L'isola del muto di Guido Sgardoli - estratto

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Guido Sgardoli

L’isola non aveva nome. Qualcuno l’aveva chiamata lo Scoglio, perché era esattamente quel che sembrava, un frammento di terra staccatosi per ribellione e andato alla deriva.

L’ISOLA DEL MUTO

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Guido Sgardoli è uno tra i più importanti autori italiani nel panorama della letteratura contemporanea per ragazzi. Viaggiatore appassionato, ha pubblicato tante storie fortunate. Tra i numerosi riconoscimenti ottenuti per il suo lavoro ricordiamo due edizioni del Premio Andersen (miglior autore 2009, premio speciale della giuria 2015) e il Premio Bancarellino 2009. Presso le Edizioni San Paolo ha pubblicato il romanzo The Frozen Boy che ha riscosso un grande apprezzamento di pubblico e di critica vincendo il Premio Liber miglior libro 2011 e il White Ravens 2012

L’ISOLA DEL MUTO GUIDO SGARDOLI

Arne Bjørneboe è un ex marinaio dal volto deturpato a causa di una ferita di guerra. In lotta con il mondo, decide di smettere di parlare e da allora, per tutti, diventa il Muto. Solitario e disperato, trascina i suoi giorni sopravvivendo fino al momento in cui gli viene offerta la possibilità di un riscatto: diventare il primo custode del nuovo faro costruito sull’isola di fronte al porto. Su questo scoglio inospitale, Arne si sente da subito a casa e mette radici, dando vita alla stirpe dei Bjørneboe, i custodi del faro, una discendenza che rivelerà, di volta in volta, ribelli, eroi, filosofi, donne coraggiose, patrioti, contrabbandieri. La vita dei successori di Arne sarà indissolubilmente legata a quella dell’isola, sia che essi decidano di abbandonarla che di restarvi per sempre. Una grande saga familiare che dai primi dell’Ottocento giunge agli anni Sessanta del secolo scorso.

€ 18,00

Progetto di copertina: Langue&Parole Illustrazione di copertina: Cecilia Botta

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Narrativa San Paolo Ragazzi l’avventura della mente e del cuore

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www.guidosgardoli.it La poesia di Anna Achmatova La porta è socchiusa (citata a pag. 244) è tratta dall’antologia a cura di Michele Colucci, La corsa del tempo, Einaudi, Torino 1992. Progetto grafico e redazione: Langue&Parole, Milano © EDIZIONI SAN PAOLO s.r.l., 2018 Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano) www.edizionisanpaolo.it Distribuzione: Diffusione San Paolo s.r.l. Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano) ISBN 978-88-922-1363-0

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Questo è per Miriam. Il mio faro.

Sopra la grigia distesa del mare il vento raccoglie nubi di tempesta. Tra nuvole e acqua si libra orgogliosa la procellaria, simile alla scia di un fulmine nero. Maksim Gor’kij, Il Canto della Procellaria .

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ALBERO GENEALOGICO Arne Bjørneboe (1791-1882) Einar ∞ Iselin Hagerup (1826-1878)

Eivind

(1817-?)

(1824-1845)

Sunniva

Sverre ∞ Hjørdis Aanrud

(1848-1906)

(1859-1917)

(1857-1939)

Jan Skjalgsson ∞ Agnes

Hedda

Morten ∞ Liv Jagland

(1876-1945)

(1885)

(1883-1961) (1886-1969)

(1882-1956)

Arnulf Vesaas ∞ Karin Synnøve Victoria Hansen ∞ Asbjørn Arne (1890-1967)

(1898)

(1911)

(1902)

(1913)

Vidar Nilsen

(1926)

(1911)

(1928)

(1935)

Andrine ∞ Tobias Bojer (1929)

(1959)

(1907-1944)

Marie Simon ∞ Amanda Berg

Jon

(1907)

Ragnhild

(1931)

Tore (1941)

Lene ∞ Ruben Hundseid (1944) (1940)

Steffen

Arne

(1936)

(1946)

Tobias Jr.

