Cronaca&Dossier30

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COPIA OMAGGIO

anno 3 – N. 30, Ottobre 2016

IL CASO SIFAR LA “BOMBA” CHE SCONVOLSE L’ITALIA

Viaggio nell’Archivio Giovanni de Lorenzo fra i documenti che raccontano un’altra verità La strana morte del brigadiere Mario Guzzetta

Caso Maurizio Gucci: torna in libertà “Dark Lady”

Lucida follia: il profilo psicologico del terrorista


Indice del mese 4. La finestra sul crimine LA GUERRA DEL GENERALE

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10. Dossier inchiesta PROCESSO AL “PIANO SOLO”

16. Dossier inchiesta

«IL SEGRETO DI STATO? FU IL GENERALE GIOVANNI DE LORENZO A CHIEDERE CHE VENISSE TOLTO»

24. Crimini ai Raggi X

PRIMA DEL CASO SIFAR: LE “COMMESSE MILITARI”

32. Media crime

LIBRO, SERIE TV E PROGRAMMA RADIO CONSIGLIATI

34. Dossier società

POLIZIA E CARABINIERI, SFIDA NEI NUMERI

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38. Sulla scena del crimine LA STRANA MORTE DEL BRIGADIERE GUZZETTA

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44. Criminalistica L’OMICIDIO DI MAURIZIO GUCCI

ANNO 3 - N. 30 OTTOBRE 2016

Rivista On-line Gratuita

50. Sulla scena del crimine L’ERRORE DIETRO LA VERITÀ

54. Memorabili canaglie

Articoli a cura di Alberto Bonomo, Nicoletta Calizia, Francesca De Rinaldis, Nicola Guarneri, Dora Millaci, Paolo Mugnai, Gelsomina Napolitano, Paola Pagliari, Mauro Valentini

LUCIDA FOLLIA CRIMINALE

60. Diritti e minori

Direzione - Redazione - Pubblicità Auraoffice Edizioni srl a socio unico Via Diaz, 37 - 26013 Crema (CR) Tel. 0373 80522 - Fax 0373 254399 edizioni@auraoffice.com

VITTIME SILENZIOSE

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Direttore Responsbile Pasquale Ragone Direttore Editoriale Laura Gipponi

66. Storie di tutti i giorni

Grafica e Impaginazione Federica Bonini

DISABILITÀ UGUALE POVERTÀ, NON SOLO IN ITALIA

Testi e foto non possono essere riprodotti senza autorizzazione scritta dall’Editore. Le opinioni espresse negli articoli appartengono ai singoli autori dei quali si intende rispettare la piena libertà di espressione.

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Registrato al ROC n°: 23491 Iscrizione al tribunale N: 1/2014 Reg. Stampa dal 15 gennaio 2014


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LA GUERRA DEL

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Combattuta fra sentenze e Commissioni ecco cosa resta del caso SIFAR e del cosiddetto Piano Solo

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Ci sono uomini che hanno fatto la Storia e uno di questi è Giovanni de Lorenzo, il “Generale con il monocolo” chiamato così da tutti per quel suo portamento così regale, quel suo rigore non solo nell’apparire. Un uomo che dopo l’8 settembre del 1943 scelse con forza da che parte stare, combattendo con grande ardore per la Resistenza tanto da esser poi anni dopo celebrato in un discorso pubblico alla Camera addirittura da Sandro Pertini. La sua capacità indiscussa in ambito militare è così nota che nel 1951 viene investito dell’incarico di Capo dell’ufficio di operazioni NATO nel sud Europa; nel 1955 è incaricato dal neo presidente della Repubblica Giovanni Gronchi a capo del SIFAR, il servizio segreto nostrano. Un comandante moderno che in sette anni trasforma l’organo di sicurezza, rendendolo parte coesa con il mondo politico e con il paese. Del resto si trova ad affrontare un periodo di forti contrasti sociali, che culminano in scontri di piazza feroci, e con la possibile infiltrazione sovietica che viene presa seriamente in considerazione, tanto da mettere in campo un sistema di schedatura capillare della galassia che ruota attorno al Pci che, dagli Stati Uniti, viene considerato un pericolo.

Sono anni in cui esplode la crisi di Berlino, la sfida tra i due blocchi è tutta spionistica e il SIFAR è lo strumento a cui ci si affida. È in questo clima politico e sociale che nascono le “Circolari Vicari”: misure che, fra le altre, prevedono anche la possibilità di arrestare e trasferire soggetti ritenuti pericolosi per la sicurezza dello Stato e per l’ordine pubblico.

Giovanni de Lorenzo

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La svolta che porta però il Generale alla ribalta anche dell’opinione pubblica arriva nel 1962, ed è ancora un neo presidente della Repubblica a cambiare il destino di de Lorenzo. Appena insediato Antonio Segni fa nominare de Lorenzo comandante generale dei Carabinieri e, come aveva fatto per il SIFAR, anche qui il suo arrivo costituisce un cambiamento radicale rispetto al passato. Egli si adopera per aggiornare l’Arma al suo interno, chiede e ottiene piena autonomia amministrativa e di bilancio e procede ad una forte modernizzazione dal punto di vista tecnologico e dell’automazione. Con de Lorenzo cambia finanche la funzione del Comandante, che non è più di rappresentanza ma che diventa per sua stessa definizione «il primo Carabiniere d’Italia». Sono anni esplosivi sul fronte interno: il 26 giugno 1964 cade il primo governo centrosinistra e di fatto si rivela l’estate più calda di quel periodo, con l’Italia priva di un governo e lotte furibonde tra le correnti interne alla Dc, tra chi vuole riproporre il centrosinistra, come Aldo Moro, e chi invece caldeggia una svolta a destra. Il difficile clima induce il presidente Segni a richiedere un piano di emergenza, sulla

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scorta del timore di scontri di piazza in caso di governo tecnico, secondo lui vera alternativa ad un altro governo di centrosinistra, quest’ultima ipotesi tutt’altro che nei desiderata dello stesso Segni. Nasce così il “Piano Solo” ‒ redatto in tre bozze ‒ così chiamato perché avrebbe previsto solo l’impiego dell’Arma dei Carabinieri. Chi lo leggerà con l’occhio anni dopo, sarà critico fino allo sberleffo riguardo a questo documento programmatico di azione; l’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga nel 1999, chiamato a deporre nel merito del Piano Solo, dirà che lui all’epoca aveva chiesto di porre il segreto di Stato non tanto per la pericolosità autoritaria del Piano, ma perché «era un documento che screditava l’Arma e che non era in grado di fronteggiare neanche la rivolta degli studenti di scuola media», sostenendo che nessuna lista di enucleandi

fosse presente nella bozza. Tuttavia è solo l’inizio di una storia complessa che vedrà al centro il generale Giovanni de Lorenzo, intanto diventato Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, le cui scelte ‒ opposte rispetto a quelle approvate dal suo predecessore, il generale Giuseppe

Antonio Segni

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Aloia ‒ iniziano a creare non pochi malumori. Nel gennaio del 1967 viene istituita una Commissione ministeriale presieduta dal generale Aldo Beolchini per verificare l’operato del SIFAR, dopo le voci sul presunto spionaggio politico e deviazione dai compiti istituzionali. Le conclusioni della Commissione parlano di illegittimità delle schedature disposte dal SIFAR e

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puntano il dito contro de Lorenzo e i suoi successori, i generali Viggiani e Allavena. Ma il 1967 vede susseguirsi un insieme di eventi importanti. Il 15 aprile di quell’anno ‒ dopo l’offerta di dimissioni inoltrata a de Lorenzo in cambio di un incarico da ambasciatore, immediatamente rifiutata ‒ il Generale viene destituito da Capo di Stato Maggiore dell’Esercito. Nel maggio del 1967 invece l’Espresso dà inizio ad una campagna stampa molto forte. Il settimanale esce in prima pagina con una notizia che fa il giro del mondo in un attimo: «Segni e De Lorenzo stavano preparando un colpo di Stato» nell’estate-primavera del 1964 e la prova ‒ secondo le accuse mosse ‒ sarebbe stato proprio il “Piano Solo”. Non tarda ad arrivare la querela di de Lorenzo nei confronti di Lino


Jannuzzi e Eugenio Scalfari (Direttore de l’Espresso), portati a processo con condanna in Primo grado per diffamazione nel marzo 1968; sentenza che viene pronunciata durante i lavori della Commissione Lombardi, la quale escluderà che «le iniziative assunte nella primavera-estate 1964 avessero il fine dell’effettuazione di un colpo di Stato». Anche il procedimento per le schedature del SIFAR si chiuderà quell’anno a favore del generale de Lorenzo con la sentenza del giudice istruttore Giuseppe Moffa che non rileva alcun illecito, archiviazione pronunciata sulla base dello studio delle conclusioni della Commissione Beolchini. E ancora, il 15 dicembre 1970 una commissione parlamentare ad uopo istituita e presieduta dall’onorevole Giuseppe Alessi rileva l’ideazione di «piani straordinari» al di fuori «di ordini o

direttive», ma affermando che de Lorenzo non ideò alcun golpe né piani eversivi. Giovanni de Lorenzo muore per una grave malattia a soli 65 anni, nel 1973, uscendo di scena da parlamentare e rimettendo le querele contro Scalfari e Jannuzzi. Una morte prematura che però non gli ha impedito di vedere quanto decretato dalle sentenze a dalle Commissioni istituite.

