Emotions gennaio2012

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Sommario

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Sultanato di Oman il deserto ai margini dell’Oceano Indiano testo e foto di Teresa Carrubba

pag. 26

TUNISIA CULTURALE alla riscoperta della comune eredità classica testo di Roberto Lippi foto di Alessandro Neri

pag. 42

Carnevale in SLOVENIA i Kurent di Ptuj testo di e foto di Romeo Bolognesi

pag. 46

48 ore a YANGON testo di Pamela McCourt Francescone

pag. 50

Ego Dhevi SPA da antico regno a rifugio benessere di lusso testo e foto di Pamela McCourt Francescone

pag. 52

PETRIOLO le calde acque dei signori di Toscana testo di Giuseppe Garbarino

pag. 53

TIVOLI viaggio a ritroso nel tempo testo di Raffaella Ansuini foto di Marco Aschi

pag. 60

San Daniele del Friuli la -Città slow- del celebre prosciutto testo di Luisa Chiumenti

pag. 64

Il radicchio di Treviso e il variegato di Castelfranco testo di Mariella Morosi

pag. 67

Mille lire al mese testo di Giuseppe Garbarino

pag. 70

Capodanno? Grazie a Quinto Fulvio Nobiliore testo di Luigi Bernardi

pag. 72

L’anno del Signorelli un tributo al suo Giudizio Universale testo di Valerio De Amicis foto di Sandro Vannini

pag. 76

Fascino Dagli alambicchi europei l’alchimia misteriosa della PORCELLANA testo di Annamaria Arnesano

pag. 15

Nuova Zelanda

la terra benedetta da Dio

testo di Anna Maria Arnesano pag. 20

Gli allegri colori della

GIAMAICA

testo e foto di Pamela McCourt Francescone pag. 32

L’EGITTO NEL CUORE... della storia e della cultura

testo di Mirella Sborgia foto di Marcello Peci e Teresa Carrubba pag. 84

Fascino Alston Stephanus i virtuosismi di un giovane stilista testi di Alessandra Amati

pag. 88

Kaleidoscope

pag. 90

Melegatti dolci e impegno sociale a cura di Teresa Carrubba

pag 92

Musica per viaggiare testi di Marco De Rossi

pag 94

Libri

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Editoriale Tempo di buoni propositi, gennaio. E di speranza. Ma anche di nuovi entusiasmi, nel lavoro, nella vita privata e nelle passioni. La passione per il collezionismo, per esempio, che spinge l’amatore all’approfondimento attraverso la storia delle cose. O la passione per il fitness, nutrita dalla consapevolezza del “mens sana in corpore sano”, e dal desiderio di coccolare il proprio Ego per neutralizzare il frenetismo della vita. Ecco allora la ricerca di Spa lontane, in Thailandia, con trattamenti che risalgono al Regno Lanna come la tecnica che fa uso di bastoncini di corteccia dell’albero di tamarindo, oppure le più tranquille Terme di Petriolo, in Toscana, un tempo frequentate dai Medici di Firenze e i Gonzaga di Mantova.. Entusiasmo nuovo anche nella passione per i viaggi, siano essi esotici o di casa nostra. Il civilissimo Oman, con i suoi immensi deserti e le dune a strapiombo sull’Oceano Indiano, la Nuova Zelanda dai paesaggi naturali immensi e straordinari, la Giamaica, rutilante di colori e di allegria, la spettacolare archeologia di Egitto e Tunisia, riaffiorate dalla crisi. L’Italia delle eccellenze, poi. Il San Daniele con il rinomato prosciutto e Treviso con il suo fiore d’inverno, il radicchio.•

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SULTANATO DI OMAN Il deserto ai margini dell’Oceano Indiano Testo e foto di - Words and photos by

Teresa Carrubba

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ura meno di un respiro, quel momento. Quando con il fuoristrada saliamo in accelerata sul fianco della duna per non insabbiarci e arrivati in cima, in bilico con le ruote sospese, non c’è tempo per capire cosa ci sia al di là. Il sussulto di paura dura meno di un respiro, poi diventa adrenalina, eccitazione. Un salto e di nuovo l’impatto con la sabbia per la discesa, a volte quasi perpendicolare. E si è pronti per scalare un’altra duna. Le immense dune delle Wahiba Sands, il deserto dell’Oman che dalla zona orientale del Paese si estende fino alla costa dell’Oceano India-

THE SULTANATE OF OMAN The desert bordering on the Indian Ocean

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he moment lasts a mere fragment of a second. As the jeep races up the side of a dune to prevent us getting covered with sand and, once at the top, finds itself askew, its wheels spinning wildly in the air with no time to discover what is on the other side. The shock lasts a

Muscat- la Grande Moschea, dono del Sultano Qaboos al popolo

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SULTANATO DI OMAN - Il deserto ai margini dell’Oceano Indiano no. Nel Nulla più assoluto si volteggia a 360 gradi senza riferimenti stabili che durino più di una tempesta di vento. Perché è proprio il vento, qui, a disegnare tutto. Solleva la sabbia in dune altissime di cui delinea ogni volta nuovi profili eleganti e bizzarri creando un magnifico gioco di vuoti e di pieni, di pareti lisce e striate che si offrono al percorso del sole spostando ad ogni fase del giorno i coni di luce e d’ombra. E la sabbia vira da un tenue terra di Siena naturale ad un caldissimo ocra, al rosso argilla del tramonto. Vere e proprie sculture d’autore. E’ quasi un sacrilegio passarci sopra con i fuoristrada, ma procura un piacere assoluto. I più esperti, e i tuareg lo sono in modo incredibile, si cimentano in manovre al limite del pericolo per uscire da profondi catini di sabbia senza rimanerne bloccati. Tuttavia capita spesso di arenarsi e a quel punto scatta lo spirito di cordata per il salvataggio. Perché sì, nel deserto ci si va in carovana, mai da soli. Questo deserto prende il nome dalla popolazione nomade, i Wahiba appunto, che vivono negli sporadici accampamenti ai margini delle dune, rudimentali capanne di cannucce. Qui l’intenso sguardo delle donne trapela attraverso le tipiche maschere di pelle nera, ma il sorriso è aperto e cordiale, senza veli. Tutto diverso lo spettacolo che offrono le candide dune che digradano fino all’Oceano nella baia di Al Khaluf, a buon diritto considerata l’insenatura più bella di tutta la costa dell’Oman, con la sabbia impreziosita da minuscoli frammenti di conchiglie. Ed è proprio lungo la spiaggia dell’Oceano Indiano che dalla baia conduce verso Nord che si consuma una delle esperienze più forti del viaggio in Oman. Una corsa in fuoristrada per decine di chilometri lungo la battigia, a fior d’acqua. E l’ebbrezza aumenta quando, nella corsa, si solleva una miriade di gabbiani che rimangono a lungo a bassa quota in una magnifica coreografia di danza della natura. Poi, il contatto umano. Lungo il tragitto in riva all’Oceano è facile

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mere heartbeat and then the adrenalin starts pumping. A thud and you are back on the sandy surface again ready for the descent which is practically perpendicular. And once at the bottom, ready to face yet another dune - the vast dunes of the Wahiba Sands, Oman’s desert which stretches from the east of the country to the Indian Ocean. An immense area of Nothingness as far as the eye can see, without any stable references that last longer than a sand storm. Because it is the wind that designs everything. The wind which hones the sand into high dunes, sculpting them into new and bizarre shapes, creating magnificent protuberances and valleys and flat and streaked surfaces across which the sun moves cones of light and shadow throughout the daylight hours; the sands turning from pale burnt Siena to rich ochre and to deep red at sunset. Sculptures honed by grand masters. It is almost a sacrilege, yet a true delight, to cross them with the jeeps. The more expert, and the tuaregs are incredibly expert, know how to manoeuver the vehicles, taking breathtaking risks to escape from deep sandy hollows. But it is easy to get stuck, and then the other jeeps help pull you out. Because the only way to cross the desert is in a convey of jeeps, never alone. This desert is called after the nomadic tribes, the Wahiba, who live in small straw huts in camps set up on the edges of the dunes. The intense eyes of the women peek through the typical black leather masks they wear, their open, happy smiles needing no veils. The pale dunes that slope down to the ocean in Al Khaluf Bay, considered one of the most beautiful in Oman, are quite different and their sands sparkle with tiny fragments of shells. Along this Indian Ocean beach the bay leads north to one of the most exciting moments of any journey through Oman. A wild race for miles and miles along the shore, on the

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Volto di donna della popolazione nomade Wahiba imbattersi in gruppi di pescatori che tornano con il loro bottino e lo espongono alla vendita proprio sulla spiaggia, ancora imbrigliato nella rete. Mentre altri trainano la barca in secca con una jeep. L’avventura lungomare termina ai margini del promontorio Ras El Hadd, il tempio delle tartarughe verdi, le gigantesche creature marine che nella spiaggia del vicino Parco Nazionale depongono le uova. E’ un’esperienza da non perdere. Il sacrificio di dormire poco la notte per essere alla spiaggia non più tardi delle 4 del mattino, non ha

Omanita del villaggio di Al Hamra water’s edge. The excitement growing as huge flocks of seagulls take to the air, circling overhead in a magnificent dance of nature. And then there is the human contact. Along the shore you come across groups of fishermen returning from the sea to lay out their catch for sale along the beach, painstakingly extracting the fish from their nets while others use jeeps to hoist their boats up on dry land. This seaside adventure ends at the Ras El Hadd promontory where the green turtles, giant sea creatures,

Una duna modulata dal vento nel deserto Wahiba Sands

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SULTANATO DI OMAN - Il deserto ai margini dell’Oceano Indiano

In corsa con il fuoristrada lungo l’Oceano oltre la baia di Al Khaluf

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niente a che vedere con l’emozione che si prova nell’assistere all’uscita della tartaruga dal “nido” dalla stessa scavato nella sabbia in cui ha deposto le uova ricoprendole per salvaguardarle. E al suo lentissimo quanto commovente percorso verso l’Oceano alle prime luci dell’alba, lasciando una traccia nella sabbia che la prima ondata cancellerà insieme alla sua enorme fatica. Altro giro altra natura. Dalla sabbia infinita si passa ad un paesaggio impervio, nelle spaccature delle alte montagne, gole e orridi percorsi da brevi ruscelli e rovi conducono in risalita ad una spettacolare cittadina, Sur, capoluogo della Regione Ash Sharqiyah sulla costa del Golfo di Oman, un tempo ponte commerciale e culturale tra Penisola arabica, Sud Est asiatico e Africa. Il suo porto, tra i più antichi del Paese, oggi è popolato di belle barche a vela e di dhow, tipiche imbarcazioni in legno ancora oggi utilizzate dai pescatori e per scambi di mercanzie con Iran e Pakistan. Ed è proprio a Sur che si fabbricano i dhow, in un cantiere dentro la città dove, dalle abili mani dei maestri d’ascia, nascono anche esemplari di lusso commissionati da omaniti facoltosi. Sur è unica ed elegante nella sua architettura candida in perfetto stile arabo, con porte di legno borchiate. In viaggio verso la capitale altre cittadine omanite si offrono con le loro diversissime peculiarità. La vivace Nizwa, per esempio, sovrastata dalla Fortezza, un tempo palazzo del Sultano Bin Said. Fulcro cittadino di Nizwa è il mercato del pesce, interessante quanto essenziale e sbrigativo. A metà mattina tutto si svuota così come è stato riempito: les jeux sont faits. Gli abitanti del luogo lo sanno e si orga-

lay their eggs on the beach close to the National Park. An experience not to be missed. And an almost sleepless night in order to be up at 4 o’clock to see the little turtles emerging from the nest the mother has dug in the sand and in which she drops her eggs before covering them to keep them safe. And her lumbering and moving return to the sea before dawn rises, leaving tracks in the sand which the first wave will erase, cancelling forever her strenuous efforts. Then off for another nature adventure. Leaving the endless sands behind we come to an impervious landscape in a cleft in high mountains where gorges and ravines, streams and brambles lead uphill to the spectacular Sur, the chief town in the Ash Sharqiyah region on the coast of the Gulf of Oman which, in ancient days was an important cultural and commercial bridge between the Arabian Peninsula, South-east Asia and Africa. Sur’s port is one of the oldest in the country and today is full of colourful boats called dhows, the typical wooden craft still used by fishermen and traders plying their way between the area, Iran and Pakistan. These dhows are made in Sur, in a factory in the town where the skilful hands of the master boat-builders create luxury models for wealthy Omanis. Travelling towards the capital means passing through other interesting Omani cities like the bustling Nizwa with its striking fortress, which was once the residence of Sultan Sin Said. Nizwa’s hub is the interesting and busy fish market which, by midmorning empties as quickly as it had filled up: les jeux

Una bella veduta del porto di Sur

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Cina

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Il commovente ritorno nell’Oceano di una tartaruga gigante dopo aver deposto le uova

Il palazzo del Sultano a Muscat

nizzano. Peccato che questi orari singolari vengano osservati anche dal souk, in genere frequentato dai turisti. Una galleria di minuscole botteghe artigiane dove è possibile scovare vecchi monili di tipica fattura, in realtà chiudono i battenti intorno alle 10,30. Ancora diverso il villaggio di Al Hamra. Una sorta di città fantasma dalle case un tempo costruite in argilla impastata con paglia, oggi in gran parte ruderi e tutte abbandonate, conserva il fascino e l’interesse dell’originaria architettura difensiva. Il termine del viaggio ci riconduce al punto di partenza, a Muscat, dove si palesa l’altra faccia dell’Oman. Quella fatta di potere, di storia e di spiritualità. E’ qui quella che a buon motivo si ritiene una delle più grandi moschee costruite in epoca contemporanea, la grande moschea, dono del Sultano Qaboos al popolo. Una maestosa struttura in marmo chiaro con archi e minareti, quasi una cittadella dello spirito, ma anche della cultura visto che al suo interno c’è una fornita biblioteca moderna e informatizzata. E’ qui, così sembra, il tappeto di preghiera più grande del mondo arabo. Di tutt’altro stile ma ugualmente imponente il palazzo del Sultano, dall’architettura stilizzata a smalti oro e turchese immerso in rigogliosi giardini che si affacciano sul porticciolo. Immancabile a Muscat, come in tutte le principali città arabe, il souk, da dove è possibile portarsi a casa un frammento di un Paese ricco di bellezza e di fascino come l’Oman.•

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“I Viaggi di Maurizio Levi” - tel. 02 34 93 45 28, www.deserti-viaggilevi.it

sont faits. The locals know this and work around the market times. It is a pity the souk, which is popular with visitors, also keeps these same strange hours. The souk is a gallery of tiny artisan shops where you can find typical old jewellery and closes around 10.30. The little village of Al Hamra is quite different, a kind of ghost town with houses that were built with straw and clay and today are, for the most part, abandoned ruins, although they still appeal for their original defensive architecture. Our journey ends where we started, in Muscat, where you encounter the other face of Oman. This is the country’s seat of power, history and spirituality. And has what is considered one of the greatest mosques ever built in modern times, the Great Mosque, donated by Sultan Qaboos to the people. A majestic structure in pale marble with arches and minarets, a kind of citadel of the spirit but also of culture as inside it has a wellstocked modern and IT library. And also, it is said the largest prayer rug in the Arab world. Quite different but equally imposing is the Sultan’s palace, a stylized building decorated with gold and turquoise enamels and set in lush gardens overlooking the little port. And Muscat too, as all Arab cities, has its souk from which you can take home fragments of this beautiful and alluring land.•

Le acacie del deserto con le chiome pareggiate dai cammelli

gruppo di cammelli all’ora del pasto

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Uno scorcio delle Alpi settentrionali della nuova Zelanda

NUOVA ZELANDA

la terra benedetta da Dio Testo di Anna

Maria Arnesano Foto di Archivio

S

arà perché ubicata agli antipodi nell’altro emisfero e dall’altra parte del pianeta, ma l’Oceania costituisce per noi il continente meno conosciuto. Se sappiamo poco dell’Australia e delle altre migliaia di isole e isolette sparse nel Pacifico a formare Melanesia, Polinesia e Micronesia, ancor meno conosciamo della Nuova Zelanda. Qualcuno la conosce quasi soltanto grazie alle prodezze veliche degli equipaggi neozelandesi in Coppa America, avversari di grande talento per il Moro di Venezia, Luna Rossa e Alinghi, ma

pochi saprebbero ubicarla con precisione su una carta geografica muta. Invece si tratta di un paese prospero, progredito e di grande civismo, con paesaggi assai vari di straordinaria bellezza, e con un livello sociale e di qualità della vita da fare invidia. Grande poco meno dell’Italia ma con appena 4 milioni di abitanti, e una delle densità più basse al mondo, risulta composto da due isole maggiori, circondate da una corona di isolette minori, che quasi si sfiorano nello stretto di Cook (ma unite in epoca glaciale), di analoghe dimensioni poste in verticale su

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Nuova Zelanda, la terra benedetta da Dio

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una lunghezza di 1.500 km duemila km a sud-est dell’Australia. Anche se quella australiana appare la terra più vicina, la differenza tra le due risulta davvero rilevante e da tutti i punti di vista, tanto da non avere quasi nulla in comune. Queste isole costituiscono la sommità emersa di imponenti rilievi marini che affondano nell’oceano per parecchie migliaia di metri,

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frutto di notevoli movimenti tettonici ed orogenetici recenti e di intensa attività vulcanica, in parte ancora in atto. L’isola settentrionale, North Island, concentra la maggior parte della popolazione e offre un clima temperato e mediamente piovoso. Presenta baie protette lungo la costa, adatte a porti, con belle spiagge e un altopiano centrale punteggiato

da coni vulcanici inattivi superiore ai 2.500 m, con frequenti manifestazioni vulcaniche secondarie come geyser, fumarole, fanghi e sorgenti termali; al centro presenta il lago Taupo, grande quasi due volte il Garda. L’isola meridionale, South Island, poco popolata, piovosa e fredda, è interamente percorsa da una catena montuosa di tipo alpino, capace di

Una tranquilla chiesetta di mattoni ai margini di un lago glaciale

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Nuova Zelanda, la terra benedetta da Dio

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19 Le luci dell’alba riflesse sul Lago Matheson

Un bell’esemplare di lorichetto arcobaleno

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superare ben 27 volte i 3.000 m, circondata da imponenti nevai e ghiacciai che scendono fino a 300 m di quota, e un paesaggio alpestre con valli e laghi glaciali, fiumi e cascate. Sul lato occidentale le montagne scendono a picco, solcate da immani fiordi capaci di penetrare in profondità, generando ambienti selvaggi di grande suggestione, mentre ad oriente declinano su pianure coltivate. Ovunque un paesaggio splendido e riposante, con mille tonalità di verde, grandi spazi e ottima ricettività turistica, tanto da giustificare l’appellativo di Paese benedetto da Dio.

La storia della Nuova Zelanda risulta piuttosto breve. Attorno al 900 vi approdarono i primi maori polinesiani provenienti da Tonga e Samoa, che la chiamarono Aotearoa, la terra della lunga nuvola bianca, ma occorre attendere la metà del 1300 per registrare una consistente immigrazione maori, arrivati con le loro esili canoe da 2.000 miglia di distanza orientandosi solo con le stelle. Era un popolo primitivo che non conosceva i metalli e viveva di agricoltura elementare, caccia e pesca in piccoli villaggi fortificati di legno, in perenne lotta con gli altri

clan per procurarsi il cibo e catturare schiavi, con le terre di proprietà comune. Uomini e donne, tatuati su tutto il corpo, si coprivano con mantelli e gonnellini di fibre vegetali, formavano coppie di fatto e avevano rapporti sessuali liberi fin dall’adolescenza. Fino al 1800 praticavano il cannibalismo rituale. Per l’Occidente venne scoperta, ma non esplorata per l’ostilità dei locali, dal navigatore olandese Tasman nel 1642, poi esplorata dall’inglese Cook nel 1769, ma l’afflusso massiccio di coloni europei, soprattutto britannici, cominciò soltanto nel 1840, provocando scontri sanguinosi con i maori fino al 1870, quando iniziò una lenta integrazione tuttora in atto. Gli indigeni, che nel 1840 erano 250 mila, scesero a 40 mila a fine secolo, per risalire oggi a 550 mila, il 15% della popolazione. Da sempre ha mantenuto uno stretto legame economico, politico e culturale con l’Inghilterra, anche dopo l’indipendenza conseguita nel 1947, ma ancora oggi riconosce come capo dello stato la regina Elisabetta II d’Inghilterra. Anche se privo di una propria costituzione,

si presenta come una nazione assai progredita socialmente, non razzista e ecologista: è stata una delle prime a concedere il voto alle donne nel 1893, vanta una delle più basse mortalità e uno dei maggiori livelli di istruzione e di previdenza sociale. I neozelandesi amano parecchio praticare sport, anche estremi, di terra e di mare, e contano la maggior densità di barche al mondo. L’economia si basa principalmente sull’allevamento di ovini (56 milioni di pecore, 16 per abitante, usate anche per rasare gratuitamente l’erba nei 400 campi da golf) e bovini, l’agricoltura, la lavorazione del legname e i servizi; è il maggior esportatore al mondo di carni ovine e di prodotti caseari, secondo per la lana. In Nuova Zelanda, dove ogni punto non dista mai più di 110 km dal mare, la natura regna quasi ovunque sovrana, grazie ad una attenta gestione del territorio per tentare di preservare i resti di una ricca biodiversità, frutto di milioni di anni di isolamento e di incontaminazione. Fino all’arrivo degli occidentali mancavano del tutto mammiferi e serpenti ed era interamente ricoperta da foreste con palme, felci arboree e conifere, tra cui il maestoso pino kauri millenario e il pohutukawa, l’albero che esplode in una fioritura rosso brillante a Natale. Per fare spazio a campi e pascoli i coloni hanno abbattuto gran parte delle foreste primarie di conifere e latifoglie autoctone, che ora sopravvivono in aree protette (il 25% del territorio), introducendo nuove specie vegetali e animali capaci di portare all’estinzione oltre 150 piante e animali endemici, il 10 % del totale. Tra questi è scomparso il moa, un enorme uccello corrido-

re considerato il maggiore al mondo (3 m di altezza e 240 kg di peso), estinto per l’eccessiva caccia esercitata dai maori, e il kakapo, il maggior pappagallo al mondo, notturno e incapace di volare. Resta invece ancora, ed è divenuto simbolo nazionale, il kiwi, un curioso uccello silvano notturno grande come un pollo, con gambe corte e becco lungo e aguzzo, privo di coda e di ali e coperto di peli, capace di dormire 20 ore al giorno e di sfornare uova enormi, poi covate dal maschio che si occupa anche dello svezzamento; le femmine sono poliedriche e si accoppiano con più maschi, sfornando tante uova quanti sono i compagni disponibili alla cova. Tra gli altri uccelli si incontrano curiosi pappagalli e cigni neri, in mare albatros, cormorani, procellarie, sule e pinguini; in acqua si trovano balene, delfini, squali e foche. Tuttavia l’esponente più singolare della fauna neozelandese è il raro tuatara, un lucertolone lungo 60 cm che discende direttamente dai dinosauri senza aver subito alcuna modifica negli ultimi 250 milioni di anni; curiosamente questo fossile vivente retaggio di lontane epoche ha un carattere mite e socievole, tanto da condividere i nidi scavati nella terra dalle procellarie, un uccello marino, con i quali dormono affiancati in buona armonia. Grazie al clima, i grandi pini che altrove maturano in 80 anni, qui ne impiegano soltanto 30.

