promemoria non servì a migliorare molto il mio umore, perciò uscii da scuola a passo di marcia, senza neppure badare agli sventurati passanti che incontravo, costretti praticamente ad assottigliarsi contro le pareti dei corridoi per non essere buttati a gambe all’aria. Dovetti moderarmi, appena prima di entrare in casa, perché sapevo che con Kera era ammessa una sfuriata alla volta. Non che avessi mai varcato il fantomatico confine tra una pacifica convivenza e un regime militare, ma sapevo riconoscere una regola non scritta quando ne percepivo una. Perciò tentai di calmarmi fino ad arrivare ad un livello che fosse giudicato dalla mia tutrice per lo meno sopportabile e varcai la soglia di casa. Sentivo già il profumo dello sformato di patate riscaldato, accanto a quello più tenue, ma anche più soffocante ed inebriantemente fresco di pulito. Possibile che in sole sei ore una donna fosse in grado di lavare e sterilizzare tutta la casa (e quando dico tutta, intendo tutta!), aggiustare ogni cosa rotta, anche l’oggetto più dimenticato che ci fosse, rifornire la dispensa e fare tutte le commissioni necessarie per la giornata e anche di più? Era una caratteristica predominante di tutte le donne di casa, oppure la mia aveva il primato? “Sono tornato.” annunciai, non del tutto certo che mi avesse sentito, impegnata com’era, a giudicare dai rumori, a lavare i panni. “È pronto, vieni.” mi chiamò lei, con un tono di voce tra l’affaticato ed il contento. Essere affaticata era il minimo dopo quell’impresa titanica. Ed ero comunque sicuro che avrebbe trovato le energie per vincere qualcosa alla sagra, quella sera. Non c’erano segni di nervosismo per la mia scenata della mattina, per cui mi imposi di avere un atteggiamento assolutamente tranquillo per non rovinare la pace. Mi sedetti quasi con entusiasmo al pensiero del pranzo e cercai di concentrarmi sulle cose positive della giornata: dovevo ammetterlo, erano davvero pochissime. Kera lasciò da parte il suo lavoro e si sedette anche lei, mentre io facevo le porzioni. “Com’è andata la scuola?” chiese, mentre prendeva la sua porzione. “Al solito,” risposi, cercando di non fare cadere la mia fetta di sformato, esageratamente grossa, “Le solite lezioni, le solite litigate.” scherzai, cominciando a mangiare. Cercai di non sembrare famelico come l’altra sera, sebbene stavolta avessi più bisogno di concentrarmi sul cibo che su altri e più dannosi pensieri. “Sai che non dovresti attaccar briga con Victor.” il tono di rimprovero

36

37


era stranamente cauto, come se avesse avuto a che fare con una bomba che minacciava di esplodere da un momento all’altro. Certo, perché io avrei avuto senz’altro molte probabilità in un corpo a corpo con Kera. “Io non attacco briga. È lui che dopo tanti anni non ha ancora imparato a tenere la bocca chiusa”, ribattei, mezzo serio e mezzo scherzoso. Non mi faceva innervosire il fatto che Kera mi riprendesse, ma il pensiero che fosse così difficile per i miei coetanei avere almeno un po’ più di rispetto, se la simpatia non era proprio possibile, verso qualcuno che era solamente differente dagli altri. “Già, è una cosa comune.” Tentai di cogliere ironia, dolore o ira in quell’ultima allusione al nostro litigio della mattina, ma non ve n’era neppure l’ombra. Restai in silenzio, per sentire se e come avrebbe continuato: Kera non era avvezza a dimenticare tanto facilmente una sfuriata, da riuscirne a parlare così tranquillamente poche ore dopo. “Non penso che riuscirò mai a capire come ti senti e mi dispiacerà sempre molto,” continuò, “Ma, come ho sempre fatto, non ti lascerò da solo con i tuoi problemi e sarò sempre contro coloro che ci scherzano su.” concluse fermamente. Sentivo che aveva smesso di mangiare e sapevo benissimo che aveva assunto la classica espressione da guardia del corpo irremovibile come la roccia ed altrettanto testarda. Dal canto mio, ero sbalordito: le mie sfuriate non avevano mai sortito un effetto così immediato, mai l’avessero fatto. “Grazie, Kera.”, risposi sorridendo, “Il tuo sostegno è il regalo più grande che mi puoi fare.” “Ci ho messo un po’ a capirlo, ma ce l’ho fatta.” disse lei esultante, “Mi puoi perdonare?” A quella domanda, non fui più in grado, per la seconda volta nell’arco di poche ore, di deglutire bene un pezzo di sformato e annaspai in cerca dell’acqua. Forse in realtà Kera era arrabbiata a morte con me e stava tentando di uccidermi. “Che ho detto adesso?” fu la protesta offesa mentre io finalmente riuscivo a respirare di nuovo. “Kera, a parte che non ti devo perdonare proprio nulla, ma il fatto è che se continui con questi atteggiamenti mi farai soffocare sul serio, un giorno!” forse lei non si ricordava come fosse qualche anno fa, quando tutta quella comprensione me la potevo anche sognare. Che stesse realmente invecchiando? “Sciocchezze,” sbottò, “Secondo me sei tu che perdi dei colpi. Cos’è, sei forse innamorato?” Meno male che per quella domanda non mi ero già messo in bocca un

