Emotions novembre 2011

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Sommario

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Armenia terra antica

testo e foto di Teresa Carrubba

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SUDAN concerto tra le piramidi di Meroe testo e foto di Romeo Bolognesi Città TORONTO simbolo della civiltà sociale testo e foto di Marco De Rossi

pag. 14

Sri Lanka

isola splendente nell’Oceano Indiano

Courchevel vacanza sulla neve a 5 stelle testo di Viviana Tessa L’eccellenza della Val d’Aosta, la montagna testo di Luisa Chiumenti

pag. 50

Martina Franca il trionfo del Barocco testo di Raffaella Ansuini

pag. 54

Tevere Farfa un itinerario nella riserva naturale testo di Luisa Chiumenti

pag. 60

Casa Cartagena dal fascino Inca al design italiano testo di Orso Maria Leale

pag. 66

Ego Amo il lusso amo l’ambiente testo di Pamela McCourt Francescone

pag. 70

Victoria Regeneration SPA

pag. 72

Le perle di vetro di Venezia testo di Augusto Panini

pag. 78

TOSCANA terra del vino testo di Giuseppe Garbarino

pag. 86

Calda d’inverno, la polenta testo di Francesca D’Antona

testo di Anna Maria Arnesano foto di Giulio Badini pag. 20

BONBINI!

benvenuti ad Aruba

testo e foto di Pamela McCourt Francescone pag. 28

DANCALIA

inferno geologico tra sale e vulcani

testo di Anna Maria Arnesano foto di Giulio Badini pag. 88

Una calda sensazione chiamata Cashmere testo di Daniele Nencini

pag. 93

Tradizioni testo di Mariella Morosi

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Libri

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Editoriale

Emotions. Una parola, un programma. Trasmettere e suscitare emozioni attraverso il racconto di viaggi in Paesi esotici, come lo Sri Lanka, la vecchia Ceylon, o di viaggi avventurosi ed eccitanti in terre impervie come la Dancalia, acrocoro dell’Etiopia, a buon motivo definita “inferno geologico”, o in città esemplari come la civilissima Toronto, moderna e pacificamente multietnica. Emozioni nello scoprire le bellezze dell’Italia legate alla natura, all’arte, alle realtà locali che valorizzano l’enogastronomia. Nelle coccole di Spa tecnologiche o romantiche dove riappropriarsi ogni tanto dell’essenza del proprio Ego. Ma anche emozioni suscitate dal BelVivere, da oggetti preziosi da ammirare, da collezionare e da comprendere meglio grazie all’informazione e all’approfondimento. Emotions– viaggi e cultura vuole essere tutto questo e molto di più mettendo a disposizione la validità consolidata e l’entusiasmo del team di professionisti che vi lavorano e che vogliono uscire dai canoni standard delle tante riviste di turismo. Per un lettore esigente e sofisticato che ami l’esperienza del viaggiare più che il turismo tout-court, che sappia apprezzare la conoscenza del Bello che la vita può offrire e tutto ciò che imprime una traccia per riflettere e per sognare.•

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ARMENIA terra antica Testo e foto di - Words and photos by

Teresa Carrubba

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orse il destino degli armeni fu segnato proprio dal biblico Noè quando scampò al Diluvio Universale arenando l’Arca sul Monte Ararat. Salvarsi dalla catastrofe, cadere e rialzarsi. Forse da lì nacque il profondo spirito di sopravvivenza e di continua rinascita di un popolo a lungo tormentato come quello armeno. Oggetto di successive invasioni nei tempi antichi, l’Armenia è stata contesa da Romani, Parti, Bizantini, Medi, Persiani, Arabi e Mongoli.

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Il sacro Monte Ararat con veduta di Yerevan

ARMENIA an ancient land

Noah may well left his mark on the destiny of the Armenian people when, escaping from the Great flood, he stranded the Arc on Mount Ararat. Survival. Falling, and getting back on one’s feet again. The spirit of survival and constant renaissance of the long-suffering Armenian people could, in fact, spring from this Biblical episode. Armenia, a country which underwent one invasion after another in ancient days and was fought over by the


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ARMENIA terra antica - ARMENIA an ancient land

Yerevan, Piazza della Repubblica sede dei palazzi governativi

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Poi fu a partire dalla fine del XIX secolo che la durissima opera di snazionalizzazione degli armeni, condotta dalla Turchia in nome dell’affermazione della propria egemonia, culminò, in un vero e proprio genocidio nel 1915. Da allora la “Grande Armenia” che copriva tutta la parte centro-orientale dell’Anatolia, ponte strategico tra Occidente e Oriente, crocevia di grandi civiltà come l’europea e l’asiatica, si è ridisegnata in un Paese grande circa un decimo, incastonato fra Turchia, Georgia, Azerbaigian e Iran. Il resto, oggi, è tutta Turchia, Ararat compreso. E da allora ebbe luogo la cosiddetta -diaspora armena- un grande esodo soprattutto verso la Francia e gli Stati Uniti d’America. Sparsi in tutto il mondo, oggi, ci sono circa 10 milioni di armeni, contro i 3 milioni rimasti in Patria. E tra di loro il rapporto non è del tutto lineare. Gli armeni della diaspora hanno esportato la loro tenacia, il loro talento e la loro intelligenza facendo fortuna altrove e spesso eccellendo nelle arti o in medicina. Una fortuna che in parte reinvestono nella madre Patria aiutandola nel suo recente progressivo sviluppo. Ma la gratitudine di chi è restato qui si mescola con una sorta di diffidenza per coloro che, così dicono, hanno ripiantato le loro radici in Paesi così diversi dall’Armenia! La repubblica autonoma indipendente, nata nel 1918 nell’area armena pertinente alla Russia, venne riconosciuta solo nel 1936 come repubblica formalmente autonoma all’interno dell’Unione Sovietica che tuttavia per settant’anni l’ha soffocata con la rigidità del regime comunista. Il nuovo millennio appare decisamente più promettente. Il risanamento dell’economia è stato favorito dall’importazione dall’Iran di combustibili a basso costo, da investimenti da parte degli armeni emigrati all’estero e da ingenti finanziamenti stanziati dagli Stati Uniti: l’Armenia riceve dall’am¬ministrazione americana più dollari pro capite di qualsiasi altro Paese, oltre Israele. Va molto bene la lavorazione dei diamanti, un settore che oggi fattura più di un miliardo di dollari all’anno.

Romans, Parthians, Byzantines, Medians, Persians, Arabs and Mongols. Then from the end of the 19th century the Turks got down to the difficult task of denationalizing the Armenians in order to affirm their own hegemony, leading to a veritable genocide in 1915. Since then the “Great Armenia,” which covered the central-western part of Anatolia, a strategic bridge between the great European and Asian civilizations, became a country one tenth its original size wedged between Turkey and Georgia, Azerbaijan and Iran. The remaining nine tenths, including Mount Ararat becoming part of Turkey. And giving rise to the so-called Armenia diaspora, a massive exodus mainly towards France and the United States. Today there are some 10 million Armenians scattered around the world while a mere three million stayed put, and rapport between them is far from clear. The Armenians of the diaspora carried with them their tenaciousness, talents and intelligence, making fortunes elsewhere and often excelling in the arts and medicine. Fortunes that have, in part, been reinvested in their homeland, and have helped its recent progressive development. But the gratitude of those who stayed behind Is mixed with a kind of diffidence towards those who, they say, left Armenia to settle in countries that are very different indeed from the one in which they were born. The autonomous independent republic that was declared in 1918 in the Armenian part of Russia, was recognized only in 1936 as a formally autonomous republic within the Soviet Union and, for the next 70 years, was systematically suffocated with typical Communist rigor. The new millennium would seem to be more promising with a recovery of the economy, aided and abetted by the importation from Iran of low-cost combustibles, by investments from Armenians living abroad, and by massive financial support from the United States: Armenia receives more dollars pro capita from the American administration than any other country, with the exception of Israel. The diamond cutting industry


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Yerevan, il Teatro dell’Opera e del Balletto

Khatchkar: pietre di tufo scolpite, simbolo dell’arte cristiana armena

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ARMENIA terra antica - ARMENIA an ancient land Tant’è, nel 2003 la crescita economica è stata la più alta d’Europa con un incremento del 15% che ha favorito l’apertura di nuove industrie e attività commerciali. Ora l’Armenia può dirsi pronta a sviluppare anche il percorso del turismo. Non un turismo tout court, s’intende, ma un turismo raffinato e sottile, per viaggiatori insomma. Per chi ha la sensibilità di ripercorrere la storia di un popolo attraverso le infinite testimonianze, tra arte e fede. Un turismo che va cercato, voluto, sentito. L’Armenia. A dispetto di una storia dura e spesso ingiusta, il contributo che l’Armenia ha offerto alla civiltà è straordinario. Gli armeni sono stati scrittori e miniatori di manoscritti di grande raffinatezza. E furono proprio i codici miniati, opere magnifiche nate dalla paziente laboriosità dei monaci, il primo strumento di una cultura autoctona grazie alla creazione dell’alfabeto armeno nell’anno 404 da parte di Mesrop Mashtotz, un monaco appunto. Alfabeto visto come “dono di Dio” e quindi subito sperimentato per tradurre la Sacra Scrittura e le opere dei Padri gettando così anche le basi della letteratura armena. Più di sedicimila manoscritti miniati dell’Armenia datati dal VII al XV secolo, sono raccolti nel Matenaradan ( lett. biblioteca ), un imponente istituto di ricerca e di restauro, oltre che di raccolta ed esposizione, in cima al viale più visibile di Yerevan, la capitale. Testi sacri, di scienza, medicina, erboristeria, geografia, letteratura, pazientemente stilati dagli scriba, spesso monaci, e illustrati con bellissime miniature, simboliche o decorative, realizzate con colori rimasti intatti nel tempo. Gli scienziati che le hanno studiate parlano di vermiglio, tratto da una specie di verme della pianura dell’Ararat, per il rosso; di polvere di lapislazzuli per il blu e di sottilissime sfoglie d’oro puro

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alone turns over a billion dollars a year, contributing significantly to Armenia’s economic growth which, in 2003, was the highest in Europe at +15%, leading to the emergence of new industries and commercial enterprises. And now Armenia feels it is ready to take on tourism. Not any old kind of tourism, but a subtle and refined brand of tourism through a series of facets including art and religion. A type of tourism to be delved into, desired and heeded. In spite of a difficult and often unjust history Armenia has made an extraordinary contribution to civilization. The Armenians were writers and illustrators of highly refined manuscripts. Indeed it was the illuminated codices, magnificent works of art produced with laborious patience by the monks, that were the earliest expressions of an autochthonous culture thanks to the creation of the Armenian alphabet by a monk called Mesrop Mashtotz in 404. An alphabet which was considered a “gift of God” and, as such, immediately used to translate the Sacred Scriptures and the works of the Fathers, thus laying the foundations of Armenian literature. Over 16.000 illuminated Armenian manuscripts, dating back from the 7th to the 15th centuries, are now in the Matenaradan (literally the library), an important research and restoration institute which also collects and exhibits such works, and is on science, medicine, herbal medicine, geography and literature, the fruit of the patient work of scribes, who were very often monks, who illustrated the texts with stunning symbolic or decorative miniatures in colours that have not faded with time. Scientists who have studied them talk of vermilion, taken from a kind of worm that lives on the Ararat plain, for the red; of lapislazuli powder for the blue, and of ultra-thin gold leaf which was affixed on the pages with garlic juice. The Armenian


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Monaci ortodossi nel complesso patriarcale di Echmiadzin che venivano fissate alla pagina con succo d’aglio. L’arte miniaturistica armena è strettamente connessa all’era cristiana, gli orientalisti la fanno risalire al V secolo. Qui, l’arte ha un forte legame con la fede, con un reciproco scambio di motivazioni ed espressività. Un rapporto che coincide con l’ identità stessa del grande popolo armeno, il primo al mondo a fare del Cristianesimo la propria religione ufficiale, nell’anno 301, prima ancora dell’Editto di Milano del 313 con il quale il Cristianesimo fu ufficialmente accettato nell’Impero romano. Il simbolo per antonomasia dell’arte cristiana armena sono le khatchkar, croci scolpite su pietre di tufo. Anche se, così dicono gli studiosi, sembrano ispirate ad antichi modelli di età pre-cristiana. Le prime khatchkar nacquero nel IV secolo attraverso la sovrapposizione di croci di pietra sui monoliti urartei, di cui era ricco il territorio armeno, per consacrare al nuovo culto le già esistenti opere pagane. Le khatchkar si trovano ancora dovunque, e comunque tracciano un itinerario che spesso coincide con quello dei monasteri e dei templi rimasti dall’epoca pagana, la cui bellezza artistica e mistica assorbe anche la grande suggestione del paesaggio. Costoni di roccia rossa alternati a verdissime foreste di querce e carpini, gole e orridi che spaccano pareti vulcaniche. Magnifico il tempio di Garni dedicato ad Elio, il dio del sole dei romani, eretto da re Tiridate I nel I secolo e che dopo la conversione al cristianesimo divenne residenza estiva dei reali armeni. Qui ci sono tracce delle terme romane e qui le rocce sembrano lamelle verticali come canne d’organo disegnate dall’acqua e dal vento. Un’infinità di pietre scolpite nel bellissimo complesso di Zvartnots, quello che resta del Tempio del Paradiso degli Angeli, in un contesto naturale, assolutamente fuori dal mondo. Poi i monasteri, famoso quello di Geghard, arroccato in una gola spettacolare. Qui un tempo era conservata la lancia che ha trafitto il corpo di Cristo, ora nel sacro tesoro di Echmiadzin, una sorta di Vaticano armeno, dove vive il Patriarca supremo, il

art of the miniature was strictly linked to the Christian era, Oriental scholars putting it around the 5th century. Art closely linked to religion, with a reciprocal exchange of motivations and expressivity. Links that coincide with the very identity of the great Armenian people, the first in the world to make Christianity their official religion in 301, before the 313 Edict of Milan with which Christianity was officially accepted into the Roman Empire. The khatchkar, sculpted crosses on tufa stone, are the symbols par excellence of Armenian Christian art. Although, according to the experts, they might have been inspired by ancient pre-Christian models, the first khatchkar date back to the 4th century and derive from the custom of superimposing stone crosses on the uratei monoliths which were strewn over most of Armenia, consecrating former pagan works to the new cult. Still today you find khatchkar everywhere, and often they trace an itinerary that coincides with that of the monasteries and churches dating back to pagan days, their artistic and mystic beauty absorbing the beauty of the countryside. Ridges of red rocks alternate with deep green forests of oak and elm and with gorges and ravines that split volcanic walls. The magnificent temple of Garni is dedicated to Aeolus, the Roman god of the sun, and was built by King Tiridate I in the 1st century. Following his conversion to Christianity it became the summer residence of the Romanian royal family. There are traces of old Roman baths, and vertical blades of rock that resemble organ pipes sculpted by waters and winds. And there is an infinity of sculpted stone in the very beautiful Zvartnots, the remains of the Temple of Paradise of the Angels, which is something quite out of this world in a stunning natural setting. Then there are monasteries like the famous Geghard, perched atop a spectacular gorge which once housed the lance that pierced the body of Christ, now in the Sacred Treasury of Echmiadzin, a kind of Armenian Vatican and residence of the Supreme Patriarch, the Catholicos. Even more stunning is the Monastery of Khor Virap, on a small hill at the

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Zvartnots, le rovine del Tempio-Cattedrale del Paradiso degli Angeli Catholicos. Un’emozione in più per il monastero di Khor Virap, su una collinetta ai piedi del Monte Ararat che da qui è visibile quasi a toccarlo. Un’emozione da non perdere, a un passo dalla Turchia. Turco solo per ingerenza territoriale, l’Ararat non ha smesso di esercitare il suo carisma sugli armeni, quasi fosse una divinità, dall’alto delle sue vette perennemente innevate. Di nuovo Khatchkar a fianco delle due chiesette di Noraduz, a picco sul Lago Sevan che si trova a circa 2000 metri d’altezza. Pietre miliari dell’arte e della fede dell’Armenia che consentono di spingersi fino ai suoi confini attraversando l’Intero Paese. Basta una settimana, per assaporare l’identità di questo popolo dalla storia ricca e preziosa. Anche facendo capo soltanto a Yerevan, più attrezzata per la recettività. Yerevan, città sorprendente per la sua maestosità, per la grandiosità delle sue architetture di gusto sovietico. Piazze immense come quella della Repubblica, in cui gravitano le sedi dell’amministrazione pubblica, e il museo Statale di Storia. Una città molto giovane e vivace dove i ragazzi sembrano impegnati nella socializzazione anche attraverso la cultura. Grandi frequentatori del Teatro dell’Opera e del Balletto, peraltro inserito in un contesto accattivante con parchi, caffè, locali notturni e negozi alla moda. Lunghi viali alberati conducono ai principali centri d’interesse che spesso dominano la città dall’alto quali la gigantesca statua della Madre Armenia in una piazza di stile sovietico, la già citata Biblioteca di manoscritti, l’emozionante Museo del Genocidio con il suo monumento stilizzato in un piazzale dalla vista spettacolare; e la cosiddetta Cascata, un’enorme rampa di scale intervallata da aiuole e cascatelle che divide in due il centro di Yerevan e porta al monumento del 50° anniversario del Soviet dell’Armenia. Ma c’è anche la Yerevan operosa, fatta di attività commerciali e fabbriche come quella del Brandy Ararat, famoso e molto esportato, che dà lavoro a molte famiglie armene.•

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COLUMBIA TURISMO, via Po 10 00198 Roma Tel. 06 8550831 Email: info@columbiaturismo.it Web: www.columbiaturismo.it

foot of Mount Ararat which seems so close it seems you can practically touch it. A thrilling sight not to be missed when in Turkey. Because, due to territorial meddling, this sacred mountain is in fact Turkish, though it continues to exercise the charisma of its eternal snows on Armenians, almost as if it were a deity. There are more khatchkar close to the two little churches of Noraduz on high, with a sheer drop down to Lake Sevan which is some 2,000 metres above sea level. Milestones of Armenian art and faith which are scattered everywhere and guide travellers through this fascinating country. A week is enough to savour the identity of this people and its long and multi-faceted history. Even if you stay only in Yerevan which has the best range of accommodations. Yerevan is a surprising city: majestic and with grandiose Soviet-style architecture and immense squares like the Republic Square which has many administrative buildings and the State History Museum. But it is also a vibrant and lively city where the younger generation knows how to appreciate culture and throngs to operas and ballets in the Opera House which is set amidst parks with cafes, night clubs and fashionable shops. Long tree-lined avenues lead to the main attractions, many of which overlook the city like the giant statue of Mother Armenia in a Soviet-style square, the Library of Manuscripts and the moving Genocide Museum with its stylized monument which is on a square with a stunning vista. And then there is the so-called Waterfall, an enormous stairway with flower beds and rippling cascading water which divides the centre of Yerevan in two, and leads to the monument of the 50th Anniversary of the Soviet of Armenia. Then there is industrious Yerevan with its shops and factories like the famous Brandy Ararat facility, which produces one of the country’s main exports and provides jobs for many Armenian families.• AQUARIUS TRAVEL-11 LEO St.,- Yerevan 0002, Armenia- Tel: + 374 60 44 87 87- Fax: + 37410 53 96 687 email: incoming@aquarius.am - info@aquarius.am Web: www.aquarius.am - www.aquarius-travel.com



