Shock economy

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EDITORIALE DI ADOLFO URSO

w w w. f a r e f u t u r of o n d a zi o n e . i t

Presidente

Adolfo URSO

urso@ farefuturofondazione.it

Artoni, Baldassarri, Bassanini, Cazzola, Forte, Giannino, Ichino, Martino, Monorchio, Pennisi, Pasca Di Magliano, Rossi, Todini, Versace, Urso

SHOCK ECONOMY

Farefuturo è una fondazione di cultura politica, studi e analisi sociali che si pone l’obiettivo di promuovere la cultura delle libertà e dei valori dell’Occidente e far emergere una nuova classe dirigente adeguata a governare le sfide della modernità e della globalizzazione. Essa intende accrescere la consapevolezza del patrimonio comune, di cultura, arte, storia e ambiente, con una visione dinamica dell’identità nazionale, dello sviluppo sostenibile e dei nuovi diritti civili, sociali e ambientali e, in tal senso, sviluppare la cultura della responsabilità e del merito a ogni livello. Farefuturo si propone di fornire strumenti e analisi culturali alle forze del centrodestra italiano in una logica bipolare al fine di rafforzare la democrazia dell’alternanza, nel quadro di una visione europea, mediterranea e occidentale. Essa intende operare in sinergia con le altre analoghe fondazioni internazionali, per rafforzare la comune idea d’Europa, contribuire al suo processo di integrazione, affermare una nuova e vitale visione dell’Occidente. La Fondazione opera in Roma, Palazzo Serlupi Crescenzi, via del Seminario 113. Èun’organizzazione aperta al contributo di tutti e si avvale dell’opera tecnico-scientifica e dell’esperienza sociale e professionale del Comitato promotore e del Comitato scientifico. Il Comitato dei benemeriti e l’Albo dei sostenitori sono composti da coloro che ne finanziano l’attività con donazioni private.

a 150 anni dall’Unità

Presidente onorario

Gianfranco FINI

fini@ futurofondazione.it

Segretario amministrativo

Rosario CANCILA

cancila@farefuturofondazione.it

Consiglio dei revisori Gianluca BRANCADORO, Giovanni LANZILLOTTA, Giuseppe PUTTINI

Direttore editoriale Emiliano MASSIMINI

eichberg@farefuturofondazione.it

massimini@farefuturofondazione.it

Segreteria organizzativa fondazione Farefuturo Via del Seminario 113, 00186 Roma - tel. 06 40044130 - fax 06 40044132 info@farefuturofondazione.it

www.farefuturofondazione.it

Nuova serie Anno VI - Numero 5- novembre/dicembre 2011

Direttore relazioni internazionali Federico EICHBERG

Poste italiane S.p.a. - Spedizione in abbonamento postale - 70% /Roma/Aut. N° 140/2009

Consiglio di fondazione Rosario CANCILA, Mario CIAMPI, Emilio CREMONA, Federico EICHBERG, Ferruccio FERRANTI, Gianfranco FINI, Giancarlo LANNA, Emiliano MASSIMINI, Giancarlo ONGIS, Pietro PICCINETTI, Pierluigi SCIBETTA, Adolfo URSO

shock economy Bimestrale della Fondazione Farefuturo Nuova serie anno VI - n. 5 - novembre/dicembre 2011 - Euro 12 Direttore Adolfo Urso

Berlusconi faccia il primo passo L’anno dell’Unità d’Italia rischia di concludersi nel peggiore dei modi. Con un braccio di ferro sul nome di Berlusconi che rischia di paralizzare Parlamento e Paese proprio mentre occorrerebbe fare subito e di più e se possibile insieme. Riforme radicali e necessarie sulla scia di quanto ci chiede l’Europa e necessita all’Italia, in uno spirito di coesione nazionale, come auspica il Presidente della Repubblica. L’opposizione dice: prima Berlusconi vada a casa, poi collaboriamo. Il governo ribatte: prima facciamo, poi semmai votiamo. Così, l’Italia rischia grosso, troppo. E non possiamo permettercelo. Siamo nel vicolo cieco dei rancori e degli egoismi, in una spirale di impotenza a fronte di una situazione generale che s’aggrava sempre più, con un’Europa politica e monetaria che sembra in balia dei mercati, aggrappata alla speranza che la Cina investa sull’euro comprando il nostro debito come ha fatto sinora con il dollaro e il debito americano. L’Italia dopo la Grecia, in molti temono e alcuni sperano, soprattutto dentro i nostri confini. Ovunque prevale, la politica del “tanto peggio, tanto meglio”, sia in chi vuole resistere contro ogni ragione, sia in chi vuole prevalere senza una proposta. Noi pensiamo, invece, che occorre fornire ragioni perché prevalga la ragione. E siamo certi che chi faNon possiamo sperare rà il primo passo per sbloccare l’impasse che la Cina investa sarà davvero colui che vincerà agli occhi sull’Euro come ha fatto della storia. Silvio Berlusconi può farlo e on gli Stati Uniti noi gli chiediamo di farlo. La lettera di intenti che ha presentato in Europa e che ha ricevuto il bollino di qualità dell’Europa politica e di quella monetaria può essere la base di un programma comune, liberale e ambizioso come necessario, radicale e riformatore come doveroso. La maggioranza si mostri disponibile e l’opposizione non si chiuda a riccio. Si può migliorare l’agenda, rendendola più cogente e condivisibile, con altre necessarie misure per abbattere il debito pubblico e per innescare davvero lo sviluppo, sulla stessa linea del rigore e del cambiamento. Non c’è più tempo da perdere. Nell’anno che si chiude dobbiamo collocare in borsa altri 50 miliardi di titoli di Stato in condizioni sempre più difficili, il prossimo anno oltre 280 miliardi. Nessuno può farcela senza una svolta netta e una generale assunzione di responsabilità. L’uragano finanziario punta sull’Italia, fronte debole dell’euro, dobbiamo rispondere uniti più che mai. Se non ora, quando?


SOMMARIO

APPUNTAMENTI

NUOVA SERIE ANNO VI - NUMERO 5 -NOVEMBRE/DICEMBRE 2011

A CURA DI BRUNO TIOZZO w w w. f a r e f u t u r of o n d a z i o n e . i t

Shock economy Berlusconi faccia il primo passo ADOLFO URSO - EDITORIALE

Ecco perché la germania corre (e noi no) - 124 UMBERTO GUIDONI ed ELEONORA SCARSELLA

Riforme per la crescita, un problema ineludibile - 2 GIUSEPPE PENNISI

Centocinquant’anni di debito pubblico - 136 MATTEO LARUFFA

Ultima chance per le liberalizzazioni - 22 INTERVISTA ad ANTONIO MARTINO di Cecilia Moretti

A chi interessa la famiglia? - 152 MICHELE TRABUCCO

La flessibilità sul lavoro potrà rilanciare il paese e l’occupazione - 28 INTERVISTA a PIETRO ICHINO di Antonio Rapisarda

La “Repubblica dei mediocri” penalizza i giovani - 160 ANGELICA STRAMAZZI

Basta con Tolomeo, ora serve Copernico - 36 MARIO BALDASSARRI

Salviamo il Mezzogiorno per far crescere l’Italia - 168 ROBERTO PASCA DI MAGLIANO

FAREITALIA È arrivato il momento di liberalizzare l’Italia - 48 INTERVISTA a OSCAR GIANNINO di Giovanni Basini Lavoro: per una cultura della flessibilità - 60 GIULIANO CAZZOLA Questa è ancora l’Italia dei principi e dei gabellieri - 68 INTERVISTA a NICOLA ROSSI di Pietro Urso Per uno Stato credibile agli occhi dei mercati - 74 GIOVANNI BASINI Non solo deficit - 82 FRANCESCO FORTE Per una politica della concorrenza - 90 INTERVISTA a LUISA TODINI di Rosalinda Cappello Uno slogan per tutti, meritocrazia - 96 SANTO VERSACE

VARNA

The Fed: Hero, Villain or Both? Dibattito dell’American Enterprise Institute sulle responsabilità del Federal Reserve, la banca centrale Usa, nella crisi finanziaria. Mercoledì 16 novembre

Regional Cooperation in the Black Sea Basin Seminario internazionale della Konrad Adenauer Stiftung sulle politiche e i finanziamenti dell’Ue per incentivare la cooperazione regionale intorno al Mar Nero. Interviene il ministro degli Esteri bulgaro Nikolay Mladenov. Lunedì 21 - mercoled’ 23 novembre

BERLINO Der Raub der Europa? “Il furto dell’Europa?” è l’argomento su cui il ministro degli Esteri Franco Frattini interviene presso la Konrad Adenauer Stiftung, insieme all’ex Presidente del Parlamento europeo (e presidente della fondazione) HansGert Pöttering. L’intenzione della Kas è di aumentare la comprensione tra due importanti Stati membri dell’Ue per affrontare insieme la crisi. Giovedì 17 novembre

Is it time for a slimmed down Civil Service? Il think tank Policy Exchange convoca degli esponenti politici bipartisan ed esperti nel settore per un confronto sulle proposte del governo Cameron per una riforma della pubblica amministrazione del Regno Unito. Giovedì 24 novembre

SIMY VALLEY

BERLINO

LONDRA

Le proposte dell’associazione - 204

STRUMENTI Documenti - 218 PROGETTO DELLE IMPRESE PER L’ITALIA, LETTERA DELLA BCE AL GOVERNO ITALIANO, MANIFESTO T-PARTY PD, MANIFESTO PER LA BUONA POLITICA E IL BENE COMUNE

MINUTA Niccolai, il ghibellino pisano - 244 ROBERTO ALFATTI APPETITI E poi la chiamano Unità d’Italia - 250 ANGELICA STRAMAZZI

Riformare i servizi pubblici, nonostante il referendum - 104 FRANCO BASSANINI

RUBRICHE

La patrimoniale? Un sacrificio per la comunità - 112 INTERVISTA ad ANNA MARIA ARTONI di Rosalinda Cappello

AFRICA FELIX Il vino del Sudafrica è femmina - 258 MICHELE TRABUCCO

Le pensioni pesano troppo sul bilancio dello Stato - 116 INTERVISTA ad ANDREA MONORCHIO di Matteo Laruffa

WASHINGTON

LAND OF THE FREE Una stanca America va verso il voto - 260 GIAMPIERO RICCI

No higher honor: Lecture and book signing with Condoleezza Rice L’ex Segretario di Stato Condoleezza Rice presenta il suo libro “No higher honor” sulla propria esperienza governativa presso la Ronald Reagan Presidential Foundation. Venerdì 18 novembre

Digitale Kultur und Demokratie Conferenza della Konrad Adenauer Stiftung sulle conseguenze della digitalizzazione per la democrazia. Intervengono il Presidente della fondazione, Hans-Gert Pöttering e il ministro dell’Interno, Hans-Peter Friedrich. Mercoledì 30 novembre

Direttore Adolfo Urso urso@farefuturofondazione.it Direttore responsabile Pietro Urso direttorecharta@gmail.com In redazione Domenico Naso naso@chartaminuta.it Collaboratori: Roberto Alfatti Appetiti, Rodolfo Bastianelli, Simona Bottoni, Simona Bonfante, Rosalinda Cappello, Piercamillo Falasca, Silvia Grassi, Giuseppe Mancini, Cecilia Moretti, Alessandro Mulieri, Giuseppe Pennisi, Paolo Quercia, Giampiero Ricci, Biancamaria Sacchetti, Adriano Scianca, Lucio Scudiero, Angelica Stramazzi, Bruno Tiozzo, Michele Trabucco, Caterina Zanirato. Direzione e redazione Via del Seminario, 113 - 00186 Roma Tel. 06/40044130 - Fax 06/40044132 E-mail: redazione@chartaminuta.it Segreteria di redazione redazione@chartaminuta.it Grafica ed impaginazione Giuseppe Proia Editrice Charta s.r.l. Abbonamento annuale € 60, sostenitore da € 200 Versamento su c.c. bancario , Iban IT88X0300205066000400800776 intestato a Editrice Charta s.r.l. C.c. postale n. 73270258 Registrazione Tribunale di Roma N. 419/06

PARIGI 2eme Forum des think tanks 23 think-tanks francesi di diversi orientamenti politici si ritrovano alla Sorbona, cinque mesi prima delle elezioni presidenziali, per una giornata di confronto sulle principali sfide della società francese. Sabato 19 novembre

Amministratore unico Silvia Rossi Tipografia Tipografica-Artigiana s.r.l. - Roma Ufficio abbonamenti Domenico Sacco

www.chartaminuta.it


SOMMARIO

APPUNTAMENTI

NUOVA SERIE ANNO VI - NUMERO 5 -NOVEMBRE/DICEMBRE 2011

A CURA DI BRUNO TIOZZO w w w. f a r e f u t u r of o n d a z i o n e . i t

Shock economy Berlusconi faccia il primo passo ADOLFO URSO - EDITORIALE

Ecco perché la germania corre (e noi no) - 124 UMBERTO GUIDONI ed ELEONORA SCARSELLA

Riforme per la crescita, un problema ineludibile - 2 GIUSEPPE PENNISI

Centocinquant’anni di debito pubblico - 136 MATTEO LARUFFA

Ultima chance per le liberalizzazioni - 22 INTERVISTA ad ANTONIO MARTINO di Cecilia Moretti

A chi interessa la famiglia? - 152 MICHELE TRABUCCO

La flessibilità sul lavoro potrà rilanciare il paese e l’occupazione - 28 INTERVISTA a PIETRO ICHINO di Antonio Rapisarda

La “Repubblica dei mediocri” penalizza i giovani - 160 ANGELICA STRAMAZZI

Basta con Tolomeo, ora serve Copernico - 36 MARIO BALDASSARRI

Salviamo il Mezzogiorno per far crescere l’Italia - 168 ROBERTO PASCA DI MAGLIANO

FAREITALIA È arrivato il momento di liberalizzare l’Italia - 48 INTERVISTA a OSCAR GIANNINO di Giovanni Basini Lavoro: per una cultura della flessibilità - 60 GIULIANO CAZZOLA Questa è ancora l’Italia dei principi e dei gabellieri - 68 INTERVISTA a NICOLA ROSSI di Pietro Urso Per uno Stato credibile agli occhi dei mercati - 74 GIOVANNI BASINI Non solo deficit - 82 FRANCESCO FORTE Per una politica della concorrenza - 90 INTERVISTA a LUISA TODINI di Rosalinda Cappello Uno slogan per tutti, meritocrazia - 96 SANTO VERSACE

VARNA

The Fed: Hero, Villain or Both? Dibattito dell’American Enterprise Institute sulle responsabilità del Federal Reserve, la banca centrale Usa, nella crisi finanziaria. Mercoledì 16 novembre

Regional Cooperation in the Black Sea Basin Seminario internazionale della Konrad Adenauer Stiftung sulle politiche e i finanziamenti dell’Ue per incentivare la cooperazione regionale intorno al Mar Nero. Interviene il ministro degli Esteri bulgaro Nikolay Mladenov. Lunedì 21 - mercoled’ 23 novembre

BERLINO Der Raub der Europa? “Il furto dell’Europa?” è l’argomento su cui il ministro degli Esteri Franco Frattini interviene presso la Konrad Adenauer Stiftung, insieme all’ex Presidente del Parlamento europeo (e presidente della fondazione) HansGert Pöttering. L’intenzione della Kas è di aumentare la comprensione tra due importanti Stati membri dell’Ue per affrontare insieme la crisi. Giovedì 17 novembre

Is it time for a slimmed down Civil Service? Il think tank Policy Exchange convoca degli esponenti politici bipartisan ed esperti nel settore per un confronto sulle proposte del governo Cameron per una riforma della pubblica amministrazione del Regno Unito. Giovedì 24 novembre

SIMY VALLEY

BERLINO

LONDRA

Le proposte dell’associazione - 204

STRUMENTI Documenti - 218 PROGETTO DELLE IMPRESE PER L’ITALIA, LETTERA DELLA BCE AL GOVERNO ITALIANO, MANIFESTO T-PARTY PD, MANIFESTO PER LA BUONA POLITICA E IL BENE COMUNE

MINUTA Niccolai, il ghibellino pisano - 244 ROBERTO ALFATTI APPETITI E poi la chiamano Unità d’Italia - 250 ANGELICA STRAMAZZI

Riformare i servizi pubblici, nonostante il referendum - 104 FRANCO BASSANINI

RUBRICHE

La patrimoniale? Un sacrificio per la comunità - 112 INTERVISTA ad ANNA MARIA ARTONI di Rosalinda Cappello

AFRICA FELIX Il vino del Sudafrica è femmina - 258 MICHELE TRABUCCO

Le pensioni pesano troppo sul bilancio dello Stato - 116 INTERVISTA ad ANDREA MONORCHIO di Matteo Laruffa

WASHINGTON

LAND OF THE FREE Una stanca America va verso il voto - 260 GIAMPIERO RICCI

No higher honor: Lecture and book signing with Condoleezza Rice L’ex Segretario di Stato Condoleezza Rice presenta il suo libro “No higher honor” sulla propria esperienza governativa presso la Ronald Reagan Presidential Foundation. Venerdì 18 novembre

Digitale Kultur und Demokratie Conferenza della Konrad Adenauer Stiftung sulle conseguenze della digitalizzazione per la democrazia. Intervengono il Presidente della fondazione, Hans-Gert Pöttering e il ministro dell’Interno, Hans-Peter Friedrich. Mercoledì 30 novembre

Direttore Adolfo Urso urso@farefuturofondazione.it Direttore responsabile Pietro Urso direttorecharta@gmail.com In redazione Domenico Naso naso@chartaminuta.it Collaboratori: Roberto Alfatti Appetiti, Rodolfo Bastianelli, Simona Bottoni, Simona Bonfante, Rosalinda Cappello, Piercamillo Falasca, Silvia Grassi, Giuseppe Mancini, Cecilia Moretti, Alessandro Mulieri, Giuseppe Pennisi, Paolo Quercia, Giampiero Ricci, Biancamaria Sacchetti, Adriano Scianca, Lucio Scudiero, Angelica Stramazzi, Bruno Tiozzo, Michele Trabucco, Caterina Zanirato. Direzione e redazione Via del Seminario, 113 - 00186 Roma Tel. 06/40044130 - Fax 06/40044132 E-mail: redazione@chartaminuta.it Segreteria di redazione redazione@chartaminuta.it Grafica ed impaginazione Giuseppe Proia Editrice Charta s.r.l. Abbonamento annuale € 60, sostenitore da € 200 Versamento su c.c. bancario , Iban IT88X0300205066000400800776 intestato a Editrice Charta s.r.l. C.c. postale n. 73270258 Registrazione Tribunale di Roma N. 419/06

PARIGI 2eme Forum des think tanks 23 think-tanks francesi di diversi orientamenti politici si ritrovano alla Sorbona, cinque mesi prima delle elezioni presidenziali, per una giornata di confronto sulle principali sfide della società francese. Sabato 19 novembre

Amministratore unico Silvia Rossi Tipografia Tipografica-Artigiana s.r.l. - Roma Ufficio abbonamenti Domenico Sacco

www.chartaminuta.it


EDITORIALE DI ADOLFO URSO

w w w. f a r e f u t u r of o n d a zi o n e . i t

Presidente

Adolfo URSO

urso@ farefuturofondazione.it

Artoni, Baldassarri, Bassanini, Cazzola, Forte, Giannino, Ichino, Martino, Monorchio, Pennisi, Pasca Di Magliano, Rossi, Todini, Versace, Urso

SHOCK ECONOMY

Farefuturo è una fondazione di cultura politica, studi e analisi sociali che si pone l’obiettivo di promuovere la cultura delle libertà e dei valori dell’Occidente e far emergere una nuova classe dirigente adeguata a governare le sfide della modernità e della globalizzazione. Essa intende accrescere la consapevolezza del patrimonio comune, di cultura, arte, storia e ambiente, con una visione dinamica dell’identità nazionale, dello sviluppo sostenibile e dei nuovi diritti civili, sociali e ambientali e, in tal senso, sviluppare la cultura della responsabilità e del merito a ogni livello. Farefuturo si propone di fornire strumenti e analisi culturali alle forze del centrodestra italiano in una logica bipolare al fine di rafforzare la democrazia dell’alternanza, nel quadro di una visione europea, mediterranea e occidentale. Essa intende operare in sinergia con le altre analoghe fondazioni internazionali, per rafforzare la comune idea d’Europa, contribuire al suo processo di integrazione, affermare una nuova e vitale visione dell’Occidente. La Fondazione opera in Roma, Palazzo Serlupi Crescenzi, via del Seminario 113. Èun’organizzazione aperta al contributo di tutti e si avvale dell’opera tecnico-scientifica e dell’esperienza sociale e professionale del Comitato promotore e del Comitato scientifico. Il Comitato dei benemeriti e l’Albo dei sostenitori sono composti da coloro che ne finanziano l’attività con donazioni private.

a 150 anni dall’Unità

Presidente onorario

Gianfranco FINI

fini@ futurofondazione.it

Segretario amministrativo

Rosario CANCILA

cancila@farefuturofondazione.it

Consiglio dei revisori Gianluca BRANCADORO, Giovanni LANZILLOTTA, Giuseppe PUTTINI

Direttore editoriale Emiliano MASSIMINI

eichberg@farefuturofondazione.it

massimini@farefuturofondazione.it

Segreteria organizzativa fondazione Farefuturo Via del Seminario 113, 00186 Roma - tel. 06 40044130 - fax 06 40044132 info@farefuturofondazione.it

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Nuova serie Anno VI - Numero 5- novembre/dicembre 2011

Direttore relazioni internazionali Federico EICHBERG

Poste italiane S.p.a. - Spedizione in abbonamento postale - 70% /Roma/Aut. N° 140/2009

Consiglio di fondazione Rosario CANCILA, Mario CIAMPI, Emilio CREMONA, Federico EICHBERG, Ferruccio FERRANTI, Gianfranco FINI, Giancarlo LANNA, Emiliano MASSIMINI, Giancarlo ONGIS, Pietro PICCINETTI, Pierluigi SCIBETTA, Adolfo URSO

shock economy Bimestrale della Fondazione Farefuturo Nuova serie anno VI - n. 5 - novembre/dicembre 2011 - Euro 12 Direttore Adolfo Urso

Berlusconi faccia il primo passo L’anno dell’Unità d’Italia rischia di concludersi nel peggiore dei modi. Con un braccio di ferro sul nome di Berlusconi che rischia di paralizzare Parlamento e Paese proprio mentre occorrerebbe fare subito e di più e se possibile insieme. Riforme radicali e necessarie sulla scia di quanto ci chiede l’Europa e necessita all’Italia, in uno spirito di coesione nazionale, come auspica il Presidente della Repubblica. L’opposizione dice: prima Berlusconi vada a casa, poi collaboriamo. Il governo ribatte: prima facciamo, poi semmai votiamo. Così, l’Italia rischia grosso, troppo. E non possiamo permettercelo. Siamo nel vicolo cieco dei rancori e degli egoismi, in una spirale di impotenza a fronte di una situazione generale che s’aggrava sempre più, con un’Europa politica e monetaria che sembra in balia dei mercati, aggrappata alla speranza che la Cina investa sull’euro comprando il nostro debito come ha fatto sinora con il dollaro e il debito americano. L’Italia dopo la Grecia, in molti temono e alcuni sperano, soprattutto dentro i nostri confini. Ovunque prevale, la politica del “tanto peggio, tanto meglio”, sia in chi vuole resistere contro ogni ragione, sia in chi vuole prevalere senza una proposta. Noi pensiamo, invece, che occorre fornire ragioni perché prevalga la ragione. E siamo certi che chi faNon possiamo sperare rà il primo passo per sbloccare l’impasse che la Cina investa sarà davvero colui che vincerà agli occhi sull’Euro come ha fatto della storia. Silvio Berlusconi può farlo e on gli Stati Uniti noi gli chiediamo di farlo. La lettera di intenti che ha presentato in Europa e che ha ricevuto il bollino di qualità dell’Europa politica e di quella monetaria può essere la base di un programma comune, liberale e ambizioso come necessario, radicale e riformatore come doveroso. La maggioranza si mostri disponibile e l’opposizione non si chiuda a riccio. Si può migliorare l’agenda, rendendola più cogente e condivisibile, con altre necessarie misure per abbattere il debito pubblico e per innescare davvero lo sviluppo, sulla stessa linea del rigore e del cambiamento. Non c’è più tempo da perdere. Nell’anno che si chiude dobbiamo collocare in borsa altri 50 miliardi di titoli di Stato in condizioni sempre più difficili, il prossimo anno oltre 280 miliardi. Nessuno può farcela senza una svolta netta e una generale assunzione di responsabilità. L’uragano finanziario punta sull’Italia, fronte debole dell’euro, dobbiamo rispondere uniti più che mai. Se non ora, quando?


In questo fascicolo di Charta, autori di diverse collocazioni culturali e politiche convergono sulla necessità di agire subito e in modo radicale sul fronte delle riforme che è davvero la nostra linea del Piave. A centocinquant’anni dall’Unità, il nostro paese ha bisogno di una cura shock per reggere la sfida e poi riprendere a crescere. Una cura da cavallo tanto più impellente quanto troppo a lungo rinviata. Basta con i tatticismi e gli egoismi di bandiera, basta con Berlusconi ammetta pregiudizi e pregiudiziali, con manovrine e che per fare le riforme decretucci. Chi ha idee le metta in campo, ha bisogno anche nulla deve spaventarci se non il non far nuldelle opposizioni la. Ragioniamo senza paraocchi e senza ideologie, con l’unica bussola dell’interesse generale. A quell’agenda, già importante, si possono aggiungere altre misure sui fronti più caldi, dalla patrimoniale limitata alla grandi ricchezze alla abolizione delle pensioni di anzianità, dal contributo di solidarietà a carico dei baby pensionati alla abolizione del valore legale del titolo di studio. E certamente anche concordato fiscale e tanto più concordato con la Svizzera, dismissioni e privatizzazioni, prestito forzoso per collocare i titoli di Stato, insomma tutto quel che può servire per tagliare il debito pubblico di almeno cento miliardi in tre anni, concentrando le risorse su infrastrutture, innovazioni, lavoro e impresa giovanile. Facciamo ciò che serve secondo il vecchio detto che aprì la Cina al miracolo economico: non importa se il gatto è nero o bianco, l’importante è che prenda i topi. Noi ci aspettiamo che il presidente del Consiglio venga in Parlamento con l’umiltà di chi vuol costruire, dica la verità al paese e ne tragga le conseguenze. Ammetta di non avere la forza per fare tutto questo da solo e proponga un patto alle opposizioni: un vero patto nazionale al termine del 150° anno dell’Unità per consentire all’Italia di tornare a crescere. Un patto che passi anche attraOgni parte politica verso la sua rinuncia purché su cose condeve fare un passo crete da fare insieme. indietro per poter Berlusconi dica con chiarezza che intende salvare il paese realizzare subito le riforme che l’Europa ci sollecita e l’Italia attende da troppo tempo e nel contempo annunci che al termine del processo lascerà il campo ad un altro esecutivo che nell’anno che resta dovrà impegnarsi a concludere le riforme istituzionali e la conseguente riforma elettorale. Insomma, serve un armistizio che prepari la pace. Berlusconi faccia il primo passo.

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SHOCK ECONOMY Giuseppe Pennisi

Riforme per la crescita, un problema ineludibile Un pacchetto di provvedimenti per rilanciare lo sviluppo del paese non può non affrontare e risolvere temi caldi come quelli che riguardano il futuro dei giovani – e il relativo nodo previdenziale – la riduzione dello stock del debito pubblico, le infrastrutture e le liberalizzazioni. DI GIUSEPPE PENNISI 3

Al momento in cui viene chiuso questo articolo (24 ottobre 2011), non si sa se ci sarà un Decreto Sviluppo e quali saranno i suoi contenuti. Pullulano idee e proposte, nonché diverbi tra componenti di un esecutivo, che ha appena ottenuto un rinnovo della fiducia parlamentare per pochi voti. Nel delineare gli elementi di una possibile strategia pluriennale mi sono, quindi, basato su due ipotesi: la prima è che l’Italia intenda restare nell’unione monetaria europea e che (come analizzato su Charta Minuta di settembre/ottobre 2011) per almeno i prossimi dieci anni (più probabilmente venti) si dovranno attuare forti restrizioni alla finanza pubblica; la seconda è che qualsiasi altra co-

sa ci sia e quale che sia il governo che lo confeziona e il Parlamento che lo valuta, dovrà esserci un accordo su ciò che qualsiasi persona razionale vorrebbe trovare nel programma di crescita (qualsiasi altra componente vi si voglia includere). Questa ipotesi è il problema della identificazione dei “beni primari” (quelli che tutti i raziocinanti vogliono avere qualsiasi altra cosa essi vogliano) quale esposto nella Teoria della Giustizia di John Rawals nel lontano 1971. Riprendendo in mano la letteratura sulla crescita economica degli ultimi vent’anni, ci si accorge che c’è un filone comune: crescono i paesi e le regioni con i costi di transazione più bassi, ossia quelli ove le transazioni possono essere fatte pagando meno


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in perditempo, mano morte, pro- Williamson – con un “calderone di cedure, bolli e quant’altro e dove, idee”, molte in competizione le quindi, c’è una forte fiducia reci- une con le altre, sia in materia di proca, essenziale per effettuare storia economica e sviluppo di nortransazioni senza troppi marchin- me sociali e quindi di capitale sogegni che ne aumentano il costo. ciale sia in materia di costi di tranÈ questo il filo conduttore nel ri- sazione, sia nel campo della comgoglio di nuovi approcci (molti prensione e modellizzazione dei ancora in nuce, alcuni a livello so- rapporti semi-contrattuali inforlo teorico e altri ancora non mol- mali sia in quello dell’economia to più di uno slogan o di mera af- evoluzionista. fabulazione). Ciò implica il rilan- È pure un concetto di base sia alcio del neo-istituzionalismo, uti- le teorie dello sviluppo endogeno lizzando, però, i metodi quantita- sia ai vari filoni dell’economia tivi d’analisi sviluppati nei de- neo-istituzionale, quale quello del “sentiero pre-determinato” centi precedenti. (path dependence), È il nesso che colviene interpretato lega le teorie dello Negli ultimi vent’anni in modo giustapsviluppo endogeno posto e divergente a quelle basate sul- crescono i paesi dalle varie scuole l’applicazione del- e le regioni con di pensiero. Ciala teoria economiscuna di esse, infica dell’informazio- i costi di transazione ne, pare seguire un ne allo sviluppo, a più bassi proprio filone diquelle ancora ancorate all’analisi dei costi econo- stinto di analisi e ricerca nell’ammici e politici di transazione, alla bito di una vasta area neo-istiturevisione di alcuni paradigmi di zionale interdisciplinare in cui base dell’economia internaziona- gli strumenti dell’economista dele, all’utilizzazione, a fini esplica- vono fondersi con quello dello tivi, di alcuni paradigmi tecnico- scienziato della politica, dello economici derivanti dalle nuove storico, dello psicologo e deltecnologie dell’informazione e l’esperto in problemi dell’ammidella comunicazione. Ad esempio, nistrazione e della gestione. Un sono marcatamente e chiaramente filone, paradossalmente, particoneo-istituzionalisti i concetti di larmente consono alla formazione fondo degli ultimi World Develop- interdisciplinare del giornalista ment Reports con i quali si cerca di economico. sistematizzare il fiorire di nuovi Ma torniamo a come ridurre i costi approcci. È anche neo-istituzionale di transazione che in Italia sono il concetto di social capital, inteso più alti che negli altri paesi delcome il complesso di norme e di l’eurozona e di buona parte dei reti che consentono agli individui paesi Ocse. Non basta costituziodi agire collettivamente. Siamo al- nalizzare che è lecito tutto ciò che le prese – dice acutamente O.E. non è vietato per legge. Occorre:


SHOCK ECONOMY Giuseppe Pennisi

costituzionalizzare che tutte le leg- I giovani e la previdenza gi (e regolamenti e circolari varie) Si può rimettere mano al sistema siano “a termine” (una sunset regu- previdenziale tenendo speciallation generalizzata) per impedire mente in conto le esigenze delle il formarsi di un Himalaya di nor- giovani generazioni? Il tema, me spesso contraddittorie e acca- uscito dalla porta al momento vallate le une sulle altre; dimezzare della “manovra di Ferragosto”, è il numero degli eletti (a tutti i li- rientrato dalla finestra quando a velli) e portare i loro emolumenti fine settembre se ne è parlato in alla media europea; mettere in sof- Consiglio dei ministri a proposifitta il bicameralismo; e incidere to di programma per la crescita, sui comportamenti di individui, da presentare entro le prossime famiglie, imprese, pubblica ammi- due settimane. nistrazione e politica in modo che L’Ue ci chiede di “riformare la ridiventino produttività e dinamici forma” della previdenza che a olquanto quelli delle aree più dina- tre 16 anni dal suo varo ha momiche dell’Unione strato di non avere europea (Ue) e, se Occorre incidere sui raggiunto i propri possibile, dell’Ocse. obiettivi: nonoD o u g l a s C e c i l comportamenti stante abbia creato North ha preso il di individui, famiglie, un abisso tra il Nobel per avere ditrattamento dei mostrato non solo imprese, PA e politica padri e quello su che ciò è possibile per renderli produttivi cui possono contama che negli ultimi re i figli, non ha cinquecento anni chi lo ha fatto è arrestato la crescita della proporcorso più rapidamente degli altri. zione del Pil destinata alla spesa Sotto il profilo teorico lo si ottiene previdenziale: ora supera il 15% e con “giochi ripetuti” in modo che si potrà stabilizzare unicamente tutti si abituino a seguire le stesse se il tasso di crescita dell’econoregole – se possibile quelle di chi è mia torna dal rasoterra all’1,8% più produttivo e più competitivo (secondo le stime del nucleo di senza una drastica riduzione dei valutazione della previdenza del costi di transazione, qualsiasi altra ministero del Lavoro e delle Polimisura presente nel Decreto Svi- tiche sociali) o dell’1,6% (seconluppo, se e quando sarà varato, non do le stime della Ragioneria Geriuscirà a mordere. nerale dello Stato). In questa nota si delineano ele- La richieste dell’Ue guardano esmenti di un programma che ri- senzialmente al profilo dell’onere guardano essenzialmente i seguen- sulla finanza pubblica: si può riti punti: il futuro dei giovani (la durlo – occorre chiedersi – stabiprincipale risorsa del paese); la ri- lendo una maggiore equità delduzione dello stock di debito pub- l’attuale tra giovani generazioni e blico; le infrastrutture e le libera- quelle più anziane? E si può farlo lizzazioni. senza toccare i “diritti acquisiti”?

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Cerchiamo di rispondere a queste settembre) dal Center for Resedomande iniziando dall’ultima. I arch on Pension and Welfare Po“diritti acquisiti” variano al va- licies (Cerp) del Collegio Carlo riare delle condizioni economiche Alberto dell’Università di Torie socio-politiche. La riforma del no. Il documento prende l’avvio 1995 (e i suoi ritocchi) hanno in- dalla situazione immediata delle ciso fortemente su quelli che preoccupazioni (anche europee) sembravano essere i “diritti ac- per la finanza pubblica italiana e quisiti” di tutti i futuri pensiona- ricorda che la riforma del 1995 ti – da quelli appena entrati nel non sarà completata, a normativa mercato del lavoro a quelli pros- vigente, prima del 2050. Contiene, quindi, una serie di proposte simi alla quiescenza. Tuttavia, il provvedimento che per giungere all’obiettivo di frepiù ha modificato i “diritti acqui- nare l’escalation della spesa previsiti” proprio di chi era già in pen- denziale. sione è la modifica del sistema di Tali misure possono essere anche l’avvio di un rieindicizzazione (agquilibrio intergegiornamento degli Dopo una fase nerazione. Da un assegni previdenlato, quanto minoziali all’andamen- di riforme, occorrono re è il fardello totato di prezzi e sala- regole che siano le tanto minore ri), una misura appuò esserlo per chi parentemente tec- immodificabili per in un sistema “a rinica, ma che in i prossimi 15-20 anni partizione” è chiavent’anni ha trasferito circa 80 miliardi di euro mato a portarlo. Da un altro, con dalle tasche dei pensionati a quel- pochi ritocchi alle proposte Cerp le degli enti previdenziali. Men- si può fare molta strada in matetre in un sistema previdenziale ria di equità tra generazioni. privato i “diritti” dipendono in In primo luogo, dopo una fase di gran misura dalla capacità di ge- riforme, occorrono regole che siastione alla luce di un andamento no immodificabili per i prossimi spesso imprevedibile dei mercati, 15-20 anni in modo da dare un nel sistema previdenziale pubbli- buon grado certezza a tutti – eleco i “diritti” sono il frutto di co- mento essenziale per programmame governi e soprattutto parla- re il proprio futuro (la pensione è menti leggono l’evoluzione eco- una pensione sulla vecchiaia e programmare la terza età è il nomica e sociale. Sarebbe, errato, però, non partire principale “diritto” di tutti); ciò dal complesso di riforme già in può, anzi deve, essere blindato atto per vedere come meglio ta- nella legge. rarle alle esigenze dei giovani. I In secondo luogo, le regole previsuggerimenti e le proposte non denziali devono essere uguali per mancano. Le più organiche sono tutti dato che il passato ci insequelle delineate di recente (inizio gna che nell’eccessiva differenzia-


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Pensioni da precari L’Inps2 (in termini tecnici “gestione separata” di Mamma Inps) è nata nel 1996 ( e più o meno nello stesso periodo sono nate le sue consorelle come l’Inpgi2 per i giornalisti). Sono state concepite nell’ambito della riforma previdenziale del 1995 come strapuntino per chi fosse lavoratore dipendente o appartenesse ad altri sistemi previdenziali (quali l’Inpdap, le casse professionali) e facesse un lavoro autonomo in genere come occupazione secondaria. La ratio era che anche sui redditi da quel lavoro si versassero contributi e si ricevesse una previdenza basata sui contributi versati. Per anni, i versamenti sono stati essenzialmente a beneficio dei bilanci degli enti. Pochi se ne sono interessati anche perché tale regime riguardava principalmente giovani molto distanti dall’età della pensione (e in varie forme di rapporti co.co.co o co.co.pro). Riguardava anche chi aveva perso il lavoro per ristrutturazioni (si pensi a quelle nel settore bancario dove si è passati da oltre 500 istituti a cinque poli) che integravano pre-pensionamenti e pensioni di anzianità con lavoro più o meno occasionale. Da un paio di anni le prime “leve” stanno passando all’incasso e trovano non solamente rendimenti molto bassi ma anche un vero e proprio labirinto per ottenere il pur modesto trattamento. Nella concezione iniziale, dato che la gestione era “separata” (e sarebbe servita a integrare la pensione di chi un lavoro già lo ha), da essa “non si usciva”, ossia non era possibile totalizzare anni e contributi con anni e contributi da dipendente od in altri regimi. In un secondo momento, si è ammessa la totalizzazione per chi aveva almeno tre anni di contributi, ma non l’automaticità come per le altre forme di totalizzazione - è necessaria una procedura lunga e complessa che, ad esempio, non tiene conto delle convenzioni internazionali concluse dall’Italia con altri Stati. Ad aggravare la situazione, specialmente per chi è entrato nel mercato del lavoro come co.co.co, co.co.pro e simili alla fine degli anni Novanta, pare ci sia stato (e ci sia ancora) un elevato livello di evasione (dal pagamento dei contributi). Chi vi è entrato tramite precariato presso le pubbliche amministrazioni si è spesso trovato con funzionari amministrativi per i quali l’Inps2 avrebbe funzionato come l’Inpdap; facevano un versamento cumulativo per tutti i “precari” di loro spettanza e 15 anni più tardi ci si trovava a dovere ricostruire le singole posizioni. Insomma un vero e proprio bailamme. Ora ci sono due iniziative legislative. Ambedue prevedono l’automaticità. Un disegno di legge-delega elimina il vincolo di tre anni in ciascuna gestione per poter totalizzare (un vincolo che penalizza i giovani che passano da una gestione a un’altra prima di avere un lavoro dipendente); riporta, però, al metodo di calcolo retributivo coloro che totalizzando possono fare valere più di 18 anni d’iscrizione a una forma qualsiasi di previdenza prima del 31 dicembre 1995. Una proposta di legge bipartisan (già approvata) in Commissione Lavoro della Camera estende l’automaticità della totalizzazione a coloro che sono stati iscritti per tre anni in via esclusiva alla “gestione separata” in regime di monocommittenza. Mentre il ddl rischia di comportare un onere molto elevato, il secondo restringe moltissimo la platea dei beneficiari poiché è tipico dei “precari” lavorare per più committenti. Le acque comunque si stanno muovendo. E ci sono miglioramenti in vista.

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zione delle regole si annidano contributivo e l’accesso alla penprivilegi e ingiustizie (ancora og- sione sarà consentito solo se la gi vengono concessi ingiustificati pensione supera 1,2 volte l’amtrattamenti di favore a categorie montare dell’assegno sociale. di lavoratori quali parlamentari e Coerentemente con quanto diliberi professionisti con casse au- sposto dalla legge 122/201, si dovrà inoltre prevedere l’adeguatonome, etc.) In terzo luogo, i provvedimenti mento triennale dei requisiti di straordinari volti alla riduzione età per l’accesso al sistema pendi breve termine della spesa – sionistico agli incrementi della quali quelli che ci chiede l’Ue – speranza di vita; di chiedere un devono essere improntati a un “contributo di solidarietà” – agcriterio di “giustizia ed equità” e giuntivo rispetto a quello prefii sacrifici maggiori devono essere gurato nell’attuale “manovra” di chiesti a coloro i quali hanno red- finanza pubblica – alle pensioni diti medio-alti, in particolar mo- più alte, specialmente se si tratta di baby pensioni e do a coloro i quali pensioni di reversihanno beneficiato I provvedimenti per bilità eccessivae beneficiano della maggiore genero- la riduzione della spesa mente generose. Per il buon funziosità delle regole devono essere namento delle riprevidenziali retributive applicate improntati a un criterio forme serve, inolin passato. di “giustizia ed equità” tre, l’informazione. È essenziale che In base a questi principi, un riassetto fattibile im- l’Inps (e gli altri enti previdenplica: di anticipare l’applicazione ziali) inviino rendiconti periodici del “contributivo” dal primo ai cittadini in cui siano riportati, gennaio 2012, applicandolo a per ciascuna posizione previdentutti, fatti salvi i diritti previden- ziale, la quota di pensione giustiziali già maturati che daranno ficata – in base a criteri di equità origine a una pensione calcolata attuariale – dalla contribuzione con le regole attuali; di lasciare previdenziale effettuata lungo la flessibilità nell’età di pensiona- vita lavorativa e la quota eccedenmento: ossia, i lavoratori che han- te tale misura. Quest’ultima parno almeno cinque anni di contri- te evidenzia infatti quello che buti (oggi se non se ne hanno può essere considerato il “contriventi si perde tutto) devono poter buto” della collettività (incluse le scegliere a che età andare in pen- generazioni future) alla loro pensione all’interno di una forchetta sione individuale. Un riassetto compresa tra i 63 e i 68 (even- fattibile implica anche di risolvetualmente 70) anni. In caso di re una volta per tutte i problemi pensionamento anticipato prima ancora aperti in materia di “totadei 63 anni, la pensione verrà cal- lizzazione” dei contributi dei colata interamente con il sistema co.co.pro e simili con quelli di


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misura interessati all’idea. Nei prossimi giorni ci saranno audizioni al Cnel e successivamente un disegno di legge verrà esaminato dal Consiglio dei ministri e dal Parlamento. In primo luogo, è pleonastico dire che cercare di valorizzare il patrimonio pubblico è una buona idea. Ci sono ora pure le premesse perché l’idea abbia questa volta modalità di applicazione che la rendano realizzabile entro un lasso di tempo relativamente breve. Infatti, rispetto agli impegni europei, ci vorrebbero 40-50 miliardi di euro l’anno (agli Le Privatizzazioni Il primo punto (in Ci vogliono 50 miliardi attuali d’interesse) per i prossimi venordine di tempo) t’anni per fare sì della strategia di l’anno per i prossimi che lo stock di decrescita presentata vent’anni per fare bito pubblico ragdal governo è il giunga il 60% del fondo immobiliare in modo che il debito che ha presto ac- raggiunga il 60% del Pil Pil (o giù di lì) entro il 2032. quisito, sulla stampa d’informazione, il nomignolo Negli ultimi mesi, infatti, sono di “fondo taglia-debito”. In bre- state presentate idee in questo ve, l’obiettivo è “creare ricchezza” senso da numerosi economisti. dalla manomorta pubblica (sti- Alcune (ad esempio, quelle di mata in 1.815 miliardi, pari qua- Giuseppe Guardino, di Giorgio si allo stock di debito pubblico). La Malfa e dello stesso Paolo SaIn pratica, la cessione di una par- vona) sono riassunte in un articote (peraltro relativamente mode- lo di Savona nell’ultimo numero sta) del patrimonio immobiliare del mensile Formiche. Altre sono pubblico (che oggi rende poco o state pubblicate su vari numeri nulla allo Stato e alle pubbliche del settimanale Milano Finanza amministrazioni in generale) e da Andrea Monorchio e da Guido dei diritti per le emissioni inqui- Salerno Aletta. Altre ancora sono nanti di CO2. Dalla prima fonte apparse su riviste specializzate. si contano di ricavare 35-40 mi- In breve, si è diffusa e radicata l’ipotesi che il debito pubblico è liardi; dalla seconda altri 10. La proposta è ben congegnata ed ormai un freno tale alla crescita è stata presentata il 29 settembre che occorre pensare a un’operaal Gotha della finanza italiana da zione straordinaria (nel senso etiun comitato di ministri, in varia mologico di “fuori dall’ordinadipendenti, poiché la gran parte dei giovani inizia la propria attività come co.co.pro ma prima o poi diventa dipendente. C’è un ddl e una proposta di legge bipartisan in Parlamento: occorre farle viaggiare. Queste misure relative alle pensioni “pubbliche” (già in atto in numerosi paesi Ue) devono essere affiancate a un riordino della previdenza integrativa che, tramite fusioni e incorporazioni, porti i 700 fondi esistenti a non più di una cinquantina.

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Come privatizzare la Rai

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Privatizzare “Mamma Rai” è una missione coraggiosa ma non impossibile. Nella situazione finanziaria attuale – è vero – la Rai avrebbe difficoltà a trovare altri acquirenti che non fossero la Croce Rossa, la Comunità di Sant’Egidio, la Caritas o simili (sempre che la avessero a prezzo zero e con mani libere nel rimettere in sesto ciò che resta di un’azienda per decenni in monopolio e desiderosa di tornare a essere la sola del settore in Italia, in Europa e – perché no?- nell’universo mondo). Un modo, però, c’è. Occorre utilizzare immaginazione, esperienza e fegato. Il primo passo può sembrare bizzarro: collegare la privatizzazione della Rai alla nascita di una vera previdenza complementare per gli italiani. Il secondo consiste nel renderla una vera public company. Il presidente del Consiglio Romano Prodi tanto si è speso per il secondo pilastro previdenziale e per le public company che dovrebbe esserne lieto. C’è un precedente importante: il modo in cui sono state realizzate le privatizzazioni e i fondi pensioni in Bolivia negli anni Novanta, seguendo i suggerimenti di Steve H. Hanke, direttore del Centro di Economia applicata dell’Università Johns Hopkins di Baltimore e Senior Fellow del Cato Institute. In pratica, ciò vuol dire dare azioni Rai a tutti gli italiani. Seguendo quale metodo? Uno semplicissimo: l’età anagrafica, quanto più si è anziani tanto più si è pagato il canone (e ci si è sorbiti Santoro, Baudo e quant’altro) e si è pagata l’imposta di scopo più odiata dagli italiani (il canone Rai), avendo, dunque, titolo ad un risarcimento con azioni da impiegare per la tarda età. Le azioni sarebbero vincolate per un lasso di tempo – a esempio, cinque anni – a non essere poste sul mercato ma a essere destinate ad un fondo pensione aperto (ed a ampia portabilità) a scelta dell’interessato il quale, però, manterrebbe tutti i diritti (elezione degli organi di governo, vigilanza sul loro operato, definizione dei loro emolumenti) di un azionista (in base alle azioni di cui è titolare sin dal primo giorno). Gli azionisti deciderebbero se scorporare le reti. Unica regola: pareggio di bilancio. Il management dell’intera Rai (o di una rete) che non ci riesce sarebbe passabile di azione di responsabilità e, ai sensi della normativa societaria in vigore, se l’indebitamento supera certi parametri la liquidazione diventerebbe obbligatoria. E il “servizio pubblico”? Nell’età della rete delle reti, ci bada Internet: già adesso tutti i dicasteri, le regioni, le province, i comuni, le comunità montane dispongono di siti interattivi. I siti di informazione e contro-informazione pullulano – tanto generalisti quanto specializzati. Non siamo più ai tempi dell’Eiar, anche se il Partito Rai vorrebbe tornare al passato, come la protagonista del film Good bye, Lenin. E la cultura? In primo luogo, pensiamo che gli italiani siano meno imbecilli di chi compila gli attuali palinsesti: una Rai che risponde al popolo azionista proporrà più cultura dell’attuale (come dimostrano gli abbonamenti a canali culturali digitali). In secondo, si potrebbe prevedere agevolazioni tributarie per gli sponsor. È un miraggio? No. È la modernizzazione, bellezza!


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rio”) per abbatterlo. Tale operazione passa o per un’imposta patrimoniale o per un’operazione di grande ampiezza sul patrimonio dello Stato all’insegna del motto “vendere, vendere, vendere” (nonostante questo non sia forse il momento opportuno per farlo in termini di domanda effettiva). Un confronto tra queste varie proposte si è tenuto alla Fondazione Ugo La Malfa la sera del 29 settembre. Date le dimensioni del problema, il fondo ora delineato dal governo può essere visto come una prima tranche di un’operazione ventennale A mio avviso, si dovrebbe essere molto più ambiziosi. Lo è, senza dubbio, lo schema messo a punto da Andrea Monorchio e Guido Salerno Aletta che è anche corredato da una bozza di proposta di legge d’iniziativa popolare. Tale schema fa leva non sul patrimonio pubblico, ma su quello dell’edilizia privata. In breve, i proprietari di casa verrebbero messi di fronte a un’alternativa: o essere soggetti d’imposta patrimoniale oppure far sì che un decimo del loro patrimonio edilizio (stimato in 9.000 miliardi di euro) venga ipotecato dallo Stato avendo in cambio: la garanzia dell’esenzione da imposte presenti e future e un interesse al tasso di sconto presso la Bce e un ammortamento ventennale. In tal modo – tralascio gli aspetti tecnici, alcuni dei quali molto ingegnosi – lo Stato avrebbe la liquidità per abbattere il debito pubblico e realizzare politiche di crescita. Un’alternativa del programma

prevede obbligazioni a cedola zero (garantite dall’ipoteca sul 10% del valore dell’immobile) che potrebbero essere particolarmente interessanti per chi vuole costituire un capitale per un lascito a figli o congiunti o amici. Sono ambiziose, in vario modo, anche le proposte di La Malfa e Savona (chiare alternative a un’imposta patrimoniale). Non cito proposte da me delineate in passato (all’inizio degli anni Novanta) quando il problema del debito cominciava a essere avvertito in tutta la sua serietà; le ho pubblicate in italiano e in inglese in varie versioni e non ho ritenuto utile riproporle adesso. Vale, però, la pena integrarle con la proposta del governo e con gli schemi Monorchio-Salerno e La Malfa-Savona – la proposta Guarino, invece, è essenzialmente una patrimoniale più o meno in maschera al fine di costituire un “fondo tagliadebito”. Credo occorra partire dalla premessa che se si chiede ai privati di utilizzare parte dei gioielli di famiglia (la propria casa) per liberare l’Italia dalla morsa del debito (MonorchioSalerno) si debba chiedere allo Stato di fare altrettanto (come nel programma delineato il 29 settembre dal governo). Ritengo, però, che destinare a tal fine una piccola parte del patrimonio immobiliare pubblico (è difficile che il mercato ne possa assorbire di più) e delle licenze per CO2 sia limitativo. Anche perché tale patrimonio immobiliare pubblico (ad esempio, la case

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popolari Ater) non sono certo re una garanzia solida). Potrebbe essere collocato presso fondi pengioielli di famiglia. Proporrei un fondo con tre “sotto- sioni per dare corpo a una efficastanti” (ossia attività reali e finan- ce ed efficiente previdenza inteziarie a garanzia di nuovi titoli): grativa. Ciò richiederebbe, come parte del patrimonio immobiliare già suggerito nel paragrafo prepubblico (come nella proposta go- cedente, una preventiva riduziovernativa); parte del patrimonio ne del numero dei fondi pensioimmobiliare privato (come nella ne operanti in Italia da 700 a proposta Monorchio-Salerno) su una diecina con effettiva portabase volontaria e in cambio di bilità (ossia che gli iscritti possaun’esenzione fiscale permanente no votare con le gambe e migrada eventuali patrimoniali; e parte r e v e r s o q u e l l i m e g l i o dei veri di gioielli di famiglia gestiti).Un passo che va fatto se (Enel, Eni, Finmeccanica, Poste non si vuole che la previdenza Italiane, Sace, St-Microelectro- integrativa dei nostri figli sia una chimera. Il nics, Terna, Poligrafico, Sogin, Serve un fondo con tre fondo “taglia-debito” ha comunInail). Rai, Ferrovie, Fincantieri e “sottostanti”: parte del que un grande mealtre imprese da patrimonio immobiliare rito: porta in pubblico quello che denazionalizzare sinora è stato un non verrebbero in- pubblico, privato e dibattito segreto cluse poiché non dei gioielli di famiglia tra specialisti. sono certo “gioielli di famiglia”, ma fardelli da rimettere in sesto o da liquidare. La de-regolamentazione Con un tale sottostante in garan- La regolamentazione per dare vita zia, il fondo potrebbe emettere ti- (e fare funzionare) il mercato unitoli a tassi molto bassi (quelli di co europeo ammonta a 150.000 sconto del Bce) per riscattare il pagine ancora più carta è stata debito pubblico e finanziare inve- necessaria per la moneta unica e stimenti a lungo termine di inte- ammennicoli vari. Il costo dei reresse collettivo. Il fondo sarebbe golamenti Ue su cittadini ed imun veicolo per denazio naliz - prese è variamente stimato tra l’1 zare/privatizzare le società/gli en- e il 3,5% – un vero ed elevato coti le cui azioni sarebbero il suo sto di transazione – del Pil com“sottostante”. plessivo dell’Europa a 27. Lo doPerché l’operazione funzioni, il cumenta Alan Hardacre, in un “sottostante” dovrebbe essere ag- saggio pubblicato dall’Eipa gregato (con qualche forma di (l’Istituto europeo di formazione cartolarizzazione – ne esistono per la pubblica amministrazione, molteplici) – e non dovrebbe es- un ente che non inforca certo ocsere quotato in Borsa per un cer- chiali malevoli nei confronti delle to numero di anni (al fine di esse- istituzioni europee, che lo finan-


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ziano. In Germania, soltanto gli l’ausilio della Ragioneria Generaobblighi di fornire informazioni le dello Stato) ma anche da alla burocrazia federale (escluden- un’analisi costi benefici (o costi do quella dei Länder) tocca 40 efficacia) rigorosa relativa a oneri miliardi di euro l’anno (in base ad e vantaggi per la collettività. una stima effettuata su 7.000 dei Queste e altre informazioni, dati 10.500 obblighi d’informazione e analisi si raccolgono nella ricca individuati dal Consiglio federale documentazione presentata alle per il Controllo della regolazio- più recenti International Regulatone); l’ultimo rapporto annuale del ry Reform Conferences (Irrc), divenConsiglio in questione afferma tata un evento annuale a cui parche si tratta di una stima per di- tecipano (su inviti individuali) fetto, ma che il governo federale regolatori e de-regolatori di tutsi è impegnato a ridurre costi del- to il mondo. Dopo una serie di le regole su cittadini e imprese anni in cui la conferenza è stata del 25% e che, di riffa o di raffa, tenuta a Berlino, l’ultimo appuntamento è stato a lo farà (la determiStoccolma. In brenazione teutonica è Istituzioni, individui, ve, tutti (governo, nota, anzi notoria). parlamenti, indiI tedeschi hanno famiglie e imprese vidui, famiglie, preso a modello si sentono imbrigliati imprese) si sentol’Olanda che, seno imbrigliati in condo l’ Internatio- in una montagna una montagna ornal Regulatory Re- di regole mai disincantata form Report 2010, «è diventata un modello ed un di regole grandi e piccole spesso leader internazionale in materia da loro stessi generate o propodi riforma della regolamentazio- ste. Ciascuna ha una sua giustifine». Anche la Francia (notoria- cazione puntuale (o la aveva mente statalista ed interventista) quando governi e parlamenti opci sta dando a fondo: dal 2006, pure autorità di regolazione le afferma un saggio di Frédéric hanno varate). Tuttavia, sono Bouder, si possono avere in otto adesso un freno allo sviluppo, giorni tutte le autorizzazioni per specialmente dei paesi industriafare decollare un’impresa. In le a economia di mercato e più Francia, come in America dal- particolarmente nell’iper-regolal’epoca del primo Governo Rea- ta Ue (dove regole comunitarie si gan (misura che nessun presiden- sommano a quelle internazionali te o Congresso successivo ha mo- a quelle statali, a quelle regionali dificato), tutti i disegni e le pro- a quelle provinciali a quelle coposte di legge dovranno essere munali a quelle delle comunità corredati non solo di una relazio- montane, e via regolamentando). ne tecnica relativa all’impatto sul La montagna disincantata spiega, bilancio dello Stato (analoga a in certa misura, perché da qualquanto predisposto in Italia con che anno siano i paesi emergenti

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I taxi dell’Isola Verde Una vertenza come quella sempre incandescente dei taxi – a Roma, a Milano – è caratteristica di una fase di transizione quale quella che sta attraversando il paese. Se il mondo fosse perfetto, non ci dovrebbero essere altre barriere all’entrata (nella professione) che i requisiti tecnici dell’autovettura e del conducente. Il mondo, però, è ben lungi dall’essere perfetto. Anche se la compravendita delle licenze è vietata, di fatto avviene da sempre (sottobanco) e hanno accesso alla professione pure conducenti con la fedina penale sporca. Chi ha sborsato forti somme, spesso indebitandosi sino al collo, per averne una, ha un danno significativo da un’apertura del mercato e uno enorme dalla liberalizzazione. Vediamo cosa è successo nell’isola verde per antonomasia, l’Irlanda. Dato che autorità di governo e parti sociali non trovavano un’intesa per la transizione da mercato (dei taxi iper-regolamentato) a liberalizzazioni, le associazioni dei con14

sumatori hanno optato per la via giudiziaria. Si è giunti a una sentenza della Corte Costituzionale nel 2000. Le motivazioni della sentenza e un’analisi delle sue implicazioni economiche sono riassunte nel saggio di Sean Barret della Università di Dublino pubblicato nel trimestrale Economic Affairs. La Corte fa riferimento non solo al principio della non-discriminazione (analogo a quello sancito all’art.3 della Costituzione italiana) ma anche al “titolo”, per chi ne ha la formazione e capacità, di avere accesso al settore e a quello, speculare, dei cittadini di acquistare i servizi dal migliore offerente (se fornisce garanzie di professionalità). Sono “titoli fondamentali”, tutelati dalla Convenzione dei Diritti dell’Uomo che ha da poco compiuto 200 anni e a cui Irlanda (e Italia) aderiscono. Leggi e regolamenti che limitavano l’accesso alla professione sono stati immediatamente abrogati, il numero di taxi è triplicato, l’occupazione nel settore quadruplicata (secondo alcuni, quintuplicata). A un’analisi dei costi e dei benefici sociali (relativa, quindi, al benessere della collettività ed in particolare dei più poveri) la deregolazione risulta avere avuto un tasso di rendimento interno del 30%. Tra i benefici, sono stati computati unicamente la riduzione dei tempi di attesa per gli utenti e l’incremento dell’occupazione. I vantaggi maggiori sono andati agli strati a più basso reddito della popolazione. Gli svantaggi finanziari a chi faceva il tassista prima della sentenza. La via giudiziaria al riassetto strutturale non è necessariamente il percorso migliore. Ci pensino i taxi bianchi dell’Italia alla ricerca di un migliore e più rapido sviluppo.


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ancora in via di sviluppo e a basso reddito pro-capite (dove le regole sono poche e poco osservate) a tirare la carretta dell’economia mondiale. L’eccesso di regolazione in Europa spiega, in certa misura, perché la crisi finanziaria scoppiata negli Usa ha rallentato l’economia americana (meno regolata di quella Ue) ma ha portato la recessione nel vecchio continente. Cosa fare? Un po’ tutti si arrabattano a semplificare la regolazione e a frenare l’incontinenza di chi ne propone sempre di aggiuntiva. L’Italia ha poche lezioni da offrire. È poco credibile la cifra di 16 miliardi di euro pubblicizzata come costi di informazione che gravano su cittadini ed imprese (rispetto ai 40 miliardi, limitati al governo federale computati in Germania). È stato condotto per cinque anni dalla Scuola superiore della pubblica amministrazione uno studio sui costi di un campione di regolazioni; ma, in barba alla conclamata trasparenza, i suoi risultati non sono mai stati presentati e discussi quanto meno in un seminario tecnico-scientifico e messi, successivamente (se si vuole), on line come primo passo per giungere a sfoltire alla grande la foresta cresciuta sulla montagna disincantata. Sarebbe anche bene che una seconda fase dello studio venga affidata a specialisti di livello internazionale (meglio se stranieri e quindi più distinti e distanti dalle nostre beghe caserecce, spesso fonte di regole per dirimerle).

Dall’Iirc è emerso un aspetto interessante il regulatory budgetting intrapreso in modo sistematico in Gran Bretagna e già sperimentato con successo negli Usa in alcuni settori (sanità, ambiente).Anche in Italia, c’è qualche esempio (lo si è fatto ad esempio nel valutare la posizione Ue in materia ambientale o nell’esaminare la revisione delle tax expenditures per le elargizioni liberali per la cultura). Non lo abbiamo presentato,però, al resto del mondo. Se non mostriamo agli altri le cose buone che facciamo, non lamentiamoci di non essere trattati bene. Per essere efficace il regulatory budgetting deve riguardare anche quello che è invalso chiamare “capitalismo municipale”. I dati salienti per l’Italia sono: numero di aziende, 369, contributo al Pil nazionale dall’l’1% al 6% (a seconda della Regione); addett, 200.000 unità. In Francia le dimensioni sono analoghe. In Francia, inoltre, non ci sono le persistenti di differenze costi del personale e della redditività fra le varie macro-aree (Sud, Centro e Nord) che, secondo analisi recenti della Fondazione Eni Enrico Mattei e dell’Università La Sapienza, caratterizzano l’Italia. Infine, i nuclei francesi a basso reddito erogano per acqua, elettricità e riscaldamento lo 0,075% della spesa familiare – un po’ più dello 0,059% di quelle italiane nella stessa fascia sociale. Più importante di un raffronto con i cugini d’Oltralpe è interes-

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FOCUS

Il ponte sullo Stretto e i suoi cugini

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L’Italia – come molti altri Paesi europei (la Francia è la principale eccezione) – è stata piuttosto carente di studi retrospettivi sia sui rendimenti dell’investimento pubblico sia sugli effetti di spiazzamento (crowding out, nel lessico degli economisti) rispetto al potenziale investimento privato (l’investimento pubblico richiede gettito fiscale od indebitamento pubblico, riducendo le risorse disponibili per i privati) sia sugli effetti, invece, di attrazione (crowing in) del privato (fornendo le strutture di base). Ci sono stati numerosi studi sul crowding out della spesa pubblica negli anni ‘70 e ‘80; tali studi hanno, però, riguardato in gran parte gli aspetti macro-economici generali (senza differenziare tra spesa di parte corrente e spesa in conto capitale). Che io sappia c’è stato un unico studio empirico della produttività marginale dell’investimento pubblico: quello di Maurizio Tenenbaum dell’Università La Sapienza di Roma, condotto all’inizio degli Anni 80 su incarico del ministero del Bilancio, e, in seguito, pubblicato dalla casa editrice Il Mulino. Fuori catalogo da anni, il saggio esaminava l’investimento pubblico nel periodo 1950-80 con metodo aggregato e concludeva che la spesa pubblica in conto capitale aveva una produttività-marginale dell’8-12% – parametro utilizzato per lustri come riferimento (ad esempio, come tasso di attualizzazione) nella valutazione di piani e progetti. Occorre tenere presente che il periodo analizzato da Tenenbaum copre in larga misura gli anni del “miracolo economico” (1959-1958) quando, secondo analisi di Charles Kindleberger e Ferenc Janossy (due numi del

pensiero economico, uno liberista e uno marxista, distinti e distanti dalle nostre beghe) l’investimento pubblico (e quello privato) in Italia avevano rendimenti particolarmente elevati in quanto attivavano l’utilizzazione di capitale umano potenzialmente molto ben addestrato e molto produttivo, ma costretto a una relativa improduttività dal 1936 (guerra d’Africa) alla fine della seconda guerra mondiale. Di recente il servizio studi della Banca europea degli investimenti ha completato un’analisi (Antonio Afonso e Miguel St Aubyn Macro-economic rates of returns of public and private investment – Crowding- in and crowing-out effects, Ebc Working Paper n. 864) che merita di essere meditata non tanto in Banca d’Italia (dove studi di questa natura trovano il maggior numero di lettori) quanto nei ministeri dell’Economia e delle Finanze, dello Sviluppo Economico e delle Infrastrutture. È, infatti, nonostante il lessico tecnico, ricca di lezioni operative. In primo luogo, lo studio riguarda il periodo 1960-2005 – sui suoi risultati, dunque, l’eccezionalità del “miracolo economico” conta relativamente poco ma pesano molto più periodi meno entusiasmanti di quella che i giornalisti chiamano la Prima Repubblica. In secondo luogo, è un’analisi comparata che include 14 paesi dell’Ue, il Canada, Giappone e Stati Uniti. In terzo luogo, utilizza una metodologia Var (una tecnica econometrica per esaminare serie storiche da non confondere con Var – Value at risk una tecnica finanziaria per quantizzare valorizzazioni di titoli tenendo conto dell’elemento di rischio) sviluppata, in applica-


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zioni operative, a partire dalla metà degli anni ‘90. Quindi, il lavoro ha un contenuto informativo molto più aggiornato e molto più utile di quello condotto all’inizio degli anni ‘80. Vediamo, in linguaggio non tecnico, quali sono le conclusioni principali dello studio e quali le implicazioni per l’Italia. Innanzitutto, nel lungo periodo di tempo considerato, l’investimento pubblico ha contratto quello privato (crowding-out) in Belgio, Irlanda, Canada, Regno Unito e Paesi Bassi. Ha invece dato un impulso attivo agli investimenti privati (crowdingin) in Austria, Danimarca, Germania, Grecia, Portogallo, Spagna e Svezia. L’Italia è l’unico paese per il quale, con i dati disponibili, non risulta che l’investimento pubblico abbia spiazzato od attivato investimento privato. Un effetto “neutro”? Non esattamente. L’analisi entra anche nei tassi di rendimenti medi (tanto “parziali”, quindi del solo investimento pubblico, quanto “totali”, computando anche l’investimento privato attivato dalla mano pubblica). In Italia, Finlandia, Giappone e Svezia, i tassi di rendimento “parziali” dell’investimento pubblico sono negativi. Il quadro cambia se si guarda ai tassi di rendimento “totali”; il tasso dei rendimenti privati diventa più basso se associato generalmente in tutti i paesi (la sola eccezione è la Francia) e diventa addirittura negativo in Austria, Finlandia, Grecia, Portogallo e Svezia. Questa seconda conclusione mette l’investimento pubblico in Italia in luce migliore di quanto non lo faccia la prima. Ci sono implicazioni operative? Certo. Lo studio non spiega le ragioni dell’”eccezio-

ne francese”; non era suo obiettivo trattandosi di un’analisi econometrica non istituzionale o amministrativa. Una spiegazione possibile è negli effetti di lungo periodo del “programma di razionalizzazione delle scelte di bilancio” per diversi anni in vigore Oltralpe. Non solamente ai ministeri si richiedeva di effettuare analisi sia dei costi sia dei benefici sia degli effetti dell’investimento pubblico di rispettiva competenza ma una rivista semestrale de La Documentation Française ne pubblicava le migliori ed incoraggiava il dibattito. Negli Anni ‘90, ho riprodotto alcuni di questi studi nel libro Tecniche di valutazione degli investimenti pubblici. La prassi stimolava le amministrazioni non solamente a condurre analisi “degne di pubblicazioni” ma le metteva in competizione e a confronto. In Italia una norma del 1999 (circa dieci anni fa) ha previsto appositi nuclei di valutazione verifica dell’investimento pubblico in tutte le amministrazioni. Non solo è stata applicata parzialmente ma ha spesso prevalso un approccio socio-organizzativo privo del necessario rigore economico e finanziario (tipico, carte alla mano, dell’esperienza e dell’eccezione francese). È tema su cui i ministri Matteoli, Scajola e Tremonti (l’ordine è meramente alfabetico) dovrebbero riflettere. Forse, l’iniziativa potrebbe essere presa dal ministro Brunetta non solamente in quanto fuori dalla mischia (i suoi uffici non gestiscono i maggiori investimenti pubblici) ma anche in quanto la normativa del 1999 (un po’ inapplicata e un po’ malapplicata) fu frutto dell’iniziativa di uno dei suoi predecessori a Palazzo Vidoni.

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sante notare come nel dibattito di tutte quelle liberalizzate in quel questi ultimi anni sui servizi gruppo di paesi. Per il metodo, pubblici locali ed il pertinente dato che le “lenzuolate” non han“capitalismo” municipale è più di no avuto grandi esiti, la sola strauna volta pronunciato il nome di da possibile sembra essere quella Giovanni Montemartini. Chi era del Big Bang – un colpo solo libecostui? A Roma gli è stato dedi- ralizzando tutto il liberalizzabile cato un museo sulla via Ostiense contemporaneamente. In tal moma il suo libro principale (ancora do interessi votati a difendere oggetto di studio, in traduzione, l’esistente si elideranno a vicenda. in università straniere) non è ristampato da decenni. A lungo di- Le infrastrutture rigente statale, Montemartini fu, Le infrastrutture sono una leva in età giolittiana, assessore di per la crescita sia nella fase di canquella Giunta Nathan che risanò tiere (poiché attivano capacità e sviluppò la città. Non era un produttiva solo parzialmente utiteorico ed il suo lilizzata) sia a regime bro (un testo di Servono liberalizzazioni (perché riducono politica economicosti, ad esempio ca sulle municipa- vere, basta col metodo di trasporto, e aulizzate) sistema- delle “lenzuolate”. mentano la produttizzava il frutto tività). Sino a ora, della sua esperien- Serve un vero Big Bang le uniche misure za operativa e in- credibile ed efficace prese sono quelle dicava strade (in del Consiglio dei termini di qualità del servizio, li- ministri del 6 ottobre che ha apvelli delle tariffe, monitoraggio, provato (senza quasi che se ne acbilanci) ancora attuali. Se lo si corgesse nessuno) due schemi di studia all’estero e lo si cita in con- decreti che riguardano: la valutavegni internazionali, perché non zione degli investimenti relativi a ce ne ricordiamo ora che a Roma opere pubbliche – che prevede fra (e non solo) occorre riformare il l’altro l’obbligo per ogni ministe“capitalismo municipale”? Vi ro di redigere il Documento plutroveremmo preziosi consigli su riennale di pianificazione che income aggregare imprese e sulla cluda i programmi di investimengestione finanziaria e su come de- to per opere pubbliche – e le proregolamentare a livello locale. cedure di monitoraggio sullo staUna deregolamentazione che non to di attuazione di tali opere: un può non includere commercio, sistema gestionale automatizzato taxi e simili. che contenga le informazioni quaDue ultimi punti: le professioni e lificanti dei lavori e degli interil metodo da utilizzare. Per le venti programmati, con la verifica professioni, la stella polare do- dell’utilizzo dei finanziamenti nei vrebbero essere i paesi più dina- tempi previsti. Sui due schemi mici dell’Ue: ossia liberalizzare verranno acquisiti i pareri delle


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Commissioni parlamentari e, li- ne, che si sia dovuto intervenire mitatamente al secondo, anche con un decreto legislativo. Tuttadella Conferenza unificata. È dato via, in una situazione in cui dal per scontato che i pareri saranno 2001 a oggi, a titolo di quella positivi e che i provvedimenti sa- Legge obiettivo che avrebbe doranno in vigore entro tempi brevi. vuto semplificare e velocizzare, Non si tratta certo di misure riso- sono stati erogati appena 2,5 milutive in un paese in cui le sole liardi rispetto a un costo cominefficienze della logistica com- plessivo di opere stimato in 8,8 portano un costo di 40 miliardi miliardi, è una misura che induce di euro l’anno. Rappresentano, a sperare in maggiore tempestiviperò, passi nella direzione giusta, tà anche perché il de-finanziache consentono, quanto meno, di mento è una sanzione – e, a fronappurare quali e quante sono le te di de-finanziamenti la Corte risorse disponibili (spesso “nasco- dei Conti, potrebbe svegliarsi dal ste” in “contabilità speciali” e ge- suo torpore e iniziare procedimenti che toccano stioni fuori bilannei portafogli dei cio di vario ordine Le infrastrutture singoli responsae grado – il solo bili dei procediministero dei Beni sono una leva menti. e delle attività cul- per la crescita La prima misura turali, Mibac, ne ha, come si è ac- sia nella fase di cantiere può essere interpretata, e attuata, cennato, ben 324) sia a regime in due modi molto e quali sono le priorità dal punto di vista degli differenti. Da un canto, con pure procedure di “programmazione enti di spesa (i ministeri). Dei due punti indicati il più im- formale”, quali quelle attuate per portante è il secondo: traducendo decenni in America Latina e in dal burocratese, la misura vuol Africa, per soddisfare Banca mondire che verrà effettuato un censi- diale e simili: programmi con mento e che le opere non iniziate elenchi di priorità non supportati verranno de-finanziate (impie- da adeguate analisi economiche. gando gli stanziamenti per opere Potrebbe anche essere l’occasione che possono essere immediata- per rilanciare la programmazione mente cantierabili). Attenzione, i decentrata per progetti degli anni singoli ministeri avrebbero potu- Ottanta e Novanta e anche per to e anzi dovuto adottare queste raffinarla integrando le analisi comisure da sempre, almeno dal sti benefici dei singoli progetti 1999 quando venne approvata la con stime degli effetti di gruppi legge 144 (e i dirigenti responsa- di progetti. Tanto più che l’Istat bili sono passibili di danno era- sta di nuovo lavorando (dopo tre riale, ove la Corte dei Conti apra lustri!) su una matrice di contabiun fascicolo). È “straordinario”, lità sociale (una raffigurazione nel senso etimologico del termi- dell’economia italiana che coniu-

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ga i rapporti tra settori con quelli tra istituzioni) e, quindi, si potrebbe contare su stime affidabili. Inoltre, non dovrebbero essere meri elenchi di priorità, ma - come suggeriscono i saggi pubblicati nel volume Trasporti e Infrastrutture (a cura di Francesco Ramella) dall’Istituto Bruno Leoni occorre introdurre, nei programmi, una buona dose di mercato. Un suggerimento al ministro dell’Economia e delle Finanze: segua l’esempio del programme de rationalisation des choix budgettaires applicato per anni in Francia, pubblicando i programmi dei ministeri e facendoli valutare dalla professione. Ci sono premi e penali implicite (ma efficaci) nell’essere lodati o criticati. Questi due passi possono essere un’indicazione che si vuole per davvero rilanciare le infrastrutture. Perché, in questo campo, il programma abbia effetti positivi non basta, però, una maggiore attenzione alla progettazione, il definanziamento di quella troppo preliminare per essere attuata nei tempi stipulati e una maggiore chiarezza degli enti di spesa sulle loro priorità e sulle pertinenti motivazioni. Se si vuole dare impulso al settore è essenziale rivedere, almeno in prospettiva, il Titolo V della Costituzione (che ha suddiviso responsabilità e competenze creando una vera Babele), attivare nuovi strumenti finanziari del tipo di Project Bonds che abbiamo alcune caratteristiche dei Buy American Bonds (Babs) attivati con successo negli Stati Uniti (dato che il fabbisogno fi-

nanziario stimato per i prossimi cinque anni è attorno a 50 miliardi di euro). Questo articolo non ha la pretesa di essere un programma compiuto di politiche di crescita in una (lunga) fase di severe restrizioni di finanza pubblica ma solo di fornire alcuni elementi su temi che ritengo centrali. Se le soluzioni proposte non sono accettabili, se ne devono trovare altre che lo siano. Non si può eludere il problema.

