Dormiremo da vecchi

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Š Chiarelettere editore srl Soci: Gruppo editoriale Mauri Spagnol S.p.A. Lorenzo Fazio (direttore editoriale) Sandro Parenzo Guido Roberto Vitale (con Paolonia Immobiliare S.p.A.) Sede: via Guerrazzi 9, 20145 Milano isbn

978-88-6190-791-1

Prima edizione: ottobre 2015 www.chiarelettere.it / interviste / libri in uscita

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Pino Corrias

Dormiremo da vecchi

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A Gi Bi che non c’è più


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Questa è un’opera di finzione. Fatti, personaggi, luoghi e situazioni reali entrano in questo romanzo esclusivamente al servizio della logica narrativa.


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«Vuoi un amico? Prenditi un cane.» Gordon Gekko in Wall Street «La dolce vita non era dolce, era orrenda.» Dino Risi


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Prima parte

Dolceroma


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Cenere

Prima della cenere, prima delle fiamme, era una tiepida sera romana come tante ne sbocciano a giugno sopra i cristalli residenziali del Giardino degli Aranci, tra le magnolie in fiore e le Bentley metallizzate dell’Aventino. E questa storia conteneva un’infinità di colori. Tanti quanti ne avevano i tappeti stesi lungo il salone d’entrata della palazzina – ultima sulla salita, con volumi e archi in liberty fiorito – tessuti con tecnica suf a Kashan e Tabriz. Tutti andati in fumo come gli arazzi delle Fiandre disposti ai piedi delle scalinate che salivano a spirale, e le passatoie Shirvan dei corridoi e le installazioni di arte contemporanea che arredavano ogni spazio, bagni compresi. Tutto divorato dalle fiamme e ridotto in cenere, addio. Tutto sbriciolato, raffreddato e impastato con le schiume ritardanti sversate dai pompieri e trasformato in una distesa monocroma di grigio tendente al bianco come il quadro più celebre della collezione appena perduta, un Achrome di Piero Manzoni, famoso per tre sorprendenti ragioni. Uno: essere stato valutato quasi due milioni di euro. Due: rappresentare la sintesi indecifrabile del suo proprietario. Tre: suggerire in chi guarda, oltre all’ammirazione per l’opera e per il suo possessore, anche la conturbante possibilità che almeno uno dei due sia sontuosamente falso.


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Tutto quello che precede l’incendio appartiene a Oscar Martello, produttore milionario d’alta risonanza cinematografica e di basse narrazioni televisive, timorato di Dio per interesse, e titolare della Incudine Film per vocazione. Che quando entra in scena con le mani in tasca fa lo stesso effetto del quadro di Manzoni: quello di una solida ricchezza e di un’altamente valutata solitudine. Cose che al primo sguardo mandano bagliori di speranza a registi affamati, sceneggiatori senza idee, attori e attrici instabili; al secondo seducono fino all’ipnosi e in quelli successivi incorporano. Ma incorporando riducono le funzioni dell’incorporato a una soltanto, l’obbedienza. E a una gratitudine pelosa che a lui, il grande Oscar Martello, facilita la digestione, mai priva di un po’ di disgusto, proprio come gli capita con il riflusso dei succhi gastrici, quando per ragioni psicosomatiche anziché stare al loro posto a macinare ostriche e champagne gli fanno visita in gola. Forzandogli, in automatico, un piccolo sputo senza saliva. La mimesi di uno sputo, se Oscar sapesse cosa vuol dire «mimesi». La sequenza di incorporazioni ed espulsioni va accelerando da quando Oscar Martello, di successo in successo, di benedizione in benedizione, si è preso una bella fetta delle casse di Dolceroma, su cui pattina con nessuna interferenza sentimentale se non il nero risentimento per la sua famiglia di origine, così povera da provarne ancora oggi vergogna, rabbia e un’insofferenza che tanto tempo fa, da Serravalle Scrivia, lo ha messo in moto verso il mondo che voleva addentare. Il mondo dei soldi e del cinema. Il mondo di Helga e delle donne leopardo in conto spese. Il mondo delle storie, dove l’anima del racconto non è mai negli intrecci, ma nei personaggi. Maneggiando i quali si può maneggiare il pubblico che li guarda incantato – medici, medichesse, commissari di polizia, professoresse racchie ma buone, ganzi destinati alla perdizione, madri coraggio, preti, santi