altro boccone, perché penso avrebbe fatto subito la fine del precedente. “Kera. Per. Favore.”, scandii esasperato, “Vuoi uccidermi sul serio o il tuo è un tentativo molto contorto di dirmi che devo smettere di mangiare?” “Per carità, sei già scheletrico di tuo!”, mi rimbeccò, approfittando della situazione per rimproverarmi la mia eccessiva (per lei) magrezza. “Ecco, allora evitami questi colpi, ti prego.” la supplicai. Lei sbuffò, un po’ esasperata, ma un po’ anche divertita e riprese a mangiare la sua porzione con la stessa energia con cui io riattaccai la mia. Finimmo assieme e lei mi permise (incredibile ma vero!) di aiutarla a sparecchiare e a lavare i piatti. Ovviamente dopo mi cacciò dalla cucina proibendomi di fare altro se non i miei compiti o del giardinaggio, quest’ultimo in particolare era più urgente per il livello preoccupante raggiunto dall’erba dopo che Kera aveva avuto l’idea di buttare un potente concime di sua invenzione per fertilizzare. Il risultato era che se non tagliavamo l’erba una volta a settimana, rischiavamo di ritrovarcela in casa. Quel giorno, inoltre, non mi sarei sicuramente azzardato a correre come facevo di solito, perché ero quasi certo che non avrei resistito e mi sarei inerpicato sulle montagne. L’unica era buttarmi anima e corpo nel giardinaggio nella speranza di stancarmi abbastanza da non essere troppo reattivo per la sera. Uscii dalla porta laterale della cucina e sentii i fili d’erba solleticarmi le caviglie, pronti a ricordarmi del degrado del nostro povero giardino. Con un sospiro, presi la falce appoggiata al muro alla mia sinistra e iniziai il lavoro. La falce manuale era faticosa da utilizzare, soprattutto perché, per tagliare l’erba ad un livello accettabile, bisognava stare perennemente chini con la schiena e cercare, ad ogni modo, di applicare abbastanza forza in ogni fendente capace di tagliare una buona porzione di prato. Dopo tre colpi, quindi, non avevo più dubbi che sarei riuscito a rendermi abbastanza esausto da sopravvivere alla serata. Forse, pensai con un brivido mentre assestavo il quarto colpo, non sarebbe stato sufficiente per impedirmi di sognare, ma dubito che nelle mie condizioni la corsa avrebbe sortito maggior effetto. Andava bene così, comunque. Dovevo solo tranquillizzarmi e sopportare: non si era mai sentito, del resto, che i patti non venissero rispettati, soprattutto dalla parte della montagna. I monti esigevano e non dimenticavano di prendere il loro tributo, questo non poteva cambiare, dovevo solo ficcarmelo bene in testa e dimenticare insensate paure. Doveva esserci un altro motivo nel ritardo, per quanto inspiegabile fosse e non doveva avere nulla a che fare con i miei sragionamenti.