L’Autore giuseppe pennisi Consigliere del Cnel e Consigliere Scientifico della Cassa Depositi e Prestiti. Insegna politica economica internazionale all’Università Europea di Roma e collabora a quotidiani e periodici. Alcune delle idee in questo articolo sono state presentate su Avvenire, Il Foglio, Il Riformista e Il Sussidiario negli ultimi mesi.




SHOCK ECONOMY intervista a Antonio Martino

Ultima chance per le liberalizzazioni

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l tempo è poco, e arrivare a fine legislatura senza aver messo in atto nessuna delle riforme promesse sarebbe perdere un’occasione irripetibile per cambiare l’Italia. Ma un paese in difficoltà non si fa ripartire con una manovra di tagli e di tasse: per provare a superare l’impasse italiana bisogna vendere le partecipazioni statali e le proprietà immobiliari, ritirare i titoli del debito pubblico e iniziare da una vera riforma fiscale. Ricominciando a lavorare sul troppo che ancora non è stato fatto. INTERVISTA AD ANTONIO MARTINO DI CECILIA MORETTI

Il «professore», già ministro degli Esteri e della Difesa, è l’uomo che più di ogni altro incarna lo spirito politico del ’94 e l’utopia della rivoluzione liberale. Antonio Martino, tessera numero due del partito di Forza Italia e leale (ma non accondiscendente) amico e sodale politico di Silvio Berlusconi, negli ultimi mesi è strenuamente a capo della fronda antitremontiana. Il riferimento ca-

rismatico e ideologico di quei parlamentari del Popolo della libertà che hanno deciso di alzare la voce e ribellarsi alla politica economica intrapresa dal governo e alla manovra «di tagli e di tasse» messa a punto dal ministro dell’economia. Professore, la rivoluzione liberale alla fine non si è fatta. Che cosa è andato storto?

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Anche se i vari governi Berlusconi hanno governato bene, di tutto quello che abbiamo promesso non siamo riusciti a realizzare praticamente nulla. Per esempio, anche il primo governo Berlusconi, che durò pochissimo, governò bene, ma non riuscì a fare la riforma delle pensioni, che pure era stata giudicata positivamente anche da un gruppo di economisti di sinistra, tra i quali Paolo Sylos Labini e Romano Prodi. Non venne fatta per l’opposizione della Lega, per quella dei sindacati e per le tresche del Quirinale. 24

C’è ancora tempo e modo per fare qualcosa?

La durata tipica di un ciclo politico in Italia è vent’anni: Giolitti durò vent’anni, Mussolini durò vent’anni e nel 2013 scadono i vent’anni di Berlusconi. Se lui vuole essere ricordato in positivo deve riuscire a realizzare almeno una delle promesse che ha fatto, ma il tempo è poco, deve riuscirci in quest’anno e mezzo. Quindi secondo lei la legislatura arriverà a scadenza naturale?

Io non so che cosa accadrà, perché la situazione è molto confusa, ma a Berlusconi l’ho detto chiaramente: «Se arrivi fino alla fine legislatura senza realizzare neanche una delle promesse che hai fatto, verrai ricordato dalla storia non per i tuoi indubbi successi, ma perché hai sciupato un’occasione irripetibile per cambiare l’Italia». E gli ho anche detto: «Presenta una riforma

come si deve e, se te la bocciano, te ne vai come De Gaulle», che, tra l’altro, se ne andò per un motivo niente affatto importante, perché venne battuto a un referendum regionale di scarso significato. E se dovesse proporla lei questa riforma?

Innanzitutto proporrei una riforma fiscale, che non costerebbe e, anzi, frutterebbe. Il gettito delle imposte dirette in Italia è irrisorio: nel 2010 l’Imposta sul reddito delle persone fisiche, l’Imposta sul reddito delle società, l’Imposta sulle attività produttive hanno tutte assieme fruttato il 14,6% del Pil, ovvero pochissimo. Ora, d’altro canto, le aliquote sono talmente anche che massacrano. E non chi è già ricco (che non sa nemmeno quanto paga di imposte e va da un tributarista che gli trova mille modi legali per non pagare le tasse), ma chi potrebbe crescere, chi potrebbe diventare ricco, e non lo diventa perché glielo impediscono queste aliquote punitive. In questo numero di Charta minuta si tenta la proposta di una manovra shock da 500 miliardi di euro per risanare il debito e rilanciare lo sviluppo. Quale sarebbe la sua ricetta per dare una scossa all’economia italiana?

Creerei un fondo per la riduzione del debito pubblico, a cui trasferire la proprietà di tutte le attività patrimoniali dello Stato, mobili e immobili. Questo fondo


SHOCK ECONOMY intervista a Antonio Martino

avrebbe l’obbligo di utilizzare tali risorse soltanto per ritirare titoli del debito pubblico dal mercato. Non appena gli speculatori vedessero che lo stock totale di debito pubblico diminuisse per questo scambio tra partecipazioni statali e titoli del debito pubblico, allora la fiducia verso l’Italia aumenterebbe e si innescherebbe un circolo virtuoso, capace di abbassare il tasso di interesse e quindi la spesa per gli interessi. Il ministro dell’Economia, però, non vuole cedere le partecipazioni statali, parla di vendite di immobili, ma non di vendere Enel, Eni, Finmeccanica, Poste, Ferrovie dello Stato, Rai. Perché quelle partecipazioni gli danno la possibilità di nominare i suoi amici in posti ben pagati e di potere.

120%. È chiaro che le manovre non funzionano, perché sono manovre di tagli e tasse. I tagli, però, agiscono su quelle spese che a legislazione invariata possono essere modificate dal governo, una frazione piccola del totale e niente affatto voluttuarie. I tagli che hanno fatto alla Difesa, per esempio, hanno colpito le spese di esercizio, essenziali al funzionamento delle Forze armate: carburante, munizionamento, addestramento, manutenzione, pezzi di ricambio. In questo modo accadono anche delle tragedie, come già nel 2008, quando in Francia precipitò un elicottero italiano con sette militari che morirono tutti, perché per mancanza di soldi non era stata fatta la manutenzione.

Il suo giudizio sulla manovra è stato impietoso e senza appello. Che cosa non l’ha convinta?

In Europa mostrano molta apprensione per il futuro italiano…

L’idea stessa di manovra. Di manovra correttiva, infatti, si può parlare quando si ha a che fare con misure messe in atto per rimettere in carreggiata e far ripartire un sistema sano, che per una ragione accidentale imprevista devia dalla strada dello sviluppo. Dunque, una manovra correttiva deve essere un fatto eccezionale, noi, invece, ne abbiamo avute almeno una (e molto spesso di più) ogni anno da almeno 25 anni. Eppure, 25 anni fa il debito pubblico era di 450 miliardi, ora di quasi 2mila miliardi, 25 anni fa era l’85% del Pil, ora oltre il

Innanzitutto, comincerei col dire che il signor Trichet, che non è nemmeno italiano, non ha titolo di sorta per dire a noi italiani che cosa dobbiamo o non dobbiamo fare. Secondo, la Banca centrale europea non ha tra i suoi compiti quello di intervenire nella politica fiscale di uno Stato, ma deve occuparsi della stabilità dell’euro e non può fare niente all’interno della sovranità di uno Stato per quanto riguarda il bilancio pubblico. Terzo, nessuno elesse il signor Draghi come governatore della Banca d’Italia perché si occupasse di dire al governo che cosa dovesse fare e nessuno ha eletto il signor

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Sarkozy in Italia. In più, non va dimenticato che l’Europa è un’associazione di Stati ugualmente sovrani. C’è un disegno anti-italiano?

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No, nessun disegno. C’è il panico per una situazione che è sfuggita di mano, è fuori controllo e rischia di mandare l’euro a gambe all’aria. Le ragioni sono le stesse che io non mi stanco di indicare dal 1970, cioè da 41 anni: l’euro, per poter sopravvivere, deve essere stabile e perché lo sia non deve essere consentita la monetizzazione del debito, ovvero l’acquisto di titoli di debito pubblico da parte della Banca centrale. Invece, è successo che alcuni paesi, barando, hanno nascosto l’entità del loro indebitamento e sono arrivati al punto di non riuscire più a far fronte ai propri debiti. Quindi, la loro soluzione è fare un fondo salva-Stati, che premia gli Stati che non si comportano correttamente comprando i loro debiti e punisce quelli virtuosi prelevando loro più risorse. Continuando così naturalmente l’euro è condannato. Si sarebbe potuto salvare solo modificando il trattato di Maastricht, che prevede sanzioni pecuniarie per gli Stati che non rispettano i parametri, che è un provvedimento che non funziona, perché se un paese non riesce a far fronte ai suoi debiti, dargli una multa certo non lo aiuta a risolvere i problemi. La cosa da fare, invece, è espellere dall’area dell’euro i paesi non in

regola e tenere dentro solo chi è in regola. Allora l’euro non correrebbe rischi. Parla dell’euro come se fosse già spacciato…

Secondo me ci sono buone probabilità che lo sia. Non è un evento che io auguri, ma è un evento che temo. Perché non solo andrà a farsi benedire l’unità d’Europa, c’è il rischio che vada a farsi benedire anche l’unità d’Italia. Nessuno spunto per essere ottimisti?

Non riesco a essere ottimista. Quando mi chiedono come va rispondo che potrebbe andare peggio, ma non di molto. La sua idea per superare l’impasse pensioni?

Se non avessero bocciato la nostra riforma delle pensioni del ’94, oggi il regime pensionistico sarebbe sostenibile. Così com’è evidentemente non lo è, perché la spesa per le pensioni cresce più del reddito nazionale. C’è chi sostiene che in questa fase un governo tecnico potrebbe essere utile…

Dei governi tecnici penso quello che ebbe a dire alla Camera Palmiro Togliatti moltissimi anni fa: sono i peggiori governi politici che si possano immaginare. Il loro scopo è quello di andare contro la volontà popolare, realizzando cose che la maggioranza degli italiani non vuole. E che ne pensa della soluzione della patrimoniale?


SHOCK ECONOMY intervista a Antonio Martino

La patrimoniale bisogna farla. A carico dello Stato, però. Espropriamo il patrimonio dello Stato e risolviamo i problemi…

L’Intervistato

Esiste ancora la possibilità che in Italia si imponga un partito liberale di massa?

Certamente non credo a un partito socialista di Carrara… Io sarò sempre liberale, ma è difficile esserlo perché l’intervento pubblico lo possono capire tutti, non richiede un grande sforzo di ragionamento pensare che in un paese se una cosa non va, interviene il governo e la risolve. Lo sforzo di ragionamento lo richiede invece spiegare perché l’intervento del governo, lungi dal risolvere il problema, aggrava le cose.

antonio martino Economista e politico, è stato membro del Partito liberale italiano, docente di Economia e preside dell’Università Luiss di Roma. Tra i fondatori di Forza Italia, eletto alla Camera dei deputati nel 1994, è stato ministro degli Esteri nel primo governo Berlusconi. Dal 2001 al 2006 ha ricoperto la carica di ministro della Difesa nei governi Berlusconi II e III.

L’Autore cecilia moretti Giornalista professionista, è redattrice di FareitaliaMag. Collabora con Lettera43.

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Paghiamo la mancata consapevolezza dei governi

La flessibilità sul lavoro potrà rilanciare il paese e l’occupazione

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Per buttarsi alle spalle questo periodo buio occorre audacia, a partire da una riduzione drastica dell’evasione fiscale. Una detassazione dei redditi sul lavoro delle donne, reintroduzione dell’Ici, riduzione dell’Irpef, dismissione di proprietà pubbliche inutilizzate e straordinaria introduzione di una patrimoniale per i più ricchi. INTERVISTA A PIETRO ICHINO DI ANTONIO RAPISARDA

Davanti allo spettro di una crisi c’è chi come Pietro Ichino non si abbatte e non si iscrive alla categoria degli “sfascisti”. Anche perché proprio il momento richiede l’opera di coloro i quali, invece, fanno del riformismo sociale una missione politica e personale. Per questo motivo il giuslavorista – che è anche senatore del Partito democratico e che per il suo impegno è sotto ricatto perenne della Nuove brigate rosse – rimette al centro progetti e proposte in luogo di una facile invettiva. Ciò non gli impedisce ovviamente di criticare quelle che ritiene approssimazioni del governo nella gestione del periodo che ha antici-

pato la crisi. Ma allo stesso tempo, sfatando alcuni tabù incapacitanti a sinistra (come determinati conservatorismi rappresentati dai sindacati), non crede che il mantenimento dello status quo possa essere il biglietto da visita per un’alternativa credibile di governo. Senatore, lei crede che usciremo da questa crisi?

Certo che ne usciremo! La storia insegna che nello stesso tempo in cui un paese sta attraversando il tratto più buio di una crisi stanno sempre già maturando da qualche parte, per lo più inosservati, i germi della prossima fase positiva di crescita.


SHOCK ECONOMY intervista a Pietro Ichino

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Per esempio?

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Nei laboratori di qualche parte del mondo è probabilmente già in corso l’incubazione di nuovi sviluppi tecnologici in materia di comunicazione, di medicina, di trasporti, di tecniche di apprendimento, o in qualche altro campo di importanza decisiva per lo sviluppo economico. In qualche formazione sociale intermedia stanno sperabilmente maturando il leader e le idee capaci di ridare all’Italia fiducia in se stessa. Nella cultura delle relazioni industriali è già in corso l’elaborazione di nuovi paradigmi capaci di mettere il nostro lavoro in relazione utile con nuove energie imprenditoriali provenienti da altre parti del mondo. E di esempi di questo genere potremmo farne ancora molti. Irene Tinagli ha tutte le ragioni quando si affanna ad avvertirci, a questo proposito, che “il futuro è più forte della crisi”; e che dobbiamo incominciare subito a pensare al dopo. Già, il dopo. Ma il problema è come ne usciremo?

Sicuramente ne usciremo molto diversi da come ci siamo entrati. Per quel che riguarda il nostro tessuto produttivo, avremo aziende e settori in fase di contrazione, se non di chiusura, altre aziende e altri settori con grandi prospettive di crescita. La nostra prima preoccupazione dovrebbe essere quella di attrezzarci per consentire il trasferimento in condizioni di sicurezza economica e professionale di

centinaia di migliaia di lavoratori dalle aziende declinanti a quelle che sono più capaci di valorizzare il loro lavoro e dare loro buone prospettive. Invece non sappiamo fare altro che incoraggiare i lavoratori a restare attaccati con le unghie e coi denti alle imprese in crisi, potenziando ed estendendo in tutti i modi la Cassa integrazione. Una politica del lavoro profondamente sbagliata e regressiva. Il mese scorso è rispuntata l’ipotesi di un condono per finanziare misure per lo sviluppo. Lei che cosa ne pensa?

Ne penso malissimo. Quali dovrebbero essere, invece, secondo lei, le altre misure, sul piano fiscale?

Ho in mente un’operazione audace: ridurre drasticamente l’evasione fiscale attrezzando gratuitamente tutti i venditori di beni o servizi con il terminale mobile per la riscossione a mezzo bancomat e tutti i cittadini con un conto corrente e una tessera bancomat, prevedendo al contempo un divieto drastico dei pagamenti in contanti al di sopra dei 200 euro e una riduzione dell’aliquota Iva riservata a chi non paga in contanti. Contemporaneamente prevedere una riduzione delle aliquote Irpef automaticamente correlata al maggior gettito prodotto da queste misure. Inoltre proporrei la reintroduzione dell’Ici sulle case, con destinazione dell’intero suo gettito a una drastica riduzione dell’Irpef sui redditi di lavoro, autonomo e subor-


SHOCK ECONOMY intervista a Pietro Ichino

Il Libro Tagliare i parassiti Pietro Ichino I nullafacenti Mondadori 2006, 24 pp., 12 euro «Perché, mentre si discute di tagli dolorosi alla spesa pubblica per risanare i conti dello Stato, nessuno propone di cominciare a tagliare l'odiosa rendita parassitaria dei nullafacenti?». Il 24 agosto 2006, dalle colonne del Corriere della Sera, Pietro Ichino lancia una proposta che scuote il mondo politico e sindacale. Chiave di volta del progetto è l'istituzione di organi indipendenti di valutazione (0IV) capaci di stimare l'efficienza degli uffici pubblici e dei loro addetti, per consentire il licenziamento nei casi più gravi, ma anche l'aumento delle retribuzioni dei dipendenti che lavorano per due. Intanto, al forum del Corriere arrivano in un giorno e mezzo 1500 interventi, tra cui molte istantanee di nullafacenti ritratti dal vivo: dall'impiegata che timbra il cartellino e poi va dal parrucchiere, al funzionario sano come un pesce che usa “prendersi la malattia” tutte le volte che torna al paese, al professore semianalfabeta. In questo libro Pietro Ichino, oltre a spiegare la sua proposta, affinata in collaborazione con altri studiosi, raccoglie una piccola antologia di quegli interventi.

dinato, fino a mille euro al mese: questo avrebbe uno straordinario effetto di rilancio dei consumi. Infine, una detassazione selettiva dei redditi di lavoro delle donne, come “azione positiva” destinata a cessare al raggiungimento dell’obiettivo di Lisbona del tasso di occupazione femminile al 60% (oggi è al 46), finanziata con l’aumento stesso dell’occupazione femminile, con la parificazione dell’età del pensionamento delle donne rispetto a quella degli uomini e, se necessario, eventualmente anche con un ritocco in aumento dell’Irpef sui redditi di lavoro maschili: ne basterebbe uno molto modesto, sia perché gli uomini al lavoro sono molti di più, sia perché l’offerta e la domanda di lavoro maschile sono molto più rigide, dunque il ritocco dell’Irpef non ne causerebbe una riduzione. E nei campi diversi da quello fiscale?

Proporrei innanzitutto una drastica revisione della spesa pubblica corrente, incominciando da quella inerente al funzionamento delle assemblee elettive, mediante un’applicazione rigorosa del metodo della spending review. Inoltre un ampio programma di dismissione del patrimonio pubblico male utilizzato, con predeterminazione settore per settore della destinazione dei proventi: per almeno metà alla riduzione del debito, per l’altra metà alla rivitalizzazione del tessuto produttivo. Per esempio, si può pensare alla dismissione di una grande quantità di edifici poco o

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Il Libro Il giuslavorismo nella storia Pietro Ichino Il diritto del lavoro nell’Italia repubblicana

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Giuffré Editore 2008, 24 pp., 45 euro Non è possibile comprendere a fondo il nostro diritto del lavoro attuale, né le sue problematiche prospettive di evoluzione, se non si ripercorrono le vicende politiche, sindacali, economiche e i percorsi culturali attraverso i quali esso si è formato negli ultimi sessant’anni. Con questo intendimento, il libro racconta le vicende a tratti drammatiche di una comunità accademica di frontiera: dai licenziamenti politici nella Fiat degli anni cinquanta all’autunno caldo del 1969; dallo Statuto dei lavoratori del 1970 alla “marcia dei 40.000” di dieci anni dopo, alla violenza sanguinaria delle Brigate Rosse; dal protocollo Ciampi del 1993 alla legge Biagi del 2003, fino alle ultime vicende travagliate della politica del lavoro nella XV legislatura. Il libro si propone come una sorta di atlante storico della cultura giuslavoristica italiana dell’era repubblicana, una mappa nella quale paralleli e meridiani sono costituiti rispettivamente dalle testimonianze raccolte dalla viva voce dei padri fondatori – i grandi civilisti-lavoristi Mengoni e Scognamiglio, i primi giuslavoristi puri Giugni, Mancini e Giuseppe e dalla ricognizione storica, per così dire longitudinale, di figli e nipoti.

per nulla utilizzati dalle amministrazioni e delle grandi aree oggi occupate nel centro delle nostre città dalle caserme non più in funzione, con assegnazione di metà di esse agli enti locali. All’assegnazione mediante una gara seria di tutte le frequenze televisive, anche di quelle utilizzate per le trasmissioni nazionali; delle migliaia di chilometri di coste occupate da stabilimenti balneari; delle partecipazioni pubbliche in grandi imprese come la Rai, o come Eni ed Enel, almeno per la parte non necessaria al fine di mantenerne il controllo. Si può pensare anche alla vendita del 20 o 30% del patrimonio artistico oggi totalmente inutilizzato, conservato nelle cantine dei nostri musei (i quali espongono soltanto un sesto o un settimo delle opere di cui dispongono), con destinazione dei proventi all’istruzione, alla ricerca, alla valorizzazione della parte maggiore di quel patrimonio, oggi a rischio. Lei, però, nel febbraio scorso ha parlato anche di un’imposta patrimoniale straordinaria?

Ne ho parlato come di una misura da adottare solo in un secondo tempo: solo un governo che abbia compiuto in casa propria tutti i passi di cui ho detto, e magari anche alcuni altri, sarà politicamente abilitato a chiedere un sacrificio alla parte più ricca della nazione, mediante un’imposta patrimoniale straordinaria che aiuti a completare il dimezzamento del debito pub-


SHOCK ECONOMY intervista a Pietro Ichino

blico che ci viene chiesto dall’Europa. Liberalizzazioni, privatizzazioni, patrimoniale: tutti le invocano, ma restano incompiute?

Perché in questi ultimi dieci anni da parte dei governi che si sono susseguiti sono mancate la consapevolezza dell’urgenza di questa operazione, quindi la volontà di compierla, e ancor più il disegno strategico chiaro necessario per compierla. Anche ultimamente, in occasione della crisi dell’estate scorsa, il nostro governo ha mostrato una totale mancanza di chiarezza di idee sul che cosa fare e come farlo: ogni giorno si ventilava una misura, per poi rimangiarsela il giorno successivo. È stato uno spettacolo sconfortante. L’Europa ci chiede, tra le altre cose, anche di rivedere le pensioni. Eppure, anche qui, non mancano i conservatorismi?

Il governo ha passato i primi due anni e mezzo di questa legislatura a dire che il sistema pensionistico non richiedeva aggiustamenti, salvo poi apportarne di rilevantissimi sotto il peso dei vincoli europei, come è accaduto nel 2010 con la parificazione dell’età di pensionamento nel settore pubblico e nell’estate scorsa in funzione dell’accelerazione del pareggio di bilancio. Ma questa della parificazione tra uomini e donne è soltanto una delle misure necessarie; un’altra e anche più importante è il riequilibrio del trattamento pensionistico tra ge-

nerazioni. E un’altra ancora è costituita dal necessario riequilibrio tra welfare pensionistico e welfare delle famiglie: mi riferisco alle situazioni di bisogno dell’infanzia e dei giovani, che incidono su tutto lo sviluppo futuro delle persone, e alle famiglie con persone non autosufficienti. Di tutto questo ritardo – frutto anche di un certo egoismo dei padri – pagheranno il costo i giovani.

I giovani lo stanno già pagando. E molto caro. L’uscita della Fiat da Confindustria che cosa segna?

Prima ancora di quest’ultima vicenda, sono stati i contratti Fiat di Pomigliano e Mirafiori a segnare una svolta epocale nel nostro sistema delle relazioni industriali. Senza quei contratti aziendali, non ci sarebbe stato l’accordo interconfederale del 28 giugno scorso. Quanto a quest’ultima mossa della Casa torinese, non comprendo perché essa sia rimasta dentro Confindustria fino a ieri – anche nel 2009, quando Confindustria firmò il timidissimo accordo con Cisl e Uil che creava più problemi di quanti non ne risolvesse ‑ e ne esca proprio ora, nel momento in cui Confindustria compie una svolta significativa. Mi sembra che così la Fiat rischi di indebolire questa svolta, rafforzando i soggetti che si oppongono al cambiamento su entrambi i versanti del sistema delle relazioni industriali. Osservo, poi, che l’uscita dal sistema interconfede-

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rale, invece che aumentare la libertà contrattuale della Fiat, paradossalmente la riduce. Marchionne l’ha motivata con l’“intesa integrativa” firmata dal Confindustria il 21 settembre con Cgil, Cisl e Uil.

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L’Amministratore delegato della Fiat sostiene che quell’intesa integrativa avrebbe segnato un passo indietro rispetto all’articolo 8 del decreto di Ferragosto. Non è così: per un verso la nuova norma legislativa allarga le possibilità della contrattazione aziendale soltanto se questa si colloca nell’alveo dell’accordo interconfederale del 28 settembre; per altro verso, questo accordo prevede la possibilità che la contrattazione aziendale investa tutte le materie che le sono delegate dal contratto nazionale o dalla legge. C’è così una perfetta e automatica coincidenza di oggetto e campo di applicazione fra la norma legislativa e l’accordo interconfederale. Dunque, dicendo che “le parti si atterranno rigorosamente all’accordo”, l’intesa del 21 settembre non limita affatto le potenzialità di applicazione dell’articolo 8. Sull’articolo 8 la sfida è soltanto politica oppure c’è qualcosa di sostanziale?

Il vero problema è che si tratta di una norma sbagliata sul piano tecnico, prima che su quello politico. Perché la riforma del nostro diritto del lavoro – pure necessaria e anzi urgente – non può essere delegata alla contrattazione aziendale da un legislatore che se ne lava le mani. La riforma richiede un disegno organico e un

policy-maker che se ne assuma la responsabilità. Detto questo, però, ora l’articolo 8 è in vigore. Può essere utilizzato malissimo: per questo dico che è una norma sbagliata. Ma può essere anche utilizzato benissimo. E allora, perché non provarci? Mercato del lavoro. Anche qui la Bce ha chiesto adeguamenti: siamo competitivi?

Ecco, rispetto alla lettera del 5 agosto di Trichet e Draghi al nostro governo, l’articolo 8 dice al tempo stesso troppo e troppo poco. Troppo, perché la Bce ci chiede soltanto di consentire alla contrattazione aziendale di derogare rispetto al contratto nazionale, non di derogare all’intera legislazione in materia di lavoro. Troppo poco, perché la Bce ci chiede una incisiva riforma della materia dei licenziamenti, accompagnata da misure idonee a garantire ai lavoratori che perdono il posto una piena sicurezza economica e professionale nel passaggio dalla vecchia occupazione alla nuova: per questo aspetto l’articolo 8 non dice nulla. La nuova norma affida il compito di questa riforma alla contrattazione aziendale; ma questa non dispone né dei mezzi né del know-how per assolvere un compito così complesso. Lei, però, con il progetto flexsecurity ha proposto un modello di contratto aziendale concepito proprio in funzione di questo compito?

Sì. E l’ho messo a disposizione di imprese e sindacati che intenda-


SHOCK ECONOMY intervista a Pietro Ichino

no lavorare insieme su questo progetto. Ma ho l’impressione che se non saranno le confederazioni sindacali e imprenditoriali ad assumersi la responsabilità di dettare delle guidelines per orientare la contrattazione aziendale su questo terreno, difficilmente imprese e rappresentanze sindacali aziendali troveranno l’audacia necessaria per compiere un passo di questo genere. Resta così aperto il grande tema degli esclusi, di quelle categorie che non godono di nessuna tutela: ossia ancora i giovani e i precari?

Riscrivere il diritto del lavoro è necessario soprattutto per loro. Occorre un diritto del lavoro capace di applicarsi veramente a tutti. Almeno a tutti i rapporti di lavoro dipendente che si costituiscono da qui in avanti. Il problema è che nessun sindacato rappresenta i lavoratori futuri. In conclusione, ci sono ancora spazi di autonomia per la politica oppure siamo destinati a farci etero dirigere da organismi sovranazionali?

Se la nostra politica saprà dare un colpo di reni, ci saranno spazi enormi per la sua iniziativa. Altrimenti, sì, tutte le nostre speranze di rimettere in carreggiata il nostro paese dovranno appuntarsi sulle istituzioni europee.

L’Intervistato

pietro ichino Docente ordinario di diritto del lavoro, avvocato e giornalista. Eletto deputato (indipendente nelle liste del Pci) nell'VIII legislatura, ha partecipato al dibattito politico sulle materie del lavoro con l'attività giornalistica e i suoi libri. Ha partecipato alla fondazione del Pd ed è stato eletto al Senato nel 2008. Componente della commissione Lavoro. è stato dirigente sindacale della Fiom-Cgil dal 1969 al 1972; dal 1973 al 1979 è stato responsabile del Coordinamento servizi legali della Camera del Lavoro di Milano. Dal 1975 è iscritto all’Albo degli Avvocati e Procuratori di Milano ed esercita la professione forense. Ricercatore dal 1983 presso l’Università statale di Milano, dal 1986 al 1991 è stato professore straordinario di diritto del lavoro nell’Università di Cagliari. Dal 1991 è professore ordinario della stessa materia nell’Università statale di Milano, dove dal 1999 è direttore del Master Europeo in Scienze del Lavoro. Nel 1985 ha assunto l’incarico di coordinatore della redazione della Rivista italiana di diritto del lavoro. Dal 2003 è membro del Comitato di direzione della rivista Giustizia civile.

L’Autore antonio rapisarda Giornalista professionista. Collabora con il Secolo d’Italia e Fareitaliamag.

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SHOCK ECONOMY di Mario Baldassarri

Per una rivoluzione dell’economia

Basta con TOLOMEO, ora serve COPERNICO Stiamo ballando sul Titanic. Ma chi da anni è al timone e fa il nostromo stabilisce da solo la rotta, guardando le carte di Tolomeo, ovvero ponendo al centro la spesa corrente, che nessuno vuole tagliare. Ma ora bisogna scoprire Copernico, ovvero mettere al centro crescita economica ed equità socio-distributiva. DI MARIO BALDASSARRI 37

Partiamo da due premesse di metodo che però hanno rilevanza politica. La prima è che le valutazioni qui riportate non sono opinioni personali, legittime ma pur sempre opinabili. Queste note si riferiscono a dati ufficiali del ministero dell’Economia e delle Finanze disponibili on line nel relativo sito web. La seconda è che nell’analisi della spesa pubblica si fa sempre riferimento alla classificazione “funzionale”, cioè difesa, sicurezza, sanità, istruzione ecc.. Pertanto, quando si propongono tagli o contenimenti della spesa quasi tutti pensano che, se si riduce ad esempio la spesa della sanità, questo significhi ridurre qualità e quantità dei servizi ai cittadini. In queste note invece si fa riferimento anche alla classificazione “economica” della spesa pubblica

che esplicita, all’interno di ogni voce funzionale, a che cosa è dovuta effettivamente quella spesa. All’interno di ogni voce “funzionale”, la classificazione “economica” consente di capire se si tratta di stipendi del personale, se sono invece acquisti di beni e servizi, se sono consulenze o spese di altro genere, se sono investimenti piuttosto che spesa corrente. Ecco perché una seria e consapevole valutazione politica non può fare a meno di considerare l’incrocio tra classificazione economica e funzionale. Rispetto all’ultimo Documento di Economia e Finanza di aprile, molti e significativi sono stati i cambiamenti dello scenario economico e delle condizioni della finanza pubblica: crisi mondiale delle borse, crisi dei debiti sovrani in Europa con il differenziale


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dei tassi di interesse sui titoli di vuto essere la risposta della ReStato italiani che ha superato il pubblica Italiana, del Parlamenpicco dei 400 punti base verso la to, del governo, della maggioGermania e si è di fatto allineato ranza e dell’opposizione (cioè una a quello dei titoli spagnoli, ral- risposta collettiva) a quegli andalentamento della crescita negli menti di mercato. Stati Uniti e nella stessa Germa- Occorre allora capire “quale linnia. Pertanto, quell’ultimo docu- guaggio” si parla fuori dall’Italia mento (che indicava tutti i dati da parte di questi operatori e di “tendenziali” e le intenzioni del quei mercati. Questi analisti (migoverno circa le manovre corret- gliaia e migliaia di persone che tive da fare, per due terzi con ta- leggono dati e numeri ogni giorgli di spesa e per un terzo con no) sono interessati a capire quali aumenti di entrate) avrebbe oggi sono i dati dell’economia e della bisogno di un aggiornamento, finanza pubblica italiane “dopo le una vera e propria nota aggiunti- manovre correttive”. Purtroppo invece, nell’inforva, che almeno inmazione mediatica cluda sia il decre- L’informazione italiana vengono to 98 di luglio diffuse notizie e che il decreto 138 diffonde solo numeri proposte come “tadi agosto, che virtuali, mai notizie gli di spesa sui hanno capovolto tendenziali futuri” la struttura delle sulla base reale su cui che sono numeri manovre annun- ricadono tagli e tasse virtuali o come auciata ad aprile, poiché gli aumenti di tasse inci- menti di tasse, ma nulla si dice dono per tre quarti e soltanto un mai sulla base quantitativa sulla quarto appare provenire da tagli quale vanno a cadere questi tagli di spesa o questi aumenti di tasdi spesa. In attesa di tale nota aggiuntiva se. Infatti, nell’economia italiana però, non è complicato fare qual- non entrano i “tagli di spesa sui che elaborazione sulla base dei tendenziali”, non “entrano” gli documenti ufficiali e delle rela- aumenti di tasse, ma ciò che conzioni tecniche della Ragioneria ta è: quante tasse (dopo gli augenerale dello Stato, nonché sulle menti) pagheranno gli italiani note di analisi del Servizio studi nei prossimi anni e quanta e quale spesa pubblica (dopo quei tagli e bilancio del Senato. Tale sintetico aggiornamento è su valori tendenziali-virtuali), la riportato nella tabella 1 della pa- Repubblica Italiana farà. Di conseguenza quale sarà l’andamento gina seguente. Le due manovre, di luglio e di del deficit, del debito pubblico e agosto, si sono rese necessarie per della crescita economica. rispondere alle fibrillazioni e ai Questi ultimi sono i numeri che gravi rischi emersi sui mercati fi- analisti e mercati leggono e vananziari e quindi avrebbero do- lutano.


SHOCK ECONOMY di Mario Baldassarri

Tabella 1 – I numeri delle due manovre di luglio e di agosto 2011 (ns/ elaborazioni contabili di dati ufficiali del Ministero dell’Economia e delle Finanze) Valori in miliardi di euro

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Ci si deve allora chiedere perché i mercati, dopo la manovra di luglio varata in pochi giorni con le opposizioni che non hanno fatto ostruzionismo, hanno reagito in modo negativo bocciando di fatto la stessa manovra. Non si deve dimenticare che la punta massima di spread tra tassi di interesse sui titoli di Stato italiani e tedeschi (la soglia dei 400 punti base non l’avevamo mai avuta) si è determinata “dopo” la manovra di luglio e non “prima”. Il perché della bocciatura di luglio da parte dei mercati finanziari internazionali può essere meglio compreso proprio guardando i numeri presentati nella

precedente tabella. I mercati, infatti hanno visto numeri “veri” che sono facilmente calcolabili e hanno scoperto che quella manovra di luglio, rispetto ai valori storici consolidati per il 2010, si poneva l’obiettivo di azzerare il deficit nel 2014. E certamente hanno valutato positivamente questo obiettivo, anche se sarebbe stato meglio anticipare il deficit “zero” al 2012 o al 2013. Ma allora perché la risposta è stata comunque negativa? Ebbene i mercati hanno valutato “come” il deficit zero veniva perseguito, comunque oltre la scadenza naturale della attuale legislatura. E allora hanno “letto” i numeri


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della tabella qui riportata. Infat- luce dei dati ufficiali riportati ti, quella manovra determina, nella precedente tabella. dal 2010 al 2014, 120 miliardi Questo secondo decreto anticipa in più di entrate totali, cioè di l’obiettivo di azzerare il deficit al tasse. Questi 120 miliardi in più 2013. E questo è senz’altro posisono utilizzati per circa 71 mi- tivo. Ma ancora una volta chieliardi per azzerare il deficit (dato diamoci “come” questo decreto che nel 2010 il deficit è stato di intende perseguire l’obiettivo. 71 miliardi) e gli altri 49 miliar- Ebbene, quell’obiettivo di azzeradi di tasse in più sono utilizzati mento del deficit nel 2013 si otper finanziare 57 miliardi di spe- terrebbe con 100 miliardi in più sa corrente in più con 8 miliardi di tasse, che passerebbero da 722 miliardi nel 2010 a 822 miliardi di investimenti in meno. E allora, chiunque al mondo sa nel 2013. Pertanto, non è camche una manovra fatta con più biato nulla rispetto al decreto di tasse per azzerare il deficit ma luglio, anche perché nella tabella si può leggere che, continuando in larga parte a fi- Una manovra che azzera nel 2014, il totale delle entrate annanziare più spesa drebbe addirittura corrente e taglian- il debito aumentando a 850 miliardi, do gli investimen- le tasse, finanzia solo contro gli 842 miti, produce un efliardi previsti semfetto di freno sulla la spesa corrente e pre al 2014 dopo il crescita economi- taglia gli investimenti decreto di luglio. ca. Di conseguenza fragile ed incerto resta lo stes- Quindi si è anticipato l’impatto so obiettivo di azzeramento del della manovra, ma il punto finale in termini di tasse è ancora deficit. Si può infatti notare che, “pri- peggiore. ma” della manovra di luglio, i E allora, a cosa servono i 100 mimercati e le istituzioni interna- liardi di tasse in più al 2013 di zionali indicavano all’Italia la ne- questo decreto di agosto? Per 75 cessità di azzerare il deficit e rie- miliardi, quindi i tre quarti di quilibrare i conti pubblici. Ma, quelle tasse in più, servono per “dopo” la manovra di luglio, le portare il deficit pubblico da 71 note critiche, mantenendo la ne- miliardi nel 2010 ad un avanzo cessità di azzerare comunque il di 4 miliardi nel 2013. Gli altri deficit, si sono indirizzate anche 25 miliardi servono per finanziaalla crescita troppo debole e re 36 miliardi di spesa corrente asfittica che ne sarebbe consegui- in più con 11 miliardi di investimenti pubblici in meno. L’antita per l’economia italiana. Questo per quanto riguarda il cipo dello “zero deficit nel 2013” viene quindi perseguito in una decreto di luglio. Valutiamo ora il secondo decreto, forma strutturale che è peggiore il n.138 di agosto, sempre alla della manovra di luglio: più forte


SHOCK ECONOMY di Mario Baldassarri

e più concentrato nel tempo è il ciali l’effetto di retroazione delle taglio degli investimenti e co- manovre correttive sull’andamunque l’aumento delle tasse va mento della crescita economica, a finanziare ulteriori aumenti di come se quell’effetto non ci fosse. Se non valutiamo questi effetti, spesa corrente. Allora, quando i mercati legge- il che vuol dire la “qualità” e il ranno questi numeri, “dopo” che “come” della manovra, ci ritrovequesta manovra sarà varata per la remo da qui a qualche settimana, seconda volta nell’arco di un me- dopo il venir meno del sostegno “tampone” della Bce, con nuove se e mezzo, come reagiranno? È evidente che con questa strut- pericolose fibrillazioni sul mercatura la manovra non può che to dei titoli di Stato italiani. produrre ulteriori effetti di freno Qualcuno già pensa a un ulteriosulla crescita. Qualcuno ha già re aggiustamento dei conti pubstimato questi effetti di freno in blici da fare, a settembre/ottobre, un meno 2% di Pil nei prossimi con la legge di stabilità. Ma non è difficile immagitre anni. Questo nare con quale qualcuno potrebbe Anche la manovra credibilità noi tutessere pessimista e ti italiani potremc’è da augurarsi di agosto, per come è mo andare a difenche lo sia. Certa- strutturata, non può dere le nostre ramente però le pregioni in Europa e visioni di crescita che produrre effetti nel mondo quannel triennio 2012- di freno alla crescita do nell’arco di due 2014, prese a base dal governo e rispettivamente mesi e mezzo, da luglio a settempari a 1,7%, 1,8%, 1.9%, risul- bre, avremo fatto due manovre tano assolutamente ottimistiche urgenti e la legge di stabilità. e infondate anche in considera- Cosa diremmo allora? Che faremo zione del fatto che nel frattempo zero deficit nel 2012? l’economia Europea ed interna- Ecco perché il Terzo Polo ritiene di dover richiamare al più alto zionale sta frenando. Ecco quindi che, se si considera senso di responsabilità tutte le questo ulteriore effetto di freno forze politiche e sociali e intende sulla crescita economica, è eviden- offrire a un serrato e serio conte come con questa manovra fronto quattro aree di riforme l’obiettivo di azzerare il deficit strutturali. Occorre fare in modo nel 2013 non potrà essere rag- che l’obiettivo di azzeramento del deficit possa essere più credigiunto. È allora inutile che nascondiamo bile con un sostegno alla crescita come uno struzzo la testa sotto la con tagli veri di spesa pubblica e sabbia, così come viene fatto da non con più tasse che frenano trent’anni in Italia al ministero l’economia. dell’Economia dove non viene Per fare questo occorre però un mai calcolato nei documenti uffi- cambiamento “mentale” nella no-

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stra politica economica che rende mo continuare a seguire Tolomeo necessaria una riflessione “stori- o, francamente, non è il caso ora di scoprire Copernico? ca” su Tolomeo e Copernico. Gli ultimi trent’anni della nostra Ma cosa vuol dire scoprire Coperstoria della finanza pubblica pos- nico nella finanza pubblica itasono essere divisi in due grandi liana? Vuol dire mettere al cenperiodi: i primi 15 anni (fase fi- tro, come obiettivi primari la nale della prima Repubblica) e i crescita economica, l’equità sosecondi 15 anni (fase attuale del- ciale-distributiva, l’equità fra la seconda Repubblica). In en- giovani ed anziani, l’equità fra trambi i periodi si è applicato, donne e uomini. E attorno a essi sostanzialmente, Tolomeo. È in- far “girare” gli interventi di polifatti vero che siamo tutti in un tica economica: tagli veri della Titanic. Sta di fatto però che chi spesa corrente e non più tasse da lungo tempo è al timone del sempre sui soliti tartassati. Titanic e fa anche il nostromo, Ecco allora le quattro aree di “Riforme struttustabilisce da solo rali e permanenti” la rotta guardando Dobbiamo iniziare che il Terzo Polo le carte geografipropone in Parlache e marine di a scoprire Copernico mento e alle forze Tolomeo. E se si anche nella finanza politiche, econocontinua a guardare le carte di pubblica e abbandonare miche e sociali: meno spesa, meno Tolomeo è impos- la filosofia tolomeiana tasse; meno debisibile scoprire le Americhe ed è difficile evitare to, meno evasione, meno corrul’iceberg. Infatti l’impostazione zione; più crescita, più coesione; “tolemaica” della finanza pubbli- più equità per donne e giovani ca italiana pone al centro la spesa corrente che nessuno vuole ta- Tagli di spesa e non aumenti di gliare e che cresce per fatti suoi. tasse per fare rigore e crescita Attorno a quella spesa corrente la Non dobbiamo più correre dietro prima Repubblica, per i 15 anni alla spesa pubblica corrente auche vanno dal ‘80 al ‘95, ha fatto mentando continuamente le tasse. ruotare deficit e debito pubblico. Noi proponiamo di azzerare il Poi è arrivato l’euro e, senza in- deficit pubblico tagliando la speflazione e svalutazione del cam- sa corrente. bio, attorno alla spesa corrente All’interno della spesa pubblica dirompente, la Seconda Repub- corrente si sono in questi anni blica ha fatto ruotare aumenti di moltiplicati sprechi, malversaziotasse e tagli di investimenti. ni, furti, aree grigie tra economia Questa è la sintesi di trent’anni e politica. Su di essi occorre indi storia della finanza pubblica tervenire in modo mirato, punitaliana. tuale, verticale. I tagli orizzontaPossiamo continuare così, possia- li, uguali per tutti e per tutto, e


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per di più riferiti a fantomatici gnandosi un rigido budget di spevalori tendenziali futuri, non so- sa per le varie voci di costo o per no mai stati efficaci e mai po- le varie esigenze di acquisti. tranno esserlo. Infatti, se in una Quel comma non andava certacerta voce di spesa c’è qualcuno mente abrogato, anzi andava corche ruba 100 euro e si taglia del retto perché conteneva due limi10% su un valore tendenziale fu- ti: 1) il vincolo di spesa valeva soturo di 130, significa che si potrà lo per le amministrazioni centrali rubare 117 euro. Se invece in dello Stato e quindi andava esteso un’altra voce ci sono 100 euro a tutte le pubbliche amministraper la benzina dei carabinieri e si zioni; 2) quel comma diceva nel taglia nello stesso modo in oriz- 2010 che l’obiettivo doveva essezontale, al venti del mese finisce re raggiunto nel 2013. Ma perché la benzina nelle auto dei carabi- non subito sin dal 2011? nieri. Ecco perché il taglio “oriz- Su questa voce, che lo scorso anno zontale” è una dichiarazione di ha rappresentato circa 140 miliardi di euro di impotenza della spesa, noi propopolitica a fare scel- Gli obiettivi primari niamo che a partite di politica ecodevono essere re dal 2012 e per nomica. tutte le pubbliche Ecco perché chie- la crescita economica amministrazioni il diamo, in primo limite di spesa luogo, il ripristino e l’equità sociale debba essere quand e l c o m m a 8 tra tutti i cittadini to speso nel 2009 dell’art. 5 del decreto 78 del 2010. E ci chiedia- meno il 10%, tenendo anche conmo perché il governo lo abbia to che tra il 2004 e il 2009 quelabrogato con la manovra di lu- la voce di spesa è dilatata in qualglio. Infatti, quel comma indica- che settore del 50%. Ciò deterva, per la prima volta in tren- mina un risparmio che, rispetto t’anni di storia della politica ai dati ufficiali, può essere quaneconomica italiana, una cosa tificato in 16,5 miliardi nel giusta e sacrosanta. E cioè invece 2012, 20 miliardi nel 2013 e 25 di prendere in giro gli italiani miliardi nel 2014. annunciando mega tagli di spesa Il secondo taglio di spesa che sui valori tendenziali futuri, che proponiamo riguarda la voce alla fine significano aumenti di “fondi perduti” che erogano ogni spesa rispetto ad oggi, quel anno circa 40 miliardi di euro tra comma diceva: per la specifica contributi in conto corrente e voce “acquisti di beni e servizi” contributi in conto capitale. E a nel 2013 si dovrà spendere poco serve il giochetto delle tre quanto speso nel 2009 meno il carte per nasconderne l’entità ef5%. È quello che una impresa e fettiva, inserendo quelli in conto una famiglia fanno normalmente corrente dentro un mega calderoper far quadrare i loro conti asse- ne non identificabile delle “altre

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spese correnti” per un totale di oltre 65 miliardi di euro. Qui si tratta di trasformare i fondi perduti in credito di imposta. Non si tratta quindi di togliere il sostegno alle imprese ma di modificarne la forma di erogazione. Pertanto il credito di imposta è un sussidio che arriva a chi l’impresa la fa, sta sul mercato ed è in grado poi di riscuoterlo perché continua ad esistere ed operare negli anni. Al contrario, il fondo perduto viene riscosso subito e dopo tre anni l’impresa non esiste più e i fondi sono davvero perduti. 44

Proponiamo di mantenere l’erogazione dei fondi ad Anas, Ferrovie e Trasporti pubblici locali e di trasformare gli altri in credito di imposta. In questo modo, si determina un risparmio annuo di spesa di circa 23 miliardi di euro, al netto di circa 2 miliardi di euro da utilizzare a copertura dei crediti di imposta degli anni successivi. Le risorse provenienti da questi due precisi interventi di veri tagli alla spesa pubblica consentono di azzerare il deficit senza aumentare le tasse per nessuno e contestualmente di sostenere la

Tabella 2 - Tagli di spesa e sostegno alla crescita


SHOCK ECONOMY di Mario Baldassarri

crescita con interventi strutturali a favore delle famiglie introducendo deduzioni per carichi familiari e a favore delle imprese dimezzando l’Irap. Nella tabella 2 della pagina seguente sono indicati i risparmi di spesa proposti e la loro finalizzazione per l’azzeramento del deficit (nella stessa entità e tempistica proposta dal governo con gli aumenti di tasse) e le risorse disponibili per il sostegno alle famiglie, alle imprese ed alla crescita. Nella tabella 3 sono poi messe a confronto la manovra “tutte tas-

se” proposta dal governo e quella “tagli di spesa e sostegno alla crescita” proposta dal Terzo Polo in relazione all’azzeramento del deficit, all’andamento della crescita e al peso dello Stato sull’economia in termini entrate totali e di pressione fiscale. Il nodo politico della nostra proposta consiste nell’avvio di riforme strutturali e permanenti

In primo luogo e al centro della strategia di politica economica che proponiamo deve esserci la volontà politica di intervenire in modo puntuale e verticale nei ta-

Tabella 3 - Azzeramento del deficit, crescita e pressione fiscale: due manovre a confronto

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gli alla spesa pubblica corrente. Le ragioni della nostra scelta e l’entità di tale taglio consentono di raggiungere l’azzeramento del deficit nel 2013 senza alcun aggravio di tasse per nessuno e le risorse ulteriormente disponibili consentono di sostenere famiglie ed imprese e quindi di rafforzare la crescita dell’economia. Come si vede dai dati presentati nella tabella 2 infatti un azzeramento del deficit attraverso l’aumento delle tasse, frena la crescita e rende fragile ed incerto l’obiettivo di deficit zero. Al contrario tagli di spesa e sostegno alla crescita rafforza e consolida l’azzeramento del deficit. Non a caso, al di là dello specifico valore, nella nostra ipotesi l’avanzo di bilancio che si profilerebbe per il 2014 sarebbe molto più consistente di quanto ottenibile nelle ipotesi del governo con soli aumenti di entrate. In sintesi, sul piano economico e sociale, un equilibrio finanziario ottenuto con aumenti di tasse, aumenti di spesa corrente e tagli di investimenti, costa molto e rende poco, cioè “paghi 2 e prendi 1”, mentre un equilibrio di finanza pubblica ottenuto con meno spesa, meno tasse e più investimenti costa mene e rende di più cioè “paghi 1 e prendi 2”. La differenza tra le due strategia rischia quindi in termini di risultati di essere in rapporto uno a quattro. Basti valutare l’effetto freno del -2% sul Pil di una manovra “tutte tasse” rispetto all’effetto di sostegno alla crescita che sfiorerebbe il +2% di Pil con una

manovra di “tagli di spesa”. Un dato su tutti: con la manovra del governo la pressione fiscale è destinata ad aumentare fino a oltre il 45%, con la nostra manovra alternativa dovrebbe attestarsi poco sopra il 42%. E con oltre tre punti di pressione fiscale in più, forte e consistente è la differenza sul sistema economico, sulle famiglie e sulle imprese in termini di crescita e occupazione. Tolomeo spinge ad aumentare le tasse. Copernico dice invece che bisogna tagliare la spesa. E comunque si dovrebbe spiegare perché aumentare le tasse è sempre possibile, mentre qualcuno sostiene che tagliare la spesa “non si può”, neanche quando si tratta di sprechi, malversazioni, aree grigie tra economia e politica, cioè i “veri costi della politica” e non i “costi della democrazia”, che sono ben altra cosa.

L’Autore Mario Baldassarri Già viceministro dell'Economia e delle Finanze, è senatore di Futuro e Libertà per l'Italia.



L’approccio liberale alla crisi

È arrivato il momento di liberalizzare l’Italia Il giornalista economico più noto d’Italia continua a proporre le sue ricette liberali per modernizzare il paese e farlo uscire dalla crisi, a dispetto di corporazioni e resistenze di casta che, per difendere gli interessi di parte, rischiano di mandare in malora un’economia già agonizzante. 48

INTERVISTA A OSCAR GIANNINO DI GIOVANNI BASINI

Lo fa da anni, Oscar Giannino. Va in tv, spiega con competenza e precisione le ricette liberali che sostiene da sempre, si confronta anche duramente con i teorici della conservazione sociale ed economica. Ma spesso ha incarnato la figura del profeta inascoltato, dell’uomo che urla nel deserto mentre tutto attorno si scelgono strade diverse (e peggiori) da quelle da lui indicate. Ora, nei giorni più caldi di una crisi che rischia di far sprofondare il Vecchio Continente, il tam-tam delle idee liberali continua a suonare. Perché, anche per Giannino, il mercato non è il problema, ma la soluzione.

Lei che da anni si batte per la libertà economica nel nostro paese, può dirci a che punto siamo?

La risposta che do è quella dell’indice delle liberalizzazioni che abbiamo curato come Istituto Bruno Leoni e che abbiamo reso noto alcune settimane fa. La fotografia di questo report, che curiamo ogni anno, analizzando 16 diversi settori dell’economia italiana (e per ciascuno dichiarando qual è il nostro paese benchmark come riferimento per la miglior apertura a mercato e concorrenza) è ferma da anni, con una quota di apertura dei nostri 16 mercati sommati che varia tra il 47% e il 48%. E siamo fermi lì, quindi passi in


SHOCK ECONOMY intervista a Oscar Giannino

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avanti non ne abbiamo fatti. C’è qualche settore in cui c’è stato un minimo avanzamento ma, nella media dei dati, la fotografia generale del paese, in termini di apertura del mercato, testimonia da anni una stasi. In questo numero noi proponiamo una manovra da cinquecento miliardi, molti provenienti dalle privatizzazioni, da accompagnare a veri interventi a favore della libertà economica. In poche battute, ci dica qualcosa di liberale da mettere nella manovra.

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Nel medio periodo ci sono tanti campi che potrebbero essere arati. Le professioni sono uno di essi, ma sono anche quello in cui –a breve – si incontrano più difficoltà in parlamento. Se abbiamo in mente com’è la riforma concepita da chi ha la rappresentanza del mondo forense e la distanza rispetto a chi continua a dire “niente tariffe minime” abbiamo una idea di ciò di cui stiamo parlando. Abbattendo gli ostacoli all’entrata nel mercato, alla luce dell’esperienza degli altri paesi che l’hanno fatto, s’è determinato nel medio periodo un minor costo per gli utenti in presenza di migliori servizi e con l’abbattimento soprattutto di oneri e trasferimenti da parte del sistema pubblico. Da questo punto di vista, il sistema del servizio pubblico locale è un classicissimo esempio ed io mi concentrerei sicuramente su quello. Se l’esperienza della Gran Bretagna, in cui tutto il trasporto è deregolamentato all’infuori della gran-

de Londra, sappiamo anche che l’effetto è stato quello di moltiplicare domanda e offerta abbassando il costo. Lei ha ricordato che si propone da più parti, da anni e con scarsi risultati, l’abolizione degli ordini professionali. Di recente, quando con la finanziaria era sembrato fossero possibili almeno alcune liberalizzazioni, di fronte ad esse è stata eretta una muraglia di proteste. Il più insidioso degli argomenti utilizzati è stato quello che le liberalizzazioni, favorendo l’affermarsi di grandi studi professionali, anche stranieri, danneggerebbero i professionisti più giovani. Per lei, in questo ragionamento, c’è buona fede?

Non sta a me dire se c’è buona fede. Quello che vede chi la pensa come me è che c’è una difesa forte dello status quo. Io credo che debba essere garantita la piena libertà delle forme costitutive societarie attraverso cui i liberi professionisti offrono i loro servizi. È assolutamente ovvio, almeno per me, che fra queste tipologie di società debbano essere comprese le società di capitali. È assolutamente ovvio che tutto questo non implichi affatto lo stravolgimento della deontologia a cui è tenuto il professionista. Inoltre, ciò che chiedono le imprese italiane è di essere sempre più agevolate non nella gestione ordinaria ma nella fornitura di servizi ad elevata specializzazione, si pensi a compiti come la strutturazione delle reti internazionali e finanziarie più adeguate per resistere al credit crunch, che non possono esse-


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re forniti da manager interni. Questo tipo di competenze possono essere trovate solo in studi professionali grandi. In Italia, oltre e più che di sostegno teorico e di iniziativa politica, sembra che le liberalizzazioni incontrino problemi di fattibilità. Regolarmente, si parte per cambiare tutto e si finisce con montagne impegnate a partorire topolini. Può darsi che il problema sia nella comunicazione sui media? In particolare, lei ritiene che la natura ordinistica della professione del giornalista, tenda a favorire una scarsa predisposizione ad informare sulle battaglie relative alla liberalizzazioni degli ordini?

Logicamente dovrei rispondere di sì; praticamente non lo so. Ma rispondo di sì, perché sono da sempre – anche se lo dico col massimo rispetto per chi da anni vi profonde energie – a favore dell’abolizione dell’ordine dei giornalisti. La maggior parte di coloro che sono davvero liberi professionisti, come lo sono io oggi pur dopo aver lavorato anni come dipendente, sono alla base della piramide, e stentano a guadagnare venti euro al pezzo. Poi ci sono gli altri, una minoranza, che sono dipendenti pagati, e la cui libertà non si sa quale sia. L’idea di una natura relativa ai “professionisti” dell’ordine, in questo caso, è una finzione: sono dipendenti. Usciamo per un momento dal tema della libertà economica, per parlare di questa crisi. Come definirebbe la nostra situazione economica generale oggi?

È seria ed è anche grave, dal nostro punto di vista come Istituto Bruno Leoni, e dal mio punto di vista personale. È seria perché il nostro è un paese che, a differenza dei suoi concorrenti, da quindici anni accumula ritmi di crescita tra il 50 ed il 75% inferiori alla media dei paesi avanzati, ed è anche grave, perché il redde rationem della congiuntura attuale pone la nostra situazione consolidata al centro di una crisi gravissima come quella dell’eurodebito. Questa ha preso ormai la piega di una crisi che sarà bancaria, prima ancora che dei meccanismi di convergenza dei paesi più distanti dalla media di rigore e di finanza pubblica e produttività dell’economia privata agli standard europei. In questa situazione, l’Italia che da 10 anni a questa parte è stato un banco di prova della tenuta dell’euro, si trova ad essere un banco di prova che, dall’inizio di agosto, è diventato il focus del problema. È così perché non siamo un’economia di modesto apporto al totale del pil dell’eurozona e dell’euroarea ma siamo un paese fondatore e siamo il primo euro-emittente dell’area, ed in più, uniamo a queste due altre caratteristiche negative: elevato debito pubblico e bassa crescita. Per tutte queste ragioni secondo me la situazione è seria per come si è determinata e cristallizzata nel tempo ma è anche molto grave perché inevitabilmente il selling internazionale si concentra non solo sugli altri paesi deboli dell’euro, prima di

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noi entrati nel focus della crisi, ma anche su di noi. Come misura per ridurre il nostro deficit si è parlato molto di privatizzazioni. Recentemente, il sottosegretario Stefano Saglia ha lanciato un monito alla Confindustria, che suonava grossomodo come “sì alle liberalizzazioni, ma quanto alle privatizzazioni, se pensano di farle a prezzo di saldo, non ci stiamo”. Lei condivide l’idea che le privatizzazioni finirebbero per diventare in qualche modo una svendita?

A questa obiezione, che è una obiezione che ha una sua validità e che io non considero peregrina o come una che venga dal partito, bisogna articolare una risposta distinta su tre livelli. Il primo livello è quello del giudizio sulle quotazioni in generale espresse sul mercato italiano per tutte le quotate. La posizione di chi dice: “I valori espressi sul mercato da qualche mese a questa parte non trovano riscontro nei fondamentali di moltissime delle società quotate” è corretta, però dobbiamo aggiungere che questa obiezione viene formulata sulla base di un criterio che è quello patrimonialistico e cioè quello di dire che non è possibile, che è irragionevole, che è illogico assistere ad andamenti di prezzo così distanti dai mezzi propri, dai valori di libro, dal patrimonio netto di queste societàquotate, siano esse banche o imprese di ogni settore. Questo criterio, che è quello patrimonialistico, tende a sottovalutare il fatto che i mercati scontano prezzi e vanno verso andamenti


SHOCK ECONOMY intervista a Oscar Giannino

di prezzo con dei trend di medio lungo periodo, quali sono quelli che interessano un paese al centro della tenuta dell’euro, in cui sul criterio patrimoniale tende a prevalere quello dei redditi attesi di quelle società. Perciò, purtroppo, è molto meno illogico di quanto si creda che il mercato, per la situazione in cui ci siamo venuti a trovare (in cui, anche a causa del rischio di default, i redditi attesi del complesso delle societàquotate italiane possono andare incontro a difficoltà molto elevate di tenuta dei risultati attesi), ci segnali un deprezzamento molto elevato degli asset totali rispetto ai valori di libro. Quindi se pure questa obiezione ha un suo fondamento, io non condivido che i mercati siano illogici nel loro andamento di prezzo. La seconda risposta che si può dare all’obiezione “niente privatizzazioni perché significa svendita al realizzo” è quella su quali siano le classi di asset da cedere, nell’attuale condizione di mercato. In particolare, se l’obiezione del sottosegrario Saglia può avere un valore per quello che riguarda la cessione delle residue quote di controllo delle società quotate in mano pubblica, da Finmeccanica ad Eni, Enel, Terna, non ha fondamento, invece, se pensiamo piuttosto a energiche – molto energiche – dismissioni del patrimonio immobiliare, poiché nel nostro paese i valori dei prezzi immobiliari non hanno riprodotto quegli andamenti di drastica correzione che

ci sono stati in moltissimi paesi avanzati. Anzi da noi, in realtà, i prezzi delle unità immobiliari hanno sostanzialmente tenuto, ed in moltissimi casi il più del patrimonio immobiliare pubblico sta in aree centrali degli insediamenti urbani, quindi in aree in cui il prezzo medio ha tenuto anche molto bene, talvolta addirittura andando incontro a dei segni più. Il terzo argomento è quello che non c’è solo il patrimonio immobiliare pubblico. Recentemente, nel seminario di aggiornamento del conto patrimoniale pubblico presso il ministero del Tesoro, è stato variamente cifrato quello che si può cedere o mettere a reddito intorno ai 500 miliardi di euro. Dentro tutto questo, in aggiunta alle citate quote di società controllate dal pubblico ma quotate e, ovviamente, al patrimonio immobiliare, c’è anche tutto l’amplissimo complesso delle migliaia di società controllate dalle autonomie. Scendendo ulteriormente nel dettaglio, si troverà che all’interno di quelle migliaia di società ci sono quelle che offrono direttamente servizi al pubblico, le quali hanno nella stragrande maggioranza dei casi aree territoriali su cui insistono totalmente subottimali rispetto al raggiungimento di risultati di efficienza economica e di qualitàdella gestione dei servizi offerti e che oltretutto sono, per due terzi in perdita. A mia opinione, nel fare la somma di questi tre argomenti sull’obiezione del sot-

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tosegretario Saglia, al di là delle valutazioni – sulle quali ci si può dividere – sulla logicità o meno dei prezzi di mercato del totale degli asset quotati nel nostro paese, essa non vale nè per il patrimonio immobiliare né, almeno in tantissimi casi, per le società pubbliche locali, perché in quel caso, strutturalmente, le serie storiche ci dimostrano che non sono in condizione di ottenere buoni risultati e allora la dismissione prescinde dagli andamenti di prezzo perché risponde a un superiore imperativo economico di limitazione delle perdite. 54

Sempre sulla questione della pretesa “svendita”, per evitare un prezzo delle aste troppo basso, un’idea potrebbe essere quella di aprire le aste per le privatizzazioni non solo a chi ha liquidità, ma anche ai possessori di titoli del debito, offrendo loro la possibilità di pagare anche con essi. Questa scelta, ampliando la platea dei possibili compratori finali, secondo lei potrebbe contribuire ad alzare anche i prezzi finali di vendita?

Questo approccio ha bisogno, per essere preso sul serio, di essere distinto per tipologia di asset da cedere, per tipo di veicoli che realizzano questa strada e per tipologia dei soggetti da chiamare all’eventuale swap, che in ogni caso io limiterei alla categoria dello swap volontario, mai e poi mai forzoso. Partiamo dalla prima distinzione: questa tipologia di cessione, a mio giudizio, si attaglia molto per il patrimonio immobiliare, nel senso

che la costituzione di uno o più grandi fondi – rigorosamente privati e non pubblici – che accorpino grandi fette del patrimonio immobiliare pubblico cedibile (mettendo in conto che la valorizzazione iniziale avviene in presenza di valori catastali non aggiornati in moltissimi casi, quindi con una difficoltà di accertamento di valore, che non contribuisce certo al prezzo più elevato) consentirebbe di emettere, in presenza di una dotazione patrimoniale che a quel punto sarebbe comunque molto rilevante, elevati ammontari di titoli con buon rating sul mercato, a garanzia dei quali ci sarebbe il conferimento patrimoniale pubblico da dismettere. È in questa logica che potrebbe inserirsi, superato qualche problema di collimazione con le regole Eurostat vigenti, un meccanismo volontario di swap da parte di creditori dello stato che assumano titoli emessi da questo fondo in cambio di obbligazioni pubbliche, che a quel punto potrebbero essere azzerate e quindi andare a diminuire lo stock del debito pubblico. Così fatta secondo me la cosa può funzionare, a patto che la dotazione patrimoniale del fondo sia molto cospicua, e quindi il mercato possa apprezzare i titoli emessi con buona solvibilità, e che siano accettate l’idea che la forbice di valore sottostante la dovrà fare il mercato ex post piuttosto che lo Stato ex ante, e la condizione però il meccanismo di swap da parte del tito-


SHOCK ECONOMY intervista a Oscar Giannino

lare di bond pubblici sia volontario. Il punto fondamentale è che bisogna utilizzare un veicolo privato e rispettare tutte le procedure di mercato, sapendo che ci muoviamo da qualche anno a questa parte in un mercato ad alta volatilità e che ha molti sospetti di fronte a cose di questo genere. È per queste ragioni che il meccanismo secondo me funzionerebbe assai meno in presenza di conferimenti al fondo di quote di società quotate e di asset non immobiliari ma mobiliari, perché su di essi la volatilità si rivelerebbe molto maggiore che sugli immobili, aprendo scenari imprevisti e rischiosi. Non potendo reperire soldi solo dalle privatizzazioni, da più parti è stata avanzata l’idea di una tassa sui (più o meno) grandi patrimoni, particolarmente immobiliari. Questo modello, che sembra il più discusso in Italia, le sembra efficace?

Guardi, qui entriamo in un campo nel quale si è assistito a un proliferare di proposte i cui segni sono i più vari e diversi. Nella realtà il dibattito è cominciato oltre un anno fa e gli iniziatori di quel dibattito, Giuliano Amato e Carlo De Benedetti, hanno in realtà pensato ad una patrimoniale che fosse uno one-off, cioè che costituisse un segno forte di discontinuità per l’abbattimento del debito pubblico, con l’idea che fosse impossibile pensare a dismissioni di portata tale da rappresentare agli occhi del mercato un segnale veramente significativo, vista

la passata esperienza delle privatizzazioni italiane, e fosse pertanto necessario coinvolgere un’ampia fetta di contribuenti italiani con il loro patrimonio per l’abbattimento del debito pubblico. Io ho sempre considerato quest’impostazione viziata da difetti molto forti perché comunque l’effetto recessivo sarebbe inevitabile. Dal mio punto di vista è una misura alla quale accedere solo in presenza di un vero semi-default, e non per evitarlo. Se fossimo ormai acclaratamente in una condizione di quel tipo – e la mia opinione è che non ci siamo ancora – potrebbe avvenire in tempi brevi ma si potrebbe evitare se si facessero altre cose. E qui c’è un terzo aspetto negativo: questa impostazione ha il difetto di avvenire disgiunta da quella riforma, sistemica, organica, del nostro sistema tributario, di cui a mio giudizio c’è invece più che mai bisogno, e lo sappiamo da vent’anni. Il peggior difetto del centrodestra è di averla promessa ma non averla mai realizzata ed aver preso la direzione opposta rispetto a tutte le promesse, dal libro bianco del 1994 fino alle dichiarazioni di Berlusconi del 2008. Se anche oggi accadesse qualcosa di simile, ed una delle ipotesi di patrimoniale (magari quella citata nei cinque punti firmati da tutte le associazioni datoriali e sindacali) fosse approvata in assenza di una riforma fiscale pluriennale credibile, tale da diminuire gettito e spesa pubblica,

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in ogni caso sarebbe una leva aggiuntiva per la politica per continuare a fare ciò che ha fatto per decenni e sarebbe quindi un nuovo rubinetto messo nelle mani della politica in assenza di ragionevoli certezze di un cambio di indirizzo. In quel caso io la considererei molto pericolosa, e lo spirito di realismo che ha spinto anche le imprese ad accettare quella proposta, finirebbe per essersi rivelato uno spirito di resa. Insomma, ci vuole una riforma generale del fisco. Ce la potrebbe delineare?

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Avrebbe diversi obbiettivi. Il primo sarebbe quello di minori disincentivi alla crescita, con meno cuneo fiscale su lavoratori e imprese, tanto per cominciare. Dopodiché una redistribuzione generale tra prelievo sui redditi e prelievo sui consumi per raggiungere infine, terzo aspetto, un riequilibrio della pressione fiscale sulle imprese, rispetto all’attuale regressività che smentisce l’articolo 53 della Costituzione per cui, a differenza che per le persone fisiche, nel perimetro delle imprese tanto più sei piccolo tanto più paghi sul tuo reddito lordo, mentre tanto più sei grande e finanziarizzato tanto meno paghi (e la forbice è anche di trenta-quaranta punti tra la grande impresa e la piccola impresa). In presenza di questa riforma, avremmo l’unico caso in cui la stessa patrimoniale potrebbe avere un senso, se fosse volta alla copertura degli effetti pro tempore della trasformazione

del sistema fiscale da un tipo di ordinamento a quello che secondo me sarebbe ottimale. A quel punto, tuttavia, sarebbe modesta e a tempo, in attesa che si verifichino i migliori gettiti derivati dalla maggior crescita indotta dalla riforma fiscale. Ha citato l’attuale regressività del sistema fiscale verso le imprese, con le piccole che pagano molto più delle grandi. A proposito di regressività, in America si dibatte sui redditi delle persone fisiche e della così detta Buffet Rule, che sarebbe una sorta di misura antielusiva per cercar di impedire che tramite artifizi fiscali un ricco paghi meno di quel che paga la sua segretaria. Cosa ne pensa?

