Change

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EDITORIALE DI ADOLFO URSO

www.farefuturofondazione.it

CHANGE

Farefuturo è una fondazione di cultura politica, studi e analisi sociali che si pone l’obiettivo di promuovere la cultura delle libertà e dei valori dell’Occidente e far emergere una nuova classe dirigente adeguata a governare le sfide della modernità e della globalizzazione. Essa intende accrescere la consapevolezza del patrimonio comune, di cultura, arte, storia e ambiente, con una visione dinamica dell’identità nazionale, dello sviluppo sostenibile e dei nuovi diritti civili, sociali e ambientali e, in tal senso, sviluppare la cultura della responsabilità e del merito a ogni livello. Farefuturo si propone di fornire strumenti e analisi culturali alle forze del centrodestra italiano in una logica bipolare al fine di rafforzare la democrazia dell’alternanza, nel quadro di una visione europea, mediterranea e occidentale. Essa intende operare in sinergia con le altre analoghe fondazioni internazionali, per rafforzare la comune idea d’Europa, contribuire al suo processo di integrazione, affermare una nuova e vitale visione dell’Occidente. La Fondazione opera in Roma, Palazzo Serlupi Crescenzi, via del Seminario 113. Èun’organizzazione aperta al contributo di tutti e si avvale dell’opera tecnico-scientifica e dell’esperienza sociale e professionale del Comitato promotore e del Comitato scientifico. Il Comitato dei benemeriti e l’Albo dei sostenitori sono composti da coloro che ne finanziano l’attività con donazioni private. Presidente

Adolfo URSO

urso@ farefuturofondazione.it

Segretario generale

Mario CIAMPI Segretario amministrativo

Rosario CANCILA

cancila@farefuturofondazione.it

Consiglio dei revisori Gianluca BRANCADORO, Giovanni LANZILLOTTA, Giuseppe PUTTINI

Consiglio di fondazione Rosario CANCILA, Mario CIAMPI, Emilio CREMONA, Federico EICHBERG, Ferruccio FERRANTI, Giancarlo LANNA, Emiliano MASSIMINI, Giancarlo ONGIS, Pietro PICCINETTI, Pierluigi SCIBETTA, Adolfo URSO

Direttore editoriale Emiliano MASSIMINI

eichberg@farefuturofondazione.it

massimini@farefuturofondazione.it

Segreteria organizzativa fondazione Farefuturo Via del Seminario 113, 00186 Roma - tel. 06 40044130 - fax 06 40044132 info@farefuturofondazione.it

www.farefuturofondazione.it

Nuova serie Anno VI - Numero 3 - maggio/giugno 2011

Direttore relazioni internazionali Federico EICHBERG

Poste italiane S.p.a. - Spedizione in abbonamento postale - 70% /Roma/Aut. N° 140/2009

ciampi@ farefuturofondazione.it

CHANGE Bimestrale della Fondazione Farefuturo Nuova serie anno VI - n. 3 - maggio/giugno 2011 - Euro 12 Direttore Adolfo Urso

Se non ora quando? I quattro leader che hanno fondato il centrodestra italiano a metà degli anni Novanta sono usciti tutti malconci dalle recenti elezioni amministrative. Ne è uscito male, ovviamente Silvio Berlusconi, a cui va il merito storico di aver consentito la prima nascita del Polo e il duplice scongelamento di Bossi e Fini. Si pensava che la sua parabola discendente avrebbe avvantaggiato Bossi e così è stato nei primi mesi, ora anche Bossi è coinvolto nella crisi, proprio perché l’ha difeso troppo a lungo anche quando non era più difendibile. Si pensava che Casini e Fini ne avrebbero tratto vantaggio con il nuovo polo dei moderati, ma i moderati non l’hanno apprezzato, perché è apparso anch’esso troppo conflittuale e affatto competitivo. I quattro grandi leader che insieme fondarono con le loro forze politiche il centrodestra italiano corrono il rischio di chiudere insieme le loro vicende politiche così come insieme di fatto le hanno iniziate. Si chiude un ciclo, se ne deve aprire un altro, come accadde nel ‘93, quando la “gioiosa macchina da guerra” di Achille Occhetto conquistò gran parte delle città e delle province italiane, con l’eccezione proprio di Milano che fu appannaggio di Formentini e della Lega. Non ci sono più i partiti di allora. Non c’è Si chiude un ciclo, più Forza Italia e non c’è più Alleanza nase ne deve aprire zionale; non c’è nemmeno l’Unione demoun altro, come accadde cratica cristiana e forse neanche la Lega nel 1993 ch’è profondamente cambiata nella natura e nelle prospettive. È in crisi il berlusconismo ma non il bipolarismo, che peraltro trova il suo fondamento proprio nel territorio dove l’elezione diretta, tanto più a doppio turno, ne consacra la validità. È in crisi il Pdl come partito di raccolta dell’Italia moderata e riformista perché non è stato moderato, tutt’altro, e non è stato riformista, ma anzi addirittura conservatore nel gestire la crisi economica, ma è sempre più forte la richiesta di moderazione e di riforme che non trova adeguata rappresentanza. È in crisi la coalizione che non può reggersi solo sull’asse del Nord che così com’è, peraltro, non convince nemmeno il Nord. La Casa delle libertà che vinse nel 2001 aveva fondamenta solide perché si reggeva su quattro gambe, due delle quali rappresentavano degnamente le culture nazionali, moderate e riformiste, cattoliche e laiche, che si esprimevano nell’Udc di Casini, allora chiaramente


SOMMARIO

APPUNTAMENTI

NUOVA SERIE ANNO VI - NUMERO 3 - MAGGIO/GIUGNO 2011

A CURA DI BRUNO TIOZZO www.farefuturofondazione.it

CHANGE

Se non ora quando? ADOLFO URSO - EDITORIALE

Dall’Msi a Fli: una lunga camminata verso i valori di cui l’Italia ha bisogno - 98 GIUSEPPE LEONE

Un manifesto per fare l’Italia del futuro - 5 FAREITALIA

STRUMENTI Centrodestra, un fallimento umano - 6 ALESSANDRO CAMPI Sbagliare è umano, perseverare è... - 14 SOFIA VENTURA L’Italia rischia un clash of generations - 22 INTERVISTA a MARC LAZAR di Matteo Laruffa I cittadini vogliono un vero bipolarismo - 28 INTERVISTA a RENATO MANNHEIMER, NICOLA PIEPOLI E LUIGI CRESPI di Bianca Maria Sacchetti Una squadra coesa per il rinnovamento - 36 INTERVISTA a GIANNI ALEMANNO di Pietro Urso Dobbiamo cavalcare l’onda del cambiamento - 42 BENEDETTO DELLA VEDOVA E PIERCAMILLO FALASCA Prima del leader, ai moderati serve un partito - 48 INTERVISTA a ROCCO BUTTIGLIONE di Rosalinda Cappello E ora ricostruiamo la politica sul territorio - 54 INTERVISTA a GIANFRANCO MICCICHÈ di Cecilia Moretti È il momento delle idee e del coraggio di attuarle - 60 DOMENICO NANIA Prima di tutto superiamo questo sistema malato - 68 FERDINANDO ADORNATO Europa, primi passi per una politica estera - 72 FEDERICO EICHBERG E BRUNO TIOZZO Una bussola per la destra del futuro - 82 DOMENICO NASO La dialettica interna è il vero pilastro di un partito moderno - 88 BRUNO TIOZZO

Manifesto per il Mezzogiorno - 104 GIANCARLO LANNA E RAFFAELE BORRIELLO

MINUTA Una cultura che non cambia è una cultura morta - 116 BIANCA MARIA SACCHETTI

WASHINGTON

WASHINGTON

Is the WTO Doha Round Dead? Does It Matter? L’American Enterprise Institute s’interroga sullo stato dei negoziati di Doha dell’Organizzazione mondiale del commercio e le possibili ripercussioni di un mancato accordo. Mercoledì 1 giugno

The Second Transatlantic Center-Right Think Tank Conference. Il Centre for European studies (Ces) del Ppe si incontra con l’International republican institute (Iri) per un confronto sui principali temi dell’agenda internazionale, in primo luogo i cambiamenti nel Maghreb. Mercoledì 15 – giovedì 16 giugno

LONDRA Long-term growth: Europeans at Work: How to Increase European Productivity? I think-tank legati al Ppe si riuniscono nell’ambito dell’European ideas network (Ein) per un seminario sui modi per far ripartire la crescita economica europea. Mercoledì 1 – giovedì 2 giugno

Per un’economia che non sia solo profitto - 124 MICHELE TRABUCCO

VILNIUS Elections In Estonia, Latvia And Lithuania In 2010-2011: Final Victory Of Right Forces Or Delay Of Principle Of Pendulum. Conferenza della Konrad Adenauer Stiftung e delle fondazioni baltiche sulle ragioni dietro la riconferma dei governi di centrodestra in Estonia, Lettonia e Lituania. Venerdì 17 – domenica 19 giugno

ATENE Siamo figli di un comune destino - 128 ANGELICA STRAMAZZI

RUBRICHE AFRICA FELIX Mama Hawa, la madre degli ultimi - 140 MICHELE TRABUCCO LAND OF THE FREE A rischio l’egemonia culturale americana - 142 GIAMPIERO RICCI

“Il futuro della città moderna: la pianificazione, la sicurezza, la coesione sociale”, evento culturale dell’Istituto per la democrazia Konstantinos Karamanlis. Giovedì 2 giugno

BERLINO Vertrauen in Europa. Seminario della Konrad Adenauer Stiftung volto a spiegare perché bisogna avere fiducia dell’Europa. Giovedì 9 giugno

STOCCOLMA Globaliseringens triumf “Il trionfo della globalizzazione”. 10 anni dopo gli scontri in occasione del vertice Ue a Goteborg, il centro studi Timbro presenta un libro in difesa del processo di globalizzazione. Mercoledì 15 giugno

NEW YORK Doolittle Prize Dinner in honor of Senator Joseph I. Lieberman. Cena di gala del Hudson institute e consegna del premio Doolittle per la la coraggiosa leadership esercitata al Senatore Joseph Lieberman, già candidato vice presidente di Al Gore. Lunedì 20 giugno

STEYNING (WEST SUSSEX) The Big Society and Europe. Conferenza del think tank inglese Res Publica di Phillip Blond sull’eco che ha avuto in Europa il progetto del Big Society di David Cameron. Venerdì 1 – sabato 2 luglio

Direttore Adolfo Urso urso@farefuturofondazione.it Direttore responsabile Pietro Urso direttorecharta@gmail.com In redazione Domenico Naso naso@chartaminuta.it Collaboratori: Roberto Alfatti Appetiti, Rodolfo Bastianelli, Simona Bottoni, Simona Bonfante, Federico Brusadelli, Federica Colonna, Rosalinda Cappello, Piercamillo Falasca, Silvia Grassi, Giuseppe Mancini, Cecilia Moretti, Alessandro Mulieri, Giuseppe Pennisi, Paolo Quercia, Giampiero Ricci, Biancamaria Sacchetti, Adriano Scianca, Lucio Scudiero, Angelica Stramazzi, Bruno Tiozzo, Michele Trabucco, Caterina Zanirato. Direzione e redazione Via del Seminario, 113 - 00186 Roma Tel. 06/40044130 - Fax 06/40044132 E-mail: redazione@chartaminuta.it Segreteria di redazione redazione@chartaminuta.it Grafica ed impaginazione Giuseppe Proia Editrice Charta s.r.l. Abbonamento annuale € 60, sostenitore da € 200 Versamento su c.c. bancario , Iban IT88X0300205066000400800776 intestato a Editrice Charta s.r.l. C.c. postale n. 73270258 Registrazione Tribunale di Roma N. 419/06

Amministratore unico Silvia Rossi Tipografia Tipografica-Artigiana s.r.l. - Roma Ufficio abbonamenti Domenico Sacco

www.chartaminuta.it


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APPUNTAMENTI

NUOVA SERIE ANNO VI - NUMERO 3 - MAGGIO/GIUGNO 2011

A CURA DI BRUNO TIOZZO www.farefuturofondazione.it

CHANGE

Se non ora quando? ADOLFO URSO - EDITORIALE

Dall’Msi a Fli: una lunga camminata verso i valori di cui l’Italia ha bisogno - 98 GIUSEPPE LEONE

Un manifesto per fare l’Italia del futuro - 5 FAREITALIA

STRUMENTI Centrodestra, un fallimento umano - 6 ALESSANDRO CAMPI Sbagliare è umano, perseverare è... - 14 SOFIA VENTURA L’Italia rischia un clash of generations - 22 INTERVISTA a MARC LAZAR di Matteo Laruffa I cittadini vogliono un vero bipolarismo - 28 INTERVISTA a RENATO MANNHEIMER, NICOLA PIEPOLI E LUIGI CRESPI di Bianca Maria Sacchetti Una squadra coesa per il rinnovamento - 36 INTERVISTA a GIANNI ALEMANNO di Pietro Urso Dobbiamo cavalcare l’onda del cambiamento - 42 BENEDETTO DELLA VEDOVA E PIERCAMILLO FALASCA Prima del leader, ai moderati serve un partito - 48 INTERVISTA a ROCCO BUTTIGLIONE di Rosalinda Cappello E ora ricostruiamo la politica sul territorio - 54 INTERVISTA a GIANFRANCO MICCICHÈ di Cecilia Moretti È il momento delle idee e del coraggio di attuarle - 60 DOMENICO NANIA Prima di tutto superiamo questo sistema malato - 68 FERDINANDO ADORNATO Europa, primi passi per una politica estera - 72 FEDERICO EICHBERG E BRUNO TIOZZO Una bussola per la destra del futuro - 82 DOMENICO NASO La dialettica interna è il vero pilastro di un partito moderno - 88 BRUNO TIOZZO

Manifesto per il Mezzogiorno - 104 GIANCARLO LANNA E RAFFAELE BORRIELLO

MINUTA Una cultura che non cambia è una cultura morta - 116 BIANCA MARIA SACCHETTI

WASHINGTON

WASHINGTON

Is the WTO Doha Round Dead? Does It Matter? L’American Enterprise Institute s’interroga sullo stato dei negoziati di Doha dell’Organizzazione mondiale del commercio e le possibili ripercussioni di un mancato accordo. Mercoledì 1 giugno

The Second Transatlantic Center-Right Think Tank Conference. Il Centre for European studies (Ces) del Ppe si incontra con l’International republican institute (Iri) per un confronto sui principali temi dell’agenda internazionale, in primo luogo i cambiamenti nel Maghreb. Mercoledì 15 – giovedì 16 giugno

LONDRA Long-term growth: Europeans at Work: How to Increase European Productivity? I think-tank legati al Ppe si riuniscono nell’ambito dell’European ideas network (Ein) per un seminario sui modi per far ripartire la crescita economica europea. Mercoledì 1 – giovedì 2 giugno

Per un’economia che non sia solo profitto - 124 MICHELE TRABUCCO

VILNIUS Elections In Estonia, Latvia And Lithuania In 2010-2011: Final Victory Of Right Forces Or Delay Of Principle Of Pendulum. Conferenza della Konrad Adenauer Stiftung e delle fondazioni baltiche sulle ragioni dietro la riconferma dei governi di centrodestra in Estonia, Lettonia e Lituania. Venerdì 17 – domenica 19 giugno

ATENE Siamo figli di un comune destino - 128 ANGELICA STRAMAZZI

RUBRICHE AFRICA FELIX Mama Hawa, la madre degli ultimi - 140 MICHELE TRABUCCO LAND OF THE FREE A rischio l’egemonia culturale americana - 142 GIAMPIERO RICCI

“Il futuro della città moderna: la pianificazione, la sicurezza, la coesione sociale”, evento culturale dell’Istituto per la democrazia Konstantinos Karamanlis. Giovedì 2 giugno

BERLINO Vertrauen in Europa. Seminario della Konrad Adenauer Stiftung volto a spiegare perché bisogna avere fiducia dell’Europa. Giovedì 9 giugno

STOCCOLMA Globaliseringens triumf “Il trionfo della globalizzazione”. 10 anni dopo gli scontri in occasione del vertice Ue a Goteborg, il centro studi Timbro presenta un libro in difesa del processo di globalizzazione. Mercoledì 15 giugno

NEW YORK Doolittle Prize Dinner in honor of Senator Joseph I. Lieberman. Cena di gala del Hudson institute e consegna del premio Doolittle per la la coraggiosa leadership esercitata al Senatore Joseph Lieberman, già candidato vice presidente di Al Gore. Lunedì 20 giugno

STEYNING (WEST SUSSEX) The Big Society and Europe. Conferenza del think tank inglese Res Publica di Phillip Blond sull’eco che ha avuto in Europa il progetto del Big Society di David Cameron. Venerdì 1 – sabato 2 luglio

Direttore Adolfo Urso urso@farefuturofondazione.it Direttore responsabile Pietro Urso direttorecharta@gmail.com In redazione Domenico Naso naso@chartaminuta.it Collaboratori: Roberto Alfatti Appetiti, Rodolfo Bastianelli, Simona Bottoni, Simona Bonfante, Federico Brusadelli, Federica Colonna, Rosalinda Cappello, Piercamillo Falasca, Silvia Grassi, Giuseppe Mancini, Cecilia Moretti, Alessandro Mulieri, Giuseppe Pennisi, Paolo Quercia, Giampiero Ricci, Biancamaria Sacchetti, Adriano Scianca, Lucio Scudiero, Angelica Stramazzi, Bruno Tiozzo, Michele Trabucco, Caterina Zanirato. Direzione e redazione Via del Seminario, 113 - 00186 Roma Tel. 06/40044130 - Fax 06/40044132 E-mail: redazione@chartaminuta.it Segreteria di redazione redazione@chartaminuta.it Grafica ed impaginazione Giuseppe Proia Editrice Charta s.r.l. Abbonamento annuale € 60, sostenitore da € 200 Versamento su c.c. bancario , Iban IT88X0300205066000400800776 intestato a Editrice Charta s.r.l. C.c. postale n. 73270258 Registrazione Tribunale di Roma N. 419/06

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Farefuturo è una fondazione di cultura politica, studi e analisi sociali che si pone l’obiettivo di promuovere la cultura delle libertà e dei valori dell’Occidente e far emergere una nuova classe dirigente adeguata a governare le sfide della modernità e della globalizzazione. Essa intende accrescere la consapevolezza del patrimonio comune, di cultura, arte, storia e ambiente, con una visione dinamica dell’identità nazionale, dello sviluppo sostenibile e dei nuovi diritti civili, sociali e ambientali e, in tal senso, sviluppare la cultura della responsabilità e del merito a ogni livello. Farefuturo si propone di fornire strumenti e analisi culturali alle forze del centrodestra italiano in una logica bipolare al fine di rafforzare la democrazia dell’alternanza, nel quadro di una visione europea, mediterranea e occidentale. Essa intende operare in sinergia con le altre analoghe fondazioni internazionali, per rafforzare la comune idea d’Europa, contribuire al suo processo di integrazione, affermare una nuova e vitale visione dell’Occidente. La Fondazione opera in Roma, Palazzo Serlupi Crescenzi, via del Seminario 113. Èun’organizzazione aperta al contributo di tutti e si avvale dell’opera tecnico-scientifica e dell’esperienza sociale e professionale del Comitato promotore e del Comitato scientifico. Il Comitato dei benemeriti e l’Albo dei sostenitori sono composti da coloro che ne finanziano l’attività con donazioni private. Presidente

Adolfo URSO

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Segretario generale

Mario CIAMPI Segretario amministrativo

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cancila@farefuturofondazione.it

Consiglio dei revisori Gianluca BRANCADORO, Giovanni LANZILLOTTA, Giuseppe PUTTINI

Consiglio di fondazione Rosario CANCILA, Mario CIAMPI, Emilio CREMONA, Federico EICHBERG, Ferruccio FERRANTI, Giancarlo LANNA, Emiliano MASSIMINI, Giancarlo ONGIS, Pietro PICCINETTI, Pierluigi SCIBETTA, Adolfo URSO

Direttore editoriale Emiliano MASSIMINI

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Segreteria organizzativa fondazione Farefuturo Via del Seminario 113, 00186 Roma - tel. 06 40044130 - fax 06 40044132 info@farefuturofondazione.it

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Nuova serie Anno VI - Numero 3 - maggio/giugno 2011

Direttore relazioni internazionali Federico EICHBERG

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CHANGE Bimestrale della Fondazione Farefuturo Nuova serie anno VI - n. 3 - maggio/giugno 2011 - Euro 12 Direttore Adolfo Urso