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Giamaica Gli allegri colori della

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Testo e foto di - Words and photos by

Pamela McCourt Francescone

La Giamaica”, favoleggiava Cristoforo Colombo nel 1495 alla Regina Isabella di Spagna, “è l’isola più incantevole che mai occhio abbia mirato“. Un vero intenditore il grande navigatore genovese, che di belle isole caraibiche ne aveva conosciute tante. Ma nessuna come la Giamaica, con il suo clima invidiabile - temperature tra i 20° e i 32° - natura rigogliosa, e spiagge e mare da capogiro. Poi ci sono le tradizioni gastronomiche multietniche ed eccellenti, una musica tra le più apprezzate, e un popolo esuberante, caloroso, colorito, gioioso, ospitale, fiero e a volte anche bizzoso, ma sempre con un generoso pizzico di autoironia. Per capire le tante contraddizioni di quest’isola basti pensare che in Giamaica, dove il tempo scorre con ritmi notevolmente comodi

Gli allegri colori della

Giamaica

Jamaica is the fairest island that eyes have beheld,” Christopher Columbus told Queen Isabella of Spain in 1495. And the great Italian navigator was something of a connoisseur, having seen many a fair Caribbean isle on his journey towards the New World. But none like Jamaica with its enviable climate – temperatures between 20° and 32° - luxuriant nature, stunning seas and beautiful beaches. Then there are its multi-ethnic and excellent gastronomic traditions, its famous music, and its people who are

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Gli allegri colori della Giamaica e rilassati, è nato l’uomo più veloce del mondo, Usain Bolt. Un vanto per i giamaicani, come lo è Bob Marley, il mitico musicista e cantante Reggae, e i giovani che hanno gareggiato nel bob alle Olimpiadi invernali di Calgary nel 1988. Una prodezza inverosimile per un popolo che la neve la vede solo sui bigliettini di Natale. Nei secoli la Giamaica ha visto un viavai impressionante di bucanieri, navigatori, pirati e invasori. I primi sono stati gli spagnoli nel 1600, portando con loro sull’isola i primi schiavi neri dall’Africa, seguiti dagli inglesi e dagli olandesi, e per tutti la Giamaica è diventata un’importante base di commercio. Nel 1800 sull’isola fiorivano ricche piantagioni di canna da zucchero, e ancora oggi è possibile visitare qualche plantation house. Come Rose Hall Great House, una splendida magione in stile georgiano nei pressi di Montego Bay, la dimora di Annie Palmer, conosciuta come la Strega Bianca per aver ucciso i suoi tre mariti usando le arti vudù che aveva imparato ad Haiti, la sua terra natale. E’ la costa settentrionale, da Negril a Porto Antonio passando per Montego Bay e Ochos Rios, l’itinerario più frequentato dai visitatori. Montego Bay è la località turistica più sofisticata dell’isola con alberghi di gran classe come l’ Half Moon dove le lussuose ville in stile coloniale ospitano spesso VIP e la famiglia reale inglese. Mobay, come lo chiamano i locali, deve la sua fama alla grotta di Doctor’s Cove dove, si dice, sgorgasse acqua minerale terapeutica. Oggi la Cove è la spiaggia più famosa della vivace città, la seconda dopo la capitale Kingston, e un punto di partenza per fare snorkeling e attività acquatiche nel mare caldo e lungo la barriera corallina. Negril, scoperto dagli hippies negli anni ‘60 e centro principale dei Rastafariani, il movimento spirituale e culturale nato negli anni ’30, e considerata la località più “libertina” dell’isola, incanta per le sue spiagge. Prima fra tutte la Seven Mile Beach, la più lunga -e per molti la più bella-della Giamaica, per la

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AI giamaicani piacciono I colori forti

exuberant, warm-hearted, colourful, hospitable, proud and betimes temperamental, but always with a generous dash of self-irony. To understand the many contradictions of this island just think that the fastest man of earth, Usain Bolt, was born in a country where time moves at an über-relaxed pace. Bolt is the pride of the island as is Bob Marley, the iconic Reggae musician, and the team of young athletes who competed in the bobsleigh events at the 1988 Calgary Olympics. A mind-blowing feat as the only snow Jamaicans ever see is on Christmas cards. Down the centuries Jamaica was visited by a steady stream of buccaneers, navigators, pirates and invaders. The first were the Spanish who in 1600 brought the first African slaves, followed by the English and the Dutch, for all of whom Jamaica became an important trading hub. The 1800s were the heady years of thriving sugar cane plantations and today it is possible to visit some of the old plantation houses. Like Rose Hall Great House, a splendid Georgian mansion close to Montego Bay, once the home of Annie Palmer, also known as the White Witch as she is said to have killed her three husbands using the voodoo art she learned in her native Haiti. The northern coast from Negril to Porto Antonio through Montego Bay and Ochos Rios is the most popular with visitors. Montego Bay, the island’s most sophisticated resort, can boast elegant and luxury hotels like the Half Moon where celebrities and the British royal family stay in handsome colonial-style villas. Mobay, as the locals call it, shot to fame when therapeutic mineral waters were discovered in a cave on Doctor’s Cove. Today the Cove is the most famous beach in Jamaica’s second city; a popular spot for sunbathing, snorkelling and water activities along the barrier reef. Negril, which was discovered by the hippies in the ‘60s and is the main centre of the spiritual and cultural Rastafarian movement - which dates back to the ‘30s - is considered the most freewheeling

sua sabbia bianca e per la limpidezza delle sue acque. Poi c’è l’altro Negril, il punto più occidentale dell’isola con una magnifica costa frastagliata. Di rigore la sera un aperitivo a Rick’s Café per ammirare i famosi tramonti, che si possono godere anche dalla riservatezza delle romantiche ville della Rock House, un albergo boutique inerpicato sulla scogliera sopra Pristine Cove e acque dalle mille sfumature di blu. A Ochos Rios i crocieristi scendono per divertirsi facendo shopping nel mercato dell’artigianato, rinfrescarsi salendo le Dunn’s River Falls, le splendide cascate a terrazza che si gettano in mare da 183 metri di altezza, e per scoprire le Green Grotto Caves, un labirinto sotterraneo abitato, in tempi antichi, dai Taino, gli indiani Arawak che furono i primi ad arrivare sull’isola. E poi c’è chi va a passare alcune ore nuotando con i delfini e le mante a Dolphin Cove, un’esperienza che non manca mai di emozionare grandi e piccoli. La costa che si estende più ad est verso Port Antonio è stata quella scelta sia da Ian Fleming -che ha scritto quasi tutti i capitoli della serie di James Bond a Goldeneye dove ospitava spesso Truman Capote e Graham Greene – sia dal drammaturgo inglese Noel Coward. Firefly, la casa di Coward, si trova non lontano da Port Antonio che dagli anni ‘60 era una delle località di maggior richiamo del jetset internazionale. Ancora oggi è un angolo di tranquillità dominata dalla foresta tropicale dove sorgono hotel di gran lusso ed eleganti ville. Nell’immaginario collettivo la musica giamaicana si immedesima in Bob Marley e nella musica Reggae. E, anche se l’isola può vantare molti generi musicali e altri grandi protagonisti, Marley rimane l’icona, non solo della musica ma della Giamaica stessa. Morto giovane, a soli 36 anni (lasciando nove figli) fu inconfutabilmente uno dei più grandi musicisti del XX secolo, e una visita al Bob Marley Museum a Kingston, nella casa dove visse gli ultimi anni della sua vita, è un pellegrinaggio al quale nessun amante della musica

town on the island and has Jamaica’s most stunning beaches. Seven Mile Beach tops the list for its long swathe of white sand and sparkling turquoise waters. It is Jamaica’s longest and, for many, its most beautiful beach. And then there is the other Negril, towards the westernmost point, which has a rocky coastline. The best place to catch Jamaica’s famous sunsets is Rick’s Café. But they can also be enjoyed from the intimacy of one’s private terrace in one of the romantic villas in the Rock House, a charming boutique hotel perched high on the cliffs overlooking Pristine Cove and unbelievably blue seas. Cruise passengers flood into Ochos Rios to shop at the local artisan market or to cool off climbing Dunn’s River Falls, splendid terraced waterfalls which drop from 183 meters down to the sea. They also visit the Green Grotto Caves, an underground maze which was once home to the Taino Arawak Indians who were the first inhabitants of the island. And then there are those who prefer to spend time swimming with dolphins and sting rays in Dolphin Cove, an experience which is guaranteed to be a highlight of any holiday. The coast eastwards towards Port Antonio was chosen by both Ian Fleming - who wrote most of his James Bond books at his home Goldeneye where Truman Capote and Graham Greene were regular guests – and Noel Coward, whose house Firefly is not far away. In the ‘60s Port Antonio became a jetset hideaway, as it still is today: an oasis of peace with luxury hotels and elegant villas dominated by the tropical forest. Jamaican music is synonymous with Bob Marley and Reggae. And although the island has many different types of music and has, and has had, many other great musicians, Marley is the symbol, not just of Jamaican music but of the island itself. He died young, at 36 (leaving 9 children) and was unquestionably one of the greatest musicians of the 20th century. A visit to the Bob Marley Museum in Kingston, which was

Rose Hall Great House a Montego Bay

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Gli allegri colori della Giamaica vorrà mancare. Scoprire la gastronomia giamaicana vuol dire imbarcarsi in un viaggio tra sapori accesi e piccanti, speziati e aromatizzati, intriganti e accattivanti. Ispirata a usanze e tradizioni tipiche delle cucine precolombiana, francese, inglese, spagnola e africana, le specialità giamaicane sono da gustare -quasi tutte- con le mani. A contendersi i posti d’onore il jerk, il patty, l’ackee con pesce salato, e il gelato con rum e uvetta. Il jerk è il modo tipico di cucinare pollo, maiale o pesce, facendoli marinare in una salamoia con cannella, noce moscata e pimento, il pepe tipico della Giamaica, prima di essere cotti lentamente sulla brace. Il patty è lo spuntino più diffuso, una gustosa foccacina di pasta morbida con un ripieno di carne, pesce e verdure. L’ackee -un frutto rosso che viene colto dall’albero solo quando si apre perdendo così la sua naturale tossicità- viene cotto con stoccafisso, peperoni, pomodori, pepe e cipolle: un piatto sostanzioso che viene servito anche come prima colazione. Quanto al rum, un distillato di zucchero di canna o melassa stagionato in barrique di quercia, quello giamaicano viene considerato il Re dei Rum, e la distilleria Appleton Jamaica, fondata nel 1749, è la seconda più vecchia al mondo. La Giamaica è tutto questo. Ma anche molto di più, perché sa suscitare forti emozioni che assumano, anche a distanza di tempo, nuove e inaspettate profondità. E perché, come testimoniava Cristoforo Colombo alla Regina di Spagna, è un’isola di impareggiabile bellezza.• Jamaica Tourist Board www.visitjamaica.com Ente del turismo giamaicano in Italia: Brian Hammond, Sergat, Via Nazionale 243, Roma Tel 06.48901256 Hotel Half Moon Montego Bay www.hotelhalfmoon.com Hotel Rock House Negril www.rockhousehotel.com

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La musica di Bob Marley pervade l’isola

his home for the last years of his life, is something no music lover will want to miss. Discovering Jamaican cuisine means taking a journey into spicy and spirited, fiery and aromatic, intriguing and addictive flavours. It finds inspiration in preColumbian, French, English, Spanish and African usages and traditions and most of the delectable specialties need no knife or fork. This is finger food at its most zesty! The most famous being jerk, patties, akee with salt fish, and rum and raison ice cream. Jerk is the Jamaican way of marinating chicken, pork and fish with nutmeg, pimento pepper, cinnamon and other spices before cooking them slowly over hot coals. Patties are the most popular snack and are a pastry crust made with coconut oil and stuffed with meat, vegetables or fish. The akee, a fruit which is picked only after it as opened on the tree thus losing its natural toxicity, is cooked with salt fish, peppers, tomatoes and onions: a hearty dish that is also served at breakfast. Jamaican rum, which is distilled from sugar cane juice or molasses and then matured in oak barrels, is considered the King of Rums, and the Appleton Jamaica Distillery, founded in 1749, is the second oldest in the world. Jamaica is all of this. And much more besides, because it binds you emotionally and, even from a distance, continues to weave its unique and enthralling spell. And then, as Christopher Columbus avowed to the Queen of Spain, it is indeed an island of more than passing beauty.• Sale VIP www.vipattractions.com Mobay Lounge, Sangster Intenaotional Airpot, Montego Bay Kingston Lounge, Norman Manley International Airport, KIngston


Tunisia culturale

alla riscoperta della comune eredità classica Testo di Roberto

Lippi Neri

Foto di Alessandro

Carthago delenda est”, le celebri parole di Catone segnarono il destino di Cartagine, la poderosa città di origine fenicia che per oltre due secoli contese a Roma il potere sul Mediterraneo, fino alla sua distruzione nel 146 a.C. Una città imponente per l’antichità, abitata da oltre 700.000 persone di culture ed etnie diverse, affacciata su una sinuosa striscia di sabbia chiara, con il suo porto fortificato, orgoglio del mondo antico. Tre lunghe e sanguinose guerre per piegarne l’orgoglio, radere al suolo templi e palazzi, condurre a Roma in schiavitù i pochi sopravvissuti. E spargere sale sulle sue rovine, come luogo maledetto. Oggi, agli occhi del visitatore appaiono

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soltanto le vestigia della Nuova Cartagine, quella risorta dalle sue ceneri per volere di Giulio Cesare nel 46 a.C. e che presto diverrà la seconda città dell’impero d’Occidente, al centro dell’importante Provincia d’Africa, anch’essa definitivamente distrutta dagli arabi nel 689, durante l’inarrestabile avanzata alla conquista delle coste del nord Africa e dell’Iberia. Comincia qui il nostro viaggio nella comune storia mediterranea, che in questo pezzo d’Africa ha lasciato vestigia di grande bellezza ed importanza storicoculturale. Lungo il viale ai margini dei resti del porto militare punico, con il suo inconsueto bacino circolare, ove oggi affacciano le lussuose ville dei ricchi tunisini. Attraversando la necropoli cartaginese, che neppure i romani vollero violare, ed i resti delle grandiose terme. Un viaggio nel tempo che ci porterà a scoprire la

Tunisia fenicia e romana e poi quella bizantina ed araba, lontano dall’archetipo delle affollate spiagge e dai mostruosi hotel all inclusive cui ci ha abituato il turismo in Tunisia. Il clima di fine novembre si presta particolarmente per questo itinerario di scoperte e suggestioni, con la sua luce calda, i cambiamenti repentini di temperatura tra la notte e il dì, qualche timida pioggia che rende ancor più brillanti le pietre, i marmi ed i mosaici che troveremo lungo il cammino. Cammino che si rivelerà peraltro completamente privo di turisti e visitatori, vuoi per la stagione inoltrata, lontana dai periodi balneari anche dei più coriacei cultori della vacanza fuori stagione, vuoi perché la Tunisia culturale è ancora una meta relativamente poco frequentata. Ma soprattutto perché le recenti vicende della cosidetta “primavera araba”, che qui ha avuto il suo battesimo di san-

gue e di speranze, hanno avuto un effetto disastroso sul turismo in Tunisia, che in anni recenti aveva raggiunto il secondo posto dopo l’agricoltura nella composizione del reddito nazionale. Farid Fetni, direttore dell’Ente Turismo¬, racconta che il calo dei turisti internazionali nel corso del 2011, dall’inizio delle proteste che hanno portato alla fuga del premier Ben Ali alle recenti elezioni per la Costituente, è stato del 33%. Il numero degli italiani che hanno scelto al Tunisia come meta di vacanza è sceso dai 500.000 visitatori del periodo precedente la crisi del 2008 (300.00 nel 2010) ai circa 100.000 di quest’anno. Eppure, a differenza delle tensioni che occorrono in Egitto o del tragico conflitto in Libia, la Tunisia rivendica con orgoglio che il suo processo di transizione è stato relativamente pacifico e che in nessun momento si sono verificati episodi di violenza o di minaccia nei confronti degli stranieri. Anche oggi che è il partito islamista Ennahdha ad avere la maggioranza nell’assemblea costituente, tanto le autorità locali di settore che i tour operators italiani presenti in Tunisi concordano sul fatto che non muterà la propensione a considerare il rilancio del turismo come prioritario per le politiche di sviluppo del Paese. Perfino la nostra guida, Mohammed, giovane e preparato ingegnere elettronico riconvertito all’arte e alla storia dalla crisi economica e dal modello di sviluppo, ci invita a non avere dubbi sulla tenuta del paradigma di laicità che ha contraddistinto fin qui la Tunisia. Dai resti della nuova Cartagine, l’itinerario prosegue in direzione di Bizerta. Non prima di aver però effettuato una sosta d’obbligo nel piccolo villaggio di Sidi Bou Said, per assaporare le raffinate atmosfere di quello che un tempo era un quieto villaggio di pescatori e che oggi è divenuto un luogo esclusivo di villeggiatura, meta di passeggiate romantiche

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Gli emblematici resti dell’antica Cartagine

Bizerta, il porto dal ricco passato storico

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Tunisia culturale alla riscoperta della comune eredità classica delle giovani coppie, che si inoltrano nelle caratteristiche stradine piene di negozi e bar tipici e si fanno fotografare dinnanzi agli splendidi portoni lavorati in ferro battuto, il cui azzurro cobalto spicca nel bianco abbagliante delle facciate. Colori e forme che ricordano l’eredità andalusa, qui portata dai profughi della riconquista spagnola del XV secolo, cui seguì la drammatica cacciata dei mori e degli ebrei, in gran parte approdati su queste terre. Bizerta si presenta con la sua imponente cittadella fortificata, edificata dagli ottomani per controllare il punto più vicino all’Europa di questa sponda del Mediterraneo, nonché l’imboccatura di un canale che porta ad vastissimo lago, alle sue spalle, che è un gigantesco porto naturale. Per queste caratteristiche strategiche, l’area dove sorge la città è stata meta ambita, attraverso conquiste successive, di tutti coloro che aspiravano a controllare la regione: dai fenici ai romani, dai bizantini agli arabi e poi i turchi, i genovesi, fino ai francesi nell’Ottocento. Tanta storia di guerre e corsari – dai suoi porti per secoli partirono le scorrerie barbaresche sulle coste europee – non sembra aver lasciato traccia nel carattere pacifico e allegro dei suoi abitanti. Lungo il canale-porto si affacciano affollati e chiassosi locali, caffetterie e ristoranti. Più in là, sulla piazza, il mercato brulica di gente, spezie, verdure e frutta di stagione, in particolare le olive di cui si sta ultimando la raccolta. Nel dedalo di viuzze della cittadella, qua e là qualche

(catena Sonanta) ci mostrano con orgoglio il centro benessere, con tutte le attrezzature per la talassoterapia. Manca, ahimè, il tempo per provare le decantate meraviglie di questo tipo di trattamento, che si basa sul potere curativo dell’acqua di mare, di cui la Tunisia è ormai divenuta leader dopo la Francia. Di buon mattino, dopo una sosta per ammirare i faraglioni di pietra giallastra su cui si riverbera il primo sole, prendiamo una strada di montagna che attraversa sughereti e pinete e che, con le sue rare case dai tetti in spioventi in laterizio e i camini accesi, stride con l’immagine presahariana che spesso abbiamo della Tunisia. Qui nevica durante l’inverno, anche se siamo ad appena 800 metri s.l.m. Il clima e i paesaggi sono eminentemente montani, così come le troppe curve della strada che si inerpica lentamente, prima di ridiscendere verso la vasta pianura dove ci attende lo splendido complesso archeologico di Bulla Regia. Città numida poi occupata dai romani, Bulla Ragia offre al visitatore uno splendido colpo d’occhio sulle verdi colline circostanti. Le rovine di questa città che ospitava i re numidi, sebbene solo in minima parte scavate, sono davvero imponenti. Oltre ai resti delle terme, degli edifici di culto e dell’anfiteatro, che ha la caratteristica di essere completamente sopraelevato, sono le famose residenze sotterranee. Caratteristica di Bulla Regia, infatti, è che le dimore patrizie, oltre al tradizionale piano terra con il peristilio e le sale banchetti, han-

di schiavi e mercanzie. Puntando ora verso Sud-Est, ancora nel paese che fu dei fieri cavalieri numidi - e oggi dei loro discendenti berberi - il paesaggio diviene via via più piatto e brullo. Monotone distese di olivi grigioverdi fanno da cornice alla strada che conduce verso Dougga, una delle città romane meglio conservate del Nord Africa, patrimonio UNESCO. La sabbia che ha ricoperto la fiorente città durante il suo declino e poi abbandono, ha infatti permesso di recuperare una parte imponente della strut-

tura urbana di Dousse. Era questa la capitale del regno numida, che subì nel tempo un processo di romanizzazione che ne trasformò l’impianto urbano, arrivando a costruire parte del Foro sulla necropoli precedente. I templi e l’anfiteatro romani si sovrapposero alle edificazioni numide mano a mano che i legionari colonizzavano la città. A colpire in questo luogo è l’attenzione che già i numidi e soprattutto i romani misero nella gestione delle acque, bene scarso anche allora in queste zone semiaride.