Sono convinto che in Italia su molti media sia stata rappresentata, non so quanto volontariamente, una mistificazione. Warren Buffet si riferiva al pagamento delle imposte sul reddito personale. Lui ha dichiarato di pagare al fisco federale un aliquota sul totale dei propri redditi pari al 19% denunciando che i suoi dipendenti pagassero in media il 26%, e che quindi sarebbe più giusto che lui pagasse quanto loro o di più. Nel caso di Buffet stiamo parlando, quindi, di regressività sulle imposte sui redditi. Altrove sì che ci sono i ceti agiati, gli imprenditori e i finanzieri che capiscono la gravità del momento e fanno proposte per l’interesse del paese. Da noi, la media di queste persone che dovrebbero fare un passo analogo a Warren Buffet non paga il 19% di im-


SHOCK ECONOMY intervista a Oscar Giannino

posta sui redditi personali ma l’aliquota massima, e quindi siamo al 43%. La differenza, insomma, è di 24 punti, e la situazione non è paragonabile. Nel nostro paese, al contrario, abbiamo una discrasia fortissima tra l’effetto degli articoli 23 e 53 della Costituzione sui redditi delle persone fisiche e sui redditi delle imprese. Perché mentre la progressività che noi abbiamo costruito nel tempo sui redditi delle persone fisiche è parecchio elevata (e ciò, poiché ha aumentato il prelievo di 20 punti in una sola generazione di italiani, cioè in vent’anni, ha ottenuto l’effetto di contribuire a creare grandissimi fenomeni di evasione) sul versante imprese le affianchiamo invece una situazione totalmente diversa. L’ordinamento, per come è congegnato, dispiega effetti esattamente opposti, per cui, quanto più hai possibilità, rispetto al tuo perimetro aziendale, di andare in credito di imposta negli ultimi giorni prima della chiusura del bilancio, variando con acquisizioni infragruppo il prezzo di asset rispetto ai tuoi valori di libro tra una società e l’altra, tanto più ti abbatti il tax rate reale. Questa è la vera ragione per cui una microimpresa o imprese piccole monosettoriali e che non hanno catene di controllo diluite all’estero e che non sono gruppi conglomerati questo meccanismo non lo possono usare e quindi finiscono per pagare trenta punti in più di tax rate rispetto a grandi gruppi e grandi

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marche. Questa cosa da una parte è figlia di un grande compromesso tra chi ha disegnato questo ordinamento ed un pugno di grandi gruppi e grandi banche italiane, e dall’altra è figlia di una visione dirigista, perché è stata concepita come un meccanismo di incentivazione alla crescita delle imprese nella generosa illusione, se non la vogliamo prendere in malafede, che l’Italia fosse instradata verso un percorso che è stato seguito da paesi meno latecomer di noi che sono quindi arrivati prima nella rivoluzione industriale ed in cui la crescita della classe dimensionale delle imprese ha accompagnato queste trasformazioni. Da noi però invece c’è stata una colossale illusione, e parlano i fatti perché noi abbiamo meno grandi gruppi di prima e la grande forza del nostro paese anche nel manufatturiero è fatta dalla media e piccola impresa. Per finire, le chiediamo una confessione in esclusiva. Quanto del libertarismo americano, quanto di Murray Rothbard, in particolare, c’è nel suo papillon?

Eheheheh.. io ho abitudini nel vestire un po’ strambe. Non oserei comunque avvicinarmi assolutamente a Murray Rothbard, che rappresenta un punto di riferimento intellettuale per uno che la pensa come me. C’è un’altra convinzione, invece, molto più italiana. È che io non credo nella replicabilità delle situazioni in contesti diversi. Noi abbiamo una storia diversa, non

siamo gli Stati Uniti. Quello che io ci metto di mio, in questi colori, in queste fogge un po’ strane, è una specie di contestazione di come si vestono le cosìdette classi dirigenti del nostro paese. Perché a me ha sempre colpito, quando da giovane giravo di più, negli stati uniti in altri paesi etc., il considerare come le classi dirigenti abbiano sempre mantenuto una certa fedeltà all’impostazione che hanno avuto da sempre, di ritenere di potersi consentire una certa eccentricità, nelle fogge degli abiti, nei colori, nei tessuti. Cioè, non sono mai addivenute a questa cosa che bisogna illudere la gente che si vestano tutti uguali, cioè “noi, come voi”. Da noi, per via di questo meccanismo un po’ strano che è stata la costruzione dell’Italia unitaria, abbiamo sempre avuto classi dirigenti – banchieri, finanzieri, imprenditori etc. – che, dopo essere state sconfitte nel novecento con la fine dell’Italia liberale, per lunghi decenni si sono vestite più o meno come gli operai, gli impiegati, le colf, etc.etc. Questa roba non l’ho mai ritenuta giusta perché corrispondente a una visione etica del tipo “siamo davvero tutti uguali”. Quando mai? Nessuno della classe dirigente lo pensa davvero! A me è sempre sembrata una sorta di ipocrisia, il motivo per cui sono tutti sempre vestiti di grigio e dicono “noi siamo tenuti perché altrimenti… chissà cosa succede”. Non succede assolutamente niente! Sono


SHOCK ECONOMY intervista a Oscar Giannino

semplicemente ipocriti. Allora, io, che non sono banchiere, finanziere, imprenditore, o un dirigente di niente, penso in piccolo, ridendoci sopra – ridendo su me stesso, che è un buon esercizio –, che il giorno in cui saremo tutti più liberi di vestirci come ci pare, non è che faremo una rivoluzione, ma saremo tutti più liberi rispetto a questa finzione delle classi dirigenti che vogliono poter dire anche a chi guadagna ottocento euro “io mi vesto come voi”, perché non è vero. Non-è-vero! Quindi, la mia, potrà sembrare una cosa classista ma è una presa in giro dell’ipocrisia di chi in realtà sta molto meglio.

L’Intervistato

oscar giannino Laureato in giurisprudenza, ha iniziato la carriera giornalistica sul quotidiano del Pri, La Voce Repubblicana, dove nel 1988 è caporedattore. Dal 1984 al 1987 è portavoce nazionale del Partito Repubblicano Italiano. Nel 1995 lavora al mensile Liberal, tre anni più tardi è vicedirettore della testata, che nel frattempo è diventata settimanale. Nel 1999 è responsabile economia al Foglio. Lascia il quotidiano e si trasferisce al Riformista come vice del direttore Antonio Polito. Dal 2005 è vicedirettore di Finanza&Mercati. Comincia anche una collaborazione con il quotidiano Libero, diretto da Vittorio Feltri. Dal 2007 al 2009 è stato è direttore di Libero Mercato, allegato economico-finanziario di Libero. Nell’aprile 2009 apre Chicago-blog.it in collaborazione con l’Istituto Bruno Leoni, nel quale insieme con altri collaboratori e giornalisti esamina le principali questioni politico-economiche dell'attualità. Da fine giugno 2009 conduce una trasmissione su Radio 24 (emittente radiofonica del Sole 24 Ore) dal titolo Nove in punto, la versione di Oscar. È membro del comitato scientifico della Fondazione Italia Usa.

L’Autore giovanni basini Già Presidente di Alternativa Studentesca, Responsabile nazionale scuola di Forza Italia Giovani e Dirigente Nazionale dei Giovani del Pdl ha contribuito alla fondazione dell’associazione Fareitalia, nel consiglio direttivo della quale siede attualmente.

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SHOCK ECONOMY Giuliano Cazzola

Allarme occupazione giovanile

Lavoro: per una cultura della flessibilità

L

’elasticità nel mondo del lavoro è ingrediente imprescindibile per concorrere allo sviluppo e alla ripresa economica. Specie in un momento di crisi globale in cui l’Italia deve fronteggiare la sfida di una dissocupazione giovanile ingente. DI GIULIANO CAZZOLA

In materia di occupazione nessun incentivo di natura economica – sosteneva Marco Biagi – è in grado di compensare un disincentivo di carattere normativo. È vero, invece, il contrario, aggiungiamo noi. Basta osservare la realtà. Premesso che i posti di lavoro li crea l’economia non la legge, la sinistra tenta sempre di indurre le imprese a procedere ad assunzioni di lavoratori – naturalmente a tempo indeterminato – mediante l’erogazione di sussidi ed agevolazioni. Si produce, così, quando l’intervento riesce almeno in parte, uno strato di occupazione drogata, che ben presto si disperde nel momento in cui gli incentivi economici vengono meno. Da ul-

timo, ha seguito questo percorso accidentato il ministro Cesare Damiano arrampicandosi sugli specchi per “stabilizzare” gli operatori dei call center, determinando in seguito, nel momento in cui è venuta meno la pratica degli “sconti” sul costo del lavoro, una crisi strutturale delle aziende che si erano adeguate, con ricadute negative sui livelli di occupazione del settore. Al contrario, nel periodo intercorrente tra il 1997 e il 2007, la legislazione sulla flessibilità del lavoro (dal pacchetto Treu alla legge Biagi) ha sicuramente contribuito – pur in un contesto di modesta crescita economica, il cui ruolo è stato comunque prevalente – a dar cor-

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so al più lungo e duraturo incre- poi unici non sono) al pari di mento dell’occupazione (e ridu- quelli che propongono numerose zione della disoccupazione) della potature di rapporti di lavoro storia più recente del paese (qua- che, a loro avviso, sono la causa e si 5 punti percentuali in più di il moltiplicatore della precarietà, occupazione maschile ed oltre 10 ragionano come se in Italia esiin più di occupazione femminile; stesse una sorta di imponibile di dimezzamento dei tassi di disoc- manodopera e le aziende fossero cupazione): un incremento che obbligate ad assumere secondo le neppure la crisi violenta degli ul- leggi che piacciono alla sinistra. timi anni ha spazzato via del tut- Speranze, queste, destinate ad anto. Oggi il paese è costretto a dare deluse, perché le aziende misurarsi con un livello di disoc- eviterebbero di assumere, anche a cupazione giovanile che assume costo di mortificare le loro capaormai un carattere strutturale e cità di espansione. Nell’attuale che non migliora, nonostante che sistema economico le imprese hanno bisogno di le ultime rilevazioni annuncino Il paese deve misurarsi organici variabili, ragguagliati ai picuna leggera ripresa degli indicatori con una disoccupazione chi e ai flussi produttivi, anch’essi statistici dell’oc- giovanile che non estremamente vacupazione e della riabili. Se si codisoccupazione. migliora e ha carattere stringesse un imDurante la crisi, ormai strutturale prenditore a comla flessione complessiva dei dipendenti è stata piere assunzioni in forma stabile solo dell’1,5% nel punto più ele- per trattare una commessa limivato; il tasso dei lavoratori in età tata nel tempo e forse irripetibile, adulta è cresciuto del 3,9%, probabilmente lo stesso esiterebmentre quello dei giovani con be ad assumere l’ordine. Tutto ciò meno di 35 anni è sceso del porta a una conclusione: è sano 13,6%. La sinistra politica e sin- un sistema produttivo che scodacale affronta la questione di raggia le imprese ad assumere e a questo grave divario attribuen- crescere? Ci saranno pure dei modone la responsabilità alla così tivi se la nostra struttura produtdetto precarietà, come se questa tiva è affetta da “nanismo”, con situazione pur drammatica e la un’assoluta prevalenza di imprese disoccupazione costituissero una la cui dimensione consente di sorta di continuum da aggredire sottrarsi a molti vincoli della lenel medesimo tempo. Come se la gislazione sindacale e del lavoro? stabilizzazione forzata (a carico Ribadito allora che il contributo delle imprese) dei rapporti di la- all’incremento dell’occupazione voro fosse anche il modo per con- può venire solo da un’economia trastare la disoccupazione. Così, i che esca dalla crisi e si renda più sostenitori di contratti unici (che dinamica perché non provare a


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superare il divario giovani/anziani mediante un’azione decisa per eliminare i disincentivi normativi e per trasformarli in incentivi? Il governo la sua parte l’ha fatta con l’articolo 8 del decreto di ferragosto. Il “pacchetto” che vi è contenuto costituisce un contributo essenziale allo sviluppo, che è sicuramente favorito dalla possibilità di definire, attraverso la libera contrattazione, modelli organizzativi e produttivi flessibili ritenuti più idonei per assicurare un consolidamento della ripresa produttiva, ancora gracile e incerta; la legge non cambia di per sé il quadro delle regole, ma si affida all’autonoma iniziativa delle parti sociali. In proposito, si segnala che il comma 1 dispone che i contratti collettivi di lavoro aziendali o territoriali, sottoscritti dalle associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale, ovvero dalle loro rappresentanze sindacali operanti in azienda in base alla legge e agli accordi confederali vigenti (compreso, pertanto, quello del 28 giugno 2011, sottoscritto anche dalla Cgil), possano realizzare specifiche intese, con efficacia nei confronti di tutti i lavoratori interessati, a condizione di essere sottoscritte sulla base di un criterio maggioritario di rappresentanza sindacale, finalizzate – è importante l’indicazione puntuale delle finalità – alla maggiore occupazione, alla qualità dei contratti di lavoro, all’adozione di forme di partecipazione dei lavoratori, alla emer-

Il Libro Quale flessibilità Jean-Claude Barbier e Henry Nadel La flessibilità del lavoro e dell’occupazione Interventi Donzelli 2003, 106 pp. L’imperativo della flessibilità ha invaso da oltre un decennio lo spazio sociale europeo. Gli autori di questo volume scelgono una scala europea, e operano innanzitutto un’accurata distinzione tra flessibilità del lavoro e flessibilità dell’occupazione. Questi due termini non sono affatto sinonimi. Flessibilizzare il lavoro vuol dire garantire che l’attività umana divenga malleabile, adattandosi alle esigenze specifiche della produzione. Flessibilizzare l’occupazione significa invece renderne variabili le caratteristiche, in termini di tempo di lavoro, di luoghi e condizioni del suo esercizio, di regole e norme. Mentre dunque la flessibilità dell’occupazione rimette in causa gli elementi di sicurezza e di garanzia fin qui acquisiti, la flessibilità del lavoro non comporta, in sé, alcuna necessità in questo senso. L’avere creato un nesso insolubile di dipendenza tra i due concetti ha posto le condizioni di una doppia rigidezza. Per gli ultra-liberisti la flessibilità deve essere praticata nella maniera più intensa a entrambi i livelli; viceversa, per i critici più radicali del capitalismo, qualunque flessibilità è di per sé un elemento destabilizzante.

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sione del lavoro irregolare, agli modalità con cui si esercita tale incrementi di competitività e di tutela, al pari del risarcimento salario, alla gestione delle crisi del danno che è poi la normale aziendali e occupazionali, agli in- forma risarcitoria in materia di vestimenti e all’avvio di nuove obbligazioni; c) che la tutela tramite reintegra non sia un diritto attività. Il comma 2 elenca le materie inderogabile è provato dall’ordiinerenti all’organizzazione del la- namento giuridico che la riserva voro e della produzione che pos- e riconosce solo a una parte (nusono essere oggetto delle intese. mericamente minoritaria) del Maggiore flessibilità deve esserci mercato del lavoro, tanto più che – come ha richiesto anche la Bce questa valutazione ha trovato ri– anche in uscita dal rapporto di scontro persino in un referendum lavoro. In quest’ambito ha fatto popolare del giugno 2003, che molto discutere il fatto che tali ha bocciato nei fatti, tramite il intese negoziali possono riguar- mancato raggiungimento del quorum, l’estendare pure le “conseguenze del reces- L’articolo 8 del decreto sione erga omnes a tutti i lavoratori; so dal rapporto di lavoro”, a eccezio- di Ferragosto costituisce d) sembra poi non dimostrata e non ne del licenzia- un contributo sostenibile sul mento discriminatorio e del licen- essenziale allo sviluppo, piano giuridico la ziamento lesivo favorito dalla flessibilità tesi per cui l’articolo 8 prefiguredei diritti riconosciuti alla lavoratrice. Poiché, a rebbe, in talune sue parti, una questo proposito, le opposizioni violazione delle norme costituhanno scomodato addirittura la zionali, come sostiene solo parte Costituzione, corre l’obbligo di dell’opposizione (atteso che alcufar notare quanto segue: a) non si ni gruppi che non sostengono il tratta di una modifica legislativa governo hanno comunque votato dell’articolo 18 della legge n. a favore della norma al Senato). 300 del 1970, ma le parti ricevo- La stessa Consulta, infatti, non no dalla norma un’opportunità ha mai affermato il principio sein più che possono far valere o condo cui la tutela reale ex artimeno, ma che comunque è con- colo 18 dello Statuto dei lavoradizionata a un’intesa sindacale (la tori abbia una copertura costitucui validità è comunque sottopo- zionale. Al contrario, la Corte costa a procedure anch’esse concor- stituzionale aveva dichiarato amdate); b) secondo gli ordinamenti missibile (con la sentenza n. 46 internazionali il lavoratore ha di- del 2000) il referendum abrogaritto ad una tutela in materia di tivo – svoltosi nel maggio 2000 licenziamento, azionabile in giu- e di segno opposto rispetto a dizio; ma la reintegra giudiziale quello già ricordato – dell’articonel posto di lavoro è una mera lo in questione, tra le cui dispo-


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sizioni rientra anche quell’obbli- porsi il problema di come andare go di reintegra che è il tema direttamente al cuore del divario, senza aggirarlo passando dell’attuale polemica. Il comma 2-bis è volto a specifi- dall’entrata di servizio del negocare che nelle materie di cui al ziato in deroga (che è poi l’imcomma 2 le intese possono pre- postazione fondamentale della vedere deroghe alle norme di bozza di Statuto dei lavori, prefonte pubblica o contrattuale, disposta dal ministro Maurizio fermo restando il rispetto della Sacconi) a opera di forze sociali Costituzione e dei vincoli deri- di fatto ostili al cambiamento (è vanti dalle normative comunita- in atto un vero e proprio logorarie e dalle convenzioni interna- mento della “piattaforma riforzionali sul lavoro. È bene ricor- mista” tra sindacati responsabili dare che la contrattazione in de- e imprese). roga è diffusa nei principali paesi Che fare allora ? Il punto cruciale europei e ha consentito – come riguarda la disciplina del licenziamento indivinel caso della Gerduale di cui all’armania – di raffor- La contrattazione ticolo 18 dello zare le relazioni inStatuto dei lavoradustriali e di farne in deroga, diffusa un elemento deter- in Europa, ha rafforzato tori (legge n.300 1970) nel quaminante della rile relazioni industriali del le è previsto, nelle presa economica. aziende con più di Si rileva poi che il e la ripresa economica 15 dipendenti, comma 3 stabilisce (ecco la norma salva-Fiat, i cui l’obbligo della reintegra nel poaccordi di Pomigliano e Mirafio- sto di lavoro qualora il giudice ri erano stati esclusi per dispetto) non ravvisi sussistere un giustifiche tutti i contratti collettivi cato motivo o una giusta causa a aziendali vigenti, approvati e sostegno del recesso dal rapporto sottoscritti prima dell’accordo di lavoro. Già nel 2001 il goverinterconfederale del 28 giugno no Berlusconi aveva provato una 2011, siano efficaci nei confronti miniriforma dell’istituto (che, in di tutto il personale delle unità parte, aveva trovato posto anche produttive cui il contratto si rife- nel Patto per l’Italia dell’estate risce, a condizione che il contrat- del 2002); ma ne era scaturita to medesimo sia stato approvato una polemica asperrima con la con votazione a maggioranza dei Cgil e la sinistra, in un clima diffuso nel paese che era costata lavoratori. Ma le parti sociali hanno preferi- la vita a Marco Biagi, che il setto dichiarare che “faranno da sé”, tarismo sinistrorso aveva indicato suscitando le ire di Sergio Mar- come principale responsabile delchionne che ha colto l’occasione le riforme del mercato del lavoro. per lasciare (con un palmo di na- Da quel momento nessun goverso) la Confindustria. È in caso di no è mai più ritornato su quel-

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l’argomento, anche se l’attuale, vittorioso in giudizio possa rifiunel “collegato lavoro” ha com- tare la reintegra nel posto di lapiuto delle scelte importanti (ti- voro e ottenere in cambio un ripizzazione delle cause di licen- sarcimento pari a 15 mensilità. ziamento e armonizzazione e ri- Si potrebbe riconoscere la stessa duzione dei termini di impugna- possibilità anche al datore di lativa e di ricorso) in questa delica- voro soccombente in giudizio. Se ta materia. Ma è bastato l’artico- si preferisse – anziché adottare lo 8 del decreto che sfiora appena una modifica permanente – speil problema, mettendolo nelle rimentare delle soluzioni per un mani delle parti sociali, per de- periodo definito, si potrebbe staterminare nuove polemiche. Ep- bilire , ad esempio per un trienpure il nodo gordiano va sciolto. nio, che i rapporti di lavoro a terLo ha indicato pure la Bce nella mine trasformati a tempo indelettera del 3 agosto scorso, sia terminato mantengano un regipure in collegamento con una ri- me solo risarcitorio; oppure che, per un certo nuforma della indenmero di anni, le nità di disoccupa- Non possiamo più nuove assunzioni a zione in senso unipermetterci le attuali tempo indetermiversalistico. nato di giovani Chi scrive ha trat- performance. È non prevedano la tato l’argomento reintegra in caso in diverse iniziati- necessario prevedere ve legislative che un requisito anagrafico di risoluzione del rapporto di lavoro. giacciono “dimenticate da Dio e dagli uomini”. Le Analoghe misure potrebbero poi soluzioni, comunque, potrebbero essere adottate per le assunzioni essere diverse. E molto semplici. nelle imprese delle regioni meriInnanzi tutto è bene chiarire che dionali più svantaggiate. Una la reintegra nel posto di lavoro politica siffatta potrebbe sbloccadeve restare nei casi di licenzia- re il mercato del lavoro, sopratmenti discriminatori (per motivi tutto a favore delle giovani genepolitici, sindacali, di razza, di razioni? Non si può affermarlo a sesso, di religione) o gravemente priori, specie nel mezzo di una lesivi dei diritti delle persone (in congiuntura economica sfavorecaso di matrimonio, maternità, vole come l’attuale. Ma varrebbe ecc.). Nelle altre fattispecie, il li- la pena di provarci. E osservare cenziamento ingiustificato do- con attenzione e responsabilità vrebbe essere sanzionato con il gli esiti di tale politica. risarcimento del danno, come è Quanto alle pensioni sarebbe la regola in tutti i rapporti ricon- sbagliato accusare il governo di ducibili alle obbligazioni. Ciò inerzia. In questa legislatura, anpremesso sarebbe sufficiente una corchè non in modo organico, ma breve modifica dell’articolo lad- nel quadro delle manovre di bidove è previsto che il lavoratore, lancio, sono state adottate molte


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misure tanto di carattere straordinario, quanto strutturale che hanno aggiustato l’equilibrio del sistema dopo l’impatto con la crisi economica e contribuito alla realizzazione di risparmi importanti. Per quanto riguarda la transizione non rimangono particolari interventi da compiere, se non l’esigenza di un riordino dei requisiti per il trattamento di anzianità (lo ha messo bene in evidenza la stessa Bce). Soprattutto, va diversamente regolato il percorso che consente di andare in pensione con 40 anni di versamenti a prescindere dall’età anagrafica. È noto, infatti, che le generazioni del baby boom hanno cominciato a lavorare in età precoce oppure hanno avuto la possibilità di riscattare lunghi periodi formativi. Così sono in grado di presentarsi oggi all’appuntamento con la pensione, avvalendosi dei 40 anni di anzianità, a un’età inferiore persino a 60 anni. Il che significa incassare la pensione per circa 25 anni alla luce delle attuali attese di vita. Nessun sistema può permettersi, a lungo, simili performance. Per comprenderlo è sufficiente dividere 40 per 25 per accorgersi che 1,5-1,6 anni di lavoro consentono un anno di pensione. Diventa assolutamente necessario prevedere un requisito anagrafico anche per questo tipo di pensionamento. In proposito è interessante la proposta della Confindustria, secondo la quale l’età di 62 anni dovrebbe valere come limite minimo per tutte le forme di pensionamento, riconoscendo,

però, per un periodo di quattro anni, una “valorizzazione” dei contributi versati dopo i 40 anni di lavoro (determinando così una pensione più elevata). Per quanto riguarda il futuro occorrerà ragionare, nel sistema contributivo, di un ripristino del pensionamento flessibile e dell’introduzione di un meccanismo solidaristico che possa tutelare i lavoratori precari. Una condizione che, più o meno, è sempre esistita, se solo di pensa che adesso i trattamenti integrati al minimo sono più di quattro milioni.

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L’Autore Giuliano Cazzola Deputato del Pdl, vice presidente della Commissione Lavoro.


Proposte per un vero cambiamento

Questa è ancora l’Italia dei principi e dei gabellieri È arrivato il momento delle decisioni forti, di provvedimeti economici che solo un governo solido può prendere. L’Italia va rifondata alla base abbattendo il debito pubblico con la dismissione degli immobili dello Stato e facendo le liberalizzazioni che nessun partito, ad oggi, vuole. INTERVISTA A NICOLA ROSSI DI PIETRO URSO 68

«Ogni euro derivante dalla lotta all’evasione deve essere usato per diminuire le aliquote fiscali». Questa è la nuova proposta che il senatore Nicola Rossi – ex Pd, ora vicino alla fondazione di Montezemolo, Italiafutura, e attuale presidente dell’Istituto Bruno Leoni – vuole portare avanti dopo aver ottenuto ad agosto l’impegno da parte del governo e del Parlamento di modificare l’articolo 81 della Costituzione inserendo il “pareggio di bilancio” tanto caro ad Einaudi. Con lui abbiamo analizzato la situazione economica dell’Italia e il da farsi per evitare che la crisi finanziaria travolga l’Italia e l’intero sistema economico. Lei cosa pensa della lettera di Berlusconi del 26 ottobre 2011, secondo Lei ha veramente soddisfatto l’Europa?

L’Europa non poteva che prendere atto delle lettera di Berlusconi, sicuramente non poteva bocciarla perché si sarebbe messa a rischio l’intera Unione europea. Ma la lettera in se per se è molto debole. Sulle pensioni, nodo cruciale per rilanciare la crescita, non si è fatto nulla di concreto che potesse aiutare la ripresa. La riforma del mercato del lavoro non è molto chiara ed è molto faraginosa e soprattutto non è stata concordata con i lavoratori. Su liberalizzazioni e privatizzazioni ci sono tempi troppo incerti e in molte parti i provvedimenti presi sono inconcludenti e insignificanti per il rilancio serio dell’economia. Infine, ogni provvedimento preso sarà attuato solo in tarda primavera, quando con molta probabilità ci sarà un altro esecutivo. Questa è una let-


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tera che non porterà nulla di nuovo e che non migliorerà nulla, l’unica cosa certa e che l’Italia sarà monitorata ancor con più attenzione da parte dell’Ue. Cosa poteva fare il governo in tre giorni?

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Certamente non poteva fare nulla in tre giorni, ma il governo è da agosto che dovrebbe prendere dei provvedimenti seri e non fa niente, è immobile. Per salvare l’Italia l’esecutivo deve rendersi conto che bisogna saper prendere anche delle decisioni impopolari. Continuare con questa politica del “decidere di non decidere” comporterà solo danni per il paese, e tutti noi ne pagheremo le conseguenze nel breve e medio periodo. Alcuni analisti negli ultimi tempi hanno dichiarato che all’Italia serve una manovra economica da diverse centinaia di miliardi, addirittura 500, per poter tornare a essere competitiva con il resto d’Europa e del mondo. Per una politica economica fatta di liberalizzazioni e privatizzazioni, di riforma delle pensioni e di abbattimento del debito pubblico, secondo lei quali sono le priorità da affrontare?

Al paese serve una politica economica rigorosa e disciplinata che deve durare diversi anni. Il primo e immediato passo è una divisione delle proprietà mobiliari ed immobiliari dello Stato, dei comuni e degli enti locali per consentire, in questo modo, un abbattimento cospicuo e significativo del debito pubblico. Sicuramente questo processo deve essere affiancato anche un se-

rio contenimento della spesa pubblica, che dovrà durare almeno due lustri, così da consentire al paese, nell’arco di tre anni, una rilevante riduzione della pressione fiscale. Bisogna capire, ma soprattutto accettare, che il problema non si può risolvere in un attimo, ma servono anni per avere dei risultati concreti e duraturi nel tempo. In queste settimane ovunque, dalla politica all’industria, si parla di far tornare l’Italia a crescere, qual’è la sua ricetta?

La prima cosa da fare è una politica economica seria ed efficace di riduzione permanente della spesa pubblica. Lo Stato deve essere presente e avere un forte peso decisionale in tutte le cose che lo riguardano direttamente, ma deve anche iniziare ad abbandonare il campo da tutte quelle cose che non lo riguardano. Solo in questo modo si potranno creare delle basi solide per una riduzione fiscale, giusta nei confronti di tutti i contribuenti. Come mai in Italia nessun governo di centrodestra o di centrosinistra riesce a fare una seria politica di liberalizzazioni?

Nessuna delle due coalizioni ha mai veramente creduto a una politica di liberalizzazioni. Il centrosinistra ha usato questa parola dalla fine degli anni Novanta solo per cercare di modernizzare il suo linguaggio, ma non ha mai portato avanti con serietà una tale politica. Il centrodestra, invece, è completamente antilibera-


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le, conservatore e le liberalizzazioni non hanno mai fatto parte dei loro ideali.

all’evasione deve essere usato per diminuire le aliquote fiscali, sia ai cittadini, sia alle imprese.

Lotta all’evasione: cosa non ha funzionato e cosa bisogna fare?

Cosa ha indotto la crisi economica del 2008? È corretto affermare che una crisi sistemica debba avere avuto una causa sistemica. Se sì, cosa fare per il futuro?

È indubbio che negli ultimi anni la lotta all’evasione ha ottenuto risultati significativi, nessuno li discute. Ma è anche vero che gli imponibili evasi sono nettamente aumentati. La verità è che la lotta all’evasione non è riuscita ad aumentare la lealtà fiscale degli italiani, non solo, ha fatto aumentare la distanza tra i contribuenti e l’amministrazione tributaria. È vero che si incassa di più, ma si evade anche di più. I contribuenti hanno sempre più la sensazione di uno Stato che ormai si ostina solo a incassare senza redistribuire gli introiti alla comunità in servizi e infrastrutture. Sembra di essere tornati indietro di trecento anni, al medioevo, ai principi e ai gabellieri. Bisogna dare, anche, alle imprese la certezza del carico fiscale, cosa che le nuove regole non fanno. È un problema che non si risolverà mai se le risorse recuperate dall’evasione vengono impegnate in bilancio semplicemente per finanziare spesa pubblica. Per l’Istituto Bruno Leoni una delle priorità da affrontare è la riforma fiscale. Come?

La proposta che l’Istituto Bruno Leoni vuole portare avanti è quella di una legge nella quale sia scritto in modo chiaro che ogni euro derivante dalla lotta

La radici che hanno dato vita alla crisi economica e finanziaria del 2008 vanno individuate a circa vent’anni fa, perché la crisi è solo l’effetto degli squilibri macroeconomici che ci portiamo appresso dalla fine degli anni Ottanta, squilibri che facevano comodo a tutti e che nessuna economia mondiale ha cercato di fermare fino alla crisi. Naturalmente oltre agli squilibri macroeconomici non bisogna dimenticare che i mercati finanziari non hanno mai osservato le poche regole esistenti e questo alla lunga ha provocato un forte squilibrio tra l’economia reale e la finanza creativa. In tutto questo però la politica non ha mai vigilato seriamente, anzi ha approfittato di questo squilibrio per anni e adesso ne paghiamo tutti le conseguenze. È arrivato il momento delle regole, in ogni ambito da quello economico a quello politico, ma il tempo è finito, bisogna agire con tempestività. Quanto sono affidabili le agenzie di rating e perché hanno messo sotto osservazione l’Italia?

L’Italia è sotto osservazione da parte di tutte le economie mondiali, nessuno vuole investire in

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Italia con uno spread tanto elevato nei confronti della Germania. Se uno osserva con oggettività la performance delle agenzie di rating negli anni sicuramente si può sostenere che il loro operato non è sempre stato limpido e coerente. La verità è che bisogna dare alle agenzie di rating il valore che hanno, non sopravvalutarle, ma neanche sottostimare i segnali che provengono dalle loro analisi. Sicuramente solo tre agenzie di rating non bastano perché nessuna di loro è realmente indipendente. Quindi più agenzie esistono, meglio è, così da avere una pluralità di valutazioni. È possibile, nel breve periodo, un contagio da parte della crisi dei debiti degli Stati sovrani sui capitali delle banche europee?

Sicuramente sì. Per fare un esempio solo poche settimane fa, la banca Dexia è stata nazionalizzata per evitarne il crollo e la chiusura come accadde alla Lehman Brothers nel settembre del 2008. Quindi, il contagio tra crisi dei debiti sovrani e capitali delle banche è possibile e in diversi casi, è già in atto. Ma il vero problema è trovare delle soluzioni e delle regole serie in grado di evitare che tutto questo accada. Certamente, queste regole devono essere rispettate dalle banche e dalle compagnie finanziarie, cosa che non è avvenuta negli ultimi 20 anni a causa anche dei pochi controlli da parte dei governi e dagli enti preposti. Da questa situazione se ne uscirà

solo se l’Europa deciderà di darsi una struttura assai più forte. C’è bisogno di un governo europeo dell’economia che guidi il continente nel mercato globale. Tutto questo sarà possibile solo se ogni paese europeo è disponibile ad accettare una disciplina rigida in grado di garantire i suoi partner europei. Questo messaggio è arrivato all’Italia alcuni mesi fa, con la famosa lettera della Bce di agosto, ma il governo ha fatto pochissimo da questo punto di vista. A oggi non è ancora chiaro se l’Italia abbia accettato consapevolmente e coscientemente e soprattutto senza reticenze la disciplina e il rigore che possono consentire ad altri paesi europei di fidarsi e, quindi, di investire nel nostro paese. Come segnalato più volte dall’Antitrust, in Italia non esiste una reale competizione nell’ambito dei grandi sistemi bancari, industriale ed editoriali. Cosa bisogna fare e quale riforma chiave potrebbe portare l’Italia fuori da questo incastro, tra coorporativismi e una commissione di gruppi di interesse?

Per spezzare definitivamente questa spirale che sta impedendo all’Italia di diventare un paese moderno bisogna portare avanti una vera politica di liberalizzazioni. Nessun governo, negli ultimi anni ha seriamente portato avanti una tale politica, molti settori sono stati liberalizzati solo in parte e molti altri, invece, non sono stati mai liberalizzati. L’elenco che l’Antitrust ha fatto più e più volte è molto lungo, ma al momento è


SHOCK ECONOMY intervista a Nicola Rossi

solo una lista scritta su un pezzo di carta che nessuno ha ancora trasformato in atti reali. Naturalmente, liberalizzare significa scuotere seriamente interi settori, ma per fare questo serve molta volontà e forza politica.

L’Intervistato

nicola rossi Professore ordinario di Economia Politica presso l’Università degli studi di Roma Tor Vergata, è attualmente senatore iscritto al Gruppo misto, dopo un periodo di appartenenza al Partito democratico, è membro del direttivo dell’associazione Italia Futura di Montezemolo. Dalla primavera del 2011 è presidente dell’Istituto Bruno Leoni. È stato eletto alla Camera dei deputati nel 2001 con il centrosinistra. Nel 2006 viene rieletto deputato alla Camera con l’Ulivo. Nel 2008 è eletto senatore del Partito democratico. È membro del comitato scientifico della Fondazione Italia Usa. Si è contraddistinto per una strenua lotta a favore della privatizzazione delle Università. Il 1° febbraio 2011 ha presentato una lettera di dimissioni da Palazzo Madama. La decisione è stata motivata da “motivi personali”. Tuttavia l’aula del Senato ha respinto le dimissioni.

L’Autore pietro urso Giornalista e direttore responsabile di Charta minuta, è esperto di comunicazione e storia del giornalismo italiano ed europeo.

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SHOCK ECONOMY Giovanni Basini

Per uno Stato credibile agli occhi dei mercati In Italia occorre ristabilire la sacralità costituzionale degli impegni sottoscritti. In tal modo, tra l’altro, i mercati sarebbero rassicurati riguardo al fatto che lo Stato saldi i propri debiti. A questo proposito, il patrimonio statale dovrebbe essere privatizzabile come garanzia del debito stesso. DI GIOVANNI BASINI

Cosa spaventa un creditore che ha concesso un grosso prestito? L’ipotesi che il debitore non lo paghi, certamente, ma non solo. Anche di fronte a una garanzia cospicua, il creditore rimane dubbioso in tanti altri casi. Tanti quanti i vari sintomi di scarsa affidabilità della controparte. Sono questi che possono mantenere acceso ogni notte, nella sua mente, quel pensiero che gli dice: «appena me li ridà con lui ho chiuso». Si pensi, per citarne uno, all’ipotesi di un creditore che dopo qualche anno scopra che il proprio debitore è un noto criminale, pronto a usare la forza per soddisfare i propri interessi. È forse irragionevole pensare che egli dubiti, non solo della possibilità di esigere il pagamento, ma anche della salubrità del farlo? Per un altro esempio, si può pensare all’immagine di un creditore che passi ogni giorno, magari per andare al parco col suo cane,

sotto l’azienda il cui titolare gli deve dei soldi. Questo creditore, proprio perché tale, passando presterà attenzione ai dettagli. Noterà che l’investimento in quel macchinario così grosso è stato azzardato, noterà che il piazzale è pieno di merce invenduta, noterà la sciatteria dei dipendenti nell’indossare la propria divisa da lavoro. Sarà gravemente allarmato, se gli giungerà notizia che qualche ufficiale è passato a notificare qualche atto. Tremerà per ogni fattura inevasa. Lungi dal tenerselo solo in mente, se si verificassero queste circostanze, quel creditore l’idea di chiudere ogni rapporto appena riavuti i soldi la scriverà direttamente sull’agenda. E, quando verrà il momento atteso, lo farà perché, pagato o non pagato, si sarà ormai rappresentato nel suo debitore il tipo di persona poco attenta ai propri affari, che non si da da fare per pagare sempre alla sca-

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denza, che non si sente visceral- tipicamente fanno spaventare i mente vincolato al fatto di aver creditori sul comportamento dei propri debitori. Da un lato, la nopreso un impegno. Domandiamoci adesso: cosa spa- stra azienda Italia è in crisi croniventa un mercato di creditori in- ca e ha tassi di crescita sistematitorno al debito di uno Stato come camente più bassi di tutte le altre l’Italia? In fondo, abbiamo una da 20 anni, dall’altro la nostra grande garanzia, data dal fatto azienda è malgestita e ha eroso che non solo lo Stato incamera le tutti i suoi margini di avanzo pritasse ma ha anche immensi patri- mario fino a ridursi a dover fare moni. Ma la situazione di crisi sul manovre urgenti per pareggiare il nostro debito, tuttavia, perdura. bilancio. Ciò che è più grave di In questo caso, l’evidenza ci sug- tutto, è che per riuscire a fare gerisce che potrebbe esserci un quelle manovre ha avuto platealqualche sintomo analogo a quelli mente bisogno – e i creditori descritti sopra. Come abbiamo l’hanno visto e soppesato – di farsi dettare le misure detto, potrebbe trattarsi o di un La nostra azienda Italia da strutture tecniche esterne, come problema serio recondizione per riulativo al modo in è in crisi cronica e scire a imporle a cui il nostro tito- ha tassi di crescita forze politiche inlare (il Parlamenterne, specie le opto) gestisce la no- sistematicamente più posizioni ma anche stra azienda (l’Ita- bassi di tutte le altre il Pdl e soprattutto lia), o di qualche timore recondito che il titolare la Lega. Tutte queste forze hanno suddetto possa essere capace di delegazioni parlamentari molto svegliarsi un giorno e decidere recalcitranti, sul modello greco, a che «pagare è troppo faticoso, qualsiasi intervento di razionaliznon lo faccio più». È questo, che zazione interna (ad esempio le lispaventa il mercato. E anche se beralizzazioni delle professioni, gli investitori si sono ormai abi- del mercato del lavoro, dei servizi tuati al too big too fail sulle ban- pubblici locali) e sono piuttosto che, non hanno dimenticato il orientate a una politica di rivenfatto che poi qualcuno più grosso dicazioni di indipendenza dalper questo, alla fine, li pagava. Il l’Ue, di autosufficienza, e persino guaio per noi è che sanno che nes- di tassazione invece di quelle che suno più grosso dell’Italia, a me- servirebbero a detta dei tecnici. no di improbabili accordi euro- Il dubbio che assale il mercato pei, potrebbe pagare i debiti di oggi è probabilmente quello che un paese come il nostro, perché queste forze politiche, che governano il paese votando le leggi del sono troppo grandi. Il grave problema del nostro pae- Parlamento, non siano quelle più se è proprio che ci sono entrambe adeguate a rivelarsi rispettose del le sintomatologie descritte, che diritto di proprietà, e che, per


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questo, l’esigibilità del debito sia nel caso dello Stato, la polizia saminacciata dal rischio di espropri rebbe parte organica del bandito: tanto quanto la solvibilità dello lo Stato. Chi li starebbe derubanstesso lo sia dall’irresponsabilità do, lo starebbe facendo così non di gestione del bilancio. Del re- solo nel rispetto della legalità ma sto, un costituzionalista recente- direttamente tramite la legge. Anche questo, i creditori, lo sanmente scriveva: «Nelle prospettive dell’età de- no, e anche questo temono. Cosa mocratica, l’ipotesi di una banca- fare, dunque, per ottenere che i rotta dello Stato non riveste il ca- creditori dell’Italia considerino rattere di un attentato a un bene nuovamente accettabile (specie sacro quale sarebbe apparso agli visto e considerato che per tutto occhi dei liberali». (G. Bognetti, settembre si è parlato in modo irCostituzione e bilancio dello stato. Il responsabile di “prestiti forzosi” problema delle spese in deficit). (No- evidentemente molto simili alte ispirate dalla lettura di un li- l’idea di un default) anche un debito delle dimenbro di G. Rivosecsioni del nostro? chi), in Rivista Quello che il governo Tutto quello che il dell’Associazione governo sta facenitaliana dei costi- sta facendo sul fronte do o annunciando tuzionalisti) della solvibilità sul fronte della Lo scenario temuto solvibilità del dedal mercato, è pro- del debito va bene, bito va bene, anprio quello di uno ma non è sufficiente che se non è suffiStato debitore che, preso atto delle imprescindibili ciente già è qualcosa. Ciò che del esigenze sociali, dell’impossibilità tutto manca, invece, è un’azione di ridurre ancora voci già tagliate, definita mirante a proteggerne dell’inalienabilità di certi beni del l’esigibilità, ovvero a rassicurare i patrimonio pubblico, della diffi- creditori che nel Parlamento itacile situazione economica che liano c’è la più alta consideraziosconsiglia di alzare le tasse etc. e ne del diritto di proprietà e del via con tutte le ovvie giustifica- rispetto degli impegni presi. In zioni del caso, li informi che il lo- questo articolo, noi vogliamo fare ro credito non lo rivedranno o ne alcune proposte e segnalare uno rivedranno solo una parte (Per strumento che potrebbe avere enl’Argentina molti l’hanno vissuto, trambi gli effetti: migliorare i e per la Grecia lo si legge sui gior- saldi di finanza pubblica ed al nali oggi) e magari anche quella contempo dare la sensazione la riavranno solo fra qualche an- esterna giusta, quella di una febnetto, se va bene. La cosa inquie- brile opera d’impegno volta altante in tutto ciò è che loro sono l’onorare i debiti contratti dal noconsapevoli che mentre i creditori stro governo negli anni, con il normali potrebbero in una simile più netto allontanamento nei fatsituazione rivolgersi alla polizia, ti dalle ipotesi emergenziali di

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“consolidamento” del debito secoli fa hanno imbrigliato ai suoi doveri di contenimento delle (leggi: esproprio). La prima proposta è di tipo solo spese pubbliche persino il goverapparentemente simbolico e si no più di sinistra nella storia retratta nello specifico di una legge cente, segnando una grande vitCostituzionale di un solo articolo. toria del costituzionalismo. Noi Lo Stato italiano, che già dopo la in Italia, non possiamo ad oggi guerra mondiale si rese colpevole vantare questo grado di civiltà, e verso i suoi creditori di un vero e dobbiamo al contrario essere conproprio furto, non ha infatti effi- sapevoli che i nostri diritti pocacemente disciplinato nella sua trebbero essere sempre messi in legge fondamentale una tutela discussione con un bel decreto dei creditori pubblici dal factum legge. Far finire questo rischio, principis, ovvero dalla decisione rassicurerebbe – a costo zero – i sovrana di non pagarli. Per questa mercati, ed anche il centrodestra ragione, si propone di trascrivere che governa avrebbe solo da guadagnare nello sfiletteralmente neldare le opposizioni la Costituzione Dobbiamo essere a dire “no, non voItaliana lo stesso principio scritto a consapevoli che i diritti gliamo votare questa legge dove c’è chiare lettere in potrebbero essere scritto che dovrequella americana, mo pagare sul serio c h e i m p e d i s c e messi in discussione i nostri debiti!”. qualsiasi ripudio con un decreto La seconda propodel debito in quel sta verte sul tema delle privatizgrande paese. «Non potrà essere posta in que- zazioni. Un altro dei nostri prostione la validità del debito pub- blemi di civiltà giuridica è che in blico degli Stati Uniti, autorizza- Italia lo Stato adotta per sé condito secondo la legge, compresi i zioni di pagamento diverse da debiti contratti per il pagamento quelle dei comuni mortali, ed è di pensioni» (XIV Emendamento riottoso a sottoporsi alla giurisdizione civile con gli stessi metodi 4° comma). Tanto basterebbe a impedire, per e la stessa pignorabilità dei beni i secoli a venire, qualsiasi tenta- che ci sono per i privati. È uno zione del Parlamento di evadere i dei motivi per cui le aziende ogni problemi. A meno di gravissime anno aspettano circa sessanta misituazioni, nessuna minoranza liardi di euro di pagamenti arreconsentirebbe alla maggioranza trati che lo Stato sistematicamendi cambiare la Costituzione per te non assolve, se non con ritardo. non pagare i debiti. Che il mecca- Un fenomeno simile rischia di esnismo funzioni, lo si è visto que- serci per il debito pubblico nel st’estate in America, dove “le ca- caso di default in qualche asta, e tene della costituzione” (come le questo pesa sulle valutazioni delchiamava Thomas Jefferson) tese la sua esigibilità. Nel caso lo Sta-


SHOCK ECONOMY Giovanni Basini

to non avesse di che pagare in ter- goria andrebbe preparata per mini di liquidità ciò che deve ai l’emergenza. Per essa andrebbe possessori di titoli non ci sarebbe pre-determinato un preciso piano, infatti un piano preordinato per attuabile senza bisogno di interla messa all’asta, in favore dei cre- venti politici, di priorità relativa ditori, di beni immobili dello in una procedura di sostituzione Stato stesso, né l’agibilità per con affitti, successivo sgombero pretenderne alcuno in tribunale. dei locali che si concluda con una A nostro avviso questo è incom- privatizzazione, fatta per asta prensibile; dal momento che lo pubblica, e la liquidazione dei Stato ha problemi di credibilità proventi ai creditori. I beni della sul mercato, bene farebbe a indi- seconda categoria non verrebbero viduare diversi clusters di immo- quindi né sostituiti con altri in afbili pubblici, suddividendoli in fitto né sgomberati né venduti tre categorie generali, e a porli a mai a meno di contemporanea garanzia del debito. Un primo mancanza di domanda in qualche asta di rinnovo del schema di suddividebito e di liquisione, da farsi per La più forte critica alle dità nel bilancio legge, potrebbe essere questo: quelli privatizzazioni è quella per farvi fronte, condizioni da cui privatizzabili per- che alla fine lo Stato partirebbe una ché inutili, inutiprocedura di prilizzati o costosi incasserebbe molto vatizzazione pre(per esempio le ca- meno del reale valore definita finalizzata serme vuote dopo la cessazione della leva, le aziende semplicemente a reperirla. in perdita, le spiagge); quelli uti- La più forte critica alle privatizzalizzati dalle amministrazioni e, zioni è sempre quella che alla fine pertanto non immediatamente lo stato incasserebbe molto meno privatizzabili salvo emergenze sul di ciò che valgono realmente i bedebito (come i palazzi delle am- ni. È stato questo l’argomento ministrazioni centrali e periferi- utilizzato in tanti casi per negare che, le quote di controllo delle che con privatizzazioni rapide si aziende in attivo); quelli non pri- potesse evitare di fare manovre vatizzabili, da lasciare nel patri- correttive incentrate sulle tasse. Noi non ci crediamo. Il prezzo vemonio pubblico (i monumenti). La prima categoria andrebbe spo- ro è solo quello del mercato. Le gliata di tutti i vincoli propri del- previsioni della vigilia, anche la proprietà pubblica e conferita quelle più attente, non sono mai ad organismi privati a partecipa- prezzi, ma sempre ipotesi. Siamo zione aperta (ad esempio alle ban- convinti che il problema del prezche, che ne riceverebbero di sicuro zo sia così solo un problema relabeneficio) che ricevano dallo Stato tivo alla modalità scelta per venil mandato di venderli al maggior dere e non in sé legato al fatto prezzo possibile. La seconda cate- stesso di vendere qualcosa. Più so-

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no gli acquirenti potenziali interessati, più, si sa, il prezzo d’asta sale. L’importante dunque è aprire al massimo le aste, dargli pubblicità e consentire a tutti di partecipare, sia stranieri che italiani. Se quanto sopra è vero, tuttavia un rimedio almeno che potrebbe consentire di assicurare che si verifichino le ipotesi più alte sul prezzo dei beni, potrebbe esserci. Si tratterebbe di strutturare la procedura d’asta in modo da concedere il diritto di acquistare tali beni non solo in denaro ma anche direttamente per l’equivalente monetario dei titoli di Stato posseduti dal compratore, a condizione che li rimetta allo Stato (annullando così il debito). In questo modo, vaste parti della platea dei detentori di titoli di Stato potrebbero, secondo procedure di valutazione diverse in relazione alle differenti scadenze, rimettere anche immediatamente il loro credito nei confronti dello Stato, utilizzandolo per acquisire beni privatizzati ed abbattere così in via diretta il debito pubblico. Il gettito della percentuale non remunerata in titoli delle privatizzazioni andrebbe invece a coprire l’abbattimento del deficit. Il vantaggio di questo schema, sta nel fatto che facendo partecipare all’asta mettiamo cento acquirenti potenziali con i contanti in tasca il prezzo sarebbe di sicuro molto più basso che se vi fossero oltre a loro altri cento potenziali acquirenti privi di liquidità ma pieni di titoli, perchè con essi a contendersi i beni (siano essi immobili o quote) sarebbero non

più cento ma duecento acquirenti, con l’evidente pressione al rialzo del prezzo che ne conseguirebbe. Lo strumento, per concludere, avrebbe anche un effetto di rassicurazione dei mercati. Molti di coloro i quali vendono i titoli di Stato, determinando così una ulteriore pressione al ribasso del loro valore, hanno semplicemente paura di non riceverli alla scadenza. Consentire a chi ancora non ha raggiunto la scadenza del proprio titolo di liberarsene subito in cambio di beni reali, a patto di usufruire del metodo d’asta indicato, agevolerebbe non solo molte situazioni personali, ma darebbe un serio e concreto sollievo al mercato. Chi non si fida del debito italiano, riceverebbe così il rassicurante messaggio della possibilità di convertirlo in beni tangibili posti “a garanzia” di esso per tutta la durata ipotizzabile di questa crisi del debito. Piuttosto che di uno Stato sull’orlo di diventare ladro, daremmo così l’idea di una nazione che riafferma se stessa.

L’Autore giovanni basini Già Presidente di Alternativa Studentesca, responsabile nazionale scuola di Forza Italia Giovani e dirigente nazionale dei Giovani del Pdl ha contribuito alla fondazione dell’associazione Fareitalia, nel consiglio direttivo nella quale siede attualmente.


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IL FUTURO Ăˆ GIĂ€ QUI

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Bimestrale della Fondazione Farefuturo Nuova serie anno III - n. 16 - maggio/giugno 2009 - Euro 12 Direttore Adolfo Urso

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SHOCK ECONOMY Francesco Forte

NON SOLO DEFICIT Se il mercato ci impone di azzerare il disavanzo, la situazione patrimonale delle nostre banche ci impone di ridurre anche il debito. Collateralizzazioni e privatizzazione del patrimonio pubblico sono la chiave per una manovra shock da 500 miliardi. DI FRANCESCO FORTE

L’impostazione che il ministro dell’Economia ha dato della manovra di finanza pubblica si rileva sempre più miope ed errata. Infatti esisteva un problema del deficit, ma anche, e soprattutto, un problema del debito, che non si risolve solo accettando maggiori tassi di interesse, a fronte del rischio, che, almeno temporaneamente, viene avvertito di sostenibilità di tale debito, in attesa che mano a mano il rapporto debitoPil scenda, a causa dell’elevato avanzo primario in percentuale sul Pil, connesso al pareggio del bilancio e all’aumento del Pil monetario. Infatti anche se l’onere per interessi è sostenibile, l’aumento del rischio riduce il valore patrimoniale dei titoli pubblici a medio e lungo termine in circolazione, generando una riduzione negli attivi delle banche e quindi dei loro valori patrimoniali. Ciò genera due effetti negativi. La tendenza delle banche a ven-

dere i vecchi titoli, sul mercato secondario, generando un deprezzamento del loro valore che si ripercuote sulle nuove emissioni e sul valore degli attivi delle banche, con una spirale che può essere contenuta solo con acquisti da parte della Bce o di un Fondo europeo di stabilità o da parte del Tesoro nazionale. La restrizione del credito dovuta al fatto che i parametri delle banche sono indeboliti e il rischio di una crisi bancaria, con caduta dei titoli in borsa e in genere dei valori finanziari, generando un ulteriore effetto depressivo sull’economia, che si aggiunge a quello che di per sé deriva da una manovra di riduzione del deficit che non migliori i parametri patrimoniali degli operatori economici (non c’è bisogno di essere keynesiani per capirlo, nell’economia neo classica si chiama effetto Pigou-Patinkin). Le nostre banche detengono una

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quota rilevante del debito pubblico italiano, che genera problemi per i loro parametri patrimoniali, se lo si valuta non al valore facciale ma a quello di mercato secondario (che per altro è molto variabile) come nostra la Tavola 1, riferita alle maggiori banche. Situazione molto delicata per Monte dei Paschi e Banco Popolare, ma delicata anche per le due maggiori banche. Invece che litigare con le banche, occorre preoccuparsi seriamente del rapporto debito pubblico-sistema bancario. Dunque, occorre agire non solo sul deficit, ma anche sul debito. Di qui l’esigenza di una “manovra di 500 miliardi” sul debito italiano, pari al 30% circa del Pil. Questa però fortunatamente non ha bisogno di 500 miliardi liquidi, ne bastano 200-250. Infatti si può operare sia con l’acquisto di debiti sul mercato secondario, togliendoli dal mercato e sterilizzandoli in un apposito “Fondo per il riscatto e la garanzia del debito pubblico” e sia mediante la “collateralizzazione” dei titoli pubblici a medio e lungo termine

mediante una garanzia reale del 20% del loro valore facciale, su beni pubblici. 80 miliardi consentono di collateralizzarne 400 per il 25% del Pil mentre altri 120, pari al 7,5% del Pil possono toglierne dal mercato il 7,5%. Considerando che la Bce ne ha acquistati almeno 80, pari al 5% del Pil, in totale il problema del nostro rapporto debito-Pil sul mercato si ridurrebbe di una percentuale del 37,5%. Chi reputa che il debito pubblico italiano sia il 119% del Pil potrebbe affermare che sul mercato rimarrebbe pur sempre un altro 81,5, ossia pur sempre una montagna. Ma la questione va posta in modo diverso. Bisogna distinguere il debito pubblico dello Stato italiano sul mercato dal debito pubblico complessivo che l’Italia ha, per Eurostat. Sino a ora il nostro ministero dell’Economia non ha mai spiegato questo concetto, anzi ha ingenerato al riguardo una notevole confusione perché il ministro dell’economia ha costantemente affermato che siede su una montagna di debito pubblico, la più alta d’Europa dopo quella

Tavola 1


SHOCK ECONOMY Francesco Forte

della Grecia, implicitamente avvalorando la tesi che sia responsabile direttamente di tutto il debito pubblico censito da Eurostat. La seconda cosa che occorre distinguere è il nostro debito pubblico detenuto dalle nostre banche e dagli altri nostri operatori finanziari e da quelli esteri dal debito pubblico detenuto dalle famiglie, come investimento del loro risparmio. (Tavola 2) Sui titoli di stato – 1446 miliardi a fine 2010 – la quota a breve termine è di 305 miliardi circa. Togliendo il debito ferroviario sull’estero, cioè altri 9, che possono essere rafforzati dalle Ferrovie dello Stato e i 60 miliardi posseduti da Banca di Italia, si arriva a 374 miliardi. Dunque il debito

dello Stato a medio e lungo termine sul mercato è, a fine 2010, 1072 miliardi, ossia il 67% del Pil. L’operazione con due rami qui descritta, pari a 520 miliardi e la quota della Bce di 80 insieme sommate, ne sterilizzerebbero o metterebbero al sicuro 600, sicché ne rimarrebbero sul mercato senza garanzia solo 520, che avrebbero un più alto rendimento e, comunque, il compito del Fondo europeo di stabilizzazione finanziaria di assistenza all’Italia si ridurrebbe di molto. Va anche tenuto presente che entro il 2014 il rapporto debito-Pil sarebbe sceso al 14,5% del Pil. Conviene ora esaminare ancora la distribuzione del nostro debito globale fra Italia ed estero e fra

Tavola 2

fontE: f. forte, Saggio su crescita e stabilizzazione finanziaria in Ircocervo, n. 3-2001.

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banche e altri operatori finanziari, imprese e famiglie, al fine di capire dove andrebbe prioritariamente indirizzata la collateralizzazione. (Tavola 3) Come si nota il 15 % del nostro debito pubblico è detenuto da famiglie italiane presumibilmente più interessate al rendimento che alla collateralizzazione. Un 28% è di banche per 450 miliardi circa e non tutto è costituito da debito statale a medio e lungo termine e comunque una parte di tale debito pari al 7,5% del Pil attuale verrebbe ritirata dal mercato nel biennio sicché, le collateralizzazioni dovrebbero bastare ampiamente per soddisfare alla richiesta degli istituti bancari e una parte residua potrebbe essere destinata alle compagnie di assicurazione e di Fondi di Investimento. Ora però ci si domanderà da dove

si possono trarre i 200 miliardi occorrenti per il Fondo di riscatto e garanzia del debito pubblico, che non dovrebbe essere necessariamente un nuovo soggetto finanziario, potrebbe essere una mera assegnazione di bilancio a una gestione separata. Ciò è illustrato nella Tavola 4. Ossia: il provento della vendita di beni strumentali della Pubblica amministrazione statale, costituiti da immobili che essa utilizza e per i quali stipulerebbe dei contratti di affitto di per un importo almeno 30 miliardi; il provente della cartolarizzazione e cessione di crediti fiscali, di crediti per anticipazioni e di crediti non classificabili della Pubblica amministrazione statale che Edoardo Reviglio, capo dell’Ufficio studi della Cassa depositi e prestiti1 stima in 22 miliardi ed è

Tavola 3 - Distribuzione fra soggetti italiani ed esteri dei titoli di stato

fontE: f. forte, Saggio su crescita e stabilizzazione finanziaria in Ircocervo, n. 3-2001.


SHOCK ECONOMY Francesco Forte

qui ridotto a 21 assumendo che una parte siano, nel frattempo, pagati con vari sistemi; il patrimonio immobiliare pubblico, che rende appena lo 0,1% del suo valore, stimato, (prudenzialmente), da Edoardo Reviglio2 in 72 miliardi; il valore capitalizzato delle frequenze già date in concessione che Edoardo Reviglio3 stima in 18 miliardi; una quota delle società per azioni pubbliche di cui lo stato detiene quote eccessive, come Enel o la totalità, per un importo di 21 miliardi; dalle concessioni demaniali statali, che Edoardo Reviglio valuta abbiano un valore di 50 miliardi e rendono solo 250 milioni, pari allo 0,5 %, al netto del demanio marittimo, si possono ricavare 25 miliardi costituendo una società per le Conces-

sioni demaniali e cedendone una quota attorno al 55% alla Cassa depositi e prestiti, all’Anas e ad altri operatori istituzionali non rientranti nel perimetro del settore pubblico, secondo la definizione di Maastricht; una convenzione con la Svizzera riguardante la tassazione dei capitali italiani che ivi sono rifugiati, che comporta anche la vigilanza sui futuri capitali che volessero scegliere occultamente questa destinazione: secondo le stime de il Sole 24 Ore, questa convenzione, a cui si è sino a ora opposto il ministro dell’Economia, comporterebbe un introito massimo di una tantum di 9 miliardi per la sanatoria sulle imposte arretrate, insieme a una cedolare secca del 27% sui circa 150 miliardi di euro, di capitali italiani che si stima siano

Tavola 4 - Dotazione del fondo per il riscatto e la garanzia del debito pubblico

fontE: f. forte, Saggio su crescita e stabilizzazione finanziaria in Ircocervo, n. 3-2001.

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attualmente rifugiati in Svizzera, con un gettito ulteriore di 1,6 miliardi annui, che per i prossimi due anni sarebbero 3,2 miliardi. Sicché è ragionevole l’ipotesi di un introito di 13 miliardi. Non trascurabili i proventi delle privatizzazioni, da Enel, di cui lo stato possiede il 31%, si potrebbero ricavare 8,2 miliardi, passando al Fondo per il riscatto e la garanzia del debito pubblico (Frgd,. da Finmeccanica si potrebbero ricavare 800 milioni riducendo la quota statale al 15%, dalle società non quotate, mantenendone la maggioranza assoluta, si dovrebbero ricavare 12 miliardi così ripartiti: per Poste italiane che ha un patrimonio di 4,350 miliardi, la quota disponibile è 2,2 miliardi; per Fintecna, che ha un patrimonio di 2,6 miliardi, 1,2 miliardi; per Sace, che ha un patrimonio di 6,3 miliardi, ricavare 3,1 miliardi, per Cassa depositi e prestiti 1,8 miliardi, per Istituto poligrafico 300 milioni; per Enav 500 milioni, per Invitalia 700 milioni, per Anas, che ufficialmente ha un patrimonio netto di soli 2,360 miliardi, almeno 1,2 miliardi e da Ferrovie dello Stato 1 miliardo. Questo schema presenta un totale in cui una quota di 80 miliardi verrebbe accantonata per far luogo a collaterali per nuove emissioni e riconversioni per 380-400 miliardi, quindi non a vere alienazioni, mentre il resto verrebbe utilizzato, in un biennio, per il riscatto di debito pubblico. E poiché una parte dei valori della Tavola 4 è più liquida, e un’altra

meno liquida, è un programma “massimo”, però fattibile, che mira anche e in primo luogo a valorizzare il patrimonio pubblico senza svenderlo e a sottoporre le varie imprese statali che sono spa al 100% dello Stato alla sfida del mercato e, in primo luogo, a una gestione più trasparente. Note 1

E. Reviglio (2011), Patrimonio Pubblico, Seminario del ministero Economia e Finanze, 30 settembre 2011, nel sito del MEF. 2 Cfr. E. Reviglio (2011). 3 Cfr. E. Reviglio (2011).

L’Autore francesco forte Professore emerito di scienza delle finanze a La Sapienza di Roma. Nel 1961 succedette a Luigi Einaudi alla cattedra di Scienza delle finanze dell’Università di Torino. Ha insegnato alla University of Virginia, dove ha partecipato con James Buchanan alla formazione della Scuola di public choice. La sua produzione scientifica è vastissima. È stato ministro delle Finanze e poi delle Politiche comunitarie. Collabora con Il Foglio e il Giornale.



Quale ricetta economica?

Per una politica della CONCORRENZA Mercati aperti, liberalizzazioni, aliquote fiscali eque e flessibilità porterebbero al paese nuova occupazione, soprattutto giovanile, nuovi investimenti dall’estero e soldi nella casse dello Stato da investire per il futuro. INTERVISTA A LUISA TODINI DI ROSALINDA CAPPELLO

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«La politica mi dava molte soddisfazioni, imparai un sacco di cose, ma mio padre mi ripeteva: quando la smetti di perdere tempo? … Così, dopo una legislatura … lasciai la politica, pur senza rinnegarla, e tornai in azienda». Ricorda con queste parole, in un articolo d’annata della Stampa la breve parentesi di impegno come parlamentare europeo nelle liste di Forza Italia. Era il 1994. Oggi, Luisa Todini, è presidente della Todini spa, del Gruppo Salini – oltre che dell’Associazione costruttori europei e del Comitato Leonardo – l’impresa creata da suo padre, figlio di contadini umbri con la licenza elementare, riuscito a realizzare il suo sogno di costruire «tutte le strade del mondo». La mentalità nella quale è stata allevata è quella che serve al paese in una fase economica ingarbugliata come questa, dove solo una politica coraggiosa

del progettare e del fare può essere quella efficace. Come reperire i 500 miliardi di euro necessari per la riduzione del rapporto debito-Pil al 100% e per la crescita del paese?

Accetto la provocazione ma non mi sembra una buona idea puntare a una manovra così ingente, tale da distruggere qualsiasi economia, a meno di non spalmarla almeno su dieci anni. In secondo luogo, dovrebbe trattarsi di un mix sia di maggiori entrate sia di minori spese, anzi, per riequilibrare gli effetti depressivi dell’ultima manovra, punterei a tagliare, e di molto, le spese improduttive. In terzo luogo, ritengo più equilibrata una manovra che non punti solo a ridurre il numeratore ma spinga in ugual misura l’acceleratore sul denominatore. Senza crescita del Pil, non usciremo mai dalla crisi e i


SHOCK ECONOMY intervista a Luisa Todini


mercati saranno i primi a condannarci. Quali sono le priorità? Le liberalizzazioni, le privatizzazioni, la riforma della pensioni, una riforma fiscale?

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Concordo con il manifesto di Confindustria, articolato su 5 punti: pensioni (abolire anzianità e regimi speciali), fisco (meno tasse sul lavoro), dismissioni (una patrimoniale all’incontrario), liberalizzazioni, infrastrutture, a cui aggiungerei giustizia e burocrazia. Vorrei solo ricordare questi dati: abbiamo un cuneo fiscale del 47%, contro una media Ocse del 35%; il patrimonio pubblico (stato + enti locali), incluse le partecipazioni, è valutato intorno ai 400 miliardi; gli investimenti pubblici in infrastrutture sono in calo continuo dal 2008, sopravvivono solo le imprese che vanno all’estero mentre negli altri paesi avanzati (Cina inclusa) i contractor diventano grandi prima in patria e poi, forti di solide radici e know-how acquisito, si proiettano sui mercati internazionali; i tempi della burocrazia e della giustizia civile sono un ostacolo alla libertà d’impresa e alla competitività: 10 anni per realizzare una grande opera oppure 3,5 anni e 41 procedure per una causa contrattuale ci pongono sempre più in posizione arretrata nelle classifiche internazionali sulla competitività dei sistemi-paese (nella Doing Business 2011 della Banca mondiale siamo all’87esimo posto su 183 paesi).

Come mai nessun governo, di centrodestra e di centrosinistra, riesce a produrre una seria politica di liberalizzazioni?

Bersani ci aveva provato, ma con pochi risultati. Caste e corporazioni unitamente a interessi politico-clientelari si aggrappano alle loro rendite di posizione impedendo qualsiasi cambiamento. Il caso dei taxi a Roma o degli ordini professionali che si oppongono all’abolizione delle tariffe minime sono emblematici e noi utenti ne paghiamo le conseguenze. Condivide l’idea che le privatizzazioni finirebbero per diventare una svendita? Come evitare questo rischio?

Questi rischi si evitano con procedure trasparenti ed efficienti, che lascerebbero pochi spazi ai furbetti di quartiere o alle varie cricche. Gli immobili e le partecipazioni dello stato rendono troppo poco, lo stesso ministro Tremonti stima che il recupero possibile con una gestione più attenta sia dell’ordine di 200 miliardi in soli 2-3 anni. E gli enti locali dovrebbero essere incentivati a mettere i servizi in gara, anziché ricorrere spesso e volentieri agli affidamenti diretti. La stima degli appalti sottratti al mercato è di 28 miliardi ogni anno, e si parla soprattutto di servizi pubblici e di lavori in house delle concessionarie stradali. Certe misure, tipo l’allungamento delle concessioni per gli stabilimenti balneari, mi sembra vadano in direzione contraria.


SHOCK ECONOMY intervista a Luisa Todini

Che cosa pensa della proposta di una tassazione sui grandi patrimoni? Può essere una delle azioni da valutare per raggiungere lo scopo?

La disponibilità è stata già avanzata dai presidenti di Confindustria (Marcegaglia) e Assonime (Abete), sono d’accordo, purché collegata a una riduzione di Irap e cuneo fiscale. Un’altra tassa patrimoniale semplice semplice con cui recuperare gettito, ma di cui pochi parlano, sarebbe quella di aumentare le rendite catastali sulla cui base si calcolano le imposte sulle seconde case. In attesa di una revisione degli estimi con i valori di mercato, si potrebbe ad esempio portare l’attuale ricarico forfettario del 5% sulle rendite al 10%-15% per le seconde case, con aumenti progressivi per le ulteriori proprietà. Ciò darebbe ossigeno agli enti locali a cui è stata tolta l’Ici sulla prima casa. In che modo agevolare la crescita legata allo sviluppo dell’imprenditoria?

Sottolineerei la necessità di liberalizzazioni, tanto maggiore in una fase di stagflazione in cui da un lato calano i consumi, dall’altro aumentano i prezzi di molti beni, servizi e commodities (generi alimentari, petrolio, servizi di trasporto). Aprire i mercati servirebbe anche ad attrarre capitali e investimenti dall’estero, utilissimi per rimettere in moto reddito e occupazione, soprattutto giovanile, e stimolare la concorrenza. Aggiungerei che occorre una iniezione di flessibilità sul mercato del lavoro che, mai come in questo momento, è elemento ne-

cessario per la tutela della competitività delle nostre aziende ed è cosa ben diversa dalla precarietà. La flessibilità dovrebbe essere percepita, infatti, come un valore aggiunto non solo dall’azienda, ma anche dallo stesso lavoratore che deve sentirsi realmente parte dell’impresa per la quale lavora, sapendo altresì di poter contare su un mercato del lavoro dinamico e aperto, in cui i lavoratori in possesso di abilità e know-how non abbiano difficoltà a ricollocarsi. Ma una cosa è certa: la flessibilità è un valore laddove un paese cresce e crea nuove opportunità, altrimenti diventa precariato cronico. 93

Come combattere in maniera efficace l’evasione fiscale?

L’evasione è un’ingiustizia sociale e generazionale, sottrae risorse allo sviluppo e mina alla base il nostro più grande asset, la coesione sociale, che ci ha permesso di vincere la battaglia contro il terrorismo prima e di entrare nell’euro dopo, con tutti i sacrifici connessi, che dobbiamo ora evitare di disperdere. Qualche idea concreta su cui lavorare quale potrebbe essere?

Innanzitutto, favorire l’emersione del fatturato in nero premiando con una riduzione dell’aliquota d’imposta i soggetti che dichiarano ricavi superiori alla soglia di congruità calcolata dagli “studi di settore”: in tal modo si avrebbe l’effetto virtuoso a catena nella filiera (anche i fornitori sarebbero incentivati a dichiarare i propri


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ricavi in nero) con una diminuzione di aliquote parallela a un aumento di base imponibile. Bisognerebbe, poi, rafforzare la tracciabilità dei pagamenti abbassando ulteriormente la soglia sopra la quale non si possono usare i contanti (al momento pari a 2.500 euro). E, ancora, prevedere obbligo di comunicazione all’Agenzia delle entrate per l’acquisto non solo dei beni di valore superiore a 3.600 euro ma anche dei servizi (per l’iscrizione a circoli o a club). Prevedere anche un “tutoraggio” sulla base dei modelli Ocse, con il riconoscimento di una “patente” di affidabilità fiscale alle imprese in regola con gli accertamenti o che aderiscono a forme di disclosure volontaria (come in Regno Unito e Paesi Bassi). Rafforzare l’anagrafe patrimoniale come mezzo di controllo e incrocio delle banche-dati e, last but not least, continuare a far lavorare Befera in pace.