SRI LANKA

isola splendente nell’Oceano Indiano

Pinnawela, elefanti al bagno Testo di Anna

Maria Arnesano Foto di Giulio Badini

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ri Lanka, terra risplendente. Un nome musicale capace di evocare immagini di zaffiri scintillanti, di tè aromatici, di elefanti al lavoro, di spiagge sterminate, di imponenti resti di antiche civiltà, di statue del Budda, di dimore coloniali, di giungle intricate. Sri Lanka, la vecchia Ceylon dei

colonialisti europei, l’isola a forma di lacrima – o di una goccia di tè per il suo prodotto più famoso – grande tre volte la Sardegna e situata ad appena 35 km di distanza dalla costa sud orientale della penisola indiana, è tutto questo e molto di più ancora. Costituisce infatti la culla del buddismo, una delle più eleva-

te espressioni del pensiero umano, e la terra delle spezie per eccellenza, meta da sempre di trafficanti e di colonizzatori alla ricerca di avorio, pietre preziose, perle, gomma, tè e tessuti dai colori sgargianti. Foreste rigogliose si susseguono a montagne coltivate a terrazze, dove il verde assume mille gradazioni diverse;


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Sigirya, dipinto rupestre sembra impossibile poter trovare in mezzo all’oceano Indiano, a poca distanza dall’Equatore, una tale abbondanza di fiumi, cascate e laghi, che gli antichi cingalesi seppero regimentare con enorme perizia idraulica, ricavandone una terra estremamente fertile. La scoperta degli imponenti resti di antiche raffinate civiltà risalgono alla metà del 1800, quando l’avanzare delle piantagioni ha rivelato gli splendidi monumenti fino ad allora celati dalla vegetazione. Sarebbe un errore imperdonabile

pensare a quest’isola come ad un’appendice dell’India: nonostante la vicinanza e le inevitabili influenze, essa costituisce infatti un’entità autonoma e a sé stante, assai diversa dall’ingombrante vicino. Si può anzi sostenere che Sri Lanka offre al visitatore parecchi di quegli elementi stereotipati dell’India che l’India ormai non possiede più da tempo. Insomma, tutta un’altra cosa, senza contare che l’India è induista e musulmana, Sri Lanka invece a maggioranza buddista. Marco Polo, uno che di

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SRI LANKA isola splendente nell’ Oceano Indiano

Anuradhapura, tempio buddista

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Oriente se ne intendeva, non a caso la definì l’isola più bella del mondo. Qualcuno si è spinto a paragonarla al giardino dell’Eden: un paragone sicuramente un po’ audace, ma non si può negare contenga un minimo di verità. Come sempre vedere per credere, e per poter giudicare. Sri Lanka è uno di quei luoghi dove la storia sembra sempre sfumare nella leggenda. I primi abitanti ariani giunsero dall’India del Nord attorno al VI o V sec. a.C., soppiantando una popolazione locale che viveva ancora a livello della preistoria, i Veddah, i quali sopravvivono ancora in sparuti gruppi nelle aree interne più remote. A partire dal IV sec. a.C. sorsero diversi regni, o città stato, tra i quali quello di Anuradhapura si rivelò il più consistente e duraturo, reggendo per quasi un millennio, nonostante ripetute invasioni da parte di popolazioni hinduiste tamil del Sud India. Nel III sec. a.C. dall’India giunse il buddismo di scuola Theravada, che diede al popolo un senso di identità e di unità nazionale, oltre ad ispirare lo sviluppo della cultura e dell’arte. L’isola era già nota a Greci

e Romani con il nome di Taprobane, nonché ai mercanti arabi che la chiamavano Serendib, da cui derivò il termine serendipity per indicare felicità. Alla fine del X sec. i tamil indiani invasero il nord dell’isola, sospingendo i cingalesi nel centro-sud e fissando la propria sede a Polonnaruwa; quando nel 1070 i cingalesi ripresero il potere, mantennero la nuova capitale, facendola enorme e splendida per altri due secoli, quando iniziò un’epoca oscura e il potere si frantumò in cinque diversi regni. Fin dall’inizio della storia singalese la principale preoccupazione di ogni regnante fu quella di realizzare opere idrauliche per non disperdere la ricchezza idrica dell’isola. Furono erette grandi dighe e scavati canali e cisterne, bonificati acquitrini e portato il prezioso liquido in zone aride, con il risultato di porre le basi per una fiorente economia, caratterizzata da abbondanza di prodotti alimentari, che diede vita ad una florida civiltà. Nel Medioevo nessun altro paese al mondo poteva vantare le opere idrauliche della Perla d’Oriente. All’inizio del XVI

sec. inizia l’epoca coloniale europea. Nel 1505 i Portoghesi ottengono dapprima l’esclusiva sul commercio delle spezie, quindi occupano gran parte del territorio, ad esclusione del regno centrale di Kandy, introducendo il cattolicesimo. Nel 1658 arrivano gli Olandesi, che portano il calvinismo, e nel 1796 subentrano gli Inglesi, portatori dell’anglicanesimo, i quali nel 1815 conquistarono anche Kandy, diventando la prima potenza europea a dominare tutta l’isola. I coloni britannici disseminarono il paese di piantagioni di caffè, cannella e cocco, poi sostituite da tè e caucciù, costruirono una rete di strade e ferrovie, imposero l’inglese come lingua ufficiale e importarono dall’India del sud un gran numero di braccianti agricoli tamil. L’indipendenza arrivò nel 1948 e con essa l’instabilità politica, dovuta alla storica contrapposizione etnica e sociale tra singalesi, tamil, musulmani, europei, meticci e altre minoranze, tra religione buddista, hindù, islamica e cristianesimo, tra lingua singalese, tamil, araba e inglese. L’isola, lunga 353 chilometri con una


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Statua del Budda sdraiato larghezza massima di 183, annovera 20 milioni di abitanti e una densità di 316 persone (ma con punte anche di 500), tra le più alte dell’Asia. Risulta formata da un massiccio centro-meridionale con cime che superano i 2.000 metri, circondato da colline e da una cintura di tavolati a gradini digradanti su pianure alluvionali costiere. Le spiagge più belle si trovano a sud. Tipico paese tropicale, presenta una stagione secca da dicembre a marzo e una stagione piovosa con due monsoni da maggio ad ottobre. La vicinanza all’Equatore assicura temperature sempre elevate. La radicata cultura buddista, basata sul rispetto della natura in tutte le sue forme, ha permesso all’habitat di conservarsi abbastanza integro: qui nel III sec. a.C. sorse la prima riserva naturale del mondo e nel Medioevo alcune foreste, chiamate proibite, erano già aree protette. All’inizio del secolo scorso il 70 % dell’isola era ancora ricoperto da foreste, quota ora scesa al 30 %, ma oltre un quarto del territorio viene protetto da parchi e riserve; la foresta di Sinharja è tute-

lata dall’Unesco come patrimonio dell’umanità. Nelle foreste tropicali umide costiere, formate da palme e da alberi pregiati d’alto fusto come sandalo, ebano e tek, fioriscono bellissime orchidee e piante officinali usate dalla medicina ayurvedica. Esse offrono riparo a branchi di elefanti selvatici di una sottospecie autoctona, a leopardi, cervidi, scimmie, cinghiali, coccodrilli, cobra, orso giocoliere e bufali, nonché a 400 specie diverse di uccelli esotici, delle quali 21 endemiche, mentre il mare offre una ricca selezione di pesci tropicali, tartarughe marine e rari dugonghi. Risulta difficile immaginare Sri Lanka senza i suoi elefanti, liberi nelle foreste, impegnati in lavori pesanti o splendidamente adornati per le parate storiche e le sfarzose processioni religiose, come la perahera di Kandy. Addomesticati da almeno due millenni, vennero sfruttati in maniera sistematica dagli europei; all’inizio del 1900 se ne contavano 12 mila, a fine secolo erano scesi a 2.500. Verso la metà del 1800 un ufficiale inglese si vantò di averne uccisi ben 1.200 in 12 anni. Ora le cose

sono cambiate. A Pinnawela esiste addirittura un orfanotrofio, molto visitato dai turisti, che offre asilo agli elefantini rimasti privi dei genitori o del branco. La perizia idraulica degli antichi regni singalesi ha regalato ai suoi abitanti una certa prosperità e un livello sociale inimmaginabili nel subcontinente indiano: oggi l’isola è il secondo esportatore al mondo di tè, tra i maggiori di caucciù e tra i primi cinque per la produzione di pietre preziose. Al visitatore colto e curioso l’isola di Sri Lanka ha parecchio da offrire. A cominciare dalla sua pluralità etnica, che se dal punto di vista politico e amministrativo pone non pochi problemi, da quello turistico rappresenta una considerevole risorsa: un crogiuolo di razze, un mosaico di culture dove ogni gruppo conserva un patrimonio di fede, usanze, abiti e riti che regolano la vita individuale e il comportamento sociale. Poi il buddismo Theravada, nato e prosperato proprio qui come religione ufficiale da oltre duemila anni, la forma più austera e ascetica, capace di influenzare sensibilmente la cultura e l’arte:

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SRI LANKA isola splendente nell’ Oceano Indiano basta visitare gli innumerevoli templi e monasteri sparsi in tutto il paese, oppure gli imponenti resti delle grandi capitali antiche come Anuradhapura, Polonnaruwa, Kandy o l’incredibile fortezza di Sigirya, eretta su una rupe alta 200 metri. L’architettura buddista si è sviluppata con uno stile proprio, autoctono, anzi esportato poi in paesi come Birmania, Thailandia, Vietnam, Laos e Cambogia. L’esempio più evidente è costituito dal dagoba, enormi stupa di mattoni a forma di emisfero solido, contenenti reliquie sacre; con la loro semplicità rappresentano la quintessenza del buddismo. Ma allo stesso tempo anche un’architettura non da poco: il Jatavanarama Dagoba di Anuradhapura, alto 121 metri, costituisce il maggior monumento buddista al mondo e uno dei più grandi edifici religiosi della terra. Per non parlare poi di spiagge d’incanto, di foreste con animali e piante inusuali, di

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scimmia

una delle più alte cascate della terra, del fascino di residenze coloniali e di piantagioni di tè, di coloratissime cerimonie religiose, del luccichio di zaffiri, di sbuffanti treni d’epoca, di erbe terapeutiche e di intrugli portentosi, di piatti aromatici e di frutti esotici. Sri Lanka, terra risplendente.•

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Testo di - Words by

Pamela McCourt Francescone

foto di - photos by

ATA e Pamela McCourt Francescone

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mpossibile non innamorarsi di Aruba. Un fazzolettino di terra che si trova a 15 kilometri dalla costa venezuelana, con un poker notevole di assi nella manica: mari turchesi, un sole che splende 365 giorni all’anno, temperature medie di 28, freschi venti alisei, e una posizione geografica lontana dalla rotta degli uragani caraibici. Se aggiungiamo che gli Arubiani hanno una moderazione e prosaicità tipicamente olandese, sono cordali e calorosi e che sull’isola si respira

BONBINI! Welcome to Aruba It’s impossible not to fall in love with Aruba. A dot in the ocean, 15 miles off the coast of Venezuela, with countless aces up its sleeve: sapphire-blue seas, year-round sunshine, an average temperature of 82° tempered by cooling trade winds, and its position outside the hurricane belt. Then there is that moderation and matter-offactness typical of the Dutch character and the sponta-


una gioia di vivere caraibica, allora difficile dare torto a chi dichiara che Aruba è un paradiso terrestre. E’ un’isola con due anime: quella sofisticata, allegra e verde che si estende lungo il versante meridionale, e quella aspra, brulla e austera che si trova sul versante settentrionale. Perché, strano a dirsi, Aruba è un’isola arida che da sempre ha dovuto combattere la mancanza d’acqua. Basta prendere la strada che dal Faro California costeggia la costa frastagliata e attraversa il Parco Nazionale Arikok. Un paesaggio desertico con dune di sabbia, cactus, formazioni rocciose, miniere d’oro dismesse e grotte con pitture rupestri: una meta ideale per gli appassionati delle escursioni in fuoristrada, gli amanti del trekking, i naturisti. Da visitare allevamenti di farfalle e di struzzi, e due santuari, uno per asinelli e uno per uccelli, mentre da marzo a settembre si può assistere alla dischiusa delle uova che le tartarughe marine depongono nelle tante piccole insenature lungo questo tratto di mare. Un mare agitato, burrascoso e spumeggiante che s’ infrange senza soluzione di continuità sulle nervature spigolose e sulla battigia riarsa del litorale sopravento. Ma l’Aruba più amata è quella del versante sottovento, quella con spiagge bianche, acque trasparenti e verdissimi campi da golf i quali, come tutto sull’isola, dipendono sul grande impianto di Balashi che filtra e purifica l’acqua del mare attraverso rocce di corallo. E’ qui che

neous warmth of the Arubans. Add a generous dash of Caribbean joie de vivre, and you can understand why so many consider Aruba a true paradise on earth. Aruba is an island with two souls: a sophisticated, happy, verdant soul that stretches the length of the southern coast, and a harsh, arid and austere soul along its northern seaboard. Being an arid island it has always struggled with its lack of water. And nowhere is this more evident than on the desert-like northern side with its rugged coastline, sand dunes and cacti. Take the road past the California Lighthouse towards the Arikok National Park into the dramatic, wind-swept, untouched landscape of sand dunes, low hills and rock formations, and stop at old gold mines and caves with early Aruban rock drawings. There are walking trails to be enjoyed on foot or on sturdy 4-wheel drives and quads. An ostrich farm, bird sanctuary, butterfly farm and donkey sanctuary are further attractions, as is the sea turtle nesting season from March to September when the turtles lay their eggs in little coves, washed up on land by the crashing, tumbling waves that beat endlessly on the rocky outcroppings and the arid windward shoreline. But the Aruba most people fall in love with is the leeward side with its white powdersoft beaches, shimmering turquoise waters and emerald green golf courses which, like everything on Aruba, depend on the massive Balashi desalinization plant to fil-

Al mare anche di sera

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BONBINI! Benvenuti ad Aruba - BONBINI! Welcome to Aruba

Il Divi-divi, albero simbolo dell’isola

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sorgono le due zone alberghiere: una zona high-rise dove svettano hotel di lusso come Westin, Occidental, Hyatt Regency e Renaissance, e una zona low-rise, più vicina alla capitale Oranjestad, dove deliziosi alberghi boutique e piccoli resort si affacciano su chilometri di sabbia bianca finissima bordata da palmeti, dai caratteristici alberi divi-divi, e dalle acque cristalline del Mare dei Caraibi. Come il Bucuti &Tara Resorts, sulla stupenda Eagle Beach, il resort di Ewald Biemens, un pioniere del movimento verde nei Caraibi, appassionato sostenitore di turismo responsabile e conservazione ambientale che ha sviluppato il Bucuti non solo come un resort di lusso ma anche come un esempio di turismo sostenibile. Basta un pomeriggio per girare tutta l’isola che è lunga 32 kilometri e larga dieci. Nel 1499 furono gli spagnoli i primi ad arrivare sull’isola, fino a quel momento abitata da indiani Arawak e, trovando resti di corpi umani di misure notevolmente più grandi di quelli trovati in altre parti dei Caraibi, la chiamarano Isla de los Gigantes. Nel 1634 gli olandesi presero Curacao come base dalla quale attaccare l’invincibile Armata spagnola. Nel 1636 invasero Bonaire e Aruba e, tranne per un breve intervallo di dieci anni dal 1806 al 1816, quando fu occupata dagli inglesi, Aruba, insieme a Bonaire e Curacao, ha fatto parte delle Antille Olandesi, territori dei Paesi Bassi di cui oggi sono regioni autonome. Le due lingue ufficiali di Aruba sono l’olandese e il papiamento, una lingua basata sullo spagnolo, l’olandese e il portoghese. La popolazione appartiene a ben 96 nazionalità diverse, e parla anche l’inglese e lo spagnolo. mentre la divisa ufficiale è il fio-

ter sea water through coral rocks. There are two hotel zones, one with high-rise luxury international brands including the Westin, Occidental, Hyatt Regency and Renaissance fronting Palm Beach, and the other low-rise area along Eagle Beach with its swaying palms, rightly regarded as one of the world’s dream beaches, which is closer to Oranjestad and has boutique hotels and charming resorts. Like the Bucuti & Tara Resorts developed by Ewald Biemens, a pioneer of the green movement in the Caribbean, and a passionate supporter of responsible tourism and environmental conservation who envisioned the Bucuti not just as a luxury resort, but also a lesson in sustainable tourism. You can get around the island in an afternoon, as it is a mere 32 kilometres long and ten wide. In 199 the Spanish were the first to conquer the island, inhabited up to then by Arawak Indians, and, finding human remains much larger than those discovered in other parts of the Caribbean named it Isla de los Gigantes. In 1634 the Dutch took Curacao as a base from which to attach the Spanish Armada. Then, in 1636 they invaded Bonaire and Aruba and, except for a brief interval of ten years from 1806 to 1806 when it was occupied by the British, Aruba together with its Dutch Antilles’ neighbours Bonaire and Curacao, has been one of the so-called ABC Islands, autonomous regions of the Kingdom of the Netherlands. The two official languages are Dutch and Papiamento, which is mix of Spanish, Dutch and Portuguese. But the 120,000 islanders, who belong to 96 distinct nationalities, also speak English and Spanish, and still


rino arubiano. L’aeroporto internazionale Queen Beatrix International Airport si trova a due passi dalla capitale Oranjestad, una cittadina allegra con casette dipinte nei colori pastello, tetti spioventi, porte in legno intagliato ed ariose verande. Ed è a Oranjestad che attraccano le navi crociera dalle quali, ogni anno, scendono oltre 500.000 crocieristi che vengono inghiottiti dai negozi e centri commerciali sul lungomare e dai piccoli bar, ristoranti e boutique nel cuore della ridente cittadina. Im-

use the Aruban Florin. The Queen Beatrix International Airport is close to the capital Oranjestad, a pint-sized historical city with typical Dutch-Aruban style pastel houses combining sloping tiled roofs, carved wooden doors and airy open galleries. Cruise ships dock at the terminal in Oranjestad which is a sort walk away from the capital’s air-conditioned malls, shops, restaurants and bars into which spill over 500,000 cruise passengers every year. It’s impossible to

La costa settentrionale possibile annoiarsi ad Aruba. Per gli amanti degli sport acquatici c’è la possibilità di esplorare importanti siti subacquei e relitti della seconda guerra mondiale in acque che si aggirano fra i 25° e i 26° tutto l’anno. Si può praticare anche lo Snuba scendendo sott’acqua, collegati ad un lungo tubo, connesso ad un serbatoio da sub posto su una zattera che segue gli spostamenti di chi sta sul fondale marino permettendolo di respirare e muoversi liberamente senza l’obbligo di indossare pesanti e ingombranti attrezzature. Poi c’è il Sea Trek, un sistema che permette di camminare sui fondali indossando un casco da palombaro. E poi c’è la pesca d’altura, il kayaking, il kite surfing, il wind surfing e le crociere in sottomarino. Sull’isola ci sono due campi da golf, La Tierra

be bored on Aruba. Water lovers will delight in the wide range of sports. Divers will discover underwater sites and WW2 wrecks in the waters which are soupy-warm all year round. Visitors can also have fun with the Snuba, going underwater linked to a long tube, which is attached to an oxygen tank that sits on a raft and follows their movements along the seabed, making it possible to breathe and move freely without having to put on heavy diving equipment. And then there is the Sea Trek, which entails putting on a diver’s helmet to walk along the seabed. The island has three golf courses, the La Tierra del Sol and Aruba Golf Club with 18 holes, and the 9-hole The Links at Divi Aruba, and then there is deep-sea fishing, kayaking, kite surfing, wind surfing and