38

39


Aspettare non sarebbe stato difficile neppure la metà di quanto lo era se avessi avuto un solo straccio di indizio che mi facesse capire il motivo per cui non ero stato richiamato. “Yan, non ti stancare troppo, stasera c’è la sagra!” mi arrivò da dentro casa. Kera, ovviamente. Avrei voluto rispondere che era proprio quella l’esatta ragione per cui tentavo di rimbambirmi, ma reputai saggio non provare a spiegarglielo. “Ho quasi finito, innaffio e vado a fare i compiti.” risposi perciò, cercando di velocizzare il mio ritmo perché Kera non decidesse di venire a controllare per appurare a che punto ero realmente con i lavori. Finii velocemente (lasciando, forse, l’erba irregolare) e mi affrettai ad attingere l’acqua dal pozzo per versarla sull’erba e i pochi cespugli di fiori che erano sopravvissuti alle erbacce infestanti, altro regalo del concime di Kera. Tornai in casa che mi sentivo già abbastanza distrutto, ma decisi di darmi il colpo di grazia riascoltando le lezioni di quel giorno e cercando di memorizzarle al meglio. Non sarei riuscito a passare dalla bibliotecaria per le letture dei libri di testo, ma non erano necessarie per il giorno dopo e io non avevo tempo da perdere. Non potei andare avanti molto, perché Kera appena mi vide mi ordinò in modo alquanto minaccioso di filare all’istante in bagno e di mettermi un completo più decente e adatto alla serata (una sagra di paese che abito elegante poteva mai richiedere?), perciò mi precipitai letteralmente a fare il mio bagno della giornata e a prepararmi perché risultassi accettabile agli occhi della mia tutrice. Scesi alla velocità della luce, perché già sentivo dalla finestra della mia camera che i preparativi per la sagra erano ormai ultimati e che la gente del paese stava cominciando a radunarsi. “Era ora! Quanto ti ci vuole?”, brontolò Kera appena arrivai in salotto a razzo e col fiatone, non essendo esattamente nella mia forma fisica migliore. Quando era serata di sagra, Kera era capace di sbrigare tutte le faccende nella mattinata e di essere pronta ad andare con almeno tre ore di anticipo, ragion per cui sembrava ogni volta che lumaca che perdeva tempo a prepararsi fossi io. “Scusami, ho perso tempo a trovare i vestiti.”, mi giustificai, tentando di far stare indietro un ciuffo che mi copriva gli occhi. “Beh, almeno il risultato è accettabile.”, mi concesse lei, aprendo per me la porta di casa e aspettando che fossi uscito. “Meno male! Dove si va, per prima cosa?”, chiesi, avviandomi a fianco a lei attraverso le strade che portavano alla piccola radura piena di rumori. In quello spazio venivano allestite le bancarelle, da quelle

alimentari che offrivano dolciumi e prodotti locali, a quelle dei giochi e degli spettacoli. “Da Tina, non so te, ma io ho una gran fame!” mi rispose, prendendomi di forza per un braccio. Non era un gesto che faceva per guidarmi, non più, ormai, da quando avevo imparato ad andare in giro da solo. I pericoli erano quasi inesistenti sull’isola, ma la mia tutrice trovava sicurezza nell’assicurarsi che io fossi davvero dove potesse raggiungermi e, in caso, proteggermi. Immagino che tornare a casa pieno di lividi e di segni di lotta non avesse contribuito a placare questo suo istinto protettivo. Davanti a tutta quell’allegria non si poteva rimanere insensibili, perciò anche a me venne naturale sorridere, mentre ci avviavamo al banco dove grigliavano grossi pezzi di carne e salsiccia. Lì davanti c’era calca, lo sentivo da quanti corpi urtavo mentre passavo in mezzo alla folla aggrappato, stavolta davvero per precauzione, a Kera. La mia tutrice tuttavia aveva un lasciapassare d’eccezione, una mole difficile da intralciare o addirittura arrestare. Non avevo mai saputo di qualcuno, uomo o donna che fosse, che avesse osato contrariarla perché era passata davanti alla fila. Ci fermammo davanti al banco, dove il calore e l’odore di carne erano più forti e invogliavano anche il mio stomaco non particolarmente affamato. “Kera! Sapevo che saresti venuta prima qui! Ciao, Yan!” ci accolse la proprietaria della bancarella con tono gioviale. Penso che Tina fosse l’unica donna del villaggio che somigliasse molto a Kera, anche se ben diversa per massa, perciò da bambino mi ero convinto che fosse sua sorella. “Dammi i soliti pezzi, siamo affamati. Come procede per ora?” chiese Kera, mentre io cercavo di non venire soffocato dalla calca che mi premeva contro il suo fianco. Fortunatamente lei se ne accorse e con un braccio creò una barriera tra me e la folla, in modo che potessi almeno respirare. Non mi lamentai di questo trattamento, anche se mi sentii improvvisamente piccolo e bisognoso: del resto, poche persone non avrebbero risentito di una certa sensazione di inferiorità, davanti a Kera. “Al solito, per ora i bulletti stanno buoni, ma sono certa che tra poco tenteranno di rubacchiare come sempre.” brontolò Tina, porgendo alla mia tutrice, passando sopra la mia testa un piatto caldo e profumato di carne ed erbe. Il calore mi fece rizzare i capelli sul capo e la consapevolezza di avere un peso notevole in bilico al di sopra della testa mi fece sobbalzare, d’istinto. Salutammo Tina e venni spinto dalla mia tutrice di nuovo attraverso