Tom

(1957)

(1965)

Karl

Elisabeth

Anna

(1961)

(1959)

(1965)

Steinar (1960)

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D


O

ild

DELLA FAMIGLIA BJØRNEBOE Gunhild Jølsen (1805-1831) Emil ∞ Tove Jakhelln (1831-1884) (1836-1899)

Per Olsen ∞ Gunhild

Gunnard

(1854-1932) (1854-1943)

(1854-1923)

Emil

Elise ∞ Ulrik Skram (1858-1899) (1844-?)

Erik ∞ Helga Uppdal

(1874-1933)

Patrick ∞ Oda Lykke

(1875-1959) (1877-1946)

Thea ∞ Cornelius Loe (1910) (1900-1966)

(1878-1962)

Elias ∞ Rikke Nesbø (1899-1972)

Filip Fløgstad ∞ Martha (1901)

(1912-1959)

Kristoffer ∞ Charlotte Hoven

Andreas ∞ Sandra Fridtjof

(1938)

(1943)

(1927)

Borghild ∞ William Korvald

Håkon

(1939)

(1930)

(1935)

(1881-1957)

(1909)

(1942)

Dag Berit Mehren ∞ Marcus

(1945)

Åse

(1940)

(1938)

Paul

(1949)

(1941)

Morten

Emma

(1962)

(1962)

Grete (1963)

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Arne generò Eivind, Einar ed Emil. Einar generò Sunniva. Emil generò Gunhild, Gunnar, Elise e Sverre. Sverre generò Agnes, Morten e Hedda. Morten generò Asbjørn, Arne, Thea e Ragnhild. Asbjørn generò Tore, Lene e Arne. Thea generò Kristoffer, Borghild, Dag e Åse.

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Prologo

L’isola non aveva nome. Qualcuno, aggirandola e guardandosi dai suoi speroni affilati, l’aveva chiamata lo Scoglio, perché era esattamente quel che sembrava, un frammento di terra staccatosi per ribellione e andato alla deriva, irregolare, nervoso, le cui superfici mostravano rughe scolpite da millenni di ondate e di piogge e di ghiacci e maree. Un grumo di roccia e cespugli sferzato dal vento, schiacciato da un cielo cupo, senza nome né abitanti, che pareva rifiutare gli uomini così come un giorno aveva rifiutato d’esser parte del continente che l’aveva originato. Il grano perduto di una collana rotta. E qualcuno, forse, nel tempo, vi aveva fatto naufragio, anzi certamente era accaduto, poiché la sua posizione era defilata, a ridosso di una secca, e se calava la nebbia o si alzavano le onde l’isola si celava. E si narrava di un filibustiere, discendente di un re vichingo, che un paio di secoli addietro vi era approdato nascondendo, in una gola stretta e profonda protetta dal mare, una piccola fortuna. Ma coloro i quali avevano tentato un approdo vi avevano trovato soltanto rocce e sventura. Così era diventata lo Scoglio, un nome che non era iscritto in alcun registro ma che i marinai conoscevano bene e da cui si tenevano alla larga. Stava lì da sempre e da sempre era temuto, grande

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a sufficienza per rappresentare un pericolo, non abbastanza da meritarsi un nome tutto suo. Lo Scoglio in faccia a Horendal, questo era tutto ciò che gli si consentiva d’essere quando per caso finiva nei discorsi degli uomini giù al porto.

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Arne

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La notte del 12 luglio 1812 al largo di Lyngør, James Pattison Steward, capitano di vascello della Marina britannica, meglio conosciuto come Mad Jim, scaricò in poco più di quindici minuti quattro tonnellate e mezza di ferro e catene contro il fianco inerme dell’unica nave degna di tal nome della flotta danese-norvegese, la fregata Najaden, a bordo della quale prestava servizio come nocchiere di terza classe il giovane Arne Bjørneboe. Arne sopravvisse, ma perse del tutto l’udito e si ustionò gravemente il volto. Quando si riprese e vide quel che la battaglia gli aveva fatto, smise di parlare. Non che in precedenza fosse stato molto loquace – era uno di quei tipi taciturni, dall’anima rozza, abituati alla fatica e alla solitudine – e per tutto il tempo trascorso in compagnia del vecchio Ole Bjørneboe, che l’aveva cresciuto ispirandogli timore fino all’ultimo dei suoi giorni terreni, mai aveva sentito pronunciare un discorso composto da più di una dozzina di parole e che per metà non fossero imprecazioni o ingiurie. Non fu un gran sacrificio, quando si decise, chiudere la bocca, scordare il suono delle parole e lasciare che la vita intorno a lui sciabordasse pigra e indifferente. Per un certo periodo, all’ospedale di Kristiansand, dove era stato ricoverato a causa delle ferite, Arne pensò di uccidersi. Vedeva arnesi che infilati con la dovuta forza nel punto giusto della gola, dove il sangue gonfiava le vene, avrebbero dato la morte in