L’Intervistato

Luisa todini Imprenditrice italiana, è stata eletta deputata europea alle elezioni del 1994 per le liste di Forza Italia. È stata membro della Commissione per la cultura, la gioventù, l’istruzione e i mezzi di informazione, della Delegazione per le relazioni con i paesi dell’America del Sud, della Commissione per la politica regionale e della Delegazione alla commissione parlamentare mista Ue-Polonia. Nel 2006 è stata presidente della Todini Finanziaria S.p.A.. Oggi è presidente di Todini Costruzioni Generali S.p.A., società che opera nel settore delle grandi infrastrutture, con filiali in dodici

Qual è la strada da seguire per agevolare una reale concorrenza e combattere i corporativismi e la concentrazione di risorse e potere tra pochi grandi gruppi bancari, industriali ed editoriali?

paesi di quattro diversi continenti. Dal 2008 è vi-

Favorire la concorrenza in ogni settore aprendo il mercato ai privati dopo – o parallelamente – una effettiva liberalizzazione, stabilendo regole semplici e trasparenti, con authority dotate di poteri efficaci e autonomia dal potere politico.

razione industria europea delle costruzioni). È

cepresidente dell’Ipi, Istituto per la promozione industriale e dal 2004 presidente del Foro di dialogo Italo-Russo. È Presidente della Fiec (Fede-

membro del comitato scientifico della Fondazione Italia Usa.

L’Autore rosaLinda cappeLLo Giornalista, è redattrice di Fareitaliamag, il periodico online dell’associazione Fareitalia. Ha collaborato con il Secolo d’Italia.




SHOCK ECONOMY Santo Versace

Uno slogan per tutti, MERITOCRAZIA

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al made in Italy alla politica, dall’Università alle donne, quello che manca all’Italia è il merito, inteso come stella polare da seguire per costruire un paese all’altezza della sua storia e delle sue potenzialità.

DI SANTO VERSACE

Nel made in Italy è racchiusa la migliore risposta a una delle sfide più difficili e affascinanti della modernità: la ricerca dell’equilibrio tra le molteplici identità locali e quell’identità collettiva che la società globalizzata sta formando grazie all’esplosione degli strumenti più avanzati di comunicazione. La velocità nella trasmissione e nell’assimilazione di informazioni ha creato un gusto condiviso – omologato, dicono gli scettici – tra i paesi e le culture più diverse. Tuttavia restano sempre le culture locali, attraverso l’incontro con altre, a fecondare nuovi stili, nuove visioni del mondo, nuovi gusti e tendenze, nuovi contributi al miglioramento della vita. In questo le vicende della storia d’Italia, il paese che mi ha cresciuto con un amore che cerco ogni giorno di restituire attraverso il mio lavoro, sono esemplari:

l’Italia è una nazione relativamente giovane, ma la storia della sua civiltà è millenaria ed è intessuta di una tale quantità di avvenimenti, di scoperte, di creazioni artistiche, di intrecci con culture diverse, che si potrebbero scrivere decine di storie parallele. Uno dei più grandi giornalisti italiani, Indro Montanelli, amava definire l’Italia per ciò che non era: non una nazione di soldati, o di conquistatori, ma una terra che ha visto nei secoli alternarsi diverse culture dominanti, e che ha formato la propria identità non attraverso la fierezza guerriera, ma sviluppando invece quelle arti, quelle qualità e quelle discipline che rifuggono lo scontro e si rivolgono alla ricerca del bello, del buono, del vero, dell’utile e dell’ignoto: da qui il proliferare nella nostra storia di artisti, filosofi, scienziati, esploratori, amanti del cibo e dei piaceri del-

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la vita. Da qui – da queste pro- no questi a mio avviso gli ingrefondissime radici – nasce lo Stile dienti fondamentali di quello che oggi chiamiamo made in Italy. di Vita Italiano. Ciò che noi oggi intendiamo per Chi lavora nell’industria dei beni made in Italy – anche in campo in- ad alto contenuto simbolico, codustriale – non è altro che la no- me le imprese di Fondazione Alstra storia presentata nelle forme tagamma di cui sono presidente, concrete in cui si esprime la so- sa di non essere un imprenditore cietà moderna. Ed è figlio della qualunque. Sa che ogni suo prodotto è il coagulo di un insieme nostra lunga tradizione. Provengo da un settore – la moda di valori sedimentati nel tempo e – che trent’anni fa ha reso popo- nel territorio, di cui ogni espreslare il made in Italy, contribuendo sione artigianale e industriale almeno in parte a eliminare i pre- non è che una delle possibili e ingiudizi negativi sul mio paese, finite varianti. che cominciava proprio allora a Gli scenari futuri sono, per certi aspetti, già deliessere associato a neati oggi. Siamo concetti come il Il made in Italy infatti noi a cobuon gusto e il sastruire il futuro per vivere. E quan- è figlio della nostra con le nostre scelte do chiedevano a lunga tradizione fatta quotidiane, con le mio fratello Giandecisioni che prenni, il fondatore da artisti, filosofi diamo nel presendella nostra azien- ed esploratori te; io ho ben chiaro da, quali fossero le ragioni del successo degli stilisti in quale scenario vorrei che vivesitaliani, lui rispondeva: “stile in- sero i miei figli, ma questo attiene novativo, creatività prorompente, solo alla dimensione del desiderio orientamento verso il mondo, e la o della speranza. Quello che dobpossibilità di usare i tessuti ita- biamo fare oggi è creare le condiliani, che sono i più belli e i mi- zioni per ritrovare una identità e restituire un ruolo internazionale gliori del mondo”. In queste parole è racchiuso il all’Europa e all’Italia aprendoci nocciolo del modo italiano di fare alla globalizzazione senza paure impresa, che è debitore del carat- ma cercando di trarne il massimo tere stesso del nostro popolo e vantaggio possibile. della sua storia: un’impareggiabi- Per questo è indispensabile prole tradizione artigianale, un gusto cedere a un profondo rinnovaestetico affinato nei secoli, una mento della classe dirigente. È un creatività e una spinta all’innova- mia ossessione personale perché zione spesso figlia delle avversità credo che si tratti di un passo inee del bisogno, un’attitudine natu- ludibile e assolutamente necessaralmente estroversa, la capacità di rio. Abbiamo bisogno di nuove affrontare individualmente le dif- energie intellettuali, nuova freficoltà e una grande passione. So- schezza di idee, ma il sistema di


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reclutamento della classe dirigen- mantiene ancora un primato in te del paese ostinatamente tende alcuni settori avanzati e di alta a favorire piuttosto persone che qualità ma dovrà lavorare durahanno il solo merito di avere pa- mente per conservarlo in un conrentele o vantare amicizie in- testo globale sempre più compefluenti. Meritocrazia deve essere titivo. Serviranno meno laureati lo slogan di tutti coloro che vo- in lettere e filosofia e più tecnici e gliono raggiungere un cambia- ricercatori ad alta specializzaziomento radicale nel segno del rico- ne. Serviranno anche sempre noscimento del talento autentico. maggiori abilità creative e di inPer questo i giovani devono evi- venzione, bisognerà convincere i tare di cadere nella trappola della nostri ragazzi che un futuro di strumentalizzazione, come è ac- grandi opportunità vi potrà essecaduto in occasione della recente re anche nel campo della manuariforma dell’Università, da parte lità artigianale se coniugata con di coloro che mirano solo a con- l’originalità, l’eccellenza e il gusto estetico. servare gli assetti Oggi le pari opattuali. Mi ha mol- Dobbiamo avere portunità di fatto to amareggiato venon esistono o esidere alcuni movi- il coraggio di andare stono solo in teomenti studenteschi in mare aperto e ria. Lo Stato ha il schierarsi dalla parte dei rettori e intraprendere un viaggio dovere di fornire pari condizioni di dei baroni del- al di là delle certezze partenza per tutti l’Università italiana. È di tutta evidenza che la va- a prescindere dalle condizione lorizzazione del merito fa saltare economica, sociale, di razza, di alcune certezze acquisite, alcuni genere. Detto così rischia di riprivilegi di casta. Ma il mare manere uno slogan, una pura aperto è l’unica nostra speranza: enunciazione di principio. Il menon a caso siamo un popolo di na- rito allora è l’unico criterio che vigatori perciò bisogna prendere può davvero risolvere il problema l’iniziativa e il coraggio di intra- delle impari opportunità. Tra prendere un viaggio al di là delle l’altro, va detto che anche in alcuni settori della pubblica amminicertezze. Credo che le prospettive che at- strazione che dovrebbero essere tendono le nuove generazioni sia- per legge ispirati a una pari opno esaltanti. È finito per sempre portunità nell’accesso, si risconil tempo delle collocazioni nella tra una effettiva e macroscopica pubblica amministrazione. È fi- disparità di genere nei ruoli dirinito il tempo del posto fisso. Si genziali e di vertice che potrà veaprono prospettive interessanti e nire riequilibrata solo con gli anstimolanti nel settore della infor- ni a venire. Io non credo al mecmation technology e dei servizi canismo delle cosiddette quote avanzati alle imprese. L’Italia rosa perché è un metodo che irri-

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gidisce ancora di più la struttura luppo frenetico e anche un po’ didelle assunzioni senza fornire al- sordinato di internet è invece una cuna garanzia che il rispetto delle miracolosa opportunità per quote favorisca persone davvero l’umanità, quella di rendere finalmeritevoli. In più, mi sembra mente disponibile per tutti l’acl’espressione di un sentimento in cesso alla cultura, all’informaziofondo paradossalmente discrimi- ne, all’arte e alla tecnologia, granatorio e riduttivo. Le donne ita- tuitamente o quasi. È uno struliane vogliono accedere alle col- mento straordinario che non ha locazioni di vertice per le loro ancora mostrato tutte le incrediqualità e non per il fatto di ap- bili opportunità che si possono atpartenere al cosiddetto sesso de- tendere. Di sicuro, l’accesso velobole. Se fossi donna credo che mi ce a internet, la banda ultra larga, risentirei se mi offrissero una diventerà tra breve la principale certa collocazione solo perché infrastruttura strategica per qualdonna. Io credo che tra le tante siasi paese che ambisca a essere protagonista sullo opportunità che scenario mondiale. un mondo in tra- L’intera filiera Mi sto battendo sformazione epopersonalmente cale e globale ci universitaria deve perché un progetto sta offrendo vi sia essere ristrutturata di grandi infraanche la fine di strutture come la queste sottili e facendo selezione banda ultra larga inutili forme di- sulla base del merito riceva i finanziascriminatorie. La tecnologia è e deve rimanere al menti necessari per consentire servizio dell’uomo. Se diventa fine all’Italia di essere un paese ala se stessa, per ciò stesso si trasfor- l’avanguardia in questo settore. ma in un pericolo per l’umanità. Abbiamo da recuperare un digiSia chiaro, io sono assolutamente tal-divide ma disponiamo anche estasiato dai formidabili progressi del know-how tecnologico per coldella tecnologia nell’ultimo scor- mare questo gap nei prossimi ancio del XX secolo e in questi anni ni. ma vedo anche il rischio di un La scuola e l’Università svolgono abuso della tecnologia che diventa un ruolo fondamentale. Secondo alienante. Internet è la più grande le rilevazioni internazionali la norivoluzione culturale e, per così stra scuola superiore oggi non dire, politica dell’ultimo secolo, fornisce un livello adeguato di una rivoluzione positiva rispetto a preparazione. Nelle statistiche tante altre rivoluzioni che hanno europee i nostri studenti di matelasciato sul terreno milioni di matica sono penultimi in Europa morti e hanno alimentato ideolo- e fanno meglio soltanto rispetto a gie catastrofiche che hanno segna- quelli di Cipro: non è consolante to in negativo la storia d’Europa e per un paese con la nostra tradidel mondo. L’esistenza e lo svi- zione. Quanto all’Università, le


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famose eccellenze di cui si riempiono la bocca i baroni dell’Università si possono contare sulle dita di una mano, il resto è ridotto a esamificio o peggio a strumento di collocazione per familiari, parenti e amici del cattedratico di turno. Occorre investire in formazione e in cultura, in ricerca e innovazione di processo. È l’intera filiera dell’istruzione che deve essere ristrutturata sulla base di un sistema di reclutamento della classe docente sempre e soltanto attraverso criteri di merito. Il ruolo dell’istruzione è troppo importante per il futuro dei nostri figli perché possa essere trattato alla stregua di un qualsiasi altro settore della pubblica amministrazione. Non riesco a vedere futuro per un paese che non dia sufficiente importanza all’educazione come strumento per la valorizzazione della personalità di ciascuno e della ricchezza inesauribile delle personalità. In tutto questo, la politica rimane un mondo molto lontano dall‘industria del made in Italy e della moda, direi l’opposto. La meritocrazia non esiste, ovvero i politici hanno cancellato dal loro vocabolario la parola meritocrazia. La legalità e l’educazione le guardano da lontano. Ciononostante la politica è una dimensione indispensabile del vivere civile, il problema che abbiamo di fronte è quello di riformare la politica e di farne uno strumento efficace al servizio dei cittadini. Sarebbe molto utile, pertanto, se le prassi della politica fossero aggiornate sulla base dell’esempio


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che viene dalla sana imprenditoria italiana. La moda può esser un riferimento utile. Nella moda, per come la conosco io, non vi è spazio per i raccomandati o per i fannulloni. Se si sbaglia una collezione si è fuori mercato. Lo stesso dovrebbe valere per la politica specie a livello locale e regionale. Se si crea un deficit si va via o quantomeno si salta un turno. Quando sento qualcuno dire: “Bisogna fare le riforme” mi viene l’orticaria. Ho sentito ripetere questa nenia tante migliaia di volte che ormai non ci faccio più caso se non fosse per il fastidioso eritema che mi provoca. Dire genericamente “Facciamo le riforme” è come dire nulla e ripeterlo incessantemente produce sempre il nulla. Non dobbiamo mai dimenticare che una certa politica italiana è quella che sostiene, per pura convenienza di parte, che “La Costituzione italiana è la più bella del mondo” sapendo perfettamente che ciò non è vero e che vi sono alcuni assetti determinanti, quali il bicameralismo perfetto, che sono stati il frutto di un accordo tra i partiti del ’47, reduci dal catastrofico ventennio fascista e ancora troppo deboli per proporre un modello repubblicano più moderno. Oggi ci troviamo con quasi mille parlamentari che costano uno sproposito e producono una legislazione tra le più scadenti, confuse e ridondanti tra tutti i paesi dell’occidente. Coloro che difendono anche l’indifendibile di questa Costituzione si dichiarano “progressisti” ma sono in realtà dei conservatori della

più bella acqua. La verità è che questo è un paese in cui i partiti, specie quelli cosiddetti di sinistra, si fanno concorrenza a chi è più conservatore. Ritenendo, erroneamente, che difendere lo status quo sia una tattica che ancora oggi paghi elettoralmente, come ha pagato per molti decenni nell’era democristiana. I leader odierni di questi partiti sono gli stessi che nella prima repubblica facevano parte delle seconde o terze file di quelle formazioni politiche e, dopo venti o trenta anni di servizio parlamentare sono ormai esausti, non hanno più una sola idea e si occupano soltanto di ciò che può garantire il loro status. Mentre questi signori si arroccavano in difesa dei loro interessi di partito o peggio dei propri privati interessi, il mondo è cambiato. Essi non se ne sono accorti o quantomeno non lo hanno capito. Le stanche liturgie parlamentari sono la dimostrazione della distanza ormai siderale tra questa classe politica e i bisogni dei cittadini italiani, che fanno i conti ogni giorno con il mondo nuovo della competizione globale e della crisi economica. Con la crisi che ha colpito il sistema produttivo, i partiti di sinistra e i sindacati di riferimento ripetono le solite giaculatorie come se le soluzioni di un tempo fossero ancora valide. Il mese scorso si è celebrato il rito dello sciopero generale indetto dalla Cgil. Non si può negare che abbia avuto un certo seguito se non altro perché ha danneggiato pesantemente coloro che usano i trasporti pubbli-


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ci, che sono poi quelli che lo sciopero non lo facevano o non lo potevano fare e che sono la stragrande maggioranza dei lavoratori. Quel che non è emerso con chiarezza è contro chi ce l’avesse la Cgil, se contro il governo di cui non condivide la politica economica o con la Confindustria dei padroni che affamano i lavoratori o con qualcun altro. Alla fine, è sembrato che ce l’avessero con il destino. Il loro atteggiamento faceva il paio con quello dei giovani precari che avevano manifestato due settimane prima con gli slogan “La vita non aspetta” e “Il nostro tempo è adesso”. E allora? È sempre stato così, per le giovani generazioni. Per tutti i viventi, la vita non aspetta e il loro tempo è adesso, cioè mentre sono vivi. Ma questa banale constatazione non cambia la realtà, non aggiunge un solo posto di lavoro e l’idea che i posti di lavoro debba trovarli o garantirli il governo o la politica è quanto di più stantio e passatista si possa immaginare. Gli slogan dei giovani precari italiani in bocca a un ragazzo brasiliano, russo, indiano, cinese o sudafricano hanno un significato molto diverso da quello che hanno assunto in Italia. Nei Brics nessuno si pone a capo di una manifestazione per chiedere che siano garantiti ai giovani status e diritti dei genitori di quei giovani. In quei paesi che emergono ora dalla indigenza e che hanno tassi di crescita dell’economia che noi abbiamo conosciuto solo per due o tre anni alla fine degli anni Cinquanta, i giovani lavoratori

sono molto meno garantiti di quanto non lo siano i precari italiani, lavorano di più, in condizioni più disagiate e per un salario molto più basso. La loro, però, è una condizione psicologica migliore perché hanno la speranza di migliorare la qualità della vita e si sentono parte di un grande fenomeno epocale. In Italia, paese stanco e annoiato, i giovani vogliono innanzitutto garanzie, la stabilità del posto di lavoro e la pensione, come quella di papà. Per fortuna quei giovani che marciavano per le strade di Roma sono una piccola minoranza rispetto alla massa dei giovani italiani che hanno capito da tempo che è il caso di darsi da fare, e non aspettano lo Stato. Come sempre, a finire nelle cronache sono le piccole minoranze rumorose e non le grandi maggioranze silenziose che tirano la carretta e che fanno, nonostante tutto, andare avanti l’Italia e il suo Pil. Ecco, la politica italiana deve decidere se dare retta ai pochi che vedono solo lo Stato o a quei molti che sanno di dovercela fare senza sussidi e provvidenze e che preferiscono uno stato leggero che si occupi delle sue funzioni essenziali. Per questo, ciò che serve è una rivoluzione, a patto che sia quella liberale.

L’Autore Santo verSace Imprenditore. Eletto alla Camera dei deputati nel 2008.

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Riformare i servizi pubblici, nonostante il referendum Per crescere, l’Italia ha bisogno di interventi strutturali “liberali”. Occorrono determinazione e rigore, ma soprattutto la consapevolezza che non sono più consentiti rinvii e deroghe.

DI FRANCO BASSANINI

Sulla regolamentazione del settore delle public utilities locali si contrappongono, da anni, due posizioni. Da una parte, un indirizzo politico-culturale (forte a sinistra, ma anche a destra, in ispecie nella Lega) contrario alla liberalizzazione dei servizi pubblici e favorevole alla loro gestione diretta da parte di aziende pubbliche in regime di monopolio locale (il cosiddetto “socialismo municipale”). Dall’altra, la convinzione che l’apertura alla competizione e al mercato, nel quadro di una regolamentazione ben temperata e sotto la vigilanza di autorità di regolazione e controllo realmente indipendenti e competenti, possa assicurare servizi di migliore qualità e a costi più sostenibili per la collettività e per gli utenti.

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In quest’ultima direzione, il primo organico tentativo di dare al settore delle utilities italiane una regolamentazione liberale e moderna è rappresentato dal disegno di legge Napolitano-Vigneri1. Fu approvato dal Senato con una larga maggioranza bipartisan nel 2000, ma non riuscì poi a ottenere l’approvazione della Camera prima della fine della XIII legislatura nel 2001. I tentativi di rilanciare la riforma, nella legislatura successiva2, non arrivarono in porto, complici anche le incertezze della regolamentazione europea, non più sollecitata dalla forte spinta di Mario Monti. La XV legislatura (2006-2008) e la XVI (2008- ?) hanno visto una ripresa del processo di riforma e di liberalizzazione, prima con il


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disegno di legge Lanzillotta3 poi zarsi per svolgere in modo efficacon l’approvazione del decreto- ce il compito essenziale che a lolegge R o n c h i - F i t t o - ro spetta: e cioè il ruolo di inter4 Prestigiacomo e del relativo re- preti, rappresentanti e garanti golamento di attuazione5. Nono- dell’interesse (rectius, del diritstante i suoi limiti6, l’impianto to) dei cittadini alla qualità dei definito dal nuovo quadro nor- servizi e alla universalità della lomativo e regolamentare del ro fruizione; ruolo più che mai 2009-2010 ha costituito un no- essenziale allorché i servizi siano tevole passo avanti in direzione affidati alla gestione privata, nel della liberalizzazione e di un as- quadro di una riforma liberale. setto più moderno del settore. Le Nel giugno 2011 la riforma delilinee ispiratrici erano in buona neata dal decreto-legge Ronchisostanza le stesse del disegno di Fitto è stata – come è noto – oglegge Napolitano-Vigneri, al getto di un referendum a seguito netto di differenze in buona par- del quale sono state abrogate gran parte delle te riconducibili sue disposizioni di alle conseguenze Il referendum liberalizzazione 8 . del decennio persull’acqua rappresenta duto tra l’uno e Un secondo quesil’altro tentativo di un pessimo esempio to referendario ha riforma. avuto poi oggetto, Due sono i punti di come usare nello specifico, la critici che la rifor- la democrazia diretta tariffa del servizio ma del 2009idrico integrato9. 2010 lasciava irrisolti, come fu Il referendum “sull’acqua” rapsubito notato7. Il primo (motiva- presenta – purtroppo – un pessito anche dalla opportunità di mo esempio di abuso di una imnon forzare i limiti propri della portante istituzione democratica decretazione d’urgenza) stava nel quale è il referendum. La strarinvio del completamento del si- grande maggioranza degli italiastema delle autorità indipenden- ni ha, infatti, votato per il “Si” ti di regolazione e di controllo, nella convinzione che il referenprevedendone l’istituzione anche dum riguardasse solo il servizio per i settori che ne sono carenti idrico e che si trattasse, in con(trasporti, risorse idriche, smalti- creto, di evitare una presunta mento dei rifiuti) o estendendo a “privatizzazione” dell’acqua. Ma tali settori le competenze di au- non è così: le norme del decreto torità esistenti (come l’autorità Ronchi-Fitto disciplinavano la per l’energia elettrica e il gas). Il liberalizzazione di un vasto nusecondo consisteva nella mancan- mero di servizi pubblici locali, za di misure e strumenti per ri- tra i quali quelli di trasporto lomediare alla persistente incapaci- cale, di captazione, depurazione e tà delle amministrazioni pubbli- distribuzione dell’acqua, di racche, soprattutto locali, di attrez- colta e smaltimento dei rifiuti, e


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stabilivano in modo esplicito che quesiti referendari non toccavano l’acqua è e restava un bene pub- una serie di principi e direttive blico, che pubbliche restavano le europee e di disposizioni di diritrelative infrastrutture e che alle to interno (come l’art. 30 del coistituzioni pubbliche spettava dice degli appalti pubblici) che fissare le tariffe del servizio idri- comunque tutelano la libera conco10. Una cosa è infatti la natura correnza e limitano fortemente il e il regime del bene (l’acqua, le ricorso alla gestione pubblica distrade, i rifiuti); un’altra le mo- retta di servizi di interesse ecodalità di gestione e di affidamen- nomico generale. to del servizio col quale il bene è D’altra parte, l’aggravarsi della distribuito o gestito (l’acqua è crisi finanziaria e la richiesta delerogata nelle case, il rifiuto è rac- le istituzioni europee e dei mercolto e smaltito, i mezzi pubblici cati internazionali a favore di ritrasportano i cittadini sulle stra- forme strutturali nel senso della liberalizzazione, hanno legittide). mato il legislatore L’approvazione (a italiano (governo larga maggioran- L’aggravarsi della crisi e Parlamento) a za) dei due quesiti dare degli effetti referendari ha rap- finanziaria ha portato del referendum presentato sicura- una interpretazione una interpretaziomente un passo inne molto restrittidietro, soprattutto restrittiva degli effetti va, in sostanza lisul terreno della del referendum mitandoli al setcultura politica italiana, che stenta ad adeguarsi tore dei servizi idrici, l’unico sul alle condizioni e alle regole della quale la campagna referendaria moderna economia globalizzata era stata focalizzata. L’articolo 4 (sia pure nella versione europea del decreto legge 138 del 2011 della così detto “economia socia- (così detto “manovra di ferragosto”), sia pure con l’esclusione le di mercato”). I concreti effetti del referendum del servizio idrico in omaggio al sul terreno normativo sono risul- risultato referendario, ha infatti tati tuttavia molto inferiori a ripristinato quasi integralmente quelli ipotizzati (o temuti). Da le disposizioni del decreto Ronuna parte, a causa di errori tecni- chi-Fitto, con alcuni ulteriori ci compiuti dai promotori del re- miglioramenti e una più netta ferendum, che non hanno consi- definizione dell’obbligo degli derato due fattori: che l’abroga- enti locali di valutare preventivazione referendaria di una legge mente la possibilità di gestione non fa rivivere – per costante di ogni servizio pubblico in regigiurisprudenza della Corte costi- me di piena concorrenza “nel tuzionale – le disposizioni a suo mercato” fra diversi operatori, litempo abrogate dalla legge can- mitando “l’attribuzione di diritti cellata dal referendum; e che i di esclusiva alle ipotesi in cui, in

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base a una analisi di mercato, la legate alla crisi economico-finanlibera iniziativa economica pri- ziaria, impongono a tutte le istivata non risulti idonea a garanti- tuzioni pubbliche una rigorosa re un servizio rispondente ai bi- azione di riduzione e razionalizsogni della comunità”11: in que- zazione delle spese pubbliche, st’ultima ipotesi, peraltro, la comprese quelle per servizi pubconcorrenza “per il mercato” e blici e quelle di investimento, dunque il ricorso a procedure necessarie per la crescita. Ma competitive a evidenza pubblica l’Italia ha bisogno di una ripresa per la scelta del titolare dei dirit- degli investimenti anche per riuti di esclusiva, diventa la rego- scire nella operazione di fiscal consolidation che, per le sue inla12. Restano le criticità sopra ricorda- genti dimensioni, non può essere te: ma, nel frattempo, è stata pre- realizzata solo incidendo sul nuvista l’istituzione di un’Agenzia meratore (mediante il conteninazionale per l’acqua, con poteri mento della spesa pubblica), ma richiede di incidee status simili a re anche sul denoquelli di un’auto- Riforme strutturali minatore, stimorità indipendenlando una accelerate13 e da varie par- di liberalizzazioni zione della cresciti si ipotizza ora e grandi programmi ta. Per accelerare la l’istituzione di crescita, due sono un’Autorità per i di sviluppo possono gli strumenti printrasporti nel con- stimolare la crescita cipali: da una partesto del così dette, le riforme strutturali di libeto “decreto sviluppo”14. Ancora una volta dunque il “vin- ralizzazione, per dare più spazio colo esterno” sembra aver pro- alle “libere forze del mercato”, dotto qualche risultato positivo dall’altra, il finanziamento di nel senso delle riforme struttura- grandi programmi di sviluppo e li “liberali” di cui l’Italia ha biso- ammodernamento dei servizi e gno per crescere. Come in passa- delle infrastrutture. to, il passaggio più difficile deve Sul primo versante è dunque evituttavia ancora essere affrontato, dente che occorre perseverare e ed è quello della concreta imple- accelerare i processi di liberalizmentazione della riforma. Occor- zazione e di apertura al mercato: reranno determinazione e rigore; non cedere pertanto alle idee pase la consapevolezza che questa satiste dei sostenitori del socialivolta ripensamenti, deroghe e smo municipale. Sul secondo, viceversa, si potrebbe a prima vista rinvii non sono consentiti. Rispetto al passato, la liberaliz- pensare che l’esigenza di finanzazione delle public utilities è oggi ziare grandi programmi di sviinfatti più che mai necessaria. Le luppo delle infrastrutture stratenuove condizioni di stress fiscale giche possa determinare un bruvissute dalla finanza pubblica, sco moto del pendolo verso il ri-


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torno alla gestione pubblica di- essere veicolata verso il finanziaretta delle reti infrastrutturali. È mento di investimenti a lungo possibile che questo avvenga in termine, capaci di garantire renalcuni dei paesi emergenti, meno dimenti di lungo termine, sicuri probabile che possa avvenire nei e stabili nel tempo, ancorché a Paesi europei. I primi sono, in- tassi di redditività non elevatissifatti, in condizione di finanziare i mi. loro programmi infrastrutturali In questo contesto non mancano con risorse di bilancio, i paesi eu- importanti “carte da giocare”: la nascita e lo sviluppo negli ultimi ropei no. L’Europa, handicappata sul ver- anni di un insieme di investitori sante dei conti pubblici, può far di lungo termine, in parte di orileva – a ben vedere – su alcuni gine pubblica come Bei, Kfw, suoi importanti punti di forza: Caisse des Depots, Cassa Deposil’elevata propensione al rispar- ti e Prestiti, in parte di origine mio delle famiglie; la reputazio- privata come i fondi pensione, aprono una prone di stabilità e afspettiva di finanfidabilità dell’eco- I paesi europei ziamento extra binomia europea, dovuta al Patto di non sono in condizione lancio pubblico e di volano per il stabilità e alla po- di finanziare coinvolgimento di litic a p ru d e n te altri intermediari della Bce; la cre- le infrastrutture finanziari di merscente esigenza dei con risorse di bilancio cato; i processi di paesi in surplus di diversificare riserve, finanzia- integrazione orizzontale tra menti e investimenti, oggi trop- aziende di servizio pubblico locapo concentrati nell’area del dol- le intervenuti negli ultimi anni, laro. L’Europa, sempre che riesca nonché l’ingresso di società a caa costruire una governance forte rattere multinazionale, configudelle istituzioni comunitarie, rano una struttura industriale sesembra insomma in condizione gnata da soggetti imprenditoriadi aumentare il suo grado di leva li di dimensioni più adeguate riper attirare capitali dai mercati spetto al passato. In direzione globali e per finanziare così, in analoga va l’istituzione dei primi particolare, gli investimenti di fondi europei equity per le infralungo termine in infrastrutture strutture (come Marguerite) e la “calde”, suscettibili di produrre proposta di project bond recenteritorni certi, ancorché differiti mente avanzata dalla Commisnel tempo. Con un sistema di re- sione europea15 e dalla Banca Eugole e incentivi adeguati, una ropea degli Investimenti (Bei): quota crescente dei risparmi del- un meccanismo di condivisione le famiglie europee, di altri capi- del rischio tra Commissione e tali privati europei e non, e di ca- Bei volto a migliorare il merito pitali pubblici extraeuropei, può di credito dei progetti infrastrut-

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turali e quindi dei bonds emessi dalla società di progetto, tramite una garanzia nella forma di una linea di credito condizionata. Sta in ciò ormai la ragione più forte che impone di proseguire sulla strada delle liberalizzazioni16. I capitali privati affluiscono là dove trovano condizioni di sicura e accettabile redditività. Le istituzioni pubbliche debbono peraltro concentrare le poche risorse disponibili sui servizi e le infrastrutture “fredde”, a fallimento di mercato (difesa, giustizia, sicurezza, istruzione, in parte il trasporto ferroviario). Chi opponendosi alla liberalizzazione, o promuovendo la gestione pubblica diretta di tutti i servizi pubblici locali, condanna le istituzioni pubbliche a “fare da sole”, si assume in realtà la responsabilità di rendere impossibile un adeguato investimento di risorse pubbliche nei settori e nei servizi nelle quali esse sono del tutto insostituibili. Diverso e del tutto legittimo è chiedere che l’intervento pubblico potenzi la sua azione di programmazione e indirizzo, che i processi di liberalizzazione siano ben costruiti e ben regolati, che gli interessi pubblici e i diritti universali alla fruizione dei servizi siano garantiti a tutti, che la qualità dei servizi sia attentamente monitorata, che l’interesse dei privati non prevalga sull’interesse pubblico. Ma per far ciò occorre proseguire sulla strada della riforma, con lo spirito di costruttivo dialogo e il metodo bipartisan che si registrarono nei

due più seri tentativi di riforma del passato, e occorre attuarla correttamente e correggerla dove risulti inadeguata. Non certamente ritornare a una gestione pubblica diretta che la crisi ha reso ancora più anacronistica di quanto non fosse in passato.

L’Autore franco bassanini Politico italiano, più volte ministro della Repubblica e sottosegretario di Stato. Deputato dal 1979 al 1996 e senatore dal 1996 al 2006, è presidente di Astrid. Già membro del consiglio d’amministrazione dell’Ena, nel 2007 è stato chiamato da Nicolas Sarkozy a far parte della Commission pour la libération de la croissance française, presieduta da Jacques Attali, con il compito di predisporre un progetto per l’ammodernamento dell’amministrazione francese. È presidente della Cassa depositi e prestiti dal 6 novembre 2008.


SHOCK ECONOMY Franco Bassanini

Note 1

A. S. XIII Legislatura, n. 1388-TER. V soprattutto il d.d.l.A.S. XIV Legislatura, n. 2456, Disposizioni statali in materia di tutela della concorrenza nei servizi pubblici locali, presentato dai senn. Bassanini, Amato, Treu, e altri. 3 A.S. 772 – Delega al governo per il riordino dei servizi pubblici locali – Disegno di legge d’iniziativa governativa – Comunicato alla Presidenza del Senato il 7 luglio 2006. 4 Decreto-legge 25 settembre 2009, n. 135, Disposizioni urgenti per l’attuazione di obblighi comunitari e per l’esecuzione di sentenze della Corte di giustizia delle Comunità europee, convertito, con modificazioni, dalla legge 20 novembre 2009, n. 166. In particolare, il comma 1 dell’articolo 15 del decreto modifica l’articolo 23-bis (Servizi pubblici locali di rilevanza economica) del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133. 5 D.P.R. 7 settembre 2010, n. 168, Regolamento in materia di servizi pubblici locali di rilevanza economica, a norma dell’articolo 23bis del decreto-legge n. 112 del 2008. 6 Equilibratamente analizzati da C. De Vincenti e A. Vigneri, in Astrid, I servizi pubblici locali tra riforma e referendum, Rimini, Maggioli, 2011. 7 V. la mia prefazione e gli scritti di C. De Vincenti e A. Vigneri, in Astrid, I servizi pubblici locali tra riforma e referendum, cit. 8 E cioè dell’intero articolo 23-bis del d.l. n. 112/2008, conv. in legge n. 133/2008, relativo ai servizi pubblici di rilevanza economica, successivamente modificato dalla l. n. 99/2009 e dall’art. 15 del d.l. n. 135/20009, conv. in l. n. 166/2009. Si v. la sentenza della Corte costituzionale n. 24/2011.del 12 gennaio 2011 sull’ammissibilità del quesito referendario. 9 Parziale abrogazione dell’articolo 154 del d.lgs. n. 152/2006 che collegava la tariffa del SII alla remunerazione del capitale investito. Si veda la sentenza della Corte costituzionale n. 26/2011 del 12 gennaio 2011. 10 V. il comma 1-ter, dell’art. 15 del decreto2

legge 25 settembre 2009, n. 135, aggiunto dalla legge di conversione 20 novembre 2009, n. 166 (“1-ter. Tutte le forme di affidamento della gestione del servizio idrico integrato di cui all’articolo 23-bis del citato decreto-legge n. 112 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 133 del 2008, devono avvenire nel rispetto dei principi di autonomia gestionale del soggetto gestore e di piena ed esclusiva proprietà pubblica delle risorse idriche, il cui governo spetta esclusivamente alle istituzioni pubbliche, in particolare in ordine alla qualità e prezzo del servizio, in conformità a quanto previsto dal decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, garantendo il diritto alla universalità ed accessibilità del servizio”). 11 Articolo 4, comma 1, del decreto legge n. 138/2011, convertito in legge n. 148/2011. La delibera è inviata all’Agcm, ma ai soli fini della sua relazione annuale al Parlamento (comma 3). Le bozze del così detto decreto sviluppo oggi in circolazione prevedono invece, opportunamente, che l’Agcm possa esercitare sulla stessa poteri di controllo. 12 Se il valore economico del servizio oggetto di affidamento è pari o inferiore alla somma complessiva di 900mila euro annui, l’ente locale può effettuare un affidamento diretto a favore di società a capitale interamente pubblico, che abbiano i requisiti richiesti dall’ordinamento europeo per la gestione in house. Tali società affidatarie dirette sono assoggettate al Patto di Stabilità interno. 13 Si v. art. 10, comma 11 e ss., del d.l. n. 70/2011, conv. in l. n. 106/2011 del 12 luglio 2011. 14 V. per esempio le proposte di Confindustria al governo sul decreto in questione.. 15 Si veda da ultimo la Comunicazione della Commissione europea COM(2011)660, A pilot for the Europe 2020 Project Bond Initiative. 16 Nel caso la garanzia venga escussa e quindi la linea di credito utilizzata dalla società di progetto, essa viene ripagata in via subordinata rispetto ai project bonds.

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La patrimoniale? Un sacrificio per la comunitĂ

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n un momento difficile come quello che stiamo vivendo, la tassazione dei patrimoni è uno sforzo che tutti possono permettersi. Una corretta pressione fiscale, poi, potrebbe far ripartire i consumi interni. INTERVISTA AD ANNA MARIA ARTONI DI ROSALINDA CAPPELLO


SHOCK ECONOMY intervista a Anna Maria Artoni

debito/Pil al 100% e per la crescita del paese?

Per reperire le ingenti risorse necessarie per ridurre il debito pubblico è necessario riprendere il cammino delle riforme strutturali interrotto ormai da decenni. Non è pensabile, infatti, che il costo dello Stato sia così alto in proporzione al Pil. Serve una seria revisione dei meccanismi che governano la spesa per il welfare (in particolar modo le pensioni), la sanità, i costi della politica e, in generale, i costi della macchina pubblica. Queste precondizioni sono basilari per chiedere, nel breve periodo, sacrifici agli italiani e per dare credibilità e consistenza al fatto che questo sia effettivamente uno sforzo una tantum per mettere sotto controllo, riducendo e poi stabilizzando, il debito e per stimolare la crescita attraverso investimenti e ricerca. Anna Maria Artoni le regole del libero mercato, dell’efficienza produttiva e dell’economia intesa come sviluppo e crescita, ha imparato a respirarle presto, quando già da bambina immaginava che da grande avrebbe lavorato nell’impresa di casa. È stata la prima presidente dei giovani di Confindustria e, fino ad alcuni mesi fa, presidente di Confindustria Emilia Romagna. Oggi è numero due dell’azienda di famiglia, la Artoni group spa, creata nel 1933 dal nonno. Come reperire i 500 miliardi di euro necessari per la riduzione del rapporto

Quali sono le priorità? Le liberalizzazioni, le privatizzazioni, la riforma della pensioni, una riforma fiscale?

Liberalizzazioni, privatizzazioni, riforma delle pensioni e riforma fiscale sono certamente le azioni più urgenti per rilanciare l’economia. Considero prioritario cominciare a intervenire sulla riforma fiscale, riforma che va collocata in una prospettiva di stabilizzazione del debito pubblico e di sviluppo economico e sociale. Prevedere uno spostamento progressivo del prelievo dal “reddito alla rendita” è probabilmente l’unico modo per rendere il nostro sistema socio-economico più

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equo. Questa è la strada per rendere il nostro sistema in grado di essere leva di sviluppo e non fardello insopportabile. Come mai nessun governo, di centrodestra e di centrosinistra, riesce a produrre una seria politica di liberalizzazioni?

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In Italia molto spesso si confondono le privatizzazioni con le liberalizzazioni e questo crea anche grande confusione (e spesso strumentalizzazione) nel dibattito pubblico. Le liberalizzazioni sono figlie di una cultura che ricerca un equilibrio nella protezione dalla concorrenza anziché nel mercato. Eppure con più mercato ci sarebbero maggiori vantaggi per la collettività perché più concorrenza significa più selezione, più qualità e prezzi più bassi. È evidente che – in alcuni settori – questo implica un cambiamento radicale, perciò ogni liberalizzazione andrebbe innanzitutto guidata e poi ampliata il più possibile in modo da non generare differenze fra i vari settori con l’obiettivo di garantire un sostanziale vantaggio collettivo. È chiaro che se si governa col consenso e non con la proattiva tensione alla costante ricerca dell’eccellenza tale politica è impraticabile. Solo importanti momenti di discontinuità economica e sociale – come la crisi economica che stiamo vivendo – oppure una decisa pressione dall’alto - penso all’Europa - potrebbero accelerare e rendere sensibile una platea più ampia di soggetti.

Condivide l’idea che le privatizzazioni finirebbero per diventare una svendita? Come evitare questo rischio?

Certo. Per questo va gestita con assoluta prudenza ma anche con grande trasparenza. Che cosa pensa della proposta di una tassazione sui grandi patrimoni? Può essere una delle azioni da valutare per raggiungere lo scopo?

Credo che nel complesso in Italia vi sia una pressione fiscale eccessiva. Ma in momenti gravi come quello che stiamo vivendo attualmente, sono convinta che sia un sacrificio accettabile per tutti. In che modo agevolare la crescita legata allo sviluppo dell’imprenditoria?

Innanzitutto, con una corretta riforma fiscale che potrebbe far ripartire i consumi interni. Il nostro paese deve indicare quale direzione di marcia vuole intraprendere. Le politiche industriali ormai messe in naftalina da troppi decenni, dovrebbero essere ripescate e ripensate non in funzione di un ritorno dello Stato nell’economia ma nella logica di riattivazione delle iniziative necessarie per lo sviluppo. Penso alla internazionalizzazione delle imprese, all’innovazione e ricerca, alla formazione e alla gestione delle politiche di attrazione dei giovani talenti, alle infrastrutture. Il nostro paese, che ha la grande fortuna di essere la porta d’accesso per l’Europa, a causa del ritardo accumulato nell’ammodernamento delle infrastrutture non riesce a far fruttare questo vantaggio “naturale”.


SHOCK ECONOMY intervista a Anna Maria Artoni

Come combattere in maniera efficace l’evasione fiscale?

Semplificando le regole, tracciando le transazioni finanziarie, rendendo più equo il nostro sistema fiscale abbassandolo nel medio termine. Più in generale, “fare cultura” per non dare l’impressione che l’Italia sia un paese dove “fare i furbi” sia premiante e nel quale chi si impegna nel fare quotidianamente il proprio dovere venga costantemente colpito dal sistema tributario. Qual è la strada da seguire per agevolare una reale concorrenza e combattere i corporativismi e la concentrazione di risorse e potere tra pochi grandi gruppi bancari, industriali ed editoriali?

Certezza delle regole, trasparenza e semplificazione.

L’Intervistato

AnnA mAriA Artoni è vicepresidente esecutivo di Artoni Group S.p.A., azienda di famiglia, leader nazionale nel settore dei trasporti e della logistica. Ha inoltre vari incarichi nelle aziende del gruppo: è vice-presidente di Artoni Trasporti S.p.A. e di Artoni Logistica srl, è Presidente di: Artleasing SpA, A.B. Logistica srl; Alemea Technology Srl e, Alemea Consulting srl. è membro indipendente nei consigli di amministrazione di alcune società: Saipem spa, Carraro spa, Cassa di Risparmio di Parma e Piacenza gruppo Credit Agricole. Fa parte del Comitato Investimenti di Credem Private Equity SGR e dello Strategic Committee di 21 Investimenti. è stata presidente di Confindustria Emilia-Romagna fino a giugno 2011 e fa parte della Giunta e del Consiglio Direttivo di Confindustria. è componente del Consiglio direttivo di Assonime. è Consigliere d’Amministrazione dell’Università Luiss Guido Carli e fa parte dell’Advisory Board di Alma Graduate School di Bologna. A partire dal 1986 ha ricoperto diversi incarichi nel movimento dei Giovani Imprenditori e nell’aprile del 2002 è stata eletta Presidente dei Giovani Imprenditori e vicepresidente di Confindustria. è stata membro del cda Rcs Quotidiani. Nel 2002 è stata designata dal governo italiano a far parte dell’Advisory Board sull’Innovazione Tecnologica.

L’Autore rosAlindA cAppello Giornalista, è redattrice di Fareitaliamag, il periodico online dell’associazione Fareitalia. Ha collaborato con il Secolo d’Italia.

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L’ex Ragioniere dello Stato

Le pensioni pesano troppo sul bilancio dello Stato Le difficoltà nel ridurre la spesa pubblica in maniera strutturale derivano dalla sua composizione. Più del 40%, infatti, è destinato alla previdenza sociale che è una delle più alte in Europa. La sostenibilità del sistema previdenziale potrebbe migliorare sensibilmente se si innalzasse l’età pensionabile.

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INTERVISTA AD ANDREA MONORCHIO DI MATTEO LARUFFA

Calabrese purosangue, classe 1939, Andrea Monorchio è stato per tredici anni (dal 1989 al 2002) è stato il rigorosissimo Ragionere generale dello Stato. Di conti, insomma, se ne intende. E mai come in questo momento difficile, la sua opinione sulla situazione economica italiana appare preziosa. Abbiamo voluto soffermarci particolarmente sul debito pubblico, visto che proprio questo sembra essere la zavorra che impedisce all’Italia di volare. Il suo incarico come Ragioniere generale dello Stato, dal 1989 al 2002, coincide con un periodo di grandi cambiamenti politici, sociali ed economici. Tra i

tantissimi fatti di quella stagione occorre ricordare le manovre dei governi Amato e Ciampi, perché sono quelle che hanno costretto gli italiani a fare i conti con gli errori del passato. Secondo lei, reso possibile l'aumento del debito pubblico?

Diversi sono i fattori che nel corso degli anni hanno contribuito alla formazione del nostro debito pubblico. Tra di essi il più importante deve essere tuttavia rintracciato nella sistematica espansione della spesa corrente delle amministrazioni e nel contestuale rallentamento del tasso di sviluppo della nostra economia. La spesa corrente ha cominciato a correre a ritmo particolarmente sostenuto a partire dalla metà de-


SHOCK ECONOMY intervista a Andrea Monorchio


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gli anni Settanta, quando furono varate una serie di misure tese, da un lato, a consolidare il nostro sistema di protezione sociale (istituzione del Ssn, estensione della copertura previdenziale, etc.); e, dall’altro, a modificare l’assetto istituzionale dello Stato (creazione delle Regioni e di nuovi enti, etc.). Mentre venivano prese queste misure, la nostra economia cominciava a rallentare vistosamente: il tasso di crescita del Pil reale, superiore al 5-6% negli anni Sessanta, scendeva infatti al 3% negli anni Settanta, al 2% negli anni Ottanta, e risultava sostanzialmente stazionario nel periodo successivo. In estrema sintesi, possiamo quindi affermare che, a partire dalla metà degli anni Settanta, la politica di equilibrio di bilancio che aveva accompagnato il “miracolo economico” del nostro paese è stata rimpiazzata da una politica di deficit spending, che ha posto le basi per la formazione di disavanzi strutturali e per un’espansione incontrollata del debito pubblico. Si aggiunga inoltre che la brevissima durata delle singole compagini di governo, di cui la massima espressione furono i cosiddetti “governi balneari”, hanno rappresentato un terreno molto fertile per lo sviluppo del ciclo elettorale di spesa, ossia di quelle politiche che comportano un repentino aumento delle spese a ridosso delle elezioni, con l’intento di espandere il consenso. Per comprendere i problemi con cui oggi si deve misurare la fi-

nanza pubblica nel nostro paese ed individuare i fattori che stanno alla base del ragguardevole stock di debito accumulato dal settore pubblico, è necessario quindi ripercorrere le tappe fondamentali dell’evoluzione della politica di bilancio nell’ultimo trentennio. L’attuale situazione della finanza pubblica italiana è infatti il risultato del sovrapporsi di una serie di decisioni fiscali non sempre ben coordinate fra loro, alcune delle quali deliberate parecchi anni fa, in un ambiente politico, economico e sociale profondamente diverso da quello odierno. Per concludere, si possono quindi sintetizzare fattori che stanno alla base della crescita esponenziale del debito pubblico nel nostro paese, e cioè: la frammentazione del quadro politico e la permanente debolezza degli esecutivi. La mancanza di governi stabili, di legislatura e il continuo avvicendamento dei ministri hanno rappresentato un serio ostacolo per la gestione equilibrata della finanza pubblica e per l’adozione di politiche di bilancio di ampio respiro; il tendenziale rallentamento del tasso di sviluppo e un’inflazione sistematicamente superiore alla media europea, accompagnati da un ampliamento del raggio di azione dello Stato in campo economico e sociale; l’inadeguatezza degli strumenti di governo della finanza pubblica e la non completa osservanza dell’obbligo costituzionale della copertura della legislazione di spesa; la diffusio-


SHOCK ECONOMY intervista a Andrea Monorchio

ne di fenomeni di irresponsabilità finanziaria, in assenza di adeguati meccanismi di monitoraggio delle attività di spesa dei livelli di governo decentrati; A suo parere, la responsabilità storica del debito deve essere attribuita al Parlamento o al governo?

Per lungo tempo, al nostro Parlamento è stata conferita un’ampia facoltà di emendare i documenti di bilancio presentati dal governo. Un esempio eclatante di tale potere di emendazione è rappresentato in ciò “finanziarie omnibus” degli anni Settanta e Ottanta, con le quali il Parlamento è intervenuto di fatto sulle materie più svariate, rendendo particolarmente difficile il controllo degli equilibri di finanza pubblica. Anche perché non di rado le decisioni di maggiori spese non contemplavano una rigorosa copertura degli oneri ricadenti negli esercizi futuri. È solo a partire dalla fine degli anni ’80 (con la L.362/88) che tale potere è stato pian piano ridimensionato, pervenendo a una migliore ripartizione delle responsabilità che competono ai diversi organi costituzionali. A tale proposito vale la pena rilevare che nel Regno Unito il Parlamento può solo approvare o respingere in blocco i documenti di bilancio presentati dal governo, senza alcuna possibilità di modifica delle previsioni in essi contenute; in Francia, i parlamentari possono proporre un aumento degli stanziamenti per una data finalità solo se provvedono a tagliare precedenti au-

torizzazioni di spesa; in Germania il ministro delle Finanze ha un potere di veto che gli consente di rigettare singole proposte di spesa, qualora ne ravvisi l’assenza dei requisiti di necessità ed economicità. Per quanto concerne più direttamente l’obbligo di copertura finanziaria, si tenga presente che la sua concreta applicazione è stata influenzata dalle diverse concezioni di politica economica che si sono succedute a partire dall’entrata in vigore della Costituzione repubblicana. Per semplicità, possiamo individuare in tale ambito quattro periodi: negli anni Cinquanta e Sessanta prevale la concezione di finanza pubblica neutrale, per cui l’obbligo di copertura viene a essere inteso come vincolo al pareggio di bilancio. Tuttavia, una tale interpretazione è apparsa subito di difficile attuazione sia per le esigenze di ricostruzione del paese sia per i crescenti disavanzi che il bilancio statale cominciava a registrare già in quel periodo; nei primi anni Settanta si pongono le basi del sistema di sicurezza sociale e si va affermando la teoria di finanza pubblica funzionale, che comporta una manovra di bilancio per fini di stabilizzazione del ciclo economico. Si moltiplicano quindi gli interventi in campo economico e sociale e alla loro copertura si provvede facendo un massiccio ricorso all’accensione di prestiti; a partire dal 1978, con la legge n. 468, per rendere più efficace il controllo dell’evoluzione delle grandezze

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SHOCK ECONOMY intervista a Andrea Monorchio

di bilancio viene introdotta nel nostro ordinamento la legge finanziaria e vengono fissati stringenti vincoli espressi in termini di saldi obiettivo. Tuttavia, il primo decennio di applicazione della legge finanziaria è stato segnato, anziché da un’attenuazione, da un ampliamento degli squilibri di finanza pubblica e dalla deliberazione di interventi totalmente o parzialmente privi di copertura, data la quasi sistematica sottovalutazione degli oneri di spesa e la contestuale sopravvalutazione dei mezzi destinati a farvi fronte. Solo a partire dal 1988, con la legge n. 362, vengono introdotte una serie di misure finalizzate ad assicurare un maggior rispetto dell’obbligo di copertura; nel 1993 ha inizio il processo di risanamento della finanza pubblica, necessario per assicurare la partecipazione dell’Italia alla moneta unica europea Il federalismo e il decentramento di importanti funzioni, quali l’assistenza sanitaria, alle Regioni possono aver contribuito ad accentuare gli squilibri di finanza pubblica?

Dall’anno in cui è stata realizzata la riforma in senso federalista della sanità (2001) a oggi, la spesa pubblica per la tutela della salute si è complessivamente accresciuta di oltre il 52% in termini monetari. Tale aumento è in parte da attribuire alla maggiore domanda di assistenza prodotta dall’invecchiamento della popolazione e in parte alle difficoltà incontrate dagli enti sanitari locali nel controllare la dinamica

di alcune voci di spesa del Ssn, specie quelle connesse ai consumi intermedi (cioè agli acquisti di beni e servizi da parte delle Asl e delle aziende ospedaliere) i quali sono più che raddoppiati nel periodo in esame. Si noti, peraltro, che negli ultimi anni i divari territoriali nella qualità dell’assistenza e nell’accesso alle prestazioni, anziché attenuarsi, sembrerebbero essersi accentuati. Se è vero infatti che le aree con un più solido sistema di governance hanno avviato da tempo processi di riorganizzazione delle attività assistenziali, riuscendo a coniugare meglio l’efficienza gestionale con l’efficacia terapeutica, è anche vero che le aree con un più debole sistema di governance mostrano ancora ampi ritardi, che continuano a produrre diseconomie ed elevati tassi di inappropriatezza clinica. Altri paesi hanno dimostrato che ridurre le dimensioni del debito è possibile. Ma perché l'Italia non è riuscita a conseguire questo risultato, nonostante le continue manovre di finanza pubblica?

Per ridurre le dimensioni del debito pubblico occorre agire su due versanti: da un lato, bisogna razionalizzare la spesa pubblica, la cui incidenza sul prodotto lordo ha ormai superato la soglia del 50%; dall’altro, bisogna favorire la crescita della nostra economia, che intralciata da “lacci e lacciuoli” che frenano la competitività delle imprese. Le difficoltà che si incontrano nel ridurre la spesa pubblica in maniera strutturale discendono direttamente

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dalla sua composizione: più del 40% della spesa corrente è infatti destinata alla previdenza sociale, cioè al pagamento delle pensioni di Ivs. Si badi che il nostro paese è fra quelli europei quello che spende di più per la previdenza, essendo il numero dei pensionati talmente elevato da controbilanciare, abbondantemente, il ridotto importo medio dei trattamenti. A conferma di ciò, basti rilevare, da un lato, che i pensionati ammontano complessivamente a 17 milioni, corrispondenti a quasi il 30% della popolazione residente (compresi i bambini); dall’altro, che più della metà di essi percepisce un reddito pensionistico inferiore ai mille euro al mese. Le simulazioni indicano che la sostenibilità del nostro sistema previdenziale potrebbe migliorare sensibilmente se s’innalzasse l’età di pensionamento, la quale, nonostante il continuo aumento della speranza di vita, negli ultimi decenni si è di fatto ridotta. Attualmente, in Italia l’età media effettiva di cessazione dell’attività lavorativa è di 59 anni per entrambi i sessi; di conseguenza, il tempo medio che le persone trascorrono in pensione è salito a più di 20 anni, contro i circa 13 degli anni Sessanta. Nato sotto la spinta della rivoluzione industriale, il nostro sistema di welfare ha dato un contributo notevole allo sviluppo del paese, garantendo maggiori livelli di benessere e una più equa ripartizione del reddito e della ricchezza. Esso inoltre, attraverso

l’azione di contrasto dei fenomeni di esclusione e di emarginazione, ha favorito una maggiore partecipazione dei cittadini alla vita collettiva, che si è rivelata importante ai fini del consolidamento delle nostre istituzioni democratiche. Tuttavia, il nostro sistema – proprio perché concepito in un contesto caratterizzato da una scarsa incidenza degli anziani, da una sostenuta espansione del reddito, da una ridotta partecipazione delle donne alle forze di lavoro, da lunghe carriere contributive, etc. – non sembra essere in grado di rispondere alle nuove esigenze dell’economia e della società. Così come è oggi strutturato, il sistema di welfare non appare infatti adeguato né a sostenere l’impatto delle trasformazioni economiche e demografiche – trasformazioni che impongono una ridefinizione del ruolo dello Stato, del mercato e della famiglia nell’ambito della sicurezza sociale –, né a soddisfare i bisogni di larghe fasce della popolazione. Si pensi agli occupati irregolari o con contratto di lavoro atipico, ai disoccupati di lungo periodo, alle donne sole con figli a carico o alle persone anziane non autosufficienti, cioè a tutti quei soggetti, sempre più numerosi, che risultano per lo più privi di valide forme di protezione, anche per il venir meno del sostegno offerto dalle famiglie. All’interno della nostra società, si è così scavato un profondo fossato tra i cittadini che beneficiano di ampie garanzie (insider) e i cittadini che dispongono


SHOCK ECONOMY intervista a Andrea Monorchio

solo di tenui sostegni (outsider). In assenza di incisive riforme del quadro legislativo che regola l’accesso alle prestazioni del welfare, l’impatto sul bilancio pubblico delle trasformazioni demografiche sarà decisamente consistente, e tale da pregiudicare il mantenimento di politiche fiscali rigorose e orientate allo sviluppo.

L’Intervistato

andrea monorchio Importante economista italiano, è stato il diciassettesimo Ragioniere generale dello Stato dal 1 settembre 1989 al 30 giugno 2002. Cavaliere della Repubblica e Medaglia d'Oro alla Sanità Pubblica, è professore ordinario di Contabilità di Stato presso l'Università di Siena.

L’Autore matteo laruffa Fondatore del movimento Giovani per il futuro e già membro del Consiglio direttivo di Generazione futuro, movimento giovanile di Fli. è conponente del Consiglio direttivo di Fareitalia.

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SHOCK ECONOMY Umberto Guidoni ed Eleonora Scarsella

ECCO PERCHÉ LA GERMANIA CORRE (E NOI NO)

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o Stato tedesco dopo l’anno della crisi, il 2009, è tornato ad essere la locomotiva d’Europa, mentre l’Italia è rimasta maglia nera. I tassi di crescita sono troppo bassi e serve una svolta, immediatamente. DI UMBERTO GUIDONI ED ELEONORA SCARSELLA

Dopo il 2009, l’anno più nero della crisi economica internazionale, la Germania si conferma la locomotiva d’Europa in termini di sviluppo. Infatti, il mercato tedesco traina la crescita economica dell’Ue con un tasso di sviluppo nel 2010 pari al 3,6%, mentre all’Italia spetta la maglia nera con un Pil fermo all’1,3%. Nel 2011, il mercato tedesco continua a fare meglio della media europea con un tasso di crescita stimato al 2,2% a fronte dell’1,7% dell’Ue e dell’1,1% dell’Italia (Tabella 1). Anche dal punto di vista del tasso di disoccupazione, i due paesi fanno registrare un andamento tendenziale opposto, che mette in evidenza un maggior dinamismo del sistema economico tede-

sco. In Italia, il 2010 ha fatto segnare il tasso di disoccupazione più alto dal 2004, con una percentuale pari all’8,4%. Il tutto mentre in Germania la situazione è all’estremo opposto, con una costante diminuzione dei senza lavoro che inizia dal 2005 fino ad attestarsi al 6,8% del 2010, il livello più basso dal 1992 (Tabella 2). Ancora più evidente appare la differenza tra i tassi di occupazione dei due paesi. Infatti, dalla Tabella 3 possiamo vedere come, nel 2009, gli occupati in Germania rappresentino il 71% circa della forza lavoro, mentre in Italia il 57,5%. La situazione appare ancora più critica se si paragona il tasso di occupazione italiano con quello medio EU27 che per il 2009 si atte-

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Tabella 1 - Tasso di crescita del Pil reale

Fonte Eurostat

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Tabella 2 - Tasso Tasso di disoccupazione

Fonte Eurostat

sta al 64,6%. Su questa variabile incide in modo forte il basso tasso di occupazione femminile e giovanile che caratterizza l’Italia in termini strutturali. Pertanto, quello tedesco appare come un mercato in salute e con un forte dinamismo occupazio-

nale e quello italiano un sistema che sconta ritardi, un divario territoriale mai risolto tra nord e sud, un’instabilità atavica dei conti pubblici una frenata in termini occupazionali e dunque un Pil asfittico. Non sembra essere una spiega-


SHOCK ECONOMY Umberto Guidoni ed Eleonora Scarsella

Tabella 3 - Tasso Tasso di occupazione

Fonte Eurostat

zione la crescita del debito pubblico tedesco. Infatti, per effetto delle revisioni contabili adottate da Eurostat è aumentato di colpo nel 2010 di ben 319 miliardi di euro. Si è innalzato così a 2.080 miliardi, primo debito europeo ad andare oltre la soglia dei 2mila miliardi, sorpassando quello italiano. Per la Germania così il debito pubblico in rapporto al Pil è cresciuto dal 73,5% del 2009 e dal 75,7% inizialmente previsto fino allo scorso ottobre per il 2010, al ben più corposo 83,2% definitivo. Quello tedesco è dunque diventato il terzo debito pubblico lordo più alto del mondo in valore assoluto, scavalcando di 236 miliardi quello dell'Italia, sceso al quarto posto. Nel 2010 il rapporto deficit-Pil italiano è stato pari al 4,9%, quello tedesco al 3,3%. Ma quasi tutto il deficit dell'Italia con-

siste nel pagamento degli interessi sul debito pregresso. L'Italia sarà l’unico paese del G-7 a presentare un avanzo primario (0,2% del Pil). Tutti gli altri Stati, dopo i già disastrosi anni 2009-2010, avranno ancora dei deficit primari, nella maggior parte dei casi assai consistenti: Stati Uniti (9%), Gran Bretagna (5,5%), Francia (3,3%), Giappone (8,6%), Canada (4,1%), Germania (0,3%). Alcuni osservatori ritengono che l’indebitamento tedesco ha sostenuto la crescita drogando l’economia e determinando nell’immediato andamenti positivi del Pil che verranno scontati dalle generazioni future. Questa lettura non sembra convincente visto che il livello degli investimenti in Germania si attesta su valori molto più elevati rispetto a quelli italiani (Tabella 4).

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Tabella 4 - Investimenti

Fonte Eurostat

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Dunque, si potrebbe dire che il debito pubblico italiano aumenta meno di quello tedesco ma va a finanziare il servizio degli interessi sul debito contratto nella Prima Repubblica. In Germania, se in parte l’aumento del debito serve a risanare i dissesti bancari della crisi economica, dall’altra va nella direzione di investimenti che sosterranno la crescita attuale e quella futura senza particolari conseguenze per le prossime generazioni. Pertanto, una così marcata differenza nell’andamento del Pil, tra due mercati che hanno subito nella stessa misura l’impatto negativo della crisi planetaria, va spiegata con altre motivazioni. Analizzando, più nel dettaglio, le variabili economiche più significative, due sembrano i fattori a cui ricondurre il forte rilancio dell’economia tedesca: la flessibilità del mercato del lavoro e il contributo delle grandi imprese al valore aggiunto.

Mercato del lavoro

Per quanto riguarda il mondo del lavoro, i due Paesi hanno fatto ampio ricorso al lavoro flessibile, adottando, però, due modelli differenti. Da un lato, l’Italia ha sviluppato una flessibilità “esterna”, puntando a sostenere l’occupazione con contratti “atipici” sottoscritti da lavoratori provenienti dall’esterno delle imprese. In questi casi, flessibilità e temporaneità del lavoro sono due facce della stessa medaglia. Questo modello presenta un punto debole, la precarietà. Le conseguenze sono che il lavoratore non ha la sensazione di essere parte integrante del progetto dell’impresa e che l’azienda ha una maggiore facilità a non rinnovare il contratto in caso di calo del fatturato. Inoltre, la precarietà dei lavoratori non solo inficia la stabilità del mercato del lavoro, ma può avere effetti depressivi sui consumi indotti dalla condizione psicologica del lavoratore che sente di non di-


SHOCK ECONOMY Umberto Guidoni ed Eleonora Scarsella

Tabella 5 - Produttività del lavoro per ogni ora lavorata sul Pil in Pps

Fonte Eurostat

sporre di un reddito stabile e duraturo. In Germania, attraverso una serie di provvedimenti noti come riforme Hartz, la scelta verso la flessibilità ha privilegiato uno schema interno alle imprese. Questo modello di flessibilità “interno” si identifica in un’organizzazione orizzontale e verticale della forza lavoro di cui l’azienda già dispone. L’industria tedesca ha definito accordi integrativi che hanno consentito di adeguare l’orario di lavoro, in aumento o in diminuzione, secondo le esigenze della produzione, fino ad arrivare a cicli produttivi di 24 ore per sette giorni su sette. D’altra parte, la flessibilità interna consente anche una rotazione dei lavoratori laddove necessario, rafforzando i settori maggiormente compressi da attività. In questi casi, non solo il lavoratore si sente parte integrante nel progetto dell’impresa, ma anche l’impresa, in caso di crisi economica, anziché optare per un taglio del costo

del lavoro, riduce l’orario e mantiene inalterata, se non addirittura aumenta, la forza lavoro stessa. Con ciò si spiega, in parte, la sensibile diminuzione del tasso di disoccupazione e la tenuta dei consumi e degli investimenti. La scelta tedesca di puntare sulla flessibilità interna ha, inoltre, favorito l’accumulazione di capitale e l’innovazione. La chiave del successo per un paese che opera in settori economici ad alto valore aggiunto e ha già acquisito la capacità di innovare, non è da trovare nel capitale innovativo in sé, ma nel modo in cui esso si integra con la struttura del tessuto imprenditoriale e con quello dei lavoratori. Tutt’altra questione è quella italiana, che ancora oggi opera in settori tradizionali e non ha accesso al capitale innovativo necessario per essere competitiva sul mercato europeo e su quello mondiale. Ciò spiega anche il diverso peso che i due paesi hanno dato alla formazione, al co-

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siddetto training on the job: nel mensione delle imprese, alla 2010 la quota di lavoratori che diversa propensione all’innoha avuto accesso a programmi di vazione che non consentono formazione per la Germania è alla produttività in Italia di stata pari al 40%, per l’Italia so- fornire il contributo necessario ad una crescita sostenuta. lo al 17%. Peraltro, è plausibile considera- I dati sulla crescita della produtre che i due modelli di organiz- tività delle imprese italiane, olzazione del lavoro hanno un im- tre che la dinamica del costo del patto diverso anche sulla pro- lavoro per unità di prodotto duttività, che risente dell’inno- (Clup), forniscono un’immagine vazione di prodotto e di proces- impietosa della competitività so, del diverso livello di accu- del nostro paese. mulazione di capitale, nonché Secondo questi dati, nel decendell’acquisizione di expertise da nio 1997-2007 la produttività parte dei lavoratori, che solo italiana è cresciuta solo dell’1%, in Germania del una collaborazio10,7%. Sempre ne prolungata nel L’Italia non può più stesso decentempo può garansostenere una crescita nello nio, in Italia il tire. Clup è salito del Ciò è dimostrato così bassa, altrimenti 21,2%, in dalle profonde Germania dello differenze che Ita- il divario con gli altri lia e Germania re- diventerà insostenibile 0,4%. Ora, il Clup è un indice estregistrano nell’andamento della produttività del mamente importante in econolavoro. Dalla Tabella 5 risulta mia, perché dà l’idea del costo evidente che nel 2009, sebbene i del lavoro e della sua produttivivalori della produzione realizzata tà. Quindi, secondo questi indiper ora lavorata fatti registrare ci, l’Italia, rispetto alla sola Gerdall’Italia (91,7) e dalla Germa- mania, ha perso oltre 20 punti di nia (110) si attestino al di sopra competitività. Non solo: l’andadella media europea (87,8), la mento delle variabili in un’analidifferenza tra i due paesi è a net- si di tendenza indica che, mentre in Germania nell’ultimo decento vantaggio della Germania. Questa disparità non è total- nio il Clup diminuisce, in Italia mente attribuibile alle recen- avviene il contrario. Persino nel ti diverse scelte di flessibilità biennio 2008-2009, cioè in piedel lavoro. Il divario c’è sem- na crisi globale, il Clup italiano pre stato, sin dal 2001, con cresce mediamente più di quello dimensioni più o meno simili tedesco (9% contro 7,7%), moa quelle del 2009. Dunque, è strando un livello di rigidità del chiaro che la spiegazione ri- lavoro che impedisce di rispons i e d e a n c h e i n d i f f e r e n z e dere al calo della produzione. strutturali collegate alla di- La produttività delle imprese è


SHOCK ECONOMY Umberto Guidoni ed Eleonora Scarsella

Tabella 6 - Costo del lavoro per unità di lavoro prodotta

Tabella 7 - Produttività per unità di lavoro prodotta

Fonte Oecd

Tabella 8 - Struttura industriale della Germania

Fonte Eurostat SBS database

Tabella 9 - Struttura industriale della Italia

Fonte Eurostat SBS database


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un fattore determinante della crescita. Se l’Italia manterrà questo andamento, il divario con gli altri paesi dell’area euro è destinato a crescere. Il nodo competitivo per tutti i paesi dell’euro è come combinare l’insieme dei fattori produttivi con il lavoro. L’esperienza tedesca insegna anche che la competitività è soprattutto fatta di elementi diversi dal prezzo: innovazione, qualità, branding. In questo senso, lo spazio di mercato che si ottiene contenendo i salari, in senso generale, è scarso e in molti contesti, vedi Italia, socialmente assai difficile da realizzare. Al contrario, un modello competitivo fondato sulla qualità e l'innovazione deve poter remunerare in modo crescente il lavoro, ma solo dove e quando ci siano guadagni d’efficienza. In Italia, i salari nominali negli ultimi anni sono cresciuti relativamente di più nel settore pubblico, spesso in modo indiscriminato e certamente non in relazione alla crescita della produttività. Non dimentichiamo che i livelli

dei salari tedeschi sono ben più alti di quelli italiani. Dunque, fondare il patto di competitività europeo sul contenimento dei salari è una traduzione riduttiva e sbagliata del successo industriale tedesco. Rischia, inoltre, di non essere realizzabile in Italia, di creare inutili tensioni sociali e neppure risolvere gli squilibri dei conti con l’estero. Tecnologia, qualità e formazione sono le vere parole d’ordine della futura crescita europea. La struttura imprenditoriale

Il secondo fattore che incide sulla ricchezza dei due paesi, abbiamo detto essere la struttura imprenditoriale. Da una prima analisi si potrebbe affermare che Italia e Germania hanno un profilo industriale molto simile. Infatti, mentre in Germania le piccole e medie imprese (Pmi) rappresentano il 99,5% del totale delle imprese, in Italia le Pmi sono il 99,9%. Valori percentuali, dunque, tra loro molto vicini. Da un’analisi più approfondita, una prima differenza significati-

Tabella 10 - Bilancia commerciale

Fonte Eurostat


SHOCK ECONOMY Umberto Guidoni ed Eleonora Scarsella

va la si riscontra però nei valori tante messaggio: le grandi azienassoluti: a fronte di 3.615.729 de hanno un ruolo fondamentale piccole e medie imprese italiane, nel trainare l’intera economia i n G e r m a n i a t r o v i a m o della Germania, mentre in Italia 1.373.537 aziende; mentre per lo fanno in misura molto ridotta. le grandi abbiamo 8.135 impre- Considerando che entrambi i paese per la Germania e 2.943 per si fondano gran parte delle propria crescita sulle esportazioni la l’Italia (Tabelle 6 e 7). Sembrerebbe, dunque, che in presenza di grandi imprese forti Italia lo spirito imprenditoriale favorisce l’andamento positivo sia molto diffuso e che con il ta- della bilancia commerciale. Infatlento e la creatività si sopperisca ti, in paesi export-led la presenza di grandi imprese favorisce l’inalla difficoltà di trovare lavoro. Anche questa però, è una spiega- novazione, l’accumulazione di cazione che solo superficialmente pitale, l’internazionalizzazione, ci consente di capire la diversità sviluppando fattori di competitività in grado di dei due sistemi. Il soddisfare al mevero divario lo si Le grandi aziende glio la domanda riscontra nel diverso contributo al tedesche hanno un ruolo estera. valore aggiunto trainante nell’economia L’ipotesi è confermata dal diverso che le differenti tiandamento, nei pologie di impresa mentre in Italia due paesi, della offrono nei due questo non avviene bilancia commerpaesi. Le piccole e medie imprese ita- ciale, che mostra come la Germaliane costituiscono il 70,9% del nia grazie alla soddisfazione della valore aggiunto; mentre quelle domanda estera riesca non solo a tedesche il 53,2%; le grandi sostenere le importazioni, ma animprese invece, per l’Italia con- che l’intera economia nazionale tribuiscono al valore aggiunto (Tabella 8). per il 29,1%, mentre per la Lo studio dell’economia tedesca e Germania per il 46,8%. In so- italiana ci fornisce un campo di stanza, quindi, in Germania le analisi vasto e un’evidenza incongrandi imprese contribuiscono trovertibile: nonostante l’unificaper circa il 50% alla crescita zione monetaria, le crisi econodella ricchezza nazionale, men- miche, l’unificazione politica, la tre in Italia solo per il 29%. Germania continua ad essere la Anche a livello occupazionale le locomotiva d’Europa. grandi imprese tedesche garan- La nostra analisi ha preso in esatiscono il 40% dell’occupazione me l’andamento delle principali complessiva, mentre quelle ita- variabili economiche e ha portato ad una valutazione delle risposte liane quasi il 19%. Le statistiche appena analizzate che l’economia dà alla crisi seci forniscono un primo impor- condo due orientamenti: il mer-

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cato del lavoro e la struttura del sistema imprenditoriale. In Italia la carenza di grandi imprese a fronte di una diffusa frammentazione di piccole e medie aziende che, sebbene diano vivacità all’economia, non sono in grado di favorire la produttività totale dei fattori (Ptf), che approssima il tasso di progresso tecnologico e organizzativo di un’economia, rallenta la crescita del tasso di sviluppo. Inoltre, la presenza di sindacati forti in Italia ostacola processi di modernizzazione del mercato del lavoro e processi di crescita dimensionale dell’impresa. In questo senso l’unica riforma possibile e necessaria dovrebbe essere l’abolizione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori. Possiamo affermare che i due fattori presi in esame hanno consentito alla Germania di rafforzare la propria quota di mercato all’estero e contemporaneamente di sostenere il reddito nazionale in una misura più che sufficiente alla crescita della domanda interna. Solo se l’Italia avrà il coraggio di affrontare i nodi strutturali che ne frenano lo sviluppo potrà riproporsi a livello internazionale come un’economia dinamica. Non è infatti, sufficiente aver risposto alla crisi in modo passivo, contenendo, peraltro, la già precaria condizione dei conti. È necessario agire, e non più reagire producendo un piano di investimenti in grado di sostenere lo sviluppo e con esso di restituire stabilità ai conti pubblici.