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PROCESSO AL “PIANO SOLO” Scalfari e Jannuzzi furono condannati in Primo grado per le accuse contro il generale de Lorenzo

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Se esiste un paese in cui il bianco e il nero si confondono sempre più spesso in un grigio indistinguibile, bene, questo è l’Italia. Non esistono il bene e il male, i contorni della storia, della politica, della Repubblica si sbiadiscono con il tempo e risalire alla verità è arduo compito. Prendiamo ad esempio il cosiddetto “Piano Solo”. La popolare enciclopedia online Wikipedia lo descrive come «un tentativo di colpo di Stato, ideato dal Capo

Giovanni de Lorenzo e il f iglio Alessandro subito dopo la sentenza di Primo grado Scalfari-Jannuzzi

dell’Arma dei Carabinieri, il generale Giovanni de Lorenzo» durante la crisi del I governo Moro, nell’estate del 1964. La verità giudiziaria non è tuttavia questa. L’opinione pubblica, all’oscuro di tutto, scopre dell’esistenza del Piano Solo tre anni dopo, nel 1967. È il quotidiano l’Espresso a lanciare la notizia bomba. In prima pagina campeggia il titolo: «Segni e de Lorenzo preparavano il colpo di Stato», mentre all’interno un articolo intitolato Complotto al Quirinale spiega come si era arrivati a pianificare il Piano, poi saltato in seguito alla costituzione del II governo Moro. De Lorenzo tuttavia non ci sta e querela il giornalista Lino Jannuzzi, l’autore degli articoli, e il direttore de l’Espresso Eugenio Scalfari. Inizia quindi un iter processuale che in qualsiasi altro paese sarebbe, se non altro, durato pochi mesi, mentre in Italia si trascinerà per diversi anni. Il processo ai due giornalisti inizia l’11 novembre 1967 e dura cinque mesi: Scalfari e Jannuzzi vengono condannati, rispettivamente, a 15 e 14 mesi di reclusione, nonostante il pubblico ministero Vittorio Occorso (che era riuscito a leggere gli incartamenti per intero prima che venissero censurati) avesse chiesto il loro proscioglimento sostenendo il loro esercizio di cronaca e critica. Il punto più oscuro del processo ruota attorno al Rapporto Manes, un’inchiesta

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interna all’Arma dei Carabinieri affidata al generale Giorgio Manes per capire come abbia fatto l’Espresso a ottenere le informazioni e i documenti sul Piano Solo. Il generale Manes tuttavia non si limita alla ricerca delle eventuali gole profonde e nelle conclusioni della sua inchiesta sostiene l’esistenza del colpo di Stato. Accusato di aver travalicato il suo compito, viene successivamente isolato

Eugenio Scalfari

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e abbandonato dalla salute: morirà il 25 giugno 1969 a Montecitorio per una crisi cardiaca, subito dopo aver bevuto un caffè e appena prima di deporre alla Commissione parlamentare sul presunto tentato golpe. Tornando al processo Scalfari-Jannuzzi, va precisato che il rapporto Manes viene sì letto in aula ma con ben 72 omissis: dopo essere stato consegnato al Pm interviene infatti il presidente del Consiglio Aldo Moro, che ferma il processo e si fa restituire il rapporto, che avrebbe contenuto segreti politico-militari, e alla riconsegna al Pm (l’unico ad averlo letto incensurato) ecco i 72 omissis. Intervistato da Pier Luigi Vercesi per Sette, allegato del Corriere della Sera, il 5 febbraio 2004 Jannuzzi conferma la mano pesante della censura, poiché nel Rapporto Manes «le violazioni di segreti sulle basi americane in Sardegna non erano più di tre o quattro». Un peccato, perché sempre secondo Jannuzzi «tutto quello di cui stiamo


dibattendo è chiarito in un’inchiesta interna fatta dal vicecomandante dei carabinieri conservata nella cassaforte del comando dell’Arma». Il 15 ottobre del 1969 si apre il processo di Secondo grado per i due giornalisti e c’è subito un colpo di scena: l’avvocato del generale de Lorenzo esibisce un nastro con la registrazione di una conversazione tra il generale e il consigliere del Ministero della Difesa Andrea Lugo. I due discutono a lungo ed emerge la volontà del governo di insabbiare l’inchiesta sul SIFAR. Il nastro viene tuttavia reclamato dal SID (successivo servizio segreto italiano) e non viene ascoltato per intero; ricomparirà solo tempo dopo, durante le sedute della commissione parlamentare che seguirà, quando verrà sequestrato dal Ministero della Difesa che ne vieterà l’ascolto poiché «coperto da segreto politico militare». I due giornalisti riescono ad evitare il carcere grazie all’immunità parlamentare: alle elezioni del 1968 Jannuzzi viene eletto senatore per il Partito Socialista italiano mentre Scalfari viene eletto deputato. Successivamente una Commissione Parlamentare d’Inchiesta, presieduta dal senatore democristiano Giuseppe Alessi, è istituita per fare chiarezza una volta per

Lino Jannuzzi

tutte sul Piano Solo. Nel 1970 arrivano le conclusioni della Commissione, che appura come «nella primavera-estate del 1964 il generale de Lorenzo, quale comandante dell’Arma dei Carabinieri, al di fuori di ordini o direttive o di semplici

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sollecitazioni provenienti dall’autorità politica – specificamente il Ministro dell’Interno e il Ministro della Difesa, il Presidente del Consiglio dei Ministri – e senza nemmeno darne loro notizia, ideò e promosse l’elaborazione di piani straordinari da parte delle tre divisioni dell’Arma operanti nel territorio nazionale». Nonostante ciò la Commissione afferma che non vi furono mai né “tentato golpe”, né attività eversive, ma solo una serie di misure preventive da mettere in pratica qualora il paese fosse precipitato nel caos. Due anni dopo, nel 1972, si conclude anche l’iter giudiziario relativo ai due giornalisti con la remissione di querela del generale Giovanni de Lorenzo. Documento con testo della Remissione di querela (dall’archivio Giovanni de Lorenzo)

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«IL SEGRETO DI STAT GIOVANNI DE LORENZ CHE VENISSE TOLTO»

Il colonnello Alessandro de Lorenzo, f iglio del Generale, apr interesse storico dalla Soprintendenza dei Beni Culturali d con documenti poco conosciuti: ecco i retroscena di uno de

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re a Cronaca&Dossier il proprio archivio - riconosciuto di della Regione Lazio - e racconta il cosiddetto “Piano Solo” ei casi più controversi della storia repubblicana italiana

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La prima delle controversie in merito al caso de Lorenzo attiene al segreto di Stato, che venne eccepito assieme al segreto militare per non divulgare taluni allegati al testo del rapporto del 15/6/1967 a firma del generale Manes. Secondo Scalfari e Jannuzzi ciò non aiutò la loro difesa, tuttavia Suo padre chiese di essere svincolato dal segreto di Stato. Può chiarirci questo punto? «Faccio presente che fu mio padre per primo a chiedere formalmente al presidente del Consiglio Aldo Moro di essere svincolato dal segreto di Stato per meglio difendersi e dimostrare che aveva sempre agito in conformità della legge e delle disposizioni politiche. Non furono i giornalisti, ma mio padre il vero danneggiato dall’apposizione del segreto di Stato che non gli consentì di difendersi appieno come avrebbe voluto. Rilevo, inoltre, che nella sentenza di condanna dei giornalisti il Collegio giudicante sostenne: “Sulle conclusioni cui è pervenuto il Tribunale non ha mai pesato, neppure minimamente, il segreto militare opposto dalla competente autorità”. Tale affermazione venne confermata quando finalmente sono stati tolti gli omissis e si è potuto verificare che tali

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Giovanni de Lorenzo

omissis non avrebbero modificato l’esito del processo ovverosia la condanna dei giornalisti, come riconosciuto anche da Giulio Andreotti e da Paolo Emilio Taviani». In merito al processo per diffamazione contro Scalfari e Jannuzzi è storia nota che il generale de Lorenzo


ritirò la denuncia in Secondo grado (“remissione di querela” sent. 53/1974), dopo che il Primo aveva visto la condanna dei due giornalisti. Perché il Generale decise un gesto così clamoroso? «Mio padre si decise a compiere tale gesto perché stava morendo e quindi era conscio che non avrebbe potuto presenziare all’Appello. Il processo era molto complesso e non poteva che essere gestito da nessun altro se non da mio padre che conosceva gli eventi. Quindi preferì chiudere la vicenda con la remissione di querela in cui tutte le parti ‒ e dunque anche i giornalisti ‒ accettavano le conclusioni della Commissione Parlamentare di inchiesta Alessi che aveva accertato che non vi era stato neanche un tentativo di colpo di Stato».