Tutti gli edifici pubblici erano anche grandi collettori di acqua piovana, che veniva conservata in enormi cisterne. Un sistema di fognature ed i celebri bagni pubblici già allora dotati d’acqua corrente testimoniano anche in questa angolo d’Africa il culto dell’igiene e le capacità ingegneristiche dei nostri progenitori. Più in basso, il mausoleo dedicato al grande re dei Numidi, Massinissa, alleato cruciale dei romani nell’ultima guerra punica. Il monumento è molto interessante perché al suo interno contiene

Il fascino della Grande Moschea di Kairuan

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donna, quasi sempre con il velo posto, rassetta il cortile di casa. E’ domenica e gli uomini sono tutti nei bar a conversare, giocare o fumare la shisha. Solo nelle campagne circostanti gli uomini, ma soprattutto le donne, sono al lavoro sulle migliaia di olivi. A terra, lenzuola e teli per raccogliere il prezioso frutto, che fa della Tunisia uno dei maggiori esportatori di olio di oliva della regione. La sera ci coglie nel piccolo villaggio di Tabarka, al confine con l’Algeria. Un tempo era questa una località adibita alla pesca del corallo, data in concessione ai genovesi. Oggi, complice la quasi totale estinzione di tale preziosa fauna, è una delle mete in espansione del turismo balneare. Nell’hotel

no anche un piano completamente scavato nel sottosuolo. Le ragioni di questa singolare scelta non sono ancora chiare: forse è dovuta a ragioni climatiche o soltanto per sfruttare al meglio i volumi a disposizione, una volta cresciuta la città. Il risultato è comunque suggestivo e scendendo si scoprono una quantità di sale colonnate rimaste miracolosamente integre nel tempo. I mosaici sono qui di rara bellezza ed eleganza. A testimoniare l’importanza economica e politica di questa città lontana dalle coste, ma al centro di un’opulenta pianura che riforniva di grano l’impero romano, punto di contatto le sponde del Mediterraneo e l’Africa subsahariana, grande fornitrice

Il Colosseo di El Djem con un anfiteatro in grado di ospitare 35.000 spettatori seduti

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Tunisia culturale alla riscoperta della comune eredità classica un’iscrizione bilingue, in punico e numidico, che fu fondamentale per decifrare l’antico alfabeto libico e capire l’assetto organizzativo-politico dei Numidi. Dall’anfiteatro, posto più in alto, si gode una vista notevole sull’area circostante. Oggi, dopo aver ospitato per secoli tanti spettacoli, vive un’estemporanea esplosione di musica, canti e balli popolari messa in piedi da un gruppo di studenti in visita. Per un attimo rende vivo e palpitante questo luogo della memoria, fa immaginare quante esistenze sono trascorse tra le imponenti colonne dei templi e delle basiliche. L’ultima tappa ci porta a Kairuan: la città santa del Nord Africa. E’ il completamento naturale del percorso storico ed archeologico effettuato, poiché ci racconta del tramonto dell’impero romano e poi del tracollo bizantino per mano delle armate arabe. Kairuan venne edificata come avanposto per la conquista araba del Nord Africa, al limite dell’area semidesertica e carovaniera nella quale le popolazioni arabe si trovavano più a loro agio. La moschea di Kairuan, ancora oggi meta religiosa di grande importanza per la regione, venne edificata insieme alla cittadella fortificata. Si tratta di un complesso di rara bellezza, il cui enorme cortile in marmo chiaro che risplende alla luce del sole, viene calpestato ogni anno da migliaia di fedeli. Colonne di varie fattezze e materiali, bottino degli insediamenti circostanti, impreziosiscono la moschea, insieme ai bei tappeti berberi che ricoprono il suolo. Ancora oggi, è tradizione che le donne portino qui in dono il loro primo tappeto tessuto. La tomba del “barbiere”, uno dei compagni di Maometto così chiamato perché si dice conservasse come reliquia alcuni dei peli della barba del profeta, è davvero magnifica. Le pareti sono ricoperte di piastrelle di ceramica colorata di origine andalusa, decorata con motivi floreali e geometrici. In una piccola stanza di questo complesso, ancora oggi molti bambini vengono circoncisi, magari perché un tempo i barbieri erano anche cerusici. La medina, con le sue alte mura di mattoni cotti al sole e pietra, è piena di gente, banchetti, negozi, cibi e odori di spezie. Un mondo fuori e dentro al tempo, in cui venditori di qualunque cosa e donne velate

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coesistono con rumorose motorette e con le bellezze locali che, a capo scoperto e jeans di moda, chattano sul telefonino e sperano un futuro di maggiori prospettive. Ovunque, nei bellissimi caffè, al mercato o al ristorante, tutti manifestano il proprio orgoglio che la spinta che ha messo fine al regime corrotto e semidittatoriale di Ben Ali abbia dato l’avvio a processi di trasformazione di un’intera regione, i cui esiti sono ancora tutt’altro che certi. Anche in Tunisia nessuno può pronosticare con chiarezza che cosa accadrà. Certamente la transizione non sarà breve e priva di scosse. Ma è perfettamente comprensibile la voglia di milioni di tunisini di dare, con il voto delle ultime elezioni, un forte segnale di discontinuità nei confronti di un modello economico, politico e sociale che ha disatteso le aspettative dei più. Il turismo ha certamente un ruolo importante nel processo di transizione. Soprattutto se anche capace di portare visitatori attenti al di fuori delle rotte del turismo balneare di massa e dei giganteschi hotel della costa. Va detto, però, che l’offerta tunisina rivolta al turismo culturale necessità ancora di messa a punto e investimenti. I siti archeologici sono magnifici ma la loro fruibilità rimane limitata. Senza guida, è praticamente impossibile seguire percorsi strutturati. Le tecnologie di fruizione –anche attraverso ausili ICT – sono praticamente assenti. Il collegamento tra i siti ed il territorio circostante, specie in termini di fruizione di prodotti tipici e artigianato locale, è ancora incipiente. Anche per questo è encomiabile lo sforzo di chi, come -Ed è subito viaggi- mette a disposizione la propria esperienza di turismo culturale e di charme in Italia per proporre in maniera rinnovata una destinazione piuttosto inflazionata come la Tunisia, con chiavi di lettura di grande suggestione.• Ed è subito viaggi T.O. Via di Tor Fiorenza, 35 - 00199 Roma, www.subitoviaggi.it tel. +390686398970 Ente Nazionale Tunisino per il Turismo Via F. Baracchini, 10 20123 Milano , www.tunisiaturismo.it tel. +390286453044

Dougga, considerata la città romana meglio conservata di tutto il nord Africa


L’EGITTO nel cuore...

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Il viale delle Sfingi, che un tempo collegava il Tempio di Luxor al tempio di Karnak.

Testo di - Words by

Mirella Sborgia Peci, Teresa Carrubba

Foto di - Photos by Marcello

E

’ dal “cuore” dell’Egitto, il Nilo, che parte il nostro viaggio nella storia e nella cultura. Un’immensa via d’acqua, che attraversa l’Africa nera e quella mediterranea, le cui inondazioni periodiche hanno garantito per millenni la vita degli esseri viventi a dispetto delle aride regioni circostanti, ed il sorgere di una tra le civiltà più importanti della storia. Il punto di partenza del nostro tour è Assuan, a bordo della lussuosa motonave MS May Fair, inaugurata 2 anni fa, prima della crisi di questa tipologia di turismo a seguito delle vicende politiche egiziane. Oggi, secondo gli operatori del turismo egiziano, gli italiani sono ricomparsi sulla costa del Mar Rosso, ma non si sentono ancora sicuri di tornare a percorrere le mete archeologiche e dell’interno. Assuan è la città più meridionale dell’Egitto e frontiera tra due mondi: quello “civilizzato” e conosciuto l’uno, lontano e impenetrabile

EGYPT’S HEART OF HISTORY AND CULTURE

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he start of our journey into the history and culture of Egypt began at its heart: the Nile. The majestic river that flows through black and Mediterranean Africa, and whose periodic floods guaranteed not only man’s survival despite the arid region around it, but was also the backdrop to one of the world’ most important civilizations. We left Aswan on the luxurious May Fair which was launched a couple of years ago, before the crisis which hit tourism in Egypt after the political unrest earlier this year. Today tourism professionals say that while Italian visitors have returned to the Red Sea they are still not confi-

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L’EGITTO nel cuore... della storia e della cultura - Egypt’s heart of history and culture testa di coccodrillo, e il dio Haroeri, dalla testa di falco. La cittadina di Edfu ci appare in un’ampia ansa del fiume sacro di notevole bellezza. Qui, ad attendere i turisti che sbarcano dalle navi, ci sono decine di piccole carrozze a cavallo. Ne approfittiamo anche noi per attraversare velocemente la città che, oltre ad attirare un gran numero di visitatori per il suo tempio, è altresì un importante centro commerciale per la produzione di zucchero e per le sue antiche fabbriche di ceramica. Edfu è da sempre famosa per lo splendido Tempio dedicato al Dio falco Horus. Templi imponenti e città nascoste per millenni lungo il Nilo; le città dei vivi si trovano sempre sulla sponda orientale mentre la terra dei morti occupa normalmente quella occidentale. La navigazione ci conduce fino ad Esna, in passato una delle località più importanti dell’alto Egitto

Our boat ascends the Nile, stopping where history has left traces of its passage, like the Temple of Kom Ombo which is on a small hill overlooking the river and from which, in ancient times, it was possible to control both the river and land traffic going to and from Nubia. It is the only temple in Egypt consecrated to two gods: the God Sobek who has a crocodile’s head, and the God Haroeri who has the face of a falcon. Edfu, which appears on a wide bend of the sacred river, is strikingly beautiful. Scores of little horse-drawn carts await the tourists who descend from the boats. We take one to across Edfu which, as well as attracting visitors to its temple, is also a bustling city that produces sugar and has a famous factory, known since ancient days for its ceramics. Edfu’s temple is consecrated to the falcon God Horus. Hidden and majestic temples and cities have existed for

Le agili colonne istoriate del tempio di Philae, ora ricostruito sull’isola di Agilkia a pochi chilometri da Assuan

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l’altro. L’Egitto è infatti un Paese arabo e mediterraneo, che conserva altresì viva la cultura e le tradizioni della Nubia, la regione i cui fieri abitanti dalla pelle nera e dal fisico atletico, resistettero per secoli ad ogni forma di dominazione. Fino a rischiare di scomparire per sempre insieme alla loro terra negli anni Sessanta, inondati dalle acque del lago artificiale Nasser, creato dalla diga di Assuan. Per salvare dalle acque molti dei siti archeologici della Nubia, l’UNESCO attivò un’imponente operazione per smontare e trasportare quel patrimonio storico in luoghi sicuri. Uno di essi è il sacro tempio di Philae, ora ricostruito sull’isola di Agilkia a pochi chilometri da Assuan, tra le due dighe. Per raggiungerlo ci imbarchiamo su una delle lance a motore che fanno la spola con Shella. Il Tempio è dedicato ad Iside, dea della maternità e della fertilità. Il complesso templare fu un celebre luogo di pellegrinaggio e raggiunse il massimo dello sviluppo in epoca greco-romana. Proseguiamo la nostra navigazione sul fiume e nella storia. Il sole al mattino illumina d’oro le acque del Nilo su cui stiamo navigando e le sponde rigogliose che da millenni i contadini egiziani coltivano con pazienza e dedizione. Lasciata Assuan, la nave ha iniziato lentamente la risalita del Grande Fiume, in questa autostrada fluida in cui navigano da tempo immemorabile imbarcazioni cariche di genti e di merci. Luxor, la prossima meta, è situata a duecento chilometri più a nord, verso la costa. Durante il viaggio raggiungiamo il tempio di Kom Ombo, situato su una piccola collina da cui, nell’antichità, si poteva controllare il commercio fluviale e terrestre con la Nubia. E’ l’unico tempio in Egitto dedicato a due divinità: il dio Sobek, dalla

dent enough to visit the archaeological sites along the Nile. Aswan, which is Egypt’s southern-most city, is a frontier between two worlds: the “civilized” and known world and the other, impenetrable and distant world. Because being an Arab and a Mediterranean country Egypt can also boast the culture and traditions of Nubia, the region where its proud, dark-skinned and athletic inhabitants resisted any form of domination for centuries. To the point of almost disappearing, together with their homeland, in the Sixties when the region was flooded by the waters of the man-made Lake Nasser after the construction of the Aswan Dam. And in order to save Nubia’s archaeological sites and temples from the advancing waters UNESCO mounted a major operation to dismantle and transport Nubia’s immense historical and artistic heritage to higher ground. One of the temples that were saved is the Temple of Philae which was moved to the island of Akilkia, a few kilometres from Aswan, between the two dams. We take one of the small motorboats that ply their way to and from Shella to the island. The temple is consecrated to Isis, the goddess of maternity and fertility, and in ancient times the temple was a popular place of pilgrimage, reaching the height of its glory during the GreekRoman period. We continue our river journey into history and the morning sun turns the waters of the Nile into gold like the river banks where, for centuries, Egyptian farmers cultivated their crops. Having left Aswan the boat begins its slow ascent of the great river along which, since time immemorial, boats laden with people and goods have passed. Luxor, our next stop, is two hundred miles further north, towards the coast.

Un altro particolare del tempio di Philae con apertura sulle acque del Nilo (Tasenet) e successivamente uno dei maggiori centri di fede copta. La città è collegata alla sponda del Nilo da un’importante diga che sbarra il corso del fiume costringendo tutte le imbarcazioni a lunghe soste per accedere alle chiusa e superare il dislivello. Qui lo spettacolo, oltre che dal paesaggio, è arricchito dalle tante barchette degli abitanti locali che, approfittando della sosta forzata, ten-

centuries along the river, with the cities of the living on the eastern side of the Nile and the cities of the dead usually on the western bank. The cruise continues to Esna, which was once one of the most important cities in Upper Egypt (Tasenet) and also one of the most important centres of the Copt religion. The city is linked to the river bank by an important dam which blocks the river, the result being that

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L’EGITTO nel cuore... della storia e della cultura - Egypt’s heart of history and culture tano qualche guadagno gettando letteralmente sui turisti una pioggia di vestiti, tappeti e tovaglie multicolori. In serata, si raggiunge finalmente la splendida Luxor, l’antica Tebe. Qui si trovano circa 60 splendide tombe reali delle dinastie dal 1570 al 1200 a.C. Tra le più importanti, quelle dei grandi faraoni Ramsete IV, Seti I e Tutankhamon. Sulla sponda orientale dell’antica Tebe, ovvero nella “città dei vivi”, a colpire sono i due monumentali templi dedicati al Dio Amon, primo fra tutti quello di Karnak. Vi si accede attraverso un suggestivo viale fiancheggiato da una doppia fila di sfingi a testa di ariete, che un tempo conduceva al porto. Ci fa immaginare le lunghe processioni rituali che si snodavano lungo i circa tre chilometri e mezzo del Viale delle Sfingi fino al tempio di Luxor per la festa annuale delle inondazioni. Ad attendere il popolo egizio di allora, così come i visitatori di oggi, le statue colossali che caratterizzano l’imponente complesso templare dell’Egitto dei Faraoni. Accanto, svetta con i suoi 25 metri il bellissimo obelisco in granito rosa di Assuan, orfano del gemello che fu donato alla Francia nel 1831. Il nostro viaggio in nave è giunto a termine, lasciamo con nostalgia la bella e confortevole May Fair, poiché da Luxor il nostro viaggio prosegue in pullman, alla volta della New Valley. Questa regione, nuova frontiera del turismo in Egitto, si contraddistingue per il suo paesaggio lunare, caratterizzato dalle dune dorate e dalle pianure pietrose, che contrastano con la vegetazione lussureggiante vista fin qui lungo il Nilo. Si tratta di un’area ancora poco conosciuta e poco battuta dal turismo internazionale, ma che conserva intatte bellezze naturali e tradizioni. Lungo il tragitto, le suggestive oasi di Farafra, Dakhla e Kharga, vere e proprie isole verdi nel mare di sabbia della New Valley. L’unica da noi visitata in questo viaggio è quella di Kharga. Si tratta senz’altro dell’oasi più grande e sviluppata, che è anche capitale del governatorato della New Valley. Per secoli è stata una tappa obbligatoria per i carovanieri egizi e romani provenienti dal Sudan e le fortezze romane e le antiche rovine dei templi che vi si possono ammirare ne

La celeberrima Sfinge alle Piramidi di Giza

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all craft having to queue to get into the lock and overcome the difference in the water level. Apart from enjoying the landscape it is interesting to watch the little boats carrying locals who, during the wait to get into the lock, take advantage of the situation by literally flinging clothing, carpets and brightly coloured tablecloths at the tourists. Later that evening we come to some sixty splendid royal tombs dating back to dynasties from 1570 to 1200 B.C. Among the most important the tombs of the great pharaohs Ramses IV, Seti and Tutankhamun. On the eastern bank of ancient Thebes, that is to say the “city of the living,” stand two monumental temples consecrated to the God Amon, the most important being the temples of Karnak. These are reached along a long avenue flanked by a double row of sphinxes with ram’s heads which once lead to the port. And it is not difficult to imagine the long ritual processions that wound their way along the three and a half kilometres of this avenue of sphinxes up to the Temple of Luxor in celebration of the annual floods. Waiting for the Egyptian revellers then, as for us today, are the colossal statues of this majestic and striking complex of temples. Next to them, the soaring 25-metre pink granite obelisk of Aswan, the twin of which was given to France in 1831. Our journey along the Nile on the comfortable May Fair ends as, from Luxor, we will continue by coach towards the New Valley. This region, a new frontier of tourism in Egypt, has a lunar landscape with golden dunes and rocky planes which contrast with the lush vegetation we have seen up to now along the Nile. This is an area which not many international tourists are lucky enough to discover, although it is very beautiful and has well-preserved landscapes and traditions. Along the way we come to the oases of Farafra, Dakhla and Kharga, green islands in the New Valley’s sea of sand. We visited Kharga which is undoubtedly the largest and most developed of these oases, and is also the capital of the Valley which is ruled by a governor. For centuries Kharga was an obligatory stop for the Egyptian and Roman caravans coming from Sudan and the Roman fortresses and

Colossale statua di Ramses II nel Tempio di Karnak a Luxor

sono la tangibile testimonianza storica. Da Kharga partoancient temples we can see today are tangible proof of its no due escursioni imperdibili: il tempio di Hibis, dedicato history. al Dio Tebe Amon (unica grande testimonianza dei persiaThere are two exceptional excursions to take from Kharga: ni in Egitto) e la necropoli copta di Al Bagawat, dell’epothe Temple of Ibis, consecrated to the Theban God Amun ca di Nestorio, composta da 263 tombe in mattoni crudi, (the only major evidence the Persians left in Egypt) and the realizzata nella peculiare forma imposta dalla religione Copt necropolis of Al Bagawat, dating back to the time of cristiana. A Dush si trova invece il Tabuna Camp, un “camNestorius, and consisting of 263 brick tombs in the peculiar po tendato” di alto livello per chi ama provare l’ebbrezza shape imposed by this Christian religion. In Dush we stayed di una notte in tenda nel deserto, che nasce dall’idea di at the Tabuna Camp, a luxury tented camp and enjoyed “Desert in Style”. Il Tabuna Camp, circondato dal deserto, our night in a desert tent. The camp, which is a “Desert in è situato in prossimità di due importanti siti archeologici, Style” idea, is surrounded by the desert and located close to un po’ fuori dai classici circuiti: le rovine della fortezza rotwo important archaeological sites which are a little off the mana di Qasr El Dush, del I sec d.C. e l’antico tempio debeaten tourist track: the ruins of the Roman Qasr El Dush dicato a Iside e a Serapide, eretto da Domiziano. Il nostro fortress dating back to the 1st century A.D. and the ancient viaggio si conclude con il rientro al Cairo e con la visita del temple consecrated to Isis and to Serapis, which was erected Museo Egizio e alle famose piramidi di Giza. Dalla caotica by Domitian. Our journey ends in Cairo with a visit to the metropoli, il silenzio del deserto e il dolce cullare delle acEgyptian Museum and the famous pyramids of Giza. In the - Teatro Juàrez e Iglesia dedesert San Diego dejourney Alcalà que del Nilo appaiono lontane, quasi immagini sfumate diGuanajuato chaotic metropolis the silence of the and the

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L’EGITTO nel cuore... della storia e della cultura - Egypt’s heart of history and culture un altro tempo. Quello attuale, è fatto di grandi sfide per un grande Paese come l’Egitto. Per i viaggiatori ed i turisti, rimane la possibilità reale di poter visitare facilmente e con serenità le tante meraviglie dell’Egitto. Egitto nel cuore”, è l’indovinato slogan coniato dai tre enti statali di promozione turistica presenti in Italia – Turismo Egitto, Egyptair e MISR Travel - per riportare i turisti italiani sulle incomparabili rotte culturali del paese dei Faraoni.•

along the placid waters of the Nile are a distant memory blurred images of another era. This era being one of new challenges for Egypt. And for travellers and tourists there is the real possibility of safely visiting the many wonders of ancient Egypt. Egitto nel cuore (Egypt in your heart) is the clever slogan of the three tourist promotional organizations in Italy -– Turismo Egitto, Egyptair and MISR Travel – to bring Italian tourists back to discover the cultural wonders of the Land of the Pharaohs.•

L’INTERVISTA

EGITTO IN RIPRESA

Al Dr. Mohamed El Gabbar Direttore dell’ENTE del TURISMO EGIZIANO in Italia abbiamo chiesto: Testo di - Words by

Teresa Carrubba

Qual è attualmente la situazione in Egitto? Il nostro Paese è ormai del tutto tranquillo e non c’è nessun ostacolo alla ripresa di un turismo consistente come è sempre stato. Soprattutto da parte dell’Italia, legata all’Egitto da una storia millenaria, che ha sempre costituito il mercato più importante per noi. La sinergia tra il nostro Governo e il Ministero del Turismo Egiziano ha già prodotto

Ente del Turismo Egiziano Via Barberini 47 www.egypt.travel Tel +39064874216 Egyptair Via Bissolati 76 www.egyptair.it +39064744093 MISR Travel Via XX Settembre 44 +39064747373 www.newvalleyecotourism.org www.desertinstyle.com

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EGYPT’S RCOVERY

We spoke with Dr Mohamed El Gabbar Egyptian Tourism’s director in Italy. What is the current situation in Egypt? Our country is absolutely peaceful and there is no obstacle to the recovery of the excellent arrivals numbers we have always enjoyed. Especially from Italy, which has age-old historical links to Egypt, and has always been our most important market. The synergy between our government and the Ministry for Tourism has already had positive effects. And Egyptian Tourism, of which I am the director, has collaborated both with the media, organising press tours so that the media can see the situation for themselves, and with Italian tour operators with grants, advertising, events and charter flights. This dual approach has had a positive, albeit gradual, influence on the recovery of arrivals, especially on the classical itineraries, because all the Red Sea destinations, from Sharm El Sheikh on, have always ben peaceful and safe, and therefore did not have a drop in numbers. Egypt is not just sea and archaeology, you also have your wonderful deserts, which are not particularly popular with visitors. How do you intend changing this perception?