40

41


la folla alquanto inferocita per aver dovuto attendere di essere servita. Kera sembrò non accorgersene, ma io sentii distintamente le lamentele delle donne, accompagnate da qualche appunto maligno che riguardava, come sempre, i pettegolezzi che giravano attorno alla nostra casa. Kera si era complicata terribilmente la vita, accogliendomi in casa sua, dato che da quel momento in poi lei aveva sempre dovuto cercare di difendersi dalle maldicenze. Mi sentii sospingere dolcemente verso quello che, a tatto, giudicai come un tavolo di legno con una panca davanti e mi sedetti, in attesa che Kera facesse lo stesso. “C’è così tanta gente.” brontolò lei, posando il piatto da una tale altezza che il piano tremò violentemente. Mi preoccupai della quantità di carne comprata da Kera: quanto cibo pensa che mangi? “È sempre così, Kera.” le ricordai con una sfumatura cupa che derivava dalla certezza che prima o poi avrei incontrato qualche conoscenza poco affabile, magari uno dei bulletti proprio nominati poc’anzi da Tina. “Forse sto invecchiando davvero.” concluse lei, porgendomi un pezzo di carne. Ovviamente, alla sagra, le posate non erano fornite, come neppure i tovaglioli. I primi che ordinavano la carne ricevevano almeno un piatto da portata, ma era complicato data la quantità di folla che si radunava al banco della carne. Io avrei preferito cenare con le focacce servite alla bancarelle di Sara, ma Kera insisteva affinché io, parole sue, rafforzassi un poco quella muscolatura da volatile rinsecchito, aggiungendo ogni volta che ero troppo scheletrico e ingurgitavo troppo poco ferro. Perciò con un po’ di ribrezzo afferrai il mio pezzo dalla parte che giudicai fosse l’osso, sperando che Kera avesse avuto almeno la misericordia di portare qualcosa con cui pulirsi dopo. Non era lo sporco a preoccuparmi, quanto la carne in sé: non ero mai stato un grande fanatico della cucina a base di animali morti, complice la mia “carica”. La mia tutrice, tuttavia, era realmente affamata: la sentii spolpare il suo pezzo di carne molto velocemente e far fare la stessa fine a molti altri di seguito. Io mangiai lentamente, sperando che Kera, nella sua foga, si scordasse per un attimo i suoi doveri di tutrice e non mi proponesse un bis poco desiderato. A giudicare dal suo silenzio quando finalmente mandai giù l’ultimo boccone, capii che il mio piano aveva avuto successo, “Dimmi che hai portato dei tovaglioli.” la supplicai. “Tieni.” mi rispose lei, porgendomi un pezzo di stoffa. Probabilmente era il suo fazzoletto buono, ma in quel momento non ero in grado di preoccuparmene, non prima di essermi pulito almeno dai residui di