Se così non sarà, l’Italia continuerà a far registrare tassi di crescita insufficienti a sostenere l’occupazione, la crescita dimensionale delle imprese, l’innovazione, il progresso tecnologico, in una parola non riuscirà a presentarsi sul palcoscenico internazionale come un’economia moderna.

L’Autore umberto guidoni Segretario Generale della Fondazione Ania per la Sicurezza Stradale. è stato dirigente del Dipartimento Settori innovativi presso l’Istituto per la promozione industriale e consigliere del Ministro Marzano. Membro del Consiglio di Amministrazione della Dintec. Membro del Consiglio Direttivo della Società Certicommerce. Dirigente del Dipartimento Net – Economy nell’ambito dell’Area Politiche e Studi presso l’Ipi. Da gennaio 2007, membro per l’Italia presso il Cea di Bruxelles nell’ambito del Road Safety Group . eleonora scarsella Socia della Società di Economia Demografia Statistica e della Società Italiana di Statistica. Membro tecnico del comitato scientifico dell'Osservatorio del Turismo in Abruzzo.



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SHOCK ECONOMY Matteo Laruffa

La storia dell’economia italiana

Centocinquant’anni di debito pubblico Dall’Unità d’Italia ad oggi la politica dell’indebitamento è stato un vizio congenito della nostra economia che nessun governo è mai riuscito a debellare. Solo dal 1992, con il Trattato di Maastricht, ci si è resi conto che serviva seriamente cambiare passo. Ma ancora nulla è stato fatto. DI MATTEO LARUFFA 137

«Un debito pubblico molto superiore alla media, come è il caso dell’Italia, crea una forma di servitù nei confronti degli altri paesi europei e in particolare della Germania, in quanto membro determinante delle condizioni monetarie dell’Europa. Al maggiore onere di bilancio occorre far fronte con maggiori imposte o con minori spese. Non è soltanto un problema di orgoglio nazionale; è anche un problema di orgoglio nazionale, sentimento che auspico ritrovi spazio nei nostri comportamenti…» Guido Carli si esprimeva con queste parole, il 24 giugno del 1992, in un momento difficile per l’Italia e molto simile a quello che viviamo oggi. Astrarre la storia dal presente è impossibile. “Fare debito” o adottare delle manovre in disavanzo non è sostenibile, non è eticamente corretto né

intellettualmente accettabile, perché fare debito significa spostare la tassazione sulle spalle di chi verrà negli anni o nei decenni successivi, ma al contrario di quanto detto fin qui, le politiche dei governi continuano a indebitare gli Stati. Sin dalla sua nascita, nel 1861, il Regno d’Italia era già affetto dal vizio congenito dell’indebitamento. All’unificazione degli ordinamenti amministrativi degli Stati preunitari seguì la prima legge unificatrice in materia di finanza pubblica. Quella che istituì il cosìdetto “Gran Libro del Debito Pubblico” (l. 10 luglio 1861 n. 94), voluto dal ministro delle Finanze Pietro Bastogi che poco dopo con la legge 4 agosto 1861 n. 174 riuscì a mettere insieme i debiti pubblici degli Stati esistenti prima dell’unificazione. Nei dieci anni successivi alla nascita del Regno


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d’Italia il debito pubblico salì dal tare le imposte sono perfettamen36% all’80% del Pil. Al momen- te giustificati a compiacersene, to dell’unificazione il debito del perché con ciò hanno salvato il Regno d’Italia era imputabile per paese». Nel 1876 si ebbe per la il 57,22% al Regno di Sardegna, prima volta il raggiungimento per il 29,40% al Regno di Napoli del pareggio di bilancio, con un e di Sicilia e la quota residuale de- elevato costo in termini di consenso elettorale: per fare la cosa rivava dagli altri Stati. La finanza pubblica italiana dal- giusta, cioè per ridurre il debito, l’unificazione alla prima guerra la Destra Storica aveva perso la mondiale è stata contraddistinta maggioranza parlamentare e anda tre fasi differenti: le politiche che il governo del paese, ma tutto di risanamento che hanno portato ciò non impedì a quel gruppo di al pareggio di bilancio del 1876 politici di conquistare il rispetto durante i governi della Destra delle generazioni dei decenni sucStorica; il periodo di alterni avan- cessivi, che solo ex-post poterono apprezzare gli efzi e disavanzi fino fetti positivi di al 1897; un primo Sin dal 1861 il Regno quella scelta. Il sviluppo economi1876 è l’anno che co e il bilancio in d’Italia era già fa da spartiacque a v a n z o f i n o a l affetto dal vizio nella politica italia1913-1914 (l’inna, segnando il versione di ten- congenito passaggio dal godenza avvenne a dell’indebitamento verno della Destra seguito delle spese militari sostenute dall’Italia per Storica a quello della Sinistra con conseguenze rilevanti, anche sotto combattere la guerra in Libia). Il primo tentativo di risanamento il profilo economico e della geavvenne secondo una serie di poli- stione delle finanze pubbliche. tiche di austerità che andarono a Il debito continuò a aumentare sibuon fine, producendo gli effetti no a raggiungere il valore del desiderati. Durante la seduta par- 116% del Pil nel 1889 (e il lamentare dell’11 dicembre 1872 120% nel 1897). Poi nuovamente Quintino Sella replicava all’oppo- il debito tornò a ridursi. Questo sizione in materia di finanza pub- trend ciclico si manifestò per anblica, con la seguente dichiarazio- ni, fino alla prima guerra mondiane: «In fatto di imposte (…) cre- le. Tra il 1914 e il 1922 ampi dido che non ne abbiate votata alcu- savanzi di bilancio hanno spinto il na. Avete votato le spese, e mol- nostro debito pubblico, a un autissime ne avete domandate. Ora mento del 429%. Nel dicembre io credo che realmente si impon- 1922, con l’affermazione del fascigano aggravi ai contribuenti non smo, il governo guidato da Musquando si votano imposte, ma solini diede inizio a una nuova quando si votano spese (…). Co- strategia economica. Il ministro loro che ebbero il coraggio di vo- Alberto De Stefani decise l’unifi-


SHOCK ECONOMY Matteo Laruffa

cazione del ministero del Tesoro e mediato di evitare il fallimento quello delle Finanze, per rendere delle principali banche italiane, possibile un controllo contestuale anche se in alcuni anni divenne e complessivo delle voci in uscita un mezzo per affermare un forte e in entrata del bilancio dello Sta- statalismo. In poco tempo, l’Iri to con l’adozione di politiche li- divenne il più grande imprendiberiste, come la liberalizzazione tore italiano, essendo proprietario di settori chiusi dell’economia, la di oltre il 20% dell’intero patririduzione delle spese, un aumento monio azionario nazionale (una delle imposte indirette a vantag- percentuale che permetteva un gio di quelle dirette. Inoltre De controllo e una pianificazione ecoStefani cambiò la struttura della nomica, seconda solo a quanto avRagioneria Generale dello Stato, veniva in Urss). Nel 1936 si ripriin quella che è in funzione ancora stinò la facoltà di chiedere alla oggi (non solo per la semplice Banca d’Italia delle anticipazioni rendicontazione, ma anche per straordinarie e temporanee, garantite dal rilascio esercitare la funziodi speciali buoni ne di controllo di Con De Stefani ebbe ordinari del Tesolegittimità e di ro, ma queste ope“proficuità finan- inizio una politica razioni, conosciute ziaria” dell’azione di liberalizzazzioni come “pagamenti amministrativa). differiti”, erano Queste azioni spin- che portò molto dei semplici presero Einaudi a par- profitto all’economia stiti, non registrati lare di un «fecondo ritorno del sistema tributario ita- come tali nel debito pubblico, anliano alle sue classiche tradizioni che se in poco tempo questa “falsa liberali» e difatti tutto ciò com- copertura” venne scoperta. portò un alleggerimento della La Seconda guerra mondiale, incispesa pubblica e permise il rag- se negativamente sull’andamento giungimento del pareggio di bi- del debito, ma al momento della lancio, per la seconda volta nella fine del conflitto la condizione nostra storia, nel 1925-26. Dopo delle finanze pubbliche non era De Stefani, la guida del Ministero così preoccupante come si potrebdell’economia e delle finanze, pas- be immaginare. La forte svalutasò a Giuseppe Volpi, che dovette zione monetaria annullava quasi cercare di fronteggiare l’effetto di del tutto gli interessi sul debito e “onda lunga” della Grande De- in questo modo “pagare” una parte dei titoli in circolazione, non pressione del 1929. Tra gli strumenti per reagire alla rappresentava un impegno imposcrisi economica, il regime diede sibile da rispettare. La caduta del molta importanza ai salvataggi fascismo, la resistenza e l’inizio delle banche e delle grandi azien- dei lavori dell’Assemblea Costide, grazie all’Iri, nato nel 1933 tuente, insieme a tantissimi altri come ente pubblico, col fine im- eventi di politica nazionale e in-

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ternazionale, divennero priorità nell’articolo 81. I membri delnell’attenzione dell’opinione pub- l’Assemblea Costituente avevano blica e della classe dirigente, la- auspicato che la futura classe dirisciando nell’ombra il problema gente avrebbe agito con “senso di del debito. La sola vera eccezione responsabilità”, ma non avevano fu quella di Luigi Einaudi, che escluso il contrario, cioè un’azione dal gennaio 1945, come nuovo irresponsabile nel formulare le governatore della Banca d’Italia, leggi. Per prevenire, l’eventuale continuava a interessarsi del debi- poca serietà delle classi politiche to, per il suo ruolo istituzionale, degli anni a venire, era stato insema anche per formazione cultura- rito un apposito comma (il IV) le e politica. Nel ‘47, all’alba del- nell’articolo 81 della Costituziola Repubblica Italiana, tanti fat- ne. L’articolo 81 della Costituziotori definivano un ritorno a una ne recita: «Le Camere approvano situazione di equilibrio finanzia- ogni anno i bilanci e il rendiconto rio e si tentò di sfruttare un mo- consuntivo presentati dal governo. L’esercizio mento di stabilità per emettere dei Einaudi: le leggi le quali provvisorio del bilancio non può esprestiti a lungo sere concesso se termine, come un importino maggiori prestito quinquen- oneri finanziari devono non per legge e per periodi non supenale, conosciuto riori complessivacome “prestito provvedere anche ai della liberazione”, mezzi per fronteggiarli mente a quattro mesi. e un prestito trentennale, conosciuto come “presti- Con la legge di approvazione del to della ricostruzione”. La novità bilancio non si possono stabilire più importante per quel periodo nuovi tributi e nuove spese. Ogni fu il nuovo sistema istituzionale altra legge che importi nuove o definito dalla Costituzione Re- maggiori spese deve indicare i pubblicana, nata dalla sintesi di mezzi per farvi fronte». liberalismo democratico, sociali- L’onorevole Einaudi, in sede di smo, cristianesimo sociale e pen- discussione della norma, disse: siero repubblicano. Le nuove nor- «Le leggi le quali importino magme costituzionali incisero non so- giori oneri finanziari devono lo sulle libertà della persona, ma provvedere ai mezzi necessari per anche nell’ambito dei rapporti so- fronteggiarli». Purtroppo, le perciali, economici e politici, come plessità della Assemblea Costiesempio è l’articolo 53 della Co- tuente sulla irresponsabilità delle stituzione che introduce un siste- nuove generazioni che avrebbero ma tributario progressivo e il con- avuto l’onere e l’onore di guidare cetto di “partecipazione fiscale”. il paese, si rivelarono fondate in La norma costituzionale più im- molte occasioni della nostra stoportante per chi affronta lo studio ria. Parlamento e governo hanno del debito pubblico è contenuta previsto, sin dai primi anni di vi-


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ta della Repubblica, a andare oltre i limiti dettati dall’articolo 81 della Costituzione. Lo strumento utilizzato come espediente è stato un ricorso continuo al mercato finanziario grazie alla politica monetaria. In concreto, si cercava di assicurare una copertura alle nuove leggi con l’emissione di carta moneta da parte della Banca d’Italia per l’acquisto di Titoli di Stato e questo circolo vizioso andò avanti fino al divorzio tra la Banca d’Italia e il ministero del Tesoro, che fu operativo dal 1981. Intanto, l’economia italiana e quella dell’Europa occidentale nel 1948 cominciavano a ricevere gli aiuti dello European Recovery Program, già annunciato nel 1947 dal segretario di Stato statunitense George Marshall. Chiaramente il significato del Piano Marshall non era solo economico, ma in primo luogo politico e questo rientrava in una strategia di definitivo avvicinamento dell’Italia agli Usa, che fu sancita nel 1949 con l’adesione alla Nato. Gli anni Cinquanta furono per l’Italia un periodo di sviluppo economico sostenuto, in un contesto di stabilità monetaria e di convergenza di molti altri fattori economici favorevoli, come l’ampia offerta di manodopera, gli investimenti e la confluenza di aiuti internazionali. La scelta dell’apertura internazionale, che introdusse dei proficui stimoli nel nostro sistema economico, dovuti alla concorrenza internazionale, fu consolidata con l’adesione alla Comunità economica europea (1957). Il ferreo controllo della spesa pubblica, la scomparsa del-

IL PERSONAGGIO

Quando il debito preoccupava Einaudi Docente di Scienza delle finanze nelle Università di Torino e Milano (Bocconi) e di Economia politica al Politecnico di Torino. Collaboratore di giornali italiani e stranieri, diresse la Riforma sociale fino alla soppressione nel 1935. Esponente del Partito liberale. Senatore dal 1919. Governatore della Banca d’Italia dal gennaio 1945 al maggio 1948; non esercitò la funzione dopo il maggio 1947, a seguito della nomina a vice presidente del Consiglio e ministro delle Finanze e del Tesoro (31 maggio 1947). Passò subito dopo al ministero del Bilancio (giugno 1947 - maggio 1948), con compiti di coordinamento degli altri dicasteri economici. Membro della Consulta Nazionale e deputato all’Assemblea Costituente. Vice presidente dell’Accademia dei Lincei. Presidente della Repubblica dal maggio 1948 al 1955. Alla fine del mandato presidenziale riprese la sua attività di professore universitario.

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l’inflazione e anche i primi bene- (con divisioni e unioni fra frange fici dell’integrazione comunitaria diverse della sinistra socialista) e (dalla Ceca nel 1951 in poi), per- della oggettiva difficoltà di govermisero un nuovo clima di fiducia nare un paese, la cui stagione dei cittadini, che tornarono a in- d’oro, era appena tramontata. Dal vestire e a alimentare la domanda 1964 l’economia italiana iniziò a di beni e servizi, permettendo rallentare e gli anni Sessanta si all’Italia di vivere gli anni del chiusero in gravi difficoltà econo“boom economico”. Dai primi an- miche. Era avvenuta, una riduzioni Sessanta, l’Italia era profonda- ne del tasso di crescita dell’economente cambiata e viveva il conso- mia, esattamente della metà, paslidarsi di una condizione di be- sando dal 5,6% del 1963 al 2,8% nessere diffuso, ma era già iniziata del 1964. Il governo doveva penuna svolta nella società e nell’eco- sare al rilancio dell’economia e nomia che ebbe dei riflessi nel coerentemente al suo posizionanuovo periodo politico, quello del mento politico nel centrosinistra, la sua azione fu cacentrosinistra. I ratterizzata da una protagonisti poli- Dall’ingresso del Psi visione keynesiana, tici dell’accordo incentrata su una fra la Dc e le sini- nel governo di Moro politica economica stre, furono Pietro la capacità decisionale fortemente espansiNenni, Amintore va. Fanfani e Aldo mutò indebolendo Per comprendere i Moro. l’economia italiana disavanzi che si reDopo il governo Tambroni e gli scontri a Genova, gistravano ogni anno nel bilancio Fanfani formò un governo con dello Stato, occorre osservare non l’astensione dei socialisti, con un solo e esclusivamente il fattore programma preparato d’intesa an- “emissione di nuovo debito”, ma che con il Psi. Da quel momento, anche ragioni più ampie, quali la si affermò un volto nuovo dello differenza tra il tasso di crescita Stato italiano, quello del Welfare, della produttività e il tasso di inanche se questo modello istituzio- teresse sul debito, che sono legati nale degenerò presto in un assi- alla differenza tra tassi di crescita stenzialismo con troppi vizi. Alla del Pil e variazione del debito fine del 1963 dall’instabilità poli- pubblico. Se il tasso di crescita tica derivò un altro risultato, del debito pubblico è minore del inimmaginabile per l’Italia degli tasso di crescita del Pil, allora il anni ‘50, cioè l’ingresso dei socia- debito pubblico si ridurrà nell’arlisti nel governo presieduto da co di alcuni anni. Se il tasso di Aldo Moro. Un cambiamento che crescita del debito pubblico è nei fatti, non fece altro che inde- maggiore rispetto al tasso di crebolire la capacità decisionale di scita del Pil, avremo un disavanzo quella politica, prigioniera di liti crescente e, negli anni, il debito interne all’alleanza di governo sarà in costante aumento. Il caso


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italiano in quegli anni era di tran- dipende fortemente dalle fonti sizione dalla prima alla seconda energetiche estere, tutto era più ipotesi. Negli anni che vanno dal complicato. Dopo “crisi energeti1963 al 1970 lo scarto tra il tasso ca” l’altra espressione che abbiadi crescita del Pil nominale e il mo conosciuto grazie a quell’anno tasso di interesse era diminuito in è stata la “stagflazione”, un termisette anni dal 7% al 2%. Inoltre ne nuovo per un fenomeno nuovo. tra il 1968 e il 1974 l’inflazione Per la prima volta infatti si preera aumentata dal 2% al 19%, e sentavano due patologie che abfino al 1984 non scese mai al di battevano il sistema economico di sotto del 10%. In parole povere, tanti paesi, Italia compresa, insiel’economia italiana si stava fer- me: la stagnazione e l’inflazione. mando. Proprio mentre l’econo- Il debito che oggi ci tiene costretmia arrancava, l’Italia viveva le ti a una crescita quasi nulla e sotdifficoltà degli attacchi per le toposti a continue minacce da bombe delle organizzazioni di parte della speculazione finanziaria, viene proprio estremisti di destra, fatte esplodere Il debito che oggi blocca da quegli anni. Dalla fine degli colpendo molti anni Sessanta i punti di interesse la crescita e favorisce continui deficit nazionale e soffriva la speculazione determinarono per il drammatico una crescita del assassinio del com- proviene dalla fine debito pubblico missario Luigi Ca- degli anni Sessanta senza precedenti labresi, da parte di gruppi di estrema sinistra come in termini di componenti, di ra“Lotta continua”. In questo qua- pidità e di entità. Il debito pubdro tragico si inserisce anche un blico passò dal 31% del Pil nel evento internazionale, pronto a 1960 al 34% nel 1970, poi il desconvolgere l’andamento dell’eco- bito continuò a aumentare incontrollato raggiungendo il 40% nel nomia italiana. Nel 1973 i paesi esportatori di 1971e arrivò fino al 65% dell’inipetrolio si riunirono, formando zio degli anni Ottanta. «A partire un cartello, per una gestione delle del 1967-1968 abbiamo cominvendite controllata e pianificata, ciato a fare una politica aggressiva che prese il nome di Opec. La na- di espansione della spesa, senza scita dell’Opec fece immediata- aumentare le tasse. Se avessimo mente sentire i suoi effetti distor- aumentato le tasse a partire dalla sivi causando un balzo del prezzo seconda metà degli anni Sessanta, del petrolio, che si quadruplicò in il nostro paese non sarebbe nelle poco tempo. Si parlò subito di condizioni attuali. Tra il 1966-67 una “crisi energetica” e l’Italia, e il 1974-75, la pressione tributache dipendeva (il petrolio copriva ria è rimasta sostanzialmente feroltre il 75% del fabbisogno ener- ma, mentre le spese hanno contigetico italiano, in quell’anno) e nuato a crescere sui ritmi degli

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anni Cinquanta. Basta ricordare che nel 1972, l’anno prima dello shock petrolifero e la fine di venti anni di crescita a tassi reali attorno al 5-6% annuo, l’Italia era l’unico tra i paesi a economia di mercato ad avere i conti del settore pubblico in squilibrio per quasi il 4,5-5%. Tutti gli altri paesi avevano gestito l’espansione della spesa avvantaggiandosi della crescita e lasciando aumentare la pressione tributaria. Poi siamo entrati in periodi di bassa crescita, abbiamo cominciato a inseguire l’espansione della spesa, aumentando le tasse ma a quel punto soltanto per sostenere il costo del debito». Così il Prof. Piero Giarda spiega il dissesto delle finanze pubbliche italiane. Tra i motivi di questa esplosione dell’indebitamento, oltre tutte le componenti internazionali, sociali e inerenti alle potenzialità dell’industria italiana, ci sono tante scelte politiche che hanno contribuito in modo negativo alla gestione della crisi. In primo luogo l’andamento della spesa pubblica, soggetta alle decisioni di una politica non lungimirante, perché accecata dal “complesso del breve periodo”. In secondo luogo, oltre all’espansione della spesa e al divario fra entrate e uscite, la fame di consenso aveva portato al clientelismo a fini elettorali. Gli impiegati pubblici passarono dal 1960 al 1990 da 1 milione e 500000 a 3 milioni e 600000, nel 1960 un lavoratore su quattordici era statale, nel 1990 uno su sette. «In questo settantennio (1923 –


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1992, ndr), il numero complessivo di dipendenti statali è quintuplicato. Quello degli insegnanti è più che decuplicato». Sabino Cassese commenta così l’ingiustificato esorbitare del settore pubblico in Italia. L’aspetto più preoccupante riguarda l’accettazione intellettuale del disavanzo, fino ai primi anni Settanta fare debito era intellettualmente inammissibile. I politici persero il senso del contegno, nell’adottare politiche di espansione della spesa senza alcuna copertura finanziaria, senza avere il coraggio di aumentare la pressione fiscale per finanziare in modo sostenibile le manovre economiche adottate. Una politica senza il senso della responsabilità ha indotto una trasformazione anche del senso comune degli elettori, che da quegli anni hanno accolto senza alcuna forma di rifiuto le politiche di disavanzo. Tra il 1980 e il 1990 il rapporto debito pubblico Pil passava dal 60 al 100%. Questa crescita del debito oltre ogni previsione avvenne per un’incontrollata spesa per interessi e per una serie di nuovi buchi che erano stati aperti nei conti pubblici e non a caso, quando si parla degli anni Ottanta, si usa spesso l’espressione “assalto alla diligenza”. Il 4 agosto 1979 a un anno dall’elezione di Sandro Pertini alla Presidenza della Repubblica, Francesco Cossiga (dimessosi da ministro dopo l’uccisione di Aldo Moro e in un periodo di esilio politico volontario) venne chiamato a formare un nuovo governo, dopo quello di so-

lidarietà nazionale nato per far fronte all’emergenza della violenza degli anni di piombo. I due governi Cossiga furono quelli delle dichiarazioni di impegno per una politica del rigore nelle finanze dello Stato. Ma alle parole non seguirono i fatti così continuava a esser perpetuata una strategia del “più spese e meno tasse” che avalla le teorie del ciclo politico-economico, secondo la quale i governi hanno spesso approfittato di una gestione mirata alla riduzione delle tasse e all’aumento incontrollato delle entrate, per creare maggiore consenso politico. Nel 1981 il ministro del Tesoro Nino Andreatta insieme al governatore Carlo Azeglio Ciampi, furono protagonisti di un cambio di rotta, decidendo di esentare la Banca d’Italia dall’obbligo di acquistare titoli del debito pubblico e non potendo più esser concesso un finanziamento in disavanzo tramite il “signoraggio”, tutto tornava nelle mani della politica di bilancio. Dopo le elezioni del 1983, Bettino Craxi, il segretario del Psi che aveva rinnovato l’anima dell’area socialista italiana, fu incaricato di formare un nuovo governo. «Deve essere fatto il massimo sforzo per consolidare la quota di entrate correnti sul prodotto nazionale e frenare la spesa pubblica». Queste furono le parole di Bettino Craxi dinanzi al Parlamento il 9 agosto 1983. L’impegno del governo Craxi sembrava non deludere le aspettative e dopo alcuni timidi risultati, come una riduzione del rapporto tra fabbisogno pubblico e Pil, erano stati

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elaborati anche i piani di rientro settore statale. Sempre nell’ambiper un azzeramento del disavanzo to pubblico si è verificato un gicorrente entro il 1988. Ma pur- gantesco spreco di risorse pubblitroppo, anche quelle promesse che per più di dieci anni, a causa non ebbero attuazione. L’emble- del “galleggiamento” che proprio ma della miopia della politica nel periodo 1980-90 ha gonfiato italiana è data da un’ammissione ancor di più il debito. Fino al di debolezza del presidente del 1992, anno in cui il governo Consiglio Giovanni Goria, che Amato ha cancellato il galleggiadichiarò: «Abbiamo cercato il mento dal nostro ordinamento, massimo di equilibrio, funzionale era possibile che militari (i primi anche a un consenso di cui abbia- ai quali fu rivolto il galleggiamento), magistrati, prefetti e sucmo bisogno». Dopo De Mita fu la volta del cessivamente anche gli alti gradi CAF, il patto Craxi-Andreotti- della burocrazia statale e i pubbliForlani. Andreotti tornava a Pa- ci dipendenti in generale, allineassero il proprio lazzo Chigi, era la stipendio a quello sua la sesta volta. A causa più vantaggioso di In quell’occasione, un pari grado e si rivolse diretta- del “galleggiamento” mente ai cittadini tra il decennio 1980-90 qualifica proveniente da un’altra dagli schermi tv, amministrazione. dicendo: «Ogni ci fu un incremento Questo sistema, rigiorno spendiamo sostanziale del debito velatosi devastante 300 miliardi per pagare gli interessi. Non possia- per le casse dello Stato, era figlio degli anni dell’assalto alla dilimo più andare avanti così». Relativamente alle condotte di genza e fu istituito dal decreto dispendio eccessivo e a volte in- legge (anche da questo punto di giustificato di risorse da parte vista era stato usato il decreto legdella pubblica amministrazione, ge andando contro le norme costiil professor Sabino Cassese, mini- tuzionali perché non si trattava di stro della Funzione pubblica nel un caso di necessità e urgenza cogoverno Ciampi, presentò nel me detto al comma II dell’articolo giugno del 1993 il primo Rap- 77 della Costituzione) n.681 del porto sulle condizioni delle pub- 27 settembre 1982 “Adeguamenbliche amministrazioni. Dai dati to provvisorio del trattamento dei messi in evidenza dal Rapporto, dirigenti delle amministrazioni emerge l’inefficienza della pubbli- dello Stato, anche a orientamento ca amministrazione, che già in autonomo e del personale a essi quegli anni costava dai quindici collegato”, a novembre 1982 conai venti giorni lavorativi l’anno, vertito in legge. Il galleggiamengenerando una tassa “occulta” che to nasceva per permettere agli alti nel 1992-93 era stata calcolata co- gradi militari di incrementare la me pari al 3% degli incassi del retribuzione degli altri gradi mi-


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litari fino ad allinearla, a parità di a determinare le disponibilità per anzianità di servizio, alla posizio- la copertura di tutte le spese da ne più elevata possibile. Un siste- iscrivere nel bilancio annuale. La ma conosciuto anche come “mec- legge finanziaria veniva sempre canismo di allineamento stipen- votata dal Parlamento, un modiale”. Dai ricorsi che seguirono mento prima della legge di bilanper l’estensione di questa possibi- cio, e in questo modo la legge filità agli altri settori dirigenziali nanziaria diventava una copia deldel pubblico impiego, deriva una la legge di bilancio, ma una copia crescita esponenziale dei casi che “jolly” che permetteva di aggirare beneficiarono del galleggiamento, il comma terzo dell’articolo 81 con tutti gli effetti che condizio- della Costituzione, dando alle navano non solo lo stipendio, ma spese previste una copertura che anche la liquidazione e la futura può essere anche riconducibile alpensione. Alcuni esperti dei costi le risorse derivanti dal mercato fidella pubblica amministrazione, nanziario (cioè dalla vendita di Titoli di Stato) e hanno stimato che il galleggiamento Prima del 1992, militari, poi la legge di bilancio si richiamapotrebbe esser cova a quella stessa stato all’Italia, circa magistrati, prefetti e finanziaria, chiu700 miliardi l’an- pubblici dipendenti dendo il cerchio di no. Tra le prassi politico-istituzio- allineavano lo stipendio questa pessima nali che hanno lo- a quello più vantaggioso prassi parlamentare molto negativa. gorato il bilancio pubblico, occorre menzionare Questo modo di “preparare” la quella dell’approvazione della legge finanziaria fu abolito dopo “legge finanziaria”, uno strumen- dieci anni di aggravamento del to giuridico introdotto dall’artico- bilancio pubblico, con la legge n. lo 11 della legge n. 468 del 5 362 del 1988. Il passaggio agli agosto 1978 e non previsto dal- anni Novanta fu, per la politica e l’articolo 81 della Costituzione. per l’Italia, un momento storico Questa è la manifestazione che la fortemente innovativo e la spinta ricerca del consenso elettorale e la al cambiamento fu dovuta non sovoracità di un modo sbagliato di lo al processo di integrazione eufar politica, hanno corrotto il ropea, che progrediva verso compito stesso della politica. L’ar- l’obiettivo di un’unione ben più ticolo 11 della legge n. 468 del completa rispetto alle tre prece1978 dice che la legge finanziaria denti comunità europee, ma andoveva indicare il livello massimo che per una serie “travolgente” di del ricorso al mercato finanziario, inchieste giudiziarie che svelarono che è una fonte di finanziamento la corruzione e il malaffare diffuso non prevista dall’articolo 81 della nel sistema politico italiano da Costituzione, il cui ammontare destra a sinistra, da nord a sud, doveva concorrere con le entrate, dai comuni al Parlamento. Men-

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tre gli avvisi di garanzia iniziava- litico, nel mercato delle valute, no a scuotere i palazzi del potere e iniziò una corsa a disfarsi della lile sedi di partito, l’Italia riuscì a ra. A muovere il governo Amato conseguire dei risultati a lungo nella direzione del risanamento fu sperati, riguardanti proprio il de- in modo determinante la crisi delbito pubblico e il deficit, nella di- lo Sme del settembre 1992 e rezione di un risanamento. La cu- l’uscita della lira dal Sistema mora per la finanza pubblica italiana netario europeo. Nel “fare debifu dovuta alla partecipazione del to”, i governi possono esser mossi paese all’esperimento dell’integra- dalle migliori intenzioni, perché zione europea, perché a volte la la spesa pubblica potrebbe esser classe dirigente dimostra di esser indirizzata a produrre nuova ocdisposta a muoversi verso il cam- cupazione o a stimolare la crescibiamento, ma solo quando è co- ta, ma non tutta la spesa pubblica stretta a farlo. Il 1992 infatti è produce ricchezza e quindi rende l’anno della firma del Trattato di il debito “sostenibile” nel tempo. Nel caso italiano Maastricht, che e m e rg o n o tre istituì le regole Con il Trattato aspetti, il primo è politiche, i requisiti e i parametri di Maastricht l’Italia fu quello secondo il quale la classe polieconomici vinco- subito chiamata a fare tica in determinati lanti per gli Stati membri. L’Italia dei sacrifici per entrare periodi storici, non ha dimostrato di fu subito chiamata nei vincoli europei agire mossa da a fare dei sacrifici e proprio nel 1992 il governo Ama- buone intenzioni, ma da indiffeto, a colpi di fiducia, cercava di renza nei confronti dei settori delfar approvare la maxi manovra l’economia che avrebbero potuto economica. Al paese non era ri- creare ricchezza sostenuta da apchiesta una manovra normale, i positi stimoli e da un mero intepalliativi non servivano più e resse politico, sfruttando forme di Giuliano Amato lo aveva capito e assistenza, per creare consenso pocon queste parole giustificava il litico-elettorale. voto di fiducia: «So che abbiamo L’insensibilità verso il tema della usato con larghezza il voto di fi- crescita, un uso distorto di assiducia, ma non siamo in tempi stenza pubblica e l’assenza di lunnormali, siamo alla prima conva- gimiranza hanno annebbiato la lescenza di una grave malattia e vista della classe politica e dato sotto stretta sorveglianza interna- alla luce a degli immani sprechi zionale e dei mercati». Lo scoppio di denaro pubblico sino all’esplodella crisi di credibilità della clas- sione del debito. Oltre alle pense politica per il dilagare di avvisi sioni e alla sanità, che sono tutdi garanzia, mostrava l’Italia co- t’oggi tra le principali emergenze me un paese fragile e poco affida- della finanza pubblica, ci sono bile, da ciò oltre il terremoto po- tanti altri sprechi nel sistema, che


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sono riconducibili alla pubblica 600.000 miliardi, la seconda preamministrazione e altri dovuti a vede un costo massimo di oltre delle prassi politico/istituzionali 110.000 miliardi. Se i numeri molto discutibili. Fino ai primi non sono errati, si tratta di un coanni Novanta, era stata solo la sto aggiuntivo che varia da un Banca d’Italia (e il partito repub- minimo di 3.800 miliardi a un blicano) a fare da argine allo spre- massimo di 9.200 miliardi l’anno. co e al dispendio improduttivo e «La svalutazione è un’umiliazione ingiustificato delle risorse pubbli- che scopre la vulnerabilità econoche per clientelismo e assistenzia- mica e l’impotenza politica dellismo. Guido Carli era riuscito a l’Italia» così il Times descriveva far valere nei confronti del potere la condizione italiana nel settempolitico delle procedure, tali da bre del 1992. Dopo la maxi-stanescludere il finanziamento di gata agli italiani da parte del goqualsiasi disavanzo pubblico e nel verno Amato, una serie di dimisperiodo in cui fu governatore, dal sioni nell’esecutivo e la necessità di un altro inter1960 al 1975, riuvento di politica scendo a preservare Nel “fare debito” economica e mol’indipendenza delle funzioni della si può produrre crescita netaria, Amato Banca d’Italia dalle e occupazione, ma non diede le dimissioni. L’uomo su cui “arciconfraternite del potere”, come tutta la spesa pubblica cadde la scelta del Presidente Scalfaro egli stesso le definì produce ricchezza fu il governatore nel 1975. L’ultimo elemento è forse quello più inte- della Banca d’Italia Carlo Azeglio ressante e si riferisce all’effetto Ciampi. Senza mandato elettorale, Tangentopoli, è giusto chiedersi Ciampi fu chiamato a guidare il quanto abbiamo dovuto pagare governo di un paese in cui la poliper tutta la corruzione e il malaf- tica viveva una profonda crisi di fare che è stato smascherato dallo credibilità e in cui l’economia artsunami giudiziario di Tangento- rancava sotto il peso del debito. poli, quella che il governatore Gli obiettivi del nuovo Presidente Antonio Fazio, ha definito “tassa- del Consiglio, consapevole del suo zione impropria” instaurata dal si- ruolo e di dover traghettare l’Itastema delle tangenti. Il Centro lia fuori dalla tempesta, erano Luigi Einaudi, ha compiuto delle due: varare nuove regole elettorali stime, per calcolare l’ammontare e consolidare l’azione di risanadi debito pubblico imputabile al- mento del bilancio pubblico. Il le tangenti e agli interessi corri- Dpef predisposto dall’esecutivo sposti su di esse, riferite al perio- Ciampi, che prevedeva una corredo 1980-1992. Sono emerse due zione di 31.000-32.000 miliardi stime, la prima prevede un costo per il 1994, fu approvato il 9 setdi 46.000 miliardi su un debito tembre dal Consiglio dei Minipubblico superiore a 1 milione stri. La cura Ciampi sembrò con-

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vincente sin da subito e il 22 dicembre il bilancio e il provvedimento collegato erano leggi dello Stato. Carlo Azeglio Ciampi, da Presidente del Consiglio, commentò così l’operato del governo: «Con l’approvazione della manovra economica per il 1994, Parlamento e governo hanno definito un quadro di certezze per le forze sociali, gli operatori economici e la pubblica amministrazione. La ripresa dell’Italia ha ora, all’interno come all’estero, nuove possibilità, nuova credibilità, nuova fiducia». Abbiamo scelto una frase di Guido Carli per dare un inizio a questo scritto e introdurre al tema della crescita del debito pubblico e tra le righe finali non potevano mancare alcune delle sue parole, rivolte sempre al nostro paese e alla nostra storia, per motivare e valorizzare la “responsabilità” e l’essere “parte attiva”, come requisiti fondamentali dell’agire dei cittadini e delle élite politiche e sociali. In un suo discorso da senatore della Repubblica, non a caso intitolato “Povertà spirituali di un’Italia ricca”, Guido Carli disse: «La diffusione della prosperità esaspera il disinteresse per le questioni concernenti la condotta dello Stato; propaga la convinzione che le sorti dell’economia siano disgiunte da quelle della politica; avvalora la credenza che un indirizzo sia intercambiabile con qualunque altro; spinge i più deboli verso una sorta di “antropolatria”, nella quale si spegne l’idea di libertà umana». Il nostro debito è un male cronico

e non è da un giorno all’altro che ci libereremo di questo peso. La storia del nostro debito è una sintesi di tanti brutti vizi italiani e conoscerli significa già moltissimo. Significa riconoscere che c’è il problema e sapere qual è la causa, cioè si compie un primo passo verso la cura per ridurre il debito. Il primo aspetto su cui bisognerebbe intervenire è proprio quello della mancanza di capacità di avere una visione di insieme. Chiunque si trovi a gestire le finanze pubbliche dovrebbe provare a vedere oltre i confini dell’economia, perché le cause del dissesto sono politiche e sociali prima di esser economiche. Prima delle voci del bilancio, cioè spese e entrate, scopriamo cosa significano quegli indicatori economici e cosa comunicano. Dietro quei numeri, c’è un paese che non cresce da troppo tempo e vive al di sopra delle proprie possibilità, mantenendo forme di assistenzialismo diffuso, che fermano lo sviluppo e bloccano ogni cambiamento. Il secondo problema è politico e sociale. E per rendere l’idea di cosa voglio dire, mi richiamo a un esempio. L’esempio è ancora una volta quello di Carli, perché pochi sanno che Guido Carli, come emerge anche dal suo libro Cinquanta anni di vita italiana, ha provato a lottare contro l’avanzata del debito, ma confessa con delusione il non esser riuscito nel suo intento. La volontà politica dell’epoca vedeva nell’operato di un ministro, che per ridurre il debito, avrebbe ridotto la spesa, una minaccia. Guido Carli parla di


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proposte mai uscite dai cassetti della sua scrivania di ministro del Tesoro per mettere mano al sistema pensionistico italiano, prima delle riforme degli anni ‘90, definito come una “stratificazione di privilegi che coesistono con una scarsa attenzione alle fasce meno abbienti e meno importanti a fini elettorali” e continua descrivendone il funzionamento come un meccanismo che “crea disavanzi per forza inerziale, in quanto costruito sulla base di un tasso di sviluppo dell’economia e un tasso di natalità, nettamente superiori a quelli attuali”, conclude in modo lapidario: «Tale sistema, proiettando nel tempo lo squilibrio finanziario, è un atto di egoismo di una generazione ai danni di quelle successive. La demagogia ha impedito che queste cose venissero dette e spiegate». L’ultimo punto va oltre la sola politica e si inserisce in quell’insieme di convinzioni profonde, di responsabilità del buon cittadino, di rettitudine, di lealtà verso le Istituzioni, di rispetto delle leggi e di ethos repubblicano che è il patrimonio civico dell’Italia. Un patrimonio civico, codificato nella nostra Costituzione che è stato continuamente depredato, da molti di quelli che fin ora hanno guidato il paese e non l’hanno mai sentito come proprio. Bibliografia _ Guido Carli, Cinquanta anni di vita italiana. Economica Laterza, 1996. _ V. Castronovo, L’industria italiana. Mondadori Editore, 2003. _ V. Castronovo, Storia economica d’Italia dall’800 ai giorni nostri. Einaudi, 2006.

_ F. Cotula, Problemi di finanza pubblica tra le due guerre. Centro studi della Banca d’Italia, 1970. _ M. De Cecco, L’Italia nel sistema finanziario internazionale. Editori Laterza, 1990. _ D. Fausto, Lineamenti dell’evoluzione del debito pubblico in Italia (1861-1961). Edito dal Centro Interuniversitario di ricerca per ila storia finanziaria. _ G. Fortunato, Il Mezzogiorno e lo Stato Italiano, vol. II, Laterza, Bari, 1911 _ L. Gangemi, La politica economica e finanziaria del Governo fascista nel periodo dei pieni poteri, Zanichelli, Bologna, 1924. _ Ignazio Musu, Il debito pubblico. Società editrice Il Mulino, ediz. aggiornata 2006. _ Dino Pesole, La vertigine del debito. Editori Riuniti, 1994. _ F. Romani, Crisi dello stato democratico? Alcune riflessioni sulle finanze pubbliche italiane degli anni settanta. Pubblicato da Monte dei Paschi di Siena(1980). _ G. Salvemini e V. Zamagni, Finanza pubblica e indebitamento tra le due guerre mondiali: il finanziamento del settore statale. _ G. Toniolo e P. Ganugi, Il debito pubblico italiano in prospettiva secolare (1876-1947). _ S. Violante, Fiscalità e finanza in Italia (1861-1913). Saggi e documenti. Unicopli, Milano, 1979. _ Ministero del Tesoro, Il debito pubblico in Italia 1861-1987, vol. I. _ Fonti Istat - Indici nazionali dei prezzi al consumo per le famiglie.

L’Autore matteo laruffa Fondatore del movimento Giovani per il futuro e già membro del consiglio direttivo di Generazione Futuro, movimento giovanile di Fli.

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A chi interessa la FAMIGLIA?

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e associazioni sociali di area soprattutto cattolica lamentano un’assenza di politiche per sostenere i nuclei familiari. Il governo non li protegge a sufficienza dalle conseguenze delle contrazioni del reddito da lavoro. Per questo, continuano pressanti le richieste di una riorganizzazione del welfare. 153

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Famiglia e lavoro. Chi non parla o propone iniziative a favore di queste due fondamentali aspetti della vita personale e sociale di un paese? Già. Purtroppo solo tante ipotesi ma nessuna reale riforma e prospettiva. Il nostro paese manca da decenni di una sana e lungimirante politica per le famiglie. Basta ascoltare le chiacchere di strada, mentre si aspetta in fila alla posta, al bar tra amici o nei corridoio un po’ ovattati delle sedi di importanti società di business per capire che la situazione italiana è davvero critica. Se non bastasse il malessere reale della gente, ci sono anche diversi documenti e report di istituzioni nazionali e internazionali a ricordarci questo

difficile momento storico e la necessità di fare qualcosa davvero di concreto da subito. Partiamo da alcune affermazioni di Carlo Giovanardi, sottosegretario di Stato con delega alla famiglia, che nel sito ufficiale riconosce uno dei segnali della insufficienza della nostre politiche familiari: «I dati Istat mostrano che l’indicatore della presa in carico dei bambini da 0 a 3 anni, negli asili nido italiani, è passato dall’11,4% del 2004 al 13,6%, con riferimento all’as 2009/2010, un incremento importante ma lontano da quanto fissato a Lisbona, cioè al 33%». È vero che lo scorso luglio lo stesso sottosegretario ha presentato al Consiglio


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dei ministri la bozza del Piano coppia, sia nelle relazioni genitoper la famiglia. Ma è ancora una ri-figli. Ma non se ne è parlato bozza e al suo interno non ci sono nelle diverse iniziative sullo svichiari e precisi step da attuare. Si luppo e la crescita. parla di “cittadinanza sociale del- Secondo Pierpaolo Donati, sociola famiglia”; di «politiche esplici- logo, le politiche familiari in Eute sul nucleo familiare» (si vuole ropa si possono distinguere, a delineare un quadro organico di grandi linee, nelle seguenti aree interventi che abbiano la famiglia geografiche caratterizzate da specome destinatario); e soprattutto cifiche strategie. sul tema più urgente della fiscali- Nell’area mediterranea vi è un tà, si dice solamente che “l’equità mancato sviluppo di politiche fiscale nei confronti della fami- coerenti, con interventi framglia è uno dei principali punti su mentari; un sistema di trasfericui è necessario intervenire, per menti monetari molto limitato. rispettare appieno i principi co- Nell’area francofona (Francia, Belgio, Lussemstituzionali in materia di capacità Nell’area mediterranea burgo) c’è uno sviluppo di politiche contributiva, in per la famiglia tal senso il Piano vi è un mancato molto generose e indica un percorso sviluppo di politiche articolate. L’area di progressiva introduzione del co- coerenti, con interventi tedesca (Germania, Austria), insìdetto “Fattore frammentari vece, ci sono poliFamiglia”, ma su questo non si è ancora mosso nul- tiche familiari sviluppate fondala da parte delle istituzioni. Infi- te su famiglia-istituzione, ma ne, anche sul delicato tema del poco rilevanti nell’ambito delle «sostegno delle relazioni e della politiche sociali: un intervento solidarietà interna tramite il rico- pubblico “generoso” sul piano noscere e supportare il ruolo che finanziario, ma meno generoso la famiglia, oggi più che mai, è nei servizi pubblici. D’altra parchiamata a svolgere nei confronti te l’area scandinava è caratterizdei suoi membri, specie di quelli zata non da interventi diretti alin condizioni di maggior fragilità la “famiglia”, ma da un forte svi(bambini, anziani, disabili)» non luppo di un sistema di welfare si vedono chiari passi in avanti fondato su parità di genere, su nell’agenda politica. Le priorità politiche per i minori, sulla conindividuate dal Piano su cui in- ciliazione famiglia-lavoro. Da tervenire con maggior urgenza ultimo l’area anglofona si distinsono: le famiglie con minori, in gue per politiche di non interparticolare quelle numerose; le vento diretti ma di interventi famiglie con disabili o anziani prevalenti verso la povertà e non autosufficienti; le famiglie l’emarginazione sociale (commucon disagi conclamati sia nella nity care).


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Recentemente l’Ocse ha pubbli- avere un lavoro e avere dei figli. cato un interessante documento Dal documento emerge inoltre sulla situazione delle famiglie che l’Italia spende circa l’1,4% nell’Unione europea. Il rapporto del Pil per le famiglie con bambiDoing better for families traccia un ni, mentre nell’Ocse in media si quadro sulla situazione attuale, spende il 2,2%. Anche per avere sugli obiettivi e sulle prospettive una condizione lavorativa più stafuture delle politiche per la fami- bile, i giovani spesso postpongoglia nei diversi paesi Ocse, inda- no l’età in cui hanno il primo figando vari aspetti del tema, fra glio e così la probabilità di non cui: la spesa per gli assegni fami- avere figli aumenta. In Italia, in liari, l’assistenza all’infanzia, l’oc- effetti, ci sono molte donne senza cupazione femminile e le misure figli: il 24% circa delle donne nadi contrasto alla povertà infantile. te nel 1965 non ha avuto figli; in Per quanto riguarda l’Italia, il Francia, per esempio, solo il 10% documento rivela che il nostro delle donne nate nello stesso anno non ha figli. paese risulta ben al Il rapporto si sofdi sotto della me- Nell’area francofona ferma anche sulla dia Ocse rispetto a flessibilità degli tre indicatori fon- c’è uno sviluppo orari di lavoro, damentali sulla fa- di programmi per che, si legge in miglia: occupaziouna nota che riasne femminile, tas- la famiglia molto sume alcuni conso di fertilità e tas- generosi e articolati tenuti del volume, so di povertà infantile. Il dilemma italiano sta nel «svolge ancora un ruolo limitato fatto che è molto difficile conci- nell’aiutare i genitori a conciliare liare lavoro e figli ma, allo stesso lavoro e famiglia: meno del 50% tempo, un elevato tasso di occu- delle imprese con 10 o più dipenpazione dei genitori è cruciale per denti offre flessibilità ai propri ridurre il rischio di povertà infan- dipendenti, e il 60% dei lavoratile. Per poter migliorare le con- tori dipendenti non è libero di dizioni di vita lavorativa e fami- variare il proprio orario di lavoliare é necessario rafforzare le po- ro». L’alternativa è spesso un lalitiche per l’infanzia e per il lavo- voro part-time, opzione scelta dal ro che contribuiscono a rimuove- 31% delle donne in Italia, ma sore gli ostacoli all’occupazione lo dal 7% degli uomini. femminile. Il tasso di occupazio- Un altro aspetto indagato nel ne femminile, ad esempio, è pari rapporto è il tempo che le donne al 48%, a fronte di una media e gli uomini dedicano al lavoro Ocse del 59%. Le donne italiane, non retribuito. In Italia le prime infatti, hanno più difficoltà a gli dedicano molto più tempo riconciliare famiglia e lavoro delle spetto alle donne di altri paesi madri di molti paesi Ocse e spes- Ocse (in media, più di 5 ore al so si trovano a dover scegliere tra giorno), mentre gli uomini si

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impegnano per meno di 2 ore al zata come ammortizzatore sociagiorno: «la più ampia disparità le. Così la sussidiarietà è rovesciadi genere nei paesi Ocse dopo ta e la percentuale di spese sociali Messico, Turchia e Portogallo». è molto bassa. In questo modo, In tutti i paesi dell’Organizzazio- conclude il sociologo, «fare famine per la cooperazione e lo svi- glia è penalizzato». luppo economico, comunque, so- A fronte di una media Ue-15 di no sempre le donne a svolgere 2,1% di spese per la famiglia, gran parte del lavoro non retri- l’Italia segna un misero 1,2, come buito in casa, a cui dedicano quo- Spagna e Portogallo. Meno della tidianamente due ore in più ri- Grecia e ben lontana dal 3,7 della Danimarca, del 3,0 della Svezia spetto agli uomini. Il rapporto contiene, infine, una del 2,8 della Germania o del 2,5 serie di raccomandazioni ai go- della Francia. verni dei paesi membri: fra que- Di fronte ad una mancanza di ste, l’aiuto alle famiglie a conci- strategia nazionale, di conseguenza, si moltiliare tempi di vita plicano le iniziatie di lavoro me- L’Italia per la famiglia ve a livello locale. I diante un sistema Comuni si ingeintegrato di inter- spende solo un misero gnano a creare serventi, politiche 1,2% a fronte vizi, sostegni e alper la famiglia che tri strumenti , orientino la spesa di una media europea quali la family card, destinata all’istru- che supera il 2% il microcredito fazione verso i primi anni di vita, incentivi al lavo- miliare, il “quoziente familiare”, ro che garantiscano la partecipa- etc, pur di aiutare i propri concitzione delle donne e delle madri tadini, ma , per quanto tutte loal mercato del lavoro e misure devoli, le iniziative locali dovrebche promuovano la parità di ge- bero potersi inserire in un disenere nel lavoro retribuito e non gno strategico a livello nazionale. Ad esempio, la virtuosa Germaretribuito. Sempre secondo Donati, le politi- nia fin dagli anni ‘50 ha istituito che familiari in Italia son deboli o un vero ministero per la famiglia addirittura assenti. Avere una fa- che opera in tale direzione. miglia è il fattore più significati- Rilancio delle politiche familiari, vo per entrare nell’area della po- riorganizzazione del Welfare locavertà. Vi è una iniquità fiscale e le, tutela dei diritti sociali per fascarse misure di conciliazione tra vorire coesione e partecipazione famiglia e lavoro. Inoltre una sono le richieste che provengono scarsa applicazione della legisla- dalle forze sociali più ampie, spezione sociale (sulla maternità, le cialmente dell’area cattolica. Copari opportunità, il sostegno a fa- me è stato detto in un recentissimiglie non autosufficienti). Nel mo convegno delle Acli di Siena, nostro paese la famiglia è utiliz- pur riconoscendo che «la situa-


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zione non è sicuramente sempli- Italia gli interventi di politica ce, le misure a livello nazionale familiare «si improvvisano e sosono inadeguate e colpiscono le no spesso fatti in risposta alclassi più deboli. La realtà soffre l’emergenza». Come è il caso di una scarsa attenzione alle esi- delle misure anti crisi (dicembre genze della famiglia: continua a 2008) varate dal governo per daessere considerata nella sua glo- re ossigeno alle famiglie. Un balità come un salvadanaio da cui aiuto a 8 milioni di famiglie: sipoter liberamente prelevare. La gnifica al massimo mille euro, famiglia per il suo ruolo di fonda- tradotto in una detassazione in mentale istituzione della società busta paga o nell’assegno penrichiede, specialmente in questo sionistico e che riguarda solo lamomento di crisi economica e so- voratori dipendenti e pensionati, ciale, un’adeguata e meditata pia- per un totale di 8 milioni di sognificazione, che ne sostenga la getti. L’importo varia dai 200 ai 1000 euro a seconda del numero funzione». dei componenti Le azioni a livello del nucleo. Per le locale che sopperi- L’Ocse segnala che famiglie con nuoscono alla latitanza vi nati un prestito dell’azione nazio- nel nostro paese a tasso agevolato. nale, rischiano di il sistema fiscale Uno studio del privilegiare interForum delle famiventi frammentati e il welfare giocano glie ha però scoe di breve periodo, un ruolo minoritario perto che questa volti a risolvere alcuni specifici problemi senza una manovra invece di favorire le faconsiderazione complessiva del miglie con figli favorisce i single ruolo che le famiglie hanno nella senza figli a carico. nostra realtà locale. In questo Sempre l’Ocse segnala che «in modo tali situazioni possono ad- Italia il sistema fiscale e di welfadirittura causare squilibri fra i di- re gioca un ruolo minoritario nel versi territori, ad esempio, inco- proteggere le famiglie contro le raggiando le giovani coppie a conseguenze di grandi contraziopreferire i comuni vicini perché ni del reddito da lavoro rispetto hanno migliori strutture per l’in- ad altri paesi dell’organizzazione. fanzia. Un’offerta di assistenza al- Le riduzioni del reddito da lavol’infanzia può decisamente con- ro individuale (per esempio in trastare la tendenza dei giovani a caso di perdita del lavoro) tendoritardare la formazione di un pro- no a tradursi in contrazioni del prio nucleo e la nascita dei figli reddito disponibile familiare suche per gli elevati costi molte periori a quelle osservate negli giovani generazioni non possono altri paesi Ocse, a causa della limitata azione di assorbimento permettersi. Le Acli hanno pubblicato uno degli shock operata dagli ammorstudio dove ribadiscono che in tizzatori sociali».

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È interessante notare anche il dibattito determinato dalla natura più che mai ideologica della scelta di far prevalere nell’ordinamento forme di sostegno a carattere universalistico o selettivo. Il dilemma, in breve, sta nell’opzione tra misure di “equità verticale” o di “equità orizzontale”. Secondo uno studio dell’Università di Bologna, le prime hanno finalità ridistributive del reddito in favore dei nuclei familiari in condizioni di povertà, le seconde consistono nella riduzione del carico tributario – o nell’aumento dei trasferimenti netti, oltre che nell’erogazione di servizi – in favore delle famiglie che, a parità di reddito, hanno un maggior numero di figli. Come si intuisce, la predilezione di un modello a discapito di un altro comporta delle serie conseguenze. A questo proposito è esemplare il caso degli assegni familiari, impiegati con criteri ora “orizzontali” ora “verticali”, a seconda della congiuntura demografica ed economica. A partire degli anni ‘80, sempre secondo questo studio universitario, «è iniziato un processo di trasformazione che, prima con timidi correttivi, poi con più nuove e radicali asserzioni, ha determinato il passaggio da una lunghissima fase in cui predominavano i modelli ridistributivi orizzontali (gli “assegni ordinari”, erogati universalmente) a quella attuale, decisamente verticale (si pensi agli “assegni per i nuclei familiari”). In altri termini, se prima l’aiuto economico era indiscriminato e ammetteva addirittura

delle integrazioni (gli “assegni integrativi”, appunto, apparsi per un breve periodo nell’83), oggi si rivolge prevalentemente a soggetti con redditi bassi o mediobassi, e ha un ammontare relativo che, a parità di carico familiare, decresce all’aumentare del reddito di famiglia». Lo scorso giugno è stata pubblicata dal Forum delle famiglie, la bozza di un documento propositivo per una seria e ampia strategia familiare. «In particolare – si legge – sono state largamente sottovalutate le esigenze delle famiglie con figli, per cui al centro del presente Piano viene collocata la politica familiare». Così “il Piano nazionale dell’Italia si configura come programma di “Alleanza italiana per la famiglia”. Esso avverte che «il Piano intende formulare proposte in un quadro organico, avvertendo che le singole misure potranno essere prese a breve, medio o lungo termine a seconda delle necessità e delle risorse disponibili. Poiché le competenze in materia di politiche familiari sono in corso di modificazione a seguito dell’attuazione del nuovo Titolo V della Costituzione e della riforma in senso federale dello Stato italiano, si tratterà di specificare via via quali misure potranno e dovranno essere messe in capo alle istituzioni secondo i vari livelli territoriali, nel quadro di uno Stato sociale plurale, sussidiario e societario, che tenga conto anche della necessità di assicurare i livelli essenziali di prestazione su scala nazionale».


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Un recente studio delle Acli ha evidenziato le criticità di alcuni strumenti che avrebbero dovuto aiutare le famiglie attuati dal governo e che invece non hanno raggiunto il loro scopo, anzi. Il tanto pubblicizzato bonus per famiglie a basso reddito è destinato all’82% a famiglie di uno o due componenti (quindi nella generalità senza figli) e con redditi doppi rispetto alla soglia di povertà. Così, dai dati forniti (il Sole 24 Ore), risulta infatti che 6,5 milioni di famiglie con uno o due componenti e con soglie di reddito doppie rispetto alla soglia della povertà relativa indicata dall’Istat, usufruiranno della grossa fetta (1,6) dei 2,4 miliardi di euro (esattamente, 2.313.450.000 di euro), mentre le famiglie con figli staranno ancora una volta a guardare, a meno che non siano estremamente povere. Non si capisce perché si voglia aiutare anche chi se la può cavare non avendo carichi familiari da sostenere e si continui a ignorare il grido di aiuto di chi non ce la fa ad adempiere ai propri compiti di cura. Riguardo alla Social card è stato un aiuto destinato quasi del tutto ai pensionati lasciando briciole a poche famiglie con bambini sotto i 3 anni, visti i limiti di redditi bassissimi (6mila euro di Isee) previsti per quest’ultimi. Il tetto al 4% sui mutui casa variabili, con un Euribo che si assesta sotto il 4 % ed essendo escluso dal provvedimento lo spread, non si vede cosa potrà servire. Sembra più una manovra di facciata che un vero e sostanziale beneficio.

Infine, sul Prestito per la nascita del figlio addirittura le Acli si astengono da un commento. Il Forum delle Associazioni Familiari aveva chiesto 2 miliardi di euro da distribuire tra assegni familiari per figli a carico e minor Irpef tenendo conto dei carichi familiari. La risposta del governo, a giudizio delle Acli, è stata: «dei carichi familiari non ci importa, favoriamo single, pensionati e famiglie senza figli. Si nota che solamente le famiglie con figli ben sotto la soglia della povertà potranno contare su un aiuto dalla manovra». In conclusione: la famiglia ancora e sempre di più al margine dell’attenzione.

L’Autore michele trabucco Giornalista freelance, laureato in Teologia e in Scienze dello sviluppo e della cooperazione internazionale.

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Un circolo vizioso fatto dai soliti volti

La “Repubblica dei mediocri” penalizza i giovani Il paese ha rinunciato alla valorizzazione di idee innovative a vantaggio di chi ha già dato prove di sè e non vuole congedarsi ancora. L’Italia ha bisogno di nuova linfa vitale dal motore propulsivo verso il futuro. Di proposta più che di proteste violente. DI ANGELICA STRAMAZZI

E anche l’Italia si indigna. Ma proteste e tafferugli non servono a rilanciare il paese. Il 2011 verrà senza dubbio ricordato per i disastrosi effetti della crisi economica iniziata nel 2008: consumi a picco, borse altalenanti, mercati finanziari interpretati alla stregua di oracoli miracolosi. Eppure, in un clima di profonda e prolungata incertezza, qualcuno ha trovato la forza per reagire. Per protestare pacificamente, per ribellarsi ad un sistema di valori e credenze che, visti i risultati attuali, si è rivelato ampiamente e totalmente fallimentare. Il capitalismo boccheggia, inutile negarlo; insieme ai suoi ritmi sostenuti, vacillano quei concetti e quegli assiomi che avevano dominato (e conquistato) il mondo. Il nostro mondo, le nostre vite, senza lasciarci neppure la possibilità di riflettere, di fermarci a pensare, a contemplare le bellezze di una quotidianità troppo spesso

ripetitiva e monotona. La diffusione a macchia d’olio di ipermercati, centri commerciali e mega oasi del consumismo, unitamente alla generalizzazione dei comportamenti e all’omologazione dei costumi, ha contribuito – e non di poco – al livellamento delle coscienze e all’annullamento, seppur parziale, dei sentimenti. Improvvisamente l’Occidente si è ritrovato prigioniero di se stesso, delle sue innovazioni e delle sue scoperte rivoluzionarie: tutto ha finito per trasformarsi in una gabbia di acciaio troppo stretta per chiunque. Di fronte ad un contesto drammatico, se non addirittura apocalittico, quali popoli hanno trovato la forza – e la volontà – di reagire? E quanti tra questi hanno pienamente compreso che i mutamenti di un sistema avvengono sì in maniera accidentale, ma si mettono in moto se c’è qualcuno che li alimenta e li anticipa?

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Ogni mattina ci svegliamo con suo male – direbbe qualcuno – l’ansia (e l’angoscia) di sapere se pianga se stesso. Ed è innegabile il nostro paese verrà declassato che il nostro paese abbia contridagli organismi sovranazionali di buito – e non di poco – a procustampo europeo: perdere una o rarsi da sé numerosi mali che ogdue A poco importa; quello che gi affliggono le giovani generaconta è che, a causa di numerose zioni. Le classi dirigenti che si debolezze strutturali che ci por- sono susseguite negli anni hanno tiamo dietro ormai da diversi an- usufruito di una quantità di rini, saremo costretti a fare i conti sorse molto ampia e troppo spescon chi non vive la nostra stessa so inesauribile: consumi alle stelrealtà. Ci osserva costantemente, le, stili di vita condotti nettaè vero, senza staccarci gli occhi mente al di sopra delle proprie di dosso, ma non è la stessa cosa possibilità. Eppure, si è cercato che respirare la nostra stessa aria di far finta di nulla, di andare e calpestare lo stesso suolo sul avanti, avallando una forma mentis che ha visto quale siamo fermi nello sperpero e ora. Nel momento Le classi dirigenti nella diffusione inin cui un soggetto controllata della giudica un altro – negli anni hanno ricchezza un vero e lo analizza e quin- abusato di uno stile proprio dogma. Di di lo definisce in questo e di molto maniera precisa e di vita al di sopra altro ne stiamo padettagliata – il ri- delle reali necessità gando oggi le consultato che scaturisce da questo processo reca in seguenze, scivolando – ahinoi – sé il punto di vista di uno o più verso un baratro che ci spaventa osservatori. Che poi, guarda caso, ma che, al tempo stesso, non siasono quegli stessi osservatori gli mo in grado di allontanare. Un artefici e i fautori del giudizio. po’ per volontà, un po’ per noia. Questo significa che, nel mo- E qui torniamo al punto di parmento in cui l’Italia riceve tenza di questa riflessione: cosa un’etichetta piuttosto che un’al- ci impedisce di indignarci, di altra, il soggetto che gliel’attribui- zare la voce, di dire “no, adesso sce risente fortemente dei condi- basta, non ci stiamo più”? Nulzionamenti imposti dall’ambien- la, semplicemente nulla. Eppure te esterno. Il suo ambiente, il suo siamo lì, bloccati, paralizzati, inmondo e non già il nostro. Per- capaci di muoverci e di scendere ché allora tanto silenzio di fronte in campo per contestare un sisteal dilagare di giudizi, di etichet- ma che ci sta letteralmente softe, di valutazioni espresse a mo’ focando. di sentenze? Come mai tanto Spiace – e francamente deprime mutismo mentre fuori ci declas- – vedere che, di fronte agli indisano, svalutando le nostre capaci- gnados spagnoli, greci e statunità e potenzialità? Chi è causa del tensi, l’Italia sia rimasta silente.


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Non tanto perché manchevole di contro la riforma Gelmini, passpunti e proposte di riflessione, sando per la contestazione di un quanto piuttosto per la mancan- mondo ormai globalizzato nel za di volontà e determinazione quale siamo profondamente imnel perseguimento di uno scopo, mersi. In atri termini, in Italia nel raggiungimento di un obiet- non si è assistito a reale malcontivo, nell’espressione di pensieri tento fatto di idee, obiettivi e e parole spontanee ma sincere. Se proposte da avanzare a coloro nei processi di transizione demo- che attualmente governano il cratica (ma non solo), l’“effetto paese e l’economia: tutto questo domino” è dato quasi sempre per non si è verificato, finendo così scontato – per cui accade che se per sminuire – o ridurre ad ovun paese passa da un regime to- vietà – un movimento di uomini talitario ad uno democratico, con e donne che, negli altri paesi, ha molta probabilità le nazioni li- rappresentato quella “maggiomitrofe sperimenteranno lo stes- ranza silenziosa” che, nella maggior parte dei caso fenomeno –, un si, costituisce la tale principio non Ferrarotti: ogni base di ciascun può essere applicaprocesso di camto tout court a ma- manifestazione è utile biamento. nifestazioni di rab- solo come cassa di «Le manifestaziobia e di protesta che coinvolgono risonanza dei problemi, ni di piazza – ha spiegato a tal prouna popolazione ma senza soluzioni posito il sociologo piuttosto che un’altra. In Spagna, in Grecia e Franco Ferrarotti – sono solo delnella civilissima America, mi- le casse di risonanza, utili per gliaia di giovani sono scesi in gridare a gran voce i problemi, piazza, contestando liberamente ma di certo non rappresentano la e pacificamente un sistema di va- soluzione. La protesta deve dilori che li ha mortificati, sottova- ventare progetto nazionale, altrilutati, ignorati, comportandosi menti altro non è che una grossa esattamente come se non esistes- perdita di tempo e di energia». sero. Che li ha privati – e conti- Considerata la drammatica e prenua a privarli – di un futuro, di occupante situazione in cui versa un lavoro dignitoso e di una pen- il paese, di tempo – ma sopratsione con cui affrontare serena- tutto di energie – da perdere ne abbiamo ben poco; per questo, mente l’età avanzata. Il corteo di indignados italiani occorre che chi si espone in priche il 15 ottobre scorso ha sfila- ma persona nelle pubbliche piazto per le vie della Capitale ha fi- ze abbia come motore della pronito inevitabilmente per ripro- pria azione quello di generare un porre schemi e fotogrammi già nuovo patto sociale tra le diverse visti in altre occasioni: dalla pro- forze in campo. Un progetto di testa del G8 alle manifestazioni ampio respiro che contenga in sé

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quegli elementi essenziali per far piuttosto ripartire dalla consapesì che l’Italia ritrovi la consape- volezza che una lunga fase storica volezza delle proprie potenzialità si è chiusa – e della mala gestio di e peculiarità, senza perciò di- questa lunga fase ne stiamo pementicare di tenere ben presenti santemente pagando le consei propri limiti e debolezze strut- guenze ora -, mentre l’apertura di un nuovo ciclo si fa sempre turali. Se infatti si continua a sostenere più impellente. di mutare gli equilibri e gli as- Secondo lo storico Arnold Joseph setti attuali ignorando le vistose Toynbee, la vita di una civiltà è lacune che tutti noi conosciamo essenzialmente caratterizzata dal – debito pubblico, una pubblica binomio sfida/risposta: quando amministrazione solo in parte ri- un gruppo o un individuo riesce formata, una scuola che ancora a rispondere alle difficoltà delnon è in grado di formare perso- l’ambiente circostante, si dà la ne consapevoli e aperte al ragio- civiltà; nel caso contrario, quando cioè predomina namento, un fal’assenza di creatimilismo amorale Un popolo nasce e vità, si dà la decache uccide e soffodenza. Un popolo ca i talenti di chi progredisce quando nasce e progredisce non ha santi in con determinazione nel momento in Paradiso – si ricui, con determischierà anche in affronta le avversità nazione e persevefuturo di perpe- del suo tempo ranza, fronteggia trare gli stessi errori, rifuggendo così il compito le avversità del suo tempo, nella spettante a ciascuno di noi di as- piena consapevolezza che gli sumersi le rispettive responsabi- ostacoli materiali sono soltanto il lità. Il Vecchio continente – e in primo step di un percorso articoparticolare l’Italia – è un conti- lato fatto di battaglie emotive, nente stanco, ripiegato su se stes- avvincenti, appassionate e semso, che rischia di arenarsi sulla ri- pre nuove. Toynbee riassumeva petizione di scelte del passato e questo pensiero nel concetto di sulla coltivazione di diritti ac- “eterizzazione” o smaterializzaquisiti ma non più onorabili. Co- zione, riferendosi con questi terme ha giustamente ricordato mini alla necessità di passare a liPiero Ostellino sul Corriere della velli evolutivi non troppo conSera, l’Italia è un paese in declino nessi alla materia. Esattamente perché le sue fondamenta istitu- quello che sta accadendo oggi: il zionali, la sua cultura politica, i fatto di essere troppo legati al suoi rituali sociali, il suo sistema “qui ed ora”, al momento contineconomico, sono ancora quelli di gente, alla materia giustappunto, una fase storica defunta. Defunta ci impedisce di guardare oltre giustappunto e, in quanto tale, noi stessi, oltre la nostra persona non più riesumabile; bisogna e il nostro essere, finendo per di-


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IL PERSONAGGIO

Il mondo di oggi spiegato da Toynbee Storico che dette sempre ampio spazio allo studio del mondo classico, fu autore di numerose pubblicazioni, nelle quali emerge spesso la sua polemica contro le concezioni eurocentriche; tale polemica si sviluppò parallelamente al tentativo fatto da Toynbee di abbracciare, con metodo comparativo, la storia universale. Tra le opere A study of history (10 voll., 1934-54). Tra le sue opere si ricordano Civilization on trial (1948; trad. it. 1983) e A study of history, in cui si affronta il problema della genesi, dello sviluppo e della crisi delle civiltà. Toynbee ha dato un’esposizione della storia universale di derivazione spengleriana: ogni civiltà nasce dal vigore originario d’una “risposta” (response) alla “sfida” (challenge) dell’ambiente fisicosociale, ed è una vicenda di sviluppo e decadenza. Toynbee ha analizzato l’eredità storica di Annibale in un’opera (Hannibal’s legacy, 2 voll., 1965; trad. it. 1981), in cui si rappresentano le condizioni del mondo mediterraneo nell’età del grande cartaginese, e gli effetti dell’invasione di Annibale nell’assetto economico, sociale e anche politico della penisola italiana. Tra le altre opere: An historian’s approach to religion (1956; trad. it. 1984); Change and habit (1966); Some problems of Greek history (1969).

stogliere l’attenzione da quelle circostanze che, in un modo o nell’altro, condizionano la nostra quotidianità. Perché quindi non fermarsi un istante a riflettere, smaterializzando le nostre vite e salendo un gradino più su rispetto a quello della necessità e dell’impellenza? I giovani italiani – quell’enorme segmento sociale che, per il nostro paese, rappresenta la spina dorsale, la linfa vitale, il motore propulsivo, la possibilità di riscatto e di propensione verso il futuro – vivono attualmente un periodo di profondo smarrimento e frustrazione: a differenza dei loro genitori, non hanno la certezza di un’occupazione sicura, e di conseguenza non scorgono all’orizzonte alcuna possibilità di costruirsi un avvenire sereno e appagante. Sebbene siano consapevoli che il mondo del lavoro resta accessibile a determinate condizioni – basta conoscere la persona giusta e tutte le porte magicamente si aprono –, a differenza di chi li ha generati, non chiedono una raccomandazione o una segnalazione al potente di turno. Chiedono piuttosto di essere presi in considerazione, di essere messi alla prova, di dimostrare quello che valgono, sfidando le proprie capacità e i propri limiti: tutti uguali al punto di partenza, diceva un noto politico persosi poi per strada, ma la differenza si vedrà al punto di arrivo. Ed ecco ancora una volta tirare in ballo il tanto reiterato – e a volte anche abusato – concetto della “meritocrazia”:

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secondo John Locke, ogni società verso telematico – ma pur sempre doveva essere sì stratificata – e reale e oggettivo – che racchiude quindi diversificata al suo inter- in sé non solo sterili lamentele e no –, ma ciò doveva accadere fa- doglianze di ogni genere; comcendo riferimento al merito e prensione ed ascolto debbono esnon già a criteri come la nascita, sere riscoperti da chi oggi guida il sesso, la lingua o la religione. questo paese (maggioranza e opSicuramente un grande insegna- posizione insieme). mento e un monito di cui tener Per molto tempo, l’Italia – e conto; ma allora cosa c’è dietro il con essa il suo tessuto sociale e mutismo e il silenzio dei giovani civile – ha conosciuto il mito italiani? Perché la maggior parte del posto fisso, della sicurezza di essi non riesce a andare oltre fornita da un impiego statale e la sterile protesta e la fisiologica da incarichi pubblici studiati – e pensati – per promuovere Tiindignazione? Una possibile spiegazione po- zio piuttosto che Caio. Per favorire gli amici detrebbe essere data gli amici e i conodal fatto che, di È nella rete che scenti dei conofronte ad una classe politica che si annidano le speranze scenti. Nel giro di qualche lustro, continua a igno- e le paure di una siamo quindi dirarli, i ragazzi di ventati la “repuboggi abbiano con- generazione che si sapevolmente ri- sente orfana del futuro blica dei mediocri” (copyright di nunciato a esercitare quella preziosa funzione di Giuliano Ferrara): abbiamo ristimolo, proposta e sollecitazione nunciato cioè alla valorizzazione verso i rappresentanti istituzio- di idee innovative e giovani, nali. A questo va aggiunto che il avallando invece le posizioni di potere universalizzante del web coloro che inorridivano allora e ha di fatto catturato le energie e inorridiscono oggi al solo penle risorse di chi oggi si affaccia al siero di potersi congedare da un futuro, finendo così per riversare mondo del lavoro nel quale in quello spazio le idee ed i pen- hanno già dato prova di sé. Un sieri che ognuno di noi coltiva circolo vizioso fatto dei soliti nel tempo. Tuttavia, se è vero volti, dei soliti soggetti e delle che, come sosteneva Marshall solite teorie fabbricate ad hoc McLuhan, «il mezzo è il messag- per convincerci che proprio non gio», allora è proprio nella rete c’è nulla da fare; che dobbiamo che si annidano le speranze e le rassegnarci e continuare a crepaure di una generazione orfana dere che in Italia tutto debba del mondo che, fino a poco tem- andare sempre per il verso storpo fa, l’ha sempre protetta e so- to. Gli uomini che suggeriscono stenuta. Non resta quindi che all’attuale classe dirigente di laporsi in sintonia con quell’uni- sciare la guida del governo sono


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gli stessi che, in passato, hanno creduto con fermezza nello Stato quale risolutore di ogni nefandezza, di ogni stortura e di qualsiasi oltraggio venisse perpetrato nei loro confronti o nei confronti delle aziende che essi stessi controllavano. Il dissenso – sia esso aspro, pronunciato con veemenza o con insolita calma – è non tanto il sale, quanto il senso di una democrazia compiuta e desiderosa di migliorarsi; ma cosa accade quando la contestazione ha come obiettivo l’acquisizione di ruoli di comando e gestione tecnica del potere e non già la rinascita di un sistema – paese ormai agonizzante e bisognoso di cure? Siamo davvero sicuri che la gran parte degli italiani sia ancora disposta a restare zitta, incapace di discernere tra chi vuole sinceramente il bene della nazione e chi invece spera in un suo tracollo? L’immobilismo, unitamente alla mancanza di idee e di stimoli, non porta da nessuna parte: non arricchisce nessuno, inutile ribadirlo, ma al contempo contribuisce ad acuire quel senso di smarrimento e frustrazione di cui si accennava in precedenza. La costruzione di una società pienamente dinamica e meritocratica significa, secondo l’economista Irene Tinagli, non solo premiare chi raggiunge certi risultati, ma mettere tutti nella condizione di poterci arrivare: dare a tutti l’opportunità di crescere bene, di avere accesso alla migliore istruzione, di rea-

lizzare il proprio talento e le proprie legittime ambizioni. Far crescere – e sostenere – una gioventù stereotipata, poco spontanea e scarsamente incline alla sperimentazione di novità non giova a nessuno, tantomeno a coloro che, sulle generazioni future, dovrebbero almeno riporre un briciolo di fiducia e un quantitativo non troppo limitato di speranza. Fiducia e speranza per l’appunto: oggi le abbiamo smarrite. Cerchiamo di unire le forze per ritrovarle tutti insieme.