Mohamed El Gabbar Direttore dell’ENTE del TURISMO EGIZIANO in Italia

The problem is the lack of infrastructure, roads and hotels. We are talking about a vast area, and to make it a valid alternative to the Red Sea or a Nile cruise, or our archaeological sites, calls for serious investments. Our government offers incentives and tax relief to foreign investors with the aim providing our deserts and oases with better facilities. In the meantime the western New Valley desert has been included in the Italo-Egyptian development plan of the CISS-Cooperazione Internazionale Sud eco-toui


L’EGITTO nel cuore... della storia e della cultura - Egypt’s heart of history and culture suoi effetti positivi. Dal canto suo, l’Ente che io presiedo persegue la strategia di collaborazione sia con i rappresentanti della stampa attraverso press-tour per verificare personalmente lo stato delle cose, sia con gli operatori italiani del turismo con contributi, pubblicità, eventi e voli charter. Questo duplice percorso ha influenzato positivamente il ripristino, anche se graduale, del flusso dei turisti soprattutto nell’Egitto classico, perché tutte le località balneari del Mar Rosso, da Sharm El Sheikh in poi, sono sempre state tranquille e sicure e quindi frequentate normalmente. L’Egitto non è solo mare e archeologia, voi avete un immenso patrimonio di deserti, non molto frequentati dal turismo. Come intendete valorizzarli? Il problema è la carenza di infrastrutture, stradali e ricettive. Quel vasto territorio desertico, affinché possa diventare una valida alternativa alle località sul Mar Rosso, alla navigazione sul Nilo o ai siti archeologici, ha bisogno di investimenti consistenti. Il nostro Governo offre incentivi e agevolazioni agli investitori stranieri che vogliano rendere confortevole anche il turismo nel deserto e nelle oasi. Nel frattempo, il deserto occidentale della New Valley, è stato inserito nel piano di sviluppo Italo-Egiziano del progetto di ecoturismo che il CISS-Cooperazione Internazionale Sud sta portando avanti con la consulenza di Mario Michelini, Project Manager CISS-Egypt, nell’ambito dello scambio economico tra i due Paesi.

rism project, thanks also to Mario Michelini, Project Manager CISS-Egypt, in the framework of the economic collaboration between our two countries. The Egyptian flag-carrier EgyptAir has also played a major role in maintaining tourist arrivals “Flights were never suspended, and there were no cancellations,” Wael Kadry, EgyptAir’s country manager for Italy ,told Emotions. “Actually we increased flights with eight more than last summer, a total of 700 seats.” This winter EgyptAir is operating 22 weekly flights on Cairo (11 on Rome and 11 on Milan) and for next summer has plans to further increase flights. The Egyptian flag-carrier has also announced the purchase of new Boeing 737s and Airbus 330300s. These new aircraft will allow travellers to enjoy innovative services: first class passengers will have the highest levels of comfort including seats that are almost flat. “EgyptAir and the tourist board are working together, with a common aim but different tools. For example EgyptAir has launched investments and signed contracts with tour operators.” •

Per ristabilire i flussi turistici anche la compagnia di bandiera Egyptair ha fatto la sua parte

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“I voli non si sono mai fermati, non abbiamo avuto cancellazioni” ci ha dichiarato Wael Kadry, Direttore Egyptair per l’Italia “Anzi, abbiamo aumentato gli operativi e abbiamo otto frequenze in più rispetto alla scorsa estate, con un’offerta di 700 posti”. L’operativo invernale dall’Italia per Il Cairo mantiene 22 voli (11 su Roma e 11 su Milano) e, per l’estate 2012 è previsto un aumento dei voli. Per quanto riguarda la modernizzazione della flotta, Egyptair annuncia l’acquisizione di nuovi aeromobili come Boeing 737 e Airbus 330300. Questi nuovi aerei permettono ai viaggiatori di beneficiare di servizi innovativi: i clienti di prima classe avranno, tra gli altri comfort, delle poltrone che diventano quasi un letto. Egyptair e l’Ente del Turismo” conclude Wael Kadry “lavorano in sinergia, tutti e due hanno lo scopo di promuovere l’Egitto, ma con strumenti diversi. Egyptair, per esempio, ha avviato investimenti e firmato contratti con i tour operator.•

Wael Kadry, Direttore Egyptair per l’Italia


Carnevale in Slovenia

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I Kurent di Ptuj

Testo e foto di

Romeo Bolognesi

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l Carnevale rappresenta una delle festività più sentite e vissute in Slovenia, giovane nazione aperta e moderna ma al tempo stesso ancora piuttosto legata alle sue antiche tradizioni, molte delle quali connesse al mondo contadino e ai cicli stagionali della terra. Tra le numerose manifestazioni organizzate per festeggiare il Carnevale, qui chiamato Pust, la più famosa e importante è costituita dalla Kurentovanje di Ptuj, una delle più belle e antiche cittadine slovene, in-

centrata sulla singolare figura dei Kurent, o Korant, maschere tenebrose dai tratti animaleschi. I Kurent sono complessi e pesantissimi costumi in pelle di pecora a cui sono appesi campanacci da mucca, che fanno suonare saltellando aritmicamente, con calze colorate e stivaloni, grandi copricapo di pelliccia decorati con piume, rametti, corna e striscioline colorate di carta. La maschera di cuoio che copre il viso ha le aperture per occhi e bocca orlate di rosso, un naso da lupo, fagioli bianchi per denti e una lingua di cuoio rossa lunga fino al petto. Essi si muovono in gruppo di casa in casa, di villaggio in villaggio, accompagnati da altre figure carnevalesche guidate da un diavolo, per scacciare gli spiriti maligni e l’inverno con il rumore dei campanacci e con bastoni che por-

tano sulla cima aculei di riccio; e le fanciulle da marito ricambiano con il dono di un fazzoletto, che verrà annodato alla cintura come trofeo. Si tratta di figure assai antiche, risalenti alla notte dei tempi e ad un mondo pagano, quindi più antiche della metà dell’ VIII sec. quando il cristianesimo arrivò in Slovenia, emblema del piacere e dell’edonismo, una sorta di Dioniso sloveno che si scatena prima dei rigori penitenziali della Quaresima. A testimoniare la loro antichità ci sono alcune figure in bassorilievo su due edifici medievali del centro storico, ai numeri 4 e 6 di Jadranska ulica. Curiosamente trovano riscontro in altre maschere carnevalesche similari presso popolazioni agricole e pastorali in Ungheria, Bulgaria, Serbia e Croazia, nonché nei mamuthones della lontana Barba-

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Carnevale in Slovenia: i Kurent di Ptuj

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gia sarda. Da maschera locale i Kurent sono ormai assunti ad emblema nazionale: figurano sui francobolli, partecipano a parecchie manifestazioni folcloristiche anche all’estero e possono essere ammirati per tutto l’anno nell’apposita sezione del museo etnografico ospitato nel castello cittadino. L’ultima sfilata domenicale della kurentovanje, giunta alla 51° edizione e seguita in diretta televisiva nazionale, ha coinvolto 3 mila maschere – anche con gruppi provenienti da dieci altre nazioni – e un pubblico di 70 mila spettatori, consacrandosi come maggiore manifestazione popolare del paese. Il clou dell’edizione 2012, della durata complessiva di 11 giorni, si svolgerà il 19 febbraio. Ptuj, situata nella regione della Starjeska sulle rive della Drava

nell’est del Paese, è un’elegante cittadina medievale ricca di pregevoli edifici storici, una città museo dominata dalla possente mole di un castello rinascimentale e può vantare il titolo di più antica città della Slovenia. Dopo un insediamento neolitico e celtico, in epoca romana divenne infatti un importante porto fluviale e con il nome di Poetovio il maggior municipio illirico sulla strada per la Pannonia e il Norico, con un numero di abitanti doppio rispetto a quello attuale. Sede stanziale delle legioni romane, nel 69 d.C. queste vi elessero imperatore il loro comandante Vespasiano e la città divenne uno dei maggiori centri per il culto del dio orientale Mitra, ancora oggi documentato dai resti di diversi mitrei. Le vicine colline vitifere delle Slovenske Gorice

e di Haloze ne fanno uno dei maggiori produttori di vino del paese. Base ideale per assistere al Carnevale di Ptuj lontani dalla calca possono essere le vicine terme di Radenci a mezz’ora di strada panoramica non trafficata, famose per l’acqua minerale ricca naturalmente di salutare anidride carbonica e per il fatto di essere uno dei complessi più antichi, che oltre ad un’ottima sistemazione alberghiera possono regalare il rilassante piacere delle piscine, delle saune e dei trattamenti termali per la salute, la bellezza e il benessere a prezzi decisamente competitivi.• www.kurentovanje.net www.ptuj-tourism.si (www.zdravilisce-radenci.si, tel. 00386.2.520 27 20 in italiano)


48 ORE A YANGON

in fase di ristrutturazione, e il colorato tempio indiano Sri Sri Siva Krishna. Poco lontano il Palazzo di Giustizia e, nel Botahtaung township, la St. Mary’s Cathedral che a dicembre ha festeggiato il centenario della fondazione. Il vicino Botataung Paya è unico essendo vuoto dentro. Pagando $1 si può entrare per ammirare le stanze ricoperte di specchi ed elaborate decorazioni buddiste.

Il Pranzo Salendo con l’ascensore si arriva al 20° piano della Sakura Tower e al Thiripyitsaya Bistrot dove il menu offre una ricca gamma di sfizi locali, asiatici e internazionali, mentre dalla finestre ci sono viste mozzafiato sulla città, sul fiume e sull’imponente mole dorata dello Schwedagon Paya, il monumento più importante della città e del Paese.

Fermatevi in uno dei tanti teashop lungo la Bank Street per sorseggiare una tazza di tè Burmese-style, fortissimo, saporitissimo e dolcissimo con latte condensato, e accompagnato da una gustosa samosa, un tipico pasto con ripieno di verdure, da gustare con una forte salsa di pesce fermentato e peperoncino. All’ombra degli alberi lungo il Sule Paya Road all’altezza dei giardini Maha Bandoola siedono dei chiromanti che per un paio di dollari vi leggeranno la mano.

Il Pomeriggio Molto suggestivo una visita allo Schwedagon di pomeriggio quando le temperature roventi della giornata cominciano ad attenuarsi, e i colori del tramonto si riflettono sullo svettante tempio. La leggenda vuole che sia vecchio più di 2.500 anni e che custodisca otto capelli di Buddha. Di forte simbolismo le statue, gli altari e le rappresentazioni del Buddha nei padiglioni che si sviluppano intorno al grande manufatto dorato.

All’angolo della Aung San Street e di fronte al Trader’s Hotel sorge la Sakura Tower. Nel Genky Physiotherapy Clinic al 5° piano i terapisti sono non-vedenti, e un massaggio di 45 minuti, che costa $ 12, è il modo ideale per riprendersi dopo la passeggiata mattutina.

La Sera I nostalgici non vorranno mancare un aperitivo al bar di The Strand, il grande hotel storico della città, che si trova di fronte a fiume Yangon e dove si respira ancora tutta l’atmosfera dell’epoca britannica.

Testo di

Pamela McCourt Francescone

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ffascinante ed enigmatica, Yangon l’ex capitale del Myanmar, è l’unica tra le grandi città asiatiche ad aver mantenuto pressoché intatto il suo patrimonio coloniale, che risale alla dominazione inglese nel XIII secolo. Divisa in township o distretti, i suoi storici viali alberati, edifici storici, grandi templi buddhisti, animati mercati e splendidi parchi cittadini sono testimoni di quell’ epoca in cui era la città più ricca e fiorente dell’Oriente. Non più capitale dal 2005 quando Naypidaw è stata proclamata la nuova capitale birmana, Yangon rimane il cuore

palpitante del Myanmar - il nome ufficiale della Birmania - il più grande dei paesi Sud-est asiatici, che conta oltre 57 milioni abitanti. GIORNO 1 La Mattina Il modo migliore per assaporare l’atmosfera di Yangon è girare il centro storico a piedi partendo dal Sule Paya, il tempio ottagonale che è il centro fisico e simbolico della città. Accanto sorgono la City Hall, riportata al suo splendore originale, i grandi magazzini Rowe & Company all’angolo della Pansodan Road e attualmente

La Schwedagon Pagoda, monumento simbolo e centro spirituale del Myanmar

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48 ORE A YANGON La Cena Le Planteur, il ristorante più sofisticato ed elegante dell’ex capitale, è un’oasi gastronomica raffinata sotto lo chef Michelin Felix Eppisser e sua moglie Lucia. Suggestiva l’illuminazione nel grande giardino e nelle sale all’interno della vecchia casa. I grandi vini nella cantina ne fanno una delle più pregiate in Asia, mentre le creazioni culinarie di Felix sfidano l’apice dell’eccellenza. Al momento della prenotazione chiedere il transfer con una della macchine d’epoca riservate alla clientela. GIORNO 2 La Mattina Dal Pansodan Jetty, il molo di fronte al vecchio edificio della dogana, ogni mezz’ora partono traghetti ($1 il biglietto per turisti) che, in dieci minuti, portano passeggeri e mezzi di trasporto sull’altra sponda del fiume Yangon. Prendete un triciclo e, per pochi dollari, il conducente vi porterà al piccolo villaggio rurale di Dala dove il tempo scorre con ritmi antichi e sembra di aver fatto un passo indietro nei secoli. Prima di riprendere il traghetto fermatevi per una bibita sulla terrazza del piccolo ristorante al molo per ammirare lo skyline della città che, con l’eccezione di qualche palazzo moderno (vie-

tato costruire più in alto della cima dello Schwedagon) è rimasto immutato nei secoli.

locali, da rubini e perle ai cheerot, i tipici sigari birmani, a oggetti d’epoca.

Il Pranzo Per chi vuole assaggiare il meglio della cucina birmana c’è il ristorante Feel sulla Ryi Daung Su Teiktha Road (a destra al semaforo sulla Pyay Road dopo il National Museum). Le pietanze scelte al grande buffet di piatti birmani (ottimi gli stufati di carne e verdure), thai e cinesi vengono portati a tavola dai camerieri insieme a minestre, piatti di verdure e salse. Si mangia nella sala principale, fuori nel giardino ombreggiato o ai piccoli tavoli con sgabelli lungo il marciapiede, che sono preferiti dai molti locali che frequentano il ristorante. Il servizio è veloce e un pasto costa intorno ai $3-4.

La Cena Il Padonmar Restaurant, nel quartiere residenziale di Dagon Township è un edificio in tipico stile birmano. Sul menu gustose zuppe, insalate e secondi birmani e ispirati alle secolari tradizioni della cucina thailandese. C’è anche un menu Halal, e a disposizione dei clienti, eleganti sale per cene riservate.

Il Pomeriggio All’incrocio del Sule Paya Road con l’Aung San Road sorge il Boygoke Aung San Market (aperto dalle 9 alle 17.00 e chiuso il lunedì), un immenso emporio coperto con oltre 1.500 negozietti e bancarelle che prende il nome dall’eroe nazionale dell’indipendenza birmana. Dentro l’edificio, conosciuto anche come Scott Market, si trova di tutto, da lacche e souvenir a stoffe e dipinti di artisti

E per finire……. Si torna allo Schwedagon, aperto fino alle 22 e ancora più suggestivo di notte senza le moltitudini di persone che l’affollano durante ore diurne. Nelle ore serali i fedeli vengono per pregare, passeggiare e fare offerte agli altari. E il brillante di 72 carati, la più grande delle 4.531 pietre preziose che incrostano la cima della stupa, sembra voler sfidare il cielo stellato con i suoi raggi luccicanti. Come arrivare Thai Aiwways opera voli giornalieri dall’Italia sull’aeroporto internazionale Suvarnabhumi di Bangkok con buone coincidenze che, in poco più di un’ora, raggiungono Yangon. An-

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L’elegante facciata di The Strand, un boutique hotel di lusso nel cuore della citta’ che MIA e Bangkok Airways operano frequenze tra le due città. Dove Alloggiare The Strand e The Governor’s Residence sono i due alberghi più lussuosi della citta. Di ottimo livello anche i centralissimi Trader’s e Park Royal, mentre l’Inya Lake, che sorge sul lago omonimo, il più grande della città a circa 20 minuti dal centro, ha una grande piscina e splendidi giardini Consigli I taxi sono il modo più veloce e conveniente per spostarsi in città. Per 2 o 3 dollari vi porteranno ovunque, ma è meglio concordare il prezzo prima di salire. Non cambiare i soldi in strada. I cambiavalute offrono cambi molto favorevoli ma sono abilissimi prestigiatori, e prima di finire nelle vostre tasche le banconote che avrete appena contato vengono miracolosamente decurtate di molti bigliettoni.