secondo Lei è possibile sostenere che dietro la costituzione dei fascicoli si nascondessero anche interessi politici oppure della loro esistenza i politici vennero tenuti allo scuro? «Il cosiddetto Piano Solo era soltanto abbozzato come sostiene lo stesso Giovanni Pellegrino (dal 1996 al 2001 Presidente della Commissione Stragi, ndr) e non prevedeva nessuna lista degli enucleandi come confermato pure da Francesco Cossiga che lo aveva ritirato dal Comando Generale dell’Arma dei

Il cosiddetto “Piano Solo” è notoriamente legato alla questione dei fascicoli e degli “enucleandi”, lista che non fu mai rinvenuta. Dopo ormai così tanti anni, Alessandro de Lorenzo

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Carabinieri. Le liste cui fa riferimento riguardano la “Rubrica E” nella quale venivano iscritte le persone ritenute pericolose per l’ordine pubblico ed erano inserite nel “Piano di Emergenza Speciale (E. S.)” della Polizia come da “Circolare Vicari”. Mio padre da parlamentare chiese che fosse istituita una Commissione Parlamentare di Inchiesta che riguardasse tutto l’operato del SIFAR dal 1947 (anno di costituzione, ndr) in poi, nonché sull’attività dell’Arma dei Carabinieri per tutto l’anno 1964. Tuttavia le sue richieste non furono mai accettate e la Commissione Parlamentare di Inchiesta si limitò ad esaminare solo gli eventi del giugno-luglio 1964 e nulla con riguardo alle attività del SIFAR. Se mio padre avesse avuto qualcosa da nascondere non avrebbe certamente chiesto un’indagine a tutto tondo sul SIFAR e sulla vicenda del Piano Solo. Una Commissione Parlamentare di Inchiesta sulle attività del SIFAR dal 1947 in poi avrebbe evidenziato le responsabilità politiche dimostrando che molti dei fascicolo informativi erano stati fatti su richiesta di autorità politiche».

Lorenzo” dove la sua figura viene rivisitata evidenziando che non vi fu tentato golpe, deviazioni del SIFAR e si affronta la ragione della destituzione da Capo di Stato Maggiore dell’Esercito. A tal proposito perché, ad un certo punto, contro Suo padre iniziò una campagna stampa dai toni molto accesi e perché venne destituito? «Tutta la questione de Lorenzo è nata dall’ostilità di un gruppo di generali che dapprima vollero ostacolare il generale de Lorenzo nella Sua assunzione a Capo di Stato Maggiore dell’Esercito e successivamente misero in azione tutte le loro forze alleandosi con vari schieramenti politici ed interessi industriali per farlo destituire. Il vero motivo della destituzione di de Lorenzo fu che sosteneva in concreto il principio che l’interesse militare dovesse prevalere su quello industriale e politico. Il generale de Lorenzo si oppose a forniture militari ‒ in particolare il carro armato M60 ‒ non rispondenti alle esigenze operative dell’Esercito ed il cui sistema di acquisto si prestava a troppe perplessità. Si scontrò con tutti coloro che erano interessati a questi lucrosi programmi. Bisognava Il 12 giugno 2015 la RAI ha dedicato eliminarlo. Per farlo venne scatenata a Suo padre una puntata de “Il tempo una campagna diffamatoria tendente ad e la storia” dal titolo “Il generale de avvalorare la tesi che il SIFAR avesse

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deviato dai suoi compiti istituzionali a causa delle cosiddette schedature illegittime e si sfruttò la suscettibilità del Capo dello Stato Giuseppe Saragat dell’epoca informandolo di fascicoli informativi sulla sua persona fatti dal SIFAR». Secondo Lei perché nonostante sia passato mezzo secolo ancora si ricorda così poco e non in modo dettagliato una vicenda che tuttavia è parte della storia della nostra Repubblica? «Nonostante le risultanze che escludevano il tentativo di golpe e le deviazioni del SIFAR, la verità sul caso de Lorenzo non è stata mai evidenziata, tranne che nella puntata di RAI Storia dedicata a mio padre del 12 giugno 2015. Faceva comodo a tutti che le responsabilità p o l i t i c h e ricadessero su un Generale, che tra l’altro non poteva più difendersi in quanto defunto».

L’archivio che Lei conserva è stato riconosciuto di interesse storico dalla Soprintendenza dei Beni Culturali e a breve nascerà un sito nel quale verranno inseriti i documenti principali. Tra quest’ultimi e i fascicoli custoditi c’è ancora qualcosa di non detto sul “caso de Lorenzo”? «Sì, riguardano la Commissione Mitrokhin che è stata secretata per coprire responsabilità politiche». L’Italia conosce il generale Giovanni de Lorenzo in veste di militare. Tuttavia, svestito l’abito di Generale, quali ricordi ha di Giovanni de Lorenzo

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come padre e uomo? Ha qualche aneddoto in particolare? «Mio padre dopo le false accuse di deviazioni del SIFAR e del tentato colpo di Stato fu abbandonato dal potere politico e da tutti coloro che erano stati influenzati da una campagna di stampa altamente diffamatoria e disinformante. Dopo il processo che condannò i giornalisti de l’Espresso, il Partito Democratico di Unità Monarchica al generale Archivio offrì del generale de Lorenzo de Lorenzo una candidatura al Parlamento. Mio padre era molto incerto se accettare o meno. Mi ricordo che vennero a casa nostra molti sottufficiali dell’Arma dei Carabinieri che lo convinsero ad accettare la candidatura dicendo che la base dell’Arma lo avrebbe votato in massa perché erano memori e riconoscenti per tutto quello che aveva fatto per l’Arma ed in favore del personale. Ed infatti i carabinieri votarono in massa mio padre che Archivio Giovanni de Lorenzo

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raggiunse il quorum a Roma e che grazie ai sui voti ‒ e al quorum raggiunto ‒ consentì l’elezione di ben sei Deputati Monarchici salvando così il Partito che stava per scomparire. Ecco, questa riconoscenza e sostegno dei carabinieri per mio padre in un difficile momento è qualcosa che non scorderò mai. Voglio ancora ricordare che Francesco Cossiga in più occasioni riferì che Aldo Moro definì il generale de Lorenzo “grande servitore dello Stato” e che in qualità di testimone al Tribunale di Velletri, alla domanda come si era venuta a creare questa mistificazione della realtà nei riguardi del Generale de Lorenzo disse: “La mia opinione è che in alcuni ci sarà stata la malafede cioè hanno affermato il falso sapendo di affermarlo, in altri vi è stata la partecipazione alla cultura dietrologia che e dell’una e dell’altra parte”». Documento tratto dall’Archivio Giovanni de Lorenzo

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PRIMA DEL CASO SIFAR:

LA QUESTIONE DELLE “COMMESSE MILITARI”

Negli anni precedenti agli articoli de l’Espresso si consumava una storia poco conosciuta

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Talvolta la Storia, quella destinata ad essere tramandata alle future generazioni, si riempie di pieghe e lati oscuri che dopo decenni è difficile illuminare per darvi un nome, da definire. Accade così che uno dei casi più importanti della storia italiana, nonostante sia passato mezzo secolo, riesca ancora a far parlare di sé e a rivelare pian piano, nel tempo, quel che all’inizio in pochi avevano evidenziato. Stiamo parlando del caso Giovanni de Lorenzo e del cosiddetto “Piano Solo”. A quasi 50 anni esatti dalla “bomba” fatta scoppiare da l’Espresso, ai più resta difficile conoscere e quindi capire il clima che ha preceduto quella vicenda, soprattutto all’interno degli ambienti militari. Entra qui in gioco quel piglio giornalistico che fa della curiosità la propria ragion d’essere e porta a voler conoscere sempre di più, senza accontentarsi, ma senza tuttavia avere la pretesa di sostituirsi alla Storiografia o alle sentenze della Magistratura, chiedendosi cosa accadde negli anni che precedettero il caso SIFAR. La curiosità, in questo caso, prende il nome di “commesse militari”, ovvero un’ingente spesa che nella primavera del 1965 fu approvata dall’allora Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, il generale Giuseppe Aloia. Sul piatto la necessità di rinnovare i vecchi carri armati e mandare in pensione il modello M47 ritenuto non più idoneo per le nuove esigenze. Documento redatto dal generale de Lorenzo

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Carro armato M47

Carro armato M60

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Già dal 1964 era stato posto il problema e diversi modelli erano stati oggetto di verifica presso il Poligono di Capo Teulada. Vennero sperimentati il tedesco “Leopard”, l’americano “M60 A1 Chrysler” e il francese “AMX30”. Nonostante il Leopard fosse stato considerato il mezzo più idoneo di cui dotarsi, la scelta cadde sul carro armato americano “M60 A1” perché, si disse, già in produzione rispetto al Leopard. Venne firmato dunque un accordo che prevedeva l’acquisto di 100 esemplari già pronti e 700 da montare in Italia: un’imponente commessa da 800 esemplari. Un affare importante parte di un’operazione di rinnovo militare che impegnava circa 600 miliardi di Lire. Una cifra enorme per l’epoca, così come enorme fu lo scalpore per quanto accadde appena un anno dopo. A febbraio 1966 avvenne il cambio della guardia e Capo di Stato Maggiore dell’Esercito diventò il generale Giovanni de Lorenzo.


