Cronaca&Dossier29

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COPIA OMAGGIO

anno 3 – N. 29, Settembre 2016

LA BORSA

Foto inedite e nuovi elementi sul sequestro in via Fani

Le Brigate rosse e il processo “dimenticato” del 1976

DI ALDO MORO 38 ANNI DOPO

Ecco quanto costa all’Italia la guerra al terrorismo

Le ferite psicologiche delle guerre sui minori


Indice del mese 4. La finestra sul crimine ATTACCO AL CUORE DELLO STATO

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10. Crimini ai Raggi X

CASO MORO: UNA STORIA DA RISCRIVERE?

16. Sulla scena del crimine DALLA SCENA DEL CRIMINE ALLA BORSA DI MORO

30. Criminalistica

VIA FANI: LA STRAGE RICOSTRUITA IN 3D

36. Dossier inchiesta

LE BIGATE ROSSE E IL PROCESSO “DIMENTICATO”

42. Dossier società

TERRORISMO INTERNAZIONALE QUANTO CI COSTI?

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46. Media crime

LIBRO, SERIE TV E PROGRAMMA RADIO CONSIGLIATI

48. Diritti e minori

LE FERITE PSICOLOGICHE DELLE GUERRE SUI MINORI

54. Storie di tutti i giorni LA GUERRA VISTA DA UN’ALTRA ANGOLAZIONE

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ANNO 3 - N. 29 SETTEMBRE 2016

Rivista On-line Gratuita Direttore Responsbile Pasquale Ragone Direttore Editoriale Laura Gipponi Articoli a cura di Alberto Bonomo, Nicoletta Calizia, Nicola Guarneri, Dora Millaci, Paolo Mugnai, Gelsomina Napolitano, Pasquale Ragone, Mauro Valentini Direzione - Redazione - Pubblicità Auraoffice Edizioni srl a socio unico Via Diaz, 37 - 26013 Crema (CR) Tel. 0373 80522 - Fax 0373 254399 edizioni@auraoffice.com Grafica e Impaginazione Federica Bonini Testi e foto non possono essere riprodotti senza autorizzazione scritta dall’Editore. Le opinioni espresse negli articoli appartengono ai singoli autori dei quali si intende rispettare la piena libertà di espressione.

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Registrato al ROC n°: 23491 Iscrizione al tribunale N: 1/2014 Reg. Stampa dal 15 gennaio 2014


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ATTACCO AL CUORE DELLO

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«Presidente Moro, dobbiamo andare. Le macchine sono pronte»

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Aldo Moro

Il maresciallo Oreste Leonardi quel 16 marzo 1978 sollecita il presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro a far presto. La scorta è schierata e alla Camera attendono il suo arrivo. È un giorno speciale, quello, si dovrà varare il nuovo governo Andreotti che godrà dell’appoggio

esterno del Partito Comunista Italiano, alchimia parlamentare tutta italiana che proprio in Moro ha il suo mentore principale, convinto com’è che solo l’unità nazionale possa far uscire il paese dalla crisi più socio-economica che politica. Non sono stati giorni facili per l’onorevole Moro. Lo scandalo Lockheed ha prodotto un’eco fortissima che ha coinvolto lo statista democristiano, accusato neanche troppo velatamente di essere il famoso “Antelope Cobbler” nome in codice del collettore tra governo italiano e il colosso americano fornitore degli aerei. Ne era uscito soltanto tirando fuori gli artigli. «Non ci faremo processare nelle piazze!» aveva tuonato qualche mese prima in un famoso discorso in Parlamento, e per lui (ma non per tutti i suoi uomini di partito) l’assoluzione politica e giudiziaria era arrivata pochi giorni prima, il 9 marzo. Questo giorno così importante inizia poco prima delle 9:00. E per Aldo Moro e per gli uomini della sua scorta finirà sette minuti dopo, senza arrivare dove tutti li attendono. Sette minuti, il tempo che ci mette il corteo di tre auto, due di scorta e quella con il Presidente al centro per raggiungere via Mario Fani. Allo stop con via Stresa un agguato, un fiume di

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fuoco uccide i cinque uomini della scorta e incredibilmente, miracolosamente (e abilmente) lascerà illeso l’Onorevole, che viene rapito dal commando e portato in un covo, in una “prigione del Popolo”. Una trappola perfetta, con un’auto fornita di targa diplomatica e guidata dal capo delle Brigate rosse romane, Mario Moretti, che inchioda nella discesa costringendo allo stop il corteo dietro di lui.

La srage in via Fani

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In questo modo dà il via al gruppo di fuoco appostato ai lati della strada composto da sette elementi accertati, e qualcuno forse non conosciuto, che spara, spara centinaia di colpi quasi tutti a segno e che uccidono oltre al fidato Leonardi, l’appuntato Domenico Ricci, gli agenti Giulio Rivera e Raffaele Iozzino, e il brigadiere Francesco Zizzi. Una strage quasi da esperti militari si dirà poi, una


L’agente Giulio Rivera

L’appuntato Domenico Ricci

scena drammatica per le tre pattuglie giunte per prime sul posto, che trovano i loro colleghi crivellati di colpi e un manipolo di coraggiosi passanti attoniti e avvolti in un silenzio agghiacciante. Roma, l’Italia non era impreparata alla “strategia della tensione” di quegli anni,

Autista e guardia del corpo di Aldo Moro

ma mai si era visto così tanto e mai si era arrivati ad un uomo così importante. Questo era l’annunciato «attacco al cuore dello Stato» come si era letto e si leggerà nei comunicati delle Brigate rosse. Raffaele Fiore, uno dei componenti del commando e più forte fisicamente degli altri,

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alla guida Bruno Seghetti, che farà da autista. Il gruppo con l’ostaggio prende la via di fuga più semplice, aggirando via Fani per percorrere poi via Trionfale, seguiti da una 128 blu con a bordo Valerio Morucci, leader del commando e della “colonna romana” che insieme al resto del gruppo di fuoco si è attardato per verificare la neutralizzazione dei componenti la scorta per poi prendere delle borse in macchina dell’Onorevole, andando con le macchine contro corrente rispetto alle forze di Polizia che si dirigevano verso il luogo dell’agguato. Passando per due strade secondarie, una delle quali richiese anche la rottura con una tronchesi della catena che ne chiudeva l’accesso In alto Oreste Leonardi, in basso da sinistra Raffaele Iozzino, Francesco con una sbarra, Zizzi, Giulio Rivera, Domenico Ricci ha il compito di aprire lo sportello dell’auto blu e far uscire senza troppo riguardo Moro che, diranno alcuni testimoni, non oppone resistenza, probabilmente sorpreso egli stesso di esser rimasto illeso. Insieme a Moretti lo spinge dentro una 132 sempre blu appena arrivata da via Stresa dove era stata nascosta e con