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L’Autore angelica stramazzi Specializzanda in Sistemi e modelli politici all’Università di Perugia, collabora con Spinning Politics, testata on line di comunicazione politica. Corrispondente locale de La Provincia Quotidiano, svolge attività di consulente politico, occupandosi di comunicazione politica ed istituzionale.



SHOCK ECONOMY Roberto Pasca di Magliano

Salviamo il Mezzogiorno per far crescere l’italia

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e il paese non riesce a ridurre il disavanzo tra Nord e Sud sarà impossibile tornare a crescere. La “questione meridionale” deve essere il primo punto dell’agenda economica del governo, bisogna saper investire i soldi dell’Unione europea. Ma soprattutto credere in tale progetto.

DI ROBERTO PASCA DI MAGLIANO

La “questione meridionale” nell’Unità incompiuta

La “questione meridionale” nasce nel 1873 con il deputato radicale lombardo Antonio Billia, che evidenziò la drammatica situazione economica e sociale in cui versavano quei territori precedentemente parte del Regno delle Due Sicilie. La questione meridionale fu un grande problema nazionale dell’Italia unita. Il problema riguardava le condizioni di arretratezza economica e sociale delle province annesse al Piemonte nel 186061 (rispettivamente gli anni della spedizione dei Mille e della proclamazione del Regno d’Italia). I governi sabaudi avevano voluto instaurare in queste province un sistema statale e burocratico simile a quello piemontese. L’abolizione degli usi e delle terre co-

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muni, le tasse gravanti sulla popolazione, la coscrizione obbligatoria e il regime di occupazione militare con i carabinieri e i bersaglieri, creò nel Sud una situazione di forte malcontento. Da questo malcontento vennero fuori alcuni fenomeni: il brigantaggio, la mafia e l’emigrazione al nord Italia o all’estero. Il brigantaggio la risposta violenta a una politica sbagliata del governo Dopo l’Unità d’Italia vi fu un rigetto nei confronti del governo da parte della povera gente del meridione. Tale rigetto si manifestò fra il 1861 e il 1865 con il fenomeno del brigantaggio, che si localizzò in Calabria, Puglia, Campania e Basilicata, dove bande armate di briganti iniziarono vere e proprie azioni di guerriglia nei confronti delle proprietà dei nuovi ricchi. I briganti si rifugia-


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vano sulle montagne ed erano protetti e nascosti dai contadini poveri; ma ricevettero aiuto anche dal clero e dagli antichi proprietari di terre che tentavano, per mezzo del brigantaggio, di sollevare le campagne e far tornare i Borboni. Fra i briganti, oltre ai braccianti estenuati dalla miseria, c’erano anche ex garibaldini sbandati ed ex soldati borbonici. Non mancavano poi numerose donne audaci e spietate come gli uomini. La politica di repressione adottata nei confronti dei briganti fu durissima, per debellarli furono impiegati 120mila soldati (la metà dell’esercito italiano) comandati dal generale Cialdini. Si scatenò una guerra intestina che portò a un numero molto elevato di morti, in particolare fra i briganti e i contadini che li appoggiavano: il brigantaggio venne debellato nel 1865. Le conseguenze furono però nefaste: l’emersione dei primi fenomeni di divario fra Nord e Sud; un’esaltazione dei briganti le cui figure vennero paragonate nell’immaginario popolare a quelle di “eroi buoni”. La stessa capitolazione del Regno delle Due Sicilie a Gaeta non segnò l’inizio di una nuova stagione per il Sud, ma solo l’inizio di una capillare colonizzazione imposta dal conquistatore. Le condizioni economiche e sociali dell’Italia meridionale non migliorarono e cominciarono ad alimentare ondate di emigrazione sia verso il Nord Italia sia all’estero per sfuggire alle difficol-

tà di trovare lavoro e di inseguire un tenore di vita se non dignitoso almeno accettabile. Si stima che, fra il 1876 – anno in cui si cominciarono a rilevare ufficialmente i dati – e il 1985, circa 26,5 milioni di persone lasciarono il territorio nazionale. Tra il 1951 e il 2008 la popolazione del Sud si è ridotta di quattro milioni di persone. Nei primi anni Sessanta lasciavano il Meridione in 300mila l’anno. Alla fine degli anni Ottanta l’ondata migratoria sembrava esaurita e invece, tra il 1997 e il 2008, sono emigrati in 700mila. «Nel solo 2008 il Sud ha perso oltre 122mila residenti, trasferitisi nelle regioni del Centro Nord, a fronte di un rientro di 60mila persone: una perdita di popolazione tripla rispetto a quella degli anni Ottanta» si legge nel volume di Bianchi e Provenzano. La perdita di capitale umano è aggravata dal pendolarismo temporaneo di 173mila persone, quasi tutte altamente scolarizzate, che nel solo 2008 sono emigrate senza cambiare residenza. L’emigrazione fu, quindi, una delle più gravi conseguenze della mancata risoluzione della questione meridionale da parte dei governi italiani. Diversi furono gli intellettuali, ma anche i politici, che analizzarono le cause e denunciarono la recrudescenza della questione meridionale. Tra i più importanti troviamo lo storico socialista Gaetano Salvemini (1873-1957), che denunciò l’arretratezza del Mezzogiorno se paragonata al


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FOCUS

1860: spedizione dei Mille di Garibaldi, annessione del Sud e unificazione dell'Italia. 1861: proclamazione del Regno d'Italia; elezioni a suffragio ristretto (vota il 2% ossia i più ricchi); destra liberale al governo. 1866: annessione del Veneto (terza guerra di indipendenza). 1870: conquista di Roma.

1943-45: Italia divisa, al Nord Est la Repubblica di Salò, il Sud agli Alleati. Accordo di Bretton Woods (22 luglio 1944). Istituzione del Fondo monetario Internazionale (1946) e della Banca Mondiale (1945). 1946, 2 giugno: proclamazione della Repubblica. 1948-53: Ia legislatura repubblicana e avvio del Piano Marshall. Inizio della stabilità del cambio dollaro-lira che resterà fino al 1971.

1873: nascita della questione meridionale. 1876: sinistra liberale al governo. 1882: allargamento del suffragio (è ammesso al voto il 7% della popolazione più ricca).

1954-63: “miracolo economico italiano” con elevati tassi di crescita. 1964-83: governi brevi instabili, aumento della spesa pubblica e del debito, abolizione della convertibilità aurea del dollaro e fise dei cambi fissi (1976).

1887-91: primo governo Crispi. 1893-96: secondo governo Crispi con tendenze autoritarie (scioglie le organizzazioni socialiste fra cui i Fasci siciliani); nel 1896 comincia l'avventura coloniale con la guerra contro l'Etiopia e la sconfitta di Adua. Segue un periodo di forte autoritarismo che culmina nella sanguinosa repressione (1898) dei moti popolari di Milano contro il caro vita. Nascita della Banca d’Italia (1893). 1903: governo Giolitti, viene tollerata la crescita pacifica del movimento operaio socialista. 1911: guerra coloniale di Libia.

1983-86: primo governo stabile dopo gli anni ’50, crescita del debito pubblico. 1987-96: governi brevi e instabili, crescita del debito pubblico, approvazione del Trattato di Maastricht sul contenimento del debito pubblico (1992). 1996-2001: governo di legislatura di centro-sinistra, crescita del debito pubblico. Debutto dell’euro (1999). Entrata in circolazione dell’euro (1 gennaio 2002). Istituzione della Banca centrale europea. 2001-2006: governo di legislatura di centrodestra, crescita del debito pubblico.

1913: suffragio universale maschile. 1915-18: prima guerra mondiale.

2006-2008: governo breve di centrosinistra, crescita del debito pubblico.

1922-1943: ventennio fascista che comprende quel periodo storico italiano che va dalla presa del potere di Benito Mussolini il 30 ottobre 1922 fino alla fine della sua dittatura, avvenuta il 25 luglio 1943.

2008: governo di centrodestra, crisi finanziaria, stabilizzazione del debito pubblico in rispetto delle nuove regole europee di stabilizzazione, crisi debitoria in alcuni paesi dell’Eurozona (Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna).

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decollo economico avviato nel tra operai del Nord e contadini Nord grazie alle politiche varate del Sud nell’intento (non riuscida Giolitti. A giudizio di Salve- to) di realizzare una rivoluzione mini, la politica di Giolitti per socialista italiana. il Sud fu fallimentare, tanto che lo definì “il ministro della mala- Pochi gli elementi unificanti, molvita” per il cinismo con cui, con te le differenze e i divari l’aiuto della mafia, approfittava L’Italia post-unitaria si scoprì dell’arretratezza e dell’ignoranza profondamente diversa dopo sedel Sud per raccogliervi consen- coli di divisioni e acerrimi consi, in collusione con i poteri ma- flitti che hanno contrapposto lavitosi1. popolazioni pur della stessa oriSalvemini considerava l’indu- gine e radicato sistemi di vita strializzazione estranea alle con- radicalmente diversi. Lo Stato di dizioni economiche e geografi- maggiore dimensione e relativache del Sud e avrebbe voluto in- mente più ricco era proprio il Regno delle Due vece che si valorizzasse la sua vo- Dopo la morte di Cavour Sicilia e, la cui politica, per ignavia cazione agricola. dei suoi governanAttaccò il Psi e la i governi successivi ti, risultò perdenCgil accusandoli si avventurarono in te, facendo invece di favorire la classe operaia setten- una “piemontizzazione” predominare la strategia più illutrionale a danno del Sud catastrofica minata e pragmadei contadini metica del Regno di Sardegna, che ridionali. Tuttavia, i governi nazionali non sotto la guida di Camillo Benso furono dello stesso avviso e agi- conte di Cavour avvio un prorono a loro modo optando per gramma di annessione-integraleggi speciali e per interventi lo- zione delle province meridionacalizzati. Le leggi speciali preve- li. Dopo la prematura scomparsa devano la concessione degli sgra- di Cavour, i governi successivi si vi fiscali alle industrie e l’incre- avventurarono in una discutibile mento delle opere pubbliche. La “piemontizzazione” del Sud, che spesa pubblica cominciò a cre- fu all’origine di molti disastri e scere e andò ad alimentare molti di aggravamento delle divergenceti improduttivi e parassitari, ze Nord-Sud. che garantivano voti alla maggioranza al governo in cambio di Gli aspetti comuni appalti di opere pubbliche e di Pur se accomunata da una comualtri favori. ne tradizione culturale e artistica, Un altro intellettuale di spicco, l’Italia era nei fatti divisa: l’unifiAntonio Gramsci (1891-1937), cazione era presente nella religionel primo dopoguerra ideò una ne cattolica e nella povertà, neanstrategia che mirava all’alleanza che nella lingua per il prevalere


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dei dialetti e l’abitudine diffusa sione del lessico italiano e civile. nelle Corti di utilizzare lingua Differenze che si sarebbero poi consolidate in crescenti divari straniere. La predominanza del potere pa- strutturali. pale, agevolato dalla diffusione Caratteristica immanente delle capillare della religione cattolica, province meridionali è sempre si manifestava con evidenza su stata la densità demografica comolti Stati della penisola e sulle stantemente superiore rispetto al scelte politiche. Resta famosa la suo contributo alla ricchezza nafrase di Ferdinando II, che si sen- zionale. Attualmente nel Mezzotiva al sicuro perché protetto giorno si concentra oltre il 30% «dall’acqua salata e dall’acqua be- della popolazione italiana, ma vi nedetta», ossia dal mare e dalla si realizza meno di un quarto del presenza dello Stato della Chiesa. prodotto interno lordo. IneluttaDiffusa era la povertà in ogni bile è il riflesso sul Pil pro-capite parte dei territori italiani, forse il cui livello oscilla tra il 55% e il 60% di quello più nelle regioni settentrionali ri- Nel Mezzogiorno si con- medio delle altre aree italiane. Per spetto alla Sicilia, colmare questo alle province napo- centra oltre il 30% svantaggio il letane e alla Sarde- della popolazione, Mezzogiorno sagna. Il diffuso starebbe dovuto creto di povertà e ar- ma si realizza meno scere più rapidaretratezza delle po- di un quarto del Pil mente del Centro polazioni rispecchiava al momento dell’unifica- Nord: le politiche pubbliche zione condizioni economiche so- avrebbero dovuto innescare aziostanzialmente equilibrate nelle ni responsabili di sviluppo, capaci di mobilitare risorse umane e diverse parti del paese. fisiche locali. Compito certo non facile e che nell’esperienza dei Le divergenze È sorprendente notare che il Pil 150 anni dell’Unità d’Italia non pro-capite era sostanzialmente si è riuscito a realizzare nonoomogeneo tra le diverse province stante il cospicuo trasferimento italiane, mentre abissali erano le di risorse finanziarie e il dispiedifferenze che si manifestavano gamento di enti mirati e l’introlungo la penisola con una evi- duzione di legislazioni di favore. dente recrudescenza nei territori Diversamente da altri paesi che del Regno borbonico. Differenze pur hanno dovuto affrontare che riguardavano le abitudini so- complessi problemi di integraciali, i sistemi di vita e di so- zione (Germania), non si può dipravvivenza, la persistenza di for- re che l’Italia post-unitaria sia ti divari tra le città e gli ambien- riuscita nell’intento di attuare ti rurali, l’abitudine a non pagare efficaci politiche capaci di cortasse e anche la scarsa compren- reggere i divari strutturali senza

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Fig.1 - Pil pro-capite in Italia, 1861-2004 (prezzi costanti al 1911)

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(1) Le aree grigie rappresentano i periodi di congiuntura economica negativa di fonte NBER foNtE: ns. elaborazioni da Daniele V e Malanima P., (2007)

degradare nell’assistenzialismo. In seguito all’Unità d’Italia le differenze con il Regno delle Due Sicilie non apparvero subito evidenti dal punto di vista economico ma piuttosto in termini di organizzazione civile, d’infrastrutture, di dotazione del capitale fisso sociale. (fig. 1) L’evoluzione del divario nel Pil pro-capite può essere storicamente articolata in cinque fasi: la prima si manifesta dal 1881 al 1914, quando il Pil meridionale scende all’80% di quello nazionale, la seconda, dopo la fine della prima guerra mondiale, abbraccia tutto il periodo in cui l’Italia fu dominata dal fascismo; anche in quel periodo, nonostan-

te il diffuso ricorso a procedure autoritarie, la forchetta continua ad ampliarsi. Il periodo della seconda guerra mondiale e quello immediatamente successivo provocò l’interruzione di ogni politica per il Mezzogiorno e solo a partire dagli anni ‘50 con il Governo De Gasperi si può considerare una terza che abbraccia la ricostruzione e l’intervento straordinario, protraendosi fino agli anni Settanta; e proprio in questo periodo il divario si allarga e comincia ad assumere un carattere patologico. Dopo gli shock petroliferi degli anni Settanta, si può riconoscere una quarta fase che si estende


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fino agli inizi del 2000; i quel periodo vennero avviate diverse politiche nazionali ed europee a favore delle aree meno sviluppate, ma i divari continuano a inasprirsi. L’ultima fase, quella in atto, vede un’ulteriore inasprimento dei divari a fronte di una grave carenza di politiche di sviluppo e di assenza di nuove visioni strategiche che dovrebbero invece orientare il Mezzogiorno a modello di sviluppo per l’intero Mediterraneo. Nel 1891, in Italia, gli squilibri regionali risultano modesti. Se in alcune regioni dell’Italia NordOccidentale, come Liguria e Lombardia, i livelli di reddito pro-capite erano significativamente superiori alla media nazionale, anche nel Mezzogiorno alcune aree erano relativamente prospere. In Campania il reddito pro-capite era comparabile a quello della Lombardia, mentre in Puglia e nelle isole maggiori era analogo a quello medio nazionale. Una situazione di relativo ritardo caratterizzava alcune regioni del Mezzogiorno, come Abruzzo e Calabria, mentre nel Nord il Veneto appariva come la regione più arretrata. Le condizioni economiche dei diversi territori erano, quindi, molto simili e le differenze esistenti nei livelli del reddito pro-capite non potevano giustificare alcuna divisione secondo la linea Nord-Sud. Solo nel primo decennio del Novecento cominciano a delinearsi contorni di una nuova geografia economica. Nelle tre regioni del “triangolo industriale”, il Pil

pro-capite cominciava ad accelerare, mentre in quelle del Mezzogiorno iniziava il declino, anche se in misura diversa. Nel 1911 la Campania era l’unica regione del Sud con un reddito pro-capite superiore a quello medio italiano. Nel 1921 il Mezzogiorno diventa a tutti gli effetti un’area in ritardo di sviluppo. Tra il 1931 e il 1951 le differenze interne al Mezzogiorno divengono più sfumate: le regioni in passato più ricche arretrano sensibilmente e il reddito pro-capite risulta nettamente inferiore a quello delle regioni meno sviluppate del Centro. Le regioni meridionali divengono più simili tra loro. Nel 1951 il divario tra Centro-Nord e Mezzogiorno diventa evidente e l’Italia assume i caratteri di un’economia dualistica. In tutte le regioni dell’Italia Centro-Settentrionale, a eccezione delle Marche e dell’Umbria, il reddito pro-capite è superiore a quello medio nazionale; nella regione meridionale più ricca, la Campania, raggiunge appena il 68%; in Calabria, Abruzzo, Molise e Basilicata il reddito pro-capite è circa la metà di quello dell’Italia. Al momento dell’Unità non vi erano differenze economiche tra le due aree del paese. In un paese complessivamente arretrato rispetto alle grandi nazioni europee, le regionali nella suddivisione della ricchezza e della povertà appaiono contenute se non irrilevanti, mascherando piuttosto forti differenze locali, dipen-

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denti dalla disponibilità o caren- decentramento amministrativo su za di risorse immobili e segnala- base regionale tramite quello che te dalla relativa concentrazione potremmo definire un federalispaziale di popolazione e attività smo responsabile regionale. Anche Mazzini nel 1861 dichiaproduttive. Ben si comprende, quindi, come rava la sua preferenza per un mola questione meridionale si sia dello che avrebbe dovuto «ricosclerotizzata al punto da divenire noscere la regione quale ente in“il problema nazionale”. Sembra termedio fra la nazione e il coquasi che non vi sia alcuna solu- mune», precisando che “l’Unità zione, che non esistano vie diver- non doveva identificarsi necessase e più efficaci per stimolare la riamente con l’accentramento”. valorizzazione delle tante risorse Mazzini sosteneva quindi la neumane e fisiche disponibili, in- cessità di conciliare l’unità politerrompendo un degrado che tico-costituzionale con «una ben intesa autonomia e autarchia delsembra non aver limiti. le regioni, per tutDagli anni Noto quanto riguarvanta numerosi e Nitti cercò di risolvere dava l’attività legireiterati tentativi slativa, esecutiva e vengono compiuti il problema tentando amministrativa dai governi per ri- di industriailizzare avente ad oggetto durre il divario materie di interesesistenti tra le due la città di Napoli, se locale». Del rearee, senza però ma con scarso successo sto erano gli anni riuscire nell’intento di realizzare la convergenza in cui il federalismo negli Stati economica tra le “virtuose” re- Uniti si stava consolidando ed gioni settentrionali e il Mezzo- influenzava le idee di liberalismo in Europa, che poi trovò piena giorno. Ciò dimostra l’inefficacia delle applicazione in Germania. politiche di sviluppo adottate per Francesco Saverio Nitti fu uno sollevare il Sud sul modello di dei primi ad analizzare il probleeconomia di mercato adottato ma dei divari del Sud e a cercare nelle province settentrionali e di porvi rimedio. La sua soluzioimposto al resto del paese. Del ne era di sviluppare l’industria resto neppure gli stessi fautori anche nel meridione, partendo dell’Unità d’Italia credevano che dall’industrializzazione di Napola mera esportazione del modello li, città nella quale era evidente piemontese fosse la soluzione ot- l’urgenza di un intervento: «Il timale per l’economia italiana. Il disordine della vita pubblica conte di Cavour definì una «cor- quale esso sia, è poca cosa di belleria» applicare una centraliz- fronte al disordine profondo, alla zazione autoritaria del potere, di depressione crescente della vita tipo bonapartista, al Bel Paese. economica [...] molte sono le forEgli era piuttosto favorevole a un ze ritardatrici: poche e scarse


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quelle che operano in senso utile. rio, mentre l’Italia Centrale con La borghesia è composta in gran il 25% della ricchezza pagava il parte da avvocati e medici, di 28% dei tributi e il Meridione classi che vivono dunque di due con il 27% era gravato di peso ficalamità sociali: la lite e la ma- scale pari al 32%. La tassazione lattia; mancano, fatte pochissime nel Mezzogiorno post-unitario eccezioni, elementi industriali era relativamente maggiore rispetto a quello delle regioni setoperosi». Lo Stato quindi sarebbe dovuto tentrionali, pur disponendo di intervenire per trasformare Na- un reddito inferiore. poli in un centro industriale che Analizzando, infatti, il livello avrebbe stimolato l’economia della produzione industriale agmeridionale e favorito la nascita gregata nell’Italia post-unitaria, di una borghesia produttiva. Lo emerge che inizialmente la SiciStato avrebbe dovuto varare una lia e la Campania si collocavano riforma tributaria per favorire gli al terzo e al quarto posto per l’apporto di valore investimenti proaggiunto, rispetto duttivi nel Sud so- L’Italia ha bisogno alle altre 16 regioprattutto da parte ni. Inoltre comdell’industria set- del Mezzogiorno plessivamente le tentrionale che era per sperare di avere regioni meridioin fase espansiva e nali nel 1871 avedisponeva di capi- un tasso di crescita vano approssimatali da investire, come quello europeo tivamente un peso oltre che tecnici e imprenditori capaci di realizzare simile (32,4%) al Nord-Est nuovi investimenti. Ma il pro- (34,4%), sul totale del paese. getto nittiano fu realizzato solo Tuttavia nei 40 anni successivi, in parte, con la costruzione delle tra il 1871 al 1911, il Nord acciaierie di Bagnoli, le quali pe- Ovest riusciva a distaccarsi rirò non modificarono né l’econo- spetto alle altre aree del paese, mia cittadina né tantomeno la si- accrescendo del 7,8% la sua incituazione economica complessiva denza sul totale nazionale, mentre l’ex Regno delle Due Sicilie del meridione. Fu proprio Nitti a condurre una si indeboliva progressivamente delle prime ricerche sulla diversa perdendo il 6,5% di peso nella pressione fiscale fra Centro-Nord formazione del Pil. (fig. 2) e Mezzogiorno che avrebbe ine- Nel primo ventennio dopo l’univitabilmente accentuato la spere- ficazione italiana l’aumento della quazione e il divario tra Nord e produzione agraria fu alla base Sud, gravato da una maggiore della progressiva accumulazione pressione tributaria. Le conclu- di risparmio che si concentrò in sioni furono che il Nord Italia Lombardia dove più alte erano le disponeva del 48% della ricchez- rese e le rendite per ettaro. (fig. 3) za con il 40% del carico tributa- I reiterati tentativi dello Stato,

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Fig. 2 - Produzione industriale aggregata (valore aggiunto industriale)

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Fig. 3 - Rendite per ettaro in lire, 1863

attraverso le sue articolazioni istituzionali ed economiche, di ridurre i differenti livelli di sviluppo tra le regioni italiane furono deludenti per due motivi fon-

damentali: il ricorso a un modello calato dall’alto, sullo stampo di quello francese-sabaudo, non era appropriato a mobilitare le risorse umane meridionali, radicate


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in abitudini locali e comportamenti poco compatibili con le nuove regole dell’economia di mercato. L’ingente spesa pubblica ha diffuso nei destinatari, imprese e cittadini, la coscienza che fosse lo Stato a dover sopperire alle esigenze di sviluppo, che dovesse compensare le divergenze sine die, con l’inevitabile conseguenza di alimentare assistenzialismo e diffusa deresponsabilizzazione. Nel complesso questo modo di curare i “divari” tra le due aree non ha centrato gli obiettivi di risanamento e di sviluppo, consolidando la dipendenza dall’intervento pubblico e allontanando invece la prospettiva di trarre vantaggio dal mercato per espandere fatturato e conoscenze. La “questione meridionale” rappresenta, quindi, un problema di carattere nazionale in quanto il persistente ritardo pesa negativamente sulla performance media italiana che, per riprendersi dopo le conseguenze nefaste della crisi finanziaria del 2008, ha bisogno di poter contare su tutte le regioni per mirare ad tasso di crescita almeno nella media europea. I “mali” del Mezzogiorno

Nel Meridione si sono radicati una serie di problemi che hanno dato luogo a spirali negative, “mali” intrinseci che ostacolano l’avvio di qualsivoglia processo virtuoso di stabile e duraturo sviluppo nel tempo. La distanza tra il Centro-Nord e il Sud non si limita al Pil procapite, ma a tanti altri indicatori,

come la continua migrazione delle forze giovanili verso altri regioni e verso l’estero, l’elevato numero di giovani che abbandonano gli studi (25,5% contro il 16,8% del Centro-Nord), gli studenti con scarse competenze in lettura e matematica (141,2% rispetto al 7% del Centro-Nord), l’irrilevante capacità di attrazione di investimenti dall’estero, il peso ancor maggiore rispetto al resto del paese della burocrazia, dell’inefficienza istituzionale, della corruzione, della lentezza giudiziaria, dell’economia sommersa, del trattamento dei rifiuti. Divergenze che segnano un solco tra due aree di uno stesso paese che poco si assomigliano come comportamenti e responsabilità. (fig. 4) Questi dati suggeriscono che la ripresa del Mezzogiorno non dipende dall’entità dei trasferimenti pubblici ma dal grado di efficienza delle istituzioni e dalla capacità di mobilitare le risorse umane e fisiche. L’economia del Mezzogiorno ha bisogno di far crescere le imprese e la concorrenza nei mercati, liberandosi dal peso del settore pubblico che al Sud raggiunge il 22,2% del prodotto, contro il 12% circa del Centro Nord. Economia sommersa e criminalità organizzata

La criminalità organizzata ostacola lo sviluppo delle imprese rivolte al mercato in quanto opera in condizioni di protezione assoluta per coloro che partecipano alle sue losche attività. Ma il suo

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Fig. 4 - Divari al 2010

foNti: elaborazioni da Banca d’italia, istat, Ministero Economia e finanza, Svimez, formez.

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potere non si limita ad alterare la concorrenza, accresce i costi per le aziende e per i cittadini, distorce la concessione del credito, attrae forza lavoro con facili guadagni distogliendola da impieghi produttivi. La presenza della malavita, ha caratterizzato la storia delle regioni meridionali e si è andata estendendo nei settori più redditizi, alimentando la corruzione nel privato come nel settore pubblico con ripercussioni negative sul comportamento della collettività e sulla crescita economica2. Le stime effettuate dall’Istat3 sull’economia sommersa evidenziano che nel 2008 il valore aggiunto generato dalla componente informale a delle attività economiche era compreso in una forbice tra i 255 e i 275 miliardi di euro con un’incidenza sul Pil

nazionale superiore al 20%. L’influenza dell’economia irregolare è maggiore nel Sud del paese come mostrano i dati relativi al peso dei lavoratori in nero, la cui incidenza sul totale della forza lavoro raggiunge il 20% nel Meridione, contro l’8,9% del Nord e il 10,2% del Centro. Fatta eccezione per l’Abruzzo, tutte le regioni meridionali presentano un’elevata quota di lavoro irregolare con dimennsioni che vanno da circa il 15% della Puglia a oltre il 27% della Calabria. Lo scarto di quest’ultima nei confronti della regione più virtuosa, l’Emilia Romagna, è di circa 20 punti percentuali. (fig. 5) I flussi migratori

Fra il 1951 e il 2008 la popolazione del Sud si è ridotta di quattro milioni di persone. Nei primi


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Fig. 5 - Il peso dei lavoratori irregolari nel 2009 (% sul totale dei lavoratori)

foNti: elaborazioni dati Confindustria.

anni Sessanta lasciavano il Meridione in 300 mila l’anno. Poi, alla fine degli anni Ottanta, il flusso migratorio sembrava esaurito. Invece, fra il 1997 e il 2008, se ne sono andati in 700mila. «Nel solo 2008 il Sud ha perso oltre 122mila residenti, trasferiti nelle regioni del Centro-Nord, a fronte di un rientro di 60mila persone: una perdita di popolazione tripla rispetto a quella degli anni Ottanta»4. A questo si deve aggiungere il pendolarismo temporaneo: quello di 173mila persone, e quasi tutte altamente scolarizzate, che nel solo 2008 sono emigrate senza cambiare residenza, che rendono «allarmante» la dinamica migratoria. Le difficoltà della crescita economica e i ritardi a livello europeo Lo scenario che si è presentato nella prima metà del 2010 e le previsioni di medio periodo confermano i divari fra Nord e Sud: nel prossimo biennio saranno le regioni centro-settentrionali a es-

sere caratterizzate da un forte impulso produttivo, che permetterà loro di raggiungere le performance europee, mentre il Mezzogiorno resterà penalizzato dati i ritardi strutturali che da sempre ne condizionano lo sviluppo economico. (fig. 6) La ripresa degli scambi internazionali, infatti, avvantaggerà le economie basate sull’esportazione, tipiche dell’area settentrionale, mentre è probabile che le regioni del Sud sconteranno una minore accessibilità al credito che penalizzerà ulteriormente il loro tessuto produttivo. Interessante è notare che oltre alla presenza di divari “verticali” a livello nazionale, anche all’interno dello stesso Mezzogiorno vi sono differenti livelli di crescita. Alcune regioni infatti traggono benefici dalle risorse turistiche e da forme d’industrializzazione leggera, mentre altre permangono in situazioni di carenza infrastrutturale o di diffusa criminalità che rendono difficile un per-

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Fig. 6 - Stime di crescita per il biennio 2010-2011 (variazione percentuale annuale)

foNtE: ns, elaborazione su dati Confcommercio.

Fig. 7 - Pil pro-capite all'interno delle regioni meridionali, 2009 (valori in euro)

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foNtE: ns, elaborazione su dati istat.

corso univoco di sviluppo. Nel 2009, in termini di Pil procapite, tutte le regioni meridionali si sono collocate sotto la media italiana e che si riscontrano ampie differenze all’interno di questa macro-area. (fig. 7) Il Mezzogiorno non è l’unica area a manifestare un ritardo nello sviluppo all’interno dell’Unione europea, ma mentre le altre regioni denominate a “Obiettivo 1”5 (con struttura economica simile a quella italiana) hanno intrapreso un percorso di crescita verso i valori medi comunitari, il Mezzogiorno non mostra segnali di mi-

glioramento. Il Pil procapite del Meridione continua a collocarsi, infatti, a livelli più bassi rispetto alla media europea e la sua evoluzione, tra il 2000 e il 2007, ha presentato un tasso di crescita inferiore rispetto alle altre aree a “Obiettivo 1”. (fig. 8) Guardando alle politiche economiche messe in campo per ridurre i divari territoriali, possiamo confrontare la strategia italiana con quella tedesca orientata all’integrazione delle regioni orientali dopo la caduta del muro di Berlino. Fra gli elementi comuni delle due strategie governative vi è solo


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Fig. 8 - Sviluppo economico tra le singole regioni europee (UE27=100) Distribuzione% del Pil pro-capite -2007

Variazione% del Pil pro-capite -2007 su 2000-

il ricorso massiccio all’impiego di risorse pubbliche, ma i risultati sono radicalmente differenti tanto che si è arrivato ad affermare che «i 20 anni tedeschi sono migliori dei 150 italiani». Dal 1989 al 2009, le regioni tedesche in ritardo hanno registrato una crescita del Pil pari al 163%, di quattro volte superiore rispetto a quella dei länder dell’Ovest, contribuendo a circa il 20% della ricchezza nazionale. Tutto ciò è stato favorito da un miglioramento delle infrastrutture, dallo smantellamento del sistema economico ormai arretrato e soprattutto da un notevole trasferimento di tecnologie e competenze, merito della forte sinergia tra industria e centri di ricerca pubblici e privati. (fig. 9)

ternazionale e aggravano la capacità di attrazione di capitali esteri. Il Global Competitiveness Index colloca l’Italia nel 20102011 alla 48esima posizione. Nel decennio tra il 1999 ed il 2009 la quota di investimenti esteri attratti dal nostro paese era oscillante tra l’1,6 e il 2,9% dei flussi complessi. A livello Ue la quota italiana non supera il 5%, mentre Francia e Regno Unito ricevono oltre il 15% del totale degli Ide. Risultato preoccupante dal momento che gli Ide sono fondamentali nel processo di generazione del reddito, ma sono lo specchio della credibilità internazionale di un paese. (fig. 10) Un recente studio sui flussi di capitale mostra che le regioni italiane “soffrono di un duplice svantaggio: hanno caratteristiche che le rendono poco attraenti per gli investitori stranieri e attraggono meno Ide rispetto alle altre

La scarsa capacità di attrazione di investimenti esteri

Le debolezze territoriali si riflettono sulla bassa competitività in-

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Fig. 9 - Spesa R&D nelle regioni europee a ritardo di sviluppo, Germania e Italia 2009 (% del Pil)

foNtE: ns, elaborazione su dati Eurostat.

Fig. 10 - Distribuzione geografica degli Ide nell’Unione europea nel 2009 (percentuale sul totale Ue) 184

foNtE: elaborazione su dati Unctad - *cumulato di R. Ceca, Polonia, Romania

regioni europee con caratteristiche simili”. L’analisi dei fattori di attrattività deve essere svolta su due livelli, uno nazionale e l’altro regionale. A livello nazionale gli elementi che scoraggiano gli investitori sono: l’esistenza di una burocrazia farraginosa e un’inefficiente giustizia civile, che aumentano i costi per le imprese incremen-

tando di conseguenza anche il grado d’incertezza; l’elevata tassazione va poi a incidere sui margini operativi scoraggiando la scelta di localizzazione. Non sorprende quindi, che osservando la relazione tra gli investimenti potenziali e quelli effettivamente attratti, ossia lo scostamento tra i flussi di capitali in entrata in una generica regione


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Fig. 11 - Imprese italiane a partecipazione estera al 2010 (% sul totale)

foNtE: banca dati ice-Reprint

italiana e un’altra europea con caratteristiche simili, il potenziale di attrazione italiano sia di gran lunga inferiore a quello europeo: ossia pari a 10 progetti per milione di abitante, rispetto ai 22,7 della media europea, circa un quarto rispetto ai paesi dell’Est Europa appartenenti all’Unione e pari alla metà degli Ue-15. Su scala territoriale i principali driver positivi che attirano investimenti sono la disponibilità di infrastrutture, l’efficienza del sistema amministrativo e giudiziario, le attività di ricerca e sviluppo. Le difficoltà del “nostro sistema” derivano quindi da fattori comuni a tutto il territorio e dovute principalmente a una serie di inefficienze istituzionali, ma soprattutto da caratteristiche peculiari di ogni regione che le rende più o meno attrattive rispetto alle altre europee. Diversa è la polarizzazione delle imprese multinazionali nel territorio italiano. Ovviamente si riscontra una maggiore presenza nelle regioni economicamente trainanti (circa il 51,9% delle “partecipate” si concentra in

Lombardia e il 31,6% in Emilia Romagna, Lazio e Veneto) mentre le regioni meridionali raggiungono complessivamente un modesto 4,4%. Dal 2001 al 2009, i fenomeni di internazionalizzazione passiva nelle imprese (ossia le partecipazioni estere di minoranza) sono concentrati nel Nord Ovest in particolare, il Mezzogiorno resta del tutto marginale. (fig. 11) Da segnalare anche il fatto che nelle regioni meridionali, salvo alcune eccezioni, si osserva una maggiore incidenza delle “partecipazioni estere” nei settori labour intensive e quindi più esposti alla concorrenza dei paesi a basso costo del lavoro. Un altro aspetto di particolar rilievo nella valutazione delle potenzialità di sviluppo di un’area riguarda il livello d’innovazione territoriale, in quanto esiste un forte collegamento tra internazionalizzazione e innovazione e sono proprio le imprese tecnologicamente avanzate a essere capaci di operare con successo nei mercati esteri. Le Pmi presenti all’interno di un’area assumono il

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ruolo di “volano” per la diffusione tecnologica e per gli spillover positivi sullo sviluppo locale; il progresso di un territorio dipende quindi dalla propensione delle imprese a sostenere i processi che conducono a un migliore sviluppo tecnologico. Tale trasmissione di conoscenze, dall’impresa al territorio, può essere osservata facendo riferimento alla Bilancia tecnologica dei pagamenti (Btp)6 nella quale si registrano tutte le transazioni con il resto del mondo relative alla tecnologia non “tangibile”7. L’evoluzione storica dei pagamenti e degli incassi registrati nella Btp mostra chiaramente come solo a partire dal 2006 l’Italia è divenuta “esportatrice” netta di tecnologie. Dal 2007 però si è innescato un trend negativo, causato dall’aggravarsi delle tensioni internazionali. (fig. 12) Analizzando nel dettaglio la dimensione territoriale si evidenzia anche in questo caso un netto divario: le regioni nord occidentali

e quelle centrali hanno, infatti, contribuito in modo significativo all’attivo del saldo italiano del 2009 a differenza di quelle del Sud. Inoltre, in termini di flussi (in entrata e in uscita) l’area nord occidentale rappresenta circa il 60% del totale mentre quella meridionale meno del 2%. (fig. 13) Le nuove teorie della crescita individuano come motore di sviluppo economico il capitale fisso sociale (infrastrutture fisiche e, soprattutto capitale umano). La presenza di servizi civili avanzati e moderni all’interno di una determinata area geografica tende a valorizzare la presenza delle risorse naturali e soprattutto, facilita l’insediamento delle imprese, che sono attratte dalla disponibilità di capitale umano altamente qualificato. Per assicurare un continuo miglioramento della qualità del lavoro, determinante è il contributo dell’istruzione e della formazione specialistica a valenza professionale:

Fig. 12 - Bilancia tecnologica dei pagamenti 1992-2009 (migliaia di euro)

foNtE: Banca d’italia


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persone maggiormente istruite raggiungono una posizione lavorativa migliore e, in media, salari più elevati rispetto agli individui con una formazione di base inferiore. L’istruzione induce a numerose esternalità positive: in un’ottica industriale, una migliore formazione accresce la produttività del lavoro e l’adozione di tecnologie e strumenti innovativi; mentre dal punto di vista sociale, un capitale umano particolarmente formato, riduce i comportamenti illegali e scoraggia la criminalità organizzata. I tassi di scolarizzazione in Italia presentano divari sfavorevoli al meridione e sono accompagnati da un parallelo aumento del tasso di abbandono dovuto alle condizioni di degrado sociale e familiare. Negative sono anche le evidenze in termini di “qualità” della formazione, dal momento che gli studenti che terminano la loro carriera accademica hanno notevoli difficoltà a inserirsi nel

mondo del lavoro. Si genera così un ampio fenomeno migratorio dei “cervelli”, brain drain, che lasciano le regioni del Sud provocando un depauperamento del capitale umano disponibile. Altra conseguenza negativa del basso capitale umano è riscontrabile nell’impressionante divario nei tassi di occupazione – il Nord al 65% (in linea con i paesi avanzati), il Sud al 44% (come un paese sottosviluppato) –, che mascherano la prolificazione del lavoro nero nascosto in attività economiche sommerse, anche illegali. (fig. 14) La disoccupazione ufficiale (quasi 2,5 volte quella del Nord) è probabilmente sottodimensionata per il fenomeno del sommerso. Ciò alimenta quella parte di disoccupazione definita come “grigia”, nella quale confluisce chi non cerca lavoro: inoccupati impliciti e lavoratori potenziali, serbatoio naturale per i fenomeni di occupazione illegale. (fig. 15) Rilevanti anche gli effetti nega-

Fig. 13 - Saldi della Bilancia tecnologica dei pagamenti 2008-2009 (migliaia di euro)

foNtE: Banca d’italia

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Fig. 14 - Occupazione tra i 15 e 64 anni per macro aree - 2010

foNtE: istat

Fig. 15 - Tasso di disoccupazione per macro-aree - 2010

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foNtE: istat

tivi in termini di sociali, dove la scarsità delle risorse impedisce valide coperture e ammortizzatori sociali in grado di garantire, anche se per un breve periodo, una continuità nei consumi. La continua contrazione della domanda alimenta una spirale negativa, dove la diminuzione dell’output produttivo si ripercuote sul livello occupazionale e sulla dinamica salariale. La presenza dei “circoli viziosi” della povertà rappresenta, quindi, un problema costante all’interno delle aree depresse, non solo a livello nazionale ma anche su scala territoriale. Ed è proprio la difficoltà di una spinta autopropulsiva la causa del ritardo di sviluppo e, soprattutto, dell’aggravarsi dei divari territoriali con le aree più ricche del paese. La rimozione di una o più parti delle catene di trasmis-

sione provocherebbe un immediato impatto positivo sullo sviluppo locale e sul benessere della popolazione residente. (fig. 16) Evoluzione spesa pubblica complessiva

Ricostruire la serie storica della spesa pubblica in percentuale al Pil per i principali paesi industrializzati per il periodo dal 1870 al 1960 è un processo complesso; ci è riuscita la Ragioneria dello Stato sulla base delle ricostruzioni di Tanzi e Schuknecht e dal 1960 fino agli anni recenti sulla base delle serie storiche presentate nei database Eurostat e Ocse nell’ambito delle statistiche di finanza pubblica. La dinamica e la composizione della spesa in percentuale del Pil non sono state uniformi nel tempo. A partire dal XX secolo la spesa


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Fig. 16 - Circoli della povertà

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pubblica è aumentata considerevolmente e in maniera generalizzata in tutti i paesi europei ed extra-europei economicamente egemoni, indipendentemente dalle differenze istituzio-

nali e di contesto. È possibile individuare alcuni periodi caratterizzati da una maggiore regolarità del fenomeno: dal 1870 al 1913 il livello di spesa ha mediamente assunto


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valori al di sotto del 15% del Pil (in particolare nel 1870 si osservano i valori del 13,7% per l’Italia, 10,4% per la media dei paesi europei e l’11,5% per la media dei paesi extraeuropei; nel 1913 17,5% per l’Italia, 13,1% per i paesi europei e il 10,8% per i paesi extraeuropei); nel periodo tra le due guerre mondiali e della “grande depressione”, sono state attuate politiche espansionistiche, perciò diventa significativo il peso della spesa pubblica sul Pil. Negli anni Venti furono introdotti i primi sistemi di sicurezza sociale e negli anni Trenta e aumentarono le spese belliche in risposta alla minaccia delle politiche belliche in Europa. Nel 1937 la spesa pubblica in percentuale al Pil era del 31,1% per l’Italia, del 23,1% per i paesi europei e il 22% per i paesi extraeuropei; dal termine del secondo conflitto mondiale fino agli anni Ottanta, vi è stato un maggiore intervento dello Stato nell’economia per lo sviluppo dei sistemi di welfare ed con un conseguente aumento della spesa pubblica.

Nel 1980 la spesa pubblica ha raggiunto in Italia il 40,6% del Pil contro il 30,1% del 1960; in media i paesi europei sono passati dal 29,5% del 1960 al 46,8% del 1980; i paesi extraeuropei sono passati dal 24,2% del 1960 al 35,2% del 1980; a partire dagli anni Novanta, a fronte della crescita della spesa pubblica molti governi hanno effettuato cambiamenti per garantire la sostenibilità di lungo periodo di tali sistemi che prevedono un coinvolgimento di capitali privati nel finanziamento delle opere pubbliche, la creazione di public authorities, e si è assistito a un decentramento della spesa verso i livelli di governo locale. (fig. 17) In media i paesi extraeuropei mostrano un rapporto spesa sul Pil inferiore a quelli europei, con l’Italia che assume, a seconda dei periodi, valori intermedi ai due gruppi oppure superiori a quelli europei. (fig. 18) In Italia la spesa per la protezione sociale in rapporto al Pil è più elevata rispetto alla media degli altri paesi europei ed è caratteriz-

Fig. 17 - Spesa pubblica in percentuale del Pil


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zata da una componente più elevata relativa ai trattamenti pensionistici. Per quanto riguarda l’istruzione si osserva, invece, un rapporto più basso rispetto al Pil della spesa italiana. È, inoltre, da segnalare come l’Italia sia gravata da una spesa per interessi pari a circa il doppio in termini percentuali rispetto alle principali economie europee, come conseguenza dell’elevato debito pubblico. Spesa pubblica per il Mezzogiorno

Molto spesso il dibattito pubblico sulla “questione meridionale” tende a focalizzarsi sulla quantità delle risorse nazionali destinate a tale area e se queste siano utilizzate in modo efficiente o meno.

Dal 1950 in poi la politica economica italiana nei confronti delle regioni meridionali è stata caratterizzata da interventi straordinari operati dalla Cassa per il Mezzogiorno. Nel tempo, l’ammontare delle risorse erogato fu abbastanza ridotto e molto spesso le risorse furono di carattere sostitutivo e non “addizionali” rispetto a quelle messe in campo dalla Pubblica amministrazione. I risultati insoddisfacenti, accompagnati da forti critiche mosse dall’opinione pubblica, indussero all’abolizione definitiva della Cassa per il Mezzogiorno nel 1993 e a una nuova formulazione della politica industriale fondata su incentivi alle imprese. L’esistenza di distorsioni e mal-

Fig. 18 - Spesa pubblica per funzione in percentuale del Pil in Italia, Regno Unito e Francia, 2009

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funzionamenti all’interno del sistema a supporto delle attività produttive ha condotto, tra il 2003 e il 2005, a un ulteriore riforma la cui attenzione maggiore si è concentrata sulla legge 488/928. Successive riorganizzazioni hanno riguardato anche l’introduzione di nuovi criteri selettivi per i contratti di programma (destinati a investimenti di grandi dimensione) e la creazione di un Fondo unico per le aree sottoutilizzate (Fas). Linea guida di tale processo di riforma è stata quella della “concentrazione” basata sulla riduzione delle risorse che andavano orientate su poche e selettive politiche di sviluppo funzionali al raggiungimento di obiettivi nel lungo periodo. Si è cercato di “responsabilizzare” le imprese sulla qualità degli investimenti proposti e garantire una ricaduta efficace sul tessuto produttivo locale in termini di occupazione. Prendendo in considerazione i soli interventi a sostegno delle attività

produttive, nei sette anni tra il 2003 e il 2009 sono state concesse agevolazioni per più di 60 miliardi di euro, ben 8,6 circa miliardi medi annui. Al solo Mezzogiorno sono stati concessi aiuti allo sviluppo produttivo per 33 miliardi (55% del totale paese), ossia 4,7 miliardi medi annui. Se queste ultime hanno assorbito interventi volti a ridurre i divari territoriali, quelle settentrionali sono risultate beneficiarie della quasi totalità degli strumenti a sostegno della ricerca e dell’innovazione tecnologica o per le attività di internazionalizzazione. Si delinea un quadro in cui le imprese meridionali, anche a causa della dimensione ridotta e della specializzazione produttiva in settori a basso valore aggiunto, sono ancora dipendenti dagli interventi di natura assistenziale che però nella maggior parte dei casi non hanno un impatto rilevante sulla capacità imprenditoriale. (fig.19-20) In merito agli effetti di queste

Fig. 19 - Agevolazioni/finanziamenti concessi per ripartizione territoriale (mln euro)

foNtE: elaborazione Ministero dello Sviluppo Economico, Dipartimento per lo Sviluppo economico.


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misure sul tessuto produttivo locale le analisi condotte dalla Banca d’Italia sulle principali forme di incentivazione alle imprese (leggi 488/92 e 388/00) mostrano un segno positivo in termini di efficacia anche se con un impatto abbastanza limitato. Relativamente alla legge 488, le indagini empiriche9 rilevano effetti positivi sull’occupazione delle imprese sussidiate, ma evidenziano come le imprese che partecipano ai bandi di assegnazione sono per lo più di grandi dimensioni, con un migliore accesso al credito e un’elevata capitalizzazione, garantendo una presenza di lungo periodo nel territorio. Elementi positivi emergono anche da altre analisi10 che evidenziano una maggiore crescita del fatturato e dell’occupazione nelle imprese sussidiate rispetto alle altre. Ulteriori indagini confermano gli effetti positivi per le imprese agevolate per le quali si manifesta però un effetto di spiazzamento temporale11.

In merito al credito d’imposta (legge 388/00), le verifiche empiriche mostrano come tale intervento sia stato in grado di generare investimenti aggiuntivi nei primi anni senza nessun impatto negativo sulle imprese non agevolate; risultati opposti derivano però da altre indagini12 secondo cui il credito d’imposta avrebbe avuto un impatto abbastanza contenuto. (fig. 21) Nonostante gli effetti apparentemente positivi sugli investimenti e sulla creazione di nuovi posti di lavoro, i risultati complessivi in termini di riduzione delle divergenze appaiono deludenti. Il divario nel Pil pro capite è in continua crescita: nel primo decennio del secolo il Pil pro capite del Sud era pari all’80%, oggi raggiunge a mala pena il 55%. L’economia sommersa divide nettamente l’Italia in due diverse realtà: un Nord in cui la propensione a lavorare in attività ufficiali è molto elevata, un Sud che registra un’offerta di lavoro da paese sottosviluppato e che ma-

Fig. 20 - Principali risultati di attuazione dei soli investimenti nazionali (valori assoluti e percentuali)

foNtE: Ministero dell’Economia e delle finanze, Ragioneria generale dello Stato.

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schera la massiccia diffusione di attività non dichiarate. La debolezza e l’inefficienza delle amministrazioni pubbliche di gran parte delle regioni meridionali rispetto a quelle del CentroNord trova evidente conferma nel mal funzionamento dei servizi pubblici, in particolare in quelli sanitari e civili, e nell’elevatezza dei deficit di bilancio. L’economia del Mezzogiorno può, quindi, essere vista come un peso o come un’opportunità. Sta ai governi e alle forze sociali trovare la chiave per far prevalere il secondo aspetto sul primo. Se lo sviluppo del nostro Mezzogiorno resta irrisolto, è fin troppo evidente la necessità di una forte discontinuità rispetto al passato, ossia rispetto alle politiche fin qui adottate. E ciò anche nell’interesse del Nord e dello sviluppo armonico dell’intero paese. Queste politiche, ampiamente note e in teoria condivise, dovrebbe-

ro perseguire pochi e selettivi obiettivi prioritari, quali un deciso stimolo, attraverso il federalismo fiscale, a un più responsabile funzionamento delle amministrazioni regionali e locali, così da superare l’illusione centralista; il miglioramento della qualità del capitale umano, attraverso il potenziamento dell’istruzione di qualsiasi ordine e grado, l’accesso ai servizi del vivere civile (educazione civica, sanità, abitazione, ecc.), così da superare ingiustificabili differenze con le altri parti del paese; un forte contrasto all’economia sommersa e illegale, così da accrescere la disponibilità (ufficiale) a lavorare, così da colmare l’assurdo divario con il resto del paese; il sostegno al trasferimento tecnologico e alle imprese innovative, così da potenziare la competitività delle imprese meridionali; l’attrazione di nuovi investimenti tramite la realizzazione di zone franche fiscali.

Fig. 21 - Efficacia della spesa straordinaria (aggiuntiva a quella ordinaria) nelle regioni in ritardo di sviluppo


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Le “potenzialità”: opportunità perdute o disperse

Il Mezzogiorno nasconde immense potenzialità, in parte note, e comunque poco o mal sfruttate, insieme con altrettante occasioni perdute. In passato due banche del Sud, Banco di Sicilia e Banco di Napoli, ebbero un’importanza strategica e propulsiva per l’economia meridionale. Oggi sono diventate l’una una controllata del gruppo Unicredit Capitalia, l’altra da Intesa Sanpaolo, trasferendo altrove i centri decisionali. Un altro esempio di cattiva gestione è data dal porto di Gioia Tauro, costruito per essere asservito al quinto polo siderurgico in Calabria, che però non venne mai realizzato. La sua posizione strategica nel Mediterraneo e le sue dotazioni (notevole pescaggio13 e possibilità di accogliere un gran numero di container) avrebbe potuto favorire gli scambi commerciali con le coste nord africane. Nel 2007 sono stati movimentati 3 milioni di container, pur restando al di sotto delle proprie capacità di sfruttamento. Tra le potenzialità, vanno sottolineate diversi settori, tutti passibili di interessanti sviluppi: Energia Nel settore petrolifero, Il governo ha riconosciuto la Basilicata come regione “strategica” per l’Italia in quanto maggiore fornitrice di greggio. Vi sono due grandi giacimenti petroliferi in Val d’Agri e nell’alta Valle del

Sauro che rappresentano la massima parte delle estrazioni petrolifere nazionali. Il giacimento della Val d’Agri è il più grande dell’Europa continentale e garantisce all’Italia l’80% della produzione nazionale di greggio coprendo il 6% del fabbisogno. Un campo in cui il Meridione ha un vantaggio potenziale rispetto al Nord è sicuramente nel campo dell’energie rinnovabili. Gli impianti fotovoltaici nelle regioni settentrionali hanno un rendimento annuale medio di circa 1000-1100 kWh. I valori salgono a 1200-1300 kWh nelle regioni del Centro-Italia e arrivano a toccare i 1400-1500 kWh nelle regioni meridionali e in Sicilia. La Puglia raggiunge nel 2010 il record di 147.453 megawatt di potenza e 5.166 impianti e si distingue anche per la produzione di energia da biomasse con circa il 33% della produzione italiana14. Un altro importante progetto da sviluppare è quello della cosiddetta “indipendenza energetica”, ossia della sostituzione di consumi energetici da fonti tradizionali per convertirli in consumi da fonti alternative (fotovoltaico e biomasse). Ciò andrebbe realizzato in zone di concentrazione dei consumi energetici sul territorio, come in centri industriali o artigianali, e dovrebbe rispettare condizioni di equilibrio ambientale e architettonico. Agroalimentare È il settore tipico delle realtà meridionali e notevolmente dif-

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ferenziato al suo interno, su cui concentrare lo sviluppo di imprese di prima e seconda lavorazione delle produzioni alimentari insieme con la tutela delle tipicità territoriali. Nelle regioni meridionali circa il 50% della popolazione è residente in territori classificati come rurali, che occupano addirittura oltre l’80% della superficie del Mezzogiorno. Alcune realtà agricole, come Campania, Puglia e Sicilia, si sono nel corso degli ultimi anni contraddistinte per un intenso dinamismo che ha innestato processi di sviluppo integrato tra industria e agricoltura e per una crescita del settore agro-alimentare. Il settore primario in questa parte del territorio contribuisce ancora per oltre il 4% alla formazione del valore aggiunto totale del Mezzogiorno, rispetto ad una media a livello nazionale per l’agricoltura del 3%. Beni archeologici e artistici Oltre al valore del patrimonio culturale come asset del sistema Italia in termini di immagine e di attrattività, beni culturali sono importanti anche per l’esistenza di un enorme filiera produttiva al loro connessa. Questo è uno dei pochi settori in cui il Mezzogiorno non è svantaggiato rispetto al Nord anzi mostra di riuscire a mantenere quasi gli stessi valori del Nord per quel che riguarda la formazione di valore aggiunto e di superarlo per quel che riguarda la creazione di posti di lavoro. (fig. 21)

Discontinuità, nuove politiche di sviluppo e regole virtuose

A distanza di molti anni, le molteplici politiche economiche adottate per il Sud non hanno condotto a risultati soddisfacenti; a nulla sono serviti gli ingenti interventi statali generati attraverso la canalizzazione di risorse pubbliche verso queste regioni; allo stesso modo, è mancata una valida cabina di regia tra Stato e Regioni in grado di coordinare le differenti attività territoriali con l’obiettivo di stimolare il tessuto produttivo locale con immediato impatto anche sull’occupazione. E quello che è più stridente è che uno sforzo di intervento pubblico simile a quello effettuato da un paese, la Germania, che con l’annessione delle regioni orientali aveva analoghi è in via di superamento. Dal 1989 al 2009, le regioni tedesche in “ritardo” hanno fatto registrare una crescita del Pil pari al 163%, di quattro volte superiore rispetto a quella dei länder dell’Ovest, contribuendo a circa il 20% della ricchezza nazionale. Tutto ciò è stato favorito dal un miglioramento delle infrastrutture, dallo smantellamento del sistema economico ormai arretrato e soprattutto da un notevole trasferimento di tecnologie e competenze merito della forte sinergia tra industria e centri di ricerca. I 20 anni tedeschi sono migliori dei 150 italiani nelle politiche di integrazione delle aree a ritardo di sviluppo. E ciò nonostante un impegno di spesa pubblica per infrastrutture e sviluppo produttivo


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Fig. 20 - Apporto delle attività potenzialmente collegate al patrimonio culturale al Pil: valore aggiunto e occupazione interna per regione, 2008

foNtE: istat

sostanzialmente analogo nell’ultimo ventennio, stimabile intorno ai 5 miliardi di euro medi annui. Le ragioni vanno tutte ricercate nelle scelte di politica economica e sociale adottate dai governi. Lo sviluppo non si crea distribuendo dall’alto aiuti a pioggia, non finalizzati, e specie senza pretendere dai beneficiari risultati concreti. Purtroppo le scelte politiche cadono sovente in questa trappola perché attratte dalla ricerca del consenso, che si presume insito nelle politiche di aiuto specie se assistenziali. Se, nonostante il fiume di aiuti nazionali ed europei profusi al Sud, i divari con il Centro Nord non sono migliorati, anzi peggiorati, vuol dire che le politiche di sviluppo dall’alto non hanno colto nel segno e questo perché non sono state capaci di mobilitare la società civile. La presenza di tali elementi “strutturali” provoca ovvie carenze in termini di produttività del sistema paese, fenomeno che, soprattutto nelle regioni meridio-

nali, produce crescenti difficoltà nell’attivare attività imprenditoriali. Ancorare la crescita economica nazionale a una ripresa dell’area meridionale necessita di interventi paralleli per recuperare il gap con le altre aree, nazionali e comunitarie. Istruzione, giustizia, sanità e sicurezza sono aspetti fondamentali per poter garantire una migliore competitività economica e una vita migliore per i cittadini15. Quale può essere il miglior antidoto contro fenomeni di corruzione e di inefficienza pubblica? E inoltre, come evitare che una determinata politica di sviluppo resti solo un’affermazione di principio? Oppure che ogni iniziativa di sviluppo di fondamentale importanza possa contare solo su fondi pubblici? E come evitare che l’intervento pubblico scada nell’assistenzialismo e alimenti clientele e corruzione? Occorre in primo luogo una netta discontinuità rispetto al passato. Gli investitori privati sono distorti nelle loro scelte dalla ri-

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cerca di contributi pubblici e scussa professionalità, così da atnon riescono perciò a realizzare trarre capitali privati in co-finanprogetti economicamente validi ziamento con i fondi pubblici e duraturi nel tempo. Gli inve- destinati allo sviluppo. Il finanstimenti in opere pubbliche sono ziamento delle infrastrutture non carenti, mal gestiti e troppo lenti dovrebbe essere coperto totalmente e il sostegno pubblico si nella loro realizzazione. La scelta dei progetti di svilup- dovrebbe manifestare in un sistepo, sia d’impresa che per infra- ma di partenariato pubblico-pristrutture, nonché del loro finan- vato, utilizzando a tal fine risorse ziamento, deve essere affidata a pubbliche (nazionali ed europee) organismi di elevato spessore tec- come “leva” per l’attrazione di nico e di sicura credibilità inter- capitali privati. Il sostegno agli nazionale, in grado di operare investimenti privati va realizzato senza interferenze politiche così con procedure automatiche, trada essere capaci di attrarre capi- sparenti e tali da responsabilizzare i beneficiari. tali sui mercati L’afflusso di capiinternazionali. Al- Lo sviluppo richiede tali esteri potrebbe lo Stato e alle reessere favorito dalgioni deve essere condivisione e demandata solo la maturazione nelle scelte la creazione di zone franche a burodefinizione delle crazia “zero”, depriorità d’inter- individuali e non tassando i nuovi vento e la destina- si costruisce a tavolino investimenti e zione di risorse pubbliche ai singoli progetti a semplificando le procedure amtitolo d’incentivazione, senza en- ministrative. trare nel meccanismo di valuta- Le politiche di aiuto pubblico, alimentate da illusioni pianificazione e selezione. I lavori pubblici devono avere trici di uno sviluppo forzato come priorità la riduzione dei di- dall’alto, non sono mai riuscite a vari all’interno di uno stesso pae- riscattare popolazioni dal sottose e vanno gestiti in modo effi- sviluppo e a modificare comporciente, con tempistiche predefi- tamenti discorsivi o collusivi. nite per scongiurare la piaga Diffusa illegalità, carenza di cadell’aggressione dei poteri illega- pitale umano e insufficiente creli e l’indecenza dei cantieri pe- scita economica ne sono le più evidenti manifestazioni. renni. Determinante è poi la riforma Lo sviluppo non si costruisce a delle misure di aiuto pubblico. tavolino e non si impone sulla La selezione e valutazione dei testa delle popolazioni. Lo sviprogetti di sviluppo che ambi- luppo richiede, invece, condiviscono agli aiuti pubblici dovreb- sione e maturazione nelle scelte be essere gestita da un’agenzia individuali; deve percorrere stratecnica, dotata di elevata e indi- de adottate in autonomia senza


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preconcetti disegni di organismi agevolazioni fiscali, generalmente superiori. E per realizzare questi attuate tramite crediti d’imposta obiettivi occorre che le istituzio- che promuovono investimenti da ni siano responsabilizzate nelle parte di imprese già esistenti e loro scelte per impedire una lie- con bilanci in utile. vitazione incontrollata della spe- L’efficacia delle diverse tipologie sa pubblica verso misure ineffica- di agevolazione dipende dai mecci, stimolando invece l’impegno canismi di aiuto di fatto adottati, alla crescita del capitale umano e non dagli obiettivi conclamati del capitale fisso sociale. Ed è su nelle politiche di intervento, osqueste basi che si può sperare che sia: per gli incentivi economici, la crescita umana e delle respon- l’aiuto pubblico dovrebbe agire sabilità individuali estirpino gra- da leva per la realizzazione di dualmente i poteri malavitosi e nuovi investimenti attraverso un che, di conseguenza, si formi un mix di sussidi prevalentemente ambiente favorevole allo svilup- orientati su prestiti a tasso agevolato e non su conpo, alla valorizzazione delle risorse Le attuali politiche per tributi in conto capitale, così da che pur si celano stimolare la renelle realtà depres- lo sviluppo si dividono sponsabilizzazione se. in due tipologie: gestionale delle In seguito ai deluimprese agevolate. denti risultati de- incentivi diretti e Per le agevolazioni gli incentivi eco- agevolazioni fiscali fiscali, il sussidio nomici orientati al riequilibrio territoriale delle aree dovrebbe interessare solo gli invesvantaggiate e dei crediti di im- stimenti aggiuntivi in zone franposta, le politiche di sviluppo che ben definite, così da attrarre orientate alle aree svantaggiate investitori esterni anche stranieri. dovranno essere governate da un Sia allo Stato che alle imprese mix di aiuti tra incentivi econo- converrebbe condividere questi mici e agevolazioni fiscali mirati nuovi criteri: al primo perché liall’attrazione di investimenti miterebbe la spesa e la renderebproduttivi, accompagnati da una be più efficace in quanto elimineforte di finanziamento di nuovi rebbe l’assistenzialismo, alle improgetti d’impresa e di realizza- prese perché ne trarrebbero stizione di infrastrutture funzionali moli a operare nel mercato. Una radicale riforma delle poliallo sviluppo locale. Le attuali politiche per lo svilup- tiche di sviluppo per il Mezzopo comprendono due tipologie giorno dovrebbe di conseguenza principali di interventi: incentivi concentrarsi su poche e qualifieconomici diretti a stimolare nuo- cate azioni, virtualmente realizvi investimenti, un rafforzamento zabili anche nell’ambito del prodel tessuto imprenditoriale e, di gramma adottato in questi giorconseguenza, futura occupazione; ni dal governo:

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Misure a sostegno del capitale umano Maggiore attenzione alla formazione secondaria. La parte di competenza dei Comuni è quella di fondamentale importanza per la crescita del capitale umano nel lungo periodo. Andrebbe concentrata la responsabilità in un solo ente (oggi le competenze sono ripartite tra comuni e province), introdotto a vari livelli l’insegnamento di educazione civica e di etica, che potrebbe essere anche utilmente offerto dai media, dalle televisioni in particolare negli orari di ascolto degli adolescenti. Appare indispensabile l’introduzione di un sistema di valutazione sulla qualità dell’insegnamento e degli edifici scolastici, accompagnato da premi e sanzioni così da stimolare gli enti locali competenti. In particolare, per la formazione universitaria, mettere in atto tutti quei provvedimenti volti a far emergere le eccellenze grazie al collegamento con le imprese, specie per favorire il trasferimento di innovazioni e le start-up; un impegno costante e duraturo deve essere curato dagli enti locali per assicurare l’accesso ai bisogni essenziali del vivere civile, all’abitazione, ai servizi pubblici essenziali (sanità e formazione in primis), alla sicurezza, ecc. Poiché il degrado sociale è causato dal degrado civile, occorre agire con decisione su questo per ridare fiducia agli individui e responsabilizzarli sulle loro scelte. Il decoro urbano e il rispetto delle regole è condizione essenziale per favorire il recupero di fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzione

e migliorare le loro condizioni di vita, mobilitando allo scopo i media nazionali, la televisione pubblica in primo luogo. Promozione diretta di nuovi investimenti Va limitata alle sole aree meno sviluppate così come definite dalla Commissione europea e riservata alle Pmi; concentrata su progetti di nuovi investimenti ad alto contenuto tecnologico e condizionata alla creazione di nuovi posti di lavoro. L’aiuto pubblico è giustificabile solo come “leva” di prestiti erogati da banche su base di valutazioni del merito di credito e deve essere restituito nel tempo anche se a tassi agevolati. Sostegno al capitale di rischio Va mirato solo alle aree meno sviluppate così come definite dalla Commissione europea e riservato alle Pmi, possibilmente ad alto contenuto tecnologico. L’aiuto pubblico deve essere non speculativo, ossia prevedere una partecipazione temporanea al capitale di rischio con diritto di riscatto al valore di mercato. Attrazione di investimenti esteri Deve essere realizzata in un numero limitato di “zone franche” strategiche (Zf), di dimensione territoriale sub-provinciale, collocate in aree di crisi di de-industrializzazione ancorché dotate di infrastrutture logistiche (non più di una per regione). I sussidi dovranno prevedere una flat-tax onnicomprensiva di ogni onere fiscale e parafiscale sul fatturato


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aggiuntivo realizzato da nuovi investitori. Finanziamento di progetti infrastrutturali Vanno selezionati progetti economicamente validi e selezionati da operatori indipendenti. È, infatti, la loro carenza e la bassa qualità a frenare la crescita industriale, del turismo e dei servizi e l’attrazione degli investimenti16. Dovrebbero realizzarsi tramite il regolare ricorso al partenariato pubblico-privato, utilizzando le risorse pubbliche come leva di attrazione di capitali privati17. Si tratta, in altre parole, di applicare un project financing agevolato per il finanziamento delle opere pubbliche, con vantaggio di migliorare la selezione dei progetti, ridurre i tempi di realizzazione, accrescere la trasparenza sui costi di gestione e ridurre l’impegno di spesa pubblica; affidare ad operatori specializzati l’identificazione, la valutazione, gestione e controllo del progetto secondo il modello standard del “ciclo progettuale”, procedura in vigore a livello internazionale anche come riferimento degli operatori finanziari per le cosiddette operazioni di finanza di progetto. L’organismo tecnico di finanziamento e gestione dovrebbe assumere il modello “banca di sviluppo sub-regionale” (BdS), come organismo più adeguato a selezionare progetti infrastrutturali in aree depresse, in quanto struttura dotata di elevata professionalità. In Europa, attività simili a quelle

della Bds sono svolte dalla Bers nei paesi dell’Est europeo ed in parte dalla Bei, che però si è limitata a costituire una facility con impatto limitato sul finanziamento dei progetti. In tal modo sarebbe possibile utilizzare la formula finanziaria tipica delle Bds sub-regionale, che consiste nella combinazione di merito di credito assicurato dal capitale versato e da quello callable, ossia da versare solo in caso di necessità dagli azionisti. Si finanzia attraverso l’emissione di obbligazioni sui mercati internazionali con rating analogo a quello della Banca mondiale o da crediti ottenibili da altre banche regionali. 201

Azioni coordinate per il bacino mediterraneo Occorre che le regioni meridionali si uniscano in una federazione per perseguire uno sviluppo sostenibile e duraturo del Mezzogiorno. Negli ultimi anni si è parlato molto di un “Patto per il Sud” per una crescita comune che però non è mai realizzato. Inoltre, alla luce delle recenti sommovimenti in atto nei paesi africani affacciati sulle coste mediterranee, appare evidente la posizione strategica del Mezzogiorno come mediatore nei processi di transizione in tale area. Potrebbe proporsi come protagonista aiutando questi paesi a realizzare modelli di sviluppo fondati sulle piccole e medie imprese e sulla valorizzazione dei settori tipici, spesso analoghi a quelli del nostro Meridione. Particolare attenzione dovrebbe essere rivolta


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allo sviluppo dei trasporti marittimi (autostrade del mare) e della cooperazione universitaria. L’Unione per il Mediterraneo, finora rimasta una mera petizione dopo gli slanci iniziali, potrebbe rappresentare la piattaforma su cui sviluppare forme di cooperazione dell’Ue con i paesi rivieraschi tramite un ruolo strategico del Mezzogiorno, cogliendo la pressante occasione di una nuova politica migratoria. Il Meridione potrebbe esportare le sue esperienze nel campo delle energie rinnovabili, dell’agroalimentare e del turismo organizzato, della valorizzazione dei beni archeologici e artistici, delle infrastrutture, delle nuove politiche di sviluppo produttivo. Al tempo stesso potrebbe assumere una leadership attraverso l’esportazione del proprio modello di sviluppo e delle opportunità di finanziamento che riserverebbe un una nuova banca del Sud articolata come banca di sviluppo di progetti d’impresa e di infrastrutture. Il Mezzogiorno, con uno slancio di ottimismo, può e deve rappresentare l’occasione per il rilancio dell’intero paese e dimostrarsi capace di riscattarsi da un torpore quasi rassegnato di un area irrimediabilmente depressa.