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del Sol con 18 buche e il Divi Aruba con 9. Per chi di cultura non è mai sazio, basta girovagare a Oranjestad per ammirare l’architettura, i monumenti e curiosi musei come il Museo Numismatico, il Museo dell’ Antichità, il Museo della Bibbia, il Museo dell’Aloe, e il Museo dei Trenini Modello. Gli amanti della buona tavola si renderanno presto conto che sull’isola c’è l’imbarazzo della scelta quando si tratta di pasteggiare, e apprezzeranno l’ottima birra locale, la Balashi. Per i nottambuli all’imbrunire l’isola si anima e la movida arubiana prosegue fino alle ore piccole nei locali e ristoranti lungo le spiagge, nei casinò e nei teatri dove si può assistere a stravaganti spettacoli in perfetto stile Las Vegas. Chi alle spiagge privilegia la campagna troverà, nel centro dell’isola, campi coltivati, stradine di campagna, piccole

submarine cruises. Culture vultures will love the local architecture, the monuments and the many unusual museums which include the Numismatic Museum, Antiquity Museum, Aloe Museum, Bible Museum and Model Trains Museum. Gourmets are supremely well catered for and, indeed, there are restaurants to suit all tastes on the island while a must-try is the excellent local Balashi beer. Night owls will appreciate the night life which goes on well into the small hours in the bars and restaurants along the beaches, in the many casinos and in the theatres which put on shows as spectacular as any Las Vegas extravaganzas. For those who crave the countryside the centre of the island is charming with a laid-back bucolic air, cultivated


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La capitale Oranjestad

aziende agricole e una tranquillità bucolica d’altri tempi. Poi c’è il Cunuco Arubiano, l’unico Small Luxury Hotels of the World sull’isola, un eco-resort boutique a Santa Cruz con tre piccole casitas colorate in stile olandesearubiano, una rossa, una azzurra, una gialla, una piscina e una vineria con oltre 500 etichette. A cinque minuti da una piccola baia privata e dieci minuti dall’aeroporto, il Cunucu (che significa campagna in papiamento) confina con l’Aruba Donkey Sanctuary che si può visitare anche se sono gli asinelli a fare visita agli ospiti, specialmente la sera quando si schierano dietro il recinto ed aspettano con pazienza qualche ghiottoneria offerta dagli ospiti del Cunuco. Quali le più belle immagini da portare via con sé dopo una vacanza sull’isola? Molte di più di quante si possano contare sulle dita di una mano,

Un’isola felice

fields, country roads and small farms. And then there is Eddie Paris’s Cunuco Arubiano, the only Small Luxury Hotels of the World on the island, a boutique eco-resort in Santa Cruz with three charming casitas in old Aruban style, one red, one blue and one yellow. The Cunuco (the name means countryside in Papiamento) also has a swimming pool and a wine cellar with over 500 international wines. It is just five minutes from a private cove, ten from the airport and is next to the Aruba Donkey Sanctuary which can be visited. Although it is the donkeys who usually visit the Cunucu’s guests, lining up behind the fence at sundown, hoping to be fed some tasty titbits. Which images do you take away with you after a holiday on Aruba? More than you could possibly count,

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BONBINI! Benvenuti ad Aruba - BONBINI! Welcome to Aruba ma una delle più suggestive è quella dell’albero nazionale, il nodoso divi-divi, la chioma verde scura scolpita dei caldi venti alisei, che si staglia contro un cielo e un mare di un azzurro strepitoso. E poi, come dimenticare i sorrisi contagiosi degli arubiani, e il loro saluto: Bonbini, benvenuto! Aruba. Impossibile dimenticarla. •

but one of the most memorable will be of the solitary gnarled divi-divi trees, their wind-sculpted foliage silhouetted against outrageously blue skies and seas. And then, of course, there are the infectious smiles of the happy, friendly islanders whose greeting is Bonbini, welcome! Aruba. Impossible to forget. •

Aruba Tourism Authority www.aruba.com Glennie Tromp - Marketing Executive g.tromp@aruba.com

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Un paradiso per gli sportivi


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PRIMI IN ESPERIENZA, PRIMI IN QUALITÀ


DANCALIA inferno geologico tra sale e vulcani Testo di - Words by Anna

Maria Arnesano foto di - photos by Giulio Badini

E

sistono ancora sulla terra regioni sconosciute, o quanto meno sconosciute fino a ieri e comunque ancora poco note, dove il turista intraprendente possa sentirsi un esploratore, o almeno un pioniere? In Dancalia tutto questo può avvenire. Sul lato orientale del grande acrocoro dell’Etiopia, costituito da enormi montagne basaltiche alte fino ad oltre 4.000 m. a formare la maggior massa di rocce vulcaniche ed i più estesi altopiani del continente africano, si sviluppa la vasta depressione della Dancalia (grande quasi un terzo dell’Italia), un deserto atipico formato da sabbie, colate di lava, vulcani attivi e spenti, manifestazioni vulcaniche secondarie, laghi salati ed enormi distese di sale che costituisce uno dei luoghi più caldi e inospitali della terra, oltre ad uno dei punti più bassi sotto il livello del mare, dove si ha la sensazione di trovarsi su un altro pianeta e non nel cuore dell’Africa orientale, a non eccessiva distanza dalle acque del Mar Rosso. Ma anche un luogo estremamente affascinante e reale per gli amanti dell’avventura, dell’esplorazione geografica e dell’ignoto, del tutto sconosciuto dalle carte geografiche fino ad 80 anni fa e dove ancora oggi non risulta facile avventurarsi e neppure scevro di pericoli (tanto che occorre andare con agenzie specializzate in convoglio e con permessi, accompagnati da guida locale e scorta armata e ci si può accampare soltanto presso i posti di polizia), dove si può riscontrare meglio di qualsiasi altro posto i risultati di sconvolgenti avvenimenti geo-

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Vulcano Erta Ale

DANCALIA a geological hell of salt and volcanoes Are there still unknown regions in the world, or rather, regions that are not too well known where the enterprising tourist can feel he is an explorer, or at least a pioneer? In Dancalia this is possible. On the eastern side Ethiopia’s highlands consisting of a massive range of basalt mountains that soar to over four thousand metres, forming the largest mass of volcanic rock and the most extensive highlands on the African continent, we find Dancalia (which is almost one third the size of Italy), an atypical kind of desert consisting of sand, lava flows, active and dormant volcanoes, salt lakes and humongous expanses of salt, making it one of the hottest and least hospitable places on earth, as well as one of the lowest below sea level. Here you really do feel you are on another planet rather than in the heart of Africa, and no great distance from the Red Sea Yet it is an extremely fascinating and real place for travellers seeking adventure, geographical exploration and the unknown, as it was not even on maps until 80 years ago. And still today it is not an easy place, and it is not without dangers, in fact visitors must use one of the agencies that specialize in convoys and permits, they also tour with armed escorts and have to sleep next to police stations. But here, as in no other place on earth, is it possible to discover the outcome


logici del passato e quelli in preparazione per il futuro. In questo deserto di lava e sale non piove praticamente mai, da sempre, la temperatura in estate arriva ai limiti della sopportazione umana (50°C, ma con punte record fino ad 81), l’unica acqua potabile proviene da profondi pozzi in quanto i laghi sono tutti salati o salmastri e l’unico fiume si perde evaporando nelle sabbie. Viene da chiedersi come in presenza di simili condizioni ambientali estreme possano sopravvivere una stentata vegetazione con alberi di acacie, euforbie e dracene, una fauna peculiare con asini selvatici, zebre di Gravy, gazzelle, orici, struzzi e otarde e, soprattutto, come possano viverci gli afar, una scorbutica popolazione di pastori nomadi che rimediano il pasto allevando capre e cammelli e estraendo e trasportando sull’altopiano lastre di sale. La Dancalia, che costituisce il tratto sommitale africano della grande spaccatura tettonica della Rift Valley, fino al 1928 risultava inesplorata: venne attraversata per la prima volta da una spedizione italiana che impiegò 4 mesi e un sacrificio di 5 vittime; tutti i numerosi tentativi precedenti erano finiti miseramente per le condizioni climatiche e la feroce ostilità degli afar. Sicuramente in un lontano passato le condizioni non dovevano essere però così proibitive, se hanno permesso la vita a Lucy, l’australopiteco fossile considerato il più antico antenato umano vecchio di 3,5 milioni di anni, scoperto presso Hadar assieme ai resti di scimmie antropomorfe risalenti a 10 milioni di anni fa e a quelli di elefanti, coccodrilli e ippopotami fossili. La depressione dancala, lunga 500 km e larga 150, costituisce la parte settentrionale africana della Rift Valley. Quaranta milioni di anni or sono Africa e penisola arabica erano unite in un unico continente. Poi un’enorme faglia, prodotta dalla deriva delle zolle continentali che in questo punto tendono ad allontanarsi, provocò il distacco attraverso una fossa che fu subito invasa dalle acque dell’oceano Indiano a formare il Mar Rosso. Attraverso il golfo di Zula, poco a sud della città eritrea di Massawa, le acque penetrarono anche nella depressione dancala formando un vasto golfo interno. Sette milioni di anni fa una nuova faglia diede il via alla Great Rift Valley, una fossa tettonica nella superficie terrestre lunga oltre 5.000 km e larga in media 100, che dalla Siria entra nel mar Morto e nel golfo di Aqaba, scende lungo il Mar Rosso fino a Massawa dove entra in Africa attraverso la Dancalia, scende lungo la depressione dei laghi etiopici fino al lago Turkana, poi attraversa Kenya e Tanzania per concludersi in Mozambico. Non è un caso che questa frattura superficiale nella crosta terreste abbia restituito i più abbondanti resti fossili di ominidi e antenati umani. Sul fondo del Rift, disseminato di manifestazioni vulcaniche attive o passate, la crosta terrestre ha uno spessore non superiore ai 20 km, contro una media altrove di 100, ed i bordi tendono ad allontanarsi di qualche millimetro all’anno. Tra qualche milione di anni il Rift determinerà immancabilmente la formazione di una nuova isola-continente, staccando il Corno d’Africa dal continente nero, che galleggerà nell’oceano Indiano verso est come il Madagascar, ma più a nord. L’esplorazione della Dancalia è stata ritardata rispetto ad altre regioni africane

of past geological upheavals and observe what will occur in the future. It practically never rains in this desert of lava and salt, in summer temperatures reach unbearable levels (50°C, but with record highs of 81), the only drinking water comes from deep wells as the lakes are all salty or brackish, and the only river evaporates in the sands. You can not help wondering how, in such extreme environmental conditions, even a scrubby vegetation can exist with acacia, spurges e dracaenas, as does a peculiar fauna of donkeys, Gravy zebras, gazelles and oryx, ostriches and bustards and, even more important, how the Afars can survive there. They are a people of surly nomad farmers whose livelihood depends on raising goats and camels and extracting and transporting slabs of salt to the highlands. Up to 1928 Dancalia, which is the highest African part of the great tectonic Rift Valley, had not been explored and was crossed for the first time by an Italian expedition which took four months and left five dead. All the numerous previous attempts had ended miserably both due to the climate and to the hostile Afars. It is more than likely that in a far-distant past the conditions were not so prohibitive as it was here that Lucy, the Australopithecus fossil considered man’s most ancient ancestor, dating back some 3.5 million years, once lived. The fossil was discovered near Hadar together with the remains of anthropomorphic monkeys, dating back 10 million years, as well as fossils of elephants, crocodiles and hippopotami. The Dancalia depression, which is 500 kilometres long and 150 wide, is the northernmost part of the Rift Valley. Forty million years ago Africa was joined to the Arabian peninsula and formed a huge continent. Then a rift was produced when the continents drifted apart, creating a huge pit which was immediately filled by the waters of the Indian Ocean, forming the Red Sea. Through the Gulf of Zula, which is just south of the Eritrean city of Massawa, the waters also penetrated into the Dancalia depression, forming a massive internal gulf. Seven million years ago a new tectonic rift formed the Great Rift Valley, a tectonic depression which is 5,000 kilometres long and on average one hundred kilometres wide and which, from Syria enters the Dead Sea and the Gulf of Aquaba before descending the Red Sea to Massawa where it enters Africa through Dancalia. It then continues along the depression of the Ethiopian lakes to Lake Turkana, crosses Kenya and Tanzania and comes to an end in Mozambique. It is not by chance that in this superficial fracture of the earth’s crust so many fossils and remains of hominids and human ancestors have been uncovered. On the bottom of the Rift, with its scattered active and extinct volcanoes, the earth’s crust is no more than 20 kilometres deep against an average of a hundred, and the edges tend to move apart by a few millimetres each year. So, in a few million years the Rift will inevitably form a new island-continent, breaking away from the African Horn and floating eastwards in the Indian Ocean like Madagascar, only further north. The exploration of Dancalia occurred late compared to other African regions due to the presence of the Afars, an impoverished but proud, independent and ferocious

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DANCALIA inferno geologico tra sale e vulcani

Dallol, vasche e concrezioni minerali

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dalla presenza degli afar, una popolazione poverissima ma fiera e indipendente, feroce e restia a qualsiasi tipo di contatto esterno, dove il maggior vanto sociale per gli uomini risiede nel numero di nemici uccisi o evirati, intendendo per nemici chiunque non appartenga al loro ristretto clan familiare. Numerose spedizioni nel 1800 ed all’inizio del 1900 finirono tragicamente nel sangue, ed ancora oggi i turisti che osano avventurarsi debbono essere scortati da guide locali e guardie armate. Di pelle scura e rossastra, i capelli lanosi ricci e ondulati, di elevata statura e naso stretto, le donne afar sono molto belle nei loro ampi drappi colorati di cotone che mettono in risalto

population which does not welcome any kind of external contact, the men’s social boast being the number of enemies they have killed or emasculated. And by enemies they mean anyone who does not belong to their immediate family clan. In the 1800s and early 1900s many expeditions ended tragically in bloodbaths, and still today those tourists who do dare to come here must be escorted by local guides and armed guards. The Afar women are tall and very beautiful with dark and reddish skin, long woolly wavy hair and slim noses. And their voluminous coloured cotton robes emphasise their amber-shaded statuesque figures and luminous faces, while the adolescents plait their


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i corpi statuari ambrati e la luce dei volti, le adolescenti con treccine e a petto nudo, tutte ricoperte da bracciali, collane, orecchini e amuleti. Molte presentano tatuaggi e scarificazioni tribali. Gli uomini, assai vanitosi, portano un inseparabile coltello ricurvo in un fodero al fianco e viaggiano sempre armati di bastone e fucile. Donne e bambini abitano entro capanne emisferiche ricoperte da stuoie vegetali, facilmente trasportabili, mentre gli uomini dormono sorvegliando le mandrie, loro unico patrimonio. Sono blandi musulmani e animasti al tempo stesso, poligami, si sposano spesso tra cugini e per prestigio sociale uomini e donne debbono avere pi첫 amanti. Ad un turista

hair, go bare-breasted and cover themselves with bracelets, necklaces, earrings and amulets. Many of them are tattooed and have tribal carvings on their skin. The men, who are quite vain, always carry a curved knife in a scabbard at their side and are always armed with sticks and rifles. The women and children live in hemispherical huts covered with mats made from endemic vegetation which are easy to transport, while the men sleep watching over their flocks, which are their only asset. They are bland Muslims and animists and they are polygamous. It is not unusual for cousins to marry, and as a sign of social prestige both the men and the women must have numerous lovers. Dancalia has

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DANCALIA inferno geologico tra sale e vulcani colto e curioso la Dancalia ha parecchio da offrire, perché costituisce uno dei musei naturali più interessanti per l’osservazione delle morfologie tettoniche, passate e future. Si comincia dal parco nazionale del fiume Awash, poco sotto la capitale Addis Abeba, un contesto di foreste e savane con canyon e cascate abitato da una ricca fauna, e dal lago Afrera, uno specchio di acque verdi salate circondato da colate di basalti neri e da sorgenti termali situato

much to offer the cultured and curious tourist as it is one of the most interesting of Mother Nature’s museums, a wondrous place in which to observe tectonic morphology, both that long past and that still to occur. The starting points are the river Awash national park, not far from the capital Addis Ababa, with its forests and bush, canyons, waterfalls and abundant fauna, and Lake Afrera with its green salty waters surrounded by black basalt lava flows and thermal

Donne afar e uomo del Tigray

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100 m sotto il livello del mare. Si raggiunge facilmente il vulcano Erta Ale, il monte che fuma, il più spettacolare di una serie di crateri attivi alti sui 600 m allineati lungo una faglia, uno dei tre luoghi al mondo dove è possibile ammirare a cielo aperto un lago di lava in perenne ebollizione a 1.200°C, in quanto questo fenomeno avviene di solito nelle profondità marine. La visione notturna della lava incandescente costituisce uno spettacolo unico e straordinario. Attraverso sporadiche oasi di palme dum e colate di lava si arriva al lago Assale, lago mobile salato che si sposta con i venti, e al cratere vulcanico di Dallol, uno dei punti più caldi e bassi della terra (-116 m), un universo minerale di sorgenti geyseriane che producono stupendi laghetti con incredibili concrezioni e cristalli di cloruri di

springs some hundred metres below the level of the sea. It is not difficult to get to Erta Ale, the smoking mountain, the most spectacular of a series of active craters around 600 metres high, aligned along a rift and one of the three places in the world where it is possible to see a lake of lava that constantly boils at 1.200°C, as this is a phenomenon which usually takes place under the sea. To observe this incandescent lava at night is indeed a rare and extraordinary spectacle. Through sporadic oases of palms and lava flows you get to Lake Assale, a mobile salt lake which moves with the winds, and to the Dallol volcanic crater, one of the hottest and lowest points on the planet (-116 m), a mineral universe of geysers which produce stunning little lakes with incredible concretions and potassium-chloride, sodium and


potassio, sodio e magnesio dai colori psichedelici, in un intenso afrore di zolfo. Il vulcano ha anche costruito una distesa di guglie dalle diverse forme e dimensioni e dai colori intensi, quasi a formare una città fantasma e fantastica di roccia. La contigua Piana del Sale è un’immensa pianura salina lunga 200 km, un arido e rovente deserto di salgemma a perdita d’occhio, dove da sempre afar e tigrini estraggono blocchi di sale che trasportano poi

magnesia crystals in psychedelic colours, which is enveloped by an intense reek of sulphur. The volcano has also created an area of brightly coloured spires of varying forms and sizes, a kind of fantastic rocky ghost town. The adjoining Salt Plane is an immense salt flat some 200 kilometres long, an arid and scorching desert of rock salt which stretches as far as the eye can see, and where the Afars and the Tigrines extract huge salt boulders which they then car-

sull’altopiano etiopico con enormi carovane di dromedari, composte anche da duemila quadrupedi uno dietro all’altro. Lo storico egiziano Kosmos scriveva nel VI sec. che i re di Axum scambiavano il sale con l’oro. Non costituisce affatto un caso che la Dancalia possieda uno dei maggiori depositi salini della terra. In lontane epoche la depressione costituiva infatti un braccio laterale del Mar Rosso; poi sconvolgimenti geologici bloccarono l’accesso del mare e il lago evaporò, lasciando sul fondo strati di salgemma spessi diverse centinaia di metri. Si risale quindi per 2.000m l’altopiano assieme alle carovane bibliche del sale per raggiungere la regione del Tigray e il capoluogo Mekele (la Macallè italiana), dove visitare qualcuna delle misconosciute chiese rupestri ortodosse di Gheralta, risa-

ry up to the Ethiopian highlands with enormous caravans of camels and dromedaries consisting of up to 200 animals who plod along in line, one after the other. Kosmos the Egyptian historian wrote in the 6th century that the kings of Axum used to exchange salt for gold. And indeed Dancalia has one of the world’s largest salt flats. In distant times the depression was a lateral branch of the Red Sea before geological upheavals blocked the access to the sea and the lake evaporated, leaving on its bottom layers of rock salt many hundreds of meters deep. Having climbed 2,000 metres up to the highlands, along the route taken by the Biblical salt caravans to the Tigray region and the main town Mekele (Macallè in Italia), it is possible to visit some of the littleknown Orthodox rock churches in Gheralta, the oldest of

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Piana del Sale, estrazione

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lenti le più antiche al IV-VI e le altre al IX-XV secolo, sconosciute fuori dalla regione fino al 1960, certo meno imponenti di quelle più famose di Lalibela ma ricche di elementi architettonici di pregio e di commoventi pitture. In volo si rientra infine ad Addis Abeba, per una visita alla città e al suo pregevole museo antropologico e etnografico.•

which date back to the 4th-6th centuries with others dating to the 9th-15th centuries. Up to 1960 they were unknown outside this region and, while not as striking as the more famous churches in Lalibela, they have many interesting architectonic elements and moving rock paintings. A flight brings us back to Addis Ababa to visit the city and its fascinating anthropological and ethnographic museum.•

L’operatore milanese “I Viaggi di Maurizio Levi” (tel. 02 34 93 45 28, www.deserti-viaggilevi.it), specializzato con il proprio catalogo “Deserti” in viaggi e spedizioni nei deserti di tutto il mondo, è uno dei pochi a proporre in tutta sicurezza una spedizione esplorativa in Dancalia di 14 giorni, toccandone tutti i punti più rilevanti.