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arrivano prima in via Bitossi, dove prendono un furgone sempre Fiat bianco in cui sarà poi chiuso in una cassa il presidente Aldo Moro. Attraverso un percorso tortuoso si arrivò con un ulteriore trasbordo su via Portuense alla prigione di via Montalcini. Tutto in poco meno di 35 minuti, con un utilizzo incredibile di mezzi e di auto (alla fine se ne conteranno almeno 8). Una volta posizionato il prigioniero nella cella ricavata nell’appartamento dal retro di una libreria, i componenti si disperdono, chi prendendo il treno per Milano, chi verso il centro della città dove lasciano le vetture parcheggiate in punti prestabiliti. Questa sarebbe stata la dinamica dell’attentato e del sequestro, così come conosciuta finora, ma sulla quale ancora molto si dibatte. Il resto sembra quasi appartenere al finale di capitolo di un giallo d’autore. Valerio Morucci, un’ora dopo quell’inferno di

Targa in memoria della strage di via Fani

fuoco che ha contribuito a far esplodere, è già in una cabina telefonica, compone il telefono dell’Ansa e scandisce parole che segneranno l’inizio della più grande crisi della Repubblica italiana: «Qui Brigate rosse. Abbiamo sequestrato il presidente Moro ed eliminato la sua guardia del corpo, le teste di cuoio di Cossiga. Abbiamo portato l’attacco al cuore dello Stato. Questo è solo l’inizio».

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CASO MORO UNA STORIA DA RISCRIVERE? Interrogatori, reperti e storie intrecciate sono alcuni degli elementi analizzati dalla recente Commissione Fioroni

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Quando capita di pensare ai tanti misteri dell’Italia moderna potremmo immaginare il quadro di un amore malato. Una di quelle storie in cui chi sta dentro conosce il male ma fa finta di non capire. Non si agisce, si cela il marcio, si subisce e la paura diventa sopravvivenza, la paura diventa il nostro bene, o il bene di chi ci sta vicino. Una visione talmente tragica da suscitare comprensione e compassione. Ma se il quadro davanti a noi non parlasse di amore ma d’interesse? Se il silenzio fosse semplicemente bieco utilitarismo senza morale? Sono passati poco meno di quarant’anni ma sono sempre di più i tasselli, in precedenza non valutati o valutati male, del sequestro Moro che si vestono di certezza agli occhi dei membri della commissione presieduta da Giuseppe Fioroni. Punti cardinali degli studi condotti su infinite colonne di carta, atti e dichiarazioni a detta della Commissione sono: la presenza di due boss della ‘ndrangheta in via Fani durante il rapimento; la contestuale presenza di alcuni esponenti della RAF (Rote Armee Fraktion) del terrorismo tedesco e alcune stranezze, sul ruolo e

sulla cattura di Valerio Morucci e Adriana Faranda in viale Giulio Cesare a Roma. Gli esponenti della mala calabrese accennati sono Antonio Nirta e Giustino De Vuono; i due sarebbero stati riconosciuti in numerosi rilievi fotografici contestuali al rapimento, così come la presenza dei terroristi tedeschi. Ad oggi particolare credito sembra avere la pista secondo la

Giuseppe Fioroni, presidente della Commissione Moro

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quale vi sarebbero state fitte e segrete trattative per il commercio di armi (come accennato da Raffaele Cutolo nelle ultime dichiarazioni, boss della Nuova Camorra Organizzata detenuto dal 1979). Rimane poco chiaro anche il ruolo di Tullio Olivetti,

Antonio Nirta all’epoca del sequestro Moro

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proprietario di un bar in via Fani, nel 1977 indicato come trafficante di armi salvo poi vedere finire con un nulla di fatto l’indagine e le accuse mosse contro di lui. La storia ci racconta che la cattura di Valerio Morucci e di Adriana Faranda, realizzata con l’irruzione della DIGOS nell’appartamento romano di viale Giulio Cesare 47 di proprietà di Giuliana Conforto. Si giunse all’arresto grazie a un informatore, titolare di una concessionaria di auto che un giorno riferì della presenza di Morucci e Faranda nell’autosalone; il primo riconosciuto in quanto cresciuto nello stesso condominio di uno dei due soci della concessionaria. Quindi una volta avvertiti i vertici della Questura da lì a poco il passo è breve prima di giungere al covo di viale Giulio Cesare. Apparentemente tutto lineare e trasparente ma in verità resta da chiarire


il ruolo di Giorgio Conforto, l’uomo che, così come riportato dalle parole di Francesco Cossiga, per difendere il Partito Comunista Italiano dalle accuse di collusione con le Br e per tutelare la vita della figlia (che abitava con Morucci e Faranda) denunciò segretamente i due personaggi. Fece ciò perché la figlia, un’extraparlamentare non comunista, non sapeva nulla, sapeva esclusivamente che il ragazzo e la ragazza erano simpatizzanti di sinistra. Quando Giorgio Conforto capì chi erano le persone che vivevano in casa della figlia, contattò il capo della mobile Fernando Masone. All’ipotesi che sarebbe stato l’uomo a “vendere” i due brigatisti, si sovrappone la convinzione diffusa tra i commissari che gli stessi terroristi decisero di consegnarsi nell’ambito della trattativa in corso. Nuovi inquietanti particolari, invece, saltano fuori dalle recenti dichiarazioni

Raffaele Cutolo, 1986

del boss Raffaele Cutolo. Alcuni mesi fa innanzi ai pm di Roma l’uomo sostenne di essere stato non di molto distante dall’intervenire per la liberazione di Aldo

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Moro dalle mani delle Brigate rosse ma che l’azione fu annullata a seguito di “un ordine” giunto proprio da Roma attraverso la bocca di Enzo Casillo, suo braccio destro e latitante, che circolava con una tessera dei servizi segreti in tasca; «i suoi amici dissero di farci i fatti nostri»

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queste le parole di Cutolo. Armi, legami e nuove ipotesi si susseguono mese dopo mese, ma la verità sul caso Moro sembra ancora lontana, probabilmente con molti particolari che ormai si sono persi nel tempo, delegati solo alla memoria di pochi uomini restii a parlare.


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DALLA SCENA ALLA BORS

In anteprima pubblichiamo alcune foto inedite tratte (Iuppiter Edizioni) scattate in via Fani poco dopo Marcello Altamura - giornalista che ha consultato la d ricostruisce la dinamica del sequestro e riporta nuovi el nubi sul mistero dei misteri: chi portò via la borsa nella

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DEL CRIMINE SA DI MORO

dal libro in uscita a f ine settembre “La borsa di Moro” il sequestro delle Br. Nell’intervista concessa, l’autore documentazione uff iciale sull’intricata inchiesta Moro lementi d’indagine. Dopo 38 anni potrebbero diradarsi le a quale Aldo Moro conservava i documenti più riservati?