salsa e carne morta. “Posso andare da Sara, ora?”, la pregai, sentendo la fame torcermi ancora lo stomaco, ignorando il disgusto di poco prima. “Ti accompagno.” disse prontamente lei, alzandosi e portandosi al mio fianco mentre aspettava che io mi tirassi su. Mi prese per il braccio e mi guidò attraverso le bancarelle finché non sentii il molto più gradevole odore di pane e focaccia solleticarmi le narici. “Ciao Kera, Yan!” ci chiamò la ragazza che gestiva il banco. Sospettavo che Kera pensasse che fossi sempre così ansioso di andare alla sua bancarella perché mi ero preso una cotta per lei, ma in realtà, trovavo più attraenti le focacce di sua madre. “Allora Yan, gradisci qualcosa?” il suo tono era sempre stato così dolciastro, oppure forse mi sembrava così solo in quel momento, dopo la discussione con Kera a proposito della mia, per me dubbia, influenza sul genere femminile? “Il solito Sara, grazie.” risposi educatamente, mentre sentivo Kera trattenere un risolino. D’accordo, quindi anche lei aveva notato il tono estremamente zuccheroso. “Potresti controllarti?” le sussurrai quando fui certo che la mia ammiratrice si fosse allontanata per riferire l’ordine. “Allora te ne accorgi anche tu.” ridacchiò lei, “Era ora.” aggiunse appena in tempo prima che un fruscio di gonne mi avvertì che Sara era già di ritorno con il piatto. “Ecco qua, buon appetito!” mi augurò con voce superfluamente chioccia, facendomi vergognare di non avere in testa altro che la deliziosa focaccia che stavo per assaggiare. “Grazie, alla prossima.” mi sforzai di dire con tono gentile, prima di ripercorrere, a passo di marcia e senza l’aiuto di Kera, il tragitto che avevamo fatto dal tavolo alla bancarella. Il quieto chiacchericcio che mi arrivò alle orecchie mi informò anche della presenza di altre persone, ma Kera si materializzò al mio fianco dal nonnulla (pensavo di averla seminata) e mi guidò in uno dei posti ancora liberi. “Salve Kera.” sentii dire da un’altra voce, leggermente untuosa, appena mi fui accomodato. La madre di uno dei miei compagni, dedussi dal fatto che aveva bellamente ignorato me, fingendo di aver notato (e in effetti data la differenza di mole, poteva anche essere) solo Kera. Mi ero attirato le ire della maggior parte dei genitori quando avevo deciso di smetterla di farmi ridurre male dai loro figli senza lottare. E con le mie idee, che tutti loro erano costretti a sorbirsi almeno una volta al mese tra gli stupori sonnolenti della noia e dell’ignoranza. La mia tutrice rispose con un cenno del capo, probabilmente, perché

42

43


non emise il benché minimo suono di saluto. Cercando di nascondere un sorriso, addentai la mia focaccia e mi tenni facilmente impegnato mentre me la gustavo. Ero ormai abituato alla lenta ed inesorabile pressione delle chiacchiere sul mio conto ogni volta che mi presentavo ad un evento di paese. All’inizio la cosa mi aveva portato solo una sensazione di fastidio e di panico al tempo stesso, poi poco a poco la paura era scemata, tutto si era intorpidito, come un arto poco utilizzato. Mi spaventavo, talvolta, quando mi rendevo conto di non sentire l’eco della rabbia o del dolore ad ogni chiacchiera sul mio conto. Forse avrei dovuto sentirmi lusingato di essere l’oggetto di tanta attenzione, o forse la verità era che miei compaesani non avevano molto di cui sparlare. “Splendida serata per la sagra, vero? Peccato per l’umidità.” continuò imperterrita sempre la stessa voce, la cui proprietaria mi rimaneva ancora ignota. Non era il tema più banale che avrei potuto sentire quella sera, ma ci andava molto vicino. “Mi sa che stanotte pioverà, Yan.”, mi fece Kera, non so se ignorando del tutto le parole dell’altra o se tentando di coinvolgermi nella conversazione. Sperai nella seconda, perché una lite durante la sagra era l’ultima cosa che volevo. “Beh, tanto non devo uscire.” ribattei perciò, sperando che il mio tono casuale fosse del tutto convincente. “Come! Un’altra notte senza che sia stato chiamato?” la voce colse subito il significato peggiore della mia risposta, continuando a rivolgersi a Kera come se non ci fossi o se fossi ancora troppo piccolo per poter rispondere. “A me non dispiace. In queste notti fa così freddo, non mi piace saperti fuori al buio.” di nuovo la mia tutrice finse che l’altra non fosse esistita. Mi chiedevo con preoccupazione quanto a lungo sarebbe durata quella situazione prima che una delle due esplodesse. “Ma non è mai successo!” disse la voce, troppo scandalizzata dalla novità che le avevo sbadatamente rivelato per prestare attenzione all’atteggiamento di Kera, “Che sia avvenuto qualcosa? La montagna ha sempre mantenuto il suo patto!” “Certo che non è successo nulla, è solo un piccolo ritardo.” rispose la mia tutrice incapace, stavolta, di evitare un confronto diretto. “E se Yan li avesse fatti arrabbiare o qualcosa di simile? Dopotutto, Kera, il tuo pupillo è sempre stato un po’…” a quel punto non riuscii più a concentrarmi solo sul cibo. Quando percepii di nuovo una sorta di vaga rabbia per quell’insulto, ingigantita, poi, dalle mie personali paure, decisi che era tempo di agire. Decretai perciò che una rissa alla sagra NON era l’evento più terribile che si sarebbe potuto immaginare: lo sarebbe stato di più un omicidio