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Yangon, una metropoli tentacolare con oltre 6 milioni di abitanti

Solo pochi alberghi accettano le carte di credito, e nei negozi e ristoranti si paga in Kyat, la valuta nazionale, anche se alcuni negozi e locali più turistici accettano i dollari

Munitivi di dollari di piccolo taglio, serviranno per entrare nei musei e nelle pagode. Portate sempre un ombrello. Nella stagione delle piogge (aprile-ottobre) vi servirà senz’altro. E durante la stagione secca (novembre-marzo) vi proteggerà dal sole durante le ore più roventi della giornata. Con temperature che oscillano tra 18 a 35 gradi tutto l’anno si consiglia un abbigliamento leggero. Ma è saggio portare anche una giacca o scialle per le serate più fresche e per l’aria condizionata nei grandi alberghi. LINK Vettori Thai Airways www.thaiairways.co.it MAI www.maiair.com Bangkok Airways www.bangkokair.com Monumenti Schwedagon Paya www.shwedagonpagoda.com Alberghi The Strand www.ghmhotels.com/en/strandmyanmar/home/#home

The Governor’s Residence www. governorsresidence.com Trader’s Hotel www.shangri-la.com/en/property/ yangon/traders Park Royal Hotel www.parkroyalhotels.com/en/hotels/myanmar/yangon/parkroyal/ index.html Inya Lake Hotel www.inyalakehotel.com Massaggi Genky Physiotherapy Clinic Tel 09-8615036 Ristoranti Le Planteur www.leplanteur.net Thiripyitsaya Bistrot www.sakura-tower-yangon.com/ sky.htm Feel Restaurant Tel ‪95 1 725 736 ‬ Ristorante Padonmar www.myanmar-restaurantpadonmar.com Tour Operator Asian Trails www.asiantrails.info/index. cfm?menuid=17 Orchestra Travel www.orchestra-myanmar.com

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La spa e una replica dell’antico palazzo reale di Mandalay

Una grande piscina nel Mandarin Oriental Dhara Dhevi

Dhevi Spa

da antico regno a rifugio benessere di lusso Testo e foto di

Pamela McCourt Francescone

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Un trattamento ayurvedico

li ambienti della Dhevi Spa nel Mandarin Oriental Dhara Dhevi fanno rivivere i fasti dell’antico Regno Lanna fondato a Chiang Mai, in Thailandia, da Re Mangrai nel XII secolo. L’edificio che ospita la Spa è ispirato allo sfarzoso Palazzo Reale a Mandalay in Birmania, mentre il complesso Dhara Dhevi è la splendida ricostruzione di una città del periodo Lanna. Il tetto della Spa, alla quale si accede lungo una rampa di scale in marmo bianco, è a sette livelli e rappresenta i setti passi che conducono al Nirvana, il raggiungimento della perfezione spirituale e fisica. Una promessa per chi entra in questa oasi di armonia sensoriale, estesa su 3,100 mq, per sperimentare le millenarie arti thailandesi del benessere fisico e spirituale. La Spa, immersa in un paesaggio pittoresco di 24 ettari di giardini e risaie in una cornice bucolica, è dotata di 18 sale e suite per terapie olistiche, trattamenti di medicina cinese, programmi

benessere personalizzati e rituali di rilassamento, alcuni dei quali risalgono al Regno Lanna come la tecnica che fa uso di bastoncini di corteccia dell’albero di tamarindo per picchiettare i muscoli prima di passare a un rilassante massaggio con olii alle erbe e compresse calde. Il ricco programma di trattamenti comprende inoltre terapie di drenaggio linfatico, riflessologia, massaggi thai, svedesi e Lanna, consultazioni ayurvediche e trattamenti per il viso, i piedi e le mani. La struttura è dotata anche di aeree per Pilates, Tai Chi e Yoga sia all’interno che all’aperto nei giardini e accanto alle due piscine. Particolarmente eleganti e invitanti le zone relax dove sostare dopo i trattamenti per sorseggiare un tè allo zenzero o al bergamotto e godersi lo spettacolo delle risaie che al tramonto si tingono di sfumature dorate, e dove il silenzio viene rotto solo dal dolce fruscio della brezza serale che gioca con le giovani spighe che s’inchinano e ondeggiano sulle acque.•

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personaggi come i Medici di Firenze, i Gonzaga di Mantova oltre un lungo elenco di vescovi, cardinali e nobili. I Bagni di Petriolo, dopo il lungo oblio del periodo medievale, suscitarono nuovamente l’interesse dell’uomo a partire dal 1230, per poi raggiungere il massimo splendore nel Rinascimento, quando nel 1404 il luogo venne addirittura fortificato dai senesi ad indicare il suo notevole prestigio poiché i siti termali erano come cliniche, luoghi dove le calde acque che sgorgano dalla terra erano considerate curative, infatti ancora oggi la temperatura dell’acqua solfidrica al momento della sua uscita dal terreno è di 43 °C. Unico esempio conosciuto di terme fortificate, la posizione della sorgente è sul fianco di una ripida collina che corrisponde ad un tratto di quell’affascinante fiume chiamato Farma, in una zona impervia, circondata da fitti boschi dove la natura è la regina. Il luogo è ideale per la ricerca del be-

nessere fisico e spirituale, affiancando la possibilità di un percorso dove storia, natura e contemporaneità si incontrano. Quando l’acqua calda si mescola con quella del fiume si crea un ideale microclima acquatico all’interno di un’altra piscina creata naturalmente da grossi sassi. Le terme hanno negli anni avuto momenti di inevitabile declino, ma oggi il nuovo e moderno stabilimento termale nel comune di Monticiano offre una serie di interessanti proposte per trascorrere brevi periodi di relax o giornate di puro piacere immersi nella natura e soprattutto godere di acque calde senza dover raggiungere esotiche località turistiche. L’offerta termale ha quindi due possibilità, quella del classico centro benessere o la scoperta delle tradizionali piscine naturali che affiancano i resti delle antiche terme. All’interno di questo storico edifico si possono ancora vedere le vasche in pietra allineate sotto il portico, mentre a poca distanza

è possibile immergersi nelle piccole conche naturali formate da depositi di calcare e zolfo. Sulla parte superiore della collina si trova quindi il nuovo centro termale, eccellenza nel panorama toscano dell’offerta nel settore benessere, un luogo di indiscussa professionalità adeguato a tutte le patologie legate alla dermatologia, aspetti locomotori e respiratori. Le terme di Petriolo sono un luogo adatto ad ogni stagione, ma forse è proprio in gennaio, mese con il quale inizia l’altalenarsi faticoso di impegni e scadenze lavorative, che tutti sentiamo la necessità di ricaricarci, di ricercare noi stessi quindi rivitalizzare il corpo insieme allo spirito. Il freddo gennaio può diventare un momento di indubbio stimolo per visitare un luogo come questo. E’ stupenda la sensazione di gioia che ci aggredisce nell’immergersi nelle acque calde mentre l’aria intorno a noi è quella pungente delle più fredde giornate invernali,

PETRIOLO Testo di Giuseppe

Garbarino e foto dell’Archivio Terme di Petriolo

Quando la storia incontra il benessere

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icerone citò questo luogo nell’Orazione pro Marco Caelio e anche il poeta Marco Valerio Marziale ne ricordò la località in uno dei suoi epigrammi a testimoniare l’antica frequentazione di questo luogo che si offre al mondo degli uomini con la sua forma quasi ad imbuto che ne ha originato il toponimo medievale Petriolo, una ruga sul terreno,

una screpolatura del tempo da dove la forza primigenia, chiusa nelle viscere della terra, cerca di uscire piena di vitalità. Oggi sul fondo di quella valle a ridosso della statale Siena Grosseto, passano tranquille giornate gruppi di girovaghi alla ricerca del benefico calore di acque che già videro i sacri lombi di papa Pio II e di moltissimi altri

Le antiche terme. E’ l’unico esempio di luogo termale fortificato conosciuto in Europa. (foto Roberto Fortini)

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Petriolo le calde acque dei signori di Toscana

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Fangoterapia, una delle più ricercate e terapeutiche soluzioni per il rilassamento muscolare. (foto Terme di Petriolo)

magari con qualche timida macchia di neve sui rilievi della zona. Possiamo certo dire che ad un anno dalla riapertura delle Terme di Petriolo, al centro di quella che è la riserva naturale del Basso Merse, lo slancio economico della zona ne ha positivamente risentito grazie ad una struttura concepita per un moderno incontro con noi stessi. La struttura si articola su quattro piani con ampi solarium e vasche termali esterne ed interne, vicino a queste si articola un percorso vascolare Kneipp per aiutare la circolazione sanguigna di gambe e piedi. Particolarmente apprezzate sono le sedute di massaggio e le applicazioni dei fanghi, ma non dovete spaventarvi, nonostante il successo che hanno avuto, le nuove terme non soffrono di quell’affollamento turistico tipico di altri periodi dell’anno e anche una sola giornata nella quiete dei vapori caldi che accarezzano le acque termali è sufficiente a ripartire in attesa di mesi più caldi. Tutta la zona guarda con interesse a questa iniziativa di riscoperta delle terme di Petriolo, soprattutto in funzione di ripristino conservativo di alcuni edifici storici come la trecentesca chiesa, il cassero e le mura che circondavano l’antico complesso termale, ancora in stato di abbandono e degrado. Petriolo vive oggi una nuova epoca, quella del terzo millennio, in un momento di grande interesse per tutti quei luoghi dove si uniscono alcune delle tradizionali situazioni di benessere, relax, gastronomia, accoglienza e storia. A poca distanza si trova il Petriolo Spa & Resort, un albergo che domina la vallata lungo la strada statale Siena Grosseto; qui la tradizione mediterranea si incontra con i più intimi profumi della toscana, in una sensuale ospitalità di magia e colori, in un ambiente di grande classe e ricercatezza adatta a far sentire chiunque a casa propria. Anche in questo caso la parte termale del luogo è vincente; una grande piscina esterna ed una interna, sembrano il naturale completamento delle vicine terme. Un calidarium, il tepidarium e una sauna, oltre alla possi-

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Il solarium, il luogo da dove godere il panorama sulle incontaminate foreste di Petriolo anche quando le temperature sono basse. (foto Terme di Petriolo)

La piscina esterna delle Terme di Petriolo, immersa nella natura sembra galleggiare su un tappeto verde. (foto Terme di Petriolo) bilità di personalizzati programmi benessere completano l’itinerario presso il panoramico albergo che visto da lontano sembra arroccato sulla dorsale della collina, attento a non scivolare dentro quell’imbuto naturale dove si fa strada l’acqua termale di Petriolo. Ecco che in quest’angolo di Maremma incontaminata, in uno spazio unico e tranquillo è possibile passare da poche ore ad un fine settimana in perfetta sintonia con se stessi, dimenticando forse che nonostante il caldo e ospitale tepore delle acque, il freddo gennaio ci assedia silenzioso. Unico problema, insignificante alla luce degli effetti benefici e ristoratrici, l’odore di zolfo che ci accompagnerà per qualche ora.•

Terme di Petriolo Loc. Petriolo – Monticiano 58100 Grosseto (GR) Tel. E fax 0577 75 70 92/0577 75 71 04 www.termepetriolo.it Petriolo Spa & Resort Località Bagni di Petriolo 58045 Pari, Civitella Paganico (GR) Prenotazioni: +39.0564.9091 www.petriolospa.com

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TIVOLI

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viaggio a ritroso nel tempo

Testo di Raffaella Ansuini e foto di

Marco Aschi

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on questa citazione di Goethe ha inizio il nostro viaggio alla scoperta di Tivoli, l’antica città latina Tibur, chiamata da Virgilio, nel libro VII dell’Eneide, Tibur Superbum e fondata ancora prima di Roma, nel 1215 a.C.Situata ad est di Roma, nacque e si estese sulla riva sinistra del fiume Aniene, dove sorse l’acropoli e vi tornarono, nel Medioevo, i cittadini tiburtini che si garantivano così il percorso più breve per la transumanza delle greggi. Nel Settecento la città, con tutte le sue rovine, divenne una tappa obbligata per i viaggiatori del Gran Tour, soprattutto nobili inglesi, che finanziarono sterri, alla ricerca di sculture, per arricchire le loro dimore, ma anche pittori francesi, olandesi e tedeschi. Oggi Tivoli vanta ben quattro siti statali: Villa Adriana, il Santuario di Ercole Vincitore, Villa d’Este e Villa Gregoriana di cui 2 (Villa Adriana e Villa d’Este) Patrimonio dell’Umanità.

La villa d’Este di è un capolavoro del Rinascimento italiano e figura nella lista del Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO

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Kaleidoscope

Sono stato a Tivoli ed ho ammirato uno degli spettacoli più superbi. Le cascate insieme alle rovine antiche e tutto l’insieme di quel paesaggio sono cose la cui conoscenza ci arricchisce nell’intimo dello spirito (Goethe, Viaggio in Italia)


TIVOLI un viaggio a ritroso nel tempo

Villa Adriana

È la villa che l’imperatore Adriano volle farsi costruire e forse, in parte progettò. È sicuramente la più famosa delle molte residenze imperiali romane. Ma alla fama si aggiunge il mistero poiché, in realtà, Villa Adriana è ancora poco conosciuta. È costituita da un insieme di costruzioni monumentali, vie , specchi d’acqua, terme, biblioteche, teatri, templi che alcuni vogliono considerare come la proiezione di analoghi monumenti visti dall’imperatore durante i propri viaggi. Si tratta di una vera e propria città estesa su di un’area di circa 300 ettari, nella quale il grandioso complesso si presenta diviso in quattro diversi nuclei. La Villa era certamente ispirata alla Domus Aurea di Nerone, la grandiosa reggia romana quasi completamente distrutta dopo la morte dell’imperatore. Il progetto della villa tiburtina è attribuito allo stesso imperatore, interessato all’architettura, che volle qui riprodurre i luoghi e gli edifici che più lo avevano colpito nei suoi numerosi viaggi nelle province dell’impero: il Liceo, l’Accademia, il Pritaneo, il Pecile di Atene, il Canopo sul delta del Nilo, la Valle di Tempe in Tessaglia. Non si trattò di una scelta puramente amatoriale: i viaggi di Adriano non avevano un carattere,

per così dire, turistico, ma costituirono il segno più evidente della nuova concezione dell’impero che lui stesso andava affermando in quell’inizio del II secolo d.C., dopo che le conquiste del suo predecessore Traiano avevano portato i confini dell’impero romano alla massima espansione. Dopo la morte di Adriano, avvenuta nel 138 d.C., la villa continuò a far parte dei beni della Casa Imperiale. Nei secoli successivi subì un lento declino e fu spogliata dei suoi marmi, utilizzati in molti edifici e chiese medievali. All’inizio del Settecento gran parte della Villa fu acquisita dalla casata Conte che iniziò una campagna di scavi e la adornò con cipressi e viti. Dopo l’unità d’Italia (1870) passò al Demanio statale.

Santuario di Ercole Vincitore

Era attorno al I secolo a.C., quando fu costruito, a circa 300 metri dalle mura urbane di Tivoli, l’imponente santuario dedicato ad Ercole, dio tutelare della città, protettore della transumanza. Il santuario divenne ben presto meta di rilevanti flussi economici e commerciali, visto il controllo sistematico dei traffici commerciali che si svolgevano lungo l’asse viario della Tiburtina. Il Santuario di Ercole

Vincitore è da considerarsi fra i grandi santuari del Lazio, assieme a quello di Palestrina e quello di Terracina. Ad un periodo di abbandono fa seguito, nella seconda metà del XIX secolo, un recupero e una variazione di destinazione d’uso; in centrale idroelettrica, la prima dell’Italia centrale, e poi in cartiera fino al 1950. Le trasformazioni del complesso, se pur significative, non ne hanno comunque compromesso l’identità monumentale. Si è infatti creato un connubio tra antico e moderno; tra archeologia classica e archeologia industriale. Nel 1840, ad opera dell’archeologo belga Thierry, venne restituito alla sua reale identità e alla fine degli anni Settanta (del secolo scorso), acquisito dal demanio. Oggi, il santuario sta lentamente tornando alla luce, anche grazie ad un progetto per la riqualificazione e fruizione del teatro - che è parte integrante del complesso, con i suoi 700 posti - finanziato dai fondi del gioco del lotto 2004-2006 D.M. 22/10/2004 e diretto dalla Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Lazio, di concerto con la Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio.

Villa D’Este

Venne fatta costruire dal Cardinale Ippolito d’Este (1550), al posto di un

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Scorcio di Tivoli quartiere chiamato Valle Gaudente di epoca medievale. La Villa è un capolavoro di giardino all’italiana, una miscellanea di fontane, ninfei, grotte, giochi d’acqua e musiche idrauliche che costituiscono un modello per i giardini europei. Villa D’Este, fra il 1867 e il 1882, ospitò spesso il musicista Franz Liszt che proprio qui compose Giochi d’acqua a Villa d’Este, per pianoforte, e tenne, nel 1879, uno dei suoi ultimi concerti. Allo scoppio della prima guerra mondiale la villa entrò a far parte delle proprietà dello Stato Italiano, fu aperta al pubblico e interamente restaurata negli anni 1920-30. Un altro radicale restauro fu eseguito, subito dopo la seconda guerra mondiale, per riparare i danni provocati dal bombardamento del 1944. A causa delle condizioni ambientali particolarmente sfavorevoli, i restauri si sono da allora susseguiti quasi ininterrottamente nell’ultimo ventennio.

Villa Gregoriana

Parco pubblico voluto da papa Gregorio XVI, Villa Gregoriana nacque nel 1835 dalla sistemazione del vecchio letto dell’Aniene, stravolto dalla rovinosa piena del 1826. Di rara bellezza la Villa, detta anche di Manlio Vopisco, proprietario in epoca romana della villa distrutta, si caratterizza per gli aspetti naturalistici che esaltano la presenza delle acque del fiume Aniene. Si possono ammirare la grande cascata (oltre 100 metri di salto) che esce con impeto dai cunicoli artificiali scavati, dopo la piena catastrofica del 1826; le grotte di Nettuno e delle Sirene, dove il fiume stesso viene inghiottito nelle viscere della roccia, per poi ricomparire più a valle. La suggestione che i luoghi ancora selvaggi incutono e il particolare ecosistema ne fanno un luogo unico al mondo.•

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www.villadestetivoli.info www.comune.tivoli.rm.it www.fai.it bibliografia: villa adriana. Una storia mai finita Tivoli, Ponte Gregoriano

Villa Gregoriana, Tempio di Vesta


San Daniele del Friuli

La -Città slow- del celebre prosciutto Testo di Luisa

Chiumenti foto dell’Archivio del Consorzio di San Daniele e dell’Ufficio Turistico Pro San Daniele

S Salone di stagionatura

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Marchiatura a fuoco

an Daniele, uno dei centri principali del Friuli, é una bella cittadina adagiata su un colle, lungo il maestoso fiume Tagliamento, da cui si possono cogliere panorami sconfinati su altre dolci distese collinari che nel loro complesso costituiscono il territorio ideale per dare vita alla famosissima produzione del prosciutto San Daniele, frutto di una tradizione millenaria e di un microclima unico. Ed é significativo, avvicinandosi alla cittadina, rendersi conto di quanto sia appropriata la sua appartenenza a quella Associazione delle “Città slow”, che, nata con lo scopo di “promuovere e diffondere la cultura del buon vivere”, animata da uno spirito attento alla curiosità verso “il tempo ritrovato” ed il “lento, benefico succedersi delle stagioni”, allarga l’attenzione dalla buona tavola, alla qualità dell’accoglienza e dei servizi, alla bontà degli stili di vita e di una serie di impegni il cui rispetto viene verificato periodicamente. E se il termine “slow” sta ad indicare “lento”, nella accezione positiva di contrapposizione ad uno stile di vita “fast”, che negli ultimi decenni è stato in voga nelle grandi metropoli, essere parte dell’associazione significa impegnarsi a rispettare i parametri in materia urbanistica e ambientale, a guardare avanti senza dimenticare le tradizioni

Piatto di prosciutto San Daniele e marchi

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San Daniele del Friuli - La -Città slow- del celebre prosciutto e i valori di riferimento impegnandosi a salvaguardare gli aspetti storici, artistici e naturali di pregio della propria città, pur mettendo la tecnologia innovativa a servizio della qualità della vita. L’impegno per il Comune riguarda tutti gli aspetti della città: infrastrutture, qualità urbana (recupero dei centri storici e degli edifici di pregio, bioarchitettura, piste ciclabili, abbattimento delle barriere architettoniche, etc); politica ambientale (lotta all’inquinamento, promozione di una mobilità sostenibile); difesa delle produzioni autoctone e consapevolezza, ovvero la crescita della coscienza di essere città slow. Due dei principi emanati dallo statuto delle città slow, sono esattamente legati alla produzione tipica del prosciutto: quello della “salvaguardia delle produzioni autoctone che hanno radici nella cultura e nelle tradizioni e che contribuiscono alla tipizzazione del territorio mantenendone i luoghi e i modi e promuovendo occasioni e spazi privilegiati per il contatto diretto tra consumatori e produttori di qualità” e quello di promuovere la qualità della ospitalità come momento di reale collegamento con la comunità e con le sue specificità”, con ”l’utilizzazione piena e diffusa delle risorse della città”. Per quanto riguarda il prestigioso prodotto di questa terra, é doveroso riIl Duomo di S. Michele a San Daniele

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cordare come la qualità del prosciutto San Daniele sia stata riconosciuta dallo Stato Italiano fin dal 1970 e come, dal 1996, il Prosciutto di San Daniele sia stato riconosciuto dall’Unione Europea come prodotto DOP, le cui caratteristiche distintive contemplano la zona di origine, esclusiva e rigorosamente delimitata, con l’obbligo, per l’intera filiera produttiva, di rispettare le norme del Disciplinare di Produzione, realizzato da un Istituto autorizzato dal Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali. Ed é del 1961 la costituzione del “Consorzio dei produttori del prosciutto di San Daniele. Origine e qualità certificate”, nato con lo scopo di “tutelare e diffondere il nome del prosciutto tipico e di stabilire delle regole per le materie prime e per la lavorazione del prodotto”. Ma facciamo una passeggiata all’interno di questa città slow che è anche conosciuta a livello internazionale come una “perla” del Friuli Venezia Giulia, dal punto di vista del suo tessuto storico architettonico e monumentale. Ecco ad esempio il Duomo settecentesco, con gli affreschi dell’ex Chiesa di Sant’Antonio Abate, il più bel ciclo rinascimentale della regione, tanto da far guadagnare a San Daniele l’appellativo di “piccola Siena del Friuli”, né é da dimenticare la presenza della Biblioteca Guarneriana, che conserva

preziosi codici miniati, una delle più prestigiose biblioteche d’Italia e la più antica del Friuli Venezia Giulia. E che dire del ricco Museo del Territorio, collocato nel secentesco chiostro dell’ospedale vecchio, già convento domenicano, che espone preziose testimonianze: dai reperti archeologici alle oreficerie, dalle monete antiche, ai vetri, alle ceramiche, terrecotte e dipinti. Il museo é articolato infatti in tre sezioni fondamentali: archeologia, arte sacra e etnografia. La sezione archeologica presenta reperti provenienti da ritrovamenti e scavi effettuati sul territorio, che permettono di seguire l’evoluzione della vita nella zona a partire dal periodo compreso fra l’XI e l’VIII sec. a.C. fino al periodo medioevale. Completa l’esposizione la sezione etnografica con reperti relativi alle arti ed ai mestieri della civiltà friulana. Ufficio Turistico Pro San Daniele Piazza Pellegrino, 4 33038 San Daniele del Friuli (UD) Tel/Fax: 0432-940765 info@infosandaniele.com Consorzio del prosciutto di San Daniele Via Umberto I, 26 San Daniele del Friuli (UD) www.prosciuttosandaniele.it libe@prosciuttosandaniele.it


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Testo di

Mariella Morosi Carnosi, croccanti e invitanti: l’uno rosso vivo e l’altro screziato, bello come una rosa. Il Radicchio Rosso di Treviso e il Variegato di Castelfranco sono l’orgoglio dell’offerta gastronomica trevigiana e nella stagione fredda sono molto apprezzati dai visitatori gourmet. I radicchi hanno la particolarità di crescere rigogliosi nel freddo, quando la natura si ferma. Questi fiori dell’inverno, discendenti dall’affollata famiglia delle cicorie, possono essere gustati crudi o cotti in mille ricette tradizionali. Diversi, ma entrambi tutelati da un consorzio