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Chi legge per la prima volta del caso Moro è spesso portato a pensare che l’episodio di via Fani sia stato improvviso e inatteso. In realtà nel periodo precedente a via Fani quali erano le ansie di Moro e del maresciallo Leonardi? «Nel 1978 le ansie di Moro crescono in parallelo con il suo ruolo di grande tessitore del governo che comprende anche il Pci. In quel periodo cominciano i pedinamenti all’auto di Moro che il maresciallo Leonardi segnala. Questo lo racconta a più riprese la vedova di Aldo Moro, sia dinanzi alla prima Commissione Moro che durante il processo in Corte d’Assise.

In particolare il maresciallo Leonardi segnala che c’è una Fiat128 bianca che segue l’auto del Presidente, ferma anche davanti casa Moro, come riportato anche da diversi testimoni. A quel punto il maresciallo Leonardi, persona molto attenta e molto vicina a Moro, partecipe delle ansie del Presidente, segnala la presenza di movimenti sospetti. Lo fa oralmente e con una serie di rapporti scritti. Questi documenti, dopo via Fani, scompaiono e tutte le autorità dell’epoca a partire dal ministro dell’Interno Francesco Cossiga, negano che Leonardi avesse mai segnalato alcun pericolo. Scompare anche una lettera di minacce delle Br, come racconterà il giornalista Mino Pecorelli».

Marcello Altamura, giornalista professionista del quotidiano Cronache di Napoli, da anni si occupa di terrorismo, in particolare degli Anni di piombo e dei suoi legami con la realtà sociale e politica dell’epoca. Nel 2007 è stato tra gli autori di Tutti in piedi per la Carpisa e nel 2015 ha pubblicato Dodici Leoni, scritto insieme a Franco Esposito.

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Perché le armi della scorta erano custodite nel bagagliaio della 130? «Questa è un’altra storia di via Fani. Il lavoro delle scorte era regolato da un apposito manuale, incluso agli atti della prima Commissione


Moro e dunque consultabile. Nel manuale non si fa riferimento preciso al fatto che le armi dovessero essere posizionate nei bagagliai, ma è scritto che non dovevano essere tenute a vista e senza il colpo in canna. Il bagagliaio nasce però da una disposizione del Viminale precedente a via Fani e svelata da Mino Pecorelli in cui si raccomandava di tenere le armi nel bagagliaio». Nel Suo libro spiega nel dettaglio un altro punto delicato dell’inchiesta, ovvero la scelta di Leonardi di transitare da via Fani e il fatto che Aldo Moro insieme a Otello Riccioni, uno degli autisti le Br conoscessero il della 130 (per gentile concessione di Giovanni Ricci) percorso. «I brigatisti sicuramente conoscevano Leonardi comunica il percorso scelto via molto bene i vari percorsi di Moro, tra i radio. La mia ricostruzione porta elementi quali c’era anche via Fani, che non era che fanno pensare che al maresciallo però l’unico. Il percorso variava a seconda sia arrivata la comunicazione di due anche del traffico, come testimoniano a problemi: il primo è un incidente che più riprese i membri superstiti della scorta. bloccava via Cassia Vecchia, non lontana Anche quella mattina, come sempre, da via Cortina d’Ampezzo, la strada più

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Lo stesso Leonardi che sapeva di alcuni strani movimenti nei giorni precedenti. «Sì, ebbe precise segnalazioni sul fatto che brigatisti erano affluiti a Roma anche da più parti d’Italia, segno che qualcosa di grosso si stava preparando. La mia ipotesi è che i due blocchi al traffico non fossero estranei all’operazione». veloce per arrivare da casa Moro alla Chiesa di Santa Chiara; il secondo è che in piazza dei Giuochi Delfici, dove è sita la chiesa di Santa Chiara, c’erano dei vigili che deviavano il traffico. Quella mattina diversi testimoni videro in strada due macchine e alcuni poliziotti che smistarono il traffico, aiutati da altri uomini con una divisa azzurra. Due episodi rimasti oscuri, eppure segnalati già all’epoca da diversi testimoni. Via Fani, probabilmente, quella mattina fu per Leonardi una scelta obbligata».

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Nel Suo lavoro si concentra molto sulla scena del crimine. Alla luce della documentazione pubblicata, quali sono gli elementi nuovi che emergono? «Gli elementi fondamentali sono due. Il primo è la presenza di più persone in via Fani rispetto a quelle indicate nella ricostruzione ufficiale, circostanza che emerge già dai lavori di chi si è occupato in passato del caso. Il secondo è che venne impiegato un numero di mezzi superiore a quello indicato fino ad oggi. In merito al primo punto emergono anche


fisionomie di persone molto diverse rispetto a quelle indicate nel Memoriale Morucci, rappresentataci negli ultimi 40 anni come la storia di via Fani». Lei spiega dell’esistenza di alcune auto ferme nei dintorni. Di cosa si tratta nello specifico? «C’è una testimone che asserisce di avere visto delle auto, oltre quelle già ricordate nella versione ufficiale, parcheggiate su

uno dei due lati di via Fani. E nel libro riporto la versione di varie persone che abitavano in via Fani all’epoca e che raccontano come lì fosse sempre molto difficile trovare parcheggi per le auto. Io mi sono chiesto, incrociando le testimonianze, come avessero fatto i brigatisti a tenere sgombri i due lati attigui all’incrocio dove avviene l’attacco. La mia ipotesi, anche suffragata da foto e testimonianze, è che su quel lato vi fossero altre auto

Fiancata sinistra Mini, da La Borsa di Moro (per gentile concessione dell’autore M. Altamura)

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parcheggiate, di fatto bloccando la via di fuga dell’auto guidata da Ricci. Del resto sembra abbastanza improbabile che i brigatisti avessero pensato di bloccare il “lato basso” e non anche il “lato alto”, cioè la strada che andava verso via Cortina d’Ampezzo: sarebbe stato rischioso lasciare una via di fuga all’auto di Moro. Mi sembra evidente che il piano delle Br era molto meglio organizzato rispetto a quanto abbiano voluto farci credere». Ha accennato al Memoriale Morucci. Come ricostruisce il capitolo delle armi utilizzate dai brigatisti? «Gran parte dei testimoni parla di spari a raffica, quindi di persone che impugnavano dei mitra, invece Morucci asserisce che i brigatisti hanno sparato solo con le pistole e solo in quattro.