The Milan-based tour operator I Viaggi di Maurizio Levi (tel. 02 34 93 45 28, www.deserti-viaggilevi.it) is specialized in deserts all over the world which are in its Deserts catalogue. It is one of the few agencies to propose safe 14-day expeditions to Dancalia touching on all the region’s most important attractions.

Carovana del Sale



SUDAN

concerto tra le piramidi di Meroe

Testo e foto di

Romeo Bolognesi

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er la prima volta nella sua storia millenaria, il 7 e 9 dicembre 2011 tra le aguzze piramidi della necropoli reale di Meroe in Sudan, appena riconosciuta dall’Unesco come patrimonio dell’umanità, risuoneranno le note di un concerto sinfonico. Ad eseguirlo il Quintetto di Venezia, due violini due viole e un violoncello, un apprezzato en-

semble di strumentisti provenienti dal Conservatorio lagunare con esperienze concertistiche in tutto il mondo e collaboratori con alcune delle più importanti orchestre sinfoniche italiane e straniere, specializzati nel repertorio classicoromantico austro-tedesco. In programma infatti musiche di W. A. Mozart (KV 164 e 516), che ben si adattano all’ambiente. A proporlo il

tour operator milanese “I Viaggi di Maurizio Levi” (tel. 02 34 93 45 28, www.deserto-viaggilevi.it), unico in Italia con il proprio catalogo “Deserti” specializzato in viaggi e spedizioni nei deserti di tutto il mondo, che nel cuore del deserto della Nubia sudanese gestisce le uniche strutture turistiche ricettive del paese. L’iniziativa, nata dall’incontro tra appassionati di musica e di deser-


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Piramidi nella necropoli reale di Meroe

to, ha anche un intento umanitario: donare un pozzo attrezzato alla popolazione del vicino villaggio rurale di Bagarawiaz, tuttora costretta ad attingere per le loro necessità idriche alle acque inquinate del Nilo. Unica possibilità in Italia per assistere a questo evento eccezionale di estrema suggestione, per la straordinaria ambientazione tra le rosse dune di sabbia, le svettanti piramidi meroitiche e un’incredibile volta stellata, è di partecipare ad uno degli itinerari in fuoristrada tra i tesori archeologici nascosti nel deserto nubiano predisposti da Viaggi Levi in quel periodo. Si può scegliere tra Il regno dei Faraoni Neri, tour di 9 giorni con pernottamenti in hotel e campo tendato fisso in partenza il 4 dicembre (quote da 2.840 euro), Antica Nubia Express, viaggio-spedizione tutto in tenda di 9 giorni in partenza il 4 dicembre (quote da 2.180 euro) e Magica terra millenaria, tour di 16 giorni in alberghi e tenda con partenza il 25 novembre (quote da 3.080 euro). Meroe, una delle più importanti città antiche dell’Africa sahariana, fu la capitale meridionale del regno di Kush tra l’800 e il 350 a.C., e poi capitale del regno omonimo, esteso dall’Etiopia all’Egitto, fino al 300 d.C. Ubicata nel deserto nubiano nell’ansa for-

mata tra la quinta e la sesta cateratta del Nilo, dovette la sua fortuna economica all’avanzata metallurgia ed all’intenso commercio tra Mediterraneo, Africa nera, penisola arabica e Asia. La sua necropoli reale, attiva per 600 anni, conta alcune centinaia di piramidi, la maggior concentrazione al mondo di questo tipo di monumento funerario (l’Egitto arriva in tutto a 120), parecchie decine giunte fino a noi in buono o discreto stato di conservazione, nonostante le depredazioni antiche o recenti subite da parte di cercatori di tesori. Le piramidi meroitiche divergono parecchio dalle più famose consorelle egizie: assai più recenti, parecchio più piccole (alte non più di 10-20 m) ma anche più aguzze e svettanti, con pareti inclinate di 70° (contro i 40-50° delle egiziane), e ancora in costruzione quando quelle egizie erano già in rovina. Inoltre quelle nubiane non contengono al loro interno la camera funeraria, perché faraoni, regine (le potenti Candaci) e principi venivano sepolti al di sotto con i loro ricchi corredi e a volte in compagnia di concubine, dignitari, schiavi e animali, mentre sul davanti presentano un tempietto quadrato con le pareti istoriate da bassorilievi narranti le gesta del defunto.•

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Città

Toronto

simbolo della civiltà sociale

Murales a Kensinton

T

Testo e foto di

Marco De Rossi

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oronto – Se non fosse per il clima infame, (anche – 30 l’inverno e + 35 l’estate), Toronto sarebbe una delle città più vivibili del mondo. Di fatto lo è, dato che nell’apposita classifica si piazza sempre ai primissimi posti, insieme a Vancouver e Montreal. Superato l’impatto clima, l’unico vero handicap (almeno per gli italiani), si parte alla scoperta di una città che, grigia all’apparenza, si rivela invece multicolore. E quella che sembra una normale metropoli nordamericana, solo cemento, grattacieli e asfalto, piena di formiche umane che camminano a testa bassa con le cuffiette dell’ipod o del cellulare per isolarsi dal mondo, è invece una città “altra”. La prima cosa di cui ci si accorge è la bellezza della razza umana. Niente a che vedere con la moltitudine di obesi cellulitici che popola gli agglomerati urbani del Nordamerica.

Toronto è la città più multiculturale del mondo, priva di quelle enclave etniche che di fatto creano delle città nella città, veri ghetti di isolamento umano. Sono 200 le etnie e 140 le lingue censite. A Toronto si vive tutti mescolati, ci si incrocia a letto e si nasce migliorati (nell’estetica), è il collaudo empirico della legge di Mendel. La tradizionale esilità della popolazione asiatica, ad esempio, stempera la tendenza degli anglosassoni all’ipertrofia, e i risultati si vedono, anche perché la popolazione è mediamente giovane. Disoccupazione quasi inesistente, alla faccia della crisi globale, e qualità della vita elevata fanno di Toronto una meta molto ambita. Parchi, giardini, musei, metropolitana e rete tranviaria efficientissime, la città sotterranea più grande del mondo dove trovare ricovero l’inverno, sanità pubblica gratuita, diritti civili e personali fra i più garantiti del mondo. “E vietato dalla legge chiedere ad una persona

che affronta un colloquio di lavoro se è single o coniugata, se ha figli o pensa di averne”, ci dice Bruno Colozza, un italiano di seconda generazione, padre molisano e madre ciociara, che gestisce tre bar, adora l’Italia ma non la-scerebbe mai Toronto. Appoggiata sulle rive del lago Ontario, la capitale dello stato omonimo guarda i dirimpettai statunitensi con una punta di snobismo. A ragione, peraltro. Se a livello di tolleranza razziale e religiosa Toronto è una città faro nel mondo, anche per quanto riguarda la godibilità tiene alta la bandiera. Il “Toronto film festival” e il “Jazz festival” sono i fiori all’occhiello di una città che ha una vita culturale movimentatissima, come peraltro la sua collega francofona, Montreal. Certo, non ha neanche 200 anni, e il turista non può aspettarsi di trovare il Colosseo o la Torre di Londra. Ma alla mancanza di monumenti e meraviglie architettoniche del passato la metropoli cana-


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dese (4 milioni di abitanti) rimedia con una vita post-lavorativa effervescente per cui, una volta esaurite le visite d’obbligo, come il Royal Ontario Museum, il Bata Museum (è il museo delle scarpe, ma vale la pena) , il “castello dei sogni Casa Loma”, la Hockey Hall of fame, per gli appassionati, la Bc tower, mostro cementizio dove si può pranzare nel ristorante girevole a 400 metri di altezza, un giro sul lago, una sosta sul boardwalk ad ammirare il tramonto sull’acqua, ci si può dedicare a scoprire la città dal basso: i suoi mille negozi, assai convenienti (tanto per dire: i prodotti Apple costano dal 10 al 30% in meno), la tipica Chinatown piena di cianfrusaglie e ortofrutta, e Kensinton, colorato quartiere freak che ricorda molto da vicino la Carnaby Street londinese degli anni ‘70. E poi, da non mancare, un bel giro nel West Queen West, un quartiere rimesso a nuovo e assai trendy, pieno di gallerie d’arte e piccole botte-

cristalli

ghe di artigiani-stilisti, che espongono pezzi unici di abbigliamento a prezzi contenuti. Occhio alle pasticcerie, ce ne sono di deliziose. Il West Queen West viene chiamato Design District, e si estende per 15 isolati fra Bathurst Street e Gladstone Avenue. Da non mancare la visita a due alberghi “anomali”, il Gladstone e il Drake Hotel. Perché oltre ad esercitare la loro normale funzione alberghiera, peraltro a prezzi assolutamente abbordabili, sono gallerie d’arte permanenti. Nelle loro sale, nei corridoi, nella lobby, nel bar,

Toronto multietnica

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Toronto simbolo della civiltà sociale sono esposti quadri, fotografie, istallazioni di artisti contemporanei. Il Gladstone è il più antico albergo della città, ha una sofisticata atmosfera retrò, tutto legno e parquet, ed ogni stanza è stata arredata da un diverso designer. Stesso discorso per il Drake, arredato in perfetto stile America anni ’60, molto vintage, frequentato da appassionati di arte e musica. Da non mancare un aperitivo sulla terrazza. Oltre al cemento, non si può dire che a Toronto manchi il verde. Molti i parchi cittadini, curati come reliquie, ma basta uscire dalla cinta urbana per immergersi in una natura lussureggiante. Una curiosità: per bonificare le brutture cittadine, due giovani designer hanno dichiarato una guerra floreale ai poster abusivi che ricoprono pareti, semafori, lampioni. Il manifesto si taglia, si apre, si riempie di terra e si semina, diventando

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La coesistenza delle epoche

una istallazione verde (posterpo-cketplants.blogspot). Dunque, tornando alla natura, non può mancare un giro alle cascate del Niagara, le più famose del mondo, anche se non le più belle. Un’ora di viaggio e si arriva sul luogo, notevolmente devastato da mostri di cemento che non hanno nulla da invidiare alle Vele di Napoli. Ma le cascate sono un affare miliardario, migliaia di visitatori al giorno affollano l’area, vengono stipati come sardine nei vaporetti turistici, fanno la doccia sotto le cascate e tornano a casa felici. Quindi, bisogna andare, non farlo sarebbe peccato. Osservare comunque con occhio critico. Decisamente interessante, invece, un bel giro nei deliziosi villaggi limitrofi e nelle cantine dei dintorni, dove si producono dei bianchi di ottima qualità. Dopodiché si può tornare a casa.•


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Incroci razziali

Collegamenti aerei dall’Italia: - Air Canada - Air Transat: Tiziana Della Serra REPHOUSE VIA ARISTIDE LEONORI 40 00147 ROMA. - tel 0659606512 airtransat@rephouse.it e airtransat.gruppi@rephouse.it Ufficio del turismo: www.seetorontonow.com Tour in autobus: www.torontotours.com Guida per il West Queen West: Betty Ann Jordan (bajordan@simpatico.ca, www.artinsite.com) In barca sul lago: Toronto Harbour Tours , 145 Queens Quay West (www.harbourtourstoronto. ca) Dormire: Gladstone Hotel, 1314 Queen Street West (www.gladstonehotel.com) Drake hotel: 1150 Queen Street West (www.thedrakehotel.com) Per i più esigenti il rinnovato Ritz Carlton, eccellente il ristorante: 181 Wellington Street West (www.ritzcarlton.com/en/Properties/Toronto) Mangiare: 11eleven restaurant: 15 York Street (www.11eleven.ca) Ciao wine bar: 133 Yorkville avenue (www.ciaowinebar.com) Ame, cucina giapponese moderna, ma non solo. Cameriere come modelle: 19 Mercer Street (www.amecuisine.com) Ultra restaurant: 314 Queen Street West, aperitivo in terrazza (www.Ultratoronto.com) Milestone’s Grill & Bar: 10 Dundas Street East (www.milestonerestaurant.com)

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Courchevel

vacanza sulla neve a 5 stelle Una stazione sciistica top level sulle Alpi francesi dell’Alta Savoia

Testo di

Viviana Tessa

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F

urono i battitori d’asta parigini i primi ad apprezzare i pendii innevati di Courchevel. Nell’ultimo dopoguerra, quando la voglia di rinascere era pressante. E qui, in questo angolo di Tarentaise, lo spirito mondano si esprimeva in cene e feste allestite dai primissimi, audaci albergatori. Un

lusso che quei gaudenti non sempre potevano permettersi, a meno di inviare, a saldo conto, mobili antichi e oggetti d’arte. Il passaparola nella Parigi-bene e nella borghesia savoiarda fece il resto. E il successo fu inevitabile. Eleganza, prestigio e professionalità, ereditati da quei pionieri dell’ospitalità con il bernoccolo degli affari,


fanno ancora oggi di Courchevel una meta ambita da sportivi esigenti i quali, da una stazione sciistica tra le cinque più importanti al mondo, pretendono un’accoglienza di alto livello. Quarantaquattro alberghi, di cui 11 a cinque stelle, 4 a quattro stelle lusso e 7 a quattro stelle. Al passo con Cannes, capitale della mondanità francese. Senza contare che, qui, anche le tre stelle sono di lusso, lustrate dall’atmosfera calda e coinvolgente che nasce dai legni e dal sorriso dello staff. Essenziale, in questi hotel, è il comfort e il servizio. Non solo il servizio tecnico, cioè l’efficienza, ma anche la disponibilità, il sorriso, il garbo di tutto il personale. L’attività sciistica si svolge tra le 9,30 e le 17; il resto della giornata, in hotel, deve poter essere vissuto all’insegna della piacevolezza e del benessere. Per legge, gli alberghi lusso o deluxe qui devono avere il centro fitness. Sauna, massaggi, Jacuzzi, a volte la piscina. Lo sanno bene gli albergatori di Courchevel i quali in altri lussuosi versanti come quello della Costa azzurra, accolgono la crema del turismo estivo visto che qui, la stagione è solo inverno.

NEVE E ANCORA NEVE Tutto nasce con la neve, dunque, a Courchevel. Sempre perfettamente battuta, grazie al silenzioso scivolare notturno di 34 gatti cingolati. Sempre abbondante, grazie ai 637 cannoni che ne fabbricano di fresca, tanto per aiutare la natura. Sempre sicura, grazie agli 80 sparavalanghe, sofisticati dispositivi di disinnesco radiocomandato delle valanghe. Seicento chilometri di piste con 311 discese da verdi a ripidissime nere nel circuito delle Tre Valli e 200 impianti di risalita, fanno di questo comprensorio sciistico, un’azienda altamente competitiva. Quanto alla Valle di Courchevel, che si snoda in una inconsueta spirale a 4 livelli di altitudine ( 13001550-1650-1850), la S3V ( Société des Trois Vallées) ha lanciato “Courchevel le club “ un legaccio più stretto con i clienti affezionati i quali vengono periodicamente

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Courchevel vacanza sulla neve a 5 stelle informati su condizioni e iniziative della stazione invernale. Compresi i programmi delle tre grandi scuole di sci in cui ben 700 maestri francesi si impegnano a trasformare sciatori impacciati in abili frequentatori di piste, anche delle 13 nere.

ACCOGLIENZA AL TOP LEVEL Sono tutti qui gli alberghi più lussuosi di Courchevel. Anzi, sono quasi tutti qui, gli alberghi, i ristoranti e i caffè. Al livello 1850. Al top. E non solo geograficamente. Courchevel 1850 è la classica ciliegina sulla torta. Una torta a quattro alzate. Qui, la neve è griffata. Qui si concentra la mondanità, il lusso, il cuore dell’ospitalità. Qui si alternano, in suggestiva scenografia, silhouette alberghiere e grandi chalet. Fu Madam Fenestraz la prima a volere, qui, uno

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chalet stile Gstaad, il villaggio di Bellecote. L’inizio di un leitmotiv architettonico sofisticato che disegnò il profilo ricco di Courchevel. Alcuni chalet degli anni Sessanta portano la firma dell’architetto futurista Denys Pradelle, con grandi vetrate e tetto piatto, a farfalla. Gli alberghi. Impronta calda, confortevole, elegante. Tutti a portata di piste. Quasi sempre si può uscire dall’hotel con gli sci ai piedi e agganciarsi allo skilift. Quasi sempre è possibile concedersi un pasto leggero nel ristorante annesso, con vista neve. Spesso le strutture sono immerse nel bosco, che isola e abbraccia in atmosfere fiabesche. L’alto livello dell’accoglienza a Courchevel è frutto di investimenti generosi e lungimiranti, se è vero che l’afflusso è sempre più elevato, anche riguardo

al target. Investimenti periodici e continui, per mantenere, rinnovare, ampliare.