Se non ora quando? I quattro leader che hanno fondato il centrodestra italiano a metà degli anni Novanta sono usciti tutti malconci dalle recenti elezioni amministrative. Ne è uscito male, ovviamente Silvio Berlusconi, a cui va il merito storico di aver consentito la prima nascita del Polo e il duplice scongelamento di Bossi e Fini. Si pensava che la sua parabola discendente avrebbe avvantaggiato Bossi e così è stato nei primi mesi, ora anche Bossi è coinvolto nella crisi, proprio perché l’ha difeso troppo a lungo anche quando non era più difendibile. Si pensava che Casini e Fini ne avrebbero tratto vantaggio con il nuovo polo dei moderati, ma i moderati non l’hanno apprezzato, perché è apparso anch’esso troppo conflittuale e affatto competitivo. I quattro grandi leader che insieme fondarono con le loro forze politiche il centrodestra italiano corrono il rischio di chiudere insieme le loro vicende politiche così come insieme di fatto le hanno iniziate. Si chiude un ciclo, se ne deve aprire un altro, come accadde nel ‘93, quando la “gioiosa macchina da guerra” di Achille Occhetto conquistò gran parte delle città e delle province italiane, con l’eccezione proprio di Milano che fu appannaggio di Formentini e della Lega. Non ci sono più i partiti di allora. Non c’è Si chiude un ciclo, più Forza Italia e non c’è più Alleanza nase ne deve aprire zionale; non c’è nemmeno l’Unione demoun altro, come accadde cratica cristiana e forse neanche la Lega nel 1993 ch’è profondamente cambiata nella natura e nelle prospettive. È in crisi il berlusconismo ma non il bipolarismo, che peraltro trova il suo fondamento proprio nel territorio dove l’elezione diretta, tanto più a doppio turno, ne consacra la validità. È in crisi il Pdl come partito di raccolta dell’Italia moderata e riformista perché non è stato moderato, tutt’altro, e non è stato riformista, ma anzi addirittura conservatore nel gestire la crisi economica, ma è sempre più forte la richiesta di moderazione e di riforme che non trova adeguata rappresentanza. È in crisi la coalizione che non può reggersi solo sull’asse del Nord che così com’è, peraltro, non convince nemmeno il Nord. La Casa delle libertà che vinse nel 2001 aveva fondamenta solide perché si reggeva su quattro gambe, due delle quali rappresentavano degnamente le culture nazionali, moderate e riformiste, cattoliche e laiche, che si esprimevano nell’Udc di Casini, allora chiaramente


nel centrodestra, e nell’An di Fini, allora destra moderna. Un tavolo si regge bene su quattro gambe, può reggersi su tre, se ben costruito, non si regge mai su due, soprattutto nella complessa realtà italiana. Manca nell’attuale coalizione una forza capace di rappresentare degnamente la cultura nazionale, che per sua natura si fonda su una politica dello sviluppo che garantisca la coesione sociale. Questa esigenza potrebbe essere rappreManca nell’attuale sentata dal nuovo polo, se fosse chiaramente centrodestra una forza percepito nel centrodestra, con una politica coche rappresenti struttiva, riformatrice e davvero responsabile. la cultura nazionale Ma purtroppo così non è o almeno non è ancora. Il nuovo polo è diventato il Terzo polo, non un altro centrodestra come ancora affermava Futuro e libertà a Milano e dopo Milano. E nemmeno un vero centrodestra, come qualcuno aspirava legittimamente a fare. Il Terzo polo non è carne e non è pesce e non è nemmeno un vegetale, non ha alcuno dei sapori naturali della politica. Non è bipolare in un’Italia e in un’Europa che restano bipolari; non è di centrodestra, anche se Fini e Casini sono tra i fondatori del centrodestra e loro culture politiche o sono tali o non sono. Ma non è nemmeno centrista, perché non ha la forza per farlo. Il Terzo polo ha fallito la prima prova perché è apparso tutto e il contrario di tutto. Nel primo turno si è rifiutato di collocarsi nel centrodestra, nel secondo turno ha rifiutato di fare l’ago della bilancia. E nei referendum ha rifiutato di fare politica, rinnegando le proprie idee. Per evitare di dire cose diverse evita sempre di scegliere, ma chi non sceglie non esiste. A fronte di tutto ciò cresce nella sinistra l’ala massimalista che fu cancellata dagli elettori appena tre anni fa dopo la grottesca vicenda del governo Prodi. Cresce sotto altre forNei ballottaggi il Terzo me, non più ideologiche ma populiste. Crepolo non è stato capace sce, si impone e vince. Soffre la sinistra ridi scegliere e quindi formista che deve riorganizzare le fila, trovadi aggregare re un nuovo progetto e un nuovo candidato che sappia riunire le sinistre senza soccombere, come potrebbero fare ancora Chiamparino e Zingaretti sulla base di ottime esperienze di governo nelle due capitali italiane. In tal senso, si riafferma con forza il bipolarismo, che solo la Lega può forse ancora scardinare, non certo Grillo, già in crisi, proprio perché non ha scelto nei ballottaggi. E non certo il Terzo polo che non è apparso un polo capace di scegliere quindi di aggregare. Le sinistre rianimate dal successo si muoveranno e certamente comunque riusciranno a riproporre un Ulivo allargato, com’è nei

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piani di Bersani e D’Alema, forti anche della rendita di posizione che deriva dall’essere all’opposizione quando imperversa la più grave crisi economica e sociale degli ultimi decenni e che trova proprio nella nostra metà d’Europa la sua maggiore focalizzazione. E noi? Coloro che si rifanno ai valori e ai programmi del popolarismo europeo così come è evoluto negli ultimi vent’anni, cosa facciamo? E soprattutto cosa fanno coloro che Questo centrodestra provengono dalla destra italiana e che per deci indigna per ciò che cenni hanno lottato perché si affermasse una non fa di giorno, non cultura di governo, laica e liberale, moderna e per ciò che fa la notte riformista, che coniugasse in un progetto nazionale quelli che una volta venivano definiti meriti e bisogni. E che oggi si esprime nella marcia silenziosa dei tremila imprenditori di Treviso nel cuore della Lega e nella furia degli operai di Castellammare, nel cuore della Camorra. Il Nord produttivo freme perché non riesce a produrre e il Sud disagiato bolle perché non riesce a crescere. Manca una politica dello sviluppo che sappia coniugare nelle riforme, radicali in quanto necessarie, meriti e bisogni, dando alla comunità nazionale la consapevolezza di un progetto e di un destino comune. Siamo indignati nei confronti di questo centrodestra, non tanto per ciò che fa la notte, quanto per ciò che non fa di giorno. E non ci interessano i retroscena ma nemmeno le scene dei teatrini che non fanno più ridere. Ci vuole per davvero un nuovo centrodestra, cioè una nuova politica, che sappia fare da subito le riforme che servono al Paese. Oggi e non domani quando il malato sarà troppo grave. Oggi e non domani quando tutto sarà distrutto. Su questo abbiamo costruito questo fascicolo di Charta, ideato ovviamente prime delle elezioni amministrative che avevamo percepito poCi vuole un nuovo tessero essere una spartiacque, chiuso pochi centrodestra che sappia giorni dopo, a delitto consumato. fare da subito le riforme C’è bisogno di un grande sforzo per superare che servono al Paese rancori e recriminazioni, divisioni e lacerazioni. Un anno di lavoro, da subito. Con quattro coordinate: rinnovare il centrodestra e quindi il bipolarismo italiano; ricomporre il centrodestra nel partito popolare, moderato e riformista; far emergere una nuova classe dirigente che sappia rispondere alle sfide della modernità; soprattutto, affrontare le riforme per governare e imprimere lo sviluppo. A nulla serve una nuova proposta politica se non si realizzano le riforme necessarie a salvare il Paese. Ai quattro leader che hanno fondato il centrodestra e il bipolarismo italiano chiediamo la cosa più difficile ma quella che meglio


di altre sancisce la loro vera leadership, quella che si misura davvero quando si chiude un ciclo. Agiscano anche divisi ma insieme per lasciare il passo ad altri, a chi viene dopo di noi, consegnando a loro un Paese rinnovato e finalmente risanato, con un bipolarismo normale e un vero partito dei moderati e dei riformisti, aperto e plurale, tollerante e inclusivo, espressione del grande civismo italico, fatto di società civile e produttiva e dei I quattro leader che suoi corpi intermedi, in cui i giovani possano hanno fondato credere e soprattutto costruire. Lo si può fare il centrodestra facciano meglio proprio attraverso le primarie aperte a un passo indietro tutto il centrodestra, cioè a tutti coloro che si riconoscono nei valori del popolarismo europeo. Con tutte le regole che servono affinché sia una competizione utile in cui emerga una nuova classe dirigente con le loro idee e i loro programmi, questo sarebbe la vera grande discontinuità con l’era berlusconiana in cui candidati e scelte calavano dall’alto e non solo nel Pdl. Ci vuole però un impegno, per aprire davvero insieme un nuovo ciclo e fondare un altro centrodestra, in una sana democrazia dell’alternanza in cui l’avversario si riconosca e con esso ci si confronta: i quattro leader che hanno fondato il centrodestra e con esso questo bipolarismo malconcio e immaturo facciano tutti un passo indietro e da padri davvero nobili si impegnino a non presentarsi alle primarie, per fare emergere chi viene dopo loro e dopo noi, appunto un’altra classe dirigente, finalmente veramente tale e se possibile coesa. Se non ora, quando?

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Un manifesto per fare l’italia del futuro La situazione di impasse che si è venuta a creare rischia di pregiudicare gli interessi del Paese. L’Italia ha bisogno di riforme radicali e di una politica dello sviluppo che acceleri la crescita, premi il merito e garantisca la coesione sociale. Ha bisogno di farlo oggi e non domani. Per questo riteniamo assolutamente necessario che tutte le forze che si richiamano ai medesimi valori e programmi del Partito popolare europeo agiscano insieme e si assumano la responsabilità di avviare una nuova fase, da subito, nel governo e nel Paese, senza rancori né pregiudizi. È necessario superare le divisioni del recente passato avviando un processo costituente che consenta di realizzare davvero nel nostro Paese un partito popolare, moderato e riformista in cui si possano ritrovare tutti coloro che hanno a cuore i valori della libertà, della famiglia e della nazione con un progetto condiviso al servizio del Bene Comune. È il momento di riunire non di dividere, di pacificare e di costruire. È necessario aprire un grande dibattito, senza preclusioni, su come rinnovare e ricomporre il centrodestra per dare forza a un processo di riforme che ha bisogno del massimo sostegno e rendere finalmente maturo il bipolarismo italiano. Solo con un partito aperto, plurale e partecipato e con candidati legittimati dalle primarie aperte a tutti coloro che si riconoscono nel centrodestra, si può rispondere al bisogno di cambiamento e dare voce ai corpi sociali e alla straordinaria società civile e produttiva che oggi appare sgomenta di fronte all’afonia politica e alla paralisi istituzionale. Solo le riforme possono fermare l’ondata populista che alimenta paure ma non fornisce soluzioni. È necessario fare subito una nuova agenda della crescita da realizzare nell’arco dei prossimi dodici mesi, in cui tutte le forze del popolarismo europeo si possano riconoscere: la riforma fiscale e la riforma del welfare, con l’obiettivo di favorire lo sviluppo economico e la coesione sociale, i giovani e la famiglia; la riforma della giustizia e le liberalizzazioni, per rendere più efficiente ed efficace l’azione dello Stato e del mercato; la concentrazione delle risorse e degli investimenti su scuola e formazione, innovazione e infrastrutture; una nuova politica per il Mezzogiorno che passi anche attraverso il federalismo fiscale. È necessario, infine, riattivare un confronto sereno con tutte le forze politiche per realizzare le riforme istituzionali, a cominciare da quelle sulle quali si era già registrata una significativa convergenza, per valutare insieme anche l’ipotesi di riforma elettorale al fine di dare maggiore possibilità di scelta agli elettori, valorizzare e migliorare bipolarismo e democrazia dell’alternanza. È necessario pensare all’Italia, appunto Fareitalia.

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PER UN NUOVO CENTRODESTRA Alessandro Campi

Un domani che sembra non esserci

Centrodestra, un fallimento umano Tra promesse mancate e litigi personali, si è consumata la rottura traumatica dei legami di solidarietà che erano stati il cemento dell’esperienza liberalconservatrice in Italia. Il futuro della destra, oggi, non si riesce proprio a immaginarlo. DI ALESSANDRO CAMPI

L’oggetto di quest’intervento – secondo quanto concordato con la redazione – dovrebbe essere il futuro della destra italiana. Ma esiste ancora in Italia una realtà politica minimamente omogenea che possa essere definita con questo termine? Si può immaginare il futuro di qualcosa che forse ha cessato di esistere? Da qualche tempo, ragionando sulle vicende che hanno portato, all’incirca un anno fa, alla traumatica rottura tra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini, alla successiva diaspora del gruppo dirigente che era confluito nel Popolo della libertà provenendo da Alleanza nazionale (e prim’ancora dell’Msi) e infine alla nascita, dopo un lungo travaglio, di una formazione a tutt’oggi dai contorni incerti quale Futuro e libertà, mi sono convinto che quello che molti osservatori hanno

provato a descrivere come un processo di irreversibile divaricazione determinatosi all’interno di quel gruppo a partire da scelte, orientamenti e interessi che erano divenuti con tutta evidenza inconciliabili, in realtà si configuri – soprattutto se osservato a posteriori e con un relativo distacco – come una vera e propria catastrofe politico-antropologica, come una sorta di collasso emotivo-caratteriale che ha finito per coinvolgere, al centro come alla periferia, un’intera comunità politica, la cui conseguenza estrema rischia di essere, per l’appunto, la definitiva scomparsa della destra politico-culturale dalla scena pubblica nazionale. In che senso la parabola della destra italiana, per come si è realizzata negli ultimi mesi, in un crescendo di scontri, divisioni e incomprensioni, può es-

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sere rappresentata alla stregua mento, in alcuni casi anche padi una catastrofe antropologica recchio radicali. Ciò è avvenuto invece che come un fenomeno, tutte le volte che un partito, per certi versi persino fisiologi- una comunità politica o una co, di metamorfosi e trasforma- tradizione ideologica si sono zione politica o, nel peggiore trovati dinnanzi ad un tornante dei casi, come un esempio nem- della storia ed hanno dimostrameno molto raro nella storia di to di saperlo affrontare mettendisgregazione e consunzione do in gioco se stessi: le proprie basi dottrinarie come i propri storica? Di culture, famiglie e tradizio- orientamenti programmatici, il ni politiche entrate in crisi e proprio stile d’azione e finanpoi scomparse, perché dimo- che il proprio linguaggio. È in stratesi non più in grado di virtù di un profondo processo reggere le sfide della storia e di di revisione, per fare un esemrisultare attrattive e convincen- pio, che il movimento laburista britannico è riuti agli occhi dei scito, sotto la guiloro stessi soste- Perché un parito da di Tony Blair, nitori di un tema diventare una po, ne abbiamo non si estingua forza di governo conosciute diver- è necessario che si credibile ed autose, anche nel corso della recente reinventi senza perdere r e v o l e d o p o i l lungo dominio storia italiana. lo spirito originario del partito conserBasti pensare agli anni terminali della cosiddetta vatore e dopo che per decenni Prima Repubblica, che furono esso era rimasto inchiodato alla per l’appunto caratterizzati dal- sua matrice tradizionalmente la crisi di credibilità, dalla per- marxista. Qualcosa di analogo, dita di legittimazione sociale e con riferimento all’Italia, fece dalla successiva rapida scom- Craxi quando ruppe – in una parsa di tutte le famiglie poli- prospettiva riformista-liberale e tiche (dalla democristiana alla modernizzatrice – con una cerliberale, dalla socialista alla re- ta tradizione di socialismo maspubblicana) che per un cin- simalista che aveva condannato quantennio circa avevano costi- quest’ultimo ad una perpetua tuito il fondamento, sul piano subalternità al comunismo. dei valori e dell’azione di go- Insomma, un movimento poliverno, del nostro sistema poli- tico-ideologico può, da un lato, scomparire brutalmente dalla tico-istituzionale. Al tempo stesso, nel corso della scena, quando con ogni evidenstoria, inclusa quella nazionale, za ha esaurito il suo ciclo vitale abbiamo conosciuto fenomeni o visto affievolirsi le ragioni assai interessanti di adattamen- ideali che lo giustificavano dinto, trasformazione e cambia- nanzi alla storia, oppure, dal-


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l’altro, può assumere – pur nel gime “partitocratico”. Per di rispetto delle sue radici e delle più ha potuto sfruttare a prosue aspirazioni più profonde – prio favore il cosiddetto “vento una configurazione inedita, della storia”, vale a dire quel all’altezza dei tempi e delle esi- vero e proprio cambio epocale genze nuove che la società pone rappresentato dal tracollo irrecontinuamente alla politica, il versibile dell’utopia comunista che significa riuscire a contem- e, più in generale, dalla crisi perare il cambiamento con una della cultura in senso lato prorelativa continuità nel tempo, gressista. la forza (necessaria) dell’innova- Ma nemmeno si può dire che le zione con la salvaguardia (al- sue fibrillazioni odierne, la trettanto necessaria) della tra- confusione di strategia e di identità della quale la destra dizione. La realtà alla quale ci stiamo ri- italiana attualmente soffre, siaferendo – la destra post-missina no il frutto di un qualche radicale e doloroso arrivata negli ulprocesso di revitimi mesi al suo Nonostante il “vento sione dei suoi punto massimo di disgregazione e della storia” in poppa e orientamenti culturali di base o dispersione – non il tramonto dell’utopia del suo storico rientra, a ben vepatrimonio polidere, in nessuna rossa la destra tico. Non c’è di queste due ca- postmissina ha fallito dunque una crisi tegorie. Non si può dire, ad esempio, che la sua di trasformazione o di crescita, sia una crisi di identità frutto con le inevitabili tensioni che di un cambio repentino del cli- ciò comporta, che possa giustima storico-culturale oppure ficare il marasma nel quale essa l’esito inevitabile di una ecces- è attualmente piombata, sino a siva permanenza al potere. Al disperdere le proprie energie in contrario, la destra italiana è mille e infruttuosi rivoli. È veentrata con un ruolo da prota- ro, a suo tempo, nell’ormai longonista nel “grande gioco” del- tano 1995, c’è stato il lavacro la politica solo all’indomani purificatore di Fiuggi, che aldella traumatica scomparsa dei l’epoca è sicuramente servito partiti storici dell’Italia repub- alla destra italiana per liberarsi blicana. Può perciò essere con- agli occhi degli italiani dalle siderata una forza relativamente scorie del nostalgismo fascista; giovane, tutt’altro che logorata ma a conti fatti quell’episodio dalla routine, non foss’altro per- si è risolto in null’altro che in ché è rimasta per decenni estra- una gigantesca operazione di nea agli equilibri di potere – rimozione del passato e di azzesociale e politico – che hanno ramento della propria memoria caratterizzato il precedente re- storica. La destra liberale, con-

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servatrice, nazionale, riformista realtà marginale ma a suo modo che all’epoca fu annunciata non vitale e piena di fermenti – non è mai venuta alla luce con una è a causa dei travagli intelletqualche compiutezza, e ciò per tuali e dei contrasti ideali che la semplice ragione che alla re- l’attraversano (che anzi si è cervisione effettiva dei propri mo- cato di sfuggire per quanto delli e riferimenti culturali da possibile senza rendersi conto allora in avanti si è preferito che solo grazie ad essi questa giustapporre uno stile politico, stessa destra si sarebbe potuta che ci si è compiaciuti di defi- trasformare in qualcosa di realnire pragmatico e post-ideolo- mente nuovo senza per questo gico e che invece è stato soltan- dover perdere o forzatamente to mimetico e opportunistico. rinnegare le sue più antiche e Quanto al più recente, e ben autentiche matrici); e non è più serio, tentativo fatto da nemmeno perché gli elettori o Gianfranco Fini di definire i la storia le hanno repentinamente voltato le contorni di una spalle sino a rendestra effettiva- Quel Fini che prima derla superata e mente “nuova” – condannata ad il che altro non raccoglieva plausi ed poteva significare entusiasmo, ora provoca una inevitabile senescenza. Anzi, che dare finalall’ombra del pomente corpo e so- sguardi scettici. tere berlusconiastanza a quanto a Chiediamoci perché no, che per quanFiuggi era stato semplicemente annunciato – si to incrinato resta tuttavia ancoè scoperto, ora che anche que- ra solido, parte consistente di sto tentativo sembra essersi are- questa destra si sta godendo da nato, che dal mondo della de- anni una stagione di crescenti e stra politico-culturale d’estra- perduranti successi mondani, zione missina esso è stato vissu- come mai era accaduto nella to alla stregua di un’avventura sua storia. solitaria e priva di costrutto, ri- E allora cosa è accaduto che spetto alla quale si è preferito possa spiegare perché, ad esemalzare un muro di indifferenza e pio, all’interno stesso del monfastidio, quando non si è sco- do berlusconiano quelli che fino modata, per liquidarlo, la cate- a qualche tempo fa erano consigoria sempre ricorrente del tra- derati alleati affidabili e compagni di strada con i quali si era dimento. Insomma, se la destra oggi ri- condivisa un’esaltante avventuschia di scomparire dalla scena ra politica vengano oggi sprez– di diventare socialmente, po- zantemente liquidati come “faliticamente e culturalmente ir- scisti” o come esponenti, semrilevante e sterile dopo essere pre più scomodi e sgraditi, di stata per un cinquantennio una un mondo che si considera ri-


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masto irrimediabilmente legato chiusura verso il mondo circoal passato, quasi che per essi stante. Non avendo operato al vent’anni di storia siano trascor- suo interno, nel corso degli ulsi invano? Come è possibile, per timi vent’anni, alcun sostanziafare un altro esempio, che le po- le cambiamento, avendo rifiusizioni innovative di Fini, che tato o rigettato qualunque insino a qualche tempo fa riscuo- nesto ricostituente dall’esterno, tevano plausi e attenzioni ed questo gruppo ha finito per erano valutate come il segno di consumarsi – come accade nei un processo di cambiamento casati nobiliari che per rinnoprofondo e al tempo stesso au- varsi si affidano esclusivamente tentico, oggi non riscuotano agli accoppiamenti tra consanpiù alcun interesse e siano anzi guinei – in un crescendo di lotguardate con crescente suffi- te fratricide e di contese dettate cienza? Come è possibile, per sostanzialmente da antichi livochiudere questa amara carrella- ri personali e da ripicche spesso infantili. Quella ta, che la destra che risulta, guarrimasta organica Litigi personali hanno dando anche al al mondo berlusconiano, pur go- rotto traumenticamente tono e ai contenuti delle poledendo di impor- i legami di solidarietà miche che hanno tanti spazi d’aziorecentemente ne e di grandi re- che erano stati sponsabilità a li- il cemento dell’alleanza contrapposto gli esponenti politici vello governativo, non riesca a rendersi minima- più rappresentativi della destra mente riconoscibile e visibile italiana, è una prova collettiva agli occhi dell’opinione pubbli- di immaturità politica che alla ca e si trovi dunque costretta a fine si è tradotta, più che in diinseguire o a subire in silenzio visioni ideologiche e in diffele battaglie e la campagne pro- renti orizzonti d’azione, in litigi personali e nella rottura pagandistiche della Lega? La spiegazione che mi sono da- traumatica dei legami di solito, sul filo della psicologia po- darietà (e in alcuni di vera e litica, è che nell’arco degli ulti- propria amicizia) che erano stami dodici mesi ciò a cui abbia- ti il loro vero cemento. mo assistito è stato il collasso Se da un lato ha dunque negaper così dire nervoso, il cedi- tivamente pesato il logoramenmento emotivo e caratteriale, to indotto da un eccesso di fredi un gruppo dirigente rimasto quentazione e confidenza, dal lungamente autoreferenziale e fatto di aver condiviso un campreda della deriva settaria che mino politico sin troppo lungo, da sempre condanna all’estin- sino a bruciare strada facendo zione i piccoli movimenti che qualunque stimolo e curiosità basano la propria forza sulla l’uno per l’altro (capita anche