Invito però tutti a guardare le foto della strage avvenuta a via Fani e chiedersi se è credibile che quattro persone con le sole pistole abbiano potuto produrre una mole di fuoco così importante». In merito alla questione delle armi ci sono state di recente le parole del boss Raffaele Cutolo. Cosa c’è di vero secondo Lei? «Sulla presenza della malavita mi soffermo soprattutto in merito a Giustino De Vuono per via della sua presenza nella zona di via Fani, non è chiaro se con un ruolo attivo nella vicenda o meno. Riguardo le Br e le armi ottenute rivolgendosi alla malavita, mi sono dato una spiegazione molto più semplice rispetto a tante ipotesi lette e ascoltate. Nel momento in cui le Br hanno bisogno di una dotazione di

Ricostruzione del Messaggero pubblicata il 17 marzo 1978

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armi così importante per un’azione del genere, è logico che si rivolgano a più di un mercato nero, dov’è ovvia la presenza e la gestione della malavita, ma questo valeva per il terrorismo di destra così come di sinistra». E cosa pensa dell’eventuale ruolo di Antonio Nirta, come ipotizzato dalla Commissione Fioroni? «Penso che la foto nella quale si vedrebbe Nirta fumare in via Fani tra la folla di curiosi, non possa fornire informazioni così nette su un suo eventuale ruolo attivo. Tra l’altro la fotografia che lo ritrae è stata scattata almeno 40 minuti dopo la strage, confuso in mezzo a centinaia di altre persone, e la somiglianza con il boss calabrese è solo verosimile. Mi sembra poco per poter dare giudizi. Se poi la Commissione ha elementi che noi non abbiamo, allora il discorso cambia».

Lapide in via Caetani, dove fu rinvenuto il cadavere di Aldo Moro

Fani. È d’accordo con la ricostruzione della Scientifica che conferma la presenza di quattro uomini? «Negli atti dell’inchiesta Moro è stata sostanzialmente ignorata la presenza di un uomo che avrebbe sparato con un’arma a canna lunga, visto fare fuoco accanto all’utilitaria parcheggiata sul lato destro laddove poi infatti sono stati Tuttavia qualcosa non torna nella trovati dei bossoli. La sensazione dei ricostruzione ufficiale, in particolare testimoni è che questa persona fosse circa i colpi esplosi da destra in via inginocchiata, messasi al riparo dai colpi.

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Questo dimostrerebbe, una volta di più, che c’erano altri membri del gruppo di fuoco oltre ai quattro che riporta la storia ufficiale. La stessa Scientifica nella ricostruzione 3D fatta per la Commissione Moro, per provare a spiegare la presenza inequivocabile di colpi da destra, è addirittura ricorsa ad un cambio di fronte di uno degli avieri che passa da sinistra a destra per sparare sulle auto. Una versione secondo me difficilmente sostenibile visti i tempi strettissimi in gioco». Nel caso Moro sa bene che si è ipotizzato di tutto, dalla presenza dei servizi segreti fino all’intervento di soggetti estranei alle Brigate rosse. Avendo letto le migliaia di pagine sull’inchiesta Moro, secondo Lei chi intervenne effettivamente in via Fani? «Una mia fonte riservata, che ha deciso di restare nell’anonimato e ben introdotta nell’ambiente delle Brigate rosse dell’epoca, mi ha fatto presente che durante le azioni poteva capitare che vi fossero altre persone coinvolte appartenenti alle Br, ma che di ciò non tutti ne fossero a conoscenza.

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Nel libro l’ipotesi a cui giungo è che l’azione non fu eseguita dai quattro brigatisti, bensì da più nuclei». Ma è concretamente possibile che chi fosse in via Fani non sapesse di altri brigatisti lì giunti per l’operazione? «Senz’altro e lo dimostrano anche alcune affermazioni degli stessi brigatisti. È il caso di Moretti che dice: “Non c’era nessuno dei nostri su quella moto” o come Fiore che asserisce che “quella mattina c’erano persone che non gestivamo noi”. Ciò spiega come molto probabilmente il commando fosse più numeroso dei 10 o 11 indicati dalla storia “ufficiale”, ma


anche che non tutti sapevano né quante persone c’erano, né tutti i compiti delegati. Se pensiamo che i quattro vestiti da avieri sono solo un nucleo di fuoco, mentre un altro nucleo controlla le vie di fuga, un altro ancora ‒ penso alla famosa motocicletta che compare ad azione conclusa ‒ che scorta l’auto con a bordo il presidente Moro, allora trovano piena corrispondenza l’impianto organizzativo dell’azione in via Fani con le parole degli stessi brigatisti». Per fare questo però sarebbe servito il coordinamento dei vari nuclei da parte di qualcuno. Chi avrebbe coordinato l’intera azione in via Fani? «Io credo che chi ha coordinato l’azione e deciso l’azione in via Fani non aveva a che fare con il “bracciantato brigatista”, per dirla con Leonardo Sciascia, intervenuto quella mattina».

Contatto fra la 130 e la 128, da La Borsa di Moro (per gentile concessione dell’autore M. Altamura)

tamponamento tra la 130 e la 128. Perché secondo Lei è importante quella foto? Cosa può dirci in più rispetto a quanto già sappiamo? «Quella foto ci fa sapere che la dinamica raccontata da Morucci e Moretti sarebbe Nel Suo libro pubblica la foto totalmente falsa. Il contatto tra le auto inedita che contraddice l’ipotesi del c’è stato e l’ammaccatura che si vede

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ne è la prova, ma un contatto non è un tamponamento. Considerato il peso della carrozzeria della 130, se davvero avesse tamponato la 128 avrebbe fatto rientrare per l’impatto il paraurti, che all’epoca era in lamiera, e che invece, ancora oggi, presenta solo una lieve ammaccatura, questo a conferma del fatto che ci fu sì un contatto ma che fu con ogni probabilità dovuto alla perdita di giri del motore della 130 che si fermò “morendo” proprio appoggiando il muso alla 128. Questo perché quando Ricci venne colpito è ragionevole pensare che non ebbe il tempo di spegnere il motore. Dunque Ricci non tentò di divincolarsi per cercare una via di fuga, come detto dai brigatisti, dinamica non corrispondente alla realtà». Il titolo del Suo libro fa riferimento ad una delle cinque borse di Moro, quella particolarmente cara al Presidente. È ancora possibile fare luce sul suo destino? «Sì, è possibile grazie ad una testimonianza inedita che ho pubblicato. Posso dire in anteprima, sulla base di tale testimonianza, che la borsa con documenti sensibili quella mattina non fu portata via dalle Br. Morucci sostiene di avere portato via due borse, peccato

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Borse Moro fotografate dalla Scientif ica, da La Borsa di Moro (per gentile concessione dell’autore M. Altamura)


E secondo le Sue ricerche cosa avrebbe contenuto questa borsa di così importante? «A detta della moglie di Moro e di alcuni suoi collaboratori, in quella borsa vi sarebbero stati documenti sensibili. Aldo Moro non si separava mai da quella borsa».

Aldo Moro

però che l’unica testimonianza che viene sempre citata per corroborare questa tesi non parli mai di una ventiquattrore né di una borsa di pelle, bensì di una borsa e di un borsone e non mi risulta che Moro avesse nella 130 un borsone».