Da 800 esemplari, il Generale decise di tagliare le commesse a soli 200 esemplari e rivisitazioni delle commesse vennero eseguite su tutta la linea (vedesi il documento Situazione commesse non ancora oggetto di contratto riportato) sostenendo un’esigenza di spesa pari a circa 134 miliardi di Lire a fronte dei 600 miliardi preventivati dal suo predecessore. La “OTO Melara”, azienda pubblica del settore delegata alla produzione del mezzo associata a “Lancia” e “Fiat”, ne aveva tuttavia già iniziato il processo produttivo, di fatto creando non pochi attriti. A giustificare la scelta del generale de Lorenzo furono l’obbligo di utilizzo di un solo carburante nel carro armato M60 ‒ piuttosto che la modalità policarburante già in uso in quel periodo ‒ e le dimensioni del mezzo, troppo grande per essere trasportato su ferrovia e per passare sotto le gallerie, tanto più che il successore di de Lorenzo non mutò la scelta presa.

Documento tratto dall’Archivio Giovanni de Lorenzo

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Documento tratto dall’Archivio Giovanni de Lorenzo

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Secondo il generale de Lorenzo la questione M60 è stato uno dei punti centrali che hanno portato nell’aprile 1967 alla sua destituzione da Capo di Stato Maggiore dell’Esercito in quanto «si era opposto agli americani, agli industriali e ai politici», così come il figlio Alessandro ha ribadito in una puntata andata in onda su RAI Storia dedicata al Generale. È evidente e oggettivo che il caso de Lorenzo è ancora oggi una storia degna di interesse. A renderla tale è la figura stessa del Generale, promotore e attuatore di un’Arma dei Carabinieri indipendente, con la possibilità ‒ mai verificatasi prima del suo arrivo all’Arma e non poco osteggiata ‒ di gestire il proprio bilancio economico; così come l’attuazione del blocco delle commesse militari con un giro di miliardi fortemente ridimensionato. Sarebbe stato un altro “brutto affare”, sulla falsa riga di quanto pochi anni più tardi un’inchiesta avrebbe messo in luce con il celebre caso


Lockheed. Invece nel caso dell’Esercito i mezzi militari non idonei non riuscirono a trovare spazio. Se abbiamo raccontato la questione delle commesse militari è perché essa funge da spia, uno squarcio su un mondo generalmente poco conosciuto. I fatti legati al “caso SIFAR” sono già stati affrontati in sentenze e Commissioni, anche se continueranno senz’altro a costituire motivo di interesse per chi sarà impegnato in lavori storiografici. In questa sede, dunque dal punto di vista prettamente giornalistico, balza all’occhio invece come attorno alla figura del generale de Lorenzo girassero attriti e lotte intestine, motivati ulteriormente dalle azioni di rottura del generale de Lorenzo

sia come Capo dell’Arma dei Carabinieri, sia in qualità di Capo di Stato Maggiore dell’Esercito. Rileggendo a ritroso tutta la vicenda viene perciò il sospetto che quanto attuato da de Lorenzo dopo l’addio al SIFAR abbia in qualche modo lasciato sul terreno non pochi nemici, a lui avversi a torto o ragione. Ecco allora emergere il dubbio che la questione SIFAR possa essersi nutrita anche di altri fattori. È questa la ragione per la quale abbiamo scelto di raccontare un pezzo di questa storia che il prossimo anno compirà esattamente 50 anni dallo “scoop” de l’Espresso, sicuri che però parte di quella vicenda sia ancora da approfondire.

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LIBRO E PROGRAMMA TV

CONSIGLIATI

a cura di Mauro Valentini

LA VERITÀ SUL CASO ORLANDI Esce in contemporanea con il film di Faenza il libro che fa il punto sul mistero della povera Emanuela Vito Bruschini è un autore esperto, ha lo stile del narratore di razza ed ha la capacità di percorrere gli intricati sentieri che si sono percorsi in anni e anni di indagini sul caso della scomparsa di Emanuela Orlandi. Una scomparsa ancora avvolta nel mistero, da quel 22 giugno del 1983 quando la giovanissima cittadina del Vaticano, esce dalla scuola di musica nell’edificio della basilica di Sant’Apollinaire a Roma per scomparire per sempre. Autorità, una volta superata la prima e colpevole mollezza nelle ricerche, ci si rende conto che questa vicenda ha qualcosa di terribile che sfugge alla cronaca di tutti i giorni, per assurgere a vero intrigo internazionale. Un intrigo dove il Vaticano è il teatro nel quale si svolgono clamorosi azioni criminali, che coinvolgono la Banda della Magliana, lo IOR e servizi segreti dei paesi dell’Est. Troveremo tra le pagine de La verità sul caso Orlandi (Newton Compton) Renatino De Pedis, capo della criminalità romana di quegli anni, alti prelati e banchieri che si scambiano i ruoli di angeli e di demoni in un vortice che ha ingoiato il destino di Emanuela, pedina di scambio inconsapevole ed innocente peri ragioni di Stato inconfessabili che arriveranno fino all’attentatore del Papa, Alì Agca, pedina usata per depistare o reale ago della bilancia? Un’inchiesta lunga 33 anni, che seppur chiusa ha ancora molto da dire. E Vito Bruschini la racconta con una forma narrativa intrigante, chiarissima e di grande ritmo, preciso nel espressione su quanto è accaduto e cosa potrebbe ancora accadere, perché, parafrasando il titolo del film in uscita contemporanea al libro: «La verità sta in cielo, ma è sulla terra che occorre cercarla».

Diritto di Cronaca,

la nuova rubrica di politica ed attualità in onda ogni martedì e giovedì su Teleromauno (CH. 271). Tante le tematiche già affrontate, dal caso Cucchi al clan dei Marsigliesi, fino alle inchieste su sanità, sicurezza e criminalità. Tutte le puntate sono disponibili sulla pagina Facebook di “Diritto di Cronaca”, condotte dal giornalista Giovanni Lucifora.

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SERIE TV E PROGRAMMA RADIOFONICO

CONSIGLIATI

a cura di Nicola Guarneri

BLACK MIRROR SBARCA SU NETFLIX

Il prossimo 21 ottobre verrà lanciata la prima metà dell’attesissima terza stagione

Dopo tre anni dalla seconda stagione “Black Mirror” torna sui piccoli schermi. Il prossimo 21 ottobre Netflix rilascerà i primi sei episodi della seconda stagione, dopo che nel settembre 2015 aveva acquisito i diritti televisivi del telefilm britannico. Black Mirror è una serie antologia, in cui ogni episodio fa storia a sé: cambiano i personaggi e cambia la trama, resta un lungo filo logico a collegare il tutto. Il leit motiv è la critica alla tecnologia (da qui l’espressione “Black Mirror”, ovvero “schermo nero”, che sia esso di una tv o di uno smartphone) e in ogni episodio situazioni paradossali nascono dall’uso talvolta distorto dell’incedere tecnologico. Indimenticabile il primo episodio [spoiler] in cui il primo ministero inglese è costretto a fare sesso con un maiale per liberare un ostaggio. Dopo tre anni (ad esclusione dell’episodio di Natale 2014) ai fan di Black Mirror restano ancora solo pochi giorni di attesa: il 21 ottobre è dietro l’angolo.

In radio La Storia Oscura

Storia, crimine e criminologia su Radio Cusano Campus dal lunedì al venerdì dalle 13:00 alle 15:00 con “La Storia Oscura”, un programma curato e condotto da Fabio Camillacci. Conoscere la storia per capire l’attualità.