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Bronzini ed altri (2005). Bronzini e de Blasio (2006). Cannari ed altri (2006). Commissione europea (2010), Internationalisation of European SME’s. _ F. Cingano e P. Cipollone, (2009). _ Confindustria (2010), Le sfide della politica economica per rafforzare la crescita italiana. _ Daniele V. e Malanima P. (Marzo-Aprile, 2007), Il prodotto delle regioni e il divario Nord-Sud in Italia (1861-2004), in Rivista di Politica Economica. _ Dipartimento della Ragioneria generale dello Stato, (2011), La Spesa Pubblica dall’Unità d’Italia. Anni 1862-2009, Mef. _ Duprat P., Gicca A. (1863), Annuario di economia sociale e di statistica per il Regno d’Italia, Vol. n° 1. _ F. Forte, (2010). _ Franco D., (2010). _ Eurostat, Regional Yearbook, (2010). _ Grillo N.C., (2009) Energia c’è. _ G.Gentili, Il Sole 24 Ore (13 Dicembre 2010). _ G. Guzzo, (2010). _ Istat, (2011) Occupati e Disoccupati Anno 2010. _ Lo Cicero Massimo, Mezzogiorno a perdere. _ Mariotti & Mutinelli, (2010). _ Ministero dello Sviluppo Economico (Mise). _ Pellegrini e Carlucci (2003). _ Svimez, (2010) Rapporto Svimez 2010 sull’economia del Mezzogiorno. _ V. Valli (2005), Politica Economica, Carocci. _ UnionCamere, Il sistema economico integrato dei beni culturali, Rotoform 2009. _ Siracusa L., (2009) L’energia del sole e dell’aria come generatrice di forme architettoniche.

L’Autore

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roberto pasca di magliano Professore ordinario di Economia politica ed Economia della crescita. L’articolo è stato scritto in collaborazione con Daniele Terriaca, dottorando in Sviluppo e finanza internazionale e Vittoria Bertoni, collaboratrice di ricerca, Università di Roma La Sapienza.


SHOCK ECONOMY Roberto Pasca di Magliano

Note 1

Il 14 marzo 1909, infatti, Gaetano Salvemini pubblicò sull’Avanti un articolo contro Giovanni Giolitti accusandolo di aver incentivato la corruzione nel Mezzogiorno e di essersi procurato il voto dei deputati meridionali mettendo “nelle elezioni, al loro servizio, la malavita e la questura”. 2 Alcune stime della Banca d’Italia indicano che nelle regioni del Mezzogiorno dove si concentra il 75% del crimine organizzato, il valore aggiunto pro-capite del settore privato è inferiore della metà di quello generato al CentroNord. 3 Per la metodologia delle stime e per ulteriori approfondimenti si veda La misura dell’economia sommersa secondo le statistiche ufficiali, Istat (13 luglio 2010). 4 Cfr. Bianchi e Provenzano 5 L’Unione europea persegue l’obiettivo della coesione socioeconomica. La sua azione si basa sulla solidarietà finanziaria che consente di trasferire oltre il 35% del bilancio dell’Unione (213 miliardi di euro per il periodo 20002006) verso le regioni più svantaggiate. Le regioni dell’Unione in ritardo di sviluppo, in fase di riconversione o che devono far fronte a situazioni geografiche e socio-economiche particolari possono così affrontare meglio le difficoltà e sfruttare pienamente le opportunità del mercato unico. Le regioni che beneficiano dell’Obiettivo 1 in Italia sono Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia, Sardegna; mentre beneficia del sostegno transitorio il Molise. 6 Per la metodologia si veda http://www.bancaditalia.it/statistiche/rapp_estero/altre_stat/bpt/ nota-metodologica.pdf. 7 Ad esempio brevetti, licenze, marchi di fabbrica, know how e assistenza tecnica. 8 Nel 2005 vennero riformati i meccanismi di agevolazione, maggior ricorso ai finanziamenti agevolati rispetto ai contributi in conto capitale, per stimolare la responsabilizzazione delle imprese.

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cfr. Pellegrini e Carlucci (2003), Bronzini et al. (2005). 10 Adorno ed altri (2007). 11 Grazie al sussidio un’impresa anticipa a livello temporale un investimento che avrebbe comunque fatto successivamente. Alla scadenza dell’intervento, le imprese in questione tenderebbero a ridurre il volume degli investimenti collocandosi su valori nettamente inferiori rispetto alle altre imprese non beneficiarie (cfr. Bronzini e de Blasio (2006). 12 Cannari et al. (2006). 13 Profondità fondali fra i 12,50 ed i 18,00 metri. 14 Un altro buon esempio è rappresentato dal Progetto Archimede operativo dal 2007 in Sicilia (in località Priolo Gargallo, Siracusa); progetto molto innovativo perché concentra i raggi solari mediante appositi specchi verso un unico punto in questo modo fa aumentare la densità di energia calorica che aumenta di 100-200 volte. L’energia termica prodotta si trasforma in energia cinetica mediante normali turbine mosse dal vapore, ed infine in energia elettrica mediante gli stessi principi di una centrale elettrica tradizionale. Innovativo è anche il fatto che la produzione avrà luogo anche durante le ore notturne. 15 Si veda l’intervento di Anna Maria Tarantola (Vice Direttore Generale della Banca d’Italia) nel giugno del 2010 durante la presentazione del rapporto L’economia della Campania. 16 Le ben note difficoltà italiane in campo infrastrutturale si amplificano nelle aree svantaggiate: una dotazione di ferrovie elettrificate pari alla metà di quella nazionale, una rete autostradale carente e incompleta. Fatto pari a 100 l’indice nazionale di dotazione di infrastrutture lineari (strade, ferrovie), nel Mezzogiorno si raggiunge un modesto valore di 51,8. 17 Dovrebbero coinvolgersi i fondi di private equity finalizzati alle infrastrutture come quelli di grande banche d’affari, da operatori specializzati o ancor meglio i fondi sovrani.

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Le proposte dell’Associazione


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DISCONTINUITA’ E NUOVE STRATEGIE DI SVILUPPO PER IL MEZZOGIORNO

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Prefazione La associazione Fareitalia parte dal Sud. Convinta che il Mezzogiorno non è un’altra Italia e nemmeno la zavorra del paese ma la frontiera dello sviluppo dell’Italia e dell’Europa. Con tutti i problemi che ne sorgono e con le soluzioni che si impongono. Il documento che presentiamo, realizzato con i ricercatori della Fondazione Farefuturo, ritiene che sia assolutamente necessario una nuova e diversa politica nei confronti del Mezzogiorno, tanto più oggi a fronte di una primavera araba che è fonte di inquietudine ma anche di opportunità. Lampedusa può essere considerata come avamposto d’Europa da difendere e quindi torre di una fortezza continentale, come vorrebbero i cultori di una politica chiusa, rivolta al passato, o, invece, come l’emblema di una nuova frontiera dello sviluppo, centro di un bacino che può finalmente crescere a due polmoni. Quando cadde il Muro di Berlino, ci fu chi anche in Italia si oppose alla riunificazione tedesca e presagì chissà quali disastri dal crollo della cortina di ferro, contraddistinta da una presunta invasione dall’Est. È accaduto esattamente il contrario, grazie alla lungimiranza di Helmut Kholl che impose subito la parità del marco e una politica di investimenti nei confronti dei territori orientali della Germania che allora erano in condizioni peggiori del nostro Mezzogiorno. Vent’anni dopo dobbiamo prendere atto che quell’azione, apparen-

temente dolorosa, ha portato i frutti migliori per la Germania che è diventata locomotiva dell’economia mondiale e della politica europea. Le sorti dell’Euro sono ora nella mani della Germania, ha detto di recente qualcuno. In generale, l’intera Europa dell’Est è stata terra di investimenti e di sviluppo per le imprese e l’economia dell’Europa Occidentale, anche italiana, come ben sanno le imprese del Nord Est e in generale della riviera adriatica. Ora, vent’anni dopo, cade la frontiera meridionale d’Europa, in un contesto generale drammatico sul fronte economico e non solo finanziario, con conseguenze sociali gravissime per il nostro modello di sviluppo e tanto più nelle sue aree più deboli, come nel nostro Mezzogiorno. In questo momento le imprese del Nord, stanno voltando pagina, grazie alla crescita delle esportazioni nei paesi emergenti. Il Mezzogiorno, però, conta appena per il 10% delle esportazioni nazionali e in gran parte nel mercato europeo che è quello che cresce di meno o non cresce affatto. Per crescere occorre aprirsi non certo chiudersi. Il mercato interno ha bisogno di tempo e di grande riforme per ricominciare a crescere. E ci vuole coraggio e responsabilità. Il mercato esterno crescerà di più e più velocemente. Non solo i Bric (Brasile, Russia, India, Cina) ma ora e di pìù proprio la sponda sud del Mediterraneo, il cosiddetto Grande Medio Oriente e l’Africa. Nei prossimi vent’anni sarà questa l’area del mondo che promette di più, anche per il suo alto tasso di natalità. Il Mezzogiorno può crescere se si concepisce come un’opportunità, ponte verso il Sud, come la Germania Orientale è stata


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ponte verso Est. Ma deve cambiare, profondamente cambiare. E soprattutto deve cambiare la sua classe dirigente che ancora oggi in buona parte è orfana della Cassa del Mezzogiorno, peggio ancora di fatto ancora pregna di quella cultura clientelare e assistenziale che ha sprecato tante energie e tante risorse, a cominciare da quelle europee che oggi sono in scadenza. Fareitalia con Faresud o se volete Faresud per Fareitalia non è uno slogan ma una scommessa e nel contempo un progetto di sviluppo. Lo presentiamo a Catania, in quella che avrebbe potuto essere davvero la Milano del Sud. E poi negli altri potenziali poli di sviluppo del Mezzogiorno. Palermo, Bari, Lecce, Napoli, Salerno, Pescara e Reggio Calabria. Nella convinzione, peraltro, che il Ponte non sia solo una infrastruttura, peraltro necessaria, ma un polo si sviluppo a cui non si può rinunciare. Il progetto sul quale ci confronteremo prevede, in sostanza due tempi: il primo da realizzare in questo scorcio di legislatura nazionale e regionale: quindici mesi circa di attività legislativa: il secondo nei prossimi cinque anni, dal 2013 al 2018, se l’Italia e l’Europa saranno ancora in piedi. Nella prima fase, occorre che il Mezzogiorno sia inserito a pieno titolo come opportunità e non certo come problema nella manovra per la crescita che, a nostro avviso, deve contenere una patto sociale tra garantiti e non garantiti, un patto generazionale tra nonni e nipoti, e un patto nazionale tra nord e sud. Questo significa, liberalizzazioni e privatizzazioni, riforma del welfare e della PA,

un aumento dell’età pensionale in cambio di detassazioni per l’impresa e il lavoro dei giovani e, inoltre infrastrutture, innovazione e internet, se occorre anche attraverso una patrimoniale di scopo. Solo investendo sul capitale umano e sul territorio, su cultura e ambiente sul futuro e non sul passato,sarà possibile rendere appetibile la nostra economia e competitiva la nostra società nell’epoca della nuova globalizzazione, in quello che appare essere il nuovo Bacino di crescita del Mediterraneo. Adolfo Urso 207

Scenari e obiettivi Il rapporto annuale dell’Istat descrive l’Italia come un paese in cui coesistono due realtà profondamente distinte: il nord con un elevato livello di benessere e il sud con gravi ed evidenti rischi di povertà. Il perpetuarsi di questo divario se non tempestivamente contrastato e superato porterà inevitabilmente ad una frattura economica con evidenti conseguenze catastrofiche per tutto il nostro paese. È quindi ormai necessario e non più rinviabile costruire politiche che possano ridare slancio e stimolare il Mezzogiorno per permettere l’azzeramento di questa disparità e stimolare il rilancio dell’Italia sulla scena europea ed internazionale. Affinché il Sud possa recuperare strada e non si debba più sentire parlare di Italia a due velocità sono necessarie misure mirate a: riformare le governance a livello locale (regionale, provinciale, comunale), creando forme di aggregazione più ampie per permettere scelte condivise e non più conflittuali, per rendere più efficiente


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l’amministrazione, per migliorare la qualità dei servizi e per realizzare progetti infrastrutturali di comune interesse; contrastare l’illegalità e combattere il sommerso attraverso misure fiscali virtuose, capaci di rilanciare lo sviluppo economico e sociale; creare una agenzia per lo sviluppo del Mediterraneo o banca di sviluppo subregionale finalizzata all’attrazioni di capitali per il finanziamento di progetti di investimento delle Pmi nel Mezzogiorno e nel Mediterraneo; accrescere la responsabilità degli individui e promuovere una crescita economica più stabile, duratura e condivisa investendo massicciamente in capitale umano ed in innovazione. In questo grave momento di crisi, il rilancio del nostro paese passa anche attraverso un profondo cambiamento del Sud. Analisi e proposte Lo scorso anno un impietoso articolo del Financial Times ha paragonato la stato del Sud Italia alla situazione nazionale della Grecia. Regioni come Campania, Calabria e Lazio sono definite come “spendaccione” e bisognose di una disciplina fiscale. Nello stesso periodo il settimanale Economist ha pubblicato una “fanta-cartina” dell’Europa ridisegnandone i confini prendendo come parametri di riferimento l’economia, la politica e i conti pubblici. Il Sud Italia, definito come “bordello” viene separato dal Nord e in deriva verso la vicina Grecia. Per questo motivo oggi è prioritario per il centrodestra del futuro occuparsi della cosiddetta “questione meridionale” in una visione costruttiva e partecipativa, non più assistenziale.

In Italia, negli ultimi anni la crescita si è fermata, segno di un economia bloccata e di un modello di sviluppo non adeguato, e in questo quadro si sta diffondendo l’idea che il Meridione, con la sua immagine di disorganizzazione, di apparente resa di fronte al fenomeno della criminalità, di opacità e di impianificabilità dello sviluppo, sia diventato un carico troppo pesante. Il Mezzogiorno è visto come luogo della crisi. È questa una visione sciatta e distratta che non va contrastata con astratte logiche di programma, ma in modo pragmatico partendo da una importante considerazione: l’economia meridionale non è diversa da quella italiana, ma ne rappresenta una parte con le sue specificità e le sue qualità e come tale va gestita e compresa e specialmente valorizzata. Il primo nodo da sciogliere è la riforma della govarnance. Negli ultimi decenni abbiamo assistito ad una cattiva gestione pubblica. Troppi sprechi, pochi investimenti e soprattutto una cattiva amministrazione e uso dei fondi europei. Le istituzioni locali, in primo luogo le Regioni ma anche le Province e i Comuni, devono crescere in qualità per recuperare quel pericoloso discredito che va diffondendosi nella società civile. Devono cioè essere in grado di fornire ai cittadini servizi adeguati ed efficienti per promuovere la crescita civile responsabilizzandoli al rispetto dei valori condivisi tipici delle società avanzate. A tal fine occorre un’inversione di rotta nella formulazione delle politiche per il Sud e ciò per segnare nuove e concrete vie d’uscita all’emarginazione e al degrado, valorizzando risorse e capitale umano di cui è ricco il Mezzogiorno. Il pro-


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blema sta, non tanto negli obiettivi ormai largamente diffusi, ma nei meccanismi e nelle procedure di intervento pubblico. Diventa importante recuperare l’idea del Federalismo fiscale, visto come opportunità e non un cappio per le amministrazioni locali, per mettere ordine ai propri bilanci definendo priorità di intervento, tipologie e costi dei servizi. Dovranno essere premiati gli enti locali che si adegueranno ai costi standard medi nazionali per stimolarne la responsabilità fiscale nella gestione e fornitura dei servizi, evitando crescenti deficit di bilancio non più sostenibili. Nelle azioni di investimento pubblico le risorse dovranno essere destinate in via prioritaria alla manutenzione dell’esistente, mentre la realizzazione di nuove opere dovrà essere attuata tramite organismi tecnici indipendenti e dotati di credibilità internazionale. In questo contesto è necessario migliorare l’Amministrazione locale. La gestione del territorio è una priorità inderogabile, non solo per scongiurare il ripetersi di eventi calamitosi conseguenti al degrado ambientale, ma anche e specialmente come azione di valorizzazione dell’enorme patrimonio artistico, culturale e paesaggistico di cui è ricco il Mezzogiorno. Replicando il modello sperimentato con successo per la gestione post-terremonto dell’Aquila, è indispensabile concentrare in un unico organismo (tipo il Prefetto) la gestione del territorio regionale ed in particolare le concessioni edilizie e i provvedimenti di contrasto all’abusivismo edilizio. Le istruttorie continuerebbero ad essere eseguite dai Comuni mentre le relative autorizzazioni e provvedimenti demoli-

tori verrebbero delegati ad un commissario straordinario regionale per un predeterminato periodo temporale. Ottimizzare la produzione e gestione dei servizi. È proprio in questo campo che si concentrano gran parte delle inefficienze e distorsioni. Anche qui occorre un salto di qualità per cercare nuove forme di collaborazione pubblico-privato capaci di migliorare la qualità delle prestazioni offerte ad un giusto rapporto qualità-prezzo. Investire nei settori sensibili come la sanità, la scuola e la fornitura dei servizi sociali: Sanità - In attesa di un’organica riforma nazionale, il servizio pubblico deve garantire l’accesso a servizi di qualità separando le funzioni di day-hospital da quelle ospedaliere e sperimentando, di concerto con il sistema assicurativo, forme di parziale privatizzazione dei servizi e delle prestazioni. Utilities - Attualmente servizi quali l’energia, l’acqua, l’elettricità, l’assistenza agli anziani, ecc., sono svolti in gran parte da società pubbliche o a controllo pubblico, prefigurando situazioni di monopolio, di concorrenza sleale con il privato e di scarsa trasparenza nel rapporto qualitàprezzo. Ci si riferisce alla pletora di società municipalizzate diffusasi a macchia d’olio come bracci operativi dei Comuni, incentivando la liberalizzazione o la parziale privatizzazione. Il secondo obiettivo è dare nuovo slancio allo sviluppo economico e sociale combattendo l’illegalità e il sommerso. È ormai evidente che l’insufficienza di nuovi investimenti, la bassissima capacità di attrazione di investimenti esteri e l’eccessiva disoccupazione, sono tra i mag-

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giori problemi che limitano le possibilità di sviluppo del Mezzogiorno. Carenze che derivano dalla diffusa illegalità e dalla crescita vertiginosa e incrostabile dell’economia sommersa, fonte a sua volta di illegalità. Il Pil del Mezzogiorno si mantiene al di sotto dei livelli delle altre regioni del Centro-Nord, facendo abbassare la media nazionale. In termini di attrazione di investimenti diretti all’estero, le regioni meridionali presentano un notevole gap non solo rispetto alle altre regioni italiane ma anche rispetto alle altre aree europee che presentano caratteristiche socio-economiche simili a quelle del Mezzogiorno. Il miglior antidoto a questi deprecabili fenomeni sta notoriamente nello sviluppo economico e nella conseguente crescita dell’occupazione. Ma come evitare che tale opzione resti un’affermazione di principio? Che ogni iniziativa di sviluppo poggi fondamentalmente sulle scelte e sulle risorse pubbliche? Che le modalità di intervento scadano nell’assistenzialismo e alimentino clientele e corruzione? Occorre una discontinuità forte rispetto al passato. Gli investimenti in opere pubbliche sono carenti, mal gestiti e troppo lenti nella loro realizzazione. Gli investitori privati sono distorti nelle loro scelte dalla ricerca di contributi pubblici e non riescono perciò a realizzare progetti economicamente validi e duraturi nel tempo. La scelta dei progetti di sviluppo, sia d’impresa che per infrastrutture, nonché del loro finanziamento, deve essere affidata ad organismi di elevato spessore tecnico ed sicura credibilità internazionale, in grado di operare senza interferenze politiche

così da essere capaci di attrarre capitali sui mercati internazionali. Allo Stato e alle Regioni deve essere demandata solo la definizione delle priorità di intervento e la destinazione di risorse pubbliche ai singoli progetti a titolo di incentivazione, senza entrare nel meccanismo di valutazione e selezione. I lavori pubblici devono rappresentare la priorità come ridurre la distanza SudCentro Nord, ma vanno gestiti in modo efficiente e con tempistica predefinita per evitare che il Mezzogiorno, specie le grandi città e le principali arterie di comunicazione, diventino cantieri perenni. In questa ottica è determinante la riforma delle misure di aiuto pubblico: per le infrastrutture la copertura delle spese non dovrebbe essere totale e il sostegno pubblico dovrebbe manifestarsi in un sistema di project financing agevolato, utilizzando a tal fine risorse pubbliche (nazionali ed europee) come “leva” per l’attrazione di capitali privati. Il project financing è la migliore garanzia sulla validità dei progetti scelti, sul dimensione del finanziamento, sui tempi di attuazione. In merito agli aiuti agli investimenti privati va eliminato il contributo in conto capitale, fonte di distorsione di scelte e di assistenzialismo, e previsto il contributo in conto interesse su crediti erogati dal sistema bancario e la detassazione automatica degli utili reinvestiti. Non serve replicare i crediti d’imposta, fonte di pastoie burocratiche e di comportamenti illegali. Infine per favorire l’attrazione degli investimenti esteri ben venga la creazione di zone a burocrazia “zero” (proposta Tremonti), certo più efficaci delle zone fran-


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che fiscali per le quali ci sono troppi vincoli europei. Per accrescere le risorse finanziarie per il finanziamento di progetti infrastrutturali e di progetti di investimento di Pmi, va realizzato un grande e ambizioso obiettivo: la creazione di una banca di sviluppo sub-regionale per il Mediterraneo (BdSM). Una delle carenze più importanti che frenano la realizzazione dei progetti di investimenti presentati da imprese o da altri organismi è dovuta al fatto che, a fronte di un sistema bancario di tipo tradizionale, mancano operatori specializzati nel settore della preparazione dei progetti, sia dal punto di vista della loro identificazione e finanziamento, sia da quello, non meno importante, della loro generazione e valutazione secondo il modello standard del “ciclo progettuale”. Il modello BdSM appare il più adeguato ad incorporare le caratteristiche di un operatore specializzato nel campo della promozione di progetti di investimento infrastrutturale e d’impresa in un’area diversificata e vasta quale quella del Mediterraneo, ove gli interessi italiani sono di grande rilievo. Una BdS specializzata e dotata di elevata professionalità può rappresentare un veicolo di sostegno alla cooperazione coinvolgendo capitale privato a fianco di un limitato capitale pubblico. L’idea di una banca di sviluppo per il Mediterraneo è stata a lungo dibattuta nei consessi internazionali e negli stessi ambienti della Comunità Europea. In Europa, attività tipo di BdSM sono svolte dalla Bers nei paesi dell’Est europeo ed in parte dalla Bei, che però si è limitata a costituire una facility con un impatto sul finanziamento dei

progetti piuttosto limitatati e comunque non esteso al Mediterraneo. Non esiste alcun operatore che abbia allo stesso tempo rilievo internazionale nel settore dei progetti di investimento e sia radicato nella regione opera oggi nel Mediterraneo. Gli elementi essenziali per la sua realizzazione riguardano: le modalità di istituzione da parte italiana del nuovo organismo per attribuirgli quel riconoscimento indispensabile sul piano del riconoscimento internazionale; la mission nella ricostruzione e nello sviluppo in linea con il rilancio della politica di cooperazione nell’area; la dotazione di capitale iniziale (pubblico e privato); l’articolazione e i contenuti della struttura, che necessariamente devono essere altamente professionali e specialistici; la specializzazione territoriale in un’area con un fabbisogno acuto di infrastrutture; la specializzazione funzionale nel risk management e nel project financing. L’internazionalizzazione dello sviluppo, problema fondamentale di una economia aperta in una società globalizzata, avrebbe nella di BdS uno strumento e una opportunità strategica di primaria grandezza, che potrebbe fare del Sud-Europa l’epicentro di un circolo virtuoso di crescita endogena. Il quinto obiettivo è il sostegno al capitale umano. È fondamentale far crescere la responsabilità degli individui e promuovere una crescita economica più stabile, duratura e, specie, condivisa. Rispetto ai primi anni 2000 sono aumentati i giovani meridionali trasferitisi al Centro-Nord, ed è in crescita la percentuale dei laureati “eccellenti” che hanno

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lasciato il Mezzogiorno: nel 2004 partiva il 25% dei laureati meridionali con il massimo dei voti; già nel 2010 la percentuale è balzata a quasi il 40%. Riguardo all’occupazione, nel 2010 su 106mila laureati meridionali 38mila erano disoccupati (il 78% residente al Sud), e dei 62mila occupati, 26mila lavoravano al Centro-Nord. Tra il 2007 e il 2010 il peso della disoccupazione meridionale è risultato nettamente maggiore alla media italiana con un divario particolarmente ampio rispetto alle regioni settentrionali. È necessario che riscatto del Mezzogiorno sia generato dagli individui stessi. Non mancano le capacità, ma manca l’impegno da parte delle istituzioni alla crescita del capitale umano dei singoli. Un impegno che deve essere costante e duraturo e realizzato stimolando l’accesso ai bisogni essenziali del vivere civile, all’abitazione, ai servizi pubblici essenziali (sanità e formazione in primis), alla sicurezza, ecc. In tutte le società meno sviluppate il degrado sociale è causato dal degrado civile, per cui occorre agire con decisione su questo per ridare fiducia agli individui e responsabilizzarli sulle loro scelte. Il decoro urbano e il rispetto delle regole è condizione essenziale per favorire il recupero di fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzione e migliorarne le condizioni di vita. Su questi ed altri temi che riguardano la gamma dei bisogni essenziali occorre mobilitare e responsabilizzare le autorità locali, riservando allo Stato la facoltà di surroga in casi di palese inadempienza. Per rilanciare l’occupazione, sull’esempio francese va eliminata l’Irap e sospeso il

pagamento dei contributi per un anno, almeno per le piccole imprese. Particolare attenzione va alla formazione, un buon livello di preparazione porta a un buon livello dei servizi. Proprio in questo campo la parte di competenza dei Comuni è quella di maggiore importanza nella fondamentale azione di sostegno e crescita del capitale umano, di cui il Mezzogiorno è particolarmente carente. Per questo motivo andrebbe istituito un organo di valutazione della qualità dell’insegnamento e degli edifici scolastici con sistemi di premi e sanzioni per stimolare la crescita delle eccellenze. Conclusioni Quasi tutti gli analisti sono convinti che lo sviluppo del mezzogiorno possa partire da un significativo miglioramento dell’intero quadro della governance locale che dovrà essere perfezionata in modo da gestire i compiti assegnati alle specificità locali. Più in generale è necessario dare il via a un vero e proprio processo di “re-istituzionalizzazione” intendendo tale termine nel suo significato più ampio. Istituzione infatti non è solo lo Stato ma tutto ciò che aiuta le persone a superare una condizione di isolamento e solitudine. L’esperienza si insegna che vincono le società coese e governate come ad esempio la Germania con la sua riedizione di una economia sociale di mercato che vede la compartecipazione equilibrata di mercato, Stato, parti sociali, con ruoli non confusi ed in ogni caso responsabili. Re-istituzionalizzare il Mezzogiorno quindi significa ripartire dai luoghi dove gli individui cercano


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insieme di costituire comunità aperte nella vita civile e nella vita economica e sociale: nella famiglia e l’associazionismo, la politica ed il tessuto amministrativo. Una buona società significa buona politica e buona amministrazione. Sappiamo di partire da una base fragile: anche l’associazionismo più motivato e gli amministratori più preparati e convinti possono fare poco da soli di fronte ad un compito che finisce troppo spesso per essere di pura difesa. Sentire la presenza dello Stato nel mezzogiorno è importante per rendere normali i processi amministrativi di base e per difendere e assicurare i cittadini nel loro impegno civile. Una normalità amministrativa è l’obiettivo primario che può portare il Mezzogiorno fuori dalla attuale situazione di stallo. Per ottenere questo occorre intervenire sui processi amministrativi con la stessa determinazione con la quale si sta combattendo il male della criminalità e il sommerso: tempi e qualità delle decisioni devono rapidamente migliorare. Occorre una forte componente di affiancamento alle amministrazioni meridionali di professionalità eccellenti che possano presidiare tutta la catena operativa dalla progettazione alla realizzazione degli interventi. Si può partire dalla gestione dei fondi strutturali con “l’obiettivo 100%”: 100% di impegno, 00% di spesa effettiva, 100% di qualità dei progetti e degli interventi entro i termini che l’Ue pone. Per fare questo lo Stato non deve stanziare risorse aggiuntive ma esercitare la sussidiarietà nei processi, proporzionalmente al loro livello di criticità e di efficienza al limite sostituendosi alle amministrazioni

palesemente incapaci di decidere e di intervenire: la mancata utilizzazione delle risorse in un momento di crisi e di forti vincoli di bilancio è un fatto non più tollerabile. LA CRESCITA DEL MEZZOGIORNO IN DIECI PRIORITÀ 1 - Riduzione della spesa pubblica di parte corrente degli enti locali, finalizzata ad operare risparmi di almeno il 5% all’anno attraverso un’operazione di trasparenza delle voci di spesa e della maggiore sinergia territoriale tra le Regioni meridionali. 2 - Patto di stabilità della spesa sanitaria regionale applicando i costi standard nazionali. 3 - Vendita graduale del patrimonio immobiliare pubblico inutilizzato o reso ridondante in seguito a riforme già effettuate e introduzione di un meccanismo di incentivo-disincentivo nella distribuzione dei contributi nazionali alle Regioni per stimolarle alla dismissione. 4 - Lotta al sommerso riducendo le addizionali Irpef regionali e comunali sui i nuovi imponibili emersi. 5 - Lavoro e giovani*, eliminazione dell’Irap e dei contributi previdenziali per due anni per le piccole imprese che creano nuovi posti di lavoro creati (un sistema analogo è applicato in Francia). Sospensione dell’Irap sulle assunzioni di giovani fino ai 30 anni di età. Introduzione di un’imposta unica pari al 10% del reddito imponibile e per un periodo di 10 anni, comprensiva di ogni prelievo fiscale e previdenziale, sulle imprese create da giovani fino ai 35 anni di età; istituzione di un fondo di partecipazione

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al 50% del capitale di rischio per le imprese create da giovani fino ai 35 anni di età. Creazione di un fondo di garanzia sui prestiti concessi per le imprese create da giovani fino ai 35 anni di età. 6 - Investimenti*, detassazione degli utili reinvestiti in nuovi investimenti operati da qualsiasi impresa nazionale o estera. Creazione di 10 zone a burocrazia zero beneficianti di un’imposizione forfettaria ridotta al 15% per un periodo di 10 anni per attrarre in particolare investimenti esteri. 7 - Impresa, ricerca e innovazione*, aumento dei fondi di venture capital per partecipazioni al capitale di rischio di imprese innovative per un periodo massimo di 7 anni e con diritto di riscatto al valore attuale di mercato. Detassazione degli utili d’impresa destinati al finanziamento di progetti di ricerca e sviluppo e di trasferimento tecnologico realizzati in collaborazione con centri di ricerca universitari e privati deducibilità dall’imponibile d’impresa delle spese relative alla brevettazione di innovazioni e alla sperimentazione in laboratori per un periodo di 2 anni sono interamente. 8 - Infrastrutture, ricorso al partenariato pubblico-privato attraverso forme di project financing agevolato per il finanziamento delle opere; il contributo pubblico dovrà operare da “leva” per l’attrazione di capitali privati e dei fondi europei; creazione di una Banca Sub-regionale di Sviluppo per il Mediterraneo, in partenariato pubblico-privato, per favorire investimenti in infrastrutture e in progetti d’impresa attraverso mirate misure di funding sul mercato internazionale dei capitali, per migliorare e rendere più efficiente la sele-

zione dei progetti, per migliorare l’assistenza tecnica, per ottimizzare l’impiego dei fondi europei e del Fas. 9 - Formazione. Accorpare le competenze in tema di formazione delle scuole secondarie di ogni ordine e grado nei Comuni; introduzione nei programmi formativi di base come materia obbligatoria l’educazione civica, indispensabile per formazione capitale umano; introdurre incentivi all’accorpamento delle funzioni didattiche, di ricerca e di trasferimento tecnologico degli Atenei meridionali. 10 - Risparmio energetico*. Attuazione di un piano di incentivi-disincentivi per il risparmio energetico e l’autonomia energetica di aree industriali e artigianali. In alcuni paesi (Austria) e Regioni (Trentino-Alto Adige) si sono ottenuti risultati di risparmio e sostituzione di fonti tradizionali con fonti rinnovabili di circa il 40%. * previa negoziazione in sede Ue.


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FAREITALIA PER IL BENE COMUNE DOCUMENTO PROGRAMMATICO Nel 2011 le istituzioni italiane compiono 150 anni. Mai come in questi mesi risuona un assordante monito sullo sgretolamento del capitale sociale, sulla disaffezione dalla politica, sulla violenza dello scontro istituzionale. Mai come in questi mesi ci sarebbe bisogno di riscoprire il Bene Comune. Di guardare al passato per sanare le ferite avendo il «coraggio di perdonare», riconoscendoci tutti figli di una grande drammatica e gloriosa storia nazionale. Ma soprattutto, stride il clima di odio in un momento che richiederebbe soluzioni e non duelli, uno sguardo al futuro per immaginare un grande sforzo corale, un clima politico diverso per una grande e benedetta metamorfosi del Sistema-Italia. Siamo al termine di una parabola trentennale in cui la “via italiana” centrata sull’energia dell’individuo e sulla sua creatività è passata dal rappresentare un processo virtuoso e produttivo (basti pensare al fiorire delle PMI) a prendere oggi la forma di uno stanco narcisismo o addirittura nar-cinismo (Censis 2010), che nega ogni apertura all’interesse pubblico e vive ripiegato in una “privatizzazione “dell’etica. I risultati di questo “individualismo stanco” sono sotto gli occhi di tutti ed hanno la forma del crollo demografico, dell’emergenza educativa, della stagnazione economica. Dopo un secolo e mezzo di cause giuste e sbagliate, vinte e perse è il momento che le istituzioni italiane stabiliscano con chiarezza un percorso per il nostro paese. Un percorso riformatore. Un

percorso per il Bene Comune, il grande assente dal dibattito della cosiddetta Seconda Repubblica. Serve un'azione riformista ispirata al Bene Comune. Una forza convinta che un patto intergenerazionale non sia più procrastinabile e debba necessariamente tradursi in interventi previdenziali, fiscali e sul debito pubblico, in provvedimenti choc che riattivino un virtuoso meccanismo di occupazione giovanile. Una forza riformista ispirata al Bene Comune oggi pensa che quasi vent’anni di assenza di politiche pubbliche sulla famiglia siano stati una tara pesantissima per la prima “agenzia di futuro” della società ed interventi risoluti come il “fattore famiglia” debbano perdere forma immediata. Una forza riformista ispirata al Bene Comune crede che la politica debba sapersi ri - dimensionare in competenze e costi sapendo della valenza esemplare e paradigmatica dei propri comportamenti ed avere il coraggio di decidere subito, non domani, le necessarie riforme costituzionali per ridurre il numero di parlamentari, ridurre gli oneri derivanti dalla pletora di province ed enti amministrativi intermedi, porre fine al bicameralismo fotocopia. Una forza riformista ispirata al Bene Comune crede che il costo della vita per i cittadini sia realmente oltre ogni soglia di tollerabilità ed ogni intervento in tal senso debba passare per un profondo processo di liberalizzazione dei servizi contro le rendite di posizione dovute ad oligopoli ed i neostatalismi municipali. Una forza riformista ispirata al Bene Comune vuole superare i contrasti tra i so-

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stenitori di una morale così detta “laica” e coloro che si ispirano ai precetti della morale cattolica, inaugurando finalmente la stagione della “laicità positiva” invocata da Benedetto XVI come guida dei rapporti fra autorità civili e religiose. Una laicità positiva rispettosa dei principi di diritto naturale, della dignità della persona umana, del ruolo irrinunciabile delle religioni nello “spazio pubblico”. Una forza riformista ispirata al Bene Comune accoglie i nuovi italiani dando loro (specialmente ai nati nel nostro paese) reali possibilità di integrazione e cittadinanza e accoglie i rifugiati politici e religiosi in seno alla nostra comunità nazionale rifiutando la “politica della paura” e del respingimento in mare dei clandestini. Una forza riformista ispirata al Bene Comune crede sia doveroso porre al centro la spina dorsale del paese nella sua declinazione pubblica: i beni culturali, il servizio pubblico televisivo, la lingua italiana, l’università e la scuola, i ruoli della pubblica amministrazione, gli asset strategici del paese. Una forza riformista ispirata al Bene Comune crede nella Big Society, una società civile con poteri e funzioni, decisionali e gestionali, che garantisca un welfare sussidiario ispirato alla Cittadinanza Attiva. Dobbiamo far ripartire, da questo III Giubileo della Patria, un grande movimento di condivisione di obiettivi. Che superi l’individualismo stanco ed incapace di pensare al plurale e ci ricollochi invece nel più naturale ed “italiano” solco del Noi, del pensiero al plurale. Dobbiamo recuperare le radici del nostro paese. Qui la Cristianità ha incontrato la cultura classica e una forza riformista ispirata al Bene

Comune che si riconosce nell’Europa popolare, liberale e democratica, oggi in gran parte rappresentata dal gruppo Popolare, e che parte proprio dalle radici per consentire all’albero di fiorire e portare frutti. Vorremmo, nel decennio che inizia e su cui si snoda la strategia europea per una crescita intelligente, sostenibile ed inclusiva, essere forza ispiratrice di un grande rinnovamento del Sistema Italia, in sintonia con i nostri alleati continentali ed occidentali, nel solco dell’Europa dei Padri Fondatori.


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NOTE CHARTA

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gli strumenti di

Il monito della Bce all’Italia con la famosa lettera di agosto, il ducumento della Confindustria con i punti salienti per far ripartire l’economia e il paese, il manifesto dei trentenni del Pd che vedono nella crisi l’opportunità per un cambio generazionale della classe politica e dirigente del paese, che in questi anni ha fallito nel trovare delle risposte ai problemi della nazione. E, infine, il manifesto presentato dalle associazioni cattoliche al forum “Per la buona politica e il bene comune”.

Charta Minuta ha deciso di pubblicare questi quattro ducumenti perché sono la base ideale per far ripartire il sistema-paese.


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PROGETTO DELLE IMPRESE PER L’ITALIA L’Italia si trova davanti ad un bivio. Può scegliere tra la strada delle riforme e della crescita in un contesto di stabilità dei conti pubblici o, viceversa, scivolare ineluttabilmente verso un declino economico e sociale. Per questo le imprese hanno deciso di lanciare una proposta che indichi a tutti –governo, Parlamento, forze politiche di maggioranza e opposizione, parti sociali, tutti gli italiani – pochi punti essenziali di forte discontinuità. È necessaria la maggiore coesione possibile, di tutte le risorse e di tutte le intelligenze. Da troppo tempo l'Italia non cresce. Da troppo tempo le nostre imprese perdono competitività. Da troppo tempo i giovani italiani vedono ridursi opportunità e speranze. Da troppo tempo il 95% dei contribuenti dichiara redditi inferiori a 50.000 euro. Le ragioni di tutto questo sono molteplici e nessuno può ritenersi esente da responsabilità. Per l'ingente ammontare del suo debito pubblico, per la sua bassa crescita oramai quindicennale, per i suoi alti tassi di spesa pubblica e di prelievo fiscale, il nostro paese da due mesi ha visto accrescere in maniera intollerabile il premio al rischio sui titoli di stato. Il deprezzamento dei listini erode il valore degli asset nazionali e del risparmio delle famiglie. Oggi il tempo si è fatto brevissimo. Ciò impone scelte immediate e coraggiose. Diversamente, ben al di là dei nostri demeriti, il mercato continuerà a penalizzare i nostri

titoli pubblici con inevitabili conseguenze sia sulla tenuta dei conti dello Stato che sul costo della raccolta delle banche e, di conseguenza, sui tassi applicati ai finanziamenti alle imprese e alle famiglie. Non si può assistere inerti a questa spirale. È in gioco più della credibilità del Governo e della politica. Sono a rischio anni e anni di sacrifici. È a rischio la possibilità di garantire ai nostri figli un paese con diritti, benessere e possibilità pari a quelli che abbiamo avuto fino ad oggi. Parte delle cause dell’attuale, difficile, fase economica dipendono da fattori esterni. Evidenti ritardi e incertezze della governance europea nel suo complesso hanno contribuito a deteriorare uno scenario economico già particolarmente avverso. Nello stesso tempo siamo fermamente convinti che tocchi all’Italia fare, sin da subito, le scelte necessarie per riguadagnare il rispetto e il prestigio che il paese merita. Occorre quindi produrre un immediato e profondo cambiamento, capace di generare più equità, maggiore ricchezza e riduzione dello stock del debito. La buona tenuta dei conti pubblici è il punto di partenza sul quale costruire le prime e non rinviabili misure per favorire e incentivare la crescita. Le forze del lavoro e dell'impresa del nostro paese, il risparmio delle famiglie, come il successo dell'export italiano sui mercati mondiali anche in questi anni difficili, rappresentano altrettanti punti di forza su cui costruire. Siamo chiamati a cambiare passo e ad esprimere uno sforzo comune in grado di far si che l'Italia continui ad essere uno tra i primi paesi manifatturieri del mondo e


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possa far conto su un forte e dinamico sistema dei servizi. Tutte le imprese sono pronte a fare la loro parte. é questa la ricetta vincente in un mondo scosso da un cambio di fase economica senza precedenti. Salvare l'Italia non è uno slogan retorico. Deve essere chiaro. Non intendiamo minimamente sostituirci ai compiti che spettano al governo, alla politica, a chi rappresenta la sovranità popolare. Avvertiamo però l’esigenza di non limitarci alle critiche, ma di indicare all'attenzione di tutti alcuni punti assolutamente prioritari. Chiediamo quindi di agire senza indugi. La discussione sui temi da noi proposti è da tempo ormai matura e non necessita di ulteriori approfondimenti. La nostra è una proposta che non vuole guardare indietro. Guardiamo avanti con un’ottica di “sistema”. Insieme si può rimettere in moto il paese. Le imprese lanciano questo progetto ben sapendo di non rappresentare che una parte della società italiana. È l'Italia intera che deve trovare la convinzione e l’energia per fare sin da subito le scelte necessarie. Per salvare oggi l'Italia e per rilanciare la crescita occorre affrontare cinque questioni prioritarie: − Spesa pubblica e riforma delle pensioni; Riforma fiscale; Cessioni del patrimonio pubblico; Liberalizzazioni e semplificazioni; Infrastrutture ed energia.

Spesa Pubblica e riforma delle pensioni Malgrado i tagli annunciati in ogni manovra finanziaria, negli ultimi dieci anni, fra il 2001 e 2010, la spesa pubblica al netto degli interessi è continuamente aumentata,

dal 41,8% al 46,7% del Pil, mentre era diminuita, in rapporto al Pil, nel decennio precedente. Questo dato non è dovuto solo alla bassa crescita del Pil: la spesa, sempre al netto degli interessi, è infatti cresciuta nell’ultimo decennio di venti punti percentuali in più dell’inflazione, mentre negli anni novanta era cresciuta solo di otto punti in più. L’aumento si è concentrato fra il 2000 e il 2005, quando l’Italia sperperò il dividendo di Maastricht e portò a zero un avanzo primario ereditato dagli anni novanta pari a oltre 5 punti del Pil. In base all’ultimo documento ufficiale (Nota di aggiornamento del Documento di Economia e Finanza; 22 settembre 2011), per conseguire il pareggio nel 2013 e iniziare a ridurre il rapporto fra il debito e il Pil, il saldo primario dovrebbe migliorare di quasi 90 miliardi di euro, da ‐0,1 del Pil nel 2010 a 5,4 nel 2013. Dovrebbe rimanere fra il 5 e il 6 % negli anni successivi. In sostanza in tre anni si dovrebbe recuperare il decennio perduto, tornando stabilmente ai livelli della fine degli anni novanta. È di assoluta evidenza che questi obiettivi non possono essere conseguiti se non si avviano quelle riforme strutturali della spesa che sinora sono state rinviate. È fondamentale che si dia piena attuazione ai tagli già programmati. Ma è altresì essenziale che i tagli non siano indiscriminati e siano volti a colpire i veri e grandi sprechi che si annidano nelle pubbliche amministrazioni. A questo fine, occorre che si dia seguito con la massima serietà e determinazione all’esercizio della spending review. In questo contesto bisogna intervenire con decisione sui costi della politica e sugli ap-

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parati istituzionali. Si tratta di una misura che non ha un valore soltanto simbolico, ma che può contribuire, attraverso l’eliminazione di duplicazioni organizzative e procedurali che pesano su cittadini e imprese, a migliorare l’assetto dello Stato e le sue performance. La manovra di agosto ha profondamente deluso. L’aver escluso la riduzione delle province – inizialmente prevista seppure con molti limiti – e l’averla rinviata a un Ddl costituzionale è stata una scelta sbagliata. Peraltro, il Ddl approvato dal Consiglio dei Ministri non elimina le province tout court, ma le trasforma in altri enti, con relativi organi e personale. Analoga valutazione va fatta sulla riduzione dei trattamenti economici dei parlamentari, fortemente attenuata rispetto alle proposte iniziali. Su queste scelte avevamo già dato un giudizio negativo. Questi tagli vanno adesso fatti con decisione e senza ripensamenti, così come è necessario procedere a una significativa riduzione del numero degli organi elettivi a tutti i livelli di governo. La spesa sanitaria è cresciuta da 67,5 miliardi a 113,5 miliardi nel decennio 2000‐2010 a un tasso medio annuale di oltre 2 punti superiore a quello del Pil. Vanno realizzate condizioni effettive per favorire una maggiore efficienza complessiva. In tal senso, occorre sviluppare ulteriormente forme di compartecipazione da parte dei cittadini abbienti, spingere sul processo di informatizzazione e, favorire lo sviluppo delle varie forme di sanità integrativa. Anche la spesa per acquisti di beni e servizi della PA (comprensiva degli acquisti per la sanità) è cresciuta più del Pil nel decennio

appena concluso da 87,4 a 137 miliardi, toccando l’8,8% nel 2010 contro il 5,6% nel 2000 (crescendo del 56,8% in termini nominali e del 45,7% in termini reali). I processi decisionali e operativi in tale ambito devono essere improntati alla massima trasparenza e confrontabilità. Andrebbe in questa direzione l’obbligo della fatturazione elettronica. Inoltre, è necessario che gli acquisti siano maggiormente improntati alla qualità e all'appropriatezza, superando l'unico parametro del prezzo più basso. Un settore fondamentale di intervento dal quale non si può prescindere è quello della spesa per pensioni. Le misure attuate finora hanno stabilizzato le tendenze di lungo periodo della spesa pubblica per pensioni (circa 15% del Pil nel 2008 secondo gli ultimi dati Eurostat), ma su un livello più elevato rispetto agli altri paesi europei (3,3 punti di Pil in più rispetto alla media Ue, 2,5 punti rispetto ai paesi dell’area euro). In vari paesi l’età legale di pensionamento è stata portata a 67 anni; anche in Germania dall’anno prossimo verrà avviato un graduale processo di elevazione dell’età di pensione (uomini e donne) da 65 a 67 anni. É necessario eliminare rapidamente le pensioni di anzianità, accelerare l’aumento dell’età di pensionamento di vecchiaia, equiparare l’età di pensionamento delle donne a quella degli uomini anche nel settore privato. Ritardare questo aggiustamento significa solo renderlo più costoso socialmente ed economicamente. Il tempo finora perduto su questo fronte pesa enormemente sui conti pubblici. In base agli ultimi dati di-


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sponibili, relativi al 2008, la spesa per pensioni di vecchiaia erogata a persone con meno di 64 anni di età supera i 55 miliardi, di questi ben 17 miliardi sono erogati a persone fra i 40 e i 59 anni. Secondo le valutazioni ufficiali, fra il 2010 e il 2013, la spesa per pensioni crescerà di quasi 33 miliardi. Ciò comporta che la correzione sulle altre voci che compongono il saldo primario dovrà essere superiore ai 120 miliardi, una cifra destinata a salire ulteriormente negli anni successivi in funzione dell’obiettivo di ridurre l’incidenza del debito pubblico. È quindi evidente che la riforma delle pensioni è indispensabile per contribuire a stabilizzare il debito pubblico, oltre che a rendere meno iniquo il rapporto fra generazioni, a fronte del fenomeno, comune a tutti i paesi ma particolarmente accentuato da noi, dell’invecchiamento della popolazione. Un contributo in questa direzione può venire dall’ulteriore sviluppo del sistema di previdenza integrativa. Se le misure sulle pensioni pubbliche non vengono decise rapidamente, corriamo il rischio di dover assumere, in condizioni di assoluta emergenza, provvedimenti ben più dolorosi, quali la messa in mobilità di decine di migliaia di dipendenti pubblici, come sta già accadendo in molti altri paesi. Si può stimare che le misure proposte – vedi box – determinino un risparmio iniziale complessivo di circa 2,9 miliardi di euro nel 2013 e di circa 18 miliardi di euro nel 2019. Tali stime si riferiscono al solo sistema Inps. Le risorse reperibili con la riforma delle pensioni devono anche concorrere a realizzare gli interventi cruciali per la crescita e

in particolare a ridurre l’attuale cuneo contributivo e fiscale e rilanciare così l’occupazione, soprattutto dei giovani. Elevare l’età pensionabile1 Come nel pubblico impiego, elevare a 65 anni dal 2012 l’età per il pensionamento di vecchiaia delle donne del settore privato. Anticipare al 2012 l’avvio del previsto meccanismo di aggancio automatico dell’età pensionabile all’aumento della speranza di vita. Portare a 62‐68 anni la forcella di età di pensionamento flessibile prevista nel regime contributivo.

Riforma delle pensioni di anzianità Abolire l’attuale sistema delle pensioni di anzianità. Consentire il pensionamento anticipato rispetto all’età di vecchiaia (65 anni per tutti e gradualmente incrementata in base all’aumento della speranza di vita), ma solo con una correzione attuariale della prestazione commisurata agli anni di anticipo. Prevedere un regime transitorio per il calcolo della pensione ovvero della valorizzazione dei versamenti contributivi di coloro che matureranno il requisito dei 40 anni di anzianità contributiva entro i prossimi 4 anni. In ogni caso, la pensione non può essere erogata prima dei 62 anni di età. Abrogare tutti i regimi speciali Eliminare dal 1.1.2012 tutti i regimi speciali previsti dall’Inps e dai diversi Enti previdenziali. In questo modo, si eliminerebbero privilegi che non trovano alcuna giustificazione.

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Riforma fiscale La delega per la riforma fiscale presentata dal Governo prevede che le risorse aggiuntive che saranno reperite dalla riforma dell’assistenza e dalla eliminazione delle sovrapposizioni tra interventi assistenziali e fiscali vengano destinate al raggiungimento del pareggio di bilancio. Si tratta di reperire 4 miliardi nel 2012, 16 nel 2013 e 20 nel 2014. L’attuale situazione dei mercati finanziari impone di attuare rapidamente, la delega. Se si ingenerasse il sospetto che si intende rinviare la delega a dopo una qualche scadenza elettorale le conseguenze per l’Italia sarebbero gravissime. Una rapida attuazione della delega è necessaria anche per evitare che scattino le clausole di salvaguardia inclusa quella prevista dalla manovra di agosto. Una riforma fiscale per lo sviluppo deve avere come obiettivo una significativa riduzione del prelievo su famiglie e imprese. Té indispensabile dare impulso alla capacitàT competitiva delle imprese italiane, in particolare riducendo il cuneo tra costo del lavoro e retribuzione netta. Va pertanto avviato subito il processo di superamento dell’Irap a partire dalla componente del costo del lavoro, in linea con quanto previsto dal disegno di legge delega. Lo strumento fiscale va anche utilizzato per poche e selezionate finalità di politica industriale – tra cui promozione degli investimenti in R&I, rafforzamento patrimoniale delle imprese – e per sostenere l’occupazione, in particolare dei giovani. Questi provvedimenti potranno essere calibrati in funzione delle risorse che saranno gradualmente rese disponibili, oltre che

dalla riforma delle pensioni, da una serie di interventi di riequilibrio delle entrate sul versante della lotta all’evasione e della tassazione dei patrimoni. Va rafforzata l’azione di contrasto dell’evasione fiscale. Il contrasto all’evasione serve a recuperare gettito, ma è anche una misura per la crescita, perché elimina un fattore di concorrenza sleale che tende a impedire la crescita dimensionale delle imprese e la loro internazionalizzazione. A questo fine va fissato a 500 euro il limite per l’utilizzo del contante e va contestualmente incentivata la diffusione della moneta elettronica. Occorre confermare e anche estendere misure di contrasto di interessi, quali sono le detrazioni fiscali del 36% per gli interventi in edilizia e del 55% per l’efficienza energetica. Un’altra misura cruciale ai fini del contrasto all’evasione consiste nel prevedere l'obbligo, per le persone fisiche, di indicare il proprio "stato patrimoniale" nella dichiarazione annuale dei redditi, per consentire di valutare la coerenza fra reddito e patrimonio. Nell’ambito di una riforma complessiva del sistema fiscale, l’obbligo dichiarativo può essere accompagnato da un prelievo annuale sul patrimonio delle persone fisiche ad aliquota contenuta e con una soglia di esenzione. In questo modo si darebbe concretezza all’obbligo dichiarativo e si otterrebbe un gettito annuale certo e tendenzialmente stabile da destinare, nell’ambito della riforma complessiva e nell’ottica della rimodulazione del prelievo, alla riduzione del prelievo diretto su imprese e persone. In alternativa, si renderebbe necessaria un rivisitazione della tassazione sui patrimoni immobiliari.


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Riforma fiscale: le cose da fare subito

Recuperare competitività riducendo il costo del lavoro Incrementare – almeno raddoppiando – gli importi forfetari attualmente previsti della deduzione per cuneo fiscale. Si può stimare che la misura abbia un effetto di minor gettito per l’erario di circa 1,8 miliardi di euro. Prolungare la deduzione dalla base imponibile Irap delle spese relative agli apprendisti anche successivamente alla trasformazione del loro contratto di lavoro. Si tratterebbe di rendere permanentemente deducibile il costo del lavoro dei lavoratori assunti con contratto di apprendistato, sia per i nuovi contratti che per quelli già in essere. Tale provvedimento costituirebbe un forte incentivo per l’occupazione dei giovani. L’effetto di minor gettito per l’erario è stimabile in circa 140 milioni di euro. Stimolare produttività, ricerca e innovazione Prevedere uno strumento fiscale automatico, con orizzonte temporale lungo (almeno 10 anni) che incentivi gli investimenti in R&I delle imprese, sia quelli in house, sia quelli realizzati in collaborazione con il sistema pubblico di ricerca e organismi di ricerca. Va prevista una quantificazione preventiva dell’ammontare complessivo richiesto come credito d’imposta, in modo da facilitarne la gestione finanziaria e permettere all’amministrazione pubblica un controllo puntuale dell’utilizzo. La misura richiede uno stanziamento di almeno 1 miliardo di euro l’anno. Introdurre forme di incentivazione stabili, fiscali e contributive, come previsto nella

delega fiscale, a sostegno delle quote di salario correlate ad incrementi di produttività, redditività ed efficienza. Si può stimare che gli effetti di minor gettito per l’erario dovuti allo sgravio contributivo siano pari a circa 900 milioni di euro, che si aggiungono alla detassazione già prevista (che ha un costo stimato per l’erario pari a 1,48 miliardi).

Rafforzamento patrimoniale e dimensionale delle imprese, internazionalizzazione Prevedere da subito “l’aiuto alla crescita economica (Ace)” previsto dalla bozza di legge delega per la riforma fiscale e assistenziale, che consente una riduzione del prelievo Ires commisurata al nuovo capitale immesso nell’impresa sotto forma di conferimenti in denaro da parte dei soci o di destinazione di utili a riserva. Misure analoghe andrebbero previste per le imprese individuali e le società di persone. Si può stimare un minor gettito per l’erario pari a circa 150 milioni di euro per il 2012, 234 milioni di euro per il 2013 e 309 milioni di euro per il 2014. Mantenere i regimi fiscali che favoriscono le reti di imprese anche a favore dei processi di innovazione e prevedere misure a favore dell’internazionalizzazione delle imprese. Certezza del diritto Riformulare integralmente la normativa che definisce gli elementi essenziali dell’abuso del diritto in ambito fiscale, precisando il confine tra elusione e legittimo risparmio di imposta; in particolare occorre stabilire che le operazioni che derivano da atti giuridici anche negoziali o meri fatti

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possono essere censurate come elusive solo in quanto conseguano vantaggi fiscali “indebiti”, per tali intendendo quelli che derivano dall’aggiramento di norme o principi. Individuare legislativamente i soggetti esonerati all’Irap in quanto privi di organizzazione. Contrasto all’evasione e prelievo patrimoniale ordinario Fissare a 500 euro il limite per l’utilizzo del contante e contestualmente incentivare la diffusione della moneta elettronica. Incentivare l’emersione di fatturato prevedendo per i contribuenti soggetti agli studi di settore un “premio” fiscale legato all’aumento del reddito e fatturato rispetto alla soglia di congruità. Introdurre l'obbligo, per le persone fisiche, di indicare il proprio “stato patrimoniale” nella dichiarazione annuale dei redditi2. Applicare, sul patrimonio netto delle persone fisiche, una imposta patrimoniale annuale, ad aliquote contenute e con le necessarie esenzioni, per dare concretezza all’obbligo dichiarativo e ottenere un gettito annuale certo stabile. Si può stimare che la misura comporti un maggior gettito per l’erario di circa 6 miliardi di euro annui.

Revisione Irpef Avviare la revisione dell’Irpef sui redditi più bassi. Cessioni del patrimonio pubblico Per sostenere la credibilità e la competitività del sistema‐paese occorre un piano immediato di cessioni del patrimonio pubblico – mobiliare e immobiliare – per ottenere un rapido abbattimento dello stock di

debito pubblico e ridurre l'enorme perimetro della manomorta pubblica sull'economia italiana. Date le condizioni dei mercati finanziari, la via oggi più rapida è di procedere con massicce dismissioni dell'ancora ingentissimo patrimonio immobiliare cedibile e da mettere a reddito, secondo le stime del conto patrimoniale del Tesoro. L’attività di dismissione deve essere svolta unicamente secondo le procedure dell’evidenza pubblica. Sono poi necessarie ampie privatizzazioni nel settore dei servizi pubblici locali (Spl), gestiti attraverso migliaia di società controllate da enti locali e generalmente in perdita, malgrado i generosi sussidi pubblici. La Manovra di agosto prevede alcune misure di incentivazione che vanno in questa direzione, ma sono insufficienti. Essa, infatti, destina una quota del Fondo infrastrutture a investimenti infrastrutturali effettuati dagli enti territoriali che dismettano partecipazioni societarie nei Spl, eccetto quelli idrici, ed esclude le spese effettuate a valere sulla predetta quota dai vincoli del patto di stabilità. La dotazione del Fondo, pari a 250 milioni di Euro per il 2013 e 250 milioni per il 2014, è però limitata, quindi l’incentivo riconosciuto agli enti locali è debole. Manca un rapporto diretto tra dismissioni, che hanno un costo politico potenzialmente elevato per l’ente locale, e investimenti, che invece sono considerati positivamente da cittadini e imprese. Questo è un passaggio essenziale. Per incentivare realmente gli Enti locali a dismettere le partecipazioni societarie, occorre sottrarre integralmente ai limiti


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del patto di stabilità le spese effettuate con i proventi delle dismissioni per investimenti per opere pubbliche, manutenzione straordinaria e ristrutturazione del patrimonio esistente, anche a fini di efficienza energetica. Analoga previsione va applicata ai proventi derivanti dalle dismissioni degli immobili di proprietà degli enti locali, anche al fine di favorire il coinvolgimento delle imprese di minori dimensioni. Cessioni del patrimonio pubblico: le cose da fare subito Dismettere gli immobili pubblici e privatizzare le partecipazioni societarie degli enti locali. Cedere il patrimonio immobiliare di enti statali e locali. Dismettere le partecipazioni societarie degli enti locali nei servizi pubblici locali. Prevedere che gli enti locali possano utilizzare i proventi derivanti dalle dismissioni di immobili e partecipazioni al di fuori dei limiti del Patto di stabilità interno, per opere pubbliche, manutenzione straordinaria e ristrutturazione del patrimonio esistente, anche a fini di efficienza energetica. Prevedere che l’attività di dismissione sia svolta unicamente secondo le procedure dell’evidenza pubblica. Liberalizzazioni e semplificazioni È indispensabile per il ritorno alla crescita ridurre in maniera drastica l’eccesso di regolamentazione e procedere ad una energica liberalizzazione delle attività economiche. Per dare impulso al processo di liberalizzazione dei mercati in cui è ancora forte la

presenza pubblica, occorre anzitutto istituire autorità indipendenti nei settori che ne sono privi o estendere le competenze delle autorità esistenti per colmare le attuali carenze, con l’obiettivo di garantire imparzialità, parità di trattamento e certezza della regolazione. É necessario, in particolare, istituire un’Autorità indipendente dei trasporti. Essa deve ridurre le asimmetrie regolamentari esistenti tra le varie modalità, prevenire e sanare situazioni lesive della concorrenza e allineare l’assetto regolatorio nazionale agli standard Ue. Sempre in quest’ottica, occorre trasformare l’Agenzia delle risorse idriche in un’Autorità indipendente, affidandole anche la competenza sul settore del ciclo dei rifiuti, ovvero attribuire tali compiti all’Autorità per l’Energia Elettrica e il Gas. Quanto ai servizi pubblici locali (Spl), i principi affermati con la Manovra di agosto sono condivisibili, ma in parte inefficaci perché privi di meccanismi che ne assicurino l’enforcement. Bisogna attribuire all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato un vero e proprio potere vincolante di verifica degli orientamenti di liberalizzazione e di gestione concorrenziale dei Spl definiti dagli enti locali e non invece, come è oggi, di mero monitoraggio. L’abbattimento delle barriere all’entrata di nuovi concorrenti e degli ostacoli all’esercizio delle attività economiche deve diventare la regola e non l’eccezione. Per conseguire strutturalmente questo obiettivo è necessario orientare le modifiche all’art. 41 Cost. all’affermazione espressa del principio della libera concorrenza. Nell’immediato, va reso effettivo il principio – altrimenti del tutto inutile – del-

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l’abrogazione implicita delle restrizioni affermato nella Manovra, attribuendo a uno specifico soggetto il compito e la responsabilità di individuare le disposizioni abrogate. Vanno poi eliminate, da un lato, le eccezioni all’abrogazione previste per alcuni settori economici, dall’altro, la facoltà attribuita al Governo di sottrarre, in base a generiche ragioni di interesse pubblico, singole attività alla liberalizzazione. In generale, le eccezioni alle abrogazioni di restrizioni andranno piuttosto ricondotte alla sussistenza di motivi imperativi di interesse generale previsti dall’ordinamento comunitario. Anche le Regioni, in base ai principi di concorrenza e omogeneità dei livelli essenziali delle prestazioni previsti dall’art. 117 Cost., dovranno indicare espressamente, entro un termine tassativo, tutte le restrizioni abrogate. È urgente liberalizzare i servizi professionali. Alcuni dei principi affermati nella manovra di agosto sono condivisibili. Gli effetti però sono incerti e rinviati nel tempo. Vanno introdotte misure di applicazione immediata, alle quali affiancare una riforma strutturale e più incisiva che introduca effettivi elementi di concorrenza e qualità nell’offerta dei servizi professionali. È indispensabile un’azione energica di semplificazione degli oneri burocratici. Negli ultimi anni sono stati adottati importanti provvedimenti, molti dei quali però sono rimasti privi di effetti pratici per i loro principali destinatari: le imprese. Le ragioni sono diverse: mancata adozione dei provvedimenti attuativi a livello statale; resistenze e inerzie nell’applicazione da parte dei funzionari pubblici; norme poco chiare o programmatiche; misure ancora

parziali; attuazione disomogenea o carente da parte di Regioni ed enti locali. A quest’ultimo riguardo, l’aver attribuito, con la riforma del Titolo V della Costituzione, alla competenza delle Regioni alcune materie rilevanti per lo svolgimento delle attività di impresa che richiedono una disciplina unitaria ha determinato un proliferare di ordinamenti diversi sul territorio e una moltiplicazione dei centri decisionali, che ostacola l’avvio e lo svolgimento delle attività di impresa. Infine, a tutto questo si aggiungono i ritardi e i malfunzionamenti della giustizia civile, che minano la certezza del diritto e del suo enforcement. Occorre agire rapidamente su più fronti. È urgente attribuire una precisa responsabilità politica ad un Ministro o altra autorità, dotandola di incisivi poteri di intervento per garantire l’attuazione delle norme di semplificazione e proporre le necessarie correzioni o integrazioni. In tale processo vanno coinvolte le associazioni imprenditoriali. Occorre puntare su poteri e meccanismi sostitutivi, sia per risolvere i problemi di mancata attuazione delle misure normative, che per sbloccare i procedimenti amministrativi per l’avvio di attività economiche. É essenziale riformare il Titolo V della Costituzione per riportare alla competenza esclusiva dello Stato materie che richiedono una disciplina unitaria, tra le quali l’energia, le grandi reti e infrastrutture. Bisogna proseguire con le semplificazioni normative e amministrative avviate per abbattere gli adempimenti a carico delle imprese e accelerare i procedimenti amministrativi necessari per l’avvio di attività economiche.


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Nessuna semplificazione è però credibile e può essere apprezzata in quanto tale, se lo Stato non cessa di trattare i cittadini come sudditi. La PA per prima deve rispettare le regole e i contratti e pagare le imprese nei termini pattuiti, abbandonando comportamenti che la connotano come un debitore capriccioso e del tutto inaffidabile. Infine, per garantire la certezza del diritto, è indispensabile restituire efficienza alla giustizia civile. Va quindi attuata rapidamente e in maniera rigorosa la delega per la revisione della geografia giudiziaria, attribuita con la Manovra di agosto al Governo. Si tratta di una riforma attesa da decenni, che non può essere messa in discussione da pressioni localistiche. Nell’ambito di questa riforma dovranno essere altres“ soddisfatte le esigenze di specializzazione dei giudici, con particolare attenzione alle controversie commerciali. Occorre poi continuare a puntare sulla mediazione civile e commerciale quale strumento indispensabile di deflazione del contenzioso. Liberalizzazioni e semplificazioni: le cose da fare subito

Liberalizzare trasporti e servizi pubblici locali Istituire l’Autorità dei trasporti e accorpare le competenze regolatorie in materia di risorse idriche e rifiuti in capo ad un'unica Autorità. Rafforzare il ruolo dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, attribuendole poteri vincolanti di verifica degli orientamenti di liberalizzazione definiti dagli enti locali. Liberalizzare le attività economiche Affermare il principio di libera concorrenza nell’art. 41 Cost.

Indicare espressamente le restrizioni – statali e regionali – oggetto di abrogazione ed eliminare le eccezioni al principio della libera iniziativa economica, fatti salvi i motivi imperativi di interesse generale previsti dall’ordinamento comunitario.

Liberalizzare i servizi professionali Vietare la fissazione di tariffe (fisse o minime) e prevedere l’obbligo di presentare un preventivo scritto al cliente. Sottrarre i controlli sulla pubblicità agli ordini e affermare la competenza esclusiva dell'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato. Prevedere espressamente la possibilità di costituire società di capitali, anche con soci di mero investimento, ferma restando la personalità della prestazione intellettuale. Attribuire al governo una delega legislativa a riformare gli ordini professionali per: ridurne il numero e rafforzarne i compiti di garanzia di qualità dell’offerta, evitando qualsiasi influenza sui comportamenti economici degli iscritti; consentire limiti al numero di persone titolate a esercitare una professione solo per motivi di ordine pubblico, pubblica incolumità, sanità pubblica, pubblica sicurezza; ridurre le riserve legali di attività, limitandole ai soli casi in cui siano strettamente necessarie per la tutela di interessi costituzionalmente garantiti. Assicurare regole omogenee per le attività di impresa su tutto il territorio nazionale Riformare l’art. 117 Cost. per riportare alla competenza esclusiva dello Stato che richiedono una disciplina unitaria, tra le quali l’energia, le grandi reti e infrastrutture.

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Puntare su poteri e meccanismi sostitutivi per superare veti e inerzie Consentire a soggetti diversi da quelli delegati per legge di adottare atti normativi o amministrativi generali in caso di mancata attuazione di misure previste a livello normativo. Consentire a uffici diversi o a livelli di governo superiori di sostituirsi alle amministrazioni inerti e portare a termine i procedimenti amministrativi.

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Implementare le misure già adottate Attribuire a un ministro o altra autorità il compito di verificare lo stato di attuazione delle semplificazioni, intervenire per accelerare l’approvazione dei provvedimenti necessari e proporre, quando serva, integrazioni e correttivi. Approvare rapidamente tutti i provvedimenti attuativi delle semplificazioni già adottate. Completare le semplificazioni amministrative e normative Rafforzare la trasparenza dei procedimenti amministrativi, prevedendo l’obbligo per tutte le PA di pubblicare sul sito Internet l’elenco dei propri procedimenti, indicando termini e documenti previsti (anche se richiesti da provvedimenti pubblicati in GU) e “sanzionare” le PA inadempienti. Rafforzare le semplificazioni amministrative su permessi di costruire, razionalizzazione e riduzione dei controlli; autorizzazione paesaggistica; Scia. Migliorare il processo di produzione normativa attraverso la previsione del divieto di introdurre oneri non compensati dalla cancellazione di quelli esistenti (cd. one in

one out) e di gold plating nell’attuazione delle direttive Ue. Proseguire con le semplificazioni normative per ridurre gli oneri previsti dalle norme vigenti (es. ambiente, fisco, edilizia, urbanistica). Favorire rapidamente l’operatività delle Agenzie delle imprese e rafforzarne il ruolo. Semplificare il dialogo tra imprese e PA Favorire il ricorso alle nuove tecnologie, incentivando l’utilizzo degli strumenti diversi da quelli cartacei, che andranno gradualmente sostituiti con flussi elettronici strutturati ed elaborabili basati su uno standard comune per la rappresentazione delle informazioni. Accelerare i tempi della giustizia civile Dare rapida attuazione alla delega per la revisione delle circoscrizioni giudiziarie per migliorare l’efficienza degli uffici e consentire la specializzazione dei magistrati. Puntare sulla mediazione quale strumento di deflazione del contenzioso. Infrastrutture, efficienza energetica L’infrastrutturazione del nostro paese vive ormai da troppi anni in una situazione di dannosa e inaccettabile incertezza, che impedisce la definizione e l’attuazione di un’efficace programmazione volta a sostenere lo sviluppo e la competitività del paese, specie nel Mezzogiorno. Le risorse pubbliche sono costantemente ridotte dalle manovre correttive e di sostenibilità dei conti pubblici. Le risorse private sono disincentivate da un elevato rischio regolatorio e amministrativo, che è in grado di modificare sensibilmente i costi e i


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tempi di realizzazione e di entrata in funzione delle opere e, quindi, la remunerazione degli investimenti. Secondo i dati ufficiali (Nota di aggiornamento al Def 2011), gli investimenti pubblici sono destinati a subire un ulteriore forte taglio da 32 miliardi nel 2010 a 23,7 miliardi nel 2013. Occorre fare ogni sforzo, anche tramite lo strumento della spending review, per contenere la spesa corrente e preservare la spesa per investimenti. Occorre altresì creare condizioni di certezza e stabilità del quadro regolatorio e fiscale per attrarre capitali privati. Sotto questo profilo, misure che penalizzano di volta in volta questo o quel settore, siano essi concessionari di pubblici servizi o i produttori di energia, costituiscono un grave danno. Molti degli ostacoli alla realizzazione delle opere dipendono da incertezze circa la corretta interpretazione delle norme, che generano contenzioso e ricorsi con esiti spesso difformi nelle diverse aree del paese. Tali incertezze devono essere eliminate. Come già evidenziato, occorre altresì rivedere il titolo V della Costituzione in modo da chiarire definitivamente le competenze decisionali e localizzative sulle infrastrutture di interesse nazionale e sovranazionale. Vanno selezionate poche e reali priorità di intervento, con particolare riguardo all’energia e alla logistica di persone e merci e con particolare attenzione al Mezzogiorno, accelerando e concentrando su tali investimenti l’impiego di Fas e Fondi strutturali. Nell’immediato, si deve intervenire con urgenza, anche con misure eccezionali, per sbloccare le opere già finanziate con risorse pubbliche e private.