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e dal marchio Igp (Identità geografica protetta), danno il massimo delle loro qualità e del gusto fino a Pasqua. Chiunque decida di concedersi un week end o una vacanza in questa romantica città veneta percorsa da tanti canali originati dal fiume Sile, non potrà non apprezzare le specialità - o anche tutto un menu completo, dolce compreso- a base di radicchio. Irresistibili le foglie lucide e carnose, da gustare crude, leggermente condite con qualche salsa a base di olio e limone o con scaglie di grana e acciughe. Un

classico è il radicchio ai ferri, condito semplicemente con olio, aceto, sale e pepe. Ma può essere fritto in tempura, gustato con i tipici sfilacci di cavallo, in crocchette, in crema, in sformati e persino nel famoso soufflé agrodolce con cioccolato bianco. Ogni ristorante offre la sua personalissima ricetta, a cominciare dal risotto al radicchio che ha varcato ogni confine regionale per entrare nei menu più stellati del mondo. L’offerta enogastronomica trevigiana varrebbe da sola il viaggio ma la città serba altre sorprese. “Bella, giace una

In queste pagine Archivio Fotografico del Consorzio di Tutela del Radicchio di Treviso

Archivio Fotografico Provincia di Treviso - Mattia Gri regione ricca d’acque, acque di montagna e di fiume, del vicino Piave e del Grappa, che filtrano sotto terra e riappaiono ovunque nella campagna, luccicando”. Così la descriveva Guido Piovene nel suo celebre Viaggio in Italia. Questo centro antichissimo, la Tarvisium dell’impero romano,

ancora oggi parla della sua storia secolare tra i palazzi medievali e tardo gotici, tra le arcate e i graziosi ponticelli dove sembra che il tempo non sia passato. E’ una città d’acqua, di un fascino più discreto rispetto alla magnificenza di Venezia con cui comunque divise alterni destini. E’

stata proprio l’acqua a disegnarla, a deciderne la sua storia urbanistica. E’ bello scoprirla lungo queste vie d’argento e coglierne gli scorci più caratteristici: dai salici che si specchiano nel Cagnano del canale dei Buranelli -così si chiamavano i pescatori dell’isola di Burano- alla


Il Radicchio di Treviso e il Variegato di Castelfranco

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Pescheria con i banchi del mercato fino alla Riviera Santa Margherita, antica sede del porto cittadino. Tappa d’obbligo, insieme al Duomo dalle belle cupole, è la superba Piazza dei Signori, su cui si affacciano la Prefettura, il Palazzo dei Trecento e il Cal Maggiore. Ed è proprio su questa piazza duecentesca su cui dominava il Podestà che si svolge ogni anno, per un’intera settimana, -Radicchio in Piazza-, la festa dedicata al celebrato “fiore che si mangia”, che vede botteghe, mercati, bancarelle e piatti tipici colorarsi di rosso acceso. Sono molte altre le rassegne gastronomiche a tema, specialmente a primavera: da Cocoradicchio, a Suprema, dalle sagre paesane ai percorsi della Strada del Radicchio, con degustazioni guidate, corsi di cucina a cura di Slow Food e gemellaggi con altri nobili prodotti, primo tra tutti l’olio extravergine. Nobilissimo protagonista della cucina, il radicchio contribuisce a rafforzare l’appeal turistico di tutta la Marca Trevigiana, termine storico con cui si indica tutta la provincia, una delle zone più ricche di beni storici e paesaggistici dell’intera pianura veneta con ville, castelli, oasi naturalistiche e mulini secolari. Se il radicchio è inamovibile al top delle eccellenze gastronomiche, a marcarlo stretto è l’Asparago di Cimadolmo, detto il Re Bianco che, insieme alle erbette spontanee, entra in tante specialità offerte dai ristoranti e dalle discrete trattorie dei vicini borghi: Canizzano, Frescada, Monigo, S. Angelo, S. Antonio, Santa Bona, S. Giuseppe, S. Pelajo, Selvana. Molti possiedono edifici storici, ma la maggior parte vanta una natura bellissima. Il Parco Naturale del Sile offre tre ambienti diversi lungo il corso del fiume: le zone umide e paludose vicino alla sorgente, il tratto tortuoso che precede l’entrata in Treviso e, infine, il paesaggio lagunare in prossimità della foce. Famose le ville realizzate da grandi artisti come Andrea Palladio e Francesco Maria Preti, studiate nelle università del mondo per il loro straordinario valore architettonico, per la perfetta armonia con il paesaggio e per gli affreschi e le opere d’arte che contengono.

Mille Lire al mese

Mille Lire - La famosa e grossa banconota da Mille Lire. Venne utilizzata dall’inizio del novecento fino a dopo la seconda guerra mondiale. I portafogli maschili venivano fatti tenendo conto delle sue misure

Archivio Fotografico Provincia di Treviso - Mattia Gri Tutta la Marca Trevigiana merita una visita all’insegna della cultura, della natura e dell’arte, ma è una destinazione davvero speciale per i tanti enogastronomi. Molti altri prodotti d’eccezione oltre al radicchio sono da gustare nella Marca Trevigiana: tra i formaggi quelli di Asolo, la casatella e, di tradizione antichissima, la formajea butirrosa, la latteria coi busi e l’ imbriago al Raboso. Consistente il paniere dei salumi con la sopressa, il salame punta di coltello, i cotechini, l’arista e le pancette. I vini sono tanti e tutti di qualità, dal prosecco ai vini dei Colli Asolani fino a quelli della zona del Piave: un’offerta enoturistica straordinaria. Le Strade dei

Vini sono ormai diventate una meta privilegiata dei turisti più attenti che assieme al gusto della buona tavola scelgono itinerari ricchi di bellezze artistiche e fascino.• CONSORZIO DI TUTELA DEL RADICCHIO DI TREVISO www.radicchioditreviso.it PROVINCIA DI TREVISO www.provincia.treviso.it Archivio Fotografico del Consorzio di Tutela del Radicchio di Treviso Archivio Fotografico della Provincia di Treviso - Mattia Gri.

Testo di

Giuseppe Garbarino

La Lira che fu, in una mostra di rievocazione risorgimentale nella Firenze dell’Euro

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e potessi avere Mille Lire al mese… cosi diceva la famosa e popolare canzoncina degli anni 30, quando in Italia si cercava il benessere spicciolo, quello fatto di piccole cose, perché in fondo Mille Lire del 1933, non erano poi così tante. Il freddo calcolo matematico sul valore di quelle Mille Lire rapportato ad oggi è di circa 1200 Euro, pochini se si ricordano le strofe della canzone, la casettina, mogliettina, auto, ecc…., ma il segreto è nel potere di acquisto di quelle Mille Lire. Il mistero è risolto dall’analisi del costo delle materie prime di uso quotidiano che negli Anni Trenta del secolo scorso scesero sensibilmente e nella realtà le Mille Lire del nostro sognatore avevano un potere d’acquisto di circa 2800/3300 Euro al mese, una cifra che

anche di questi tempi non è da disdegnare per affrontare le problematiche della vita quotidiana. E’ partendo da questa idea di storia della Lira nel tempo, dei prezzi al dettaglio, dei costi di una vita fatta di quotidianità, che su questa falsariga storica è stata inaugurata a metà dicembre una particolare mostra, una storia della Lira dall’Unità d’Italia fino all’avvento dell’Euro. A questa mostra di antiche e bellissime banconote è stata abbinata anche una pubblicazione nella quale si raccontano gli avvenimenti in una Firenze che nel 1860 entra a fare parte del neonato Regno d’Italia seguendone lo spirito, i fatti e le aspirazioni nell’Ottocento e nel Novecento. E’ attraverso la letteratura o le corrispondenze epistolari tra personaggi dell’epoca che sono stati trovati piccoli

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Mille Lire al mese

il 10 Lire “Cavour”, emesse nel 1866, in piena epopea risolrgimentale, il volto di Cavour venne abbinato a quello di Cristoforo Colombo

indizi sull’uso delle Lire e a volte dei centesimi, preziosi sottomultipli di un epoca lontana che è diventata familiare a tutti con l’introduzione dell’Euro. E quindi ecco Pinocchio accanto a Soffici e La Pira, tutti misurati con la Lira, questa moneta tanto spesa da essersi inflazionata da sola, che ebbe origine in un mondo lontano, sicuramente nel tempo di Carlo Magno che per primo codificò ed introdusse l’unità di misura monetaria denominata Lira. La mostra, organizzata dall’Associazione Culturale PRIMA (Promozione Reti Interculturali e

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Movimenti Artistici), particolarmente vivace ed attenta alla cultura storica di Firenze, è stata possibile grazie alla disponibilità data dagli eredi di Tullio Marrone, un collezionista che negli anni ha accumulato una notevole varietà di banconote italiane che rappresentano due secoli di storia. Il Comune di Firenze ha colto al volo l’occasione, coinvolgendo l’Ente Cassa di Risparmio di Firenze e una serie di sponsor che hanno dimostrato un’attenzione ed un interesse fuori dal comune all’evento espositivo ed editoriale di -La Lira dal Risorgimen-

100 Lire Am Lire, emesse a partire dal 1944 dalle truppe americane. Questa tipologia di banconota fece esplodere l’inflazione in Italia nel secondo dopo guerra

Il 50 Lire emesso dalla Repubblica di Venezia nel 1848, in piena Prima Guerra di Indipendenza, durante l’assedio austriaco della città

to all’Euro-. L’alto livello dell’evento, inaugurato il 16 dicembre 2011 presso lo Spazio Mostre dell’Ente Cassa di Risparmio di Firenze nel grande e storico palazzo di via Bufalini, si vede dai loghi di chi ha contribuito alla sua realizzazione, come Autostrade Tech, Gemmo, British Telecom. Nella mostra, che durerà per tre mesi a partire dal 16 dicembre, si spazia dalla raccolta delle banconote emesse dall’effimera Repubblica Veneta nel 1848 alle emissioni speciali per le colonie del Regno d’Italia, oltre a numerose curiosità, le emissioni locali

di banche oggi scomparse, bigliettini colorati con sopra impresso il valore di una lira o cinquanta centesimi e il nome dell’istituto emittente, magari quel curioso Banco di Pescia o la Banca Nazionale Toscana che a quel tempo era istituto di emissione come è stata fino all’avvento dell’Euro la Banca d’Italia. La cronologia dell’esposizione tocca anche il periodo dell’occupazione americana e la stampa di quelle curiose banconote che erano le AM Lire, trasportate in Italia a bordo di aerei militari per poi arrivare alla serie completa delle banconote della Repubblica Italiana.

Quindi dietro ogni banconota c’è una storia? “E’ vero”, risponde Filippo Giovannelli, presidente dell’Associazione PRIMA, “dietro ogni banconota c’è la storia d’Italia. Pensi che ne esiste una stampata addirittura a New York nel 1866 e un’altra presso l’Istituto Geografico de Agostini di Novara, durante la seconda guerra mondiale. Se non avessimo avuto la disponibilità di questa collezione da parte di Antonio Marrone, erede del collezionista Tullio, non avremmo avuto il modo di far incontrare ai fiorentini e a tutti gli altri ospiti della città che sono intervenuti e che ancora

visiteranno la mostra, quel mondo di carta che passa tra le mani, magari resta dimenticato in fondo ad una tasca ma che troppo spesso viene solo speso e non osservato per quello che è veramente. Firenze con questa mostra incontra anche se stessa, perché moltissime delle immagini utilizzate nel secondo dopo guerra sulle banconote italiane si sono ispirate a vedute o personaggi fiorentini, è l’esempio di Galilei e il panorama di Arcetri, le immagini tratte dai quadri del Botticelli conservati agli Uffizi, Michelangelo, Leonardo da Vinci e Machiavelli.•

Una delle curiosità della mostra è questo titolo emesso a “sollievo e soccorso” dei romani che avevano lasciato lo stato pontificio a causa di problemi politici. Alcune di queste finte banconote erano firmate anche da Garibaldi


protettrice delle febbri. Ma i conti non tornavano ancora. Per adeguare il calendario lunare a quello solare, e quindi rispettare davvero le cadenze stagionali, venne aggiunto il cosiddetto mese intercalare, di 22 o 23 giorni, posto subito dopo il 23 febbraio, la cui durata era decisa dal Pontefice Massimo sulla base di calcoli che potevano variare. Marzo manteneva il ruolo di primo mese e alle Idi, cioè verso il 15, venivano insediati i consoli neo eletti che reggevano la Repubblica. Per l’anno 153 a. C. fu eletto console Quinto Fulvio Nobiliore, figlio di Marco Fulvio Nobi-liore, politico e comandante militare, conquistatore di Ambracia in Epiro, pretore in Iberia e vincitore sui Celtiberi. Ma quest’ultima popolazione era ancora in fermento. Appena eletto, Quinto pensò che fosse necessario intervenire in fretta nella penisola iberica per riportare la pax romana. Perciò il console, con l’accordo del collegio e del senato, decise di anticipare l’entrata in carica al pri¬mo gennaio, per poi partire immediatamente a

Capodanno? Grazie a Quinto Fulvio Nobiliore Testo di Luigi

Bernardi

e foto di Archivio

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hi mai alla mezzanotte del 31 dicembre brinda a Quinto Fulvio Nobiliore? Probabilmente nessuno. E’ l’ingratitudine della storia. Eppure fu proprio questo console romano che nel 153 a. C. fissò il Capodanno al primo gennaio. Come si svolsero i fatti? Originariamente i Romani, nell’VIII secolo a. C., avevano, come gli Etruschi, un calendario che si fondava sulle fasi lunari di soli dieci

mesi: Martius, ApriIis, Majus. Junius, Quintilis, Sextilis, September, October, November, December. L’anno si iniziava con Marzo, consacrato a Marte, araldo della primavera e protettore dei campi. Solo in seguito questo dio rivestì la corazza del guerriero, in coerenza con l’evoluzione storica dei Romani, sempre più militaristi e imperialisti. Aprile invece derivava genericamente dal concetto di “aprire”; Majus era dedicato a Maja, protettrice

delle messi; Junius probabilmente a Giunone, la moglie di Giove. Gli altri mesi riportavano nel nome semplicemente il numero progressivo che era stato loro assegnato nell’anno. Questo anno lunare, di circa 300 giorni, non reggeva però il ritmo delle stagioni. Perciò, probabilmente già all’epoca di Numa Pompilio, successore di Romolo, vennero aggiunti due mesi: Januarius e Februarius. Il primo in omaggio a Giano, il secondo forse a Febronia,

capo di una spedizione militare. Fu così che l’anno subì un ribaltone, destinato a diventare definitivo. Nella nuova collocazione i mesi successivi a Majus slittarono di due posizioni e divennero incoerenti rispetto ai loro nomi. Quintilis in seguito diventò Julius, in onore di Giulio Cesare, nato in quel mese nell’anno 100 a.C.: la proposta fu fatta da Antonio, dopo l’uccisione del dittatore avvenuta il 15 marzo del 44 a. C. Sextilis divenne Augustus nell’8 a. C., in onore di Augusto che, in quel mese, nel 33 a. C., aveva ricevuto le insegne di console e, in anni diversi, aveva celebrato trionfi per la sottomissione dell’Egitto e la fine delle guerre civili. A Giulio Cesare dobbiamo la sistemazione quasi definitiva del calendario, nel 46 a. C.. Per porre ordine in questa materia egli ricorse all’aiuto dello scienziato greco Sosigene, il quale stabilì che l’anno era lungo 365 giorni e un quarto. La mappa dei mesi venne ridisegnata, sparì il mese intercalare, venne introdotto, ogni quattro anni, un giorno in più,

con il raddoppio del 24 febbraio: il giorno aggiunto fu definito bis sextus clies ante calendas Martias e quell’anno in seguito fu chiamato bisextilis. In realtà l’anno solare durò un po’ meno di 365 giorni e un quarto e quindi gli anni bisestili risultavano troppi. Nel Medioevo il solstizio d’inverno era finito con coincidere, più o meno, con il 13 dicembre, dedicato a Santa Lucia, e divenne, secondo il detto popolare, “il giorno più corto che ci sia”. Una nuova riforma fu introdotta da papa Gregorio XIII nel 1582. Quell’anno, per pareggiare i conti, si passò direttamente da giovedì 4 ottobre a venerdì 15; il febbraio degli anni bisestili fu modificato aggiungendo il giorno 29. Contemporaneamente furono soppressi tre anni bisestili secolari su quattro. Cioè rimase bisestile il 1600, ma non lo furono in seguito il 1700, il 1800 e il 1900. Lo è stato invece il 2000 e lo sarà il 2400. Questa rettifica vale 10.000 anni; ne mancano ancora 9.600 fino al prossimo intervento. Ne riparleremo a suo tempo.•

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L’anno del Signorelli un tributo al suo Giudizio Universale Testo di Valerio Foto di Sandro

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Angeli

De Amicis Vannini

’ notizia di qualche mese fa che, dopo la decisione dell’Assessorato Regionale alla Cultura, si terrà in Umbria, a partire dal mese di giugno 2012 e in collaborazione con l’associazione Civita, la grande mostraevento sul pittore Luca Signorelli. La manifestazione, successiva ai precedenti grandi allestimenti dedicati al Perugino e al Pinturicchio, raccoglierà le opere dell’artista provenienti da tutta Europa, toccando diverse città del centro Italia, come Cortona, Perugia, Città di Castello e Orvieto, dove si

trova all’interno del duomo, nella cappella di San Brizio, il suo capolavoro: il Giudizio Universale. La carriera di “messer” Luca “Luca Signorelli fu ne’ suoi tempi tenuto in Italia tanto famoso e l’opere sue in tanto pregio, quanto nessun altro in qualsivoglia tempo sia stato già mai”, così Giorgio Vasari apre la biografia dell’artista nelle sue Vite, pubblicate nel 1550. Nato a Cortona intorno al 1445(vi morirà nel 1523), l’artista deve gran parte di quella celebrità agli af-

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L’anno del Signorelli - un tributo al suo Giudizio Universale

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Inferno freschi di Orvieto (Il Giudizio Universale), anche se la sua precedente attività è ricca di passaggi importanti, come gli affreschi nella cappella Sistina (Testamento e Morte di Mosè) e il grande ciclo con le Storie di san Benedetto nella abbazia di Monte Oliveto Maggiore (Siena). Tra gli altri suoi capolavori, da non dimenticare, sono la Sacra Famiglia agli Uffizi, la Natività alla National Gallery di Londra e l’Adorazione dei Magi al Louvre.

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Il Giudizio Universale di Orvieto Era il 1504 quando il pittore di Cortona Luca Signorelli, quasi sessantenne, concluse la decorazione della cappella “Nova”, ultima aggiunta alla ricca cattedrale orvietana, straordinaria macchina architettonica trecentesca che domina lo sperone di tufo su cui si adagia la città di Orvieto. A chiamare l’artista di Cortona, nel 1499, dopo lunghe trattative con il Perugino, furono i cittadini eminenti, gli amministratori dell’Opera del duomo e quelli del Comune, decisi a colmare il vuoto lasciato da Fra’ Giovanni da Fiesole, il Beato Angelico, che cinquant’anni prima aveva realizzato solo due vele della volta. Così per 575 ducati, insieme a mosto e grano, il Signorelli portò a compimento in quattro anni il suo capolavoro, dando forma al racconto biblico più terribile, quello cioè che dalle storie dell’Anticristo giunge al Giudizio Universale attraverso la fine del mondo e la resurrezione dei corpi. Unire fede e ragione, teologia e filosofia, questo l’obiettivo culturale del ciclo, ma la pittura di Signorelli parla prima ai sensi e alle emozioni, coinvolge gli spettatori con il serrato montaggio delle sequenze narrative, impaginando il racconto con sensibilità teatrale e spiccato gusto per la trovata spettacolare che trascina lo spetta-

tore in una avvincente spirale lungo la quale scorrono immagini terribili e dolci, scene drammatiche e soavi. Il film dell’apocalisse ha inizio proprio con la venuta dell’Anticristo, che sopra un piedistallo viene ispirato dal demonio per sedurre, con una fallace predicazione, una folla radunata ai suoi piedi dove sono raffigurati personaggi illustri di ogni tempo, tra cui spicca anche il profilo inconfondibile di Dante Alighieri. Poi, seguendo una rotazione antioraria, sopra l’arco d’ingresso, si dipana la cronaca della fine del mondo, presentata da due guide d’eccezione: il profeta Davide e la sibilla Eritrea. La predicazione biblica e quella pagana si avverano. Dal cielo gli angeli saettano con lingue di fuoco l’intero genere umano che cerca inutilmente scampo, fino a dare l’impressione di uscire dagli affreschi per gettarsi, con scorci da vertigine, all’interno dello spazio della cappella. Calato il silenzio l’occhio cerca subito la scena della resurrezione, dove due angeli trombettieri, in un splendente cielo dorato, annunciano l’avvento di una nuova vita. Lo spettacolo non è meno sconvolgente dei precedenti. La carne, come un inno alla bellezza, torna a rivivere ricongiungendosi con la propria anima. L’immagine è di quelle che non abbandonano facilmente la memoria, perché i corpi, dalla muscolatura perfetta e potente, non escono dalle tombe, ma emergono a fatica dal suolo, ancora scheletri o non completamente formati, fino a ritrovarsi abbracciati o in contemplazione. A seguire, nella volta sopra l’altare, ecco finalmente impresso il momento del Giudizio Universale messo in atto dal ritorno di Cristo seduto sulle nubi, quello appunto del beato Angelico, che rivolge il suo sguardo “compassionevole” verso coloro che si perderanno. Sulle pareti laterali, si spalancano

Finimondo

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L’anno del Signorelli - un tributo al suo Giudizio Universale infatti, fronteggiandosi, i due mondi ultraterreni, inferno e paradiso, contrassegnati dai loro contrapposti, caos e disperazione da una parte, armonia ed estasi dall’altra. E se nella bolgia infernale del Signorelli, la più suggestiva e rappresentativa nella storia dell’arte, diavoli rabbiosi si avventano sui dannati per scaraventarli, dopo terribili tormenti, in una fornace ardente da cui escono fiamme e fumo, nel paradiso invece angeli gettano petali di fiori sui beati che, in un atmosfera di musiche e profumi, sembrano sollevarsi come in una danza, tra sublimi effusioni di amore, mentre, prima dell’incontro con Dio, si trovano ad essere dolcemente incoronati da quella sapienza divina che seppe guidarli in vita verso la gloria celeste. Dopo Leonardo, pare che anche Michelangelo abbia sostato a lungo davanti a questi straordinari affreschi prima di dedicarsi al Giudizio Universale nella cappella Sistina, al punto che lo stesso Vasari ricorda come “alcune cose” della grandiosa opera signorelliana “furono da lui gentilmente tolte in parte dall’invenzione di Luca”, dalla eccezionale fantasia di un grande artista che ebbe solo la sfortuna di trovare nella sua strada un simile genio il cui capolavoro, ebbe a dire lo storico orvietano Luigi Fumi, “a torto e troppo in fretta offuscò la fama di quello del Signorelli”.