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CARABINIERI, SFIDA NEI NUMERI Differenze e costi fra i due Corpi delegati alla sicurezza del territorio

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I Carabinieri e la Polizia svolgono un ruolo fondamentale nella nostra società. Li vediamo spesso in azione sulle nostre strade ma, anche se il loro compito sembra similare, essi si differenziano per storia, organizzazione e funzioni. L’Arma dei Carabinieri è un Corpo militare nato nel 1814. Dal 2000 dipende dal Ministero della Difesa e rappresenta una delle quattro forze armate con Esercito Italiano, Marina Militare ed Aeronautica Militare. I Carabinieri svolgono funzioni sia come corpo militare, anche con missioni all’estero, sia come forza di sicurezza civile. Per le operazioni di ordine pubblico però sono subordinati al Comando della Polizia di Stato la quale dipende dal Dipartimento della Pubblica Sicurezza, del Ministero dell’Interno. La Polizia di Stato, infatti, rappresenta l’autorità nazionale di pubblica sicurezza; essa vigila sul mantenimento dell’ordine pubblico svolgendo diverse mansioni. Sono tante le attività che svolge; il campo di intervento è

ampio e vario, visto che deve garantire la sicurezza dei cittadini ovunque essi siano. Per tale motivo ci sono dei reparti specializzati in alcuni settori tipo le squadre cinofile, i sommozzatori, le squadre nautiche, la Polizia della montagna, i Reparti volo, l’Ispettorato Vaticano e la Sicurezza delle sedi Istituzionali. Tanti altri compiti specifici sono svolti dalla Polizia Penitenziaria, Postale, Stradale, Ferroviaria e Municipale. Il prezioso lavoro svolto da Carabinieri e Polizia è incentivato fortemente dallo Stato. Tutte le spese statali destinate al

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finanziamento delle attività delle forze armate e della difesa del territorio nazionale da minacce militari esterne rientrano nella spesa pubblica. Per far sì che il cittadino sia pienamente a conoscenza dell’operato delle istituzioni e dell’utilizzo delle risorse pubbliche si è attuata la famosa legge sulla Trasparenza ed è possibile visionare sul sito del

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Ministero dell’Interno, così come su quello della Difesa, il Bilancio di previsione per l’anno finanziario 2016. Per il Contrasto al Crimine, tutela dell’ordine e della Sicurezza Pubblica, il Bilancio prevede 6.666.231.801€. Nello specifico, per il Servizio permanente dell’Arma dei Carabinieri per la tutela dell’ordine e la sicurezza pubblica sono previsti 440.840.750€ di cui 440.411.499€ destinati al funzionamento e 429.251€ agli investimenti. Per quanto riguarda invece la pianificazione e il coordinamento delle Forze di Polizia sono previsti 435.728.325€ di cui 1.135.447€ destinati agli interventi. Cifre altissime per chi le guarda con occhi estranei,


ma sostenere un lavoro di questa portata, sul quale gli investimenti non sono mai troppi, rappresenta oggi una delle cose a cui bisogna prestare molta attenzione. Non si può risparmiare sulla sicurezza e sul controllo in una società sempre più a rischio. È ovvio che per le Forze dell’ordine e della sicurezza, così come per tutti gli altri che operano per le amministrazioni pubbliche, è necessario utilizzare un buon sistema di valutazione e controllo per far sì che non ci siano abusi di potere e di ruolo. Il controllo è fondamentale, soprattutto per chi gestisce queste cifre, perché tra chi le organizza e chi le utilizza c’è spesso un abisso. Se ci fosse un buon sistema valutativo non si sentirebbero più notizie di cattivo utilizzo dei fondi pubblici e non verremmo nemmeno a conoscenza di situazioni di disagio estreme.

Spesso i Sindacati di Polizia , in occasione di scioperi e proteste, hanno evidenziato dei disagi di alcuni poliziotti che hanno dovuto addirittura anticipare soldi per blitz e interventi per assenza di fondi. Questi e tanti altri casi di questo genere mettono in evidenza uno scarso controllo e poca attenzione a quella che è la dignità umana. Il lavoratore deve essere messo nelle condizioni di poter lavorare bene. Solo in questo modo può svolgere con onestà, impegno e dedizione il suo prezioso lavoro. Ovviamente i controlli vanno a fatti a tappeto per verificare che da tutte le parti non ci siano perdite di onestà, soprattutto in un settore dove la disonestà e il reato vengono puniti.

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LA STRANA

MORTE

DEL BRIGADIERE MARIO GUZZETTA Le sorelle ed il fratello non credono alle cause naturali e chiedono nuove indagini

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È stato semplice e sbrigativo liquidare il decesso di Mario Guzzetta, avvenuto a Campagnano di Roma il 4 agosto 2000, come conseguenza di un arresto cardiocircolatorio in un soggetto già affetto da diverse patologie. Nella dichiarazione ed accertamento della morte stilati dal medico curante Dott. Massimiliano Pasquetti, si leggeva, infatti: «Il decesso è avvenuto in seguito a causa naturale per le seguenti patologie: broncopneumopatia cronica ostruttiva; cardiopatia, insufficienza cardiaca, ipertensione arteriosa». Il medico necroscopo certificò di aver visitato il cadavere e di aver rilevato segni di morte, ma non segni o indizi di morte dipendente da causa delittuosa.

Allora perché i familiari di Guzzetta non hanno mai creduto a questa versione e non accettano la richiesta di archiviazione del procedimento fatta dal pm Roberto Staffa il 25 maggio 2001? E chi era Mario Guzzetta? Nato ad Arbus, Ca, il 17 giugno 1950, era un Brigadiere dei carabinieri in pensione che però lavorava alle dipendenze di un noto personaggio romano, l’oncologo Pier Carlo Gentile, come giardiniere ed addetto al rigoverno degli animali presso la villa a Campignano, località Valle del Baccano, Strada Fontanile dell’Oppio. Viene rinvenuto cadavere dalle due figlie alle 13:30. Assieme al 118 intervengono anche il sostituto del medico di famiglia e i Carabinieri. Non viene chiamato il magistrato perché, si giustificheranno i militari, era il 4 agosto e pure di venerdì. Il Dott. Staffa aveva richiesto l’archiviazione poiché in virtù degli accertamenti e della consulenza tecnica eseguiti non erano emersi elementi per ritenere che il decesso fosse stato determinato da azioni od omissioni di terze persone e, quindi, riteneva non sussistenti le condizioni per l’esumazione del

Mario Guzzetta

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Campagnano di Roma

corpo, come invece richiesto dai familiari. Il consulente Dott. Leonardo Grimaldi aveva concluso che la morte fosse avvenuta tra le ore 11:30 e le ore 14:00 circa, causata con elevata probabilità da un’insufficienza cardio-respiratoria acuta, in soggetto già affetto da insufficienza cardiaca e respiratoria di tipo cronico. Evidenziava poi, pur non avendo visto né il cadavere, né il luogo del ritrovamento, che sul corpo «sono state riscontrate

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lesioni compatibili con la caduta a terra e con l’azione della microfauna cadaverica (formiche); sono stati rilevati inoltre fenomeni tanatologici consecutivi (ipostasi) e segni compatibili con la morte da insufficienza cardio-respiratoria (cianosi del volto, fuoriuscita di liquido di edema dalla bocca)». In merito alle lesioni indicate nell’atto di denuncia presentato dai parenti ‒ principalmente ecchimosi sull’occhio


destro, area violacea sulla nuca come delle strisciate, fuoriuscita di sangue dall’orecchio destro ‒ «possono anch’esse trovare spiegazione nei fenomeni naturali legati sia al tipo di morte che ai fenomeni post mortali. Ad ogni modo ‒ in base agli elementi raccolti ‒ difficilmente queste lesioni possono trovare una spiegazione unitaria rappresentata dalla genesi traumatica esogena». Esprimendosi su un’eventuale esumazione del cadavere il Dott. Grimaldi era stato chiaro: «Non potrebbe consentire di evidenziare la presenza di lesioni a carattere vitale a carico dei tessuti molli, sarebbe però sicuramente possibile eseguire un esame dello scheletro per la ricerca di eventuali fratture». I parenti avevano riscontrato sul corpo di Mario, poi trasportato presso l’abitazione, un graffio di circa 4 cm a forma di mezzaluna sul mento, uno di circa 4/5 cm sulla guancia destra ed un altro sul sopracciglio destro di circa 2 cm, nonché

una tumefazione sull’occhio destro e segni di strisciate sulla testa e numerose chiazze rosse sulle braccia. Segni non riscontrati precedentemente. Anche in merito al tipo di bara e di sepoltura scelti dalla moglie e dalle figlie, il fratello e le sorelle di Mario avevano avuto diverse perplessità già ad ottobre 2000, infatti così esponevano: «Poco prima del funerale è stato deciso l’utilizzo di una bara di legno rispetto a quella di zinco ed è stato tumulato in terra in luogo del previsto tombino, in seguito ad una strana telefonata giunta presso l’agenzia funebre. In tal modo è soggetto a più celere processo di decomposizione».

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cancello; il Dott. Gentile dichiarò di non essere presente in villa al momento del decesso, ma escluse categoricamente la presenza di segni di scasso sul cancello. Come se tutto ciò non bastasse, a gettare ombre sull’accaduto c’è pure la questione degli occhiali di Mario, affetto da retinopatia ipertensiva grave e per ciò costretto a portarli sempre. Vennero invece ritrovati integri dentro un locale adibito a deposito attrezzi. Sono trascorsi 15 anni e a tutt’oggi i familiari di Mario Guzzetta non hanno mai avuto alcuna notizia in merito all’archiviazione o meno del procedimento.