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nelle coppie dopo tanti anni di ne insicure o che credono di matrimonio), dall’altro ha inve- avere qualcosa di riprovevole da ce giocato un ruolo altrettanto nascondere agli occhi del prosnegativo il permanere di riflessi simo; e da ultimo un modo di mentali, di atteggiamenti e impostare le proprie battaglie, modi d’agire che, nei vent’anni politiche e culturali, sempre in cui la destra italiana s’è tro- sul filo del dilettantismo e vata al ricoprire un ruolo pub- d e l l ’ i m p r o v v i s a z i o n e , c o n blico eminente, sono in realtà un’inclinazione militante, marimasti i medesimi di quando gari anche generosamente batessa costituiva un universo te- tagliera, che sembra però denonuto ai margini dalla politica tare l’incapacità, in primis sul ufficiale e costretto da quest’ul- piano psicologico, a lasciarsi altima ad un mortificante isola- le spalle la stagione politica mento. Il consumarsi dei rap- eroica nella quale quel gruppo porti tra persone che all’im- s’è formato dal punto di vista generazionale e provviso, dopo alla quale, per a v e r c o n d i v i s o La destra, ancora oggi, quanti anni siano ogni cosa, hanno trascorsi da allora, s e m p l i c e m e n t e non riesce a liberarsi esso è rimasto scoperto di non dei codici e dei modi sentimentalmente avere più nulla e visceralmente da dirsi di inte- minoritari e marginali legato. ressante si è in- del passato Ecco, è in questo somma sovrapposto al perdurare di vecchi e ro- senso che parlo – forse esagevinosi tic: il settarismo, di cui rando – d’una catastrofe politisi è detto, vale a dire la tenden- ca, d’una crisi di identità e di za a frazionarsi e dividersi in strategia della destra italiana gruppi sempre più minuscoli; che mi sembra motivata più il senso di alterità e di diffiden- che altro da una somma di maza verso un mondo esterno lumori personali e complessi sempre percepito come estraneo stati d’animo, dall’esaurirsi dele minaccioso; lo spirito di ri- la fiducia in se stessi proprio vincita e il risentimento tipici nel momento in cui essa si è di chi ha introiettato nel pro- trovata a capitalizzare il massifondo del proprio animo la con- mo dell’attenzione e dei condizione dello sconfitto e del sensi, dal rifiuto quasi patoloperdente; la disabitudine a in- gico da parte del suo gruppo trecciare relazioni sociali pari- dirigente a mescolarsi col montarie con chi non provenga da do, a mettersi seriamente alla un percorso formativo analogo prova dinnanzi ad una società al proprio; una postura sempre in rapida e radicale trasformaaggressiva e polemica che è ca- zione, a rimuovere le incrostaratteristica notoria delle perso- zioni di un passato con il quale


PER UN NUOVO CENTRODESTRA Alessandro Campi

i conti non sono mai stati fatti sino in fondo. Le oscillazioni odierne della pattuglia finiana, che sonda ogni possibile strada senza decidersi a imboccarne nessuna, i silenzi e le indecisioni del medesimo Fini, l’obiettiva subalternità e la sostanziale mancanza di un progetto politico-culturale di quella parte di destra che ha deciso di affidare le proprie chance di sopravvivenza al perdurare del blocco di potere costruito da Berlusconi, la cattiva prova di sé, nel segno della disinvoltura se non del carrierismo vero e proprio, che in questi mesi hanno dato molti singoli esponenti di questo mondo: tutto ciò sembra suonare davvero come la “fine di un mondo”, come la pessima conclusione di una storia politica che avrebbe potuto avere ben altro corso se invece che perdersi in accuse reciproche di tradimento, in liti da fanciulli e in meschine vendette personali, come è accaduto, ci si fosse dimostrati per davvero – non solo sul piano delle enunciazioni retoriche – gli eredi di una tradizione che non ha mai disdegnato il rischio, l’avventura o l’andare controcorrente e che non ha mai anteposto il tornaconto dei singoli al bene comune e all’amor di patria. Suona ironico, prima che tragicamente comico, l’individualismo esasperato di cui hanno saputo dar prova, nei momenti decisivi, coloro che per anni si sono riempiti la bocca di appelli allo spirito co-

munitario e al senso di appartenenza! Il futuro della destra italiana? Oggi, pensando le cose che ho detto, dinnanzi ad un fallimento che mi sembra umano prima che politico, davvero non saprei quale possa essere.

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L’Autore alessandro campi Professore associato di Storia delle dottrine politiche all’Università di Perugia. Dirige Rivista di politica edita da Rubettino e ha fondato l’Istituto di politica.



PER UN NUOVO CENTRODESTRA Sofia Ventura

Sbagliare è umano, perseverare è...

B

isogna correggere immediatamente la rotta che Fini e il suo neo partito hanno portato avanti fino ad ora. Terzo Polo e deriva a sinistra stanno ingabbiando rovinosamente il progetto di Fli. Serve coraggio anche nel cambiare direzione perché è il momento di ricostruire il centrodestra con un grande e ambizioso progetto politico. 15 DI SOFIA VENTURA

Quando tra la fine del 2007 e l’inizio del 2008 il quadro politico sembrò semplificarsi grazie alla nascita del Partito democratico e alla successiva creazione della lista elettorale del Pdl, che poi nel marzo 2009 si sarebbe trasformata in un partito unico della destra moderata, con la confluenza di Forza Italia e Alleanza nazionale, si ebbe l’impressione che la lunga e faticosa transizione italiana stesse risolvendosi finalmente con l’acquisizione da parte del nostro sistema partitico di tratti sempre più compiutamente maggioritari. Rimaneva tuttavia la consapevolezza che a tutto ciò continuasse a mancare quel riconoscimento istituzionale che solo avrebbe potuto garantire il consolidamento di quei tratti. Oggi, a poco più di

tre anni di distanza, ancora mancano nuove regole, mentre Pdl e Pd mostrano tutta la loro fragilità e, alle attuali condizioni, sembra difficile che possano divenire protagonisti rispettivamente di una destra e di una sinistra in grado di svolgere in modo efficace i ruoli di forze di governo e di opposizione in una prospettiva di lungo periodo. Arduo anche immaginare il modoin cui possono di aiutare l’uscita del nostro sistema politico da uno stallo sempre più pericoloso e sempre più simile a un declino. Entrambi sono prigionieri del fattore B, ovvero della presenza di Silvio Berlusconi alla guida del governo e dominus incontrastato di una destra sempre più allo sbando, priva di una visione e di


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una conseguente progettualità fattore B ha immobilizzato anche politica e orientata ad usare i la destra italiana e ha impedito mezzi più disparati non per go- che il Popolo della Libertà divevernare ma per restare al governo. nisse un partito capace non solo A sinistra, lo strumento dell’anti- di gestire il presente (e lo gestisce berlusconismo si è trasformato in malamente), ma anche di costruiuna trappola. Da questa trappola re il futuro. l’attuale dirigenza del Pd sembra Nel novembre 2008 questa stessa incapace di liberarsi. Essa conti- rivista dedicava un numero monua ad oscillare tra una concezio- nografico al partito allora in cone passatista (consensuale e ostile struzione. Nel suo intervento alle nuove forme di leadership) Alessandro Campi auspicava la della politica – dopo avere sbri- creazione di una struttura orgagativamente liquidato il progetto nizzativa stabile e radicata, con veltroniano del partito a vocazio- regole chiare e definite e in grado ne maggioritaria – e tentativi di di creare una rete di dirigenti selezionata dal basso sposare le nuove forme di comuni- Berlusconi ha impedito e una solida base militante. Al temcazione che risulpo stesso non si natano però patetici al Pdl di diventare scondeva le diffie inefficaci poiché un partito capace coltà, domandanil packaging non è dosi come tutto ciò s u f f i c i e n t e s e di gestire il presente sarebbe stato reamanca il prodotto. e costruire il futuro lizzato e se sarebbe E il prodotto manca, poiché il Pd è incapace di farsi sorta nel nuovo partito una reale promotore di una offerta politica democrazia interna attraverso la alternativa all’attuale maggioran- quale le diverse posizioni avrebza che sia credibile e che abbia bero potuto confrontarsi e contarqualche chance di vittoria. La sua si. Collocava il progetto della dirigenza inoltre continua a nuova formazione nascente sosnobbare figure e proposte che prattutto in un’ottica post-berlucercano di rompere il circolo vi- sconiana, con la preoccupazione zioso prodotto si tra antiberlusco- che il grande partito della destra nismo sterile e inadeguatezza e moderata non dovesse finire e dipare interessata soltanto alla pro- sgregarsi una volta ritiratosi dalla politica Silvio Berlusconi, leader pria sopravvivenza. Ma se per il futuro, stando così le indiscusso e carismatico, in grado cose, non ci si può attendere mol- di tenere assieme le diverse anime to dalla sinistra e dal Partito de- e mediare tra le diverse opzioni e mocratico, nemmeno si possono ambizioni. Sempre nello stesso riporre molte speranza nell’offer- numero, chi scrive sottolineava i ta politica proveniente da destra, limiti della figura di Berlusconi, in particolare se si guarda al do- leader “antipolitico” e poco atpo-Berlusconi. Come si diceva, il tento alla dimensione delle isti-


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tuzioni e delle regole (anche continuare. Ma l’incapacità di quelle preposte al funzionamento farsi luogo di processi deliberatiinterno di un partito) e si augura- vi e decisionali all’altezza di un va che, come era avvenuto in uno partito moderato di un grande dei rari casi di istituzionalizzazio- paese europeo come l’Italia è ne di successo del carisma, ovvero strettamente legata al persistere l’esperienza gollista, la classe di- al suo interno (come già era accarigente del partito sarebbe stata duto in Forza Italia) dell’assenza in grado di creare un sistema di di chiare regole di funzionamenregole efficace e che ponesse in to, al persistere, in altre parole, di relazione i ruoli di vertice con la dinamiche carismatiche che pricapacità di creare consenso presso vilegiano la fluidità, l’obbedienza la base e i simpatizzanti, in modo acritica al leader (secondo lo stile tale da preparare la successione e delle “tre narici” di guareschiana scongiurare il pericolo che il par- memoria) e carriere secondo critito si trovasse impreparato ad af- teri opachi e di rado basati sul merito. Ciò che alfrontare le inevitala vigilia della nabili “lotte di pote- Il gruppo finiano scita del Pdl ci si re” per il “dopo non è stato in grado augurava – certo, Berlusconi”. Come è noto, il Pdl di elaborare un discorso con una buona dose di scetticismo, non ha mantenuto ovvero che il la promessa di tra- che si rivolgesse al sformarsi in un suo naturale elettorato gruppo dirigente avrebbe saputo cogrande partito liberale e moderato, articolato al struire un vero partito e fare delsuo interno e capace di essere luo- l’input carismatico della leadership go di confronto e di elaborazione berlusconiana un elemento di ledi idee e progetti e di recluta- gittimazione per un partito che mento e promozione di una capa- acquisisse però una propria forza ce classe dirigente. Ha assunto la e una propria autonomia, non si è permanenza al governo a qualun- realizzato. Quel gruppo dirigente que costo come obiettivo prima- ha utilizzato il carisma e la capario della sua azione, rinunciando, cità di consenso del suo leader coin questo modo, a scelte davvero me strumenti per costruire carrieliberali e coraggiose nell’ambito re, percorsi e spazi di potere perdella politica economica e del sonali, senza porsi il problema di welfare, schiacciandosi sulle posi- come dare vita ad un vero partito zioni della Lega di Bossi rispetto e ripetendo come un mantra che a grandi tematiche come quelle il Pdl traeva la propria forza prodella sicurezza e dell’immigrazio- prio dall’essere un partito carine, adottando posizioni confes- smatico, volutamente ignorando sionali e illiberali rispetto alle che un partito di tale tipo, se riquestioni attinenti i diritti e le li- mane tale è destinato a soccombertà individuali. E si potrebbe bere con il suo leader.

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I Libri

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Ecco cosa manca all’Italia

Il padre di tutti i moderati

Luca Sofri Un grande paese Rizzoli 2011, 250 pp., euro 10,00

Paolo Pombeni Il primo De Gasperi Il Mulino 2007, 305 pp., euro 23,00

Un grande paese

Da più parti si ri-

è la definizione

tiene che Alcide

che vorremmo

De Gasperi vada

poter dare del-

considerato insie-

l’Italia, senza che

me a Cavour il

ci scappi da ride-

massimo statista

re. È il futuro che

dell’Italia unita.

vorremmo im-

Negli ultimi anni,

maginare, il presente che invidiamo ad

il cinquantesimo anniversario della sua

altre nazioni ma che non vediamo in-

morte ha dato occasione a una rinnovata

torno a noi. Eppure, è il nostro modo di

stagione di studi degasperiani, di cui si va

essere italiani, di sognare un grande

ora raccogliendo i frutti. Con appassio-

paese, di fare come se lo fosse, dise-

nata precisione, Pombeni ricostruisce

gnarlo e farlo diventare possibile: sono

tutte le tappe dell’apprendistato dega-

le nostre volontà e capacità di rendere

speriano, dall’esperienza di studente

condivise le cose di cui siamo fieri,

universitario nella Vienna di fine secolo,

quelle che ci sembrano giuste, quelle

dove viene a contatto con molti fermenti

che ci sembrano belle. Come possiamo

culturali e sociali, alla direzione del quo-

trasformare l’Italia da qualcosa a cui

tidiano cattolico di Trento, all’ingresso

siamo affezionati in qualcosa di cui es-

nel parlamento dell’Impero nel 1911. Ba-

sere orgogliosi, almeno tra vent’anni,

sato su una minuziosa ricerca originale, il

senza ricorrere ancora a Michelangelo e

libro getta luce sulla parte più controver-

Domenico Modugno? “Ci sono le cose

sa e meno conosciuta della vita del gran-

giuste e le cose sbagliate”, spiega Luca

de uomo politico, costituendo al tempo

Sofri in questo libro: “e bisogna fare

stesso un viaggio nei meccanismi di for-

quelle giuste”. Rimettendo ognuno di

mazione di una leadership politica e nel-

noi al centro del problema, distinguen-

le asperità di un periodo storico in cui si

do tra il partire tutti uguali e l’arrivare

scontrano nazionalismi, identità culturali

tutti uguali, superando la pigrizia

e religiose e declinanti sistemi politici di

dell’“essere se stessi”.

antico regime.


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I costi di questo “presentismo”, l’insipienza della dirigenza del di questa opportunistica visione Partito democratico. Ciò che rendi brevissimo periodo oggi sono de ancora più preoccupante queevidenti. In una fase in cui l’im- sta prospettiva è il fatto che, a demagine di Berlusconi comincia stra, al momento non si delinea ad offuscarsi e il consenso nei suoi alcuna leadership e alcuna forza confronti è in calo e la sua forza e che paia capace di costituire un la forza della maggioranza – che punto di aggregazione se davvero per rimanere tale è costretta a ci si dovesse trovare nella situasquallide operazioni di palazzo e zione di un partito in frantumi, discutibili rimpasti e allargamen- una classe politica allo sbando e ti dell’esecutivo – appaiono pog- un voto in libera uscita. Questa giare più che altro sull’assenza di funzione avrebbe potuto essere una credibile alternativa, il Pdl si svolta da Gianfranco Fini e da mostra sempre più fragile. La ga- Futuro e Libertà, ma al momento lassia di associazioni e fondazioni le scelte compiute e il messaggio politico inviato che fanno capo a singole personali- A destra non si delinea agli elettori rimangono altatà, più che fornire mente insoddisfainput positivi per il alcuna leadership centi rispetto ad dibattito e la di- che paia capace un tale obiettivo, scussione, costituidominando piutsce il chiaro indica- di costruire un punto tosto l’ambiguità tore di una forma- di aggregazione e il basso profilo. zione divisa tra “bande”, in un contesto dove la Non vi è dubbio che la costituquestione della successione non è zione di Fli sia stata una scelta mai evocata esplicitamente, se obbligata, dal momento che per non dallo stesso Berlusconi, la sua natura il Pdl non era in quando di volta in volta “desi- grado di accogliere al suo interno gna” il suo possibile successore. una componente di minoranza, Tale problematica non può essere sin dalla costituzione del partito affrontata alla luce del sole persi- percepita come un fastidioso imstendo l’impronta del partito pa- piccio per il manovratore. Non dronale ove nessuno può concor- altrettanto certo è che in tempi rere per la leadership in maniera brevissimi si dovesse sfidare aperchiara e secondo regole condivise. tamente il capo del governo preIl probabile esito di questa situa- sentando una mozione di sfiducia zione, dopo che Silvio Berlusconi e passando così all’opposizione. È si sarà ritirato dalla scena politi- evidente che, in quell’occasione, ca, sarà la frantumazione del Pdl, non solo sono state sottovalutate con ricadute molto negative sul- la potenza e la spregiudicatezza l’intero sistema politico-partitico dell’avversario, ma – al tempo e, in particolare, sull’assetto bi- stesso – si è troppo sbrigativapolare, già reso traballante dal- mente rinunciato a svolgere un

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ruolo di sfida e di pungolo dal- notati terzisti, con un alleato che l’interno della maggioranza, con del confessionalismo e dell’avverl’obiettivo di parlare soprattutto sione al bipolarismo fa da sempre le proprie bandiere. Il già debole agli elettori del centrodestra. Uno dei maggiori limiti del appello agli elettori del centrodegruppo finiano, infatti, è apparso stra è stato così ulteriormente proprio quello di non sapere ela- compromesso. Due sono le riflesborare un discorso che si rivolges- sioni che vale la pena fare a quese all’elettorato che sino ad oggi sto proposito. Innanzitutto, i pasha trovato come unica offerta po- si che si sono compiuti sono stati litica credibile quella del Pdl. Un guidati da logiche “di palazzo”, discorso che avesse contenuti che con una grave sottovalutazione lo distinguessero nettamente dal dell’impatto che avrebbero avuto berlusconismo, ma al tempo stes- sull’opinione pubblica; in altre so non lo confondessero con la re- parole, si è agito secondo schemi torica e i luoghi comuni della si- da Prima Repubblica, come se la politica e la comunistra (ad esempio, sul tema della Fini sembra percorrere nicazione politica in questi ultimi giustizia o su quello della rifor- una sua strada solitaria, venti anni non fossero radicalmente ma della Costitu- demandando ad altri mutate. In secondo zione e del ruolo luogo, ma le due del Parlamento) e la conduzione cose sono strettalo caratterizzasse- e la gestione di Fli mente legate, si è ro, piuttosto, come il motore di un rilancio della compiuto lo stesso errore che la sfida liberale alle incrostazioni sinistra compie da anni, ovvero si del nostro sistema economico e di è ritenuto che l’elettorato di cenwelfare (e a questo proposito trodestra sia composto per lo più Gianfranco Fini dovrebbe pren- da beoti plagiati dai media condere un po’ più spesso spunto trollati da Berlusconi, sottovaludalle intelligenti “provocazioni” tando il fatto che esiste una parte di elettori che vota Berlusconi tudel gruppo di Libertiamo). La costituzione del Terzo Polo su- randosi il naso, ritenendolo il mabito dopo la sconfitta del 14 di- le minore in assenza di valide alcembre, quando il governo Berlu- ternative, e che sarebbe ben lieta sconi ha visto confermata la fidu- di sostenere una nuova offerta pocia, non ha fatto altro che aumen- litica convincente. In questo motare le ambiguità del nuovo pro- do si è dissipato quel potenziale getto politico. Laico e bipolarista, di consenso che era emerso nei il gruppo di Futuro e Libertà ha mesi precedenti all’avventata ritenuto di limitare i danni (le scelta compiuta nel novembre fuoriuscite verso il Pdl) creando 2010 a Bastia Umbra. Oggi pare una formazione che, nonostante che la massima ambizione di Fli, le rassicurazioni, ha assunto con- insieme ai suoi alleati del Terzo


PER UN NUOVO CENTRODESTRA Sofia Ventura

Polo, sia quella di impedire a Berlusconi di ottenere la maggioranza al Senato alle prossime elezioni, con quali prospettive politiche non è dato sapere, forse un bel governissimo guidato da un qualche “salvatore della Patria”, tanto per affossare definitivamente la lunga – e a questo punto, inutile – transizione italiana. Questi limiti e queste ambiguità, infine, appaiono strettamente legati anche ad una carenza di leadership. Paradossalmente, dopo avere creato speranze, consenso, mobilitazione, dopo avere coraggiosamente sfidato il potere berlusconiano, Gianfranco Fini ha rinunciato ad assumere in prima persona e a tempo pieno la guida del suo progetto. Sopravvalutando l’importanza del ruolo di Presidente della Camera, Fini ha sottovalutato l’importanza della sua leadership in una fase delicata come quella della nascita di una nuova forza politica. Più che un partito plurale, Fli oggi appare un partito caotico; su temi rilevanti si possono riscontrare le più diverse posizioni, espresse dai vari esponenti del partito. È evidente che manca un luogo ove i temi e le strategie possano essere discusse e le decisioni assunte in modo informato, responsabile e coordinato, con la costante presenza del leader, dei suoi input, delle sue decisioni finali. Rimanendo alla Presidenza della Camera, Gianfranco Fini sembra quasi percorrere una sua strada solitaria, demandando ad altri – privi del suo carisma e del suo consenso – la conduzione e la ge-

stione di un partito che sin dalla sua nascita ha risentito dell’assenza di una guida forte e decisa, con effetti non certo brillanti anche sul piano della comunicazione. In un quadro politico desolante come quello italiano, la nascita di Fli aveva suscitato grandi speranze. Oggi, il partito che dovrebbe essere di Gianfranco Fini appare come una forza politica tra le tante e senza nemmeno grandi prospettive, per di più ingabbiata in un Terzo Polo dai connotati non chiari ma che sempre di più è identificato con un campione della Prima Repubblica quale è Pierferdinando Casini. Gli errori, certo, si possono correggere e la rotta può essere cambiata, ma per farlo è necessario comprendere che la politica nelle grandi democrazie è oggi fatta di grandi progetti, di grandi ambizioni e di leadership coraggiose. In alternativa, si può seguire la strada rovinosa intrapresa sino ad oggi dalla sinistra.