Ad ogni livello decisionale vanno individuate precise responsabilità per la buona riuscita dell’opera. Nei casi di blocco, deve essere possibile il ricorso al potere autorizzatorio dei livelli superiori di responsabilità, per imporre le decisioni localizzative e progettuali finali. In tema di efficienza energetica e fonti rinnovabili devono essere salvaguardati gli obiettivi di efficienza (minimizzazione costi rispetto agli obiettivi) ed efficacia (policy stabile) anche rispetto agli obiettivi di crescita delle aziende italiane. L’efficienza energetica è il pilastro portante della green economy italiana. é un settore in cui le nostre imprese sono già all’avanguardia e presentano una dimensione importante: il comparto associato all’efficienza energetica conta oggi oltre 400.000 aziende e oltre 3 milioni di occupati (incluso l’indotto). La condizione fondamentale per la crescita è rappresentata dalla presenza di un framework normativo certo e stabile nel medio termine per assicurare la necessaria continuità sia ai soggetti che investono, sia all’industria fornitrice di prodotti ad alta efficienza e ai servizi connessi. Già oggi è possibile stimare che il mantenimento degli incentivi ordinari previsti per l’efficienza energetica nel settore residenziale, terziario e dell’industria consentirebbe, a tecnologia esistente, di ottenere un risparmio potenziale del nostro paese nel periodo 2010‐2020 pari a oltre 86 Mtep di energia fossile che equivale ad una riduzione della bolletta energetica del paese di oltre 25 miliardi di euro e di oltre 5 miliardi di costo della CO2 evitato. Inoltre, poiché lo stimolo riguarderebbe comparti tecnologi-

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ci fortemente radicati nel tessuto produttivo italiano si attiverebbe un impatto socio‐economico pari a circa 130 miliardi di Euro di investimenti, un aumento della produzione industriale diretta e indiretta di 238,4 miliardi di euro e un crescita occupazionale di circa 1,6 milioni di unità di lavoro standard, con un incremento del Pil medio dello 0,6% annuo. In aggiunta, considerando anche gli effetti netti sulla fiscalità, il beneficio netto collettivo sarebbe potenzialmente superiore a 1,5 miliardi euro l’anno. Occorre infine investire in ricerca nelle tecnologie per la sostenibilità e le fonti rinnovabili puntando su quelle più promettenti sotto il profilo dell’efficienza energetica e ambientale. Infrastrutture, efficienza energetica: le cose da fare subito

Concentrare le risorse sulle grandi priorità infrastrutturali, d’interesse europeo e nazionale, e su pacchetti di piccole opere, riprogrammando le risorse disponibili, in particolare quelle nel Mezzogiorno finanziate da Fondi strutturali e Fas.

Efficienza energetica Prorogare l’attuale livello di incentivazione fiscale strutturalmente fino al 2020. Introdurre una normativa orientata a promuovere l’uso di standard tecnologici più efficienti in tutti i nuovi investimenti nel settore residenziale, terziario industriale e dei trasporti. Promuovere con campagne informative diffuse comportamenti di consumo energetico responsabile.

NOTE 1

Investimenti pubblici e infrastrutture Utilizzare la spending review per contenere la spesa corrente e tutelare la spesa per investimenti, garantendone la stabilità nel tempo. Rivedere la normativa per eliminare le incertezze che generano contenzioso. Riforma del titolo V della Costituzione per chiarire le competenze in materia di infrastrutture di interesse nazionale. Incentivare il coinvolgimento della finanza privata: sviluppo dei Project Bond e attivazione di un più efficace sistema di garanzie (pubbliche e private). Effettuare una ricognizione delle opere in itinere e individuare precise responsabilità e poteri sostitutivi per la buona riuscita delle stesse.

Dal 2013, compatibilmente con l’andamento dei conti pubblici, dovrà essere eliminato il sistema delle finestre mobili. 2 Gli immobili già si devono indicare (ma non le quote in società immobiliari), ma oggi rimangono fuori tutti gli asset mobiliari (azioni, quote, fondi, finanziamenti, depositi bancari e postali, obbligazioni, ecc.). é ricchezza in grandissima parte già oggi "tracciata" dagli intermediari finanziari, per cui il controllo non sarebbe difficile.


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PUBBLICHIAMO LA LETTERA DELLA BCE AL GOVERNO ITALIANO

Francoforte/Roma, 5 Agosto 2011 Caro Primo Ministro, Il Consiglio direttivo della Banca centrale europea il 4 Agosto ha discusso la situazione nei mercati dei titoli di Stato italiani. Il Consiglio direttivo ritiene che sia necessaria un'azione pressante da parte delle autorità italiane per ristabilire la fiducia degli investitori. Il vertice dei capi di Stato e di governo dell’area-euro del 21 luglio 2011 ha concluso che «tutti i paesi dell'euro riaffermano solennemente la loro determinazione inflessibile a onorare in pieno la loro individuale firma sovrana e tutti i loro impegni per condizioni di bilancio sostenibili e per le riforme strutturali». Il Consiglio direttivo ritiene che l’Italia debba con urgenza rafforzare la reputazione della sua firma sovrana e il suo impegno alla sostenibilità di bilancio e alle riforme strutturali. Il governo italiano ha deciso di mirare al pareggio di bilancio nel 2014 e, a questo scopo, ha di recente introdotto un pacchetto di misure. Sono passi importanti, Fma non sufficienti. Nell’attuale situazione, riteniamo essenziali le seguenti misure: 1. Vediamo l'esigenza di misure significative per accrescere il potenziale di crescita. Alcune decisioni recenti prese dal Governo si muovono in questa direzione; altre misure sono in discussione con le parti sociali. Tuttavia, occorre fare di più ed è cruciale muovere in questa direzione con decisione. Le sfide principali sono l'au-

mento della concorrenza, particolarmente nei servizi, il miglioramento della qualità dei servizi pubblici e il ridisegno di sistemi regolatori e fiscali che siano più adatti a sostenere la competitività delle imprese e l'efficienza del mercato del lavoro a) È necessaria una complessiva, radicale e credibile strategia di riforme, inclusa la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali. Questo dovrebbe applicarsi in particolare alla fornitura di servizi locali attraverso privatizzazioni su larga scala. b) C'è anche l'esigenza di riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi al livello d'impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione. L'accordo del 28 Giugno tra le principali sigle sindacali e le associazioni industriali si muove in questa direzione. c) Dovrebbe essere adottata una accurata revisione delle norme che regolano l'assunzione e il licenziamento dei dipendenti, stabilendo un sistema di assicurazione dalla disoccupazione e un insieme di politiche attive per il mercato del lavoro che siano in grado di facilitare la riallocazione delle risorse verso le aziende e verso i settori più competitivi. 2. Il governo ha l'esigenza di assumere misure immediate e decise per assicurare la sostenibilità delle finanze pubbliche. a) Ulteriori misure di correzione del bilancio sono necessarie. Riteniamo essenziale per le autorità italiane di anticipare di al-

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meno un anno il calendario di entrata in vigore delle misure adottate nel pacchetto del luglio 2011. L’obiettivo dovrebbe essere un deficit migliore di quanto previsto fin qui nel 2011, un fabbisogno netto dell'1% nel 2012 e un bilancio in pareggio nel 2013, principalmente attraverso tagli di spesa. È possibile intervenire ulteriormente nel sistema pensionistico, rendendo più rigorosi i criteri di idoneità per le pensioni di anzianità e riportando l'età del ritiro delle donne nel settore privato rapidamente in linea con quella stabilita per il settore pubblico, così ottenendo dei risparmi già nel 2012. Inoltre, il Governo dovrebbe valutare una riduzione significativa dei costi del pubblico impiego, rafforzando le regole per il turnover (il ricambio, ndr) e, se necessario, riducendo gli stipendi. b) Andrebbe introdotta una clausola di riduzione automatica del deficit che specifichi che qualunque scostamento dagli obiettivi di deficit sarà compensato automaticamente con tagli orizzontali sulle spese discrezionali. c) Andrebbero messi sotto stretto controllo l'assunzione di indebitamento, anche commerciale, e le spese delle autorità regionali e locali, in linea con i principi della riforma in corso delle relazioni fiscali fra i vari livelli di governo. Vista la gravità dell'attuale situazione sui mercati finanziari, consideriamo cruciale che tutte le azioni elencate nelle suddette sezioni 1 e 2 siano prese il prima possibile per decreto legge, seguito da ratifica parlamentare entro la fine di Settembre 2011. Sarebbe appropriata anche una riforma costituzionale che renda più stringenti le regole di bilancio.

3. Incoraggiamo inoltre il Governo a prendere immediatamente misure per garantire una revisione dell'amministrazione pubblica allo scopo di migliorare l'efficienza amministrativa e la capacità di assecondare le esigenze delle imprese. Negli organismi pubblici dovrebbe diventare sistematico l'uso di indicatori di performance (soprattutto nei sistemi sanitario, giudiziario e dell'istruzione). C'è l'esigenza di un forte impegno ad abolire o a fondere alcuni strati amministrativi intermedi (come le Province). Andrebbero rafforzate le azioni mirate a sfruttare le economie di scala nei servizi pubblici locali. Confidiamo che il Governo assumerà le azioni appropriate. Con la migliore considerazione,

Mario Draghi, Jean-Claude Trichet


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IL MANIFESTO DEI T-PARTY DEMOCRATICI, I TRENTENNI DEL PD La più grave crisi economica dal Dopoguerra a oggi coincide con una altrettanto difficile crisi politica. Gli italiani nati negli anni Settanta, Ottanta e Novanta non possono continuare ad affidare il proprio destino ai riti della politica vecchia. Il berlusconismo al crepuscolo, perso il contatto con il paese reale, sopravvive solo nel palazzo. Ha forse i numeri per una rabberciata maggioranza parlamentare ma il pallottoliere non può sostituire la politica e nella società italiana il ciclo del Cavaliere si è chiuso. Si tratta, per il Partito democratico e per la nostra generazione, di un’opportunità straordinaria, l’occasione di chiudere una pagina per scriverne una nuova. Per concorrere a una proposta alternativa di governo che sappia guardare oltre la mera manutenzione delle nostre tradizionali aree di consenso e intercettare l’Italia profonda, inclusi i delusi del centrodestra e i tanti, troppi, tentati dall’astensionismo, soprattutto fra i nostri coetanei. La sfida è avvicinare alla politica chi è distante, i tanti giovani che la percepiscono come qualcosa di inconcludente e negativo, da cui stare alla larga. Ma il punto di partenza deve essere chi c’è: quei ragazzi e quelle ragazze che, con una scelta controcorrente rispetto alla propria generazione, hanno deciso valesse la pena di mettersi in gioco, di impegnarsi in prima persona, di provare a cambiare il mondo partendo dal proprio quartiere o dal proprio paese. Giovani impegnati nel partito, che vivono con profondo senso di appar-

tenenza e non come una casa provvisoria, o come un mero restyling di organizzazioni gloriose ma che oramai fanno parte dei libri di storia. C’è chi usa il giovanilismo come una clava, da brandire verso il quartier generale, poi ci sono i quasi cinquantenni che ritengono di essere loro i portabandiera del rinnovamento e infine quelli che avrebbero i requisiti dal punto di vista anagrafico ma guardano al passato e non al futuro, imbrigliati nella nostalgia di vecchi partiti che nemmeno hanno conosciuto. Noi riteniamo si possa lavorare per un Pd aperto e innovativo, senza cadere nel vizio, vecchissimo, di scalare un partito parlandone male, senza partecipare al tiro al bersaglio verso il nostro segretario ma nemmeno aspettando il proprio turno mettendoci in fila. La nostra generazione ha tutte le carte in regola per dare un contributo importante, perché è composta da ragazzi e ragazze che non devono ricorrere alla preposizione ex per definire la propria identità politica, perché non abbiamo mai trovato sulle schede elettorali i simboli della Dc, del Pci, o del Psi. Una generazione che non ha nostalgie né rimpianti, non sente il peso delle vecchie appartenenze, non deve sfuggire all’insidiosa tentazione di guardarsi indietro. Non abbiamo conosciuto le grandi narrazioni del passato, né il piccolo mondo antico di Peppone e don Camillo. La nostra memoria collettiva comincia proprio dalla fine: il crollo del muro di Berlino nell’89, la stagione di Mani pulite e del maggioritario, la scomparsa o la trasformazione dei grandi partiti di massa, l’orrore e l’indignazione per le stragi mafiose

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dei primi anni Novanta. L’immaginario del presente si alimenta con i ricordi dell’11 settembre, della nascita dell’Euro, con l’Erasmus, con il sogno di Obama, con l’incubo Fukushima. Il nostro tempo è quello della rete e dalla rivoluzione tecnologica che ha grandi conseguenze anche nelle pratiche sociali e nel modo di vivere lo spazio pubblico. Bersani ha giustamente evocato la categoria dei nativi del Pd, che in fondo corrisponde a quella dei digital nativi: una generazione abituata più a consultare Wikipedia o a cercare un concetto o un informazione su Google che a sfogliare le pagine di una enciclopedia. Una generazione che ha dimestichezza e confidenza con i new media, che scrive sui blog o condivide video su YouTube, che si relaziona e interagisce con gli altri attraverso i social network come Myspace, Facebook, Twitter. Il ricambio generazionale non deve essere solo una formula di rito, la recita di un mantra da proclamare più che da realizzare, quanto piuttosto la scommessa di rendere protagonisti chi, lontano dai riflettori, nei circoli, nei banchi nei consigli comunali, provinciali e regionali, negli organismi, è già classe dirigente. Uno straordinario patrimonio di energie, impegno, fantasia e militanza, un buon punto di partenza per praticare un cambiamento che non sia solo un’operazione mediatica, o una cooptazione di polli da batteria. E per farlo crediamo sia uno strumento positivo quello delle primarie che costituisce un momento di grande partecipazione e, finché permane questa sciagurata legge elettorale, rappresenta una preziosa occasione per ridurre il divario fra cittadini e

politica e la disillusione verso un Parlamento di nominati. Vogliamo spalancare porte e finestre, e guardarci intorno. Pensiamo ai ricercatori universitari che per amore della scienza e dello studio resistono in Italia con paghe da fame, ai tanti giovani che hanno smesso di studiare e lavorano duramente, ai tantissimi che un’occupazione nemmeno ce l’hanno. E che percepiscono la politica a una distanza siderale, qualcosa che non affronta i problemi di cui parlano la sera: le tasse, come arrivare a fine mese, l’affitto da pagare, un frigo da riempire, l’utopia di costruirsi una famiglia. Ma pensiamo anche ai giovani professionisti e imprenditori frustrati. Pensiamo al farmacista senza licenza, ragazzo di bottega, del titolare o di suo figlio. Pensiamo allo Steve Jobs italiano che non riuscirebbe mai a fondare una Apple in Italia e al giovane avvocato sfruttato dai signorotti del foro che ostacolano l’ingresso e la concorrenza nella professione. Di fronte ad una società più povera e smarrita, più incerta e insicura, una parte largamente maggioritaria delle nuove generazioni corre il rischio di avere un triste primato: quello di avere meno speranze di futuro delle generazioni che l’hanno preceduta. Viviamo in un paese a bassissima mobilità sociale in cui è ancora vergognosamente alta la probabilità che il figlio di un operaio faccia lo stesso lavoro del padre, nel caso riesca ad averlo, un lavoro. Un paese in cui il reddito e la condizione economica della famiglia sono decisivi più del merito e delle capacità, nel determinare quale sarà il percorso di studi, il lavoro, le opportunità nella vita. Questo è


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particolarmente grave in una nazione in cui esiste un grande divario tra nord e sud e tra periferia e centro, ed è particolarmente grave in un paese con alto tasso di evasione fiscale e in cui il 10% delle famiglie possiede il 40% dei patrimoni. Un paese in cui ogni ambito di “potere” – nella politica come nell’impresa, nei media – è precluso a un giacimento immenso di persone da una barriera geriatrica. Nel settore delle libere professioni gli ordini funzionano come caste chiuse, corporazioni medievali il cui ponte levatoio si apre solo per cooptazione. Nelle università, spesso non conta il merito, la preparazione e nemmeno la genialità; insegnano i baroni, i loro figli o cognati mentre nel resto del mondo ha trent’anni si può ottenere una cattedra o guidare un laboratorio. Riteniamo che l’Italia abbia bisogno di una terapia d’urto, servono liberalizzazioni, serve un dimagrimento del peso degli sprechi nella pubblica amministrazione e dei costi della politica, serve una riforma del fisco che favorisca chi lavora e chi produce, serve concorrenza dove non ce n’è o dove non ce n’è abbastanza, serve un mercato del lavoro in cui venga superato l’apartheid tra protetti e non protetti con una riforma all’insegna della flexsecurity, come spesso ricordano Francesco Giavazzi e Alberto Alesina. I problemi principali che rallentano l’Italia e rendono insostenibile il suo debito sono la produttività, la precarietà e il tasso di occupazione. La produttività è bassa per mancanza di investimenti in organizzazione, formazione e innovazione. Il tasso di occupazione è basso per la scarsa partecipazione al lavoro di donne, giovani e

anziani. La precarietà è causa di scarsa produttività, perché le imprese puntano su bassi salari invece che sull’innovazione per competere. La mancanza di welfare per le donne limita la loro partecipazione al mercato del lavoro. Per questi motivi va ripensato profondamente il sistema di Welfare che ha bisogno di una maggiore equità generazionale e di genere. Quello dell’innalzamento dell’età pensionabile non può essere un tabù: bisogna avere il coraggio di mettere mano a una riforma strutturale del sistema pensionistico che non sia completamente a scapito di chi oggi ha trent’anni. Lo sbilanciamento sul fronte pensionistico, inoltre, causa da decenni l’insufficienza di risorse e strumenti per il diritto allo studio, per le famiglie, per le donne, per i disoccupati. Nonostante questo fosse noto, la sinistra massimalista continua a forzare i governi di centro sinistra verso misure inopportune, come la famigerata abolizione dello scalone. Sono noti anche i possibili interventi in materia di lavoro e di welfare, ma la politica ne discute senza agire. Quanto a lungo dovremmo ancora parlare della parificazione del costo contributivo dei contratti o dell’introduzione di un contratto unico a protezione progressiva, dello statuto dei lavoratori autonomi? Dobbiamo essere il partito che accetta la sfida di coniugare competitività e coesione sociale, rimettere il paese in movimento e allo stesso tempo aiutare i più deboli, creando maggiori opportunità per il popolo dei non garantiti, per tutti coloro che sono rimasti fuori dal fortino dei privilegi. I partiti politici, i sindacati e i datori

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di lavoro si sono confrontati negli ultimi due decenni in maniera ideologica e improduttiva. Il dibattito si è sempre bloccato seguendo una esplicita strategia di conservazione dei sindacati, dei populisti di destra e di sinistra, e delle imprese. Lo sterile dibattito sull’articolo 18 è un ottimo esempio di rito ideologico e conservatore condotto da tutti gli attori coinvolti nel dibattito e nelle trattative. Crediamo che la stagione dei governi Prodi non sia per nulla riducibile in maniera caricaturale a un’operazione neo-liberista, né si possa liquidare ingenerosamente in un fallimento. Noi riteniamo che quell’esperienza non possa ritenersi pienamente riuscita non perché ha perseguito il progetto di riforme liberali ma, al contrario, perché immobilizzata da veti e ricatti di una coalizione male assortita, non è riuscita a portarlo avanti fino in fondo. Il primo governo Prodi, d’altronde, cadde per non assecondare il ricatto di Rifondazione sulle 35 ore, esperimento quello della riduzione dell’orario di lavoro, che peraltro 15 anni dopo, si è archiviato come fallimentare in tutta Europa. Gli Italiani nati negli anni Settanta, Ottanta e Novanta sono figli di quell’esperienza, dell’intuizione feconda dell’Ulivo di Romano Prodi, della sua profonda ispirazione europeista. Della spettacolare rimonta con cui il suo primo governo, con Carlo Azeglio Ciampi al Tesoro, ha consentito all’Italia di centrare l’obiettivo dell’Euro, la più grande riforma degli ultimi anni. La moneta unica di cui oggi dovremmo apprezzare pienamente il valore sebbene i conservatori di destra e sinistra aizzino gli italiani contro la Banca centrale europea e non contro la

cattiva politica di oggi e di ieri. La politica che ha accumulato più debito di quanto sostenibile e che ha trascurato di abbatterlo quando il ciclo economico lo avrebbe permesso. La politica che ha continuato a sottoscrivere debito in nome delle future generazioni. Generazioni che, già oggi, finanziano il welfare dei padri e dei nonni, rassegnati a un futuro meno protetto e sicuro di quello delle precedenti generazioni. Siamo figli anche di quel tentativo coraggioso di dare una scossa all’Italia che nel secondo governo Prodi ha rappresentato la lenzuolata delle liberalizzazioni di Pier Luigi Bersani. Noi riteniamo ci sia la necessità di molte altre lenzuolate con riforme ancora più radicali per liberare le energie di questo paese. Un’epoca sta per chiudersi nella storia della politica italiana. Qualche analista ritiene che il Pd faccia parte del mondo che sta per tramontare, noi, al contrario, riteniamo che sia stato fondato per essere protagonista di quello che sta nascendo. All’orizzonte uno scenario nuovo, carico di incertezze e di speranze. Per questo non dobbiamo scaricare su altri responsabilità e rimproveri. Perché ora sta a noi.


STRUMENTI

Pubblichiamo il testo integrale del Manifesto per la buona politica e il bene comune presentato lo scorso 19 luglio nel corso del Forum delle associazioni di ispirazione cattolica. Un manifesto redatto con l'intento di rilanciare i valori della dottrina della Chiesa che da sempre caratterizzano l'attività delle associazioni che vi aderiscono. I Promotori del Forum delle Persone e delle Associazioni di ispirazione cattolica nel Mondo del Lavoro aderiscono con convinzione, e determinazione all’appello del Papa, ribadito dai Vescovi italiani, per un impegno fecondo dei cattolici rivolto al rinnovamento morale e civile della politica nazionale. Per spirito di servizio, non per rivendicare primazie, ma con la finalità di contribuire alla costruzione del bene comune. Siamo orgogliosi di essere italiani, portatori di valori, di cultura, tradizioni, apprezzati nel mondo e consapevoli di avere un destino comune nel confrontarci con nuovi protagonisti della competizione internazionale, per avviare una nuova stagione di sviluppo e per dare risposte positive alle giovani generazioni, ai territori meno sviluppati, alle persone bisognose. La strada è quella di una grande, generosa, generale mobilitazione delle energie civili, sociali, imprenditoriali degli italiani che metta in moto le forze positive che si esprimono nella società al servizio del bene comune. Per fare questo c’è bisogno di una buona politica e di classi dirigenti preparate, motivate, che sappiano suscitare emulazioni positive nelle nostre comunità, sappia renderle accoglienti verso le persone che vengo-

noda altri paesi, aperte alla prospettiva di portare a compimento la costruzione degli Stati Uniti d’Europa. Vogliamo fare un appello alla politica, al mondo intellettuale, ai protagonisti del mondo del lavoro e dell’associazionismo sociale, a partire da coloro che si richiamano e si riconoscono nei valori cristiani per condividere insieme analisi e proposte per impostare un’agenda politica che affronti, con forza, costanza e visione di lungo periodo le questioni decisive. Sollecitiamo coloro che sono impegnati nell’attività politica a condividere e a sostenere nel tempo le priorità decisive per il futuro dell’Italia, e che esprimono un’azione prolungata e coerente che caratterizzi il secondo decennio del secolo. Ripartiamo dai valori per fare comunità Una comunità solidale, e proiettata al futuro, è fondata sulla condivisione di una visione positiva della persona e dell’esigenza di salvaguardarne la libertà e la dignità in ogni ambito: nella nascita, nella salute e malattia, nel benessere e nel bisogno, nell’attività economica, nell’ambiente. Nessuna sfida è possibile senza coesione sociale, responsabilità, senso del dovere, farsi carico dei bisogni collettivi, rispettare le regole democraticamente stabilite. Ripensiamo lo Stato per renderlo più snello e autorevole, valorizzando le autonomie e la sussidiarietà nell’ambito di un Federalismo solidale. Possiamo affrontare cambiamenti epocali nell’utilizzo delle risorse disponibili, negli stili di vita, e per rendere ambientalmente sostenibile lo sviluppo economico, solo ricostruendo la fiducia nel futuro e nel nostro prossimo. È questo lo spirito che deve ani-

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mare una nuova stagione di riforme istituzionali ed economico-sociali.

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Per uno sviluppo senza debito: diffondiamo produttività, competitività ed efficenza Ridurre il debito pubblico è fondamentale non solo per evitare al nostro paese rischi imponderabili per la sua sostenibilità, ma anche perché sono i ceti meno abbienti e le giovani generazioni le vittime predestinate di uno stato indebitato. Ma il debito è sostenibile se c’è sviluppo. Fare sviluppo senza debito significa, anzitutto, massimizzare l’utilizzo delle risorse disponibili e diffondere la produttività. Dobbiamo ridurre i costi della politica, contrastare le rendite di posizione, l’evasione e l’elusione fiscale e le forme parassitarie e assistenziali che ancora caratterizzano molti ambiti delle amministrazioni pubbliche delle politiche economiche e sociali, risparmiare energia, utilizzare al meglio le risorse disponibili. Per questi motivi la riduzione del debito deve essere accompagnata dalle riforme. Esistono ampli margini per razionalizzare la spesa pubblica, ridurre l’evasione fiscale, far funzionare la giustizia civile, semplificare la burocrazia, premiare il merito, dando respiro e sostegno alle forze produttive e alle famiglie che con i loro comportamenti generano sviluppo, occupazione, investimenti sociali. Sosteniamo le famiglie Una società proiettata verso il futuro deve valorizzare il ruolo riproduttivo, educativo e di cura delle persone, svolto dalle famiglie. La supplenza svolta dalle famiglie verso le carenze dell’intervento pubblico,

sta progressivamente diventando insostenibile per gli effetti della crisi economica, che indebolisce i redditi e dell’invecchiamento demografico che riduce l’entità e la solidarietà interna ai nuclei familiari. Dobbiamo favorire la crescita di un mercato di servizi sociali di qualità, con politiche che mettano al centro il ruolo delle famiglie nella crescita dei figli, nell’accesso ai servizi di cura e di conciliazione con il lavoro, per la scelta di percorsi educativi e promuova la crescita di un’offerta di servizi, e di beni relazionali, fatta di imprese, profit e no profit, e di volontariato. Miglioramo il sistema educativo Investiamo in educazione, formazione e ricerca. È la condizione per dare un futuro ai nostri giovani e renderli protagonisti delle rivoluzioni tecnologiche e organizzative in atto nell’economia globale. Miglioriamo il sistema di istruzione valorizzando la pluralità delle offerte formative. Rimuoviamo gli ostacoli che separano la formazione dal lavoro, valorizziamo le iniziative promosse dalle parti sociali per offrire alle persone, alle famiglie e alle imprese informazioni corrette e una maggiore qualità formativa. Costruiamo un’ambiente favorevole per le imprese Il nostro sviluppo dipenderà dalla capacità di generare nuove imprese, sviluppare quelle esistenti, attrarre nuovi investimenti, soprattutto in territori meno sviluppati del Mezzogiorno. Diamo un valore positivo a chi fa impresa e intraprende, con regole poche e certe, che non ne deprimano lo sviluppo, e una fiscalità sosteni-


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bile. Consideriamo la crescita e il coinvolgimento delle risorse umane un fattore competitivo per il successo delle imprese sul mercato e una potente leva per la diffusione della produttività e della qualità del lavoro. Anche per questo, dobbiamo sviluppare relazioni sociali e sindacali che facciano leva sulla cooperazione, tra chi assume il rischio di impresa e chi in impresa vi lavora, e che creino un ambiente favorevole alla crescita delle imprese e alla partecipazione dei lavoratori ai risultati. Rimettiamo il lavoro al centro Riportiamo il lavoro al centro, come fondamento per lo sviluppo della persona, della famiglia, dell’economia e della coesione sociale. Liberiamo il lavoro dai molti pregiudizi che portano a costruire assurde gerarchie tra il lavoro degli uomini e quello delle donne, degli italiani rispetto agli immigrati, tra lavori manuali e intellettuali, tra dipendenti e autonomi. Tutti i lavori hanno la medesima dignità, e da sempre la mobilità sociale è basata su percorsi che valorizzano un complesso di esperienze umane e professionali. Attori pubblici e sociali, imprese, educatori e famiglie devono fare ogni sforzo per integrare educazione e lavoro, famiglie e produzione, flessibilità e sicurezza per favorire la crescita di un mercato del lavoro inclusivo soprattutto per i giovani, le donne e gli immigrati. Riconosciamo i fabbisogni di flessibilità assicurando tutele e remunerazioni adeguate. Per un welfare moderno diamo spazio alla sussidiarietà Un welfare moderno non può prescindere dall’uso efficiente delle risorse e dal con-

corso responsabile delle persone, delle famiglie e delle organizzazioni sociali, delle associazioni no profit e del volontariato. Diamo spazio, e fiducia, alla sussidiarietà per offrire nuove frontiere per la previdenza, la sanità, l’assistenza, la formazione e le tutele attive nel mercato del lavoro. Rinnoviamo le classi dirigenti Farsi classe dirigente significa, anzitutto, essere portatori di visione, di competenze, valori, capacità organizzative e comportamenti in grado di aggregare motivazioni e interessi generando ricadute positive verso le comunità e le persone. Innalzare la qualità della classe dirigente del nostro paese e promuoverne il rinnovamento qualitativo, generazionale e di genere è un obiettivo che riguarda tutti noi e impegna il nostro modo di fare impresa, associazione, partito, istituzione. Ci rendiamo disponibili a favorire processi di formazione e selezione di giovani per l’impegno sociale e politico. Dobbiamo, in particolare, fuoriuscire dalla riproduzione oligarchica delle classi dirigenti alimentata da leggi che impediscono agli elettori di esprimere le proprie preferenze, valutando la credibilità e le competenze dei candidati. Questo obiettivo può essere colto con l’adozione di una legge elettorale su base proporzionale, garantendo la rappresentanza parlamentare ai partiti politici che abbiano ricevuto un adeguato consenso e vincoli di coalizione che favoriscano la stabilità dei governi.

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Minuta Il ritratto

Niccolai, il ghibellino pisano Roberto Alfatti Appetiti Politica

E poi la chiamano Unità d’Italia Francesca Siciliano Africa felix

Il vino del Sudafrica è femmina Michele Trabucco Land of the free

Una stanca America va verso il voto Giampiero Ricci



Roberto Alfatti Appetiti

NICCOLAI, il ghibellino pisano L’intelletuale insofferente, tanto severo con se stesso da fare autocritica, ma anche da pretenderla dal suo partito, in un mondo, quello neofascista, che sino a quel momento s’era nutrito di granitiche certezze, coltiva uno “splendido isolamento”. 244

«Il secolo delle rivoluzioni è dietro le nostre spalle. C’è da ricomporre l’Italia scissa, l’Italia frantumata. E la riconciliazione non può avvenire che su una ricomposizione di una storia italiana». La lucidità di capire quando una stagione è arrivata al capolinea. Il coraggio di aprirne una nuova, gettando all’aria comode rendite di posizione. Battere sentieri inesplorati. Confontarsi con tutti, senza pregiudizi. Di uomini come Beppe Niccolai, scomparso il 31 ottobre del 1989, la politica italiana avrebbe un gran bisogno. Soprattutto i più giovani, intrappolati come sono nel bipolarismo coatto, armati gli uni contro gli altri nella stucchevole guerra civile tra berlusconiani e antiberlusconiani. «Immergersi nella realtà, essere figli del proprio tempo, accettare di misurarsi con le contraddizioni del-

l’oggi, costruire elemento di rottura contro chi mira a conservare l’esistente, essere protagonisti di libertà contro il qualunquismo imperante». Sono questi i consigli che nel 1984 Beppe Niccolai rivolge ai giovani del Movimento sociale italiano in vista del XIV congresso del partito. Poco sopportati e guardati con sospetto, il più delle volte i ragazzi del Fronte della Gioventù sono usati come mera manovalanza. Niccolai saprà riaccenderne gli entusiasmi. Un amore ricambiato, quello tra i giovani militanti e il non più giovanissimo Niccolai, pisano della classe 1920, non solo per il suo passato di volontario di guerra e prigioniero non collaboratore nel Fascist Criminal Camp di Hereford. È un esempio prima ancora che un maestro. Sobrio, attento, disponibile, allergico a ogni ostenta-


IL RITRATTO

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zione, nemico dei privilegi. Capa- lari e preziose testimonianze il perce di coniugare rigore morale e corso umano e politico di Niccolai apertura mentale. «Una figura fre- è stato Alessandro Amorese in sca, creativa, rigorosa, carismati- Beppe Niccolai. Il missino e l’eretica», ebbe a definirlo Gianni Ale- co (Eclettica Edizioni, pp. 270), limanno, leader del Fronte della bro la cui seconda edizione torneGioventù, il primo dei tanti giovani rà prossimamente in libreria. Feliche si affrettarono a sottoscrivere ce, sin dal titolo, la sottolineatura “Segnali di Vita”, la mozione pen- di come il politico pisano seppe risata da Niccolai per dare la mettersi in gioco, aggiornarsi, fare scossa a un partito che va avanti ammenda dei propri errori – uno per inerzia, incapace di tenere il su tutti: non aver capito con la nepasso con un mondo che stava cessaria tempestività l’importanza cambiando. Paradossale che a dell’opzione metapolitica – e agire sfidare il verbo almirantiano non di conseguenza, anche a costo di pagare un prezfosse l’eterno rivale zo salato. Un Pino Rauti ma un misCon “Segnali di vita” prezzo che, ovsino doc come Nicviamente, gli fu colai, fino a poco voleva dare la scossa fatto pagare per prima fedelissimo del a un partito che intero. Lasciandosegretario. da troppo tempo andava lo fuori dal Parla«Ad un certo punto il mento, come priconformismo almiranavanti solo per inerzia ma cosa. Nel tiano diventa talmen1985 si apre uno te soffocante da suscitare tra gli stessi amici del segre- spiraglio: c’è la possibilità di poter tario, primo fra tutti Beppe Nicco- eleggere un senatore in più nel collai, il desiderio di creare una qual- legio lombardo. Durante il comitache forma di confronto critico, at- to centrale chiamato a definire le traverso un’aggregazione informa- candidature un giovanissimo dirile che più tardi si tradurrà nella for- gente del Fronte, Adolfo Urso, mazione della corrente Proposta prende la parola e propone, pur Italia», così scrive Marco Tarchi nel senza conoscerlo personalmente, libro-intervista Cinquant’anni di no- la candidatura di Beppe Niccolai. stalgia (Rizzoli, 1995). Un anno L’assemblea applaude. Almirante è dopo, nel 1985, Beppe Niccolai spiazzato ma non può che verificaaderirà all’innovativa corrente di re la disponibilità dell’ex parlamenDomenico Mennitti, l’esponente tare pisano che, a sorpresa, rifiuta. più liberal del partito: modernizza- «Non potevo accettare una canditore per vocazione e non per op- datura fuori dalla mia terra, se avessi deciso di ripresentarmi alle portunismo. A ricostruire con dovizia di partico- elezioni, mi sarei fatto votare dalla


IL RITRATTO

mia gente, senza paracadute o Il motivo della rottura con Almirancollegi quasi sicuri». Dichiarazioni te? La cosiddetta goccia che fece che oggi sembrano folli, incom- traboccare il vaso. «Disse che era prensibili. E poi ci sono i giovani stato deluso dall’operazione “Euroda mandare avanti. «Mi stavo at- destra” – riferisce Tarchi – e che taccando troppo alla poltrona», aveva visto il segretario in mezzo a una folla in uniforme azzurra, in confida all’amico Giano Accame. La trasformazione è irrevocabile: un comizio in Spagna, gli aveva all’uomo di apparato, a suo agio dato un’impressione pessima, che tra federazioni e comizi, brillante richiamava un improbabile passapolemista e gladiatore d’aula, to». Rifiuto di ogni nostalgismo, ingiornalista sempre pronto a fustiga- sofferenza per il conservatorismo re ogni malcostume politico, si è da partito d’ordine, per la rassesostituito l’eretico: l’intellettuale in- gnazione alla prospettiva di fare sofferente, tanto severo con se stes- da stampella alla Democrazia cristiana. «È la Dc so da fare autocritica che ci ha sradima anche da pretenNiccolai rifiutava ogni cati rendendoci derla dal suo partito – ad esempio sugli erronostalgismo del passato sconosciuti gli uni agli altri – riri compiuti nei cone non sopportava peteva – e renfronti della contestache l’Msi diventasse dendoci, in un zione giovanile del effimero benes’68 – in un mondo, la stampella della Dc sere, infelici. Tutquello neofascista, ta la mia modeche sino a quel momento s’era nutrito di granitiche sta battaglia politica è stata indicertezze, coltivando uno “splendi- rizzata a far capire alla gente che non si costruisce una società mido isolamento”. Gliene diede atto, pochi mesi do- gliore votando per paura o per po la morte, Franco Franchi. Com- quieto vivere. Il prezzo della viltà memorandolo nella sua qualità di è sempre il male». presidente del congresso missino E coraggioso è, invece, Bettino di Rimini del 1990 – il primo sen- Craxi. Nel 1985, in occasione za Niccolai, ma anche senza della crisi di Sigonella, Niccolai fa Giorgio Almirante e Pino Romualdi approvare dal Comitato centrale – ne evocò la presenza: «A una del Msi un ordine del giorno di socert’ora, magari di una seduta not- stegno al segretario socialista: in turna, salirà alla tribuna il volto tor- nome dello “scatto” di orgoglio namentato e corruso del ghibellino di zionale e dell’idea di un’Europa Pisa, Beppe Niccolai, e ci porrà forte, non subalterna ai due blocmille domande, animato da un chi, che si svincoli dall’egemonia statunitense, senza che a prevalere pensiero senza riposo».

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sia la linea utilitaristica e mercantili- con un movimento giovanile più stica. Il laburismo nazionale di autonomo e senza più strutture inuCraxi, per Niccolai come anche tili. Non più mere sedi elettorali da per Accame, rappresentava la no- riservare alle alchimie partitiche vità in grado di minare il bipolari- ma ponti aperti verso la società. In smo Dc-Pci e il posizionamento conclusione, “Proposta Italia” chiestesso del Msi alla destra del siste- de una svolta, vuole un partito che non sia più esclusivamente anticoma politico. La testimonianza di Mennitti, ripor- munista ma anche “anticapitalista tata nel libro di Amorese, conferma e antiborghese”, che sia anche alal riguardo la crescente distanza tra ternativa antropologica e culturale. Almirante e Niccolai: «Quando si Una convergenza naturale, quella manifestò con chiarezza la sugge- tra Niccolai e Mennitti, sviluppatastione craxiana del “socialismo tri- si prima della nascita della compocolore”, Niccolai chiese ad Almi- nente di “Proposta” sul mensile che portava quel norante di aprire un fronme e ne costituiva te di riflessione nuova, Sosteneva la necessità la base culturale privilegiando la dispoche la destra facesse e che, per primo, nibilità ad interloquire creò le condizioni con noi dichiarata da il salto passando per aprire quel diuna parte importante dalla testimonianza battito interno, della classe dirigente ma anche e sosocialista. Non a caalla politica prattutto rivolto also Msi e Psi furono i l’esterno, che due partiti che presero posizione chiara contro la con- molti anni dopo portò alla nascita ventio ad excludendum, che aveva di Alleanza nazionale. «Noi avetenuto fuori dal gioco politico il mo- vamo vissuto per anni rinchiusi nel vimento di Almirante. Però alla fine castello delle nostalgie, perché fuosi incamminarono su due strade di- ri non ci erano consentiti spazi di verse: Almirante continuò a sostene- iniziativa politica, potevamo solo re la tesi del “fascismo del 2000”, gestire la sopravvivenza – ha spiepoi ripresa da Fini dopo la succes- gato Mennitti – però l’evoluzione sione alla segreteria; Niccolai ven- del Psi da partito alleato (prima del ne al congresso di Sorrento del Pci e poi della Dc) a forza autono1987 condividendo e sottoscriven- ma alla ricerca di un protagonismo do la mozione di “Proposta” che proprio, aveva fatto saltare il sistesosteneva la necessità che la destra ma del dopoguerra, quello domifacesse il salto dalla testimonianza nato dal principio della esclusione della destra. Quindi bisognava alla politica». Per fare questo occorreva un parti- elaborare un progetto finalizzato to nuovo, snello, sburocratizzato, non all’opposizione eterna ma alla


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conquista – quando le condizioni lo avrebbero consentito – del potere. E definire un programma, porre obiettivi realistici, scegliere le alleanze. Almirante era bloccato dal timore che, di fronte ad una operazione così rivoluzionaria e complessa, il vecchio mondo missino avrebbe perso la coesione, smarrito il patrimonio dell’unità. Così ripiegò sulla purezza ideologica, che nei partiti estremi costituisce una costante tentazione di fuga all’indietro, di liquidare con il marchio del tradimento il tentativo di innovare. Proposta fu lo strumento che liberò il dibattito interno dalla gabbia della fedeltà strumentalmente intesa e lo trasferì sui campi verdi della modernità intellettuale e politica». Tra “Segnali di Vita” e “Proposta Italia” c’è un filo rosso che si riannoda con la più recente esperienza di Charta Minuta nel rinnovato tentativo di modernizzare la politica e tenere vivo un dialogo a tutto campo, anche con i nemici di ieri (come Niccolai fece con Adriano Sofri, che pure gli aveva scatenato la piazza contro). Con chiunque abbia a cuore, ancor prima dell’interesse di parte o di partito, le sorti – come dicevamo all’inizio – di un’Italia frantumata, se possibile persino di più rispetto a quella conosciuta da Niccolai. «Il tormento delle idee e il dubbio – come ci ha insegnato Beppe – è sempre meglio della prudenza dei plaudenti. Non ascoltano, applaudono: vivono di suoni. Confondono il

rumore in certezze. Si fidano. Si concedono. Oppongono la prudenza dello stare con chi pensa per loro e li libera di ogni fastidiosa riflessione. Si fanno spettatori e protestano vibratamente con chi non segue, zitto, lo spettacolo».

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l’autore roberto alfatti appetiti Giornalista esperto in comunicazione istituzionale, scrive “d’altro” (narrativa, costume e cultura pop) per Secolo d’Italia, Area, Charta Minuta e FareitaliaMag. Recentemente ha pubblicato il saggio All’armi siam fumetti (Edizioni Il Fondo, Roma).


Francesca Siciliano

E poi la chiamano Unità d’Italia

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A causa della crisi economica molti comuni italiani vogliono portare avanti la vecchia idea della Lega Nord dell’autodeterminazione dei popoli, per evitare i tagli e i sacrifici decisi nell’ultima manovra. “Egoismi campanilistici” che stanno prendendo il sopravvento sull’idea di patria unita.

Provate a chiedere a chiunque cosa gli viene in mente sentendo le parole federalismo, secessione o indipendenza. Il 99% degli intervistati risponderà Bossi, Lega Nord, Padania. Eppure pochi sanno che non solo Bossi, con i suoi folcloristici slogan e le sue performance anacronistiche, mira alla secessione della "Terra Padana" dal resto d'Italia. L'indipendentismo padano, o secessionismo, è un'ideologia che nasce negli anni ‘90 e viene promossa soprattutto dalla Lega Nord, che nel proprio statuto cita testualmente l'indipendenza della Padania. «Noi, popoli della Padania, solennemente dichiariamo: la Padania è una Repubblica federale indipendente e sovra-

na. Noi offriamo, gli uni agli altri, a scambievole pegno, le nostre vite, le nostre fortune e il nostro sacro onore». Sino agli anni ‘80 il termine Padania era usato geograficamente per indicare il territorio corrispondente alla Pianura Padana, ma a cavallo degli anni ‘80 e ‘90 il termine acquisì una valenza politica grazie all'uso assiduo nel vocabolario dei simpatizzanti della Lega Nord. La Lega propose inizialmente un'unione federativa della macro regione Padania, dotata di autonomia, come riconoscimento e tutela delle peculiarità delle nazioni della Padania; ma fallito questo il progetto, fu portato avanti quello della secessione della Padania dall'Italia.


POLITICA

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Nel 1996 Bossi, nel corso di una manifestazione della Lega Nord a Venezia, proclamò la nascita della Repubblica Federale della Padania, rimasto sostanzialmente un atto simbolico e indissei un referendum per l'indipendenza della Padania. Nel maggio del 1997 si svolse la consultazione popolare, anche se la Repubblica federale non è mai stata riconosciuta formalmente da alcuno stato sovrano, né dalle forze politiche italiane. Nonostante questa dichiarazione di secessione non abbia comportato una reale separazione della Padania dal resto d'Italia, la Lega Nord ha continuato e continua ancora a promuovere la concezione della Padania come entità politica separata

dal resto della nazione, nonché la promozione di iniziative sociali e di carattere indipendentista: dal governo padano con un proprio Parlamento e una propria capitale (Milano), ad un proprio inno nazionale – Va, pensiero di Verdi –, dalla lira padana ai francobolli, passando per Miss Padania. Successivamente il sogno di secessione è stato parzialmente messo da parte in favore dell'idea di devolution, ovvero il trasferimento delle competenze legislative e amministrative dallo Stato centrale alle regioni, e del federalismo fiscale. Gli indipendentisti padani affermano che il territorio corrispondente all'Italia centrosettentrionale, denominato Padania (dal nome latino del Po, ov-


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vero Padus) sia abitato da popoli distinti per lingua, usi, costumi e storia, detti nazione della Padania e riconducibili a un unico popolo. Le rivendicazioni politiche padane comprendono però un territorio maggiore rispetto a quello storicamente riconducibile al significato geografico del termine Padania. Attualmente il territorio rivendicato dalla Lega Nord comprende quasi il 55% del suolo italiano e il 56% della sua popolazione, in quanto oltre le regioni dell'Italia settentrionale negli ultimi anni le sue mire si sono estese anche ad alcune regioni dell'Italia centrale, all'Abruzzo e alla Sardegna. Bossi, a ragione, viene considerato il portavoce indiscusso dell'idea di secessione del Nord Italia, viste le gesta di rilevanza nazionale da lui promosse. Ma in tutta la nostra bella penisola fioriscono partiti e movimenti affetti da quella che molti ormai definiscono "sindrome da indipendentismo" e che vorrebbero ridisegnare la geografia dello stivale. Ma secessionismo, indipendentismo, autonomismo e federalismo non sono però sinonimi. Proviamo innanzi tutto a fare chiarezza su questi termini. L'indipendentismo è quel fenomeno politico in base al quale si rivendica l'indipendenza di un territorio dalla sovranità di uno Stato. I fenomeni di indipendentismo molto spesso si basano sulla rivendicazione del princi-

pio di autodeterminazione dei popoli (come riconosciuto dal Diritto internazionale per tutta la Comunità degli Stati), fondando la legittimità su una eventuale passata indipendenza del territorio o sulla tipicità culturale del popolo che lo abita. Il principio di autodeterminazione dei popoli sancisce, appunto, il diritto di un popolo a ottenere l'indipendenza o, comunque, a poter scegliere liberamente il proprio regime politico. Diversa, invece, la definizione di secessionismo che nel suo significato storico-politico viene spesso apparentato al separatismo (di cui spesso l'atto della secessione è l'esito). Il ricorso alla secessione è perseguito, solitamente, da quei gruppi nazionali che si sentono totalmente subordinati ad altri gruppi. Ciò, solitamente, si verifica in due casi: quando un solo gruppo nazionale detiene le leve del potere economico o politico, mentre le regioni abitate dalle altre nazionalità sono tenute in condizioni di sottosviluppo o di negazione; quando l'organizzazione statale è rigidamente centralizzata e un gruppo vede la politica del governo centrale tesa alla mortificazione e alla distruzione della propria identità nazionale. Una secessione si risolve, nella gran parte dei casi, in una perdita di potenza per lo Stato che la subisce. La secessione ha origini antichissi-

Il principio di autodeterminazione sancisce il diritto di un popolo a ottenere l’indipendenza


POLITICA

me, storicamente ritroviamo esempi fin dall'età repubblicana quando la plebe di Roma ritirandosi sull'Aventino (Monte Sacro) voleva distaccarsi dallo Stato dominato dai patrizi, cercando di costituirsi in stato separato. Fenomeni analoghi nel medesimo periodo, seppur di minore entità, li ritroviamo in Sardegna, in Valle d'Aosta, in Friuli Venezia Giulia e in Trentino Alto Adige, per un certo periodo "tentati" dalle lusinghe d'oltre confine. Il tema del secessionismo è entrato a far parte del dibattito politico (e del nostro vocabolario quotidiano) per merito (o colpa) della Lega Nord, che dai primi anni ‘90 ha trasformato le sue iniziali richieste di federalismo in una vera e propria rivendicazione di indipendenza della Terra Padana dal resto dell'Italia. Il federalismo è una teoria politicoistituzionale che sta alla base di una forma di Stato (il cosiddetto Stato federale) articolata in due livelli di Governo, centrale e locale, dotate di competenze autonome e distinte. Il termine federalismo indica la tendenza giuridica tendente a organizzare gli ordinamenti ripartendo la potestà tra il governo centrale e una pluralità di apparati di governo periferici (o locali). In quest’ottica, nello Stato federale le autorità centrali e quelle locali hanno pari dignità istituzionale. L'accezione diffusa di federalismo è quella politica e rappresenta la dot-

trina che favorisce l'unione tra diversi Stati, che mantengono in diversi settori le proprie leggi particolari, ma hanno una costituzione condivisa ed un governo comune. Il federalismo fiscale (battaglia portata avanti da tempo dalla Lega Nord) è la dottrina politico-economica atta a instaurare una proporzionalità diretta tra le imposte riscosse in una determinata area territoriale del Paese (comuni, province, città metropolitane, Regioni) e le imposte effettivamente utilizzate dall'area stessa. L'autonomismo è la tendenza degli abitanti di un territorio a ottenere maggiore o totale capacità di agire senza essere sottoposti alla volontà di terzi. A differenza del secessionismo, si limita a rivendicare autonomie (amministrative, linguistiche, religiose, etc.) non distruttive dell'unità statale. Torniamo ora a quello che sta succedendo nella nostra penisola, a tutte le richieste di autonomia che stanno moltiplicandosi proprio nel 150° anniversario dell'unità nazionale, promosse da movimenti o gruppi locali, arrivate alla Corte di Cassazione nonostante la legge preveda un lungo iter per questo tipo di richieste a seguito della raccolta firme (i pareri di Provincia, Regione e Parlamento in doppia lettura). Alcune sono state accolte, altre invece sono risultate irricevibili.

Il secessionismo è perseguito da quei gruppi nazionali che si sentono subordinati ad altri gruppi

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Il movimento “Belluno Autonoma Dolomiti Regione” tra il 2010 e il 2011 ha raccolto 17mila firme per chiedere di aggregare l'intera provincia di Belluno (attualmente in Veneto) al Trentino Alto Adige, facendo riferimento al II comma dell'articolo 132 della Costistuzione. Dal manifesto del movimento emergono i motivi secondo i quali la provincia di Belluno chiede di aggregarsi al Trentino. La provincia di Belluno, nata a metà dell'’800, ha contato almeno 9 comunità montane di valle che si ritengono «il contado produttivo e autosufficiente rispetto a Belluno». La necessità di adeguarsi ai modelli urbanistici ha portato la comunità montana all'arricchimento, ma allo stesso tempo ha causato molta emigrazione con la conseguente estinzione di alcune di queste comunità. Il movimento sostiene che l'unica possibilità per l'intera provincia di evitare la dissoluzione come entità autonoma è quella di essere inserita nella legislazione delle province di Trento e Bolzano, da sempre attente ai problemi della montagna e di proporre strumenti legislativi e regolamentari differenti. Il 31 marzo u.s. la Corte di Cassazione ha dichiarato illegittimo il referendum per Belluno Autonoma, in quanto non conforme all'articolo 116 della Costituzione, perchè produrrebbe una modificazione territoriale. La provincia di Belluno ha deciso, quindi, di far ricorso al Quirinale contro questa sentenza. Storia diversa quella del partito regionalista secessionista Sud Tiroler

Freiheit (in italiano Libertà Sud Tirolese).Il movimento altoatesino chiede insistentemente l'autodeterminazione per l'Alto Adige (zona oggi rappresentata territorialmente dalla provincia di Bolzano, ma che fu ceduta dall'austria all'Italia alla fine della prima Guerra Mondiale) e una eventuale conseguente annessione al Tirolo Austriaco attraverso un referendum. Le richieste del movimento nascono soprattutto per difendere la maggioranza degli abitanti di lingua tedesca presenti nella provincia di Bolzano. Il partito, guidato dalla “pasionaria” Eva Klotz, nelle elezioni provinciali del 2008 ha ottenuto il 4,9% dei voti eleggendo, così, 2 consiglieri. Da allora i suoi leader e i maggiori esponenti continuano ad attaccare


POLITICA

l'Italia e la popolazione italiana presente in Alto Adige al grido di «Un futuro senza Italia». Più estesa è la secessione rivendicata dal Movimento per l'autonomia della Regione Romagna, che chiede la secessione della sanguigna Romagna dall'Emilia, appoggiata dalla Lega Nord e da parte del Pdl. Storica, in merito, la dichiarazione di Calderoli: «la Romagna è da troppo tempo una colonia dell'Emilia: il tempo delle colonie è finito, quindi è arrivato il momento di fare la regione Romagna». L’obiettivo, spiegano i promotori, è quello di rendere autonome da Bologna (terra emiliana per eccellenza) le province di Forlì-Cesena, Rimini e Ravenna, per costituire la regione Romagna. La rivendicazione del popolo roma-

gnolo affonda le proprie radici nelle questioni economiche di un territorio (quello romagnolo) che da tempo si sente penalizzato dalle politiche di Bologna e che ora spera di trovare un alleato nel federalismo. La proposta, a lungo sul tavolo della Commissione Affari istituzionali, sembra ormai essere arrivata a buon punto, mancando di fatto solo la modifica costituzionale. I malpensanti, tuttavia, sostengono che più che una richiesta di secessione si tratti di una spartizione politica: la Romagna al centrodestra, per bilanciare la “rossa” Emilia. E proprio nel momento in cui la manovra del governo introduce un taglio alle province italiane, sembra esserci la possibilità che aumenti il numero delle regioni. “Salento Libero” è il sogno di centinaia di migliaia di abitanti delle province di Lecce, Brindisi e Taranto. I salentini si dicono amareggiati dai molti articoli, anche in quotidiani a tiratura nazionale, in cui vengono tacciati di essere i “padani del sud”. «Il nostro movimento – dicono – non ha nulla a che fare con la secessione, ma auspica una Regione Salento, terra di accoglienza e di solidarietà, orgogliosamente italiana, vivacemente europea, crocevia del Mediterraneo». Chiedono di essere riconosciuti come un'eccellenza italiana che va valorizzata e che venga loro riconosciuta la possibilità di decidere come investire le risorse regionali, i fondi Fas e Ue. La regione dovrebbe nascere da una divisione della vecchia Apulia:

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Francesca Siciliano

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da una parte Bari, Foggia, BAT (Barletta, Andria, Trani), dall'altra Taranto, Brindisi, Lecce. «Le province di Bari, Foggia, BAT – sostengono i referendari – fanno la parte del leone nella spartizione dei fondi statali ed europei, mentre le province Taranto, Brindisi e Lecce hanno risorse uniche che da sole, se ben gestite, potrebbero richiamare migliaia di turisti, avere un'agricoltura ad alto reddito e un'adeguata industria alimentare e tessile». L'iter amministrativo per giungere al traguardo è il seguente: l'articolo 132 della Costituzione prevede nuove regioni, purchè abbiano almeno un milione di abitanti; le tre province in questione ne contano oltre un milione e 700mila. Sono state già depositate le firme raccolte e il referendum è solo da calendarizzare, nonostante non tutti i sindaci della zona siano d'accordo con la proposta. Se vinceranno i “si” nella consultazione popolare, la proposta passerà al Parlamento, che si dovrà esprimere sulla modifica dell'articolo 131 della Costituzione in cui sono elencate le 20 regioni che, a quel punto, diventerebbero 21. Abbiamo detto 21, ma potrebbero diventare addirittura 22 se Salerno, da provincia, si trasformasse in regione come sognano i promotori della proposta di Legge costituzionale. Il primo firmatario della proposta è l'ononorevole Edmondo Cirielli, at-

tuale presidente della Provincia di Salerno, basandosi su ragioni di carattere economico, politico e storico. Cirielli sottolinea come i molteplici disastri della politica regionale degli ultimi 20 anni, tra rifiuti e sanità, abbiano causato un danno economico abnorme nel settore del turismo. In più ci sono diverse ragioni di carattere storico: fino al 1861, anno dell'unità d'Italia, la provincia di Salerno è sempre stata autonoma da Napoli, con la quale non vi è mai stata unità amministrativa. Quindi, perchè – afferma Cirielli – devono contare di più gli ultimi 35 anni (dal 1977, anno in cui sono state istituite le regioni) piuttosto che i precedenti 1500? La richiesta di referendum è arrivata da parte di 1/3 degli abitanti delle province di Salerno, Benevento e Avellino (circa 600mila persone). Lo scorso 20 settembre la Corte di Cassazione, nello specifico l'Ufficio centrale per il Referendum, non ha deliberato in merito alla richiesta referendaria, ma ha investito i giudici della Corte Costituzionale di valutare l'ammissibilità o meno del quesito referendario con cui si chiede la Costituzione della Regione Principato di Salerno. Ma gli scontenti della manovra economica varata dal governo nel mese di agosto continuano a crescere. Ultimo della lista è il Comune di Filetti-

La provincia di Salerno si vuole trasformare in regione e il presidente è stato il primo firmatario della proposta


POLITICA

no, piccolo borgo nel frusinate di 500 anime, che si è ribellato ai tagli e all'ipotesi di cancellazione del Comune con il conseguente accorpamento a un altro, probabilmente Trevi nel Lazio (la manovra prevede la cancellazione di tutti i Comuni italiani che non superano i mille abitanti). Gia nel mese di agosto, appena decretata la manovra, la disposizione non era piaciuta affatto e il sindaco, Luca Sellari, aveva organizzato grandi proteste sostenendo che Filettino ha tante risorse, dal turismo al patrimonio boschivo e che è uno dei pochi comuni in Italia ad avere i conti in regola. I residenti in gran fermento minacciavano di mettere una tassa sull'acqua delle loro sorgenti bloccando così i rifornimenti di mezza provincia di Roma. Ed ecco l'idea: trasformare il Comune di Filettino in un principato autonomo, per rendere la piccola comunità indipendente. Detto fatto: la proclamazione ufficiale è avvenuta lo scorso 24 settembre alla presenza dell'avvocato Taormina, chiamato a seguire l'iter per la formazione del principato «nel pieno rispetto dell'ordinamento giuridico italiano e senza alcuna violazione della legge». È stata nominata l'Assemblea Costituente che lavorerà per predisporre la Costituzione e arrivare, così, al referendum popolare per l'approvazione del testo costituzionale, dopo aver nominato gli organi legislativi e di governo. Il Principato di Filettino, con un proprio sito internet, un proprio inno e una propria moneta (il Fiorito), dopo aver

concluso l'iter burocratico procederà anche a eleggere il principe. Il Sindaco l'ha proposto a Emanuele Filiberto di Savoia che ha declinato l'invito, ma ci sono altri 100 candidati! Ci troviamo, quindi, dinanzi ad un paradosso: proprio nel 150° dell'unità nazionale un gran numero di comuni, territori, città chiedono un qualche tipo di autonomia o secessione. È la Lega Nord che ha costituito un precedente, riportando in auge il principio dell'autodeterminazione dei popoli? Oppure le cause di queste iniziative vanno ricercate nella confusione dello scenario politico nazionale? Probabilmente l'attuale profonda crisi economica sta facilitando l'insorgenza di “egoismi campanilistici”, per cui ogni territorio vanta le proprie risorse ed è convinto che un'autogestione delle stesse sia soluzione di gran lunga preferibile a una gestione Stato-dipendente. Verrebbe da chiedersi dove sono andati a finire gli ideali di Mameli, di Garibaldi e degli altri eroi del nostro Risorgimento.

l’autore Francesca siciliano Laureata in Scienze politiche e Relazioni internazionali presso La Sapienza di Roma con tesi in Diritto dell'Unione europea. Collabora con fareitaliamag.

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RUBRICA

Il vino del Sudafrica è femmina DI MICHELE TRABUCCO*

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In Sudafrica, il vino

no nelle migliori ta-

e la sua coltivazione

vole di New York co-

sono sempre state

me di Roma, piutto-

un’attività esclusiva

sto che di Parigi.

dei bianchi. Furono i

La sua storia sembra

primi coloni europei

una tipica favola.

a portare nelle dolci

Nonostante fosse

colline dell’entroter-

una brava studen-

ra del Capo di Buo-

tessa, nessuna delle

na Speranza i vigneti

sue richieste per en-

e coltivarne la pas-

trare nei college uni-

sione per oltre 350 anni, con gelosa

versitari ebbe esito positivo, finché una

esclusività. Nei tempi recenti, quando la

compagnia aerea le offrì una borsa di stu-

fine dell’apartheid ha portato alla rottu-

dio per enologia e viticoltura. Lei non sa-

ra di tutte le barriere, anche nell’enolo-

peva neanche cosa fosse il vino. Pensava

gia e viticoltura le popolazioni nere loca-

fosse simile al succo di sidro. Non era ne-

li hanno potuto mostrare la loro capacità

anche mai stata fuori della sua provincia

e possibilità. Ntsiki Biyela, una giovane

di Kwa-Zulu Natal, a circa mille chilometri

zulu, è crescita, come tutti i neri, beven-

ad est della capitale. Ma insieme ad altri

do solo birra fatta in casa o succo di si-

suoi coetanei iniziò il percorso di studi,

dro. La prima volta che poté assaggiare

viaggiando in autobus a visitare i diversi

la bevanda “divina” restò disgustata dal

vitigni sparsi su tutto il territorio sudafri-

suo sapore e odore. Non pensava nean-

cano. Con il tempo, gli studi, l’esperienza

che lontanamente che qualche anno più

e l’insegnamento dei suoi maitre, ha affi-

tardi, precisamente nel 2009, avrebbe

nato sempre di più il suo palato e la sua

vinto il premio di migliore viticoltore del

lingua alle fragranze del vino fino a vince-

Sudafrica. Ora i vini che lei produce nel-

re il prestigioso premio nel 2009.

la sua cantina, chiamata Stellekaya, so-

I vini della cantina Stellakaya, un nome

no esportati in tutto il mondo e si trova-

combinato di latino e afrikaans che signi-


AFRICA FELIX

Anche la popolazione nera sudafricana ha finalmente scoperto le potenzialità, anche economiche, dell’industria enologica. E la capofila di questo nuovo fenomeno è una giovane donna, passata dal succo di sidro ai vini più pregiati del paese. fica “casa delle stelle”, sono prodotti dalle

tra popolazione nera e vino è una delle

viti che si trovano sui dolci pendii delle

tante possibilità che ci sono per crescere,

colline fatte di ricca argilla e arenaria che

per emergere, per fare business e coltiva-

si affacciano sulla False Bay, dove la brez-

re le proprie passioni”. Il suo successo, la

za del mare mantiene le temperature bas-

sua capacità e il suo stile molto aperto e

se. Il micro clima che si trova in quella

accogliente verso tutti coloro che vanno a

parte del Sudafrica, il metodo della pigia-

visitare la sua tenuta vinicola, la rendono

tura e il legno speciale delle botti in cui è

un personaggio unico e certamente inco-

conservato il vino, danno a questo pro-

raggiante per tanti altri uomini e donne

dotto un sapore perfettamente equilibra-

neri che in Sudafrica non hanno ancora

to, mantenendo molto basso l’aggressivi-

trovato la loro strada del successo.

tà del tannino. Il Sudafrica produce circa 400 milioni di litri di vino l’anno, e Nisika è tra i 15 produttori neri del paese, ma ancora l’unica donna nera. Si è laureata nel 2003 e dopo un anno presso la Stellakaya, come junior mana-

ger, nel 2005 fece un soggiorno a Bordeaux, in Francia, durante la stagione del raccolto, per approfondire la sua preparazione. Oggi, a 30 anni, sente molto forte la pressione della gente. Come lei stessa ha detto alla Cnn, sente “che molte persone nere la guardano con ammirazione e vedono in lei una specie di modello da imitare”. “Vorrei far crescere la consapevolezza - continua - che in Sudafrica abbiamo degli ottimi vini e che il rapporto

Giornalista freelance

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RUBRICA

Una stanca America va verso il voto DI GIAMPIERO RICCI*

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La corsa per le presidenziali del 2012 è bella che cominciata ma la cosa nuova è che questi Stati Uniti sembrano esserne solamente sfiorati. Il livello di fiducia da parte dei taxpayers americani sulla capacità della classe politica statunitense di riuscire a venire a capo di questa crisi finanziaria, da troppo tempo divenuta economica e sociale, è simile a quello che si vive nel Bel Paese. Secondo l’indice Rcp Average solamente il 19% dei cittadini americani ritiene che il paese stia andando nella giusta direzione con uno spread negativo nel breve periodo del -55.8. Il presidente Obama viaggia su percentuali deficitarie che vanno dal 48 (Gallup) al 55% (Rasmussen) di indice di disapprovazione, con spread negativi che arrivano sino al 12. Del Congresso non parliamone neanche, e allora? Allora, la differenza sostanziale tra le elezioni del 2008 e quelle cui ci apprestiamo ad assistere sarà nella circostanza di fatto che mentre nel 2008 il fronte democratico, seppure a fronte di una totale mancanza di originalità programmatica, presentava novità interessanti nelle persone dei due candidati principali alla Ca-

s a B i a n c a , B a ra c k Obama ed Hilary Clinton, viceversa oggi il partito che rincorre, quello dell’elefantino, digerita la scossa dell’intrusione dei Tea Party, sembra non riuscire a svegliarsi da sonni tutt'altro che dorati. Ci prova Rick Perry, il Governatore del Texas, a scuotere la sua candidatura proponendo la Flat Tax che tanto piace ai libertarians che però possono condividere poco la spinta confessionale che anima pesantemente, ed ancor più di quanto non fu per G.W. Bush, il suo stile di governo e di propaganda. Ci hanno provato la Bachmann, Santorum e il già speaker della Camera Newt Gingrich, quello del “Contract with America”, ma ad oggi il candidato più papabile per Pennsylvania Avenue sul fronte repubblicano è nientepopodimenoche Cain il repubblicano afroamericano che supera nei sondaggi Mitt Romney, uomo della burocrazia del partito percepito come algido professionista della politica con la tara di una provenienza religiosa considerata settaria, quale la comunità dei mormoni resta per larghi strati della società americana.


LAND OF THE FREE

I repubblicani americani non riescono ad approfittare dell’evidente calo di consensi e di appeal dei democratici. Prova ulteriore di un paese in piena crisi di identità e piegato su se stesso. E tra Romney, Perry e Cain, gli elettori del Gop preferiscono Hillary... Di fronte a questa non-campagna presidenziale il paradosso che vive la base repubblicana è talmente parossistico che un recentissimo sondaggio del Time ha messo in vetrina una realtà piuttosto scomoda per tutto il Grand old party: ad oggi il candidato più gradito ai suoi elettori per le prossime presidenziali sembrerebbe essere Hillary Clinton! Il sondaggio nazionale condotto dal Time il 9 ed il 10 ottobre ha rilevato che per la base repubblicana se la Clinton fosse un’ipotetico candidato democratico alle presidenziali del 2012, sarebbe meglio gradita (55%) di Mitt Romney (38%), vincerebbe facilmente su Rick Perry 58% a 32% e contro Herman Cain 56% a 34%. Il fatto è che lo stesso sondaggio rileva anche come il Presidente Obama, nonostante il debole indice di approvazione, avanzerebbe di tre punti Romney e di ben 12 Perry e Cain, per cui la scomoda verità è che Barack Obama potrebbe vedersi confermato per un altro mandato per mera assenza di sfidanti. Obama nel frattempo ha iniziato una campagna che i media conservative hanno definito di social resentement, la da noi ben conosciuta lotta di classe tanto utile a quegli scontri sociali, agli autunni caldi, agli scioperi e alle mobilitazioni di ogni colore, gattopardescamente stru-

mentali affinché tutto debba cambiare perché tutto resti uguale. A destra quello che si chiede alla classe politica è di bloccare la crescita del debito, tagliare la spesa pubblica, riportare gli Stati Uniti d’America sulla via della prosperità ma a mancare è quella visione politica di insieme tracciata nel solco della Costituzione dei padri fondatori, che nella storia americana ha reso grandi presidenti come Teddy Roosvelt, Abraham Lincoln, Ronald Reagan oppure stagioni come quelle dei fratelli Kennedy. La storia recente del Gop è stata quella di un partito fusionista, cioé capace di fondere in sé diverse attenzioni cui naturalmente un’area politico culturale di centro destra tende. Destra liberista, destra nazionale, destra religiosa e neoconservatrice hanno di volta in volta selezionato leader che si sono dimostrati vittoriosi nel cogliere due o tre temi da ciascuna anima e nel tradurli in programma e quindi in un’azione di governo quale naturale evoluzione e modernizzazione della missione costituzionale. Il fatto è che non esiste all’orizzonte nessun candidato repubblicano che possa anche solo lasciar presagire una capacità tale e questa non è una brutta notizia solo per il partito repubblicano, lo è per tutto il paese a stelle e strisce e non solo. Il Partito Repubblicano è stato infatti per

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RUBRICA

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oltre quaranta anni, con poche eccezioni, il partito che per la sua genuina impulsività è riuscito a rendere effettivo, a esempio, il potere di mera deterrenza militare occidentale nei confronti di grandi o piccoli dittatori criminali. È stato il partito del rilancio del sistema capitalistico dopo la crisi petrolifera degli anni Settanta, il partito del superamento dei blocchi per la vittoria del capitalismo. Ha fallito invece nella successiva proposizione di una visione neoconservativa imperialista che il paese non è stato in grado di sostenere finanziariamente e ideologicamente. Da questa repulsione si può dire essere nato il fenomeno Obama, ma killing di Osama Bin Laden a parte e a tutto voler concedere mettendoci dentro anche il sostegno alla primavera araba, tali successi non valgono il declino economicoindustriale e culturale di un paese stanco nel profondo che vive uno schizofrenico distacco tra Wall Street che nel mese di ottobre è stata capace del migliore risultato dal 1974 ad oggi, ed un’economia reale che non riesce a tornare su livelli di crescita capaci da piena occupazione. In questo quadro la pancia repubblicana, depressa e scoraggiata, invece che appassionarsi e dividersi sul futuro del paese, assiste immobile all’autunno dei Tea Party, preferisce distrarsi sui tweets delle star hollywoodiane, seguire i guai giudiziari di Lindsay Lohan e famiglia, attendere con ansia il video hot promesso da Reese Witherspoon e Jason Segel, mentre da uno studio common sense media, una associazione pediatrica non profit ha rilevato, su un campione di 1.400 genitori rappresentativi della popolazione

americana, come un terzo dei bimbi tra i sei e i ventritre mesi risulti avere una tv nella camera da letto perché papà e mamma dicono che concilia il sonno. L’attuale speaker della Camera, il repubblicano John Boehner, che ogni giorni incrocia le spade con il presidente, ha dichiarato al programma radiofonico di Laura Ingraham “Pensavo che fossimo uno Stato di diritto e che il nostro paese fosse regolato dalla nostra Costituzione. E quest’anno ho avuto l’occasione di visitare il mio distretto e il paese, ed ho notato che c’è molto più di un semplice interesse verso i nostri principi fondatori oggi più che in ogni altro momento della mia carriera politica”. Piace credere che possa essere vero.

*Esperto di cultura americana


NOTE CHARTA


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