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brevissimo tempo. E vedeva finestre spalancate attraverso le quali gettarsi nel vuoto. Seguitò a pensarci quando uscì dall’ospedale e le bende umide e maleodoranti divennero per un tempo infinito la sua seconda pelle; ci pensava quando vedeva le onde del mare in burrasca o quando passava di fronte a un gabinetto medico e immaginava boccette di veleno dai nomi impronunciabili. E ci pensò ancora, quando osò guardarsi per la prima volta in una scheggia di specchio e non riconoscendosi urlò di rabbia e di frustrazione senza sentire le sue stesse urla, e poco ci mancò che afferrasse quella scheggia appuntita per ficcarsela nel cuore. Ma alla fine non si uccise, poiché era credente e la viltà non faceva parte del suo magro bagaglio, e perché aveva imparato dal vecchio a lottare, per quanto impari potesse apparire alle volte la lotta. E dunque, in un curioso e inutile contrappasso, risolse di privare della propria voce e dei propri pensieri quel mondo scaltro che lo aveva derubato dei genitori e dell’infanzia prima, dei suoni e della dignità di un volto in seguito. Poiché, però, a nulla serve un marinaio che non ode gli ordini impartiti, la Marina lo congedò mettendogli, a guisa di risarcimento, una minuscola borsa di monete tra le mani. Arne si disse che tornarsene tra le montagne dello Setesdalen, a Åmli, nella vuota casa che era stata del vecchio Ole, fosse la cosa migliore da farsi. La durezza che il vecchio gli aveva riservato durante l’infanzia derivava dalla sua inesperienza con i mocciosi e dal rancore covato nei confronti di quella nipote che morendo lo aveva costretto a occuparsi del suo vergognoso frutto, e sebbene egli mai avesse fatto mancare al ragazzo un tetto sulla testa e un piatto sulla tavola, era stato manchevole in ciò che abbisogna un bambino, accrescendo l’ombrosità di quella innocente creatura più di quanto la natura e gli eventi avessero già provveduto a fare. Gli aveva insegnato il sacrificio e la brutale ineluttabiltà delle cose e alla fine era grazie al

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vecchio o forse per colpa del vecchio che Arne non si era ammazzato. Quando Ole morì lasciando in eredità una vita sporca e nera, da consumare faticosamente, il ragazzo aveva soltanto tredici anni. Da allora aveva tirato avanti come meglio gli era riuscito, secondo i rozzi principi del vecchio che ora erano i suoi, cavando dal ventre freddo e duro del fazzoletto di terra dietro casa preziose gocce di sangue, ripetendo i mille gesti di ogni giorno indifferente al proprio destino, ignaro di ogni sapere che non gli fosse derivato dal vecchio, estraneo a ogni pensiero che non concernesse la propria misera sopravvivenza, finché, un giorno, qualcuno si era fatto avanti per dire di una guerra e che sulla costa reclutavano giovani intraprendenti per farne marinai da opporre alle navi inglesi e tutto quel che Arne aveva intorno, all’improvviso, gli era apparso sciagurato e inutile. Aveva venduto a un vicino le poche pecore che ancora possedeva e dopo aver dato un’ultima occhiata al piccolo campo sassoso e alla croce che segnava il tumulo del vecchio, aveva sbarrato porta e finestre con assi di legno ed era disceso ad ampie falcate verso la costa per arruolarsi, sperimentando un sentimento nuovo al quale non sapeva dare nome. Per un po’ la vita, quella dura, si era fatta da parte. Per un po’ la vita gli aveva concesso il tempo di imparare a navigare e a combattere, di conoscere il mare e le sue bizze, i cieli e le nuvole, e la natura dell’uomo che è strana e capricciosa come a volte lo sono i venti e le maree. Per un po’ Arne aveva coltivato l’illusione di poter decidere del proprio futuro, di essere padrone dei propri giorni. La sua anima in rivolta era una spugna che assorbiva la vita. Imparò i rudimenti della lettura e della scrittura. Frequentò qualche donna e poté dirsi uomo. Ma solo per un po’. Un giorno d’estate la sua vecchia vita, la vita con la quale era cresciuto, quella che spremeva e chiedeva sempre di più e toglieva ogni libertà, quella vita miserevole che aveva creduto ingenuamente di fuggire, era tornata,