L’Autore sofia ventura Professore associato presso la Facoltà di Scienze Politiche R. Ruffilli, sede di Forlì, dove insegna Scienza Politica e Sistemi federali comparati. Dal 1999 al 2007 ha insegnato presso il Programma E.C.CO di Bologna; negli ultimi anni ha tenuto seminari e lezioni presso la Facoltà di Scienze Politiche dell'Università di Roma la Sapienza, presso l'Istituto Italiano di Scienze Umane di Firenze, presso l'Iep di Parigi. è membro della redazione della Rivista Italiana di Scienza Politica.

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L’Italia rischia un clash of generations

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a gerontocrazia è il vero male di questo paese e non esiste solo nella politica ma in ogni realtà produttiva e accademica. Il centrodestra del futuro dovrà sconfiggere questo male investendo su una nuova e giovane classe dirigente, sulla crescita economica, sulla formazione e sulla ricerca. INTERVISTA A MARC LAZAR DI MATTEO LARUFFA


PER UN NUOVO CENTRODESTRA intervista a Marz Lazar

Quali sono le caratteristiche che rendono il sistema politico italiano diverso da quello di altri paesi europei?

come quello che ha conosciuto l’Italia. La seconda è sicuramente la legge elettorale, perché può dare grandi difficoltà nella governabilità e questo specialmente nel caso di una maggioranza al Senato diversa da quella della Camera, ma questo è solo uno dei possibili effetti negativi. La terza caratteristica, forse quella che ha maggiore forza, è la figura di Silvio Berlusconi. C’è un fattore “B” legato al suo conflitto di interessi, da un lato, che è un fatto obiettivo e, d’altro lato, la sua personalità, che causa una forte polarizzazione sulla sua persona e spiega anche la difficoltà di fare delle riforme. Su questo ultimo punto forse molti attori politici sarebbero d’accordo con il dare più poteri all’esecutivo, ma fino a quando ci sarà Berlusconi nessuno osa farlo. L’ultima caratteristica è di natura storico-culturale e riguarda la diffidenza reciproca, che c’è in questo paese, fra gli avversari. Questa forma, che ho chiamato “guerra civile simulata”, porta alla delegittimazione permanente di chi ha vinto e in questo modo resta sempre difficile raggiungere una stabilità politica.

Ci sono almeno quattrospecificità. La prima è di natura congiunturale, cioè il fatto che nei primi anni ’90 è crollato tutto il sistema dei partiti politici e si è ricomposto un altro sistema non ancora stabilizzato. Non vedo nella storia recente dei paesi dell’Europa occidentale, tralasciando i paesi che sono usciti dal comunismo, un tale tsunami

Esplorando il centrodestra italiano e l’evoluzione più recente di questa parte politica si osserva una situazione senza precedenti, perché rispetto agli anni passati Berlusconi ha scelto una via nuova, cioè quella di un sempre più forte legame con la Lega Nord e un sostegno che riceve dal gruppo di quelli che si definiscono “responsabili”. Per quali ragioni un governo che a inizio legisla-

Marc Lazar è uno studioso che segue la vita politica italiana. Docente di Scienza politica e di sociologia, presidente della School of Governement dell’Università Luiss, insegna anche a Sciences Po di Parigi.

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tura aveva un’ampia maggioranza si trova in una condizione di rischio? Quali sono le cause dello sfaldamento di quel centrodestra?

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La situazione è molto paradossale. Quando Berlusconi ha vinto nel 2008, lo ha fatto con grossi numeri, riuscendo a unificare una parte del centrodestra – cosa che è riuscita anche a Nicolas Sarkozy – mettendo insieme diverse sensibilità politiche, come quelle di Alleanza Nazionale e quelle di Forza Italia. Ciò gli ha permesso di avere a disposizione un grande partito del centrodestra e poi un alleato. Si poteva pensare di andare verso un asseto bipartitico, con due grandi partiti cioè Pdl e Pd. Ma così non è stato. Adesso c’è quasi una quadriglia bipolare ovvero due grandi partiti dominanti e due alleati che pesano molto, la Lega Nord da una parte e l’Italia dei Valori dall’altra. Con il grande consenso ottenuto, da un lato, e dall’altro, con un’opposizione a pezzi, traumatizzata dal suo fallimento di governo e dalla sua sconfitta elettorale, Berlusconi avrebbe potuto fare di tutto. Invece ha dilapidato questo capitale di fiducia, non è stato capace di costruire il Pdl come un partito con idee chiare per l’agenda politica. A partire da queste mancanze, è sopraggiunta una disgregazione interna al Pdl e la scissione di Gianfranco Fini e dei suoi sostenitori che ha causato un indebolimento del partito. Oggi Berlusconi e il Pdl dipendono molto dalla Lega Nord, in una situazione di ricatto continuo da parte del gruppo

di Bossi. Così, Berlusconi che nel 2008 era un leader forte oggi è debole, anche per tutte le vicende private che sono state portate alla luce dalla stampa e dalla magistratura, con l’aggiunta che, come tutti i leader europei, si è ritrovato nella condizione non prevista della crisi economico-finanziaria del 2008. Lei considera il Pdl come un partito post-ideologico paragonabile ai partiti di altri paesi europei?

Il Pdl non è una specificità, lo è Berlusconi. Questa tipologia di partito del centrodestra si trova anche in altri paesi europei, come nel caso della Francia con l’Ump di Sarkozy. È un tentativo di occupare uno spazio politico molto ampio, dai confini dell’estrema destra all’elettorato moderato, di rivolgersi a un elettorato molto vario attraverso proposte politiche in grado di unire valori come libertà, Europa, sentimento nazionale, law and order, sicurezza contro l’immigrazione, modernità e tradizione, riferimento alla chiesa cattolica e comportamenti diversi, anche nella vita privata dei leader. In definitiva, tante componenti che sono un tratto comune del centrodestra europeo. Da questo punto di vista, il Pdl era in linea con il centrodestra europeo. Come valuta la gestione del consenso da parte del presidente del Consiglio sia all’interno che all’esterno del Pdl?

È una gestione problematica, perché è emersa la difficoltà del rapporto di Berlusconi con il par-


PER UN NUOVO CENTRODESTRA intervista a Marz Lazar

tito. Da una parte, infatti, il leader ha bisogno di avere uno strumento politico per vincere le elezioni e un sostegno per la propria azione di governo, dall’altra, non vuole un partito troppo forte ma un raggruppamento legato alla sua persona, senza grande autonomia, in modo da non minacciare il suo potere. È la classica preoccupazione di un leader carismatico che ha bisogno di un partito, ma ne limita la democrazia interna. Così, dopo la fusione tra Alleanza nazionale e Forza Italia, mentre parte di An si è mostrata fedele al Cavaliere, Fini, isolato, ha provato – senza riuscirci – a costruire una proposta politica alternativa, verso un centrodestra più moderno e più rispettabile. La conseguente fragilità del Pdl rende problematico il dopo Berlusconi, perché pone il quesito su come il partito potrà sopravvivere al suo fondatore e questo è un elemento determinante non solo per il centrodestra ma per tutto il sistema politico italiano. L’Italia è un paese dove su 945 parlamentari solo 4 hanno meno di 30 anni e chi si propone come volto nuovo della politica di domani ha più di 50 anni. Perché in Italia non c’è possibilità per i giovani di diventare parlamentari o leader di partito? In che misura l’attuale legge elettorale e le discutibili modalità di selezione della classe dirigente di partito contribuiscono a questa incapacità del sistema politico italiano di far crescere leader nuovi e giovani?

C’è un problema politico, ma anche qualcos’altro. Con questa

legge elettorale sono i vertici del partito a scegliere i candidati e, tranne alcune eccezioni, questi sono controllati da dirigenti che hanno una instaurato una forma di oligarchia per la forte presenza di maschi e gente anziana, quindi non lasceranno mai spazio ai giovani. L’Italia è divenuta una gerontocrazia in politica come nel mondo accademico, nelle imprese e in tutti gli altri settori. Il suo declino demografico è terribile e non parlarne significa non pensare al futuro. Credo ci sarà un clash of generations e sono stupito da chi pensa che qualcuno con meno di 50 anni sia troppo giovane per avere ruoli di responsabilità. Una figura molto importante, che preferisco mantenere riservata, mi ha detto che considera troppo giovani alcuni ministri francesi che hanno 36 anni e, invece, secondo me ci servono ministri giovani. Cameron ha 45 anni, Blair quando vinse era molto giovane, Sarkozy non era proprio giovane ma molto di più dei leader della politica italiana. Questa situazione è un suicidio per l’Italia. La classe politica anche in Italia, come in altri paesi, deve essere diversificata sia in termini generazionali che di sessi, perché le donne non sono abbastanza rappresentate. Infine, nel futuro, la classe politica e le élite dirigenti italiane dovranno essere diversificate anche sul piano “etnico”. Ci sono milioni di immigrati che non solo faranno i lavori che gli italiani non fanno più ma che avranno in più la speranza e la voglia di partecipare.

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Saranno una buona risorsa per l’Italia. Io non sono sarkoziano, ma Sarkozy è stato di esempio quando ha formato il suo governo con ministri giovani, di entrambi i sessi e venuti dall’immigrazione, perché ha aperto alla partecipazione di tutti. Se pensa al centrodestra italiano fra qualche anno, come lo immagina?

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È un grande interrogativo, perché nessuno può dire come sarà organizzato il post-berlusconismo. Sarà molto difficile mantenere un’unione già in crisi, perché è lui il cemento dell’alleanza, così come sarà difficile per il Pd rimanere unito quando il nemico Berlusconi non ci sarà più. Un nuovo grande centrodestra dovrebbe avere priorità che sono, poi, le sfide dell’Italia: il problema demografico, la crescita economica, formazione e ricerca, il ritardo della politiche industriali, la modernizzazione dello Stato italiano, un’amministrazione pubblica più efficiente, un nuovo sistema-paese. Ci sono tante sfide che ancora oggi non sono state affrontate. La crisi della rappresentanza politica, la sfiducia nelle istituzioni, non è un’anomalia italiana, tuttavia quando si osservano paesi come l’Inghilterra, la Germania e la Francia si vede che il dibattito politico è caratterizzato dal tentativo di anticipare il futuro. In Italia, invece, c’è una incapacità di fornire prospettive e obiettivi. Eccetto, forse, nell’economia con Tremonti e Draghi che, seppur in alcuni casi in disaccordo, provano a guidare

l’Italia. Questa miseria di idee e prospettive è dovuta a due aspetti, di cui il primo è che tutto è polarizzato sulla figura di Silvio Berlusconi dal conflitto di interessi alla sua vita privata, tra chi lo crede vittima innocente di una politica di persecuzione e chi lo dice grande corruttore colpevole. C’è un problema Berlusconi, ma non si parla di tante altre cose da discutere e da fare. Il secondo aspetto è il livello basso della formazione della classe dirigente e questo porta a una assenza di lungimiranza, il che fa una grande differenza con gli altri paesi. Cosa manca alla politica italiana di oggi, purtroppo ingessata e priva di prospettive future, per fare le riforme necessarie per rimettere in moto il paese e tornare a crescere?

Manca il coraggio. Il coraggio di dire la verità agli italiani, che l’Italia sta male come altri paesi europei. Bisogna identificare le ragioni di queste difficoltà e dire che occorre rilanciare il dibattito pubblico sulle grandi sfide del domani. Per esempio, per quanto riguarda il declino demografico si dovrebbe reagire con incentivi fiscali, politiche di supporto, congedi e permessi, evitare che dopo il parto la donna non possa tornare nel mercato del lavoro. Se non si prendono queste misure pubbliche, si deve dire chiaramente che non c’è altra soluzione che accogliere gli immigrati perché altrimenti morirà l’Italia. Un altro esempio può essere quello comune alla Francia in merito alla crisi del Maghreb. Si parla di


PER UN NUOVO CENTRODESTRA intervista a Marz Lazar

flussi migratori con 30-40mila persone, niente a che vedere con le 600mila che dal Kosovo sono andati in Germania: invece di impedire una regolazione dei flussi, si dovrebbe pensare a quello che Italia e Francia potrebbero fare verso queste popolazioni in termini di cooperazione a tutti i livelli con aiuti e sostegno per la democrazia e per il progresso. Quindi, si potrebbero costruire opportunità per i nostri paesi nello spazio euro-mediterraneo dove possono diventare leader. E, invece, ancora non si decide in questo senso. Questi sono solo alcuni esempi di come oggi ci sia un’incapacità di gestire non solo il presente ma anche di anticipare il futuro.

L’Intervistato

marc lazar Professore di storia e sociologia politica a Sciences Po (Parigi) e professore alla Luiss-Guido Carli di Roma. Le sue ricerche sono dedicate allo studio dei partiti politici e delle culture politiche in Europa, alla politica dell’Italia repubblicana e ai rapporti fra storia e scienza politica. Dopo essere stato direttore della Scuola dottorale, è attualmente direttore del dipartimento di storia e presidente del Consiglio scientifico di Sciences Po. E anche presidente della School of Government della Luiss-Guido Carli. è stato per molti anni visiting professor al programma di Parigi dell’Università di Stanford. Tra le sue principali pubblicazione: L’Italie, une nation en suspens; La gauche en Europe depuis 1945. Invariants et mutations du socialisme européen; Politique à l’italienne; Le communisme, une passion française, premio Philippe Habert-Le Figaro 2003 e premio Thiers 2003 di storia e di sociologia dell’Académie française; L’Italie à la dérive; L’Italie sur le fil du rasoir; L’Italie contemporaine; L’Italie des années de plomb. Le terrorisme entre histoire et mémoire.

L’Autore matteo laruffa Fondatore del movimento Giovani per il futuro e membro del consiglio direttivo di Generazione futuro, movimento giovanile di Fli.

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L’ideologia destra-sinistra è al tramonto

I cittadini vogliono un vero bipolarismo I tre sondaggisti si confrontano sull’evoluzione dell’elettorato di centrodestra negli ultimi 20 anni, analizzando quanto sia cambiata la percezione della politica attraverso la pesonalizzazione dei leader. INTERVISTA A RENATO MANNHEIMER, NICOLA PIEPOLI E LUIGI CRESPI DI BIANCA MARIA SACCHETTI

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Le interviste di Mannheimer, Piepoli e Crespi evidenziano risultati comuni a dimostrazione di come la lettura dell’odierno momento politico del centro destra e l’evoluzione di quest’ultimo mostrino tratti ben riconoscibili e obiettivamente condivisibili. Sostanzialmente si dice che c’è una progressiva personalizzazione della politica in genere e del voto, definita da Mannheimer fidelizzazione nei confronti di Berlusconi; che di recente è subentrata una crisi della leadership del premier anche per delusione sull’attuazione del programma non tesaurizzata dal centrosinistra per mancan a di nuovi leader. Emerge ancora che la distinzione destra-sinistra da un punto di vista ideologico, sociologico e in parte culturale è tramontata mentre resta una differenziazione sul grado di liberismo o statali-

smo di ognuna delle coalizioni (il professor Piepoli all’uopo invoca una ripresa delle teorie economiche keynesiane che promuovano l’interventismo statale come volano, tecnicamente “moltiplicatore”, dell’economia stagnante); ed infine che il bipolarismo inteso come bipartitismo non è stato mai avviato, e che, come aggregazione di partiti e semplificazione del quadro politico a mo’ delle grandi democrazie europee e occidentali, ha mostrato forti limiti perché non ha evitato la frammentazione dei partiti minori, riducendosi a berlusconismo e antiberlusconismo. La personalizzazione della politica in genere è uno dei pochi punti condivisi da chi studia le democrazie contemporanee e in particolare l’Italia. Questo vale soprattutto per il centrodestra, rivoluzionato e aggregato dalla scesa in campo di Berlusconi nel


PER UN NUOVO CENTRODESTRA interviste a Renato Mannheimer, Luigi Crespi e Nicola Piepoli

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‘93, e va intesa come presidenzializzazione riferita alle forme di governo incamminate da anni verso il presidenzialismo e l’elezione diretta di premier e governatori; come leaderizzazione dei partiti; come personalizzazione della comunicazione politica e delle campagne elettorali e quindi, da ultimo, del voto. La televisione, di per sé enorme opportunità di universalizzazione dell’offerta politica, è invece guidata dalla sua logica intrinseca di semplificazione dei messaggi e la politica è raffigurata in termini immediati, intuitivi e le elezioni come competizione sportiva con relative tifoserie. Così paradossalmente, mentre Berlusconi apostrofa da anni la politica come teatrino, il piccolo schermo, gran parte suo, la descrive e la presenta come vero e proprio palcoscenico popolato da pochi personaggi (semplificazione anche numerica). È documentato che delle migliaia di politici solo pochissime decine dagli anni novanta calcano gli accessi televisivi riservati infatti ai soli leader o raramente a chi ricopre posizioni meno centrali, mai marginali, nelle gerarchie dei partiti e delle istituzioni. Come pure questo legame tra personalizzazione della comunicazione e offerta politica ha reso più labili i confini tra società e politica stessa che spesso ha reclutato i propri esponenti non più dai partiti ma da altre esperienze civiche o professionali o confindustriali o dello spettacolo che attraverso l’accelerazione dei

media hanno raggiunto popolarità e sopperito alla mancanza del tradizionale cursus honorum. Il caso Berlusconi è il più clamoroso, ma non si sottraggono a questa “scuola” Sgarbi, o Di Pietro, o De Magistris, fino alle esasperazioni del velinismo o dei famosi in genere su cui il Pdl ha impostato un vero e proprio stile di reclutamento. Se dalla personalizzazione o fidelizzazione da una parte deriva una certa rigidità elettorale, dall’altra, una volta venuti meno gli schemi ideologici, il voto, seppur personalizzato, ha assunto contorni più liberi e accresciuto la mobilità, tanto da determinare quello che Mannheimer e Sani chiamarono un vero e proprio mercato elettorale. A partire dalla seconda metà della prima repubblica la mobilità del voto inizia a crescere fino a divenire alta nella cosiddetta seconda repubblica, caratterizzata da continui rimescolamenti nella strutturazione della proposta politica, con la scomparsa di molti partiti tradizionali e la nascita di nuove formazioni che in molti casi hanno comportato il cambio di voto. La fedeltà che prima era diretta al partito di appartenenza, negli anni novanta, anche per l’affermarsi del sistema maggioritario, si rivolge alla coalizione o all’area politica di riferimento, scelta ancora misurabile col tradizionale sentimento di identificazione destra-sinistra. Per questo il professor Natale, dal 2002, parla di “fedeltà legge-


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ra” come criterio per decifrare e comprendere i risultati elettorali, in luogo della “fedeltà pesante” della prima repubblica che era demarcata da costante adesione al partito, identità di scelta nelle elezioni anche di diverso tipo, dalle politiche alle comunali, partecipazione al voto come comportamento quasi obbligatorio. Dal venir meno di quest’ultimo punto, cioè la percezione del voto come dovere civico forte e ratifica quasi solenne della propria appartenenza, cresce l’astensionismo che dall’imprimatur iniziale espresso dai Radicali diviene, nel tempo, una scelta legittima di diserzione dalle urne, vero e proprio” territorio di conquista” per i partiti in competizione (Mannheimer e Sani 2001). Come pure da questo stato di cose, ovvero l’indecisione, l’aleatorietà, l’astensione, si evince che il cosiddetto comportamento di voto tende a rivestire un ruolo sempre più marginale nella formazione della identità civica, individuale e collettiva e che la politica in senso lato non è dunque più al centro dell’attenzione. Si parli di disaffezione o affievolimento della pulsione civica o addirittura di rifiuto della politica: tutto ciò sembra contraddetto dall’esame dei risultati del voto che confermano una sorta di “impermeabilità” tra i due poli ed una fedeltà di coalizione tutt’altro che leggera. Il segnale inatteso è proprio questo, che le logiche di voto restano “fedeli” e se tradimento deve esserci questo viene esercitato so-

prattutto dagli elettori di centrodestra e in occasione di elezioni di rango meno elevato, come le amministrative, dove si privilegia il candidato convincente, ritenuto bravo, conosciuto, lasciando sullo sfondo la coalizione. A conferma di ciò, il centrodestra, soprattutto fino a qualche anno fa, ha registrato un gap tra il consenso politico e quello di altra natura, soprattutto delle regionali e comunali; fenomeno oggi meno evidente forse per la maggior radicalizzazione dello scontro pro o contro Berlusconi che consente la trasposizione del voto indifferentemente in chiave politica o amministrativa. 31

Come si sta evolvendo l’elettorato di centrodestra? Cosa conta di più, programma o partito?