Nel libro Lei dà indicazioni su chi avrebbe portato via la borsa di Moro. Tuttavia come fa ad esserne così sicuro? «Per la prima volta una persona che era lì quella mattina e che è stata protagonista, seguendo da vicino i fatti, ha deciso di parlare. Questa persona ha seguito con i suoi occhi il destino di quella borsa e penso che quanto ha da dire a quasi quarant’anni dai fatti non passerà per nulla inosservato».

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VIA FANI

LA STRAGE RICOSTRUITA

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Ecco le moderne tecnologie che la Scientif ica ha adottato per capire la dinamica dei fatti

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Roma 16 marzo 1978, in via Fani ha inizio quello che 55 giorni dopo si confermerà come il più grave delitto politico della storia della Repubblica Italiana, il rapimento e la successiva esecuzione del presidente della Dc Aldo Moro e l’uccisione di tutti i membri della sua scorta. Una storia infame affrontata in svariati processi e numerose inchieste. Una vicenda dove la verità sembra ancora lontana, condita da depistaggi e reticenze, enigmi rimasti senza risposta: in pratica una storia di politici, di terroristi e di servizi segreti, attori

frequenti in numerose “questioni” di Stato. Nel maggio del 2014 il Parlamento italiano ha istituito una nuova Commissione speciale bicamerale, guidata dal deputato Giuseppe Fioroni per fare chiarezza sulla strage di via Fani e sul sequestro e l’uccisione dell’on. Moro, ed uno dei punti fondamentali sarà quello di fare chiarezza su chi e come effettivamente fece fuoco quel 16 marzo del 1978 contro la Fiat 130 sulla quale viaggiava Aldo Moro e contro l’Alfetta guidata dalla scorta. Sappiamo che la mattina dell’attentato un

Via Fani dopo la strage

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commando di brigatisti vestiti da avieri ed appostati in via Fani, servendosi di armi semiautomatiche e a raffica, alle ore 9:02 apre il fuoco sull’auto di Moro e su quella della scorta uccidendo tutti e cinque gli agenti e lasciando illeso il presidente della Dc, che verrà prelevato e fatto salire su una Fiat 132 blu. Negli anni sono state fatte numerose ipotesi su come si sia effettivamente svolta la dinamica dell’attentato, spesso arrivando a risultati contrastanti. Per cercare di eliminare i vari dubbi e ricostruire

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la dinamica della scena del crimine la nuova Commissione parlamentare si è rivolta alla sede centrale della Polizia Scientifica di Roma, che r i p a r t e n d o dai verbali di sopralluogo, dagli atti di indagine e dalle perizie balistiche che sono state prodotte negli anni ha tentato di rimettere insieme gli eventi, come tanti disordinati fotogrammi appartenuti ad un filmato ormai rotto 38 anni fa. Per la ricostruzione della scena del crimine i poliziotti della Scientifica si sono serviti di appositi strumenti denominati Laser Scanner terrestri, ovvero apparati topografici che permettono di rilevare la geometria di un ambiente o di un oggetto, per poi ricostruirla virtualmente con un’altissima precisione dei dettagli. Di fatto con il laser scanner si evitano errori di distrazione e di misura che invece spesso


si verificano a causa della componente umana. I poliziotti della Scientifica recandosi direttamente in via Fani armati di laser scanner, hanno potuto ricostruire in 3D l’ambiente dove avvenne la strage. Sempre servendosi della tecnologia della scansione laser i militari hanno riprodotto virtualmente la Fiat 130 dove viaggiava l’on. Moro, l’Alfetta della scorta, le auto degli attentatori, ed altre due auto parcheggiate in via Fani, ma soprattutto la posizione esatta dei fori dei proiettili. Questo ha permesso di ipotizzare e ricostruire la modalità con cui l’attentato è stato condotto, evidenziando traiettorie di sparo e il numero di persone coinvolte. Secondo gli operatori della Scientifica, l’auto di Moro sopraggiunta all’incrocio con via Stresa si trova di fronte ad un’auto con a bordo il brigatista Moretti. La Fiat 130 non tamponerà l’auto di Moretti, come invece è stato più

volte ipotizzato e a quel punto, contro le autovetture ancora in movimento, vengono esplosi dai terroristi i primi colpi singoli che hanno la funzione di fermare le due auto della scorta. Cominciano quindi le raffiche di mitra nei confronti degli agenti; uno di questi morirà in ospedale, un altro agente riesce a portarsi fuori dall’auto ed esplode qualche colpo prima di venire ucciso. Secondo la ricostruzione della dinamica, a compiere l’attentato furono quattro persone, tutti brigatisti, che fecero fuoco dal lato sinistro di via Fani

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e in direzione da sinistra verso destra, ovvero dall’incrocio di via Stresa verso via Fani alta. Con questa ricostruzione si esclude quindi un pericolosissimo fuoco incrociato da entrambi i lati della strada, che avrebbe potuto colpire sia l’on. Moro che gli stessi terroristi. La ricostruzione 3D della strage di via Fani rappresenta sicuramente un passo avanti nella inestricabile vicenda Moro e fa comprendere come sempre più solido debba diventare il rapporto tra Scienze

forensi e ambienti giuridici, nel comune obiettivo della ricerca della verità. La Commissione parlamentare dovrà comunque chiarire molti altri punti oscuri sempre in merito a via Fani. Ad esempio perché sul lato destro e sul lato sinistro di via Fani erano parcheggiate due auto (una impedirà la fuga dell’auto di Moro, l’altra farà da nascondiglio agli attentatori) che poi si scoprirà essere collegate a personalità e società direttamente legate ai servizi segreti e a Gladio. Semplice caso o qualcosa di più?

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Le brigate

rosse

e il processo “dimenticato” In un clima rovente nel 1976 inizia il processo all’ala storica delle Br

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Il 17 maggio 1976, quarant’anni e una manciata di mesi fa, si apriva il processo al nucleo storico delle Br. Una giornata, e un processo, che avrebbero cambiato per sempre la storia dell’Italia. Fino a inizio degli anni ‘70 delle Brigate rosse si sapeva poco o nulla. Gli stessi media, fino a pochi giorni prima del processo, avevano sottovalutato le intenzioni di questo gruppo. Come raccontò l’allora giudice Giancarlo Caselli, che aveva costruito l’istruttoria del processo insieme al procuratore di Torino Bruno Caccia, «attorno alle Br era cresciuto un alone di indifferenza o quasi, nonostante la temerarietà delle loro azioni. Un importante e noto giornalista mi confessò candidamente di non saperne nulla». Nei primi anni ‘70 le Br avevano iniziato la loro “propaganda armata” al nord, dalla

Lombardia e dal Piemonte fino al Veneto, passando per Liguria ed Emilia Romagna. Piccole azioni verso dirigenti di fabbriche e aziende, sequestri di qualche ora e una serie di azioni per dimostrare che esisteva un’alternativa alla politica tradizionale. Solo nel 1974 arrivano i primi morti (seppur non programmati), dopo che il sequestro del sostituto procuratore Mario Sossi (poi rilasciato) aveva portato le Br alla ribalta e raccogliere anche diverse simpatie in una crescente fetta di popolazione. Attraverso un’azione dei Carabinieri, sotto il comando del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, l’8 settembre del 1974 vengono arrestati i leader storici delle Br, Renato Curcio e Alberto Franceschini. All’arresto sfugge Mario Moretti, altro leader del gruppo e esponente dell’ala estrema delle Brigate rosse: egli riteneva infatti inutile