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con la stessa brutale ineluttabilità alla quale il vecchio, soffocando di rabbia, si era sempre sottomesso, e servendosi dei cannoni di una nave inglese e di un capitano “pazzo” lo aveva riportato alla realtà, devastandogli il volto e rendendo silenzioso il mondo che lo circondava. Fare ritorno a Åmli, si era detto Arne, poteva essere un modo per onorare la memoria del vecchio e forse per trovare pace. Ora che Arne udiva null’altro che i propri pensieri, essi gli sembravano rumorosi e presenti più di quanto mai lo fossero stati, e s’imponevano con assordante prepotenza facendosi talvolta insopportabili. Gli capitava, ad esempio, di pensare alla madre, della quale non ricordava nemmeno il volto. Non gli importava che fosse stata bella o brutta o che, come diceva il vecchio sputando disprezzo, fosse stata una donnaccia. Lui la immaginava sola, una piccola donna sola con un bambino in grembo, e quella immagine, di tanto in tanto, aveva il potere di confortarlo e di fargli ritrovare se stesso nelle ore peggiori del giorno. Se invece gli capitava di ripensare al vecchio, lo vedeva come gli era apparso la mattina in cui l’aveva scoperto morto, steso sulle lenzuola sozze e gualcite sopra le quali si accucciava come un cane: scolorito e con una maschera di sconcertante nullità sul volto, che rendeva piccolo e debole lui e ridicola la durezza della quale si era avvolto in vita. Ricordava bene il vergognoso sollievo provato, come un sospiro alla fine di un lungo dolore. Intorno al pensiero del vecchio, Arne sentiva fiorire un balbettio di affetto che restava costantemente inespresso, sempre confinato ai margini, simile a un ricordo forse solo immaginato. Quella sterilità, quell’incapacità affettiva, era la stessa durezza del vecchio, passata in lui come un morbo. In verità, quando ripensava al vecchio Ole, gli sembrava che non vi fosse alcuna memoria da onorare. Fece una sosta, lungo la strada, in una delle taverne del porto

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di Horendal, un saliscendi di strette strade e pallide case in legno che contava all’epoca più reti da pesca che abitanti, destinando una paio delle monete elargite dalla Marina ad annacquare rabbia e ricordi nel fuoco liquido di una bottiglia. E a Åmli non tornò mai. Cominciò ad apparire e a disapparire come uno spirito inquieto sui tavolacci delle locande più sordide e oscure, consumandosi lentamente nell’autocommiserazione, confortato dal calore del gregge. Non aveva timore di mostrare il suo volto accartocciato dal fuoco poiché nulla gli importava del giudizio del mondo, e anzi sembrava godere del raccapriccio che quella vista provocava in quanti vi si imbattevano. O forse godeva del suo ritrovato, seppur momentaneo, posto tra gli uomini. E infine qualcuno prese a chiamarlo il Muto, benché Arne non lo fosse affatto, e a considerarlo un elemento essenziale delle taverne, al pari del sudiciume e delle bestemmie.

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Nei primi giorni del 1814, mentre il Muto trascinava quel che rimaneva di sé nelle peggiori taverne del porto, nonostante il trattato di Kiel sancisse il definitivo passaggio della Norvegia alla corona di Svezia, a Eidsvoll nasceva l’indipendenza ideologica della Nazione sotto le spoglie di una costituzione ispirata ai principi di Rousseau, Locke e Montesquieu. Un sano fermento attraversò come una fresca brezza il Paese, portando nuove idee e nuovi propositi. A Horendal, la neonata Corporazione dei Mercanti ritenne che la costruzione di un faro all’entrata del porto avrebbe dato maggior lustro alla città, favorito la ripresa dei traffici e rafforzato lo spirito

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