Renato Mannheimer: L’elettorato dal ‘94 ad oggi si è sempre di più appassionato alla figura di Berlusconi, il quale aveva presentato un programma e si era posto come leader, proprio in quanto potenziale realizzatore di un determinato progetto politico. L’elettorato credeva in tutto questo e in larga misura ci crede ancora oggi, per quanto ci sia senso di delusione e sfiducia in una parte degli elettori di centrodestra che ritiene, a torto o a ragione, che il suddetto programma non sia stato e non sarà mai realizzato. Nicola Piepoli: Si tratta di un’evoluzione caotica, poco sondabile e difficile da comprendere nelle sue dinamiche interne. È fuori di dubbio che a contare sia


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il programma: un programma che dia a tutti da mangiare, che dia a tutti ricchezza, che dia a tutti sicurezza e stabilità economica. È piuttosto evidente quanto tutto ciò sia ben lontano dai programmi dei politici odierni, sia di destra che di sinistra. Si è dimenticato Keynes, la sua teoria generale e tutto quello che è stato fatto negli anni trenta in termini di ricoveri e coloro che sono al potere, che dovrebbero studiare e prendere spunto da personalità e dottrine del genere, trascurano tutto questo ancor di più. Un mio amico, Franco Reviglio, in un suo recente libro, Goodbye Keynes? Le riforme per tornare a crescere (Guerini e associati editore, 2010), si domanda con piglio provocatorio se Keynes sia o no da mandare metaforicamente a casa: l’Italia non riesce più a cre-

scere e le potenzialità di sviluppo sono paralizzate dall’elevato debito pubblico prodotto dall’applicazione distorta e inefficace della ricetta keynesiana. L’autore matura così l’idea secondo la quale urge mettere a punto un progetto condiviso che tracci una via di uscita dallo stallo in cui ci si trova: Keynes non va mandato a casa ma applicato con costanza e fedeltà. Luigi Crespi: Domanda complicata e risposta altrettanto complicata. Non saprei dire in maniera perentoria se si tratta di un’evoluzione oppure di una semplice trasformazione. Il corpo elettorale dal ‘94 ad oggi è completamente modificato, trasformato in maniera radicale, plasmato su parametri del tutto differenti rispetto agli anni pas-


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sati. Si tratta di un prima e di un dopo lontanissimi, di due mondi completamente diversi, e proprio questa incomunicabilità fra le due realtà rende molto arduo fornire una risposta sintetica e puntuale a questo quesito. Anche dopo le vicissitudini giudiziarie degli ultimi tempi pare che gli italiani continuino a sostenere Berlusconi: c’è stato o no un crollo di fiducia nei suoi confronti?

M: Bisogna dire che la fiducia in Berlusconi va scendendo ma rimane comunque molto elevata e consistente e la maggior parte degli elettori di centro destra si riconosce ancora in lui, per quanto questa identificazione vada diminuendo in continuazione. Abbiamo a che fare con una sorta di crisi di leadership che non è al momento sanata da

altri leader all’orizzonte, capaci di prendere il posto del Presidente del Consiglio. P: Circa la metà degli elettori si riconosce nella figura di Berlusconi e circa la metà no. Abbiamo un dato che si aggira sul 50 e 50%. C: Una parte dell’elettorato di centro destra si riconosce fortemente in Berlusconi. Questa fetta dovrebbe corrispondere circa ad un terzo degli italiani (25%). Nonostante tutto quello che è accaduto (problemi legali, giudiziari, politici) una fetta consistente continua a ritrovarsi e identificarsi in lui. Un residuo massiccio ancora ripone aspettative e stima nella persona del Presidente del consiglio e in tutto quello che lui rappresenta e continua a promettere. C: Questo consenso è destinato in ogni caso a scemare col tempo poiché Berlusconi non sarà più in grado di alimentarlo. Se vogliamo parlare poi delle altre forze politiche del centrodestra, dobbiamo nominare in primis la Lega che continua a distinguersi e caratterizzarsi per una forte incidenza territoriale. Altra ipotesi di cui tanto si discute negli ultimi tempi è quella del terzo polo, la cui forma va definita, precisata e compresa con strumenti e approcci di analisi e studio approfonditi. Quanto senso ha ancora la divisione centro-destra e centro-sinistra?

M: Questa suddivisione non ha più molto senso in quanto le categorie tradizionali su cui si fondavano i partiti ideologici del se-

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colo scorso sono scomparse a causa del radicale mutamento della società. Possiamo affermare, quindi, che dal punto di vista dell’organizzazione sociale la divisione ha poco senso perché troppe sono le trasformazioni rispetto al novecento, mentre, dal punto di vista politico, ancora si potrebbe effettuare una distinzione sensata, ossia quella fra forze politiche più liberiste e meno liberiste, tra coloro che si dichiarano più o meno fautori dell’intervento dello stato. La dicitura destra e sinistra è ormai soltanto un’etichetta che serve per comodità a differenziare le varie forze politiche, variegate anche all’interno degli stessi schieramenti di centrodestra e centrosinistra. P: La divisione centrodestra e centrosinistra ha ormai senso soltanto per coloro che sono dentro la politica, che vivono di politica, che fanno la politica. Per gli altri è una distinzione che non dice e non aggiunge nulla poiché ciò che ora per il resto degli italiani ha davvero significato e incidenza è il paese, la sua condizione attuale e il suo destino e quindi il concetto di bene comune. C: Le categorie centrodestra e centrosinistra non hanno più molto valore da un punto di vista semantico. Un senso lo potremmo reperire circa i codici, il complesso valoriale, il credo storico-politico ed è proprio qui che però si annida la contraddizione più grande: non c’è una differenza netta e caratterizzante fra destra e sinistra poiché entrambe

esprimono e propagandano valori e modelli molto simili. Ecco allora che il più delle volte le identità, le appartenenze, le distanze più significative risiedono nei marchi, nei simboli, negli slogan e soprattutto nei leader conformemente a una visione di politica in cui non è più la dialettica fra idee e programmi a fare la parte del lupo ma lo scontro, più o meno accanito, fra persone e personalità. Il bipolarismo in Italia esiste? L’elettorato vuole coscientemente un bipolarismo o è costretto a riconoscerlo per penuria di alternative?

M: L’elettorato italiano aveva avuto una gran voglia di bipolarismo dopo l’esperienza della prima repubblica e desiderava per il nostro paese qualcosa di simile al modello anglosassone, ovvero la presenza di due grandi schieramenti, blocchi che si affrontassero e confrontassero in maniera costruttiva. L’esperienza italiana è stata però deludente perché non ha avuto e non ha ricordato un vero confronto di programmi e alternative programmatiche ma tutto si è incentrato esclusivamente sul pro o contro Berlusconi, che ha annientato il progetto iniziale. P: Sarà breve e perentoria la mia risposta: parlare di bipolarismo in Italia, oggi? Mi viene solo da dire che l’elettorato è andreottiano, vuole vivere bene e se ne frega della politica. C: Esiste una volontà di semplificazione da parte dell’elettorato come ne esiste anche una, molto


PER UN NUOVO CENTRODESTRA interviste a Renato Mannheimer, Luigi Crespi e Nicola Piepoli

accentuata, di determinare e riconoscere le responsabilità e gli obblighi. Abbiamo a che fare con una dimensione fortemente pragmatica che si esplica bene con la formula “Io voto, scelgo e poi decido se il mio rappresentante si è comportato bene oppure no” e, proprio a partire dall’avvento del movimento dei sindaci, con le sue sfide bipartite e i suoi ballottaggi, si è assistito a un processo di facilitazione, di snellimento della parti in gioco. Ci tengo in ultimo a precisare che per affrontare in maniera corretta il tema del bipolarismo in Italia si deve fare massima attenzione a non confondere quest’ultimo con il bipartitismo, di tutt’altra storia e natura.

Gli intervistati Renato MannheiMeR Guida l'Ispo, Istituto per gli Studi sulla Pubblica Opinione.. nicola PiePoli Presidente dell’istituto Piepoli. luigi cResPi Direttore di Crespi ricerche.

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L’Autore bianca MaRia sacchetti Laureata in Lettere classiche all’Università di Firenze con tesi in Storia greca, è iscritta al corso di Editoria presso l’Associazione Torre di Babele.


Costruiamo una nuova classe dirigente

Una squadra coesa per il rinnovamento Il continuo referendum pro e contro berlusconi ha bloccato la maturazione del bipolarismo. La vocazione riformista e una struttura partitica che nasca dal territorio sono le priorità del centrodestra del domani INTERVISTA A GIANNI ALEMANNO DI PIETRO URSO

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Dall’osservatorio privilegiato del Campidoglio, forse la politica nazionale si osserva e si interpreta meglio che altrove. E allora Gianni Alemanno, mentre il centrodestra arranca e inizia a soffrire un po’ troppo gli acciacchi dell’usura del tempo, sembra avere in mente in modo lucido quali sono i problemi della sua parte politica e quali le possibili soluzioni. Innanzitutto bisogna ripartire dalla coesione, presupposto necessario per rilanciare l’appeal del polo liberalconservatore. E poi una nuova classe dirigente competente e preparata, pronta a scelte coraggiose per il bene del Paese. Come deve reagire il centrodestra al risultato elettorale sia amministrativo che referendario?

Nessuno si può permettere di minimizzare questi risultati che rappresentano una forte censura

rispetto all’azione di governo e contemporaneamente la richiesta, sia pure confusa, di un ripensamento del modello di sviluppo. Per questo, se il centrodestra non vuole uscire sconfitto, deve far lanciare una nuova fase politica che preveda una profonda revisione del modello organizzativo, delle alleanze e dei contenuti programmatici. Ritiene che esista lo spazio per una terza area nella coalizione per coloro che non si sentono più di votare il Pdl, ma non vogliono farsi rappresentare dalla Lega?

Mi pare che il bipartitismo stia tramontando in entrambi i poli politici, questo apre lo spazio a una molteplicità di soggetti politici nei due schieramenti. Ma bisogna evitare processi di frantumazione che rischiano di far assomigliare il centrodestra alla coalizione che portò Prodi al go-


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verno nel 2006. Per questo non dobbiamo archiviare troppo rapidamente la possibilità che il Pdl, magari trasformato, sia il polo di aggregazione di forze che oggi si stanno collocando su sigle differenziate sia in chiave geografica che in chiave politica. Qual è l’eredità di Alleanza nazionale che può oggi essere utile per la rifondazione del centrodestra?

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Sicuramente quell’anima sociale e popolare che è stato il tratto distintivo più autentico rispetto a Forza Italia. La crisi economica in atto sta facendo rapidamente tramontare tutti i vecchi miti liberal-liberisti che sembravano essere il motore della fase nascente del centrodestra. Al loro posto, basta leggere i libri di Giulio Tremonti: emerge un bisogno di appartenenza comunitario fortemente radicato nei valori della persona e il ritorno della preminenza della politica sull’economia, come quello della società rispetto al mercato. Anche a Roma può nascere una forza di rappresentanza territoriale come Forza del Sud, che peraltro è giunta fino al basso Lazio?

Non ci credo molto perché Roma ha una vocazione all’unità nazionale che ha sempre impedito l’emergere di istanze localiste. Certamente, se la Lega continuerà ad attaccare Roma sul piano delle sue prerogative come Capitale, qualche tendenza romanocentrica potrebbe emergere, ma sarebbe solo una sconfitta per la vocazione universale della nostra

città. Cosa non ha funzionato nel centrodestra italiano negli ultimi anni?

Il centrodestra moderno in Italia è nato quasi 20 anni fa ed è stato l’unico dei due poli politici, costituiti con il bipolarismo, che è riuscito a fare delle riforme per il Paese. Sicuramente poteva fare molto di più. Certamente al Popolo della libertà sono mancate due cose: una determinazione riformista più pronunciata e una struttura organizzativa adeguata per un progetto così ampio e ambizioso. Cosa manca ancora al Pdl per diventare un vero e proprio partito?

Manca il territorio. I partiti sono sempre stati un ponte tra il territorio e le istituzioni e in questo il Pdl deve migliorare se vuole avere un ruolo decisivo per il futuro del paese. Il Pdl deve iniziare a formare la nuova classe dirigente dal basso attraverso i congressi comunali e provinciali. Ma questa deve essere la base per tenere un grande congresso nazionale di riaggregazione delle tante forze che, in questi tre anni, ci hanno abbandonato. Quindi lei è a favore delle primarie?

Secondo me le primarie sono uno strumento necessario soprattutto per scongiurare le candidature calate dall’alto o le liste bloccate preconfezionate che la gente non vuole. Ma insieme alle primarie serve anche un meccanismo di congressi democratico: con queste due modalità sarà finalmente


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possibile rimettere in moto l’apparato democratico in Italia. Come mai in Italia non è nato un bipolarismo maturo?

Il bipolarismo è una scelta irreversibile. Chi, per un motivo o per un altro, si tira fuori da una logica bipolare lo fa solo per seguire una “politica di parcheggio” in attesa che maturino condizioni migliori per aderire a un polo o all’altro. La difficoltà del bipolarismo in Italia è legata principalmente a una legge elettorale imperfetta che impedisce da una parte la rappresentanza del territorio e dall’altra determina l’impossibilità di stabilire una chiara vittoria politica. Sicuramente il bipolarismo non è maturato in modo sano in Italia anche a causa del continuo referendum pro o contro Berlusconi che ha polarizzato l’elettorato e le scelte della politica italiana. Dopo Berlusconi quale centrodestra si immagina?

Dopo Berlusconi non esisterà un altro Berlusconi. Dopo di lui il centrodestra dovrà essere guidato da una squadra in grado di portare avanti, con responsabilità e maturità, le riforme che servono all’Italia. Servirà un centrodestra che deve saper andare oltre le persone. Berlusconi è stato indispensabile per creare un centrodestra nuovo in Italia e per far nascere il bipolarismo, certamente senza Berlusconi la democrazia italiana sarebbe stata più debole ed è quindi uno sbaglio pensare che lui possa essere un pericolo

per la democrazia. Ora, però, bisogna andare avanti con un progetto politico che vada al di là delle persone. Solo in questo modo il centrodestra potrà essere considerato un soggetto politico veramente maturo. Quali qualità dovrà avere il futuro leader del centrodestra?

Innanzitutto la capacità di fare squadra e di creare una classe dirigente nuova ed efficiente. Deve essere in grado di fare sintesi, ma soprattutto deve essere un leader innovativo, capace di incarnare quelle necessità di cambiamento che la società italiana sogna e che per anni Berlusconi ha incarnato. L’Italia ha bisogno di un leader coraggioso, riformista e pronto a fare delle scelte per il bene dei cittadini italiani. Quali riforme deve portare avanti il centrodestra del futuro?

L’Italia ha un problema di produttività e di competitività nei confronti degli altri paesi, quindi serve immediatamente una riforma economica per dare nuovo slancio al sistema Italia. È necessaria una effettiva realizzazione del principio di sussidiarietà sul versante sociale e una ridefinizione chiara del principio di interesse nazionale per orientare la politica estera e la politica industriale del Paese. E bisogna fare una riforma delle istituzioni, partendo dalla bozza Violante, per riequilibrare i poteri centrali con quelli periferici e aumentare la governabilità del Paese.

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E l’immigrazione?

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Esiste un problema di responsabilità della legalità che vale per tutti indistintamente, sia che si tratti di cittadini italiani, sia che si tratti di cittadini immigrati. Per attuare il principio di cittadinanza esistono ancora troppe aree grigie e troppe lacune legislative che favoriscono l’illegalità nei flussi migratori. Sicuramente bisogna rifiutare le idee xenofobe e di chiusura, ma non bisogna neanche aderire tout court all’ideologia “immigrazionista”. L’immigrazione è una realtà della nostra epoca che va gestita senza attribuirle un valore positivo a priori, perché il fatto che delle persone siano costrette a emigrare dalla loro terra non può essere giudicato come una realtà positiva. Come si immagina l’Italia del 2020?

Le riforme devono sempre ruotare attorno al principio di identità: non esistono riforme buone per tutti i Paesi, ogni popolo deve avere il proprio modello di sviluppo. Per questo, mi immagino un Paese capace di proiettare la propria identità anche nello scenario globale, perché nella globalizzazione le nazioni hanno bisogno di più identità e non meno. L’importante è non dare all’identità un valore distruttivo, necessariamente conflittuale con le altre identità. L’appartenenza nazionale deve esprimersi in forme costruttive e creative, diventando un valore aggiunto nello scenario mondiale. Bisogna dare nuovo vigore al Made in Italy, al-

la capacita creativa ed inventiva dell’Italia, alla vocazione culturale del nostro Paese. Voglio un Paese che dedichi buona parte delle sue energie al custodire e al promuovere il paesaggio italiano, forse la più grande risorsa del nostro Paese. L’Italia può crescere in un mondo globalizzato non solo se è veramente competitiva rispetto alle altre nazioni, ma se riesce anche a sviluppare fino in fondo le proprie caratteristiche distintive che la rendono una realtà unica nel mondo. Le parole meritocrazia ed etica pubblica non vengono mai associate dall’opinione pubblica alla politica?

La politica oggi subisce l’egemonia comunicativa di altri settori del Paese, con il risultato che viene dato per scontato che il mondo politico sia quello meno meritocratico di tutti gli altri, ma non è sempre così. In realtà la politica fa da parafulmine al deficit di meritocrazia presente in tutta la realtà del Paese, da quella imprenditoriale, a quella sociale, a quella culturale per arrivare, alla fine, a quella politica. Ciò non toglie che, chi fa politica non può sottrarsi all’obbligo di essere un esempio e una guida per la comunità. Nel nuovo millennio, ha ancora un significato definirsi di destra o di sinistra?

Già da tempo destra e sinistra hanno assunto un valore in parte convenzionale, determinato soprattutto dalle logiche bipolari: si dà alla destra o alla sinistra contenuti diversi a secondo delle


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varie declinazioni del bipolarismo. Può esistere una destra sociale oppure una sinistra liberal, una destra comunitaria o ultraliberista, una sinistra protomarxista o un progressismo dal sapore anglosassone. In termini generali, a sinistra si dà più valore al principio di emancipazione, a destra, invece, si dà più valore al principio di identità. Indubbiamente in un gioco di leadership e di sfide bipolari finisce per vincere chi riesce, da un lato, a cogliere la valenza del proprio schieramento, ma, dall’altro, a riassumere le valenze dell’altro schieramento. Vince chi riesce a fare una sintesi tra i propri valori e quelli degli altri, chi si chiude a priori nel proprio schieramento tende a essere perdente. Dal mio punto di vista, ci saranno sempre due schieramenti, di utopie come il fasciocomunismo se ne parla da trent’anni, dai tempi di Marco Tarchi, ma non si realizzerà mai, esisteranno sempre una destra e una sinistra con significati cangianti a seconda dei tempi. Per avere un centrodestra vincente, nel futuro bisognerà sicuramente fare proprie non solo le idee di destra come il concetto di identità, ma anche alcuni temi in teoria cari alla sinistra, come la giustizia sociale, l’equità, la cittadinanza.

L’Intervistato

Gianni alemanno Sindaco di Roma dal maggio 2008, è stato ministro delle politiche agricole dal 2001 al 2006 per il Governo Berlusconi II e III. Lavora e si occupa di politica nella città di Roma dal 1970. Laureato in Ingegneria per l’ambiente e il territorio, è iscritto all’Ordine degli Ingegneri della Provincia di Roma, settore civile ed ambientale. Giornalista pubblicista, ha fondato il mensile Area ed ha pubblicato il libro Intervista sulla destra sociale (Marsilio, 2002). Dal 2006 è presidente della Fondazione Nuova Italia, è socio e membro del consiglio generale dell’Aspen Institut Italia. Nel corso degli anni, il suo impegno nella società civile ha contribuito a promuovere numerose iniziative non profit operanti in campo sociale, culturale ed ambientale. Il 25 giugno 2008 viene eletto all’unanimità presidente del Consiglio nazionale dell’Anci.

L’Autore pietro urso Direttore responsabile di Charta minuta, è esperto di analisi politica e di comunicazione.

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La nuova sfida della politica

Dobbiamo cavalcare l’onda del rinnovamento In ogni grande partito “contenitore” il pluralismo delle idee sono un punto di forza e non di debolezza. Il nuovo centrodestra deve comprendere le nuove spinte sociali e culturali e trasformarle in proposte concrete. DI BENEDETTO DELLA VEDOVA

La destra e la sinistra sono due “categorie necessarie” della politica, nate e sopravvissute nei secoli per ordinare la dialettica delle democrazie. Sono contenitori, mai troppo definiti, che rappresentano in forma convenzionale e semplificata il complesso sostrato culturale della politica. Anche i partiti, a ben guardare, finiscono per essere organizzazioni complesse quasi mai riconducibili ad unità: anzi, al crescere della pluralità delle società contemporanee, i partiti dell’Occidente democratico hanno imparato a convivere – più o meno fisiologicamente – con il pluralismo delle posizioni interne. Le apparenti “contraddizioni” non sono punti di debolezza, ma di forza dei grandi country-party. L’aggregazione della pluralità in due o tre grandi partiti, a cui sfuggono solo le formazioni marcatamente territoriali o single-issue (interessate a una o poche istanze ben determinate) è l’as-

setto inevitabile in giro per il mondo libero: Democratici e Repubblicani negli Stati Uniti; Laburisti, Liberaldemocratici e Conservatori nel Regno Unito, ai cui contenitori sfuggono solo realtà come gli indipendentisti scozzesi o gli iper-nazionalisti dell’Ukip; Socialdemocratici, Cristianodemocratici e Liberali in Germania, con i Verdi a solleticare le importanti istanze ambientaliste dell’elettorato tedesco; Socialisti e Popolari in Spagna, insieme ai movimenti regionali. La competizione elettorale e poi politica, insomma, è “al minimo” tra una destra e una sinistra. Una dinamica addirittura conveniente alle stesse formazioni politiche impegnate a decodificare le proprie posizioni ad un’opinione pubblica la cui attenzione al sistema politico è variabile e discontinua (per fortuna, aggiungeremmo: fortunata è quella società che ha bisogno di “poca” politica…).