L’EVOLUZIONE DEI 4 LIVELLI: 1300, 1550, 1650, 1850 All’inizio Courchevel era un paese, molto antico, ai piedi della montagna, la cui unica risorsa era l’agricoltura. In inverno gli abitanti rimanevano giù, in estate pascevano il gregge e facevano formaggi. Poi decisero di costruire dove la gente cominciava ad arrivare e salirono su fino ai 4 livelli. Tutti i livelli cominciarono ad essere abitati in estate, in cottage di campagna. Il livello 1850 è diventato il top, non solo geograficamente. I resort a Courchevel 1850 si sono sviluppati più degli altri. Dopo la guerra qui sorsero le più moderne strutture, alberghi a 4 stelle, ristoranti di lusso, 2 stelle Michelin. I turisti si selezionano da soli in base al livello dell’accoglienza. Gli alberghi al 1850 sono più cari perché più moderni, più confortevoli, più lussuosi. Praticamente quasi tutti gli alberghi sono in quest’area. Nel livello 1650 ci sono 3-4 hotels, nel 1550 gli alberghi sono solo 2. Tutti gli hotel sono di altissimo piano e il rapporto prezzo qualità è buono. Anche se ci sono 4 livelli, Courchevel è considerato un unico territorio, tutti lavorano per la stessa causa. Il 95% degli alberghi è aperto solo d’inverno, da Natale a Pasqua, cioè da dicembre ai primi di maggio. Questa è la ragione per cui la maggior parte degli albergatori di Courchevel ha un altro albergo estivo da un’altra parte, soprattutto in Costa Azzurra. Molti affezionati che ogni inverno vengono qui, hanno preso l’abitudine di andare d’estate in Costa Azzurra, presso lo stesso albergatore.• www.courchevel.com ENTE NAZIONALE FRANCESE PER IL TURISMO MAISON DE LA FRANCE Via Tiziano 32 – 20145 Milano Tel. 02 5848656 - fax 02 58486222 www.franceguide.com info.it @ franceguide.com



L’eccellenza della Val d’Aosta, la montagna Una regione che vanta quattro tra i monti più alti di tutta Italia ed Europa (Monte Bianco, Cervino, Monte Rosa e Gran Paradiso)

Testo di

Luisa Chiumenti

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’inverno in Val d’Aosta, a cominciare dalla Valle centrale diventa soprattutto la stagione delle località turistiche che si trovano alle quote più elevate, anche se soggiornare nei paesi del fondo valle permette di abbinare alle giornate di sport e neve quelle di riposo e cultura, ad esempio nei castelli, qui particolarmente numerosi. La stazione sciistica principale é Champorcher, nell’omonima valle, che offre un comprensorio sciistico di 21 km. di piste sempre ottimamente innevate e adatte ad ogni tipologia di sciatore, mentre i bambini hanno a disposizione il rinnovato Baby Park Laris con divertenti discese di snow tubing, una evoluzione della classica discesa con slittino che simula il percorso del più tradizionale e noto rafting sul fiume, sostituendo la neve all’acqua e un canotto circolare

mono o biposto al gommone. Come si allena il corpo standosene seduti su un canotto che scivola sulla neve? Si direbbe riposante. E invece gli addominali rimangono contratti per tutto il tempo e aiutandosi con l’equilibrio di braccia e gambe si aggiusteranno direzione e velocità, migliorando sia la coordinazione che il tono muscolare. E ancora, ecco la nuova pista di miniquad in cui i bambini possono cimentarsi in sella a un quad su misura per loro lungo un percorso dedicato, in totale sicurezza. Un parco giochi sulla neve, allestito per il divertimento insicurezza dei più piccoli é presente anche nella stazione del Col de Joux, poco oltre Saint Vincent, a cavallo con la Val Ayas. E percorrendo una delle strade più panoramiche della regione si raggiungono i 1640 m.s.l.m. del Col de Joux, antico ed importante passo di transito tra la


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valle centrale e le vicine valli d’Ayas e di Gressoney. Da parecchi anni vi si trova un interessante comprensorio sciistico, sempre bene innevato e servito da un moderno impianto di risalita. (Date le sue piste tecniche, la squadra nazionale francese di sci alpino lo ha, recentemente, scelto per gli allenamenti). E qui è stato anche allestito, per il divertimento in sicurezza dei più piccoli, uno snow park di nuova concezione. Il “Joux Park Giocaneve” offre percorsi con figure e ostacoli animati, archi, gonfiabili e tapis roulant per la risalita, mentre per gli sciatori, i 7 chilometri di piste di media difficoltà accontentano coloro che desiderano trascorrere una piacevole giornata con la famiglia o

abbronzarsi passeggiando tra bellissimi panorami. Durante tutto l’inverno, con innevamento artificiale per tutta la stagione, usando anche le racchette, ci si può anche addentrare nella magnifica foresta di abete rosso e larice, mentre ristoranti e bar ben attrezzati attendono gli ospiti per il dopo sci o il dopo passeggiata. Mete ideali per lo sci alpinismo e le racchette da neve in luoghi dove la natura ed il silenzio regnano sovrani, si trovano a Champorcher e il comprensorio di Verrayes, dove la pista Champlong si collega con quelle di Torgnon. E se é sempre molto bella l’esperienza di un Capodanno in Val d’Aosta con un appuntamento, ad esempio ai piedi del Cervino, con

una grande festa che vede protagonisti i maestri di sci, le Guide del Cervino, gli atleti degli sci club locali e tutti gli ospiti, con una suggestiva fiaccolata, sono davvero tante le esclusività di una vacanza ai piedi del Cervino. Si pensi alla curiosa possibilità, ad esempio, di salire a bordo di un gatto delle nevi e partecipare dal vivo alla battitura delle piste, dalla chiusura dei tracciati all’ora di cena e oltre, cullati dalle strane movenze di quelle particolari macchine che sanno sollevare vere e proprie onde di neve. Per concludere poi l’inusuale esperienza con una cena ad alta quota (ad esempio al Rifugio delle Guide di Plateau Rosà, m.3500) insieme ai “gattisti”,

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L’eccellenza della Val d’Aosta, la montagna ascoltando racconti di montagna, aneddoti e storie di un mondo che lavora attorno allo sci. E sempre attorno al Cervino, che dire di quelle splendide “Discese con la luna piena” , che vengono spesso organizzate, su iniziativa della Società Impianti Cervino S.p.A., con il nome accattivante di “Tintarella di luna” e seguite con grande successo dai turisti ospiti nelle serate invernali più nitide e limpide, allorché, dopo romantiche cene (grande cucina, calore e piacere di stare assieme, maestri e allievi, ospiti e gestori dei rifugi protagonisti di questa iniziativa unica nel suo genere), vengono proposte appunto le discese in notturna ai piedi del Cervino. C’é naturalmente sempre, a disposizione degli sciatori e di tutti gli ospiti, un elenco dei rifugi che aderiscono all’iniziativa, in corrispondenza di piste quali quella del “Ventina” o la pista “6” (zona Bontadini - Plan Maison, con arrivo in paese sul versante “Cretaz”), in ragione dei giorni scelti per la discesa con la luna piena. Il fascino del Cervino, come monumento naturale fu sentito da scrittori, poeti, artisti ed architetti in ogni tempo e fra questi ultimi é da menzionare una bella frase di John Ruskin, in cui viene menzionato come “Il più nobile scoglio d’Europa”. E se l’ Heliski é un moderno sport sulla neve che é possibile praticare a Cervinia, anche il comprensorio del monte Bianco si é attrezzato per questo, infatti se “Courmayeur é una delle capitali italiane dello sci fuori pista é anche “porta di accesso” al versante meridionale del Monte Bianco, il più selvaggio, ma anche l’unico dove si può praticare l’Heliski. E la proposta “Heliski sul monte Bianco” rappresenta un’occasione unica per vivere in sicurezza un ambiente di alta montagna tra i più spettacolari del panorama alpino. Ma l’inverno in Val d’Aosta invita anche alla cura del proprio benessere, con il programma del “Monte Bianco Benessere”, con cui viene abbinata l’esperienza della montagna con quella di speciali giornate al centro termale di Pré-Saint-Didier, celebre per le sue piscine esterne, dove sperimentare il contrasto fra il

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calore delle acque e l’ambiente invernale circostante. Le terme, definite “un gioiello che brilla nel cuore della Valle d’Aosta”, sono attive ai piedi del Monte Bianco, fin dal 1800 e sono un luogo senza tempo che offre una nuova filosofia del centro termale come luogo di benessere, relax, rigenerazione e rinascita, rifacendosi alla sapienza e alla tradizione delle antiche terme romane. VALLE D’AOSTA info +39 0165 236627 www.lovevda.it ENIT www.enit.it



Martina Franca Il trionfo del Barocco

“In ogni Paese del mondo ci sono gli abitanti del sud, i meridionali. Io sono tra questi. Una delle loro caratteristiche è la nostalgia del sud. Una nostalgia che si rivela assoluta. La si potrebbe paragonare alla forza inesorabile che sempre e dovunque obbliga l’ago della bussola ad andare in una sola direzione. L’ago della bussola va verso nord, la nostalgia del meridionale verso sud. Sempre e dovunque”. Vladislav Otrosenko

Testo di

Raffaella Ansuini

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legante cittadina che domina la valle d’Itria, a 431 m s.l.m., in provincia di Taranto, Martina Franca si caratterizza per l’armoniosa composizione architettonica che circoscrive il borgo antico. Ovunque ci si giri la città è animata da un raffinato spirito artistico e culturale. Uno spirito nato dall’e-

stro e dalla fantasia di scalpellini che fra girali, volute, cariatidi, putti, ghirlande e festoni hanno saputo esaltare la bellezza architettonica delle chiese, delle confraternite, dei conventi e dei palazzi signorili. La settecentesca porta di Santo Stefano, quasi un garbato arco di trionfo, con l’estrosità delle sue linee baroccheggianti, introduce nell’incantevole

borgo antico. Basterà varcare la soglia per essere travolti dalla vertiginosa e mutevole scenografia di piazza Roma, il principesco vestibolo del centro storico, contornata da diversi palazzotti edificati nel passato. Qui si erge Palazzo Ducale la cui facciata classicheggiante si armonizza con gli altri splendidi palazzi signorili che chiudono il singolare triangolo della


piazza. Palazzo Ducale, oltre a rappresentare il simbolo del potere dei Caracciolo, è soprattutto il simbolo della svolta culturale e artistica della città verso il Barocco. Fu costruito da Petracone V nel 1668, come ricorda la stessa incisione epigrafica sulla trabeazione, sul sito dove sor-

geva l’antico castello medievale dei principi Orsini di Taranto (1388). Il progetto della nuova dimora fu firmato dal bergamasco G.A. Carducci e avallato dal celebre Bernini, allora soprintendente del Regno di Napoli, quindi incaricato di visionare tutti i progetti. La facciata si presenta in

uno stile tardo-manieristico, perfettamente scandita da elementi verticali e orizzontali che riecheggiano i grandiosi disegni dei palazzi romani. L’interno di Palazzo Ducale è costituito da ben trecento stanze, destinate alla foresteria, all’appartamento reale e alla Galleria. Tre le

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MARTINA FRANCA il trionfo del Barocco stanze decorate a tempera, secondo un preciso disegno encomiastico, da Domenico Carella nel 1776, raffiguranti il Mito, la Bibbia e l’Arcadia. Il loro valore sul piano artistico è poco convincente ma sul piano storico è immenso. Di fronte al prospetto tardo-manieristico di Palazzo Ducale, dall’altra parte della piazza, di riflesso, si stende la facciata barocca del Palazzo Nardelli, già Martucci, la cui splendida balconata contornata da una balaustra con colonnine tornite, si affaccia obliquamente sulla piazza. Altri palazzi ottocenteschi in rosso pompeiano contornano l’altro lato. Al centro della piazza è collocata la Fontana dei Delfini, disegnata e scolpita nel 1934 da un maestro dell’arte della polvere bianca martinese, Francesco Corrente. Secondo alcuni storici la fontana fu il monumento celebrativo dell’allacciamento della città all’acquedotto pugliese. Attraverso un percorso pieno di piacevoli sorprese si giungerà in piazza Plebiscito che, secondo il sistema radiocentrico medievale, è il punto focale della città e splendida scenografia della basilica di San Martino, che alta e imponente, sovrasta il palazzo dell’Università e la torre civica. La Basilica rappresenta il vertice dell’architettura barocca di Martina Franca.

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L’edificio fu voluto dall’arciprete Isidoro Chirulli che nel 1747 fece abbattere la precedente chiesa romanica a tre navate per costruirne una nuova in stile Rococò. La progettazione fu affidata a un ingegnere bergamasco residente a Martina, Giovanni Mariani, mentre la scultura monumentale, che solennizza la verticalità della facciata e decora l’interno, è opera di Giuseppe Morgese e figli, originari del barese. Il nuovo tempio fu inaugurato il 22 ottobre del 1775 dal vescovo martinese Francesco Saverio Stabile. L’interno è caratterizzato da un’unica navata a croce latina che presenta, lungo i lati, cappelle gentilizie con altari e opere d’arte di pregio. Dalla piazza si diramano tutte stradine che vi condurranno alla scoperta del fascino e dell’estrosità del Barocco martinese che ha ben saputo integrare, nel corso dei secoli, i frammenti medievali con la stravaganza del Settecento e la classicità dell’Ottocento.• www.comune.martina-franca.ta.it www.viaggiareinpuglia.it www.itriabarocco.net ENIT - www.enit.it


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Archivio RN Nazzano, Tevere - Farfa


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TEVERE FARFA un itinerario nella Riserva Naturale Testo di

Luisa Chiumenti

Il fascino delle anse del Tevere e del Farfa, osservati dalle sponde dei due fiumi, attraverso la Natura rigogliosa della Riserva, rappresenta un’occasione speciale per avvicinarsi ad un territorio laziale di estrema ricchezza. La Riserva, nota anche come lago di Nazzano (Via Tiberina Km 28,100, in Località Meana), offre al visitatore

una piacevolissima giornata (facile e adatta a tutti), alla scoperta dell’ avvicendarsi delle stagioni in un contesto di grande relax, pur a pochi chilometri dal grande fermento della capitale. Si tratta della prima area protetta istituita nel Lazio nel 1979 ed una fra le prime istituite in Europa: in ogni stagione è affasci-

nante inoltrarsi in questa splendida Riserva, in un susseguirsi di paesaggi inediti, sempre rinnovati dalla Natura stessa e diversi l’uno dall’altro, a seconda della stagione prescelta. I percorsi tracciati con cura in comodi sentieri, aprono paesaggi non solo naturalistici, ma anche archeologici e geologici da superare sia a

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TEVERE FARFA piedi che in mountain bike o anche a cavallo, o con un battello che, che dal centro del Tevere permette di scoprire i profili dei numerosi borghi storici che costellano il profilo delle sponde. “Zona umida” di importanza internazionale, frequentata da moltissime specie di uccelli, la riserva offre, passeggiate che, su agevoli sentieri attraverso il bosco, fanno godere, attraverso soste opportunamente “guidate” della presenza di uccelli, visibili dai numerosi capanni di osservazione affacciati sui “chiari” della palude, vera e propria “palestra” per il birdwatching più interessante dell’Italia centrale. Tra i canneti sempre più estesi, formatisi nel tempo lungo le rive del lago, nato dallo sbarramento della Diga Enel dei primi anni ’50, a valle del torrente Farfa, si è formato l’habitat ideale di molte specie di uccelli come gallinelle d’acqua e porciglioni, tarabusini e cannareccioni, come pure lo Svasso maggiore (Podiceps cristatus) o altri animali, come la raganella o la nutria. E se i colori dell’autunno

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Archivio ARP - Foto di Vito Consoli permettono al visitatore di ottenere una gamma stupenda di colori ocra, marroni e grigi, in particolare d’inverno si possono incontrare anatre

Archivio ARP - Foto di Fabrizio Petrassi

a migliaia e vedere i germani e i mestoloni, che sostano qua e là, accanto a fischioni e moriglioni, alzavole e volpoche. Molti sono anche gli airo-


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ni cenerini, le oche, i falchi di palude e le poiane. I passi migratori caratterizzano invece la primavera e allora si possono vedere volare nel cielo della riserva anche il falco pescatore, o il cavaliere d’Italia (Himantopus himantopus), o le gru e le spatole. E per quanto riguarda le essenze arboree, il bosco igrofilo presenta salici bianchi e pioppi e ontani, e in primavera, rare orchidee palustri, vistosi e pur delicati gigli d’acqua, e ciuffi di equiseto. Ma anche le campagne adiacenti alle fasce fluviali mostrano un’ampia distesa di pascoli e boschi di querce che accolgono un altro tipo di fauna: dai tassi agli istrici, dagli sparvieri ai nibbi bruni, ai picchi, ai rigogli, oltre anche a diversi esempi di rapaci notturni. I diversi itinerari di un progetto previsto dal Sistema delle Aree Protette della Regione Lazio, offrono anche una accurata segnaletica, con pannelli informativi multilingua e, scaricabili in formato pdf, come le mappe con l’ indicazione dei diversi servizi disponibili (www.lestradedeiparchi. it). Con questo progetto in effetti, il progetto de “le strade dei Parchi”, ha inteso proporre al visitatore “un modo più lento e riflessivo” di percorrere il territorio e di assaporare la bellezza della sua Natura, coglien-

Archivio ARP - Foto di Vito Consoli

done ogni immagine, ma anche i profumi, gli odori e i sapori. E non manca anche l’ opportunità di fare assaggiare prodotti tipici del Lazio di cui viene effettuata la lavorazione all’interno della Riserva stessa. La vasta area palustre che caratterizza la Riserva, venuta a formarsi nel tempo alla confluenza tra il Tevere e il Farfa, si presta particolarmente alla osservazione dell’avifauna selvatica lungo un bellissimo percorso su traversine in legno, che permettono di attraversare il bosco ripariale, abitato da alzavole e porciglioni, ma anche da volpi e nutrie. Il bellissimo giro in battello (con accesso facilitato per i diversamente abili), crea

un’occasione unica per apprezzare veramente la bellezza del territorio e la ricchezza di specie che legano la loro esistenza all’acqua. La Riserva offre infatti ai visitatori la possibilità di effettuare un suggestivo giro, di durata diversa in base al percorso, su due battelli ecologici, l’ “Airone” e il “Martin pescatore”, di 23 posti ciascuno, svolgendo un itinerario nel tratto interno della Riserva (compreso fra l’approdo di Nazzano e quello di Torrita Tiberina), oppure raggiungendo l’approdo situato sotto Sant’Oreste, per poter apprezzare per intero lo splendido paesaggio della valle del Tevere. E’ possibile apprezzare tutto ciò anche da parte

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TEVERE FARFA dei più piccoli, con guide particolari, che legano l’ambiente e la sua fauna, ad immaginifici racconti di fiabe, attraverso il programma Giorniverdi “Parco anch’io”, promosso dell’Assessorato Ambiente e Cooperazione dei Popoli Regione Lazio, dall’Agenzia Regionale Parchi e dal Sistema regionale dei parchi a tutela, valorizzazione e promozione del proprio territorio. (scuola@lemilleeunanotte.coop). Di grande suggestione sono anche i percorsi “alla scoperta del popolo migratore”, a caccia cioè di immagini, canti e suoni degli uccelli della Riserva per poi proseguire con una visita al Museo del Fiume, dopo aver compiuta una ulteriore passeggiata, alla scoperta degli animali protagonisti di quella che viene indicata come “la vita in una goccia d’acqua”.•

Per informazioni: Agenzia Regionale Parchi Regione Lazio Via del Pescaccio n. 96/98 – 00166 Roma Numero verde 800593196 -800021431 tel. 0651687336 - Dr.ssa Maricetta Agati www.parchilazio.it ENIT - www.enit.it Archivio ARP Foto di Andrea Cerquetti

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Archivio ARP - Foto di Fabrizio Petrassi


ITALIA > CANADA SOLO VOLI DIRETTI CON AIR TRANSAT Per il vostro viaggio in Canada, affidatevi ad Air Transat. Qualità e comfort vi aspettano a bordo. Da aprile 2012, voli no stop da Roma, Venezia, Pescara e Lamezia per Montreal e Toronto. Air Transat: il Canada non è mai stato così vicino. Prenotazioni e informazioni presso tutte le agenzie di viaggio oppure scrivendo a airtransat@rephouse.it o chiamando il numero 06 59606512.

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CASA CARTAGENA dal fascino Inca al design italiano

Testo di

Orso Maria Leale Da luogo sacro del popolo Inca, a residenza nobiliare, a hotel de charme. Casa Cartagena a Cusco, un hotel boutique unico nel suo genere, dove il meglio del design italiano esalta e valorizza un tesoro del patrimonio storico peruviano.