Non venne effettuata l’autopsia, quindi non fu possibile stabilire il momento esatto del decesso, non venne fatta documentazione fotografica, quindi non venne stabilita l’esatta posizione del corpo, né vennero esaminate le condizioni del luogo in cui venne trovato. Discordanze emersero anche in merito alle condizioni del cancello di ingresso alla villa. Linda, figlia di Mario, dichiarò di essersi recata sul posto alle ore 13:30 con la sorella Noemi e di aver dovuto forzare il

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L’OMICIDIO DI MAURIZIO GUCCI Dopo 17 anni torna in libertà la Dark Lady che fu condannata per l’omicidio del marito

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Milano, via Palestro 20, 27 marzo 1995 alle ore 8:35. Quattro colpi esplosi da una pistola Browning in calibro 7.65, un uomo che si accascia a terra, morto, un secondo uomo viene ferito, un altro che scappa. Sono questi gli ingredienti iniziali con cui Milano e tutto il mondo dell’alta moda si svegliano la mattina di quel soleggiato lunedì di marzo. Sì perché ad essere ucciso è l’imprenditore 46enne Maurizio Gucci, nipote del fiorentino Guccio Gucci, fondatore dell’omonima e prestigiosa casa di moda. Come ogni mattina Gucci è uscito alle 8:20 dal suo lussuoso appartamento situato in corso

Venezia 38, vicino Piazza San Babila, per dirigersi verso il suo ufficio in via Palestro 20. Oltrepassa il portone dello stabile, poi scambiando un rapido saluto con il portinaio Giuseppe Onorato si avvia a salire i sei scalini che lo conducono in un androne. Il suo ufficio è al quarto piano, ma la vita di Maurizio Gucci si ferma prima, finisce sui marmi pregiati di quell’androne colpita da quattro proiettili. Il killer raggiunge infatti l’imprenditore da dietro, spara due colpi alla schiena, poi un terzo proiettile colpisce Gucci al gluteo destro, infine il quarto colpo viene sparato alla testa per finire quel corpo ormai agonizzante. Durante la fuga l’omicida incrocia il portinaio Giuseppe Onorato, che accortosi dell’accaduto si lancia all’inseguimento dell’assassino, ma in cambio riceve un proiettile che lo attinge all’avambraccio destro portato a protezione del viso. Onorato viene ferito non mortalmente, ma quel tanto che basta per interrompere il suo inseguimento. Il killer viene notato salire su una Renault Clio di

Maurizio Gucci con la moglie Patrizia Reggiani

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colore verde parcheggiata all’angolo di via Marina con a bordo un complice che lo sta attendendo per la fuga, ma prima di dileguarsi, viene visto in viso da una giovane impiegata di 31 anni che successivamente fornirà alle Forze dell’Ordine l’identikit dell’assassino di Gucci. Subito la notizia della tragica morte di Maurizio Gucci fa il giro del mondo. Sono anni che all’interno della famiglia Gucci si combattono battaglie legali,

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scalate al potere, con un’azienda che in pochi anni ha visto perdere decine di miliardi di lire del proprio fatturato. Ma adesso è accaduto qualcosa di diverso, adesso il celebre logo della doppia G si è macchiato di sangue. Si battono varie piste, dai casinò che Maurizio Gucci avrebbe dovuto aprire e gestire in Svizzera ad un debito di circa 30 miliardi di lire contratto con una misteriosa cordata di imprenditori che lo avrebbero aiutato a sanare i debiti dell’azienda, ormai di fatto passata in mano alla società araba Investcorp. Le indagini sono guidate dal pm Carlo Nocerino e dal dottor Filippi Ninni, capo della Criminalpol. Gli inquirenti sono dei veri segugi che non si risparmiano nelle indagini, ma nonostante questo, a due anni di distanza dall’omicidio Gucci


ogni pista che è stata ipotizzata per la risoluzione del caso si è dimostrata priva di fondamento o comunque lontana da un risultato apprezzabile. A dare una forte accelerazione ed un cambio di direzione alle indagini è invece una telefonata giunta la sera dell’8 gennaio 1997 nell’ufficio di Ninni. Dall’altra parte della cornetta c’è un informatore che si fa chiamare Gabriele e che dice di saperla lunga sull’omicidio di Maurizio Gucci. L’informatore incontra Ninni e riferisce che dietro all’omicidio del noto imprenditore c’è la mano della ex moglie di Gucci, la signora Patrizia Reggiani Martinelli. Questa infatti, con l’aiuto della sua dama di compagnia, la cartomante napoletana Giuseppina Auriemma, avrebbe indirettamente incaricato un tale Ivano Savioni, portiere dell’hotel Adry, di reclutare un killer

prezzolato identificato con Benedetto Ceraulo, giovane costruttore edile. Il quarto componente del gruppo criminale è Orazio Cicala, l’autista della Renault Clio verde che aiuterà nella fuga Bendetto Ceraulo. L’ipotesi dell’informatore risulta essere la pista giusta da seguire, infatti grazie alle intercettazioni ambientali e telefoniche, i quattro componenti della

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banda criminale e di conseguenza Patrizia Reggiani, l’ex moglie di Gucci, vengono incastrati e successivamente arrestati il 31 gennaio del 1997. La moglie si professerà innocente e dirà di essere stata ricattata dai quattro malviventi, ai quali ha sborsato circa 600 milioni di lire per paura di essere ricattata. Unica sua colpa secondo lei, aver spifferato ai quattro venti per anni la sua fantasia di vedere morto l’ex marito. Questa versione però non convince gli inquirenti, secondo i quali quei milioni sono stati invece il compenso che Patrizia Reggiani ha sborsato per l’esecuzione

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dell’ex marito. Le certezze degli inquirenti troveranno ragione nelle condanne che in Primo e in Secondo grado, confermate in Cassazione, porteranno la Reggiani a dover scontare 26 anni di reclusione perché ritenuta colei che ha ordinato l’omicidio del marito. Il movente secondo i giudici: vecchi rancori, soldi e con il divorzio la perdita dello status sociale derivato dall’essere una Gucci. Dure condanne, a vario titolo, pioveranno anche su Benedetto Ceraulo (carcere a vita), Orazio Cicala (29 anni di carcere), Ivano Savioni (26 anni di carcere) e Pina Auriemma (19 anni di carcere). Patrizia Reggiani ha comunque finito di scontare la sua pena detentiva proprio in questi giorni ed è tornata libera dopo 17 anni grazie a vari sconti di pena, seppure con altri tre anni di libertà vigilata che la stanno aspettando.


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L’ERRORE DIETRO LA VERITÀ

Quando l’ingiusta custodia cautelare colpisce migliaia di cittadini italiani

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Ha preso il via il 5 ottobre 2016 nella Sala consiglio del Dipartimento di Giurisprudenza, presso l’Università Roma Tre, il Master in “Scienza e tecnica delle investigazioni Penali” diretto dal prof. Massimiliano Masucci (ordinario di Diritto penale internazionale presso la medesima facoltà). Alla tavola rotonda d’apertura hanno partecipato, coordinati dalla dott.ssa Rita Salimbemi (giornalista e avvocato) autorevoli rappresentanti come il presidente dell’Ordine Nazionale dei Biologi il Dott. Ermanno Calcatelli, l’Avv. Gabriele Magno rappresentante dell’Associazione Nazionale Vittime Errori Giudiziari; Valentino Maimone e Benedetto Lattanzi Giornalisti cofondatori di errorigiudiziari.com e il prof. Martino Farneti Esperto in balistica forense ed analisi della scena del crimine. Il tema della conferenza, appassionante per la sua costante attualità, è stato l’errore giudiziario e i suoi metodi di riparazione. La scelta di analizzare quest’argomento non è affatto casuale, come afferma lo stesso prof. Masucci durante l’apertura dei lavori: «Credo che il senso del nostro

Avvocato Massimiliano Masucci

incontro sia anche quello di mettere sul tavolo di dialogo uno scenario di piena sinergia tra gli strumenti del giurista e gli strumenti dello scienziato forense che possa offrire al condannato una prospettiva esistenziale nuova che è quella alternativa alla condanna e la restituzione alla libertà. Una posta altissima quella in gioco che credo possa offrire anche la prospettiva nella quale noi ci siamo posti quando abbiamo ritenuto di puntare su questo master». Il concetto è nuovamente ribadito anche da colui che ha messo le basi per l’attivazione di questo corso di specializzazione post-laurea, il project manager dott. Paolo Vaccarone (esperto in analisi e comparazione della grafia e Consulente del tribunale di Viterbo): «La scelta di far crescere questo progetto nasce dalla

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mancanza di una reale prospettiva nel panorama italiano di un’offerta formativa specifica per gli operatori del settore delle Scienze forensi. Esigenza che a livello europeo è molto più sentita come ad esempio presso l’Università di Losanna polo incontrastato per lo studio di queste discipline. Le Scienze forensi entrano sempre più nel quotidiano giuridico e dunque appare doveroso strutturare un’offerta formativa il cui punto di forza sarà un’attenzione particolare verso il mondo della criminalistica così da implementare le conoscenze dell’operatore o dello studente neolaureato, permettendo, ad esempio, di capire nei vari casi a quali consulente rivolgersi e quali quesiti porre». A tal fine, durante il corso, saranno attivati il laboratorio di Balistica (diretto dal prof. Farneti), di informatica e Grafica forense (diretto dal dott. Vaccarone) ed è in progetto la realizzazione di un laboratorio di analisi dattiloscopica e impronte digitali. La conferenza purtroppo non lascia spazio a interpretazioni. In tema di errori giudiziari la realtà italiana scorge davanti a sé un panorama inquietante e per nulla rassicurante. I numeri complessivi parlano di circa 580 milioni di euro (è

possibile consultare l’archivio online di errorigiudiziari.com) spesi per risarcire ingiuste detenzioni dal 1991 ad oggi. Purtroppo l’errore giudiziario annovera tra le sue vittime non solo chi ingiustamente detenuto, bensì anche coloro che soffrono un provvedimento di custodia cautelare oltre i termini, per accuse che in un secondo momento crollano innanzi al Gip o in sede di riesame. In Italia sono più di 23 mila i cittadini che hanno dovuto patire un’ingiusta custodia cautelare.