Da sinistra, i brigatisti Morucci, Fiore, Gallinari, Bonisoli

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la propaganda, preferendo attaccare in stile militare. Il suo mancato arresto rappresenta dunque una svolta all’interno del movimento che diventa sempre più estremo. Curcio e Franceschini finiscono in tribunale insieme ad altri 44 brigatisti e il 17 maggio 1976 inizia il processo

Renato Curcio nel 1976

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presso la Corte d’Assise di Torino. I piani del procuratore Giancarlo Caselli, che prevede una rapida condanna, saltano in aria dopo pochi minuti dall’inizio del processo. Nemmeno il tempo di iniziare il dibattimento che un esponente dei brigatisti (Maurizio Ferrari) si alza e legge un comunicato a nome di tutti gli indiziati: «Ci proclamiamo pubblicamente militanti dell’organizzazione comunista Brigate rosse, e come combattenti comunisti ci assumiamo collettivamente e per intero la responsabilità politica di ogni sua iniziativa passata, presente e futura. Affermando questo viene meno qualunque presupposto legale per questo processo, gli imputati non hanno niente da cui difendersi. Mentre al contrario gli accusatori, hanno da difendere la pratica criminale, antiproletaria dell’infame regime che essi rappresentano. Se difensori dunque devono esservi, questi servono a voi egregie eccellenze.


Per togliere ogni equivoco revochiamo perciò ai nostri avvocati il mandato per la difesa, e li invitiamo nel caso fossero nominati di ufficio, a rifiutare ogni collaborazione con il potere. Con questo atto intendiamo riportare lo scontro sul terreno reale, e per questo lanciamo alle avanguardie rivoluzionarie la parola d’ordine: portare l’attacco al cuore dello Stato». In pratica i brigatisti si proclamano responsabili ma non colpevoli del capo d’accusa, e inoltre rinunciano sia a difendersi che a essere difesi. Un mossa che manda in scompiglio i piani dell’accusa che si ritrova totalmente impreparata. Da questa data tutti i difensori d’ufficio nominati rimettono il loro mandato e il processo si ritrova impossibilitato a proseguire. Il 24 maggio il Presidente della Corte incarica della difesa il presidente dell’Ordine degli avvocati, Fulvio Croce, uno dei pochi ad accettare l’incarico: il 28 aprile dell’anno seguente, a cinque giorni dalla ripresa del processo, viene freddato da cinque colpi di pistola. Il commando di tre uomini è solo un assaggio del nuovo corso delle Br guidato da Mario Moretti, che ha sfruttato il

biennio 1974-1976 per rendere le Brigate rosse una vera e propria organizzazione militare. Tra mille difficoltà il processo riprenderà a singhiozzo per terminare il 23 giugno del 1978 con la condanna di tutti gli imputati, con pene tra i 10 e i 15 anni. Tutt’altro che una vittoria per l’Italia, che qualche mese prima aveva dovuto affrontare il sequestro Moro, una vera e propria operazione militare.

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TERRORISMO

INTERNAZIONALE

QUANTO CI COSTI? Il tema della sicurezza nazionale e le spese che l’Italia deve affrontare

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Una delle maggiori paure della società contemporanea è rappresentata dalle azioni terroristiche, soprattutto da quelle di tipo integralista islamico che sono aumentate negli ultimi anni. Verso la fine degli anni ‘80 si è intravista una lieve diminuzione del terrorismo, ma nel contempo c’è stata una riorganizzazione del sistema sia dal punto di vista strategico sia a livello di finanziamenti. Mentre in passato le azioni terroristiche provenivano solo da piccoli gruppi estremisti che operavano in maniera isolata, successivamente si sono create delle vere e proprie reti internazionali molto organizzate. Alle semplici azioni rivoluzionarie portate avanti da piccoli gruppi terroristici, si sono aggiunte le azioni dei kamikaze che, imbottiti di esplosivo, realizzano stragi organizzate in tutto il mondo. Le azioni terroristiche, quindi, hanno assunto nel tempo forme differenti mettendo in atto una guerra su tutti i fronti. Gli attentati informatici, che colpiscono le reti telematiche mondiali con la diffusione di virus, pongono anch’essi in ginocchio i sistemi di sicurezza. Questi attacchi mettono a repentaglio non solo la vita dei cittadini; essi vanno a distruggere patrimoni e investimenti attraverso

il sabotaggio delle apparecchiature tecnologiche più importanti. Il terrorismo fa più paura della guerra tradizionale perché il nemico non è identificabile; si può trovare ovunque, in mezzo a noi, nella folla, dietro a un pc e, come un comune cittadino, può colpire indiscriminatamente su tutti i fronti. Così come l’attentatore guidato da un

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gruppo ben radicato nel territorio colpisce inaspettatamente, anche i sistemi di sicurezza italiana sono sempre in azione per evitare che avvengano disastri immani. La tecnologia, però, ha un ruolo fondamentale anche per il contrasto al terrorismo, per controllare in maniera efficiente e puntuale il territorio. Strumenti di cartografia digitale sono impiegati da inquirenti e uffici pubblici per individuare eventuali abusi e localizzare i possibili nascondigli dei criminali.

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Attraverso l’utilizzo di droni e robot guidati, vengono localizzate cellule terroristiche ed evitati numerosi disastri. L’Italia investe molto sulla lotta al terrorismo e ogni anno vengono stanziati milioni di euro per far sì che la prevenzione, i controlli, il monitoraggio continuo e i benefici rivolti alle vittime non vengano mai meno. In seguito agli attacchi terroristici degli ultimi tempi, il Governo Italiano ha stanziato più fondi per la sicurezza destinandone buona parte all’Intelligence e alla Polizia


L’Esercito impiegato in Operazione strade sicure

per garantire il controllo antiterrorismo. La Legge di stabilità per l’anno 2016 reca, infatti, una serie di misure volte all’incremento delle risorse destinate alla difesa ed alla sicurezza nazionale. Dunque sono stati 150 milioni gli euro destinati al potenziamento degli interventi

e delle dotazioni strumentali in materia di protezione cibernetica e sicurezza informatica nazionali: 50 milioni sono rivolti al fondo per l’ammodernamento delle dotazioni strumentali e delle attrezzature anche di protezione personale, in uso alle forze di Polizia e al Corpo nazionale dei vigili del fuoco presso il MEF; ulteriori 10 milioni di euro sono autorizzati per il rinnovo e l’adeguamento della dotazione dei giubbotti antiproiettile della Polizia di Stato e 245 milioni di euro sono destinati al Fondo per interventi straordinari per la difesa e la sicurezza nazionale, in relazione alla minaccia terroristica presso il Ministero della Difesa. Nonostante i numerosi atti di terrorismo che destabilizzano la nostra società, un’efficiente rete di Intelligence e un potenziamento delle risorse potrà garantire a tutti una maggiore tranquillità generale, sia dal punto di vista psicologico che organizzativo. Il cittadino può sentirsi più tranquillo e sa che i costi di tali servizi non sono mai alti di fronte alla sicurezza pubblica e individuale. Tante persone lavorano per salvaguardare la nostra incolumità e nell’anonimato svolgono un ruolo nobile e delicato che va incentivato e gratificato nel modo giusto.