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“Mirabilia, i luoghi dell’Apocalisse” A rendere tutto più coinvolgente è l’esperienza della società “Mirabilia” che ha saputo creare, in questi anni, una modalità inedita di valorizzare e promuovere ad Orvieto il ciclo dell’Apocalisse. Il prodotto si caratterizza per la presentazione del significato teologico e filosofico dell’opera del Signorelli (la trattazione più completa e rigorosa della dottrina escatologica cristiana e dell’Umanesimo mai realizzata nella storia dell’arte) e comprende la speciale visita guidata e la pubblicazione-guida “Mirabilia, i luoghi dell’Apocalisse” corredata dallo splendido servizio fotografico di Sandro Vannini (più di 150 foto ad alta definizione), definite nel XII Rapporto del Turismo Italiano-2003 e nel XVIII Rapporto Italiano dell’Eurispes-2006 come un modo totalmente innovativo, sia nei contenuti sia nelle modalità, di comunicare e illustrare le grandi opere

Anticristo, particolare d’arte d’ispirazione religiosa. Diversamente dalla fruizione tradizionale, in “Mirabilia” il visitatore non si trova in un museo, ma viene guidato “dentro” l’opera stessa per cogliere attraverso la suggestione delle immagini tutta l’originalità, la bellezza e, diremo, l’attualità di uno dei più grandi capolavori del Rinascimento italiano, dove il pubblico è aiutato a diventare un contemplante, cioè a fare un’esperienza personale e totale delle immagini di Luca Signorelli, trasformandosi da semplice spettatore a co-protagonista delle grandiose scene apocalittiche (Marco Guzzi, filosofo e saggista, membro ordinario dell’Accademia Pontificia per i beni culturali e le lettere). Per l’anno 2012 è prevista, inoltre, la riapertura della mostra multimediale “Mirabilia”, una spettacolare “anteprima” del capolavoro del Signorelli ricca di contenuti emozionali ed evocativi dove in un coinvolgente percorso tra arte, storia, teologia e

filosofia verrà illustrato ai turisti il significato dell’apocalisse mediante la visione ravvicinata di “particolari” fotografici dell’opera, altrimenti non visibili per la distanza, la mancanza di luce e la scomodità d’osservazione, sull’esempio di quanto è stato già realizzato a Roma per la cappella Sistina con il progetto “la Parola dipinta” (Sole 24 ore), dove sono stati esposti al pubblico dei pannelli fotografici corredati da testi biblici contenenti le immagini del Giudizio Universale di Michelangelo da osservare prima di entrare a visitare la cappella stessa. • Comune di Orvieto: www.comune. orvieto.tr.it Opera del duomo: www.museomodo.it www.opsm.it Soc. Mirabilia Orvieto: www.mirabiliaonline.com


Dagli alambicchi europei l’alchimia misteriosa della

ta Europa, come ad esempio quella di Nymphenburg (Monaco), la più prospera delle manifatture bavaresi del XVIII secolo. Essa, che divenne subito famosa per la produzione di statuette e altri ornamenti, nacque nel 1747 per volontà del principe Eletto Massimiliano Giuseppe III, della casata dei Wittelsbach. Nel 1753 la manifattura arruolò J.J. Ringler, che aveva lavorato a stretto contatto con Bottger, perché anch’egli possedeva l’arcano e sapeva costruire il forno: la prima porcellana venne prodotta nel 1754. Porcellana di Baviera All’inizio la fabbrica diede molta importanza alla produzione di statuette, poi col viennese Joseph Ponhauser venne realizzato un servizio da tavola di centinaia di pezzi, mentre le rifiniture vennero affidate alle

mani esperte di Franz Anton Fustelli, assunto dalla manifattura nel 1754 come creatore di figurine. Per Nymphenburg, avere un artista come Fustelli era di grande prestigio: per le sue capacità artistiche poteva essere paragonato al famoso Kaendler di Meissen. Vi rimase purtroppo per un tempo troppo breve (morì nell’aprile 1763), durante il quale modellò più di cento statuette tra dame e cavalieri, figure della Commedia dell’Arte, cinesi dai volti misteriosi, che sono diventati celebri in tutto il mondo. I servizi da tavola nel primo periodo della manifattura richiamano lo stile di Meissen con bordi intrecciati, dettagli in vecchio Brandestein, mentre la decorazione offre scene mitologiche o soggetti di caccia: troviamo inoltre anche sui bordi di tutti i piatti di Nymphenburg motivi rocaille policromi. I prezzi? Davvero proibitivi.

Le porcellane di Federico Il 1752 è l’anno di nascita della Manifattura di porcellana di Berlino, conosciuta anche come KPM (Koenigliche Porzellan Manufaktur) che, per tradizione e qualità dei lavori, può essere collocata fra le primissime fabbriche tedesche, subito a ridosso della leggendaria Meissen. La nobiltà le viene dalla nascita, in quanto fu fortemente voluta da Federico II il Grande, cui non mancavano le ragioni per finanziare la Manifattura. Lo spingevano innanzitutto la passione e l’interesse che aveva dimostrato fin da ragazzo verso le arti decorative; poi il prestigio e il potere che derivavano dal poter produrre direttamente la porcellana. Anche perché la Prussia, a differenza della Sassonia o di altri principati, non aveva ancora una Manifattura di porcellana e a quell’epoca disporre in prima persona di

Testo di

Anna Maria Arnesano

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Mise en place con porcellane della Manifattura Meissen

on si può parlare di porcellana senza citare Meissen e Bottger. Fu proprio a Meissen, in Sassonia, nei primi anni del Settecento che avvenne infatti, dopo innumerevoli tentativi andati a vuoto, la scoperta più importante, cioè la miscelazione delle materie prime. Bottger invece fu il personaggio chiave in questa ricerca, perché fu lui, dopo anni e anni di esperimenti, a scoprire l’arcano, vale a dire il segreto della

fabbricazione della porcellana autentica, quella dura, la porcellana che solo i cinesi sapevano produrre e per la quale i ricchi collezionisti dell’epoca spendevano delle fortune. Benché da Meissen si tentasse di proteggere il segreto mettendo anche sottochiave Bottger, alcuni dipendenti della manifattura, per trasformare la loro conoscenza in fama e fortuna, vendettero il segreto praticamente in tutta la Germania e anche altrove. Nacquero così fabbriche di porcellana in tut-

Piatto di Natale da collezione della Royal Copenhagen

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Dagli alambicchi europei l’alchimia misteriosa della PORCELLANA una fabbrica manifatturiera rappresentava per re, principi e vescovi, un simbolo di stile, tanto da diventare un’attività molto diffusa, quasi un passatempo, che soltanto più tardi divenne autentico interesse per questo materiale, così affascinante e misterioso. Per quanto riguarda Federico, anche in questo volle marcare la rottura con il gusto del tempo e, a differenza di suo padre il quale preferiva uno stile tradizionale per la decorazione degli interni, egli amava il nuovo stile rococò, tanto da fare decorare in tal senso il suo castello di Rheinsberg. Quando Federico II di Prussia succedette a suo padre, nel 1740, era proprio il momento in cui si registrava una grande richiesta di porcellane, ed era quindi un’occasione propizia per dar vita ad una fabbrica. Oggi come allora, la KPM, produce porcellana realizzata con il 50% di caolino originario della Germania, il 25% di feldspato e il 25% di quarzo, entrambi provenienti dai paesi scandinavi.

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Porcellane danesi Il primo tentativo concretamente riuscito di fabbricare porcellana a Copenaghen fu quello di un francese, Louis Antoine Fournier, uomo competente ed esperto perché aveva lavorato come modellatore nella fabbrica di Vincennes in Francia nel 1747-49 e a Chantilly dopo il 1752. Nel 1759, dopo una sosta a Sèvres, accettò l’invito di recarsi a Copenaghen dove iniziò a sperimentare i materiali locali sotto il controllo dello scultore di corte Stanley e in seguito dal suo successore J. Wiedewelt. Due anni dopo vennero assunti per assistere Fournier altri tre francesi, un tornitore e due modellatori. Il loro arrivo permise a Fournier di recarsi a Bornholm, dove c’era la miniera di caolino, per continuare gli esperimenti. I testi specializzati nel settore riportano che le prime vere porcellane (per intenderci quelle a pasta dura) realizzate in Danimarca furono il risultato delle fatiche del chimico F.H. Muller, una delle due persone a cui Fournier aveva trasmesso i segreti della porcellana. Muller adottò come marchio di identificazione della fabbrica nascente tre linee blu ondulate, le quali stanno a simboleggiare i tre corsi d’acqua che uniscono il regno di Danimarca al resto d’Europa e al mondo: lo stesso marchio continua ad essere usato ancora oggi. Famosi e conosciuti in

tutto il mondo i piatti di Natale della Royal Copenaghen, quelli blu, la cui produzione risale al 1908: da allora ininterrottamente ogni anno viene prodotto un piatto con impressa la relativa data, realizzati per decorare ed arredare la casa, ma possono essere anche utilizzati, specialmente nel periodo natalizio, per festeggiare a tavola.

Figurina classica in porcellana Royal Copenhagen

Gruppo di statuine Royal Copenhagen

Doccia, l’arte italiana Tra le porcellane italiane che hanno segnato un’epoca possiamo annoverare quelle della Richard-Ginori. La storia di questa azienda risale al 1735 quando il marchese Carlo Ginori, imprenditore ed amante della ricerca, comincia a lavorare la porcellana nei locali della sua villa a Doccia, vicino a Firenze, con l’intento di dare inizio alla produzione in Toscana. Non era un’impresa facile, ma lui ci riuscì. Dopo il marchese Carlo, ben cinque generazioni di Ginori si succedettero alla guida di questa attività che andò acquistando considerevole prestigio e notorietà, fino al 1896 anno in cui avvenne la fusione con l’azienda milanese Richard capace di trasformare l’antica manifattura in una realtà industriale di livello internazionale. Nel 1949 viene inaugurato a Sesto Fiorentino, sempre a pochi chilometri da Firenze, un nuovo stabilimento accanto al quale sorge l’attuale Museo. Francesi di Limoges Risale al primo marzo del 1771 la fondazione della società per la fabbricazione della porcellana costituita tra Massiè, proprietario della manifattura di maioliche di Limoges, i fratelli Grellet, finanziatori, e Fourneyrat, un giovane chimico venuto da Parigi. La fabbrica di Massié-Grellet, che produceva porcellane a pasta dura, ottenne la protezione del Conte D’Artois, fratello del re. Fu proprio in onore del principe che vennero scelte come marca le iniziali C.D. (rimaste in uso fino alla fine del secolo), incise nella pasta in lettere maiuscole o in corsivo. Gli oggetti prodotti, decorati con deliziosi mazzi di fiori naturalistici stile a la rose de Limoges, vengono generalmente definite come porcellane del Conte d’Artois, ma in verità, dato che i proprietari avevano fatto pessimi affari, si trovarono costretti a vendere al re, nel 1784, la loro fabbrica, la quale da quel momento divenne Manufacture Royale (Manifattura Reale) come quella di Sèvres. Tutta-

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Vaso con coperchio “chinoiserie” stile Höroldt produzione limitata 10 pezzi, 100.000,00 Euro Manifattura Meissen

Donna con ventaglio, di Paul Scheurich 1930, produzione limitata 10 pezzi, 10.000,00 Euro Manifattura Meissen via nel 1789, per una serie di fatti, ad esempio la Rivoluzione in atto e la sostituzione di Grellet con Francois Alluaud, la fabbrica non sopravvisse. Solo nell’Ottocento, quando la produzione di porcellane di Limoges passò in gestione ad imprese private, tornò a rifiorire. Successivamente con l’arrivo dall’America di David Haviland (1842), si aprirono nuovi mercati oltremare e, nello stesso periodo, con l’arrivo di Pouyat, originario di Limoges (le cui porcellane bianche ebbero successo nell’Esposizione del 1855), la manifattura della porcellana di Limoges raggiunse il massimo

splendore e una fama internazionale che dura ancora oggi. Le porcellane di Sèvres Correva l’anno 1756 quando, per volere di Luigi XV, nacque a Sèvres una manifattura di porcellana a pasta tenera, nella quale in seguito, grazie anche all’interessamento di Madame Pompadour, venne trasferita la fabbrica di Vincennes. Sèvres divenne dunque la Manifattura Reale dove vennero creati pezzi di notevole pregio, tanto da superare di gran lunga la celeberrima Meissen. La porcellana di Sèvres intanto, tra un editto e l’al-

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Dagli alambicchi europei l’alchimia misteriosa della PORCELLANA

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Piatto di porcellana decorata di Limogesdi gusto romantico, raffigura figure femminili sognanti e intorno una bordura con rilievi in oro zecchino Vasi da pot-pourri, 1810 circa porcellana dipinta in policromia, h 28,5 cm in questa pagina foto del Museo Richard-Ginori della Manifattura di Doccia, Sesto Fiorentino su disegno di Giovanni Gariboldi, Vaso a conchiglia con decoro in rilievo a soggetti marini, 1930, porcellana, h 13,5 cm

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tro del re (che vietava la fabbricazione, la decorazione, la doratura e la vendita di porcellane alle altre manifatture), prendeva forma e colore e i pezzi prodotti divennero sempre più sontuosi. Furono concepiti servizi da tavola, oggetti ornamentali e ninnoli di tale bellezza che il re li donava ad altri sovrani. Nel 1757 fu creato lo sfondo rose Pompadour, e gli sfondi blue de roi vennero abbelliti con fregi a occhio di pernice e cailloutès. Tuttavia nonostante le fabbriche francesi conoscessero da molto tempo il segreto della porcellana dura, la sua realizzazione era inattuabile in quanto si credeva che nel Paese non ci fossero i materiali adatti. Non solo. La porcellana a pasta tenera inoltre non richiedeva un urgente passaggio alla produzione di pasta dura, molto più costosa, in quanto vantava molteplici caratteristiche: era morbida e duttile, bella e preziosa, facile da decorare e soprattutto più economica. Solo dopo aver intrapreso altre ricerche nel 1769 vennero scoperti giacimenti di caolino a St Yrieix e allora si cominciò la lavorazione della porcellana dura, che inizialmente era bianca e opaca perché le vernici non aderivano bene alla superficie e quindi si dovettero modificare, così come i colori che non penetravano a sufficienza nella vernice. Modellatori del calibro di Duplessis, Falconet, Bachelier, Bolory, La Rue e Le Riche, come pure molti pittori autori delle bellissime decorazioni che vanno da Le Quay a Dodin, da Asselin a Aubert, contribuirono alla nascita di pezzi prestigiosi e molto più grandi di quelli realizzati con la porcellana tenera. Crearono così casse di orologi a pendolo con montatura in similoro, vasi alti un metro e oggetti sempre più fitti di decorazioni, tanto da non lasciare intravedere un minimo di sfondo. Benché la produzione della porcellana dura fosse diventata primaria, la fabbricazione di quella tenera continuò ancora.•

Michel Guy chadelaud Gallery, tavolo XIX secolo con piano in porcellana della Manifattura Reale di Sèvres

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i virtuosismi di un giovane stilista Testo di

Alessandra Amati

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izzarro, eclettico, stravagante ma al tempo stesso classico e riservato: è davvero difficile definire Alston Stephanus, giovanissimo stilista ed artista che a soli 24 anni, grazie alla sua spiccata personalità è riuscito ad imporsi nel panorama della moda nazionale ed ora anche in quello internazionale con le sue strabilianti creazioni di favolosi gioielli, e non solo…Uno straordinario talento, precursore di tempi e di mode che ha saputo combinare stili e tendenze in un’armonia di forme e colori. Attratto dal vintage ma proteso verso il contemporaneo con l’unico vero obiettivo, dice, “di celebrare nelle sue creazioni l’unicità nella sua essenza più profonda” come è nella sua personale visione delle cose, perché ognuna si possa sentire unica e diversa, senza mai omologarsi, ma rimanendo sempre se stessa. Tutte le sue creazioni sono infatti pezzi unici, vere e proprie opere d’arte che diventano spesso decorazioni preziose di fascinosi abiti. Nato a Singapore ma vissuto tra Giacarta e Londra dove attualmente risiede, Alston è riuscito a combinare la grandezza del barocco europeo con la delicatezza del tocco del Keraton giavanese, a fondere, miscelare, legare l’occidente con l’oriente e ad esprimerlo nell’esclusività, nella singolarità dei suoi gioielli. Da prima si avvicina al mondo della moda come testimonial di grandi firme, decide poi dopo intensi studi, ancora giovanissimo di disegnare personalmente gioielli di lusso e di esordire con la sua incredibile originalità creando una propria collezione: nasce così nel 2005 la Alston Stephanus Accessories. Il Fashion Show in Indonesia sarà il traguardo successivo che lo incoronerà

anche il più giovane talento tra gli emergenti designer di accessori. Da cosa trae principalmente ispirazione? Dall’eleganza e dal portamento di quella splendida creatura che è il Pavone, dalla sua maestosità, da quell’aura misteriosa, dall’incantevole armonia di colori contrastanti che esplodono in un immenso ventaglio di sfumature vivaci e brillanti, una bellezza senza fine e senza tempo. Alston dice “La bellezza non può essere definita da alcuna logica umana, la bellezza è solo negli occhi di chi guarda”. Di grande sensibilità e da sempre amante degli animali, trae spesso ispirazione da questo mondo che sente a lui vicino. E’ il 2005 che segna comunque la sua svolta, gli viene in-

fatti affidata, in collaborazione con la designer Anne Avantie, la realizzazione della corona e dello scettro per l’abito che avrebbe indossato la vincitrice del concorso di Miss Indonesia: oltre al trionfo della bellissima Nadine Chandrawinata incoronata Miss, sarà un enorme trionfo anche per lui, decreterà il suo successo e il vero esordio in quell’affascinante ed intrigante mondo da cui Alston è stato sempre irresistibilmente attratto sin da bambino, come unico strumento di espressione del suo estro. Pizzi vintage o francesi che si intrecciano e si arricchiscono delicatamente di pietre colorate, perle, pizzi impreziositi da cristalli Swarovsky combinati con oro, argento, ottone ma anche con

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Alston Stephanus - i virtuosismi di un giovane stilista

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vere piume di pavone e di struzzo, sono questi gli elementi che caratterizzano le sue creazioni. L’antico che si perde e si confonde nel nuovo senza mai abbandonare l’armonia delle forme, è l’eleganza che s’impone sovrana, è il particolare che

seduce, il trionfo della femminilità che si libera del convenzionale per consentire l’esaltazione della sensualità che è insita in ogni donna. Ma Alston Stephanus non è solo uno straordinario stilista. Appassionato di

Burlesque, ispirato dalla sua icona e splendida musa Dita Van Tees, Alston si avvicina giovanissimo anche a questa forma di spettacolo che lo incuriosisce e che decide presto di reinterpretare. Grazie alla sua intuizione libera il Burlesque

da tutto ciò che è “volgare” e “popolare”, spoglia il Burlesque della sua “banalità” e “semplicità” trasformandolo in uno spettacolo raffinato, di gran classe, di estremo gusto. Prende le distanze dal cabaret, e crea uno spettacolo dove il lusso, il bello ed il prezioso diventano i tre aspetti dominanti. Di enorme successo i suoi eventi-rappresentazioni di Burlesque organizzate all’ombra di magnifiche location, tra queste l’ultima dello scorso Ottobre nel favoloso Rivoli Ballroom di Londra. I prossimi progetti lo vedono impegnato nella realizzazione di un documentario sul Burlesque e nella partecipazione al Burlesque Festival di Amsterdam. Alston Stephanus è semplicemente diverso, è un “sognatore”.•

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Gaya Island Resort apre in Borneo