Momento iniziale della presentazione del Master

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Il fenomeno non si nutre di singoli eventi (errori) ma piuttosto di un modus operandi viziato ab origine: m a g i s t r a t i che operano superficialmente, indagini condotte in modo approssimativo, legali e consulenti allo sbaraglio. Dietro ogni piccola mancanza cresce il mostro degli innocenti in cella, dello spreco economico e della relativa mancanza di fiducia in un sistema che, tenendo a mente i numeri, fa acqua da tutte le parti. Solo negl’ultimi anni è stato possibile assistere ad una diminuzione degli importi liquidati e delle domande di risarcimento ma, come spiegano gli esperti del Ministero dell’Economia e delle Finanze, è solo fumo negl’occhi in quanto tali diminuzioni non corrispondono ad una riduzione delle ordinanze ma dipendono

dalla disponibilità finanziaria sui capitoli di bilancio. In parole povere il fenomeno della spending review obbliga al taglio di fondi destinati ai risarcimenti e dunque ad un “possibile”, “diverso” giudizio delle istanze presentate. Far luce su problemi attuali come l’errore giudiziario è doveroso al fine di imbastire un’inversione di tendenza che possa evitare il rischio di vedere la macchina processuale correre a folle velocità contro un muro.

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LUCIDA FOLLIA CRIMINALE Il profilo psicologico del terrorista islamico e le ragioni che lo portano ad essere Muss Murder

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Nella psiche di ognuno di noi c’è un angolino dove è conservato un patrimonio di immagini collettive in grado di suscitare sentimenti di terrore e delle quali siamo, spesso, incoscienti, ma che possono attivarsi con episodi di vissuto emozionale causati dagli eventi quotidiani. Risentire della traumaticità negativa di questi, o meglio ancora del ricordo di essi che in seguito e in maniera cadenzata rinnova il trauma. È un po’ quello che accade quando la nostra psiche vive o ricorda ad esempio un episodio di terrorismo. Nell’azione terroristica, l’evento in sé è il prodotto finale dell’attività criminosa stessa, una specie di escatologia dell’azione dannosa.

Scopo del terrorista è appunto quello di generare terrore, ovvero condizionare il vissuto emozionale dei soggetti passivi dell’azione. Chiaramente la gamma delle tipologie di attacco è variopinta e finalizzata a produrre un tipo diverso di sconvolgimento mentale secondo i mezzi e gli obiettivi che il terrorista sceglie di utilizzare, ne consegue che anche la parte di immaginario collettivo della comunità colpita che viene attivata e sollecitata dall’azione sarà multipla. Gli atti di terrorismo che più hanno sconvolto gli animi negli ultimi 15 anni, partendo dall’11 settembre 2001 a New York, sono soprattutto di matrice islamica e dunque diventa interessante capire cosa possa esserci alla base della scelta

11 settembre 2001

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individuale di far parte del cosiddetto “terrorismo islamico”. Dall’11 settembre 2001 viviamo tutti nel terrore di poter essere i prossimi a cadere vittime dell’imprevedibilità del regime del terrore. Dunque, ognuno di noi si sarà più volte chiesto quali possano essere le ragioni che spingono un essere umano al compimento di azioni distruttive che vedono nel suo stesso sacrificio, per primo, l’attuazione dell’azione criminale medesima. Certamente l’azione terroristica ‒ nell’ottica di chi agisce ‒ si legittima con

Ground Zero, New York City

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la religione, ma le ragioni profonde della sua forza sono psicologiche. Oggi sappiamo che lo Stato Islamico offre, a chi è disposto ad immolarsi per la sua causa, risposte e ricompense inestimabili a chi ha bisogno di certezze sul piano della significatività esistenziale, come l’attribuzione di senso alla propria stessa vita. Lo Stato Islamico inoltre, fa leva sulla disperazione di chi vive in territori degradati ed offre opportunità a chi ha bisogno di rivalsa e di riscatto sociale, offre le donne ai combattenti, sfrutta i social network per fare propaganda, usa la musica per creare identità e rafforzamento nell’immaginario collettivo, affina la manipolazione psicologica per reclutare i suoi combattenti. Certamente i terroristi non sono “matti” come spesso capita di appellare coloro che si macchiano di azioni terroristiche. Lo Stato Islamico ha bisogno di arruolare persone affidabili scartando dunque coloro che mostrano avere segni


di squilibrio rischiando di compromettere il buon esito dell’azione criminale. Pensiamo ad esempio agli atti terroristici del 13 novembre 2015 eseguiti dal commando di Parigi, il quale si è mosso secondo strategie ben pianificate, incompatibili con disturbi mentali gravi. Pertanto, anche se non esiste un concetto universale del profilo del terrorista, possiamo comunque identificare Osama Bin Laden, accusato di essere la mente degli attentati del 2001 alcune caratteristiche e meccanismi di pensiero comuni: si Annulla la sua vita certo che il suo martirio tratta per lo più di giovani, single, astuti sia il sistema più nobile per raggiungere e ambiziosi, spesso di media cultura l’Aldilà. (come Mohamed Atta, il terrorista dell’11 Il terrorista così caratterizzato è in grado settembre), indottrinati nelle scuole che di operare, attraverso un meccanismo insegnano il Jihad, con traumi alle spalle di “disumanizzazione delle vittime”, un come la morte o il ferimento di familiari, forte distacco emotivo dalle stesse, spesso integrati nella cultura occidentale. minimizzando le loro sofferenze e Il terrorista possiede inoltre buone capacità reprimendo così ogni freno inibitorio, di concentrazione per il raggiungimento fidandosi ciecamente delle giustificazioni del suo obiettivo e nutre forti aspettative morali che gli sono inculcate. di riscatto e crescita sociale, supportate In riferimento a fatti di terrorismo recenti, da una fede incondizionata nel Corano si è sentito spesso parlare dei cosiddetti “lupi solitari”. Secondo l’Europol, nella sua che accetta senza critica.

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analisi degli attacchi di singoli attentatori, questi hanno spesso dei “problemi mentali”, aspetto che, legato all’ideologia o alla religione, diventa “un’aggravante” in grado di rafforzare l’attacco. I “lupi solitari” fanno pensare alla tipologia criminale del Mass Murder, l’assassino di massa, ossia colui che, secondo la definizione dell’FBI, uccide un minimo di quattro persone nello stesso luogo e nello stesso tempo. I motivi principali per il quali il Mass Murder uccide sono: vendetta, depressione (il Mass murder vuole “uscire dal mondo” portando con sé tutto ciò su cui ritiene avere grande ed imprescindibile responsabilità, come il “suicidio allargato”), psicopatologia, “missione”.

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È in quest’ultima categoria che possiamo ascrivere i “lupi solitari” che le cronache degli ultimi tempi ci hanno fatto conoscere: il Mass Murder crede che la società sia patologica, affetta da “malattia” motivo per il quale va soppressa, va salvata; lo scopo è quello dimostrativo di attirare l’attenzione, ed essere ricordati come eroi che portano a termine una missione. Così il Mass Murder-lupo solitario, quale personalità già di per se stessa fragile e disturbata, incontrando e quindi condividendo determinati principi, svincolata da qualunque comando organizzato, abbraccia la sua missione spesso facendosene così portavoce ed eroe solitario.


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VITTIME SILENZIOSE Il fenomeno dei minori stranieri non accompagnati in Italia e i dati sull’accoglienza

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Un minore migrante che si mette in viaggio e lascia il proprio paese alla ricerca di una nuova vita, per trovare lavoro o per scappare da una guerra o da condizioni difficili, non è un fenomeno nuovo. Ma il numero di minori stranieri non accompagnati e le complesse minacce a cui loro devono far fronte stanno aumentando in maniera esponenziale. Alla fine di luglio, secondo l’Unhcr, erano ben 13.705 i minori non accompagnati sbarcati in Italia, in aumento rispetto a quelli arrivati nel 2015 (12.360 bambini).