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Destra e sinistra come categorie babilmente dal sistema dell’innecessarie, dunque. Categorie formazione. Ma l’unico antidoto non “identitarie”, ma inevitabil- possibile è incentivare meccanimente in evoluzione. Nei sistemi smi aperti e severi di selezione e politici più consolidati l’innova- poi di sostituzione dei leader: il zione dei contenuti si produce al- ricambio consente ai partiti di l’interno dei contenitori politici, sopravvivere anche agli esponenti in virtù dell’azione rivoluzionaria più ingombranti e totalizzanti, la delle leadership e dei centri di ela- dinamica competitiva impone ai borazione culturale e di policy di leader di dotarsi di piattaforme cui i partiti si servono. Come av- di contenuti riconoscibili, robuviene nel moto celeste, il movi- ste e più in linea di quelle passamento della destra “costringe” la te con le nuove tendenze della sinistra a muoversi e viceversa. È società. In questo modo, le rivola competizione delle idee e delle luzioni non si traducono in personalità, in definitiva: il ciclo strappi e scissioni, ma nella modernizzazione dei di Ronald Reagan e di George Bush La dinamica competitiva contenitori. Negli Stati Uniti, ad si portarono i Deesempio, dove il mocratici ameri- impone ai leader voto repubblicano cani a riconsidera- di dotarsi di contenuti o democratico è re il loro “essere spesso un dato che di sinistra”, fino riconoscibili in linea si tramanda di paalla svolta centri- con le tendenze sociali dre in figlio, è il sta di Bill Clinton; ancora, per citare la Spagna, movimento competitivo interno gli anni di governo del socialista che consente ai partiti di stare al Felipe Gonzales giocarono un passo con l’evoluzione della soruolo determinante nella migra- cietà, di riconoscerla gradualzione del Partido Popular da un mente ma inesorabilmente, di orientamento marcatamente di non perdere mai troppo terreno destra a posizioni più moderate. rispetto al “paese reale”. Si potrebbe continuare a lungo, Se questa analisi è plausibile, si guardando per esempio a quanto può allora sostenere che una delle è diverso l’attuale partito conser- più evidenti debolezze della Sevatore britannico guidato da Da- conda Repubblica italiana sia vid Cameron da quello di Marga- stata l’incapacità dei maggiori ret Thatcher, o la Cdu di Frau partiti di costruire al loro interno Merkel dal partito di Helmut ambienti competitivi e fertili d’innovazione politica. Il falliKohl. Dovunque, in Europa e negli mento del Popolo della Libertà è Stati Uniti, si percepisce come il il frutto di un’interpretazione lato debole di questa dinamica identitaria e valoriale della catesia la deriva personalistica della goria di destra o di centrodestra. contesa politica, esasperata pro- L’espulsione fisica, ancor prima


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L’intervento di Piercamillo Falasca

La fiducia e la paura, ovvero della differenza tra conservatori e reazionari C’è una politica che lucra il suo dividendo elettorale sulla paura dell’opinione pubblica per il nuovo e il diverso, per l’ignoto e il complesso. E c’è, minoritaria, una politica che pensa che il suo ruolo – ben al di là dell’amministrazione e dell’intermediazione pubblica – sia essenzialmente quello di sfidare la paura, con proposte fiduciose dello spirito e della mente umana, rispettose della libertà e della responsabilità di ognuno. Sui grandi temi della bioetica e dell’identità sessuale, in materia di immigrazione e integrazione, sulla scienza e sulle tecnologie, la differenza più evidente e sostanziale tra le diverse offerte politiche ruota davvero intorno alle categorie della “paura” e della “fiducia”. Avere fastidio per gli odori e i colori di una società multietnica, temere l’energia nucleare o gli ogm, provare un senso d’inquietudine quando due uomini si tengono per mano o – perché no – spaventarsi di fronte alla competizione economica: ha gioco facile quel partito o quel politico che non si pone l’obiettivo di contrastare la paura, ma banalmente di fotografarla, urlandola e quindi alimentandola, facendosi portavoce della massa, manzonianamente intesa. Al contrario, quanto è difficile scendere in mezzo alla folla, affrontandone i componenti uno per uno: “Ma tu, di cosa hai paura se un omosessuale ha un’aspirazione alla legittimazione del suo amore? Di diventare frocio anche tu?”. Oppure: “Voialtri, guardate un po’ i dati reali sulla sicurezza dell’energia nucleare, riflettete sulla questione energetica in termini complessivi, andate oltre gli slogan facili sulle fonti rinnovabili…”. Ancora: “Il posto fisso è una chimera, chi v’illude vi vuol male, ragioniamo di come riformare il mercato del lavoro ed il welfare in termini pragmatici…”. E ancora: “Non aver paura della ricerca scientifica, in ogni sua forma, vuol dire lavorare per il benessere umano, contro le malattie, contro la fame, contro la povertà“. La fiducia nell’uomo, nella sua meravigliosa capacità di adattamento, nella sua caparbia sfida alla caducità del fisico e all'ostilità della natura selvaggia: è buona politica quella che limita la sua azione ad una costante e discreta opera di adeguamento dell’ambiente normativo alla realtà, senza velleità demiurgiche, senza la pretesa – così diffusa tra i seguaci delle ideologie dominanti del Ventesimo secolo – di “creare” o di modificare la realtà, ma con l’obiettivo di bonificarla dalla malapianta della paura. Si è conservatori se si serba nell’animo una cristallina convinzione che l’uomo è nato libero e libero vuol restare, se si crede che ci sono alcuni diritti fondamentali che pertengono soltanto alla sfera privata di ognuno (che siano diritti naturali o frutto della storia e delle vicende dell’umanità, poco importa), se si è convinti che la Legge – con la maiuscola, non le grida e le mille leggine corporative – sia una cosa tremendamente seria e importante, perché si pensi di non rispettarla, di modificarla ad ogni fruscio di foglie, di usarla per regolare ciò che la società sa benissimo regolare da sé. Si è conservatori quando con questo spirito si affrontano le novità che la realtà ci pone di fronte, con rispetto del passato, ma con curiosità e fiducia nel futuro. Si è invece reazionari quando alle novità si “reagisce” – appunto – voltando lo sguardo all’indietro, cercando consolazione in ciò che si conosce, chiudendo occhi, orecchie e naso allo “strano” e allo straniero: “Tu non esisti, tu non puoi entrare, tu sei cattivo, tu distruggerai il nostro mondo”. La storia si è incaricata di mostrarci cosa accade alle società che fanno vincere la paura sulla fiducia: declinano, provano a resistere e poi vengono travolte, sperimentano il disordine laddove avrebbero potuto vivere un costante e magmatico rinnovamento, un graduale e ordinato processo di integrazione del nuovo nel vecchio.

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che politica, di Gianfranco Fini fintamente valoriale (che valore è dal partito è stata in definitiva osteggiare la costruzione di una l’espulsione del “finismo” come moschea?). Galvanizzando una tentativo di affermare nel Pdl minoranza, finisce per porre tra quella competizione di idee e sé e la società reale una distanza proposte costitutiva dei grandi incolmabile: Milano – che è una contenitori politici europei ed città di centrodestra – ha così americani. Il racconto che di tut- voltato le spalle ad una caricatura to ciò hanno fatto Il Giornale e di centrodestra, scegliendo PisaLibero – il “compagno” Fini, il pia per differenza più che per tradimento, il complotto – nasce convinzione. dall’incapacità (o dalla mancanza La lezione meneghina s’impone di volontà) di questi quotidiani nella sua evidenza: la categoria semi-ufficiali del centrodestra necessaria della destra, speculare berlusconiano di comprendere la a quella della sinistra, non basta spinta innovatrice, descrivendola a se stessa; più la si irrigidisce, costringendola banalmente come dentro i paletti u n c a m b i o d i Il nuovo centrodestra “rassicuranti” campo, un abbandono del conteni- dovrà capire e declinare dell’identità, più la si allontana daltore del centrode- con le idee le spinte la società plurale e stra “plasticamensociali e culturali magmatica. Non te” inteso. solo: illudendosi Scegliendo la chia- più innovative che la categoria del ve identitaria e sterilizzando ogni possibile ela- centrodestra fosse sostanzialmenborazione di contenuti alternativi te sovrapponibile alla figura di o innovativi al mainstream costi- Silvio Berlusconi, capace magari tuito, il Pdl si è nei fatti condan- col proprio brand di coprire quenato a non sopravvivere alla car- gli spazi lasciati vuoti dalla piatriera politica di Silvio Berlusconi. taforma identitaria, il Pdl ha imDi più, ha decretato la propria provvisamente scoperto di non sconfitta politica. Le scorse ele- saper più rappresentare la realtà. zioni amministrative, quelle della A Milano – e in tutta Italia – città di Milano in particolare, non hanno perso il Berlusconi ed rappresentano un fenomenale il berlusconismo nell’ispirazione spaccato di realtà, quasi una bio- originaria, che sapeva farsi intergrafia non autorizzata dell’ultima prete della società del tempo in stagione del berlusconismo. Il cui ha operato, ma ha perso quelcentrodestra che evoca il “rischio lo che gli si è sostituito negli ulzingaropoli”, che esprime fastidio timi anni e che – come ha detto per i diritti delle minoranze reli- Fini – ha segnato il passaggio giose o per le istanze di riconosci- dalle “grandi riforme” alle “granmento sociale degli omosessuali, di paure”, dalla moderazione alsi rinchiude in una torre d’avorio l’estremismo, dalla concretezza


PER UN NUOVO CENTRODESTRA Benedetto Della Vedova

all’opportunismo, dalla leadership al culto della personalità. Il tramonto del berlusconismo sgombra il campo dall’illusione che un’area di consenso e di opinione maggioritaria possa identificarsi in una persona o in una biografia, fosse pure eccezionale, come quella del “fondatore”. Mutatis mutandis, l’attualità della politica economica offre una fotografia non dissimile. Come singoli, poi come “area finiana”, infine come Futuro e Libertà abbiamo per almeno due anni e mezzo provato a iniettare spunti e suggestioni nel dibattito e nell’elaborazione delle policy del Pdl e della maggioranza. Le nostre proposte sono state rifiutate come provocazioni strumentali. Sordo alle istanze degli “esclusi” (dagli immigrati agli omosessuali, passando per i giovani lavoratori precari) nel corso degli ultimi tre anni il governo Berlusconi ha allora scelto scientemente di navigare a vista, eludendo le necessarie riforme economiche e sociali, pur di evitare ogni possibile strappo sociale. Alla tenuta del consenso – ritenevano i maggiorenti del Pdl – ci avrebbe pensato il TG1 di Minzolini, Mediaset e la carta stampata di famiglia. Purtroppo per loro, il voto amministrativo ha dimostrato che i media possono distorcere il racconto della realtà, ma non il buon senso della gente. Come costruire un nuovo centrodestra? La stessa domanda denota una preferenza per la categoria, tra quelle necessarie della politica contemporanea, nella quale

continuiamo a credere si debba giocare la nostra partita politica. Il nuovo centrodestra – che auspichiamo sia lo spazio politico del Nuovo Polo – sarà “nuovo” e sarà “centrodestra” se saprà dar seguito al tentativo intrapreso da Gianfranco Fini e da Futuro e Libertà di declinare la categoria sulla base delle spinte sociali e culturali più innovative e meno rappresentate dalla politica stantìa della Seconda Repubblica. Sull’immigrazione e i grandi temi internazionali, sul fisco e sulla spesa pubblica, sul welfare e sul mercato del lavoro, sulla sfida della crescita a cui restano appesi i destini del Paese, solo un nuovo centrodestra autenticamente europeo avrà le carte in regola per raccogliere la sfida del governo. L’elettorato per questo centrodestra – come categoria – c’è. Una politica, non più. Chi vuole (e Futuro e Libertà deve) raccogliere questa sfida ha davanti a sé un futuro politico complicato, ma finalmente aperto. Se l’Italia sarà davvero scossa, come sembra, da una salutare onda di rinnovamento, tutti dobbiamo essere pronti a cavalcarla al meglio, ciascuno nel campo della sua “categoria necessaria”.

L’Autore benedetto della vedova Capogruppo di Fli alla Camera dei deputati. Presidente dell’associazione Libertiamo.

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Il Pdl? Mai stato un vero soggetto politico

Prima del leader, ai moderati serve un partito Per il presidente dell’Udc, si sta chiudendo un ciclo che renderà impellente la nascita di un progetto politico che dia una rappresentanza organica ai moderati italiani. INTERVISTA A ROCCO BUTTIGLIONE DI ROSALINDA CAPPELLO

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Rocco Buttiglione, presidente dell’Udc, vicepresidente della Camera dei deputati, membro della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, studioso di filosofia, etica sociale, economia e politica è autore, tra gli altri, de I cattolici liberali nell’attuale contesto politico. Come dovrebbe essere, da quali presupposti dovrebbe ripartire il centrodestra del futuro, in una prospettiva postberlusconiana?

Sicuramente un ciclo si va concludendo, molti parlano della successione di Berlusconi ma non credo che ci sarà una successione a Berlusconi, non credo che il Pdl gli sopravvivrà. Quando un leader subisce una sconfitta come quella delle ultime amministrative, se dà le dimissioni, forse, salva il partito. Se non le dà, lo

trascina nella rovina perché in realtà lui non è mai riuscito a costruire un partito. All’inizio, ha potuto contare su un seguito, un movimento personale perché date le circostanze di allora non c’era il tempo per organizzare un partito democratico. Poi, però, sono passati diciassette anni e non l’ha mai fatto. E, adesso, una grossa fetta di ciò che è il centrodestra è destinato a essere travolto. Rimane però in Italia un’area moderata, tendenzialmente alternativa alla sinistra che in gran parte non vuole votare Berlusconi. La sconfitta di questi giorni, infatti, non è tanto che la sinistra abbia guadagnato numerosi voti, quanto che i moderati per lo più non siano andati a votare. Quindi, c’è il problema politico di dare una rappresentanza organica a quest’area.


PER UN NUOVO CENTRODESTRA intervista a Rocco Buttiglione

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Nella pratica che cosa vuol dire questo?

Creare un partito democratico, e cioè un partito che esprima un leader e non viceversa. E perché ciò avvenga occorre che sia chiusa definitivamente la fase berlusconiana. Dipende molto da Berlusconi, da quello che intende fare: se ha intenzione di presentarsi alle prossime elezioni politiche, se dobbiamo contare su due anni di disgregazione del Pdl, le cui forze non sono messe pienamente in libertà perché il suo leader insiste

nel tenerle prigioniere; oppure se possa iniziare da subito una fase riaggregativa. In che modo può realizzarsi una riaggregazione?

Con un progetto ideale chiaro. Occorre una lettura antropologica della crisi della società contemporanea e di conseguenza la proposta di un modello per uscire dalla crisi stessa. Questa è una crisi che riguarda l’uomo, è educativa e culturale, quindi econo-


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mica. Una proposta alternativa inevitabilmente dovrà fare perno sull’idea di nazione, sui valori cristiani che animano la vita di questa nazione. Bisogna parlare col mondo cattolico, chiedergli di giocare la sua funzione in senso nazionale, valorizzare l’impegno politico dei cattolici che mira a difendere alcuni valori e anche alcuni interessi legittimi. Bisogna anche fare un bilancio dell’area laica, di cosa vuol dire essere laici oggi. Perché il vecchio laicismo, che credeva in qualcosa, che aveva la sua morale laica sembra essere moribondo, mentre si sta facendo strada una nuova etica permissiva, dissolutiva e non costruttiva. Occorre recuperare l’aspetto del risorgimentalismo cattolico, Gioberti, avere un profilo ideale netto, ricongiungersi con la storia nazionale e smetterla con le buffonate che inventano antenati, che non sono quelli veri. Quale potrebbe essere questo modello alternativo?

Un modello sociale che non può essere altro che l’economia sociale dello Stato, un’economia sociale di mercato pensata in Italia e per l’Italia, da ricostruire nel dialogo con i ceti medi produttivi, con gli artigiani, con i commercianti, con i coltivatori diretti, con il sindacato. Recuperando i valori fondamentali che sono anche quelli del mercato, come la competizione leale. Un modello che consideri il mercato un valore – perché il mercato è la libertà, essendo alla

base di questo il contratto, cioè l’incontro di due volontà libere, e non è contro lo Stato, ma è un fattore di efficienza perché alloca le risorse nel modo migliore – e, al tempo stesso, che non dimentichi che la persona umana vale più dell’economia. Quindi, accanto al mercato deve esserci una politica sociale capace di recuperare i fallimenti del mercato stesso. Come in Germania dove c’è un’economia sociale di mercato in cui le aziende non sono obbligate a tenere lavoratori quando i posti di lavoro non ci sono, ma dove il lavoratore che perde il posto riceve un assegno di disoccupazione robusto, ha un orientamento professionale che lo informa su nuove opportunità, può contare su una formazione professionale che lo metta in grado di ottenere un lavoro nuovo, ed è invitato a investire la propria creatività, attraverso la partecipazione, nel suo luogo di lavoro perché l’impresa è concepita non soltanto come una società di capitali ma anche come una comunità di persone. Questo è il senso della cogestione tedesca. Quali altre caratteristiche deve avere questo nuovo modello?

Una forte visione europeista perché l’Italia non è in grado di affrontare i grandi problemi da sola. La crisi che stiamo attraversando ci mostra in modo evidente che se vogliamo fare la nostra parte nella guida del mondo di domani, l’Europa deve parlare con una voce sola. Il mondo di


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domani sarà guidato dalla Cina, India, Usa, forse dal Brasile, dalla Russia, e forse l’Europa. Se l’Europa sarà unità potrà dire la sua parola e dentro l’Unione dobbiamo parlare a cuore aperto con la Germania e dirle che il suo modello sociale va bene ma deve darci le condizioni per poterci agganciare. È inutile che indichi un modello se poi chiude la strada che conduce alla sua realizzazione. L’Italia, per adottarlo, ha bisogno di un suo tempo di transizione. Riguardo ai valori, crede sia possibile conciliare le diverse anime del centrodestra? O secondo lei c’è un modo per andare oltre e sciogliere i nodi che potrebbero presentarsi?

La prima cosa da fare è affrontare un dibattito culturale vero e spregiudicato, senza nascondere i problemi lasciandoli irrisolti. Credo che ci sia una straordinaria ricchezza propositiva dentro al ripensamento della dottrina sociale della Chiesa fatto da Giovanni Paolo II e continuato da Benedetto XVI. Parliamone. Ci sono altre proposte, discutiamo anche di quelle. Non ne vedo molte, ma parliamone. Vedo che anche il pensiero più avanzato sulla società di oggi, anche in economia – come Amartya Sen, Joseph Stiglitz, Paul Grugman – gira intorno all’enciclica del Papa. Sembrerà strano, ma è così. Dobbiamo avere la capacità di fare le riforme che utilizzano la potenza della solidarietà come fattore di crescita dell’economia.

Il grande partito del centrodestra è stato penalizzato anche dal limite della leadership, imbrigliato dalla figura ingombrante di Berlusconi. Secondo lei come dovrebbe essere il futuro leader del centrodestra?

È una domanda che non dobbiamo fare se vogliamo costruire il futuro della nazione. Non dobbiamo lasciarci catturare dall’idea che il problema sia il leader. I grandi partiti democratici selezionano leader attraverso un processo di confronto e anche di lotta politica democratica. Qui, invece, siamo tutti abituati prima a scegliere i leader e poi costruire il partito. Così non funziona. Discutiamo di valori, di programmi, definiamo meccanismi di selezione democratica del leader. Come dovrebbe essere il nuovo raggruppamento del centrodestra?

Democratico. Penso che all’Italia occorrano due cose, utili per un futuro partito dell’area moderata e anche per gli altri. Abbiamo bisogno di una legge elettorale nuova che permetta ai cittadini di scegliere chi sta in Parlamento, non necessariamente con le preferenze. Può esserci anche un uninominale proporzionale come in Germania, però devono essere i cittadini a scegliere e deve esserci una legge sui partiti che garantisca una democrazia interna ai partiti stessi e che i candidati vengano scelti con voto segreto dai cittadini. In che modo?

Per esempio, in Germania chi intende candidarsi lo dice, c’è un

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elenco dei candidati tra i quali gli iscritti con voto segreto decidono chi andrà in lista. Questo contribuirebbe notevolmente a cambiare il clima interno, ridurrebbe il potere di ristrette oligarchie di partito, consentirebbe un’apertura democratica della discussione. Sarebbe anche un modo per abbattere il servilismo di chi dipende dalle decisioni imperscrutabili del leader. Così anche le energie del leader si concentrerebbero sui valori e sui programmi. Invece, quando i meccanismi di selezione non sono così chiari, piuttosto che sui valori e sui programmi, l’attenzione si concentra sulle candidature su problemi che non sono centrali per l’interesse del Paese. Bisogna riflettere sulla forma partito e immaginare come se ne possa costruire uno adatto ai tempi nostri. Purtroppo, noi abbiamo idea di strutture democratiche vecchie e di partiti nuovi che non sono democratici.