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Una locanda storica nel cuore di Cusco, ombligo del mundo, una città costruita a forma di puma, l’animale sacro degli Inca. Un enorme artefatto sacro, residenza della nobiltà Inca - alla gente comune era vietato entrare nel nesso cerimoniale - e fulcro del cosmo Inca. Sito dietro una cinta muraria massiccia, lungo una strada che s’inerpica in prossimità della grande piazza centrale, la locanda offriva asilo e ospitalità a viandanti e viaggiatori. Gente semplice e personaggi illustri, come Pablo Neruda che, dentro le anguste mura, ha scritto alcune delle sue poesie più belle, e Che Guevara che, si dice, veniva spesso per cibarsi al tavolo dell’oste e rubare qualche ora di sonno. Rispettando la vocazione di ospitalità dello storico manufatto Stefano Boetto, un giovane imprenditore italiano, ha voluto realizzare un sogno: creare un lussuoso hotel de charme che racchiuda in sé l’antico fascino dell’edificio ma che, audacemente, contrappone il fior fiore del design italiano ad un restauro rigoroso, fondendo l’antico con l’avanguardia, il retaggio storico con

il design innovativo, il classico con il contemporaneo. La locanda era stata costruita sopra una “cancha Inka”, ossia un terreno eletto dagli Inca per la sua energia particolare secondo le loro credenze, e sul quale edificare un luogo di culto. Nel 1640 il terreno fu comprato da Don Fernando Cartagena, un nobile di Cusco che sopra le antiche mura Inca ha costruito la sua residenza personale. Alla fine degli anni Novanta la casa è stata dichiarata Monumento Integrante del Patrimonio del Perù, un riconoscimento dato a solo otto case a Cusco. Poi, nel 2007 la compra Luxury Properties per la prima proprietà di una catena di alberghi boutique in Perù e in altre località sudamericane. E fu l’inizio del lento e minuzioso lavoro di restauro, mantenendo intatti i muri originali Inca - e gli affreschi d’epoca coloniale che grazie ad un sapiente restauro da parte della scuola de Bellas Artes del Cusco, sono stati riportati alla luce guidati dallo stesso Boetto e dall’Architetto Roberto Bertetti. Un progetto sottoposto al controllo, valutazione e licenza dell’Istituto Nazionale di Cultura del Perù, l’equivalente delle Belle Arti in Italia, che ha monitorato ogni momento del restauro. “Tutte le parti mobili della casa: le porte, le finestre, gli affreschi e i resti di muri Inca, sono stati catalogati al fine di evitare dispersioni e danneggiamenti degli stessi”, ricorda Stefano Boetto. “Era altissima la nostra attenzione per la storicità del


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Una locanda storica nel cuore di Cusco

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CASA CARTAGENA dal fascino Inca al design italiano

La Suite Presidenziale

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manufatto. Per esempio, maestranze locali hanno ricostruito dei mattoni tradizionali, usando la terra dallo scavo del piano seminterrato della Spa che hanno mescolato con paglia per fare nuovi mattoni che sono stati essiccati nel cortile e poi utilizzati per l’ampliamento e la ricostruzione dell’edificio. “Non è sempre stato facile insegnare alle maestranze locali l’adattamento di sistemi moderni a noi familia-

ri, come i sanitari sospesi, i miscelatori e piatti doccia particolari non ancora visti dai costruttori locali, ma abbiamo risolto il problema con l’aiuto di operai italiani che hanno affiancato i lavoratori peruviani”. Tra i lavori più impegnativi il ripristino del loggiato principale, nei secoli danneggiato da numerosi terremoti, che è stato smontato e rimontato pietra su pietra, seguendo la tradizionale tecnica costruttiva Inca della “pietra a 12 lati”.


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Il meglio della cucina peruviana

La piscine nella Spa

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CASA CARTAGENA dal fascino Inca al design italiano “Abbiamo voluto valorizzare l’autenticità del fabbricato introducendo arredi in forte contrasto che abbiamo importato direttamente dall’Italia, fondendo due stili e realizzando una mescola che esalti ancora di più il valore storico della casa e la raffinatezza degli elementi coloniali impreziositi da pezzi di design contemporanei”. Le 16 suite, ognuna diversa per tipologia, sono arricchite da stucchi veneziani, affreschi originali, abbinamenti entusiasmanti di colori e sono dotate di ogni comfort: televisori a plasma, Wifi, frigobar e bagni con vasca, doccia e ceramiche italiane Bisazza e Trend mentre, nella Presidential Suite e nella Royal Suite, ci sono vasche idromassaggio per quattro persone e nella Royal Suite anche una sauna e una sala massaggio private. Tutte le camere sono dotate di un sistema di arricchimento di ossigeno al fine di migliorare e facilitare l’adattamento dell’organismo all’altitudine della città di Cusco, che si trova a 3.400 metri sopra il livello del mare. L’hotel dispone di un ristorante, Picanteria La Chola dove, alla metà del Novecento funzionava una picanteria storica, un famoso luogo di ritrovo di artisti, scrittori, politici e intellettuali. Il menu propone specialità della nuova cucina peruviana ed internazionale, e nella cantina ricavata all’interno di mura Inca, c’è un’ interessante scelta di vini dal Nuovo e dal Vecchio Mondo. La Spa, distribuita su 350 mq e tre piani, ha una piscina idromassaggio da 8 metri e un percorso

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Vecchie mura a vista


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Antichi affreschi

rilassante di pietre Inca, e sui due piani superiori, bagni turchi e sale massaggio per uomini e donne. Per gli arredi ed i pezzi esclusivi di arredo italiani ed europei Stefano Boetto e Roberto Bertetti hanno lavorato con il Cubo, azienda design di Giovanni Coha. Punto forte sia all’esterno sia negli interni l’illuminazione. Come il grande globo illuminato nel cortile interno che sembra quasi sfidare, con la sua perfezione sferica e luce soffusa, il plenilunio. “L’illuminazione è un valore aggiunto che esalta la costruzione antica, le principali aziende con le quali abbiamo lavorato sono Slide, Kundalini e Viabizzuno”. All’interno sono molti i dettagli della cultura artigianale peruviana e cusquena che si

sposano ineccepibilmente con lo stile della struttura, valorizzando l’affascinante e profonda cultura autoctona. Casa Cartagena è il primo albergo a Cusco a fondere due epoche, due stili, due mondi: quello secolare peruviano e quello contemporaneo di design italiano di tendenza. “Il primo grande risultato è stato quello di avere avuto un pieno riscontro dalla gente e dal turismo locale” dice Boetto. “Poi sono piovuti riconoscimenti internazionali, francamente non ce ne aspettavamo cosi tanti in così breve tempo”.• www.casacartagena.com

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E

go

Amo il lusso

amo l’ambiente

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La piscina. The Chedi Chiang Mai


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Testo di

Pamela McCourt Francescone

S

ofisticati, eleganti, esclusivi gli alberghi e resort del gruppo GHM Hotels, che si distinguono per eccellenza, per il modo singolare di interpretare lo stile asiatico contemporaneo (unica eccezione The Strand a Yangon, una grande dame storica dell’hôtellerie internazionale) e per l’armonia che istaurano con il territorio. Miami, Langkawi, Bali, Ubud, Hoi An, Chiang Mai, Yangon, Oman e Svizzera. Luoghi da sogno che Adrian Zecha, presidente GHM e Amanresorts, ha scelto per i due marchi leggendari. La sua, una filosofia che fonde il lusso, la bellezza, la qualità e il comfort con un estetica minimalista e una profonda dedizione all’ambiente e alla natura.

The Chedi Chiang Mai

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Amo il lusso amo l’ambiente

Prodotti Voya

“Il nostro approccio al benessere è sempre stato olistico,” spiega Brenda Ramen, direttore Spa GHM Group, responsabile dell’introduzione delle nuove linee che debuttano a The Chedi Chiang Mai per poi essere introdotti al Nam Hai in Vientnam, al Setai a Miami, al Legian e al Chedi Tanah Gajah a Bali e nelle altre proprietà GHM. “Oggi la nostra clientela esige alternative a formulazioni con sostanze chimiche, chiedono prodotti sofisticati ma ecologici. Preoccupati non solo perché per la salvaguarda del nostro pianeta, ma anche per il loro benessere. Fanno della salute e dell’ambiente la ragione delle loro scelte in materia di benessere”.• www.ghmhotels.com www.mandarinmedia.net

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La Spa. The Strand a Yangon

Prioritaria l’attenzione del gruppo all’ habitat, al rispetto ambientale, che ora si manifesta nella scelta di mettere al bando nelle spa linee che contengono sostanze chimiche. Per introdurre prodotti organici approvati dalla Soil Association britannica e dal Dipartimento di Agricoltura americano. Puri, ecologici, verdi. Prodotti firmati Voya, Ila e SpaRitual: tre aziende inglesi i cui nomi sono una garanzia. Da Voya prodotti con alghe marine irlandesi. Da Ila linee con olio di rosa dall’India e olio di argan dal Marocco, e da SpaRitual ingredienti vegan ed essenze organiche. La svolta di GHM verso un uso esclusivo di prodotti organici comporta investimenti aggiuntivi ma gli interessi commerciali passano in secondo piano rispetto all’approccio etico che riflette la filosofia del Gruppo: trasmettere all’ospite il meglio che ogni destinazione è in grado di offrire, creando legami profondi con il territorio e con le culture locali.



Victoria Regeneration SPA

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Victoria Regeneration SPA Nasce ad Ostia a due passi da Roma, all’interno degli storici bagni “La Vittoria”, l’unico centro Thalasso Terapico d’Italia direttamente sul mare

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ictoria Regeneration Spa, un luogo incantato dove la tradizione e la sapienza delle antiche pratiche si sposano con l’innovazione tecnologica e la professionalità di operatori altamente selezionati. 800 mq di philosophy of wellness dove ogni dettaglio è stato studiato per mettere al centro il cliente e le sue personali esigenze: dalla Piscina Panoramica che si affaccia direttamente sul mare attraverso una suggestiva vetrata lunga 30 mt, al caldo abbraccio del thermarium e della Bio-Sauna; dalla sferzata di fresca energia delle moderne Docce Emozionali, alle suggestive atmosfere del tradizionale Hammam orientale. Un ambiente dall’allure palpabile dove ogni senso viene coinvolto e reso protagonista al fine di raggiungere una nuova dimensione dello star bene e dove la cura dei particolari diviene un’arte al servizio della propria clientela. Oltre all’esclusivo centro Thalasso-terapico la Victoria Regeneration Spa offre ai suoi ospiti una ampia scelta di rituali sensoriali, veri e propri percorsi benessere personalizzabili ed adattabili ad ogni necessità, realizzati con la consulenza di personale qualificato in grado di stabilire i trattamenti migliori per ogni singola esigenza. Si può scegliere tra un’ampia gamma di massaggi - dall’antistress al linfodrenante - e trattamenti Ayurvedici tradizionali. Il tutto accompagnato da una colonna sonora le cui note rilassanti sembrano danzare sospese tra i riflessi di luce ricreati dal moderno sistema fotovoltaico e cromoterapico. Non solo, per chi è alla ricerca di una maggiore intimità, la Victoria Spa ha realizzato 4 Suite dove nel comfort della propria privacy è possibile vivere, da soli o in coppia, momenti davvero indimenticabili.• Victoria Regeneration Spa Lungomare Paolo Toscanelli, 195 00121 Lido Ostia (RM) Tel: 06/86760393 Email:regeneration@victoriaspa.it www.victoriaspa.it

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Le perle di vetro di Venezia

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Testo di

Augusto Panini

L

a produzione vetraria veneziana affonda le sue radici in tradizioni molto antiche e si rifà direttamente alla già florida produzione romana e bizantina. Sull’isola del Torcello sono tornate alla luce fornaci con frammenti di vetro e tessere di mosaico in un contesto archeologico risalente al 600-650 d.C. Non è facile dimostrare una continuità tra la produzione vetraria romana e quella veneziana, che probabilmente fu mutuata dalla eredità culturale di Aquileia e dalla diaspora di popolazioni del litorale sulla spinta delle invasioni barbariche. E’ comunque lecito ritenere che i legami culturali e commerciali con Costantinopoli ed il Mediterraneo orientale avessero reso possibile uno sviluppo “industriale” di Venezia nel Medio Evo. Nel 1082 l’Imperatore – il basileus – aprì a Venezia le porte dell’Oriente con la Bolla d’Oro con la quale concesse vantaggi eccezionali ai mercanti veneziani, esentandoli da tutte le imposte sul territorio bizantino. Alla fine

della prima crociata nel 1099 i veneziani insediarono basi nel reame di Gerusalemme, nei paesi del Levante ed in Africa settentrionale. Diplomatici residenti stabilmente nelle “colonie” garantirono il successo dell’opera dei mercanti, ai quali venne assicurata un’assistenza finalizzata alla loro sicurezza ed ai loro interessi. Nel 12° secolo l’isola di Candia divenne il crocevia dei traffici marittimi veneziani. Le rotte dall’Eubea arrivarono a Costantinopoli per continuare verso Trebisonda, nel Mar Nero, fondando anche fondachi a Cipro, in Siria e soprattutto a Beirut, punto d’arrivo della ‘via della seta’. Alessandria era la meta delle navi della Serenissima che imbarcavano spezie provenienti dall’Oceano Indiano, ma anche la Barberia (il Maghreb) - dove i Veneziani avevano installato depositi a Kairouan, Costantina e Tlemcen. Purtroppo le documentazioni relative a questi scambi sono scarse ed è difficile poter definire quando questi scambi ebbero inizio. Esiste un documento che conferma una spedizione di barili di paternostri di

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vetro, cioè grani da rosario, risalente al 1338 e nello stesso anno venne concessa la grazia ad un veneziano che tentò di esportare clandestinamente “duo barilia di paternostris de vitro”, grani da rosario in vetro ad imitazione del cristallo: gli antenati delle conterie. Spesso i ‘Giustichieri Vecchi’, ai quali la Repubblica di Venezia aveva affidato la disciplina delle Arti, tra il 1284 ed il 1300, dovettero intervenire per porre rimedio alle imitazioni in vetro di pietre preziose, proibendone la montatura in oro e intimando a tutti i fabbricanti di Paternostri e Margarite di non “gabellar vetro bianco per cristallo di rocca” . Il problema non doveva essere di facile e rapida risoluzione, probabilmente a causa della grande richiesta di gemme false, se ancora nel 1487 il Consiglio dei Dieci doveva osservare che “tanta è la moltiplication de zoie de ogni sorte, false, in questa cità nostra e tante catività se cometono […] - da dover decretare - alla total extirpation et extermination de tanto mal: che de cetero el non si possi far, né conzar, né far conzar piera neuna de alcuna sorte che contrafaza il diamante…” Malgrado le scarne documentazioni circa le esportazioni di perle di Venezia verso il continente africano, un fatto incontrovertibile è la presenza in varie località dell’Africa occidentale di perle sicuramente prodotte a Venezia tra la fine del XV e la metà del XVI secolo. Si

tratta della mitica ‘rosetta’ inventata, pare, nella vetreria Barovier e di cui si ha notizia per la prima volta in una scrittura della sopraccitata vetreria del 1482. In Africa furono considerate perle magiche con poteri straordinari, di conseguenza tesaurizzate e tramandate da padre in figlio per secoli e deposte in sepolture regali. Provengono sia da siti archeologici del Mali, della Mauritania e del Ghana databili tra il XV ed il XVII secolo, sia dal mercato delle perle dei mercanti haoussa che si riforniscono attingendo ai tesori dei dignitari Ashanti del Ghana, Bamiliké del Cameroun e Haoussa di Katsina in Nigeria. Ma è nel XV secolo che l’invasione da parte di Tamerlano di Damasco, Aleppo, Tiro e Sidone , causa un traumatico sconvolgimento che tocca nel più profondo la grande cultura araba ivi maturata nel corso di otto secoli e mette fine alla produzione vetraria mediorientale. Ad occidente, proprio sul finire del XV secolo, la circumnavigazione portoghese del Capo di Buona Speranza, che rese progressivamente obsoleti a scala globale i tradizionali e antichi percorsi commerciali via terra, costituì una svolta determinante. I commerci transahariani, che per secoli avevano assicurato il collegamento commerciale, culturale e religioso tra l’Africa nera e i popoli che si affacciavano sul Mediterraneo, si ridussero a sparute carovane. Il golfo di Guinea divenne il nuovo polo commerciale dove le navi portoghesi pri-


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ma, poi inglesi, danesi ed olandesi sbarcavano le loro merci da barattare; fra queste spiccavano le perle di vetro (di produzione veneziana e nord europea), confermando ancora una volta la propria funzione di ‘moneta’: pratica, poco ingombrante e incorruttibile. Venezia divenne la capitale assoluta nella produzione e nella diffusione di perle, monopolio che conservò per oltre tre secoli. Ora che si erano aperti nuovi mercati in seguito alle mutate rotte commerciali, quando la produzione vetraria araba era divenuta oramai insignificante, mercanti nordeuropei e mediorientali si installarono sulle isole della laguna: il Fondaco dei Tedeschi (16° secolo) ed il Fondaco dei Turchi (17° secolo) divennero importantissime basi di scambi commerciali. Nel 1525 a Venezia esistevano solo 24 vetrerie; nel 1606 il registro dei produttori di perle di vetro registrava ben 251 iscritti. Nel 1764 la produzione complessi-

va delle 22 più importanti vetrerie muranesi era di 19.000 Kg di perle a settimana, quasi esclusivamente riservate all’esportazione. Confrontando la produzione veneziana con quella di epoca classica si riscontra ancora oggi una continuità con la tradizionale arte vetraria. Alla produzione muranese di perle furono applicate tutte le tecniche dell’arte vetraria: dalla canna tirata alla lavorazione a lume dalla lavorazione a mosaico o murrina, al vetro sommerso. Gli attenti mastri vetrai veneziani nel corso dei secoli perfezionarono quelle antiche tecniche, riprendendo gli antichi motivi ornamentali che già gli arabi avevano riproposto, ma introducendo anche innovazioni e vere proprie invenzioni come l’avventurina, il lattimo e la canna a ‘filigrana’. Il grande successo dell’industria vetraria veneziana dipese anche e soprattutto dalla grande capacità di adattare la produzione alla domanda adeguandosi ai gusti ed alle esigenze dei mercati locali, così differenziati fra loro, in modo da poter scambia-

re le perle di vetro con oro, avorio, olio di palma e, purtroppo, schiavi.Fu proprio il mercato a fare riscoprire e riproporre antichi modelli di perle islamiche, che a loro volta risentivano dell’eredità dei Fenici e di Alessandria. Si ritrovano quindi nella produzione veneziana le tradizionali perle ad occhio, prodotte con le stesse tecniche; l’unica differenza sono gli smalti colorati, frutto di ricerche della industria vetraria veneziana, comunque con riferimento sempre agli antichi ricettari. Ogni fabbrica ne aveva, vecchi di centinaia d’anni, che costituivano il patrimonio culturale della vetreria, dove erano custoditi i segreti delle miscele per ottenere vetri colorati, trasparenti ed opachi per ogni esigenza del mercato. Si calcola che le tipologie di perle, prodotte a Venezia per l’esportazione in Africa ed Oltreoceano, superassero le 100.000 e che ognuna di queste sviluppasse una propria gamma di varietà cromatiche. Carlo Antonio Marin nel 1800 scrisse “ Venezia ha sparso i suoi lavori di cristallo e di vetro in immensa copia in tutte 4 le