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LIBRO E PROGRAMMA TV

CONSIGLIATI

a cura di Mauro Valentini

IL CASO MORO E LE VERITÀ DI COMODO Nel libro di Limiti e Provvisionato l’analisi e i dubbi di una storia ancora oscura Ci hanno mentito. Sul caso Moro ci hanno raccontato una verità di comodo. Il delitto politico per eccellenza, la nostra Storia travolta per sempre quel giorno, raccontata in un libro chiave, finalmente risolutivo. Cinque indagini giudiziarie e quattro processi, un’apposita Commissione d’inchiesta parlamentare per indagare ancora. Perché quello che sappiamo oggi è il frutto di una misteriosa trattativa tra Democrazia Cristiana e i vertici delle Brigate rosse. Ecco chi sono i Complici (Edizioni Chiarelettere) secondo gli autori di due firme importanti nel panorama giornalistico italiano: Stefania Limiti e Sandro Provvisionato. Ma non è solo un libro politico, questo, anzi, esso cerca con stile narrativo perfetto di rispondere alle tante, troppe domande di quella vicenda oscura. Chi c’era in via Fani la mattina del sequestro? Chi sparò? Dov’erano la o le prigioni di Moro? Chi era il suo quarto carceriere? Che fine hanno fatto le carte scritte dal presidente democristiano durante i cinquantacinque giorni dei suoi interrogatori? Dove è finita la lista di appartenenti a Gladio che Moro scrisse di suo pugno? Un libro che cerca di dare risposte, diviso in sezioni che con chiarezza giornalistica disarmante mettono insieme, come in un puzzle macabro e oscuro, attori e spettatori di una vicenda che ci ha cambiato per sempre.

Diritto di Cronaca,

la nuova rubrica di politica ed attualità in onda ogni martedì e giovedì su Teleromauno (CH. 271). Tante le tematiche già affrontate, dal caso Cucchi al clan dei Marsigliesi, fino alle inchieste su sanità, sicurezza e criminalità. Tutte le puntate sono disponibili sulla pagina Facebook di “Diritto di Cronaca”, condotte dal giornalista Giovanni Lucifora.

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SERIE TV E PROGRAMMA RADIOFONICO

CONSIGLIATI

a cura di Nicola Guarneri

Su Netflix

NARCOS, SECONDA STAGIONE Dal 2 settembre è disponibile su Netflix la seconda stagione di Narcos Un titolo che non lascia scampo a dubbi: Narcos è il racconto dell’ascesa e della caduta del più grande narcotrafficante di tutti i tempi, Pablo Escobar (Wagner Moura) e degli agenti della DEA Steve Murphy (Boyd Holbrook) e Javier Peña (Pedro Pascal) che lo catturarono dopo anni di latitanza. La seconda stagione riparte dalla fuga di Escobar dalla sua prigione dorata, La Catedral, una gigantesca costruzione opera dello stesso narcotrafficante, che lì si rinchiuse in accordo con il governo colombiano per evitare l’estradizione negli Stati Uniti. La seconda stagione è disponibile su Netflix dallo scorso 2 settembre; l’emittente statunitense ha annunciato che la serie è già stata rinnovata per una terza e una quarta stagione.

In radio La Storia Oscura

Storia, crimine e criminologia su Radio Cusano Campus dal lunedì al venerdì dalle 13:00 alle 15:00 con “La Storia Oscura”, un programma curato e condotto da Fabio Camillacci. Conoscere la storia per capire l’attualità.

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LE FERITE PSICOLOGICHE DELLE GUERRE

SUI MINORI I bambini coinvolti nei conf litti armati sono soggetti a traumi che condizioneranno per sempre la loro vita

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Ricordiamo ancora immagini come quelle del bambino impaurito con le mani alzate davanti alle SS che sgomberano il ghetto di Varsavia nel 1943, o quella della piccola Kim Phuc che fugge, svestita e piangendo, dal villaggio bombardato con il napalm in Vietnam nel 1972, oppure le foto più recenti della bimba siriana, Hudea, che alza le mani in segno di resa di fronte alla macchina fotografica, pensando fosse un’arma, o lo sguardo spento e confuso del bambino col volto

insanguinato, Omran, estratto vivo dalle macerie, ad Aleppo. Espressioni, quelle sui loro visi, che colpiscono la nostra emotività e che dovrebbero spingere la società a non trascurare gli effetti che una guerra può comportare: il dolore e il trauma vissuto da questi innocenti porta ferite incancellabili nelle loro anime. Sovente, si pensa erroneamente che i bambini non ricordino, non capiscano e non recepiscano cosa sia una guerra e

Siria, 2015

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cosa questa provochi, invece i conflitti armati vanno proprio ad amplificare le sofferenze delle fasce più deboli della popolazione, a partire dall’infanzia. La guerra produce effetti invisibili, che non sono meno gravi delle privazioni materiali: i bambini, soprattutto i più piccoli, percepiscono l’insicurezza e la paura degli adulti, intuiscono anche che non potranno essere adeguatamente protetti da loro e sviluppano, per tale ragione, diverse ansie e fobie. Avviene una sintonizzazione emotiva tra genitori e figli, che comporta una spirale di paura dalla quale è difficile uscire perché le uniche vie di fuga sono le relazioni familiari e sociali, a loro volta traumatizzate e compromesse.