L’Intervistato

rocco buttiglione Presidente dell’Unione dei Democratici Cristiani e Democratici di Centro. Laureato in giurisprudenza con studi fatti a Torino e a Roma, dov’è stato allievo del filosofo Augusto Del Noce. Insegna scienze politiche alla Libera Università degli Studi San Pio V di Roma. Nel 1986 fondò con Josef Seifert la International Academy for Philosophy in the Principality of Liechtenstein, in cui fino al 1994 insegnò Filosofia, Etica sociale, Economia e Politica e di cui fu prorettore; oggi è membro del Senato accademico. Dal 19 gennaio 1994 è membro della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali. Nel maggio dello stesso anno ha ricevuto una laurea honoris causa in filosofia all’Università Cattolica di Lublino. Fa parte del comitato scientifico della collana Temi di diritto europeo edita da Il Mulino. È membro del comitato scientifico della Fondazione Augusto Del Noce. È membro del comitato scientifico della Fondazione Giovanni Paolo II per il magistero sociale della Chiesa.

L’Autore rosalinda cappello Giornalista, è redattrice di Fareitaliamag, il periodico online dell’associazione Fareitalia. Ha collaborato con il Secolo d’Italia.



Un futuro a vocazione meridionalista

E ora ricostruiamo la politica sul territorio L’Italia deve permettere al Sud di ripartire dalle proprie capacità e competenze, delegando lo sviluppo del Mezzogiorno a chi ne conosce problematiche e potenzialità. INTERVISTA A GIANFRANCO MICCICHÈ DI CECILIA MORETTI

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«E ora, va ricostruito il centrodestra». Così Gianfranco Miccichè incassa il successo elettorale del suo neo-partito Forza del Sud e registra la batosta alle urne del Popolo della libertà. «Questa battuta d’arresto è stata importantissima perché ha finalmente convinto il Popolo della libertà di essere molto malato». Non ne ha dubbi il Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio che fu tra i fondatori di Forza Italia. E, in una stanza che è una dichiarazione d’amore alla pop art, mentre Lou Reed canta Sweet Jane («certa musica per me è una sorta di credo – racconta – la lascio accesa anche quando dormo»), lui spiega di come il centrodestra può venire fuori dall’impasse. Innanzitutto puntando sul territorio e occupandosi della gente. Davvero.

Gli ultimi risultati elettorali decretano la fine del berlusconismo?

No. Anzi, questa batosta ha finalmente convinto il Pdl di essere malato. Fino al giorno prima non ci voleva credere, ed evitando di andare dal medico rischiava di morire. Ora, invece, può salvarsi. E la legislatura? Arriverà in fondo?

Probabilmente sì, ma bisogna cambiare molto, anche per non permettere che il centrosinistra passi come salvatore della patria. La nostra fortuna, però, oggi più che mai, è che la sinistra è bravissima quando si tratta di fare populismo, molto meno brava quando arriva il momento di sedersi al tavolino e lavorare, prerogativa che invece appartiene a noi del centrodestra.


PER UN NUOVO CENTRODESTRA intervista a Gianfranco Miccichè

che vedere con la purezza originaria e con l’interesse reale per la Credo di sì. E poi, tutti quelli gente, ma si è trasformato in inche ne hanno parlato non sono fi- teresse per il partito. niti bene. Non sia mai che portasse male… In questo contesto critico per il centroQuindi è prematuro pensare alla successione a Berlusconi?

Quali sono le cause di questa malattia del centrodestra?

destra, però, il suo partito – nuovo di zecca – ha avuto risultati brillanti. Che analisi se ne può fare?

Non sono un medico, ma le cause sono abbastanza semplici da individuare: innanzitutto il fatto che la classe dirigente del Pdl si è mossa esattamente come quella della Lega, ovvero un atteggiamento che non ha più niente a

La spiegazione è molto semplice: gli uomini del Sud sono stanchi di non essere rappresentati. Fino alla caduta del muro di Berlino si andava avanti per ideologie, e allora il Sud valeva quanto il Nord, ma caduto il


muro e le ideologie, si è cominciato a rappresentare gli interessi. E allora, l’esistenza della Lega Nord e l’assenza della Lega Sud ci ha distrutto. Forza del Sud e Lega Nord sono due facce della stessa medaglia?

Esattamente. Noi vogliamo essere speculari alla Lega Nord, infatti stiamo copiando tutto.

l’obiettivo del Sud. E con queste persone – ma non con quelle che invece vi hanno aderito pensando ai propri interessi – certo che c’è un progetto comune: quello di ricostruire il centrodestra. Lo stesso progetto che mi accomuna ad altri politici di questo orientamento insoddisfatti dall’attuale stato di cose. Bisogna puntare sulle riforme?

Però la Lega ha avuto una battuta d’arresto a queste amministrative…

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Roma le ha dato alla testa, la Lega ha esagerato in arroganza. All’inizio aveva un’anima pura, quella che noi vorremmo mutuare e che speriamo di avere sempre, quella del vero interesse per il territorio. Oggi, invece, la Lega pensa piuttosto all’interesse personale e non si preoccupa più che l’autobus arrivi puntuale… E del nuovo clima si è accorta la gente del Nord più di quella del Sud perché Pdl e Lega lì contano di più. Gli elettori non vogliono santi, ma persone per bene, sì. Prima credevano nella Lega e in Forza Italia come forze del cambiamento, oggi i loro rappresentanti non danno più l’idea di un gruppo di persone che pensano alla gente. Sempre a vocazione meridionalista, è nato da poco anche NoiSud. Insieme, a Napoli, avete ottenuto quasi il 9%, un risultato vicino a quello della Lega Nord a Milano. C’è in vista un progetto comune?

Noi Sud, innanzitutto, ha un bel simbolo. E ha al suo interno persone che hanno realmente

Parole... Io credo che sia necessario puntare per prima cosa sul comportamento delle persone. La vera riforma è riformare la testa di alcuni, facendo capire loro che in politica è obbligatorio occuparsi della gente. Questo non è un optional, fare il ministro, piuttosto, non è obbligatorio. Poi è vero che se riesci a fare il ministro hai la possibilità di occuparti della gente molto meglio di chi non lo è. Ma oggi non è questo l’obbligo avvertito dal Pdl. A 150 anni dall’unità d’Italia il divario Nord-Sud è ancora un problema? Come fare?

È un problema più di prima. E va superato capendo, innanzitutto, che bisogna occuparsi veramente del Sud. E non a parole. Quest’anno, per esempio, me la sono un po’ presa con il ministro Tremonti: «Caro Giulio – gli ho detto – non ti puoi permettere più di venire al Sud e fare due comizi con il sorrisino sulle labbra dicendo che bisogna investire più risorse da queste parti. Non ti è più consentito». Ed è proprio così. Gli uomini del Sud non


PER UN NUOVO CENTRODESTRA intervista a Gianfranco Miccichè

permettono più di essere presi in giro. Non è possibile vincere ingannando la gente del Sud, meno ancora che quella del Nord. E invece si è pensato di trattare con il Sud come se si avesse a che fare con il terzo mondo e con gente con l’anello al naso, da tenere a bada con la demagogia. Ma ora basta. È arrivato il momento di mettersi davvero a lavorare per il Sud, non si può più rimandare. Altre forze politiche, come Fli e Udc, hanno l’ambizione di rappresentare gli interessi del Sud. Alla prova dei fatti?

Basta dire che entrambi i loro massimi esponenti sono di Bologna e non mi risulta che ci sia mai stato un bolognese che abbia abitato a Palermo o a Reggio Calabria, mentre tanti reggini o napoletani abitano a Bergamo. Ma credo che per curarsi delle regioni del Sud sia necessario conoscerlo realmente, altrimenti sono solo strumentalizzazioni e demagogie, parole che gonfiano la bocca e lasciano vuoto lo stomaco. E quali sono le priorità per il rilancio del Sud?

Per prima cosa bisogna mettersi in testa che il Sud non è uno, ma sono tanti. Come al Nord Imperia e Treviso hanno scenari diversi, lo stesso vale per le città del Sud. Per esempio, oggi a Napoli c’è il problema della sanità, minore quello delle infrastrutture, a Palermo il contrario. Quindi, è fondamentale avere una forte e capillare presenza territoriale, che oggi può essere propria di un

partito che abbia lo spirito della Lega di vent’anni fa. E come si pone rispetto al tema del federalismo? Lei l’ha sempre guardato di buon occhio…

Non proprio. Io sono favorevole al concetto di federalismo, ma non a questo federalismo, che è anti Sud. Quale sarebbe, quindi, la ricetta giusta?

L’errore è stato averne paura all’inizio e non andare a sederci nella stanza in cui si prendevano le decisioni assieme a Calderoli, lasciando, così, che il federalismo se lo facessero da soli. Il federalismo concettualmente va benissimo, ma i parametri che sono stati utilizzati sembrano fatti apposta per chiuderci, dimostrando, tra l’altro, grande pochezza di lungimiranza e incapacità di visione da parte di signori che sono contenti se possono mettere all’angolo il Sud. E non si rendono conto che così muore l’Italia: le ultime elezioni ne sono una dimostrazione, ma tra l’altro ormai è abbastanza evidente che senza i voti del Sud la Lega può andare a candidarsi a capo condomino di qualche palazzo milanese. Il nuovo centrodestra deve essere un centrodestra che sia chiaramente tale, ma anche di evidente interesse territoriale. Questo è quello che noi offriamo a Berlusconi. Che cosa pensa della scelta di Angelino Alfano, anche lui siciliano, come segretario politico del Pdl?

Ecco, se io fossi il presidente di una squadra di calcio e dovessi

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puntare su un centravanti, eviterei di puntare su uno che ha fatto più autogol che gol e in Sicilia Alfano, come coordinatore, ha praticamente annientato il partito… Lei per chi avrebbe consigliato di optare?

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Avrei consigliato di puntare sui curricula e scegliere qualcuno che vantasse dei risultati. Per esempio, pur non avendo mai avuto ottimi rapporti con lui, mi viene in mente Scajola. Mi si potrebbe obiettare che bisogna invece guardare ai giovani, e nomi come Scajola o Miccichè appartengono ormai a una generazione passata, ma sono sicuro che anche tra le nuove leve si possono trovare curricula costellati di successi. Forza del Sud corteggia apertamente Mara Carfagna. Per lei si parla anche di un eventuale ruolo di primo piano nel vostro partito…

Mara Carfagna, se vuole, è padrona di Forza del Sud. Noi abbiamo bisogno di gente brava, appassionata e che piaccia alla gente: lei ha tutte e tre queste prerogative. Poi so che è innamorata di Forza del Sud e sono sicuro che prima o poi verrà con noi. Spero solo che si sbrighi… È un’idea di marketing politico vincente quella di intercettare meglio umori e posizioni differenti dell’elettorato di centrodestra, diversificando la propria offerta anche con la moltiplicazione dei marchi?

Sì, ed è una cosa che fanno tutte le formazioni politiche. Per esempio, oggi, il centrosinistra vince proprio avendo diversifica-

to fortemente i marchi: in alcune regioni emerge l’Idv, in altre il Sel, la certezza è che Pd e Pdl non vincono più. E, a essere sinceri, anche Fli e Udc non hanno vinto da nessuna parte. Come si spiega questo insuccesso?

Oggi la politica ha bisogno di colori decisi. Alla roulette si punta il rosso o il nero, il terzo polo è lo zero, quello che esce una volta ogni 5mila anni e quando esce sempre zero è. Parlando più seriamente, ora bisogna accentuare molto il concetto di territorio, e non dimenticare la moderazione. È vero che Berlusconi vi ha dato una mano nella creazione del simbolo?

Assolutamente no. Ha dato una mano a creare quello di NoiSud. Modestia a parte, io credo di essere più bravo di Berlusconi nel marketing: lui un simbolo come quello di Forza del Sud se lo sognerebbe. I nostri tre colori – rosa, arancione, azzurro – sono nuovissimi e nascono dal marketing puro. Li abbiamo scelti nel 2008, quando si cominciò a parlare del progetto di Forza del Sud, ispirandoci ai tre colori scelti a Parigi per rappresentare il nuovo decennio alle porte. Il suo partito ha avuto risultati brillanti, nonostante la totale assenza dalla tv…

Anzi, credo che non essere andati in tv sia stato uno dei motivi del nostro successo. Le trasmissioni televisive perlopiù servono a distruggerli i nuovi progetti, perché venire interrot-


PER UN NUOVO CENTRODESTRA intervista a Gianfranco Miccichè

ti ogni tre secondi senza riuscire a spiegare in maniera compiuta obiettivi e propositi ha un effetto boomerang.

L’Intervistato

Eppure non sono in pochi a sgomitare per andare in televisione... Tutti quelli che perdono. Io non

ho chiesto un solo invito a una trasmissione televisiva, lo chiederò tra un po’, in quelle dove non si fanno risse o bagarre, che – anche se in minoranza – esistono, perlopiù in radio. Il mondo della comunicazione oggi non se la passa un granché, compreso quello della carta stampata. Ormai i giornali non li legge più nessuno e, d’altronde, sembrano preferire sempre più il gossip alla politica, che a sua volta tende sempre più spesso a cedere alla tentazione dell’autoreferenzialità. Ma a quest’ultimo appuntamento elettorale ha vinto chi ha saputo dire alla gente: non mi interessano i partiti, io voglio parlare con voi.

Gianfranco miccichè Nel 1993 è promotore della nascita di Forza Italia in Sicilia. Nel 1994 è chiamato dal Presidente Berlusconi a ricoprire il ruolo di Coordinatore Regionale. Nel 2004 gli viene conferito l’incarico di Vice coordinatore Nazionale. Sottosegretario di Stato al ministero dei Trasporti e della Navigazione nel 1994, nel 2001 è viceministro dell’Economia e delle Finanze con delega allo Sviluppo Economico del Mezzogiorno, alle attività delle Società a partecipazione pubblica che operano a sostegno dello sviluppo economico del Mezzogiorno ed ai rapporti con l’Unione Europea e con le Regioni, per le mate-

A destra, c’è chi dice che non si può lasciare alla sinistra il vantaggio delle primarie. Lei che ne pensa? Possono essere utili, anche a livello locale?

Diciamoci la verità, le primarie sono il fallimento della politica. Oggettivamente è così, poi può anche essere che oggi che la politica è fallita abbiano nella pratica una qualche utilità. Ma sia chiaro che se la gente non avesse bisogno di un partito per essere rappresentata, allora tanto varrebbe che andasse lei stessa in Parlamento.

rie relative. Nel 2005 è ministro per lo Sviluppo e la Coesione territoriale e dal 12 maggio 2008 ricopre il ruolo di sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio con delega al CIPE.

L’Autore cecilia moretti Giornalista, è redattrice di FareitaliaMag, il periodico online dell’associazione Fareitalia. Ha collaborato con il Secolo d’Italia.

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PER UN NUOVO CENTRODESTRA Domenico Nania

Riflettiamo e agiamo

È il momento delle idee e del coraggio di attuarle Bisogna tornare ad arricchire il centrodestra con proposte ed iniziative per rilanciare il Paese, basta con la chiusura antiberlusconiana, chiunque si riconsce nell’ala moderata dovrebbe contribuire a ricostruire e non a distruggere. DI DOMENICO NANIA

Il cosiddetto berlusconismo. Chi lo considera il nemico principale. Chi una parentesi. Chi una malattia contagiosa. Due assaggi tra le migliaia. Per Ermanno Rea, scrittore napoletano, è “tutto ciò che di sporco esiste nella nostra società”, una specie di fascismo redivivo. Per Giorgio De Capitani, il Cavaliere deve essere eliminato. Secondo Libero del 14 aprile 2011, il parroco, sul suo sito internet, avrebbe scritto: “Datemi una pistola, un euro, e vi sistemo il Paese”. Chi tra i suoi avversari si discosta dalla vulgata è Biagio De Giovanni. Il filosofo, nel suo A destra tutta, rifiuta lo strabismo di un’opposizione incapace di analizzare la reale consistenza dell’avversario, dissente da chi vaglia il Cavaliere “un accidenti” e passa in rassegna come si può trasformare una sconfitta, quella del 2008, in un’opportunità.

Un’analisi critica ma senza acredine, è quella che Francesco Cossiga, Presidente emerito della Repubblica, articola nel suo interessante volume edito dalla Mondadori, Italiani sono sempre gli altri, dove, a pagina 237, distingue tra leadership costitutiva e funzionale. “Per spiegare: il laburismo in Inghilterra e il gollismo in Francia non scompariranno con la fine politica di Jacques Chirac e di Tony Blair, leader funzionali. Costitutivo invece è il leader che di un partito è in pratica il proprietario non solo ideale ma soprattutto materiale e sostanziale. Al centro, fenomeno assolutamente inconsueto per una democrazia matura, si è insediato un leader, Berlusconi, e con lui il berlusconismo, nuovo perno della politica italiana negli ultimi tre lustri di transizione postdemocristiana, sia dal governo come all’opposizione...

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Da Cavour a Berlusconi e Prodi quando si formò, per la prima l’Italia ha percorso tutta la sua volta in Italia (durante le ammistoria di nazione asimmetrica, nistrative di Roma e Napoli), un impegnata in una transizione in- grande schieramento che (intorfinita, frutto di una democrazia no al Msi-Dn) raggiunse il balgeneticamente imperfetta, che lottaggio e per pochi voti non non trova mai la medicina per vinse sulla sinistra. Un quindicennio, dal ’78 al ’93, curare le sue malattie. Per il futuro si tratta di capire durante il quale “un Papa cambia quale sarà la classe dirigente ca- la storia”, si crea un nuovo clima pace di profittare della mutazio- nel Paese, si formano le condizione antropologica del carattere ni per la nascita di una nuova destra, esplode la Lega, emerge la politico del paese”. Nel libro Una nuova Idea per figura di Fini e si creano le condil’Italia, edizione Rubbettino, an- zioni per l’ingresso in politica e la ch’io condivido la convinzione di leadership di Silvio Berlusconi. La storia non si fa una mutazione con i “se”, ma reantropologica, ma Il centrodestra ha sto dell’idea che se non la raffiguro in il Cavaliere avesse Berlusconi e nel una cultura millenaria leader carismatico e certamente non finirà scelto Rutelli, invece di Fini, il suo che ha saputo legfuturo – com’è gere una fase sto- con Berlusconi, successo con Segni rica, unire le forze ma si rinnoverà – sarebbe stato un moderate, condurle alla vittoria e orientare il corso altro ma il centrodestra avrebbe degli eventi, bensì nei sommovi- comunque calcato la scena, tromenti storici, culturali, emotivi vato il suo leader e segnato il core ideali che hanno trasformato, so degli avvenimenti. quelli sì, l’atteggiamento degli Mario Segni aveva affrontato e superato una sfida storica portanitaliani e il valore di una scelta. do i cittadini al referendum La differenza? Secondo la mia “Idea” il centro- sull’abolizione del proporzionale destra non lo crea Berlusconi, e e l’introduzione del maggioritanon finisce con la sua leadership, rio. Aveva dalla sua gran parte sia perché non è nato con lui, sia dell’opinione pubblica. Con una perché è figlio di una cultura coalizione di centrodestra poteva millenaria, sia perché il suo con- vincere le elezioni del ’94. Epputenuto politico rappresenta il re, nei pressi del traguardo, invecondensato di quei quindici anni ce di accogliere l’appello del Cache condussero (dopo l’elezione valiere per un accordo con il Pardi Karol Wojtyla, la caduta del tito Popolare e il Msi-Dn, anche Muro di Berlino e l’implosione senza la Lega, s’imbarcò con del comunismo) a Tangentopoli e Martinazzoli e si avventurò in al crollo della Prima Repubblica, una scelta terzista che lo porterà


PER UN NUOVO CENTRODESTRA Domenico Nania

alla sconfitta e nel dimenticatoio. militanti che esaltano il cosidIl 26 marzo 2011, lo stesso Fini detto berlusconismo e si definiha riconosciuto che “l’irruzione scono berlusconisti, mentre trovo della leadership carismatica e po- un popolo che si definisce modepulista è una questione che si sa- rato o, ancora meglio, di centrorebbe posta comunque sulla sce- destra. na politica: se non era Berlusco- In effetti, se fate caso, il copyright del cosiddetto berlusconismo ni, era un altro”. Sulla leadership carismatica ci sia- non è nelle mani di chi dovrebbe mo perché rappresenta un segno sostenerlo, ma di chi prima l’ha dei tempi e costituisce la forma inventato per etichettare il “nedi governo delle democrazie con- mico” e poi utilizza il suo contemporanee che funzionano. Dal trario, l’antiberlusconismo, come Regno Unito della Thatcher e di arma impropria per demolirlo. Il Blair agli Stati Uniti di Reagan e primo è richiamato da chi lo diObama, dalla Francia di Mitter- sprezza, del secondo si ciba chi lo lotta. rand e Sarkozy alla A dispetto delGermania di Kohl Nell’era moderna l’evidenza, neane Merkel, dalla che i media che Spagna di Aznar e ogni democrazia amano definirsi Zapatero all’Italia ha bisogno di una indipendenti dedi Berlusconi e nunciano l’uso Veltroni, non co- leadership carismatica strumentale che le nosco una demo- e autorevole opposizioni fanno crazia occidentale, dove si possa immaginare di vin- del berlusconismo (per negare cere con un leader scialbo e insi- originarietà al centrodestra) e dell’antiberlusconismo (per scarignificante. Sulla leadership populista andrei care sul Cav i loro fallimenti e le molto più cauto, anche perché si colpe del pianeta). tratta del solito refrain che certe D’altra parte, è comprensibile. Se opposizioni adoperano per indi- le opposizioni riconoscessero al care spregiativamente il centro- centrodestra il ruolo che merita, destra come una pertinenza del dovrebbero rivedere le proprie Cavaliere e che proprio Fini do- contraddizioni, ripensare una povrebbe evitare di ripetere se non litica vissuta all’insegna dell’osaltro per rispetto di se stesso e sessione berlusconiana e smentire il messaggio, l’invito a “farlo fuodel suo vissuto. Tra i moderati, e anche nel Pdl, ri”, che da tempo li caratterizza. quasi nessuno si definisce berlu- “Il centrodestra non esiste... Esisconista. Una volta chi credeva ste solo Belusconi e il berlusconinel socialismo si definiva sociali- smo. Fatto fuori il primo, cesserà sta; nel comunismo, comunista; come per incanto il secondo”. nel fascismo, fascista; nel libera- La caccia è aperta. Chi può lo ablismo, liberale. In giro, non vedo batta.