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parti del mondo, e milioni di donne delle più remote contrade hanno adornato il seno e il capo delle sue perle e margarite”. Di lì a poco, con il nascere delle colonie d’oltremare, inglesi, francesi ed italiane, si sviluppò l’esportazione nel continente africano. Abidjan, Accra, Lomé, Lagos, Bamako e Massaua, divennero importanti empori commerciali per le diverse compagnie europee preposte all’esportazione di tessuti, utensili, prodotti alimentari e perle di vetro. Tra le compagnie più attive e meglio strutturate nel commercio delle perle è bene ricordare la ‘Moses Lewin Levin’ di Londra attiva tra il 1830 ed il 1913, la ‘J.F.Sick & Co’ fondata ad Amburgo nel 1900 e trasformata nel 1927 ad Amsterdam nella ‘N.V. Handelsmaatshappij v.h. J.F. Sick & Co’ che opererà in Africa occidentale sino al 1963. Italiana, invece, la ‘Società Veneziana per l’Industria delle Conterie’ fon-

data nel 1898 a Murano per fusione di 17 aziende individuali, attiva sino al 1992 con il nome di ‘Società Veneziana Conterie e Cristallerie’, esportando in Francia, Germania, Inghilterra, Russia, Stati Danubiani, Turchia, Africa, Indie Orientali, Estremo Oriente e le due Americhe e dando lavoro, all’apice della sua attività, a oltre mille operai. Lo scoppio della seconda Guerra mondiale pose fine a quasi tutti i domini coloniali europei, non solo in Africa, e di conseguenza agli inizi degli anni sessanta iniziò il graduale ed inarrestabile processo di indipendenza di tutti i paesi africani con le relative conseguenze. Il commercio delle perle di Venezia ne risentirà in maniera particolare a causa dell’ingerenza sui mercati di merci provenienti da India e Cina.•


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dalle sete alle murrine Augusto Panini, imprenditore tessile di Como nel corso della sua oltre trentennale carriera, ha avuto occasione di soggiornare per lunghi periodi, tra il 1978 ed il 1995, in diversi paesi dell’Africa Occidentale. Da sempre affascinato dalla storia antica, in Mali entra in contatto con le testimonianze archeologiche, etnografiche ed antropologiche di antiche civiltà che avevano raggiunto livelli inimmaginabili. Culture di cui nulla o quasi si sa a causa dell’oblio nel quale sono state relegate dalle avverse vicende che hanno visto l’Africa soggetto passivo negli ultimi quattro secoli: dalle guerre sante alla tratta degli schiavi, dall’avventura coloniale alla globalizzazione. Grazie all’amicizia con l’allora presidente Moussa Traoré, tra il 1985 ed il 1992 riesce ad organizzare campagne di scavo e di ricerca in tre differenti regioni del Mali: nella regione di Bamako, l’attuale capitale, Tombouctou, l’antica capitale dell’Impero del Mali, e Gao, l’antica capitale del Regno Songhai. L’indagine non si limita alle testimonianze archeologiche ma, esistendo in Mali realtà antropologiche che hanno conservato nei secoli la memoria del passato, si estende allo studio della tradizione orale dei Griots, cantastorie itineranti, ed all’approfondimento delle leggende epiche dei Soninké del Mandé. Il frutto di queste ricerche permette la realizzazione di alcune esposizioni pubbliche a Como, Milano, Lugano e Ginevra i cui cataloghi sono diventati strumenti di documentazione internazionalmente riconosciuti. Nel 2004 abbandonato l’impegno diretto in azienda si dedica con maggiore disponibilità di tempo all’approfondimento in loco di queste testimonianze. In particolare negli ultimi anni le sue ricerche si sono concentrate sullo studio delle perle vitree che compongono le collane dei corredi di svariate etnie. Dalle perle ritrovate nelle necropoli animiste o preislamiche degli antichi Imperi, alle perle di Venezia. Testimonianze incorrotte e perfettamente conservate di scambi commerciali e contatti culturali che il Mali antico ha intrattenuto con l’Egitto fatimide e mamelucco, la Persia islamica, l’India e l’Indonesia dei grandi Sultanati oltre ai Paesi baltici ed il Centro Europa, grazie alla ricchezza derivata dall’oro delle sue miniere che costituiva la principale fonte di approvvigionamento per l’Europa, prima della scoperta del Nuovo Mondo. I risultati di queste ricerche costituiscono il testo, accompagnato da oltre settecento immagini, di un volume edito da Skira alla fine del 2007. Si tratta di ricerca scientifica ma allo stesso momento spettacolare ed avvincente che coinvolge tecnica, storia, magia che dal mondo islamico medioevale arriva ai giorni nostri, un testo che in pochi anni è diventato un punto di riferimento per i collezionisti di tutto il mondo. In questa veste, di esperto in perle di vetro e quindi di riti tribali apotropaici africani e non solo, ha accompagnato nel 2005 e nel 2006 la troupe di Raitre di “Turisti per caso” in Mali e Libia. Un’intensa attività di conferenziere completa il quadro di Augusto Panini un appassionato ricerca-

tore e divulgatore di antica storia africana. Attualmente si sta dedicando alla realizzazione di cortometraggi per documentare riti magici tribali ancora praticati in Africa Occidentale presso i Dogon in Mali, i Gelede in Benin, i Bijagos in Guinea Bissau ed i Bassari in Guinea Conakry.•

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San Giusto a Rentennano - Gaiole in Chianti Francesco e Luca Martini di Cigala


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TOSCANA terra del vino

Testo di

Giuseppe Garbarino

L

a Toscana è una terra che sa essere generosa, con i suoi tramonti e i paesaggi modellati dalla mano della natura, dove si alterna il movimento delle colline con le verdi e contenute pianure, una volta fondali di un mare caldo e punteggiato di isole, ognuna unica. Di queste tracce geologiche rimangono quei rilievi dove raccogliere gusci di conchiglie fossili, involucri inanimati, bruciati dal sole, sche-

letri che da migliaia di anni testimoniano la bontà di queste terre. Questo è il segreto della terra del vino: un mare antico che dalla costa entrava prepotentemente verso l’interno fino a coprire idealmente tutto il Chianti. Se vi fermate lungo un campo, dopo il passaggio di un trattore, stringete nella mano una piccola zolla, provate a sentire la forza di questa terra che per prima cosa protegge, ma soprattutto riesce a donare. Quando la piog-

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TOSCANA terra del vino gia scende dal cielo dopo un lungo periodo di siccità, come è successo quest’anno, ad ogni goccia si leva una nuvoletta di polvere che ricade su se stessa, poi lentamente questa terra argillosa riprende vita e modella piccole strade d’acqua che attraversano le vigne. Così, mentre Robert Parker elargiva nella sua “bibbia del vino” al Castello di Bossi la migliore media di punteggio della Toscana, partendo dalla riserva Berardo con 90/100, fino ai 95/100 del Corbaia, qua e là gorgogliavano i mosti del 2011; fermenti di vitalità che indicavano come la vendemmia di questa stagione, caratterizzata da una lunga siccità, darà probabil-

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mente dei risultati ottimi. E’ il caso dei vigneti de I Balzini di Barberino Val d’Elsa e del Chianti di San Giusto a Rentennano. In questi due luoghi tutto è in equilibrio con la natura, due angoli di Toscana, due produttori affezionati al loro lavoro, alla loro terra, dove ogni vendemmia è motivo di gioia e preoccupazione.

I

ncontriamo Antonella D’Isanto de I Balzini, vicino a Pastine, località poco dopo Barberino Val d’Elsa; è seduta davanti alla cantina, guarda le sue vigne e dal suo sorriso di benvenuto capiamo tutta la soddisfazione di una vendemmia che sta già dando

I Balzini - Barberino Val d’Elsa - I vigneti

piccoli frutti. E’ stata un’annata che molti definiscono “anticipata”, tutti di corsa a vendemmiare, visto che la tanto attesa pioggia non arrivava. “Ci accontenteremo della qualità”, sospira Antonella, “ai Balzini abbiamo iniziato la raccolta delle uve Merlot a cui è seguito il Sangiovese, una piccola diversità nell’organizzare il lavoro rispetto agli anni precedenti”. Il Cabernet Sauvignon ha aspettato una settimana di più perché maturasse perfettamente. “L’annata di quest’anno è sicuramente inferiore come resa ma il vino ne godrà in qualità”. Saranno quindi fortunati tutti coloro che potranno, un giorno, bere l’annata 2011?


“Certamente”, prosegue Antonella, “ma i nostri vini (tutti Igt Colli della Toscana Centrale n.d.r.) sono già apprezzati e siamo particolarmente fieri e orgogliosi dell’attenzione che abbiamo avuto nell’edizione 2012 della Guida Oro I Vini di Veronelli, nella quale I Balzini Black Label 2008 ha ricevuto le Super-Tre Stelle per l’Italia e questo insieme ai cinque grappoli d’oro con I Balzini White Label 2008. “Tanta soddisfazione, e se torno ricordo i primi passi in questi campi comprati con mio marito Vincenzo nel 1980, le preoccupazioni, come la grandine di questo giugno, che non ha fatto danni particolari, e poi la siccità di questo

agosto caldissimo e la speranza, vana, di qualche goccia di pioggia prima della vendemmia! Ma adesso sono contenta, soprattutto la sera, guardo i miei tramonti di fine ottobre ricordando quando sentivo il borbottare dei tini, era una bella compagnia, sembrava un canto”.

S

postiamo virtualmente il nostro sguardo in un’altra zona del Chianti, vicino a Gaiole. Siamo nel Chianti amato dai Lorena, quello che dal Settecento iniziò ad avere la graduale definizione di “regione” vitivinicola. San Giusto a Rentennano è un antico monastero cister-

cense che si affaccia sull’Arbia, un grosso torrente che nasce dal Poggio della Macia Morta. La fattoria dei Martini di Cigala, proprietaria dal 1914, ci accoglie con l’imponente portale affiancato dalle mura guelfe. “E’ stato un anno non facile questo 2011”, ci dice Elisabetta Martini di Cigala, “come per tutti gli altri produttori della regione la siccità ha dato speranze per un ottimo raccolto, ma sempre con il dubbio della quantità, soprattutto in un luogo dove l’escursione termica è abbastanza sentita, se comparata con il forte caldo estivo del 2011”. Quindi anche a San Giusto la vendemmia ha avuto tempi e inizi di-

Castello di Bossi - Castelnuovo Berardenga

I Balzini - Barberino Val d’Elsa Antonella e Vincenzo D’Isanto

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TOSCANA terra del vino

versi, era necessario sposare le necessità della cantina con quelle dell’uva attaccata alla pianta e così sotto la supervisione dell’enologo Attilio Pagli è stato possibile arrivare alla fine di questa travagliata stagione. A San Giusto hanno atteso le deboli piogge di fine settembre, interrotto la raccolta per riprenderla dopo che il vitigno si era arricchito. Nella classifica dei vini la produzione della famiglia Martini di Cigala, rappresentata nel mon-

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San Giusto a Rentennano - Gaiole in Chianti - I Vigneti

do dell’enologia dai tre fratelli Elisabetta, Francesco e Luca, si piazza più che onorevolmente sia nella Wine Advocate di Parker che con il riconoscimento Super-Tre Stelle attribuiti dalla Guida Oro di Veronelli a La Ricolma Merlot di Toscana 2007 e al Percarlo Sangiovese di Toscana 2006. Tutti attendono con ansia i risultati di questa stagione, intanto guardiamo alla prossima vendemmia gustando i vini pronti per uscire dalle cantine.•


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San Giusto a Rentennano - Gaiole in Chianti Sangiovese di Toscana IGT “Percarlo”

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TOSCANA terra del vino

La dinastia dei Beretta eccelle anche nel settore enologico

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l vino rappresenta le grandi passioni, forse per questo famiglie come i Gusalli Beretta hanno investito ben 15 milioni di euro nel progetto delle nuove cantine di Radda in Chianti. La tradizione familiare è quella di una dinastia che ha legato il proprio nome alle armi, fin da quel lontano 1526, quando il Mastro Bartolomeo Beretta da Gardone consegnò all’Arsenale di Venezia 185 canne d’archibugio. Oggi quella brillante capacità imprenditoriale si manifesta anche nel settore enologico e non per niente si parla di “fortezza del vino”, del Castello di Radda, per questa struttura nata nella natura e per la natura. Non è la prima esperienza in questo settore per la famiglia Bresciana, che negli anni passati ha investito in Francia e Abruzzo, ma questa sfida sulle colline senesi del Chianti sono guardate con interesse da tutti gli addetti ai lavori. L’architetto Spartaco Mori ha saputo armonizzare e capire le necessità di Ugo Gusalli Beretta e della moglie Monique Poncelet per realizzare una cantina scavata nella roccia viva e tutto l’edifico, oltre a ricordare le caratteristiche rurali e militari

Castello di Radda Azienda Gusalli Beretta (forse per ossequio alla tradizione familiare), ha tenuto conto dell’impatto sul territori e delle necessità di risparmio energetico tanto caro ai progetti contemporanei. La costruzione pur essendo realizzata ex novo ha l’aspetto della tipica abitazione leopoldina, con torretta e an-

nessi rurali, anche se ha grandi spazi interni che permettono di affacciarsi sulle terre circostanti come in un sogno, la cura dei particolari è perfetta e la scelta dei materiali e degli arredi è tutta di produzione locale senese e fiorentina. La cantina è stata inaugurata dalla vendemmia 2011.•



Calda d’inverno,

La polenta

Testo di

Francesca D’Antona

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“Mangiapolenta e mangiamaccheroni”. Il detto popolare che infierisce sull’eterna spaccatura tra Nord e Sud in realtà non ha radici troppo profonde. Almeno secondo i testi storici i quali riferiscono che i polentoni più accaniti nell’età classica fossero proprio i Romani. Il nome stesso, “ pulmentum” lo inventarono loro, grandi mangiatori di pappette calde a base di cereali macinati. E’ vero che alcune ricette le avevano copiate al Nord, le “pultes julianae” , ad esempio, che gli abitanti dell’attuale Friuli preparavano con farina di spelta (cereale simile al frumento) cotta con latte, formaggio e grasso di carne. Ma è anche vero che i Romani ne inventarono di proprie. Tipica una polenta di farro e orzo amalgamati con formaggio e uova, di cui pare fosse molto ghiotto Catone. I gourmet dell’epoca vi aggiungevano qualche cucchiaiata di “garum”, potente intruglio di pesci macerati e sfatti in una brodaglia di vino, aceto, spezie ed erbe aromatiche. D’altronde, quando arrivò da noi la polenta vera, quella fatta con il mais che Cristoforo Colombo importò in Europa, i primi a metterla in tavola furono i napoletani. Prima ancora che i veneti inventassero la “polenta e osei”, forse a Napoli si mangiava già la polenta pasticciata, in Calabria la polenta insaporita con verdure e carne di maiale e in Abruzzo e nel Lazio la polenta con le spuntature. Non facciamone comunque una questione di primogenitura, altrimenti dovremmo ammettere che il titolo di “ mangiapolenta” spetti addirittura ai nostri antenati delle caverne. Pare infatti che, non appena scoperto il modo di accendere il fuoco, i nostri progenitori si accorsero che era possibile cuocere in acqua più specie di semi spezzati, ottimi integratori per la loro alimentazione quasi esclusivamente carnivora.. In ogni caso, al di là delle origini, la polenta assicurò sempre una tranquillità alimentare. Facile da piantare in terreno umido che non necessita di aratura, velocissimo nella crescita, l’”oro giallo” ( così come Maya e Aztechi chiamavano il mais) non solo è portatore del frutto finale, cioè il grano, ma permette anche raccolti intermedi come canne e foglie da cui ricavare zucchero e bevande alcoliche, pannocchie appena sbocciate da gustare abbrustolite o lesse, tronchi per costruire tetti per abitazioni. Maya e Aztechi ne veneravano a ragion veduta la dea protettrice, Xilotl. La diffusione del cereale in Europa non fu rapida e co-

munque la polenta fu a lungo considerata un cibo per poveri. Finalmente, ma siamo già nel ‘700, anche i ricchi banchetti dell’aristocrazia accolgono la “gialla novità”. La polenta, in tutte le sue varianti, conquista anche i palati raffinati, dà nome ad accademie, circoli e società. Ai nostri giorni, grazie all’inventiva della buona cucina regionale italiana, ne vantiamo numerose varietà e ricette. Le differenze cominciano dalla farina di granoturco che può essere fina o finissima per ottenere una polenta morbida oppure granulosa, la cosiddetta “bergamasca”, per essere tagliata a fette. Le salse, i condimenti e le pietanze da accompagnare, fanno il resto. La preparazione di base, intesa in modo tradizionale, è sempre la stessa. Un paiolo di rame non stagnato, con tanto di manico per appenderlo al camino e un cucchiaione di legno sono i classici arnesi per la grande fatica. Perché di fatica si tratta, anche se il gioco vale la candela. Si mette il paiolo sul fuoco con acqua e al primo bollore si versa a pioggia la farina gialla, lentamente affinché non interrompa il bollore e non faccia grumi. E si inizia a mescolare senza interruzione, per circa un’ora! Soda e fumante sul tagliere di legno, filo pronto ( mai il coltello!), per affettarla. Condimento o pietanza d’accompagno ben caldi. Ed è capolavoro.

L’Accademia della Polenta

Negli alberghi della Val Tartano, Miralago, Vallunga e Gran Baita, si tiene ogni anno, nel mese di Novembre, la manifestazione “Delizie di Polenta “organizzata dall’Accademia della Polenta e dagli albergatori in collaborazione con la Pro Loco Val Tartano (tel.0342645141 - presidente Carla Pasina). “Siamo alla sesta edizione, ogni anno i ristoranti degli alberghi elaborano un menù nuovo con cinque, sei portate a base di polenta, per offrire un nuovo modo di gustare questo antico alimento, non in modo affrettato e come piatto unico, ma in modo lento con accostamenti nuovi per presentare la polenta come piatto trasformista e molto attuale” dice Monica Barlascini dell’Albergo Miralago. info@miralago.net


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Una calda sensazione chiamata

Cashmere Testo di Daniele

Nencini Chianti Cashmere

Foto dell’Archivio

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E’ curioso, quell’impalpabile morbidezza che attraverso il tatto dà una piacevolezza al limite della sensualità, il cashmere, nasce dalla reazione al freddo della dignitosa capra Kel. La capra da cashmere, appunto. Almeno trenta gradi sotto zero, la temperatura a cui è abituata questa capra dal nobile pedigree, e la perfezione della natura che protegge e adatta gli esseri viventi all’ambiente, hanno fatto sì che il sottomanto dell’animale si arricchisse di una leggerissima lanugine, il duvet,

una sorta di isolante dal freddo. E quanto più in alto vive, tanto più questa è abbondante e soffice. Una protezione primitiva che nelle abili mani degli esperti si trasforma in quel prezioso, ricercatissimo tessuto che è diventato in tutto il mondo lo status symbol dell’eleganza e del lusso. Una raffinatezza con precedenti illustri se è vero che, già nel 60 a.C. , anche Giulio Cesare ne era un estimatore. Conosciuto poi in tutto Occidente grazie a Marco Polo. Originariamente della regio-

ne del Kashmir, da cui il nome, in India settentrionale dove nel XV secolo questa razza di preziose capre cominciò ad espandersi, da molto tempo ormai vive soprattutto in Tibet, Cina, Mongolia, e Iran. Anche se oggi, il cashmere più diffuso sembra essere quello della Mongolia. Della Mongolia Esterna, alle estreme propaggini orientali del Gobi, dove la temperatura in inverno scende a valori bassissimi. Da qui proviene il cosiddetto Cashmere Mongolia Brown, il più scuro dei Mongolia. Apprez-


zato anche come colore naturale ma comunque adatto per la produzione di filati di colore scuro. E il Cashmere Mongolia Light Grey, di colore grigio-beige, in genere utilizzato grezzo o per colori medi. I Mongolia hanno le caratteristiche tipiche di tutti i cashmere in termini di struttura della fibra, rispetto alle varianti cinesi sono però più ordinari e più lunghi. E se questa caratteristica consente di limitare il problema del pilling, formazione degli antiestetici pallini su certi tessuti di lana, tuttavia la qualità e la palpabilità sono inferiori al filato cinese. Le applicazioni principali del Mongolia sono nell’ambito della tessitura dove garantisce un’ottima morbidezza ad un prezzo normalmente molto più contenuto rispetto ai cashmere di origine cinese. Le applicazioni in maglieria, invece, richiedono più accurati trattamenti e sono meno ricercate. E’ il Cashmere China Brown la qualità più fine di cashmere, quella che proviene dalle province più lontane della Repubblica Popolare Cinese e dagli altipiani del Tibet. L’estrema finezza delle sue fibre e la difficoltà nel reperirlo lo rendono un prodotto estremamente prezioso. In termini di raffinatezza supera il China White, il quale, pur essendo ritenuto il più pregiato, a causa della lunghezza normalmente ridotta delle fibre non consente il raggiungimento di titoli molto fini e in alcune applicazioni potrebbe presentare un effetto pilling superiore. Il color tabacco chiaro del China Brown è particolarmente piacevole e caldo; se non viene tinto, dunque, mantiene intatte le straordinarie qualità della sua fibra. Due volte l’anno a Canton, in Cina, si tengono le grandi aste internazionali della lana di cashmere, durante le quali si vendono balle da 50, 100 e 200 chili di fibre. Un’organizzazione complicata vista la struttura interna della Cina divisa in varie province, ognuna rappresentata da corporazioni di allevatori che sono l’unico riferimento per gli acquirenti. E’ l’Head Office di Pechino l’organo centrale che controlla tali corporazioni, che dovrebbe garantire il prezzo ufficiale del cashmere, verificare le licenze di esportazione e i contratti di vendita.