Vietnam, 1972

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Assistere a un bombardamento, fuggire in preda al panico, vedere azioni violente a danno dei propri familiari, essere testimoni dell’uccisione di un genitore, provare fame e dolore, tutte queste esperienze drammatiche aprono ferite indelebili nella psiche di un bambino, difficili da rimarginarsi. Alcune guerre durano così a lungo da cancellare qualsiasi traccia di normalità nella vita familiare e comunitaria. La popolazione civile vive in un clima di continua incertezza e tensione, perché si passa da periodi di tregua apparente a scontri improvvisi. Questi bambini provano sentimenti contrastanti, sia nei confronti dei loro genitori sia della società e del mondo. Provano un conflitto nel conflitto: si sentono traditi dai loro genitori, perché non sono in grado di proteggerli dai pericoli e di soddisfare i loro bisogni. A questo tradimento si associa la conseguente


perdita di fiducia verso le persone autorevoli ed importanti della loro comunità e del loro paese. La loro visione del mondo si frantuma, si sentono spaesati e senza riferimenti e tutto questo va ad inficiare su un sano e armonioso sviluppo mentale ed emotivo e sulla costruzione della propria personalità. I bambini sopravvissuti presentano le caratteristiche del disturbo post-traumatico da stress: depressione, angoscia, apatia, crisi di pianto, tachicardia, disturbi del sonno, aggressività, irritabilità, stato di confusione, difficoltà a concentrarsi. E possono anche arrivare al suicidio, poiché si sentono in colpa per essere sopravvissuti. Il trauma che vivono si sviluppa in un modo subdolo: gli avvenimenti di cui sono stati spettatori impotenti vengono immagazzinati nella memoria e si trasformano in tensione e ansia; ma

Varsavia, 1943

possono ritornare in mente sotto forma di ricordi, odori, rumori, in maniera improvvisa e vivida, tanto da riaffiorare periodicamente e per tutta la loro esistenza. L’impatto è immediato e rischia di interferire sulle loro capacità di apprendere, provare emozioni, relazionarsi e comunicare. Gli effetti della guerra sui bambini sono profondamente preoccupanti. L’infanzia dovrebbe essere sempre protetta e vissuta in piena libertà, senza costrizioni e senza difficoltà, ma in un contesto simile i diritti dei minori vengono calpestati, a favore di interessi biechi e poco comprensibili.

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Un buon intervento in una situazione di emergenza, come un conflitto armato, deve rivolgere, dunque, particolare attenzione a questa fascia di popolazione, e deve prevedere azioni, sia nel breve che nel lungo periodo, che permettano al minore di trovare dentro di sé e con il supporto di professionisti le risorse necessarie a ricostruire la propria identità, ad essere forte, a combattere le proprie paure, a trasformare l’esperienza traumatica in resilienza.

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Ma tutto questo non è semplice e non avviene in poco tempo. Bisogna utilizzare modelli e strumenti operativi di intervento psicologico non invasivi sia durante la fase di emergenza che post-emergenza. L’intervento per definirsi completo ed efficiente non dovrà coinvolgere solo i minori, ma tutti i soggetti a rischio, inclusa la comunità intera. Solo così si tenterà di tutelare queste povere vittime innocenti della guerra.


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LA GUERRA VISTA DA UN’ALTRA ANGOLAZIONE I disagi e i drammi delle persone con disabilità nei luoghi sotto assedio

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Gli occhi del mondo sono puntati sulle zone di guerra. Luoghi divenuti spettrali come set di film dimenticati, nei quali solo polvere alzata dal vento si muove. Quando ci soffermiamo un momento in mezzo ad una strada e ci guardiamo attorno, sembra tutto fermo, silenzioso, immobile. Aleppo sembra una città dove non esiste più anima viva, solo ricordi, ombre e fantasmi senza quiete vagano. Macerie ricoprono le strade irriconoscibili di quella Siria che da cinque anni è in guerra. Palazzi sventrati, macerie e calcinacci ricoprono le vie che non hanno più un nome. I superstiti sono come spiriti dell’oltretomba, che camminano alla ricerca di qualcosa che possa loro servire, noncuranti del sangue che inevitabilmente si vede dovunque. Più di 250mila sono i morti e gli sfollati hanno superato i sei milioni. Tra queste persone c’è un mini-mondo invisibile, così si potrebbe definirlo, quello dei disabili, divenuti tali per la guerra o già così prima che il Paese venisse distrutto. Quanti si soffermano a pensare a loro, alle loro esigenze, ai loro bisogni? Non vengono neppure menzionati. Un popolo che non esiste quasi per nessuno, perché troppo scomodo in una situazione apocalittica come quella. Stiamo parlando delle persone malate, dei disabili e sono uomini, donne, bambini che più di altri risentono della mancanza di tutto. La convenzione ONU (Organizzazione delle Nazioni Unite) nata

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Un disabile che si trova a vivere sotto i bombardamenti perde ogni dignità. I suoi stessi concittadini lo lasciano indietro privandolo di quei pochi beni che aveva e anche la possibilità di sopravvivere con gli aiuti umanitari, dato che cercano di portarglieli via. Avete mai pensato come può andare avanti, mantenersi in vita, un disabile in una città che è stata bombardata? Immaginate per esempio di stare su una sedia a rotelle e di dover attraversare una strada che è piena di macerie, calcinacci The Cripples, Pieter Bruegel, 1568 e magari si è all’imbrunire. Se è già nel 1945 ha stabilito che bisogna tutelare i complicato farlo quando un passaggio è diritti di tutte le persone, comprese quindi libero in pieno giorno, figuratesi in una situazione simile. Diventa impossibile. quelle con disabilità. Per questo motivo occorre raggiungere le Prendiamo il caso di un non vedente. persone con grandi difficoltà di movimento, con problemi intellettuali, anziani, e aiutarli poiché loro sono i più deboli, quelli che hanno maggiori problemi rispetto al resto della popolazione. Incredibilmente a causa della loro condizione capita sovente che, invece di essere i primi ad avere i sostentamenti, siano esclusi da alcuni benefici e servizi di cui altri abitualmente, invece godono. Questo è incredibile, ma drammaticamente vero.

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La sua esistenza gira attorno alla sicurezza dei gesti quotidiani, ma se l’ambiente attorno a lui cambia di continuo a causa dei crolli, come potrà mai orientarsi? Dove andranno a nascondersi? Ecco alcune piccole ma esplicative realtà della vita di un disabile in una città sotto assedio. Quali sono le loro necessità? Di tutto, più di quello che si pensa. Intanto i medicinali che scarseggiano e che per molti sono fonte di vita. Per colpa dei conflitti, una delle prime cause di disabilità è dovuta dallo scoppio di mine che comporta amputazioni. Pertanto l’assistenza medica è necessaria in questi casi, e sicuramente al primo posto ci sono i dispositivi protesici che devono essere forniti attraverso sistemi e programmi direttamente ai beneficiari. Servono la fisioterapia, centri per la riabilitazione, apparecchi acustici, occhiali e sedie a rotelle. Nelle regioni colpite dai conflitti le cure sanitarie invece diventano difficili e solo attraverso gli aiuti umanitari si può fare qualcosa. La malattia più grave che si diffonde a macchia d’olio è l’indifferenza. Un cancro che colpisce dall’interno coloro che non

Campo profughi e bombardamenti

vogliono vedere e che potrebbero fare tanto. Un disabile è e resterà sempre una persona che ha tutti i diritti e come tale dev’essere sostenuta e aiutata, non un peso per la società. La guerra colpisce le città e può ferire i nostri corpi, ma ricordiamoci che possediamo un cuore e dobbiamo saperlo usare per il bene dell’umanità.

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