Dopo la chiusura della rotta dei Balcani occidentali e l’accordo tra l’Unione Europea e la Turchia, l’Italia si è ritrovata ad essere l’unico punto di approdo per i migranti diretti in Europa. La maggior parte dei bambini provengono da Egitto, Gambia, Eritrea, Nigeria e Somalia. Questi minori si trovano in grande pericolo e nella maggior parte dei casi sono oggetto di una forte pressione psicologica indotta dalla famiglia affinché portino a termine il progetto migratorio. I minori migranti devono da soli adattarsi ad un paese a loro

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estraneo, ad una lingua e ad una cultura diversa. Inoltre, devono affrontare non solo un complesso procedimento legale al fine di ottenere lo status di rifugiato o il permesso di soggiorno per minore età, ma si imbattono, purtroppo, in rischi di abuso e sfruttamento, dovuti all’assenza dei genitori. Possono essere sfruttati sessualmente, sottopagati, malnutriti e

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raramente hanno l’opportunità di andare a scuola o giocare. La criminalità organizzata può gestire le loro vite e quella della loro famiglia rimasta nel paese di origine. Questo tipo di condizione particolarmente stressante rischia di danneggiare il loro benessere emotivo, con conseguenze importanti sia dal punto di vista emotivo che comportamentale. Numerosi studi hanno largamente dimostrato che molti bambini, che arrivano nel paese ospitante dopo un estenuante viaggio migratorio, riportano un alto tasso di disturbo post traumatico da stress, spesso legato all’esposizione diretta ad eventi traumatici vissuti prima o durante il processo di migrazione. Nonostante ciò, restano ancora importanti lacune nella conoscenza relativa ad un percorso che garantisca e accompagni lo sviluppo del benessere psicofisico dei MSNA nel periodo trascorso nel paese ospitante e, in particolare, la gestione dell’esperienza traumatica cui questi bambini sono stati sottoposti e gli stress quotidiani che si trovano a dover subire. Quando un bambino viene privato dei propri genitori, lo Stato ha l’obbligo di fornirgli protezione ed assistenza speciali e di garantire la sua sicurezza.


Ma l’Europa e le Istituzioni stanno fallendo nella protezione dei minori stranieri non accompagnati e le loro condizioni di vita nei Centri di prima e seconda accoglienza destano molta preoccupazione. In Italia, infatti, si riscontra il fenomeno della fuga dai centri. Accade molto spesso che scappano perché le loro aspettative sono state disattese e perché sperano che fuori ci siano opportunità di lavoro, al fine di mandare a casa il denaro utile a saldare il debito che le loro famiglie hanno contratto per il loro viaggio, non consci però dei pericoli di sfruttamento lavorativo e sessuale. Come riporta Oxfam nel recente rapporto Grandi speranze alla deriva (settembre, 2016), 28 MSNA fuggono dai centri di accoglienza ogni giorno. Nei primi sei mesi del 2016, 5.222 minori non accompagnati sono stati dichiarati “scomparsi”, essendo scappati dai centri d’accoglienza per continuare il loro viaggio e raggiungere

altri Paesi europei. Ragazzi che diventano così invisibili, uscendo dai circuiti della legge, e diventando ancor più vulnerabili a violenze e sfruttamento. Questi dati allarmanti spingono inevitabilmente verso un’assunzione di responsabilità piena e diretta sul sistema di prima accoglienza dei minori stranieri non accompagnati, assicurando condizioni dignitose di ospitalità, approntando un sistema di strutture di prima accoglienza temporanea con criteri e standard di qualità omogenei e tali da evitare il sovraffollamento, favorendo il successivo

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trasferimento dei minorenni stessi alle comunità di seconda accoglienza distribuite sull’intero territorio nazionale (accreditate secondo i criteri regionali, nazionali e comunitari), nonché di promuovere la diffusione dell’affidamento familiare. Le politiche italiane in materia di migrazione e di protezione dei minori devono prefiggersi l’obiettivo di

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implementare una rete di accoglienza, supporto e inserimento finalizzata all’empowerment dell’individuo e al suo inserimento a medio e lungo termine nell’ottica del life project approach, così come sintetizzato nelle direttive del Consiglio dell’Unione Europea. Solo in questo modo si potrà parlare di integrazione e di protezione dei diritti dei minori migranti.


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NON SOLO IN ITALIA La vita di un invalido totale in Europa, un viaggio nella fragile economia che non ti aspetti

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Un invalido totale è un disabile che non è più in grado di svolgere alcuna attività lavorativa, pertanto percepisce un assegno mensile che dovrebbe essere il suo sostentamento. Il condizionale è d’obbligo perché, come tutti sappiamo, la cifra erogata dagli Enti preposti per un invalido al 100% non supera i 280€ mensili. Nel caso la persona avesse bisogno di assistenza, la suddetta cifra sarà integrata con l’indennità di accompagnamento, che ammonta a circa 510€. Pertanto, con meno di 800€, un malato non autosufficiente dovrà vivere per un mese. Questo accade in Italia. Secondo un’indagine ISTAT effettuata alla fine del 2015, nel nostro Paese oltre tre milioni di persone sono affette da grave disabilità, e di queste solo un milione e cento ha anche l’accompagnamento. Questa condizione porta inevitabilmente ad uno stato di povertà. Dobbiamo difatti anche mettere in conto che non tutti i farmaci al disabile vengono passati dalla ASL, ma solo quelli inerenti la

patologia. Tutti gli altri, per esempio da banco o non direttamente collegati alla malattia, vanno pagati. Se non totalmente almeno in parte con il ticket. Sempre secondo una stima fatta dall’ISTAT, l’Italia rispetto ad altri paesi europei va molto male in termini di spesa destinata alle persone con disabilità. Inoltre i dati, rapportati con l’Europa, si sommano a quelli drammatici sull’impoverimento e sulla fortissima differenza fra Nord e Sud del Paese. Vediamo adesso che cosa offre la Francia ad un disabile. Per prima cosa, possono beneficiare di un sussidio di base detto Allocation adulte handicapé (AAH),

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questo se viene raggiunto un certo “tasso di disabilità” stabilito da una commissione medica. L’AAH più il complément de ressources arriva a circa 990€ mensili. Inoltre, per chi non può lavorare, viene integrato da un complément de ressources (complemento di risorse) che compensa la mancanza di reddito. La prestazione di compensazione dell’handicap (prestation de compensation du handicap, PCH) prende in carico le spese sostenute nella vita quotidiana per avere una condizione di vita adeguata al massimo delle proprie limitazioni fisiche (secondo ICF, Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute). La pensione di invalidità può essere attribuita se il suo ammontare è inferiore a quello dell’AAH. Esistono inoltre delle assicurazioni che possono fornire un complemento di reddito, tra queste troviamo la rente-survie. Passiamo al Regno Unito, che pian piano inizierà a separarsi dall’UE. Sembra assurdo, eppure anche nella pianeggiante Inghilterra disabilità va a braccetto con povertà. Difatti il 28% circa delle persone bisognose sono anche invalide. Girando ancora per i vari Stati, che cosa accede nella grande Germania?

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Edvard Munch, The Sick Child, 1885–86

Non è oro tutto ciò che luccica recitava un proverbio e così, anche nel bel Paese Teutonico dove dal di fuori sembra tutto perfetto, i disabili hanno i loro problemi. Tra l’altro se un disabile italiano, con regolare pensione d’invalidità civile, volesse trasferirsi laggiù definitivamente, non si vedrebbe accreditato l’assegno pensionistico in banca. Questo perché, per quanto riguarda l’Italia, non sono esportabili prestazioni speciali a carattere non contributivo, come quella sopra citata, e pertanto le banche estere non li convalidano.


Guadiamo la situazione della vicina Spagna. Intanto non esistono contributi specifici per le prestazioni d’invalidità. Questi sono inclusi nella contribuzione globale e, da premettere, che lo Stato finanzia gli importi minimi garantiti delle pensioni minime (pensión mínima). Tra l’altro esiste un sistema di assicurazione sociale obbligatoria, finanziato attraverso i contributi, a copertura dei lavoratori dipendenti e assimilati, con indennità legate ai redditi in caso di incapacità permanente (incapacidad permanente). Questi gli importi erogati (pensione minima) 14 versamenti in un anno. Per incapacità totale permanente: 467€ circa o 570€ circa in caso di coniuge a carico.

Invece con invalidità al 100% si ottengono 700€, oppure 850€ con coniuge a carico. Alla fine si può arrivare ad un tetto pensionistico massimo di 2.200€ circa al mese. Tutti i farmaci saranno gratuiti. Facendo una rapida analisi dei dati raccolti, la vita di un invalido, per quanto riguarda la parte economica, pare comunque davvero precaria. L’Italia è uno degli Stati europei che non brilla e nella classifica si posiziona verso gli ultimi posti. In un Paese in cui ci sono così tanti disabili, che purtroppo non arrivano a fine mese e molte volte non riescono neppure a curarsi, sarebbe forse il caso di rivedere il bilancio, perché c’è qualcosa che proprio non quadra.

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