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Una calda sensazione chiamata CASHMERE

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I parametri più importanti per valutare la qualità del cashmere sono la morbidezza, che può arrivare anche ai livelli della seta, e lo spessore della fibra che si esprime in micron. Cina, Tibet, Mongolia, Iran, producono circa il 90% del cashmere a livello mondiale. Nel XX secolo sono stati creati grossi allevamenti di capre da cashmere in Australia e negli Stati Uniti, e persino in una piccola zona del Chianti, in Toscana. Ma, come si è detto, l’origine della preziosissima lana è dovuta ad una reazione al freddo intenso e l’adattamento a ben altri climi a lungo andare potrebbe ridurne la produzione rendendo scarsa non solo la quantità ma addirittura la qualità delle fibre cashmere. Allevamento a parte, certo è che la lavorazione del cashmere più pregiato è da sempre appannaggio della Scozia e dell’Italia. Prima la Scozia dove ci sono località assolutamente deputate a questo, come Hawick. Poi

l’Italia, oggi in vari centri. Ovviamente parliamo di aziende leaders nel proprio settore perché posseggono il know how necessario. Solo l’arte italiana di alcune filature, per esempio, riesce a trasformare la nobile fibra in filato titolo 2/28.000, che permette di produrre preziosi capi di maglieria in cashmere. Dunque, lasciamo all’Oriente il monopolio del bestiame e quindi della produzione della materia prima, ma, parola di intenditori, è meglio affidarsi alle manifatture delle nostre latitudini. Tuttavia esiste un cashmere made in Cina, anche se si tratta di un tessuto di qualità inferiore, con finiture approssimative. Certamente il prezzo di quei capi, rispetto ai nostri, è fortemente invogliante. Il più pregiato cashmere è il cosiddetto two ply, a due fili ritorti, che garantisce una maggiore indeformabilità e durata del capo. Perché il cashmere è così costoso? In certi casi la capra da Cashmere

viene sottoposta a selezioni genetiche, impegnative in termini economici e di tempo, per aumentare la produzione della preziosa lanugine e la sua qualità. Qualità che già in natura è notevole, fibre di diametro fra 14 e 18 micron (molto più fine della lana Merinos, la più pregiata tra le lane da pecora, che si aggira sui 24 micron di diametro), con un potere riscaldante molto superiore a quello della lana ordinaria. Ma per ottenere lo spessore di un millimetro occorre affiancare circa 70 fibre delle più fini! Inoltre, dalla pettinatura di una capra si ricavano dai 200 ai 500 grammi di lanugine, che si riducono della metà, dopo il trattamento che dovrà subire per essere pulito e raffinato. Senza contare il costo di tutti i trattamenti preparatori alla lavorazione. Tanto basta a giustificare le cifre spesso piuttosto elevate richieste per un semplice golfino dal taglio classico.•


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CASHMERE SOSTENIBILE “ MADE IN TUSCANY” Chianti Cashmere, con sede vicino a Radda in Chianti (SI) è la prima azienda zootecnica in Italia ad aver sperimentato e messo a punto l’allevamento della Capra Cashmere Italiana. Centro di Selezione e fonte di riproduttori scelti su tutto il territorio Italiano ed all’estero, l’azienda vende gli animali, segue l’allevatore in tutte le fasi dell’ allevamento e ritira la fibra grezza, producendo a filiera corta filati da guglieria e manufatti pregiati creati esclusivamente a mano da artigiani Toscani . L’esclusività del nostro prodotto è la sua totale sostenibilità ambientale data dalla metodologia del tipo di

allevamento, e dunque il nostro marchio registrato “CASHMERE SOSTENIBILE Made in Tuscany”. La qualità dei nostri filati è ormai riconosciuta dal settore tessile Italiano ed estero: siamo scrupolosi nel garantire sia il benessere animale, sia la tracciabilità delle nostre fibre e la filiera di trasformazione fino ai prodotti finiti. Grazie al recente interessamento da parte della Regione Toscana, abbiamo avviato le procedure per ottenere delle certificazioni di qualità della stessa Regione Toscana – un valore aggiunto in più dalle nostre bellissime capre! Per ulteriori informazioni: www.chianticashmere.com www.sustainablecashmere.com

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punto di partenza

HOTEL CLUB MONT BLANC Courmayeur ★★★★

Quote a partire da 450 € a persona in mezza pensione Via G. Sacconi 4/b - 00196 Roma - Tel. 06 328931 (r.a.) Fax 06 3220048


Il corteo di San Nicola e dei Krampus a Tarvisio il 5 dicembre

Testo di

Mariella Morosi

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n corteo grottesco di diavoli urlanti, guidato da un vecchio dalla lunga barba bianca e dalle vesti fluttuanti, nella suggestione delle fiaccole accese. Potrebbe sembrare la scena madre di un film horror, ma per Tarvisio e per la Valcanale questo è un

evento seguitissimo dalla popolazione che viene riproposto ogni anno nella notte del 5 dicembre: è il tradizionale rito dei krampus, spiriti maligni dell’inverno dai piedi a forma di zoccolo di capra, figure mitiche che accompagnano con suoni sinistri e striduli, l’arrivo di San Nicolò

nelle strade della cittadina friulana.Questo santo, così venerato al Nord, è atteso con trepidazione dai bambini perchè porta loro i doni, di casa in casa, e ammonisce quelli più biricchini. I Krampus al passaggio sono bersagliati di palle di neve e di petardi, in un alternarsi di paura e di divertimento.Vestiti di pelo, come animali,nascosti da inquietanti maschere di

legno, i Krampus portano lo scompiglio nelle strade tra tintinnio di campanelli e rumori di catene. E’ uno spettacolo unico,che attrae visitatori e curiosi, che nell’immaginario popolare evoca le paure della lunga notte nordica e l’eterna lotta tra il bene e il male. Sono coreografie accurate, frutto di una lunga preparazione. Spaventano ma non troppo per l’immancabile lieto fine, tra balli, musica e un trionfo di dolci: fichi, noci, pistacchi e carrube.Va a ruba un Krampus di pane dolce, con in mano una verga più o meno lunga, a seconda del merito o dei torti del destinatario.E’ una delle tradizione più antiche delle comunità cristiana nordica che viene riproposta con modalità diverse anche in altri luoghi del Friuli e non solo. Si intrecciano e si confondono leggende, si segue il corteo urlante, ci si ristora con il vino caldo: per i visitatori questo è anche un nuovo modo di vivere la neve e la montagna che vede coinvolte le diverse realtà del territorio. E’ un evento da non perdere e un piccolo anticipo sulla lunga stagione degli sport invernali. Per questo la città ha predisposto speciali pacchetti per accogliere al meglio i visitatori nelle strutture alberghiere ed alloggiative di vario livello, ma tutte con un ottimo rapporto qualità-prezzo. E’ anche un’occasione per conoscere l’offerta enogastronomica friulana fatta di sapori intensi, a cominciare dai formaggi d’alpeggio e dalla cacciagione con la polenta.• Info: www.turismofvg.it

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Mercatini di Natale in Trentino-Alto Adige Testo di

Mariella Morosi

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n Trentino Alto Adige la magia del Natale arriva in anticipo,a volte anche a metà novembre.Soprattutto nelle quattro settimane che precedono il Natale non c’è piccola città che non offra il suo mercatino dell’Avvento, con tante luci,musica e profumo di dolci alle spezie. Le bancarelle di legno espongono stelle e palline per l’albero e statuine per il Presepe,candele,oggetti di artigianato, bastoncini di zucchero colorato, casette di biscotto. Anche i giardini, le case ed i negozi sono completamente addobbati di decorazioni natalizie. La tradizione viene da lontano: il primo mercato documentato è quello che si svolse a Dresda nel 1434. Famosi per la particolare ricchezza sono alcuni dei mercati del Trentino: il Natale dei Popoli di Rovereto, a cui ogni giorno danno il via i rintocchi della campana fusa col bronzo delle 19 nazioni che presero parte alla prima guerra mondiale, poi quello di Trento,allestito nella piazza davanti al castello del Buonconsiglio.A Siror, ai piedi delle Pale di S.Martino, i bambini vengono portati su una grande slitta trainata da un cavallo nero, mentre ad Arco è l’infreddolito e paziente cammello Alì a portarli in giro tra la neve. A Levico Terme il mercato è allestito nel bellissimo parco degli Asburgo, e anche Borgo di Rango, Pergine Valsugana e Andalo fanno a gara per farlo ogni anno più bello e originale. Info:(www.visitrentino.it) Impossibile non trovare il regalo giusto: angeli in vetro soffiato, fiori in legno, centritavola, feltro

artistico,lanterne d’arredamento, pantofole, maglioni d’alpaca, caldissime sciarpe, guanti e cappelli. Anche la gastronomia è protagonista con il vino brulè e i salsicciotti, con la merenda a base di caldarroste e strauben.Tanti i dolci: gli Zelten con canditi, lo strudel di mele, i biscotti allo zenzero. Poi formaggi, miele e confetture e tante idee per regali golosi con i prodotti tipici di montagna.Con le classiche musichette natalizie, suonate all’infinito, si viene immersi nell’atmosfera magica tipica del Natale alpino, tra le tradizioni mediterranee e quelle mitteleuropee. In Alto Adige i mercatini si svolgono nelle cinque principali città: a Bolzano tra i romantici portici, a Merano, il più grande con più di 80 bancarelle, a Bressanone, che vanta la tradizione più antica e dove c’è persino un Museo del presepe,nella medievale Vipiteno dominata dalla Torre delle Dodici e a Brunico, dove durante i fine settimana vari complessi di strumenti a fiato, tromboni e suonatori di corno delle Alpi tengono concerti in piazza. Si comincia il venerdì che precede la prima domenica d’Avvento, il 25 novembre e rimangono aperti tutti i giorni fino al 23 dicembre.A parte Bolzano che termina il 23 dicembre, gli altri chiudono all’Epifania. Ognuno è diverso dall’altro, cambiano scenografia e atmosfera. Non distano molto l’uno dall’altro ed è quindi possibile riuscire a visitare anche più mercatini in una giornata, sia in auto che in treno www.altoadige-suedtirol.it.•


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Michele De Luca APPUNTI DI FOTOGRAFIA (1986 – 2010)

Prefazione di Italo Zannier Pag. 216 - €. 12,00 EDIZIONI GHIRLANDINA Via Cantone, 7 41015 NONANTOLA(MO) e-mail: contemporart@contemporart.it

Testo di

Federica Bracci NEL MONDO DELLA FOTOGRAFIA Venticinque anni di “appunti” in un libro di Michele De Luca

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grandi fotografi , innanzitutto, dai “pionieri” ai più interessanti ed apprezzati del secolo appena archiviato e del panorama contemporaneo, italiano ed internazionale, vengono “affrontati” con acuta curiosità e “raccontati” con encomiabile capacità di sintesi, mirando direttamente alla loro specificità ed originalità. Ma da questo interessante libro di Michele De Luca (Appunti di fotografia. 1986 – 2010) edito da Ghirlandina (Nonantola, Modena) vien fuori un mosaico molto più complesso, che ripropone gli ambienti culturali in cui le singole personalità si

sono espresse, le grandi “campagne fotografiche” degli esploratori o dei primi “imprenditori”, l’esperienza collettiva di scuole, movimenti, gruppi e dinastie, l’irrompere della fotografia nella professione giornalistica, il suo “inquinamento” del mondo delle arti, il suo uso sperimentato da “artisti” nelle loro ricerche estetiche ed espressive. Il volume, con una autorevole prefazione di Italo Zannier, offre un’occasione davvero suggestiva per ripercorrere vicende ed eventi perlopiù obsoleti, trattandosi di un genere di immagini, che molti considerano tuttora “secondario”. Vi si raccolgono

circa duecento recensioni apparse nella rubrica “Fotografia” sulla rivista “Rocca”; si tratta di “appunti” che De Luca ha annotato, riguardo a rimarchevoli eventi espositivi o editoriali che una successione cronologica del tutto casuale ha offerto alla sua attenzione in quest’ultimo quarto di secolo riguardo alla fotografia, al fine di metterli a fuoco, di “raccontarli” e di darne testimonianza. Questi brevi articoli, a rileggerli nel loro insieme, offrono con la loro omogeneità critica e narrativa, concisi approcci con le tante figure di fotografi, ma anche tante utili informazioni sull’editoria fotografica, sull’impegno di istituzioni pubbliche e private nella divulgazione della storia della fotografia, sull’attività di studiosi, ricercatori e operatori culturali, sul dibattito teorico nonché sulla fotografia come “bene culturale” e quindi sul lavoro di recupero e di conservazione di archivi, musei, collezionisti. Un libro, dunque, di piacevole lettura ed utile, come scrive Zannier, che fa rivivere “un cosmo di immagini raccontate ‘a parole’, in grado di aprire un orizzonte sconosciuto a chi oggi, e sono molti, conosce troppo poco (e spesso in modo approssimativo o errato filologicamente e concettualmente) la Fotografia, intesa nella sua identità estetica oltre che iconografica”.•

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Alessandro Circiello

“TUTTI A TAVOLA, LA SALUTE E’ SERVITA” Un anno in cucina con il cuoco di Rai Due

pp. 320 euro 16,00 Kowalski-Feltrinelli

Testo di

Mariella Morosi

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iatti semplici, equilibrati, che esaltano il gusto e reinterpretano la tradizione con fantasia. E’ il nuovo modo di mangiare che ci propone Alessandro Circiello, giovane chef di Raidue, nel suo nuovo libro “Tutti a tavola, la salute è servita”. La sua cucina modernamente minimalista va oltre la stagionalità e la freschezza degli ingredienti,spingendosi fino ai loro valori salutari, ma passando attraverso l’esaltazione dei sapori e suscitando emozioni.Trasformare la soddisfazione del gusto nel piacere della salute è il compito di chi cucina, perchè un piatto non può essere il risultato di accosta-

menti fortuiti ed azioni casuali. “Se si comprende un cibo, una preparazione, un piatto si degusta, si colgono i sapori, si compie un’operazione intellettuale e per farlo si richiedono competenza e capacità di capire”, dice questo giovare cuoco che al di là del successo regalatogli dal mezzo televisivo è considerato un serio studioso del cibo, tra i primi ad occuparsi dell’alimentazione infantile e dei celiaci, in collaborazione con il Ministero della Salute. A nessuno può essere negato il piacere dello stare a tavola e, se la natura ci impone di mangiare, è bene farlo nel migliore dei modi, gratificando il palato nel rispetto della salute. Prima ancora

delle 150 ricette, spiegate passo dopo passo, Circiello nel libro ci parla di ciò che serve davvero prima di mettersi ai fornelli:una decina di cose in tutto, dal pelapatate alla pinza multiuso, dal coltello spelucchino al minipimer. Ci ricorda anche gli ingredienti da rivalutare, dal pesce azzurro alle lenticchie, dal baccalà al farro, dal tacchino alle cicerchie. Importanti le tecniche di cottura e determinanti la dimensione della casseruola rispetto a cià che si cucina, così come l’intensità della fiamma e la durata dell’esposizione al calore. Alcuni piatti vanno serviti subito mentre altri,come l’arrosto, lasciati riposare. Non vengono demonizzate le fritture, se fatte con regole precise, e consigli preziosi vengono forniti per cotture al sale e al vapore, per brasati, stufati e stracotti. Rivelati anche i segreti della perfetta omelette e della cottura “al dente” delle verdure. Alla portata di tutti sono anche i fondi di cucina (mai gettare lisce e teste di pesce: se ne fa un ottimo fumetto) poi i brodi, la maionese,i sorbetti e persino il torrone. Le ricette sono della tradizione italiana e regionale, con ingredienti facilmente reperibili. E’ una cucina di territorio, creativa e aperta a sapori che vengono da lontano, come le spezie, ma sempre leggera e delicata, mai banale. •


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Dancalia - donna afar foto Giulio Badini

Direttore Responsabile Teresa Carrubba tcarrubba@emotionsmagazine.com www.emotionsmagazine.com Progetto Grafico, impaginazione e creazione logo Emotions Ilenia Cairo icairo@emotionsmagazine.com Collaboratori Raffaella Ansuini, Anna Maria Arnesano, Romeo Bolognesi, Federica Bracci, Luisa Chiumenti, Marco De Rossi, Francesca D’Antona, Giuseppe Garbarino, Orso Maria Leale, Pamela McCourt Francescone, Mariella Morosi, Daniele Nencini, Augusto Panini, Viviana Tessa Fotografi Giulio Badini, Andrea Cerquetti, Vito Consoli, Fabrizio Petrassi Responsabile Marketing e Comunicazione Mirella Sborgia msborgia@emotionsmagazine.com Account Agenzie e Centri Media Francesca Rocchi frocchi@emotionsmagazine.com Account Hotels Michelle Lozneanu mlozneanu@emotionsmagazine.com Traduzione Pamela McCourt Francescone mccourt@tin.it Tipografia Sograf Srl - Litorama Group Via Alvari 36 - 00155 Roma - tel. +39 062282333 www.litorama.it Editore Teresa Carrubba Via Tirso 49 -00198 Roma - Tel. e fax 06 8417855 Pubblicazione mensile registrata presso il Tribunale di Roma Copyright © - Tutto il materiale [testi e immagini] utilizzato è copyright dei rispettivi autori e della Case Editrice che ne detiene i diritti.




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