di massa che sarei arrivato sicuramente a compiere continuando a sopportare in silenzio. “Un po’...? Sono sempre stato un po’ cosa?” intervenni, quindi, con un tono non del tutto adatto ad una conversazione pacifica. Non so se Kera tentò di fermarmi, ma sicuramente non ne ebbe il tempo: “Forse, mia cara signora, voleva dire che sono un po’ intelligente. Ed è un gran peccato saper ragionare quando si è circondati da persone come voi;” la voce mi divenne decisamente aggressiva all’ultima parola, “persone che non pensano ad altro che a se stesse e ad avere qualcosa o qualcuno contro cui blaterare idiozie.” Seguì un attimo di silenzio a quelle parole e per un istante credetti quasi che non si aspettassero davvero un mio intervento. Poi, ovviamente, la voce si riprese: “Educa meglio il tuo ragazzo, Kera, a portare rispetto a chi merita.”, fece acida. “Gliel’ho già insegnato, Martha, e mi sembra che abbia imparato benissimo.” replicò con altrettanta freddezza la mia tutrice, prima di alzarsi e di porsi al mio fianco, come una statua fedele. “Andiamo Yan,” mi disse, “È chiaro che frequentare certa gente non porta a nulla di buono.” aspettò che io mi alzassi, mi prese per il braccio e, senza aggiungere una sola parola, mi trascinò lontano dalla tavolata ammutolita. La preoccupazione mi impedì per i primi istanti di accorgermi del cammino intrapreso: una volta passata l’euforia e l’agitazione dello scontro, mi pentii di essere scattato a quel modo. Allo stesso tempo, non riuscivo a capacitarmi di come tanta cattiveria fosse improvvisamente venuta alla luce. Che fosse per quel ritardo? La gente aveva forse paura di perdere il controllo del patto? Si spingevano a tal punto le loro sciocche superstizioni? Intanto sentivo i rumori della fiera, con i suoi odori, allontanarsi sempre di più e d’improvviso riconobbi la strada che stavamo percorrendo: “Kera, no! Non dobbiamo tornare a casa solo per questo! A te piace un sacco la sagra!” protestai, tentando invano ovviamente di trascinarla nella direzione opposta o, almeno, di fare resistenza. “No, non mi divertirei dopo questo.” Non c’era molto che potessi replicare, a queste parole. “Kera, mi spiace…” “Tu non c’entri,” m’interruppe, “Anche prima che tu intervenissi com’era tuo diritto, le parole di quell’oca mi avevano già rovinato la sagra. Non è colpa tua, non lo è mai, chiaro?” disse stringendomi di più a se ed accarezzandomi i capelli con una mano impacciata. “Ma…”