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Dolceroma

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imbroglioni, santi sanguinari, e persino papi, tutti finalizzati al bene comune dell’ascolto che poi coincide con il bene privato, e riservatamente contabilizzato, di Oscar Martello. Oscar Martello è il primo personaggio di questa storia. Ha quarantasei anni, una moglie tagliente come una scheggia di vetro, però bellissima, Helga, argentina di Buenos Aires, due figlie piccole, Cleo e Zoe, tre anni una, cinque l’altra, per le quali prova una commozione automatica ogni volta che le guarda con la voglia di tenerle tra le braccia per proteggerle dai chiodi del mondo. Ma poi si scorda di loro, non ha tempo, non ha pazienza, e le affida a tate sterilizzate e a giochi costosi perché ha sempre altro di urgentissimo da fare di solito: piantare chiodi nel mondo. Oscar ha la faccia da bandito, scavata dall’insonnia. Vive di corsa, pensa di corsa. Come tutti i ricchi sfondati è infelice specialmente di notte, quando arrivano le ombre, volando. E poi all’alba, quando si ritrova sveglio e solo. Di giorno è uno che va dritto anche quando ci sono le curve. Non ha mai letto un libro per intero, ma conosce gli uomini, conosce le donne, e li paga entrambi, anche se per ragioni diverse. Quando chiude gli occhi inventa storie. Quando li riapre le fa scrivere. Con le storie fa i soldi. Con i soldi fa una vita sontuosa, compra case a Roma e nel mondo, l’ultima sul Canal Grande a Venezia («Ma non porterà sfiga? Chiamami un prete e falla benedire, cazzo»). Compra azioni in Borsa tramite broker («Voglio diecimila Pfizer entro oggi, trovamele!») e opere di artisti contemporanei, purché carissime e alla moda. Ha tre Jaguar parcheggiate nei box, tre filippini per casa che chiama tutti Sasà («Non sono razzista, è solo che non li distinguo») e nove coltelli Masamoto in acciaio al carbonio per la preparazione del pesce. Si considera il re dei pesci e delle storie. Ha un’infinita sequenza di peccati privati che nasconde con una lussuosa devozione


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pubblica e che bilancia con ricche offerte ai forzieri pagani del Vaticano. Da qualche parte, dentro un suo doppio fondo mentale, crede davvero che esista il paradiso. Da tempo se n’è annesso un pezzo con vista panoramica, come fosse un atto dovuto alla sua prepotenza, ma intanto tratta sul prezzo al metro quadro con il Padreterno e ruba tutto quello che può sulle spese. Ruba per sé e per il suo sogno in terra: diventare il numero uno dei produttori italiani e, udite udite, comprarsi la più strabiliante e pomposa fabbrica di tutti i sogni, i quaranta ettari di Cinecittà, la scatola d’aria dove Maciste, Totò e Federico Fellini hanno inventato il mondo e dove almeno due dozzine di dive – da Isa Miranda a Sofia Loren – lo hanno fatto innamorare. Cinecittà, la fabbrica di tutte le storie, i ventidue teatri di posa andati in malora un pezzo per volta, compresi i viali che con i loro pini marittimi un tempo sapevano di mare, di lontananza, di avventura, mentre ora sanno solo di aria inquinata e traffico che assedia il grande dormitorio del Tuscolano. Cinecittà Oscar Martello vorrebbe risvegliarla come la Bella Addormentata della fiaba, usando i milioni di euro, non i baci, per poi scoparsela di sopra e di sotto, fecondarla di grandi film, di grandi incassi, farla nuovamente vibrare di luce propria, purché riflessa sulla sua. Oscar Martello è un estroverso. E gli estroversi in genere alzano un sacco di polvere per nascondercisi dentro. Andrea Serrano è il secondo personaggio di questa storia. Ha trentanove anni, vive e cammina da solo, salvo brevi avventure sentimentali. Ha il fisico ancora asciutto, gli occhi veloci. Eppure ha l’aria di uno che pensa lento dietro alle comete, specie quando sta seduto, con il gomito puntato sul bracciolo e il viso appoggiato tra il pollice e l’indice, più l’anulare sdraiato sulle labbra. Per vivere scrive sceneggiature di media intensità e destinate a un medio pubblico che immagina stando seduto


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in quel modo. Qualche volta viene distratto dalla improvvisa, dolorosa, rivelazione del tempo che passa, senza mai lasciarsi dietro qualcosa che assomigli a una spiegazione. D’abitudine questa rivelazione lo induce a indossare la sua speciale Espressione Operativa Neutra che lo tiene distante dalle battaglie, troppo concrete o troppo rischiose, della vita. Lui la chiama eleganza, ma sotto sotto sospetta si tratti di banale vigliaccheria. È un timido. E i timidi, se messi con le spalle al muro, possono diventare pericolosi. Jacaranda Rizzi, l’attrice, è il punto di partenza. E poi anche di arrivo. Ha trentadue anni ma potresti dargliene ventidue per quanto sa di pesca o fiore appena colto. Viene da una nuvola, sta su una nuvola: la sua nuvola digitale contiene centinaia di fotografie, più alcune memorabili scene dei film che ha interpretato. Per esempio una in cui si tuffa da una barca in alto mare, dicendo: «Vado via». Un’altra in cui piange abbracciando un bambino ammalato. E una in cui si spoglia – ma non del tutto – per poi lasciarsi andare all’indietro sul divano, divaricare le gambe davanti all’uomo che la sta fissando e dirgli in un soffio: «è così che mi vuoi?». Per colpa del suo cuoricino bipolare e per la quantità di pillole che inghiotte, la sua bellezza di occhi color miele, capelli biondi, lentiggini rosa, contiene un’ombra che una volta ha provato a tagliare con le lamette. Ma quell’ombra le resiste accanto. Stavolta Jacaranda si sta preparando alla vendetta, convinta che ne uscirà vincente o almeno indenne. Libera finalmente dai cattivi fantasmi che le visitano il sonno e dalle vertigini che le assediano i risvegli. Ma i fantasmi e le vertigini vengono da molto lontano, sono nemici ostinati, sono cacciatori che corrono senza mai stancarsi. Lei è la preda. E Oscar Martello la via d’uscita. Il come e il quando sono nella prima scena.


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