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’ prevista per aprile 2012 l’apertura di una nuova struttura YTL Hotels, Gaya Island Resort, nel Borneo, che si aggiunge alla collezione di resort di lusso della catena in tutta l’Asia e l’Europa rafforzando la sua reputazione di primo gruppo nell’ospitalità della Malesia. Appena al largo della costa di Kota Kinabalu e situato nelle acque di Pulau Gaya, l’isola più grande del Parco Marino di Tunku Abdul Rahman, il Gaya Island Resort è circondato da incontaminate spiagge di sabbia bianca, da barriere coralline e da mangrovie e si affaccia sull’iconico Monte Kinabalu. Fedele alla filosofia di YTL Hotels di integrare la cultura locale e il suo ambiente naturale, il resort incorporerà elementi di architettura del Sabahan e di design contemporaneo completati da strutture moderne e da risorse WiFi. Sarà composto da 124 spaziose ville indipendenti sulla collina o di fronte al mare con una vista spettacolare sul maestoso Monte Kinabalu. Questo

lussuoso resort per famiglie immerso nella foresta pluviale, offre ai suoi ospiti una miriade di attività, dal trekking nella giungla attraverso il parco marino locale, dove si potrà godere della natura e del paesaggio tropicale, alla possibilità di visitare la terraferma, per sperimentare la colorita cultura del Sabah. Insomma proposte in grado di soddisfare gli appassionati dell’avventura, della natura e del mare. Le famiglie avranno la possibilità di scegliere tra una vasta gamma di iniziative per i bambini dai percorsi e sentieri nella jungla, escursioni marine, costruzioni di castelli di sabbia, disegni, racconti di storie del Borneo sino alle attività acquatiche con particolare attenzione per l’impegno e l’apprendimento da parte del nostro qualificato personale naturalista, che farà davvero divertire i bambini in maniera istruttiva. Per chi preferisce un’esperienza più indulgente ed olistica, il premiato Spa Village di YTL Hotels offrirà trattamenti, terapie e pratiche di guarigione tipici

della cultura del Borneo che saranno realizzati unicamente all’interno di un ambiente tra le mangrovie con sei sale con terrazze all’aperto e un spazio riservato allo yoga.Il Gaya Island Resort sarà autosufficiente con tre diverse opzioni per la ristorazione- il Feast Village, che offre una cucina internazionale tutti i giorni; il Fisherman’s Cove, aperto solo per cena, ed il più informale Pool Bar Lounge, situato ai bordi della piscina di 50 metri, aperto durante il giorno con una terrazza sovrastante con vista sulla piscina e sul paesaggio marino. Il resort sarà un luogo ideale per piccole riunioni e meeting di affari, per coloro che sono alla ricerca di un ambiente naturale lontano dalle grandi città. Gaya Island Resort è facilmente raggiungibile dall’aeroporto di Kota Kinabalu, e dista solo 30 minuti fra macchina e traghetto privato dal Sutera Harbour Marina di Sabah. www.ytlhotels.com joseeg@tiscali.it

L’Unicità dell’ Hotel Unique

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he San Paolo sia il fulcro del design contemporaneo brasiliano non ci sono dubbi. Basta girare la grande metropoli per accorgersene, ed è spesso nel settore della ricettività che l’avanguardia si spinge ai livelli più audaci. Come nell’Hotel Unique dalla forma inconfondibile e provocante. Progettato dall’architetto Ruy Ohtake, degno erede del grande Oscar Niemeyer, la struttura sembra lo scafo di una barca che si poggia su due grandi piloni di cemento. E come sempre, quando di grande design si tratta, la forma originale è molto di più di un gioco eccentrico. Perché l’ideazione di Ohtake permette al maggior numero di camere di godere delle viste migliori sulla citta. Infatti, mentre sul secondo piano ci sono solo quattro camere, il piano più alto ne conta trenta. I riferimenti nautici si ripetono nelle finestre circolari a oblò,

e nell’uso di legno come nella pavimentazione del grande ingresso dove, al posto del solito banco reception, gli ospiti si siedono su due siede davanti a una piccola scrivania per fare il check-in. Ricorrente l’uso del legno anche nelle camere, dove il parquet chiaro fa gioco, specialmente in quelle al lati dell’edificio dove il pavimento segue inesorabilmente le curve che, all’esterno formano la prua e la poppa della “nave”. Allo stesso tempo eleganti e sobri gli interni voluti dal designer Joao Armentano che è riuscito a dotare i grandi spazi di mobilio e pezzi di design armoniosi ed intriganti. Come il bar, un grande ponte in legno intorno alla piscina - che di notte si illumina di rosso fuoco - sulla terrazza sul tetto dalla quale lo sguardo abbraccia lo skyline illuminato della città. E nei bagni dotati di vasche trasparenti e da porte scorrevoli che servono per separarli dalla zona notte. pmf

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Kaleidoscope

Kaleidoscope

di Josée Gontier


Melegatti dolci e impegno sociale Intervista all’avv. Emanuela

Perazzoli - Presidente di Melegatti a cura di Teresa Carrubba

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Melegatti, un nome emblematico per la pasticceria italiana. Qual è la sua storia? L’Azienda è legata al capostipite Domenico Melegatti, pasticcere e droghiere della seconda metà dell’Ottocento. Una persona geniale artefice di varie invenzioni, tra cui i dadi da brodo e il Pandoro, dolce al quale dedicò molta passione. Un prodotto sano senza alcuna spinta chimica che ebbe da subito un gran successo. Del Pandoro, Melegatti inventò la ricetta, la forma e il nome e ne brevettò tutte e tre le caratteristiche il 14 ottobre 1894. Da quel momento il suo laboratorio di Corso Porta Borsari a Verona, cuore della città antica, ebbe una grande risonanza proprio grazie a quel dolce strepitoso. Sul giornale locale, che già da allora si chiamava L’Arena, fu pubblicato l’annuncio di un concorso tra tutti i pasticceri di Verona e provincia per chi sarebbe riuscito ad imitare il Pandoro Melegatti, con un premio di mille lire. Nessun pasticcere riuscì nell’impresa e Domenico Melegatti fu incoronato “Re del Pandoro” dalla città di Verona. Finché durò il brevetto, quindi per 50 anni, Melegatti ebbe l’esclusiva della fabbricazione del Pandoro, ma alla sua scadenza, molti ex dipendenti della fabbrica si misero in proprio ed iniziarono a produrre il pandoro con la ricetta originale. Tale ricetta, ideata da Domenico Melegatti fu riconosciuta persino dal disciplinare secondo il decreto 22 luglio 2005 come riferimento obbligatorio cui attenersi per attribuire ad un dolce la denominazione di Pandoro. Una tradizione che comunque continua. Sono 117 anni che non per via

anche un prodotto “continuativo”, da consumare tutti i giorni.

diretta, perché Domenico Melegatti è morto senza lasciare eredi diretti, ma per vie collaterali, l’Azienda appartiene alla stessa famiglia. Pur mantenendo questa bellissima tradizione, la Melegatti si è evoluta Certamente. Intanto lo stesso Pandoro è stato declinato in varie versioni andando incontro alle richieste del mercato, poi siamo passati al panettone per Natale e alla colomba per la Pasqua. Però Melegatti, che è rimasta l’unica azienda che produce dolci lievitati da forno esclusivamente per le ricorrenze, ha iniziato anche a realizzare dei prodotti che esulano dagli eventi canonici. Torte per occasioni diverse, per esempio la TortAmore per San Valentino, unica torta a forma di cuore prodotta industrialmente. Poi recentemente abbiamo acquistato un’azienda a Mariano Comense in provincia di Como, che fabbrica croissant, brioches ed altro, per aggiungere nel nostro catalogo

Al di là della produzione dolciaria la Melegatti promuove degli eventi o si occupa del sociale? Abbiamo istituito la -Melegatti Golf Cup- è già il secondo anno. E’ un torneo di golf sponsorizzato da Melegatti, suddiviso in 12 tappe in tutta Italia nel corso dell’anno. Per quanto riguarda l’impegno sociale, siamo legati come benefattori all’ Istituto Don Calabria di Verona e alla UILDM-Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare. Quest’anno abbiamo sostenuto una nuova Onlus, la Fondazione Rosangela D’Ambrosio che ci ha chiesto di produrre per loro dei pandori, fornendoci un astuccio speciale con l’immagine di bambini indiani, per una vendita di beneficienza a favore della costruzione di strutture essenziali per certe zone molto disagiate dell’India, da cui abbiamo già avuto dei riscontri positivi. Un grande impegno nel sociale, dunque Cerchiamo di fare qualcosa di concreto per la società in vari modi. Per esempio, negli ultimi 3 anni siamo andati controcorrente operando molte assunzioni riempiendo così molti ruoli vacanti. Inoltre, nella fabbrica che abbiamo acquistato in provincia di Como la Melegatti ha riassunto tutti gli operai che erano in cassa integrazione. Insomma, abbiamo cercato di cavalcare la crisi per superarla.• Via Monte Carega, 23 San Giovanni lupatoto - VR www.melegatti.it


MUSICA per viaggiare

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Testi di

Marco De Rossi

R.E.M.

Laura Marling

Part lies, part heart, part truth, part garbage (WarnerBros)

A creature I don’t know (Virgin)

P

H

er l’ultimo atto della loro carriera, salvo improbabili (ma possibili) ripensamenti, I R.E.M. hanno scelto un titolo wertmulleriano. La band di Atlanta ha dichiarato al mondo il proprio fine vita, dopo trent’anni di onoratissima carriera. Succede anche nei migliori matrimoni, sei lustri sfiancherebbero chiunque. Ergo, questa raccolta diventa il testamento di Michael Stipe e soci, il proprio lascito ai posteri. I trentasette brani da antologia di questa compilation, che coprono un percorso musicale composito e lineare, hanno segnato una resistenza della forma-canzone all’aggressione del conglomerato di suoni, spesso definiti “nuovo rock”, pur essendo semplici rimescolamenti di plagi sonori, di questi ultimi venti anni. Un’opposizione costruttiva, come si dice in politichese, alle pacchianerie alla Lady Gaga. Sono una band “sobria” i R.E.M., per usare un termine rispolverato di recente. La tracklist include tutto il necessario perché il testamento sia esaustivo, e perché chi non conosce possa conoscere. I tre inediti , “We all go back to where we belong” (titolo che parla da sé), “A month of saturdays” e “Hallelujah”, sono dei piccoli divertissment da zona Cesarini. Poi, tutti, aspettiamo qualche rewind. In fondo, per Stipe e compagni, l’età della pensione è lontana, almeno 67 anni. •

Ivano Fossati Decadancing (Capitol)

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empre a proposito di lasciti testamentari, anche il nostro buon Fossati ha pensato bene di andare in pensione. Ultimo disco e ultimo tour per il cantautore genovese, che ha detto stop. Dev’essere un virus contagioso, visto che in parecchi quest’anno hanno comunicato la volontà di abbandonare le scene. “Dacadancing” è un titolo strano, fa pensare a un ballo sulle rovine dell’umanità, quello che potrebbero fare i sopravvissuti ad un olocausto nucleare. Ma non è così. Questo capitolo di chiusura del libro Fossati è un gran bel capitolo. Riassume in sé la grandezza dell’autore e dell’interprete, in grado di volteggiare con leggerezza (da non confondere con la banalità) sul mondo che si sta autoseppellendo, di inanellare canzoni piene di parole gonfie di significato. Non c’è da aspettarsi il futuribile da Ivano Fossati. Ma semplicemente che ripeta la sua formula usuale, sempre uguale da quarant’anni eppure sempre diversa. Un classico, insomma, di quelli che non passano mai di moda. Per cui, per tirare le somme, “Dacadancing” è un gran disco con dentro grandi canzoni, tipo “Settembre”, una delle più belle conclusioni di un amore mai messe in musica. Triste, ma di quella tristezza che avvolge e purifica. Fossati si divide fra pubblico e privato, guarda il pubblico (leggi politico) con lo sguardo cinico di chi sa come va il mondo (male) e il privato con l’occhio di chi ha avuto la vita come maestra e sa che non c’è pozzo tanto profondo dal quale non si possa risalire.•

Kate Bush

50 Words For Snow (Capitol)

a solo 21 anni, la biondissima e inglesissima Laura Marling (Eversley, Hampshire), e ha già sfornato tre album. Peraltro tutti di livello. Enfant prodige. In terra d’Albione è già una diva, e non è neanche uscita da Amici o Xfactor, che in Italia costituiscono l’unico passaporto valido per entrare a far parte deila nazione degli illustri conosciuti. Chitarra e voce, anche un po’ ruvida, qualche strumento di contorno a dosaggi omeopatici, pochi orpelli e nessuna concessione all’easy listening: questa è Laura Marling. D’altronde, una che fa sua la lezione di Joni Mitchell e Suzanne Vega, poco ha a che fare con la musica da gettare dopo l’uso. La ragazza è talentuosa (non a caso ha vinto il Brit Award 2011 come “miglior voce femminile britannica”), e qualche smussatura agli spigoli potrà farle conquistare anche il grosso pubblico, quello che va educato con le istruzioni per l’uso. Basta ascoltare “Don’t ask me why” per capire che è proprio Joni Mitchell la sua musa di riferimento, e questo rende la Marling ostica ai poveri di spirito e di giudizio. D’altronde, diceva qualcuno, le cose belle sono solo per pochi. Ma il kitsch come modello di riferimento per le masse sta cominciando a stancare, quindi qualche speranza per la sopravvivenza dell’estetica c’è ancora. Laura Marling sta lì ad alimentarla.•

Cinquanta parole per la neve”, titolo stralunato e misterioso, che evoca “Il senso di Smilla per la neve”, il bel romanzo di Peter Hoeg, tradotto per il cinema da Billie August. Perché in entrambi, libro e disco, c’è la fascinazione per il candore e la purezza silenziosa di quel manto bianco che segna le stagioni, protegge la terra e il seminato, e ammanta i luoghi di purezza. Salvo lasciare delle tracce che solo in pochi (come Smilla e la Bush) sanno leggere. La regina delle cime tempestose torna dunque con un disco invernale, ma fortunatamente non natalizio. Solo sette brani, ma di una lunghezza inusuale. La sua voce, sempre eterea e trascendente, le linee di piano, la batteria jazzata dell’americano Steve Gadd (Clapton, Pino Daniele, Paula Simon, Mccartney), l’elettronica a spruzzi, il figlio tredicenne Bertie a cantare, sir Elton John che ci mette anche la sua voce, l’attore Stephen Frey che enumera 50 sinonimi di “neve”, soprani (Michael Wood) e contro-soprani (Stefan Roberts), fiabe, boleri, emozioni vittoriane, incontri con lo Yeti, laghi californiani (Lake Tahoe): tutto questo sta dentro le “50 parole per la neve”. Un mondo fantastico e misterioso che si immerge nel reale, ma con la struttura narrativa dei fratelli Grimm. Per sere d’inverno, davanti al camino, con un buon brandy e un amore vicino.•

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Sara Papa IMPARA A CUCINARE IN UN MESE € 16,90 Collana Sapori e fantasia GRIBAUDO EDITORE

Testo di

Mariella Morosi

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uò bastare un mese per imparare a cucinare? Sì, e anche bene, secondo Sara Papa, maestra di cibo, star della tv e scrittrice che dopo il successo di «Tutta la bontà del pane» continua a svelarci i suoi segreti ai fornelli. Le caratteristiche di questo suo ultimo libro dal titolo ironicamente ambizioso: «Impara a cucinare in un mese» sono la chiarezza e la semplicità: nel leggere, nello scegliere, nel conservare, nel mescolare, nell’impastare e nel servire. E’ una vera scuola di cucina per tutti, con consigli e ricette, con un approccio senza complessi che permetterà anche a chi sostiene di non saper fare “neppure un uovo al

tegamino” di realizzare, in appena quattro settimane, ricette degne di uno chef stellato: risotti da manuale, saporiti piatti di pasta, pani profumati, dolci spettacolari. Non trascurare di leggere la parte introduttiva: dà entusiasmo e accantona qualsiasi timore di flop. L’autrice fornisce, con uno stile asciutto e convincente, tutte le indicazioni indispensabili per mettersi ai fornelli, a cominciare dai consigli per mantenere ordine e igiene in cucina, proprio come nei manuali di economia domestica di una volta. Il secondo e non meno fondamentale step è riconoscere la qualità degli alimenti al momento dell’acquisto perché, come dicevano le nonne, la bontà di un piatto di-

pende da quello che metti in pentola. Nel libro c’è tutto il know how per passare dai «fondamentali» alla perfezione: si riesce a ottenere il risotto perfetto, mantecato ma con i chicchi ben sgranati senza ripiegare sul parboiled. Ci sono le spiegazioni per preparare la pasta all’uovo, quella di grano duro e gli impasti per i dolci, e non manca l’attenzione per le temperature di cottura. L’autrice insegna anche a fare in casa alcuni tipi di condimenti, come gli oli e i sali aromatizzati o il dado da brodo senza ricorrere alla chimica. La sezione dedicata alle ricette è suddivisa in 4 parti, da realizzare in altrettante settimane: le preparazioni si fanno pian piano più complesse, senza sconfinare in tragiche difficoltà, e alla fine del mese il lettore dai piatti più semplici arriva a realizzare opere di livello. Per ciascuna settimana le proposte sono articolate e spaziano dagli antipasti ai dolci. Tutte le 60 ricette sono accompagnate da fotografie che illustrano il risultato finale e, in alcuni casi, i passaggi più complessi. Se è vero che «siamo quello che mangiamo», citando il filosofo Feuerbach, Sara Papa, fin dall’infanzia in terra calabra ha imparato a scegliere il meglio, a valorizzare i doni della terra e ad elaborarli perché diano gusto, piacere e salute. •

Testo di

Luisa Chiumenti

I

l bel volume illustra ampiamente quali siano stati i due principali obiettivi posti alla base dell’intervento progettuale, realizzato dall’architetto Crachi, mirato a “restaurare un eccellente esempio di architettura coloniale, evidenziato come “museo di se stesso”, ma al tempo stesso dare vita, con criteri assolutamente innovativi, ad un museo interattivo e multimediale sulla storia e la cultura della Libia. Si é trattato infatti di un recupero, restauro e totale rinnovo dell’allestimento, nato dalla “riconversione” di quel Palazzo del Governatore di Tripoli, che era stato costruito tra il 1924 e il 1931, su progetto dell’ingegnere Saul Meraviglia Mantegazza, palazzo che poi sarebbe divenuto “Palazzo del Popolo”, in seguito alla Rivoluzione del 1969. Il volume racconta, attraverso disegni di dettaglio, immagini storiche, ma anche immagini “di cantiere”, il concept del progetto e

le soluzioni tecniche adottate per dare vita ad un museo dai contenuti sia “reali” che “virtuali”. Le sale del museo documentano infatti, affrontando i diversi temi presenti sul territorio, in una panoramica a trecentosessanta gradi sulla Libia, i siti archeologici, l’architettura araba storica e contemporanea, il deserto, le popolazioni, la musica e il divertimento, la Rivoluzione del 1969, il “Libro Verde” e il “Libro Bianco”, l’innovazione tecnologica, l’arte tessile, l’arte contemporanea e i progetti futuri. Né manca la presentazione degli eventi legati alla costruzione originaria, sistemata in un lotto di circa quattro ettari, situato in posizione strategica riguardo allo sviluppo della città moderna verso Ovest. Il libro, attraverso i diversi saggi, illustra tutte le componenti della progettazione di un Museo molto attuale e di facile fruibilità, con metodi tecnologicamente innovativi. •

A cura di Pier Carlo Crachi Il Nuovo Museo della Libia nel Palazzo del Popolo di Tripoli. Storia di un progetto realizzato Editore Gangemi

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PICCOLA FILOSOFIA DI VIAGGIO

Ediciclo Editore

Testo di

Lorenzo Tarantini

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diciclo e Transboreal, una collaborazione editoriale per una collana davvero innovativa la “Piccola filosofia di viaggio”. Un titolo evocativo per una serie di libri che penetrano dentro lo spirito del viaggio non attraverso la descrizione di luoghi e paesaggi ma seguendo le emozioni che tali luoghi procurano e la passione che anima chi erige ad habitat privilegiato la propria destinazione preferita. Ecco allora -L’euforia delle cime- di Anne-Laure Boch, dedicato a chi ama la montagna assoluta, quella che costringe a guardare il mondo dall’alto e a confrontarsi con se stessi e con la natura impervia. Anche –Il mormorio delle dune-, di Jean-Pierre Valentin, con il fruscio del vento che sposta i profili del deserto

ci spinge in un’altra dimensione fatta di sconfinati silenzi nelle incredibili sfumature dell’ocra, ma anche di segni di vita nomade quantomai ospitale. Tutto diverso –Il richiamo della strada- di Sebastien Jallade, dove il viaggiatore sembra lasciarsi andare verso le mete più diverse, là dove lo porta la strada, sia essa una città affollata o una campagna deserta, intravedendo la possibilità di vivere la propria libertà e di capire meglio se stesso attraverso l’incontro con gli altri. -La musica della neve- di Davide Sapienza, raccoglie la miriade di sensazioni che suscita il manto innevato della natura, un’esperienza dalle Alpi all’Artico. ”Ogni fiocco è un suono puro e traccia i movimenti della musica, continua come una fuga scritta nell’universo…”•


Direttore Responsabile Teresa Carrubba tcarrubba@emotionsmagazine.com www.emotionsmagazine.com Progetto Grafico, impaginazione e creazione logo Emotions Ilenia Cairo icairo@emotionsmagazine.com Collaboratori Alessandra Amati, Raffaella Ansuini, Anna Maria Arnesano, Luigi Bernardi, Romeo Bolognesi, Luisa Chiumenti, Valerio De Amicis, Marco De Rossi, Giuseppe Garbarino, Josée Gontier, Roberto Lippi, Pamela McCourt Francescone, Mariella Morosi, Mirella Sborgia, Lorenzo Tarantini Fotografie Marco Aschi, Giulio Badini, Romeo Bolognesi, Alessandro Neri, Marcello Peci, Sandro Vannini Archivio Consorzio del prosciutto di San Daniele, Archivio Terme di Petriolo, Ufficio Turistico Pro San Daniele, Museo Richard-Ginori della Manifattura di Doccia, Sesto Fiorentino Responsabile Marketing e Comunicazione Mirella Sborgia msborgia@emotionsmagazine.com Responsabile Marketing per le agenzie Francesca Rocchi frocchi@emotionsmagazine.com Traduzione Pamela McCourt Francescone mccourt@tin.it Tipografia Sograf Srl - Litorama Group Via Alvari 36 - 00155 Roma tel. +39 062282333- www.litorama.it Editore Teresa Carrubba Via Tirso 49 -00198 Roma Tel. e fax 06 8417855 Pubblicazione mensile registrata presso il Tribunale di Roma il 27.10.2011 - N° 310/2011 Copyright © - Tutto il materiale [testi e immagini] utilizzato è copyright dei rispettivi autori e della Case Editrice che ne detiene i diritti.



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