44

45


2

“Non voglio sentire obiezioni. Ci sarà un’altra sagra fra quindici giorni e puoi star certo che mi rifarò alla grande!” forse suonava forzato anche alle sue orecchie ma ebbi lo stesso la saggezza di non mettere in dubbio le sue parole. Cominciavo a sentirmi nervoso, come se fossi spiacevolmente esposto, o meglio, isolato, in mezzo ad un gruppo di persone ostili. Kera dovette sentire la stessa cosa perché non abbandonò il mio fianco neppure per un istante. “Finisco di lavare i piatti e vado a dormire anch’io.” mi disse staccandosi, finalmente, e avviandosi verso la cucina. Io mi issai con l’agilità di un bradipo ubriaco fino al mio letto su cui mi buttai senza neppure cambiarmi o infilarmi sotto le coperte. Non ero esattamente sveglio, perciò mi ci volle un po’ di tempo per accorgermi di un peso, seppur leggerissimo, sulla mia fronte. Senza dare altri segni di stupore, presi delicatamente per le ali la farfalla che si era spostata sul mio naso e la buttai con un gesto annoiato in aria. Non passò molto tempo che quella mi si riposò addosso, stavolta sul braccio. Con uno sbuffo, mi levai a sedere bruscamente, senza più preoccuparmi di poter turbare quel fastidioso insetto che, dal canto suo, nonostante lo spostamento d’aria, rimase imperturbabile nello stesso punto in cui era. “Che vuoi?” chiesi aggressivo, “Torna pure sulle montagne e lasciami qui, come hai fatto per giorni.” Per tutta riposta, la farfalla frullò violentemente le ali, creando un ronzio secco e irato. “Beh, arrabbiati quanto ti pare, non è più di mia competenza a quanto pare.” ribattei, scrollando il braccio e voltandomi su un fianco. Un frullio nervoso accompagnò il movimento della farfalla che si spostò sul mio orecchio, quasi a volermi far sentire meglio le sue ragioni. “Vattene,” ripetei “Tanto a te che importa? Ne puoi avere quanti ne vuoi di tipi come me.” stavo diventando infantile e lo sapevo, ma ero troppo infuriato per prestarci attenzione. Il battito flebile delle ali mi fece venire dei sensi di colpa spessi e pesanti come un quintale di pietre, tutte sulla mia coscienza. “Voglio solo tornarci, sulle montagne.” sussurrai “Perché neppure tu lo capisci?”. Non ci fu risposta, a quella mia ultima crudeltà. Ero consapevole di aver esasperato un dramma di per sé minuscolo e di aver indirizzato il mio rancore contro la creatura sbagliata, ma non trovai la forza di ritrattare. La farfalla volò via, lasciandomi solo con i miei rimorsi e le mie paure per tutta la notte. E tutto quello che fui in grado fare fu rimanermene immobile senza riuscire a farmi prendere dal torpore, troppo spaventato dai miei stessi pensieri.

lla fine, la notte non fu facile. Ero rimasto paralizzato su un fianco, incapace di fermare tutte le mie paure, una più inquietante dell’altra e una più stupida dell’altra. Ero riuscito persino a percepire ogni singolo rumore della casa, a cominciare dai tarli, per passare al respiro pesante di Kera al piano di sotto. Quando mi alzai come si può ben immaginare avevo gli occhi pesti e le ossa scricchiolanti ad un punto tale da farmi benedire la settimanale pausa scolastica. Mi trascinai con minore energia della sera prima giù per la scala e in cucina ciabattando come un anziano pensionato stanco della vita ed andandomi a sedere con veramente poca grazia di fronte alla mia colazione. Kera era già lì, l’avevo sentita alzarsi come al suo solito all’alba, quando ormai avevo perso le speranze di prendere sonno, ma non osavo ancora alzarmi per paura di affrontare la giornata. Cercai di rimanere sveglio tentando di prendere un biscotto con un braccio insolitamente pesante e ricordandomi che cadere addormentato a faccia in giù nella ciotola di latte bollente non era la scelta migliore per iniziare la mattinata. “Cos’è quella faccia?” mi chiese allarmata Kera, troppo immersa nel lavaggio dei piatti, evidentemente, per potersene accorgere prima. “Sono in gara per il “Mister notte dei morti” di quest’anno, non lo sapevi?”, il mio sarcasmo non lo riuscivo ad ammazzare neppure con una notte in bianco, però. “Non dirmi che non hai chiuso occhio!” mi rimproverò, come se fosse colpa mia. In effetti se non avessi passato la notte a rimuginare sui miei castelli in aria dell’orror, forse avrei avuto un aspetto migliore, ma in quel momento ero ben lungi dall’ammetterlo. “Recupererò stasera.” mugugnai, riuscendo finalmente a venire in possesso di un biscotto.

46

47

“Quanto monotona sarebbe la faccia della terra senza le montagne” -Immanuel Kant

A


www.eifis.it



Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.