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Per la parte politicizzata della definirei un normale “stato Procura di Milano la caccia è d’emergenza”, si avvale, più che aperta almeno dal ‘94, anche se di manifestanti generosi, dei Cale fattispecie di reato di cui Sil- rabinieri e della Polizia di Stato, vio è accusato sono estranee al- congela le Camere, sospende tutte le immunità parlamentari, rel’attività politica e di Governo. Eugenio Scalfari, su Repubblica stituisce alla magistratura le sue del 13 febbraio 2011, suggerisce possibilità e capacità di azione, la sua ricetta: un’alleanza repub- stabilisce d’autorità nuove regole blicana per chiedere al Presiden- elettorali, rimuove, risolvendo te della Repubblica lo sciogli- per sempre il conflitto d’interessi, le cause di affermazione e di mento anticipato delle Camere. D’Alema non è da meno e il 12 sopravvivenza della lobby affariaprile 2011, durante il dibattito stico-delinquenziali, e avvalensulla legge che introduce la ra- dosi anche del prevedibile, anzi gionevole durata dei processi, prevedibilissimo appoggio europeo, restituisce prima legge l’articolo 88 della Co- I governi non si formano l’Italia alla sua più profonda vocazione stituzione (nella parte in cui affer- per favorire un premier, democratica, facendo approdare il ma che “Il Presi- ma per dare risposte paese ad una grandente della Rede, seria, onesta e, pubblica può, sen- certe e concrete soprattutto, alla titi i loro Presi- al Paese e ai cittadini pari consultazione denti, sciogliere le Camere”) e poi, con la consueta elettorale. Insomma: la democraraffinatezza che si ritrova, ag- zia si salva anche forzandone le giunge: “Ovviamente la mia più regole.”. La “soluzione finale” avanzata da che una lettura è un auspicio”. Come dire: “Giorgio, pensaci Asor Rosa contro Berlusconi ripresenta una teoria per tutte le tu!”. Alberto Asor Rosa, quale porta- stagioni e le latitudini, si tratti voce di un’opposizione ormai di prendere o di difendere il pofuori controllo, supera ogni limi- tere, il fine che giustifica i mezte invocando esplicitamente una zi. specie di colpo di Stato contro il Di base in tutte le ideologie totalitarie (dove i cittadini di Utovoto dei cittadini. Sul Manifesto del 13 aprile 2011 pia, come scrive Tommaso Moro, scrive, infatti: “Ciò cui io penso si sentono i depositari unici della è… una prova di forza che, con verità, gli arbitri della conduziol’autorevolezza e le ragioni in- ne politica e gli unici autorizzati confutabili che promanano dalla a deporre, anche con i mezzi più difesa dei capisaldi irrinunciabili violenti, qualunque regime didel sistema repubblicano, scenda verso dal loro), l’ho ritrovata in dall’alto, instaura quella che io forma provocatoria e “sfacciata”


PER UN NUOVO CENTRODESTRA Domenico Nania

Il Libro Le regole della macchina del potere Francesco Cossiga Fotti il potere Aliberti 2010, 24 pp., 17 euro Le regole non scritte, i meccanismi profondi, le dinamiche eterne del gioco: per la prima volta un protagonista indiscusso della vita pubblica italiana racconta senza pudore né ipocrisia cos'è e come funziona la politica. Sapientemente indirizzato dal giornalista Andrea Cangini, il presidente Francesco Cossiga mette a nudo il potere e con esso l'uomo che lo incarna. Svela l'arcano, dice l'indicibile, strappa la maschera alla realtà con l'ironia e l'arguzia di chi ha cavalcato lungo le strade impervie della Prima e della Seconda repubblica. Aneddoti, riflessioni, rimandi storici, vere e proprie rivelazioni accompagnano il lettore alla scoperta di verità "scandalose" fino a oggi mai rivelate con tanta schiettezza. La natura del potere, il ruolo del denaro, l'uso dei servizi segreti, la violenza, la guerra, le massonerie, i rapporti tra stati, la religione, il Vaticano, la verità, la finzione, i complotti, il caso, il lato di tenebra dell'uomo e del politico. Il trionfo e la caduta, la vita e la morte.

nelle pagine del libro di Francesco Cossiga, Fotti il potere, editore Aliberti, dove l’autore si dilunga sulla sua natura e le sue logiche, descrive il cinismo allo stato puro, afferma che la menzogna (più della verità) è all’origine della vita e snocciola una serie di verità scandalose mai svelate con tanta schiettezza. A viva voce, l’ho intravista nelle parole che Pino Aprile ha pronunciato a Messina, nell’aprile del 2011, per spiegare agli studenti siciliani che il potere si prende, e non si chiede, anche a costo di quelle violenze di cui è piena la storia del genere umano. Per quanto la realtà spesso si schieri dalla loro parte, credo, con Churchill, che le teste non si rompono, ma si contano, che la circolazione delle élite possa realizzarsi tramite il consenso e che se la democrazia l’ha vinta sulle altre forme di esercizio dell’autorità è perché la conta dei voti non lascia vittime sul terreno. Guai al centrodestra se, con un’opposizione che ragiona cileno, pensando al dopo e cadendo nella trappola di chi s’è inventato il cosiddetto berlusconismo per accusare il premier di un populismo e un cesarismo che non esistono, dimenticasse di lavorare sodo, qui e adesso, per affrontare e risolvere, accanto al Cavaliere, le tante emergenze che assillano il Paese. Chi impegna gran parte dei suoi sforzi immaginando cosa potrebbe succedere nel Popolo della libertà una volta esaurita la leadership berlusconiana, per-

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de tempo inutilmente e sottovaluta i compiti di governo cui è tenuto chi vince una consultazione elettorale ed esercita una funziona pubblica. I governi non si formano per favorire un predestinato o programmare un premier, ma per dare risposte concrete alle difficoltà in atto e alle incognite che addensano l’orizzonte. Una democrazia non vive dall’alto, per investiture e cooptazioni. Non si preoccupa d’indicare eredi. Non vive di delfini designati per grazia ricevuta. Una democrazia si snoda dal basso. Vive di procedure, di congressi e di elezioni. Trova, nelle sue regole, il meccanismo per la circolazione delle élite. I partiti e le società libere, interagendo tra loro, sfornano di continuo classi dirigenti e leader che al momento opportuno sapranno dimostrare numeri e qualità per assolvere il compito di guidare uno schieramento. Si lasci dunque agli anti-Cav la costruzione giornaliera di strategie sul dopo-Cav. Si considerino per quello che sono, rumori di sottofondo, le preoccupazioni di coloro che si lasciano prendere dal panico al pensiero della successione. Si lasci al destino chi scricchiola scervellandosi sul dopo. L’esperienza, anche recente, insegna che chi pensa e ripensa al dopo, comincia distraendosi dal presente, continua abbandonando l’adesso e finisce schierandosi contro. Chi si riconosce nel centrodestra si preoccupi di arricchirlo, anche

con una terza gamba, se serve. Durante, lavori col premier scelto dagli elettori per fare le riforme. Dopo, chi vivrà vedrà. Quando verrà il momento del ricambio, un organismo liberale, una comunità plurale e una società aperta trovano sempre chi ha filo e tesse.

L’Autore domenico nania Vicepresidente del Senato.




PER UN NUOVO CENTRODESTRA Ferdinando Adornato

Prima di tutto superiamo questo sistema malato

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uando sarà il momento per edificare un nuovo centrodestra si potrebbe ripartire da quella Carta dei Valori, redatta dall’Assemblea Costituente della Casa della libertà prima che il famigerato predellino interrompesse il sogno di un grande partito popolare e liberale.

DI FERDINANDO ADORNATO Testo raccolto da ROSALINDA CAPPELLO

Sgomberiamo il campo da un equivoco: il progetto di fondare un nuovo centrodestra non è ormai una questione di stretta attualità. Capisco che amici come Adolfo Urso tornino a riflettere su questo concetto. La rottura con Silvio Berlusconi, infatti, è avvenuta su punti essenziali dell’identità e della storia del centrodestra italiano e quindi è coerente e logico insistere nel rivendicare la giustezza delle proprie tesi. Ma il fatto è che pensare a un nuovo centrodestra significa accettare l’idea che il bipolarismo italiano abbia funzionato e funzioni. Non è così. Il nostro sistema bipolare – così come la seconda Repubblica – è fallito. Non è stato l’approdo a una matura democrazia occidentale, piuttosto si è rivelato come la forma politica di una nuova guerra civile ideo-

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logica tra gli italiani. Quando la prima Repubblica giunse al capolinea erano aperte quattro questioni per affrontare le quali si riteneva fondamentale l’affermazione della democrazia dell’alternanza. La questione della modernizzazione economica (la “rivoluzione liberale”), la questione della modernizzazione istituzionale, quella della risoluzione del conflitto politica-magistratura, infine la questione del perdurante squilibrio tra il Nord e il Sud del Paese che l’avanzare della Lega aveva fatto riesplodere. Ebbene, nessuna di codeste questioni è stata portata a soluzione con il bipolarismo. Di più: se è possibile, la seconda Repubblica le ha rese ancora più gravi. Tanto che oggi siamo di fronte a una nuova crisi di sistema che pretende di superare questo bipolarismo italiano.


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Intendiamoci: non ho nulla con- mo proceduto confusamente: tro il bipolarismo in sé, anzi a scosse, provvedimenti tampone, me piacerebbe un sistema bipar- norme non uniformi tra loro a lititico. Da un lato un partito alla vello nazionale e locale. Occorre Cdu, dall’altra uno alla Labour. invece mettersi tutti intorno a un Ma è inutile fantasticare: in Ita- tavolo a discutere in maniera colia non c’è nulla di tutto questo. struttiva per realizzare un sistema Ecco perché non è corretto parla- ragionevole. Oggi l’Italia, dal re di nuovi centrodestra o centro- punto di vista sistemico, è sosinistra se prima non saremo in stanzialmente un Paese in fase di grado di superare l’attuale siste- anarchia e dal punto di vista polima. Un domani forse occorrerà tico, è dominato da bande di olitornare a porsi il problema, ma garchie in lotta le une contro le oggi occorre scardinare le radici altre. Bisogna cambiare strada: di un quadro politico che produ- altrimenti l’Italia muore. Solo ce solo il drammatico combinato dopo che saremo riusciti a voltar pagina potremo disposto di un’alta vedere se l’esito del conflittualità isti- L’Italia è in una fase lavoro comune ci tuzionale e di un paralizzante im- di anarchia e la politica porterà finalmente verso un bipolarimobilismo. è dominata da bande smo virtuoso. Per superare queMa, ripeto, non è sta fase occorre oligarchiche in lotta l’obiettivo dell’ogporsi due traguar- le une contro le altre gi. Ma siccome di: l’evoluzione politica di un Terzo Polo che Charta Minuta mi chiede comunchieda ai cittadini di dare forza a que di partecipare a un gioco di un’alternativa di sistema e la na- simulazione, ci sto. Quando sarà scita di un “clima costituente” sia il momento per edificare un nuodal punto di vista istituzionale vo centrodestra si potrebbe riparche da quello del governo. La cri- tire da quella Carta dei Valori, si dello Stato, infatti, che oggi si redatta dall’Assemblea Costisomma a quella economica, socia- tuente della Casa della libertà le e morale, rende indispensabile prima che il famigerato “predeluna nuova stagione di unità degli lino” interrompesse il sogno di italiani da tradurre da una parte costruire un grande partito poin un governo di responsabilità polare e liberale. In quella Carta nazionale che faccia fronte alle ri- ci sono gli elementi essenziali forme necessarie, molte delle per una formazione di centrodequali impopolari e per questo bi- stra: c’è l’ispirazione cristiana, sognose di un consenso larghissi- temperata da un forte senso della mo. E dall’altra di una sorta di laicità del partito e da una visioAssemblea Costituente che ridi- ne non strumentale dei rapporti segni l’architettura istituzionale con la Chiesa, diversamente da in modo condiviso. Finora abbia- ciò che attualmente fa Berlusco-


PER UN NUOVO CENTRODESTRA Ferdinando Adornato

ni. C’è l’idea della rivoluzione liberale che è stata completamente abbandonata. C’è il progetto di un nuovo welfare capace anche di tutelare le persone non inserite in modo organico nel mercato del lavoro, un’evoluzione della legge Biagi per non trasformare la flessibilità in precarietà. C’è ben delineato il quadro della collocazione internazionale e occidentale dell’Italia, non certo costretta al legame con Putin e Gheddafi nelle alleanze internazionali. C’è il discorso del necessario compimento dell’unità nazionale mai compiuta. Ci sarebbe forse da aggiungere un capitolo sul Mediterraneo, attualizzando la Carta rispetto alle novità della primavera araba: ma per il resto i filoni principali sono ancora lì, a disposizione di chi volesse – quando sarà – costruire un nuovo centrodestra. Il centrodestra è stato ucciso da Berlusconi, dall’inganno storico che egli ha perpetrato nei confronti del Paese. Questo vuol dire che avergli dato credito sia stato un errore? Non lo credo, penso che nell’Italia di allora, nella quale erano stati distrutti tutti i partiti della prima Repubblica, c’era da coprire un vuoto e una persona che con le sue caratteristiche avrebbe potuto cambiare il Paese. Purtroppo non l’ha fatto, ha omesso di soccorrere il Paese per risollevare il quale aveva chiesto voti, precipitando l’Italia in una situazione drammatica. Berlusconi, alla lunga, da chance è diventato un pericolo per il Paese. A partire dal 2005-2006 il

suo istinto fino ad allora rivolto al cambiamento, si è trasformato in una mera sensibilità di potere, dando luogo a evidenti fenomeni di degenerazione. Il predellino ne è stata la rappresentazione fotografica e ha interrotto bruscamente il lavoro che avevamo intrapreso per formare un grande partito popolare, liberale di centrodestra che rappresentasse l’evoluzione della Casa della libertà. Berlusconi, invece, decise di riproporre per altre vie la seconda edizione di un partito carismatico e personale e interruppe il processo. Come Crono ha mangiato i suoi figli, lui ha divorato il centrodestra. Ora bisogna andare oltre Berlusconi. È inspiegabile, da questo punto di vista, che l’insieme della classe dirigente di Forza Italia e gli ex An del Pdl non capiscano la gravità della situazione e continuino a permanere in un quadro ormai decomposto. Non si capisce perché gente capace, che ha una sua dignità politica, accetti di continuare a rimanere nella maggioranza fuori da ogni speranza. Così, il tramonto del berlusconismo rischia di diventare anche il tramonto di un’intera classe dirigente.

L’Autore ferdinando adornato Deputato dell’Udc e presidente della fondazione Liberal.

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PER UN NUOVO CENTRODESTRA Federico Eichberg e Bruno Tiozzo

Un traguardo per il Ppe

Europa, primi passi per una politica estera Ancora non esiste un numero unico di telefono per chiamare l’Europa come sognava Kissinger, ma finalmente con l’approvazione del Trattato di Lisbona è stato creato il Pesc per coordinare tutti gli Stati. DI FEDERICO EICHBERG E BRUNO TIOZZO

Con l’approvazione del Trattato di Lisbona e la creazione del Servizio europeo di azione esterna (Seae) guidato dal vice presidente della Commissione europea, Catherine Ashton, comincia lentamente a prendere forma un coordinamento della politica estera dell’Unione europea, anche se siamo ancora lontani dal “numero unico di telefono per parlare con l’Europa” auspicato a suo tempo da Henry Kissinger. Il “traguardo” tagliato a Lisbona con la creazione di Mme Pesc pone una serie di interrogativi rispetto alle potenzialità ed all’effettività delle nuove funzioni previste. In particolare grandi aspettative accompagnano la creazione di una figura realmente “di sintesi” sui grandi dossier di politica estera, in cui, troppo spesso, si è dovuta registrare una polifonia ai limiti della cacofonia (e certamente dell’inefficacia). E questo destino di “spazio continentale” incapace di trasformarsi

in “potenza mondiale” si basa sulla supina accettazione del non utilizzo di una leva che trae alimento dalla credibilità e dall’autorevolezza, unite al peso economico europeo: l’Ue è il primo esportatore e il secondo importatore mondiale di merci e il primo importatore ed esportatore mondiale di servizi; la principale fonte di investimenti esteri diretti a livello globale e il secondo maggiore beneficiario di investimenti esteri dopo gli Stati Uniti; il principale mercato di esportazione per circa 130 paesi. Eppure, per anni, l’inefficacia è stata la cifra della proiezione esterna. Inefficacia figlia di una politica estera centrata sulle capitali, in ultima analisi incapacitante – sulla base di veti, giochi al ribasso ed egoismi (il costo della non Europa). Una politica assolutamente inattuale, nel momento in cui prendeva forma attorno al vecchio continente un triangolo nefasto formato da campioni del-

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l’alta tecnologia (Usa), campioni più importanti democrazie isladel potere energetico (Russia) e miche (Indonesia, Malesia), il campioni della competitività nel canale artificiale più importante costo del lavoro (Cina e India) del mondo (Panamà), e infine che relegava l’Ue (rectius i paesi l’ex superpotenza egemone glomembri) ad un evidente rischio bale. Oltre ad un sistema di sodi irrilevanza a livello internazio- stegno tutto sommato autorefenale (e, conseguentemente, di te- renziale “credito cinese – consunuta interna). Il crescente ruolo mi americani”. Insomma un siglobale, in particolare di Pechi- stema che sembra preludere al no, sia direttamente rispetto agli temuto G2 (Chimerica). Usa (con ingenti investimenti Riuscirà il “sistema Lisbona”, la sul debito di Washington) sia in- figura dell’Alto Rappresentante direttamente in aree di interesse per la Pesc a superare questa imstrategico americano (a comin- passe europea? Come rendere più ciare dal patio tresero statuniten- efficace possibile il nuovo processo decisionale? se, ovvero l’AmeQuali priorità per rica Latina, fino Occorre “più Europa” l’azione esterna? all’Africa subsahaIl salto di qualità riana ed al vecchio e meno egoismi heartland centroa- nazionali per rimediare istituzionale non coglie impreparato siatico di Halford il Partito popolare Mackinder, tutte alle carenze dell’Ue europeo (Ppe). La aree oggi massic- in politica estera più grande ed anciamente penetrate dalla Cina) ha ristabilito prio- tica delle formazioni politiche rità extraeuropee per Washin- transnazionali dell’Ue ritiene ington. Oggi in termini di rilevan- fatti da sempre che la linea za il trans-Pacific link è realtà espressa da una forza politica eumentre il trans-Atlantic link è il- ropea debba essere qualcosa di lusione ottica. Da Washington più alto e nobile della mera soml’Europa appare un fronte neces- matoria delle singole posizioni sario ed inevitabile, ma privo di nazionali (Thomas Jansen: The opportunità e di movimento ri- European People’s Party: Origins spetto al Pacifico. Il sistema and Development. Epp, Bruxelles strategico del Pacifico è impor- 2006. p.89). Ciò vale anche in tante perché – come ricordato un campo come quello delle relanel rapporto Nomos et chaos – vi zioni esterne, tradizionalmente si affacciano: i tre più importan- ritenute una prerogativa delle diti membri del Consiglio di Sicu- plomazie nazionali. Proprio in rezza, due dei più importanti questi giorni il capogruppo del consumatori d’energia del piane- Ppe al Parlamento europeo, Jota (Usa, Cina), le uniche due po- seph Daul, in un dibattito con tenze capaci di distruggere anco- Catherine Ashton, ha ribadito ra oggi il globo, due fra le tre che occorre “più Europa” e meno


PER UN NUOVO CENTRODESTRA Federico Eichberg e Bruno Tiozzo

FOCUS

Il Ppe dal 1976 a oggi Il Partito popolare europeo (Ppe) è un partito politico transnazionale e paneuropeo fondato nel 1976. Il Ppe è composto da partiti nazionali d’ispirazione democristiana e liberalconservatrice di tutti Paesi dell’Unione europea e di paesi europei non facenti parte la comunità, considerati non membri, ma associati od osservatori. Secondo fonti ufficiali, il Ppe si definisce una famiglia di centrodestra, che si inserisce nell’alveo della tradizione democristiana e centrista europea, con radici profonde nella storia della stessa Europa. A partite dagli anni Novanta il Ppe da raggruppamento dei democratici cristiani diviene il raggruppamento del centrodestra europeo, allargandosi a partiti conservatori e liberali e ai principali partiti europei di centrodestra. Suo presidente è il belga Wilfried Martens, riconfermato al Congresso Ppe del 2009 a Bonn. Con la creazione della Comunità europea del Carbone e dell’Acciaio nel 1951, al suo interno si forma anche un organo assembleare composto da delegati eletti dai parlamenti nazionali, i quali delegati dal 1953 si organizzano in gruppi parlamentari. Il 23 giugno del 1953 si forma ufficialmente il Gruppo Democratico Cristiano, composto dai partiti democristiani di Germania Ovest, Francia, Italia, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo. Le Nouvelles Equipes Internationales nel 1965 diventano l’organizzazione Unione europa dei Democratici Cristiani (Eucd). Suo primo presidente è l’italiano Mariano Rumor e suo primo segretario generale è il belga Leo Tindemans. Nel 1976 gli italiani della Democrazia cristiana, i tedeschi dell’Unione cristiano democratica e dell’Unione cristiano sociale di Baviera, i francesi del Cds, i belgi del Partito cristiano sociale, gli olandesi dei Arp, Chu, Kvp, i lussemburghesi del Partito cristiano sociale e gli irlandesi del Fine Gael fondano il primo partito transnazionale europeo, il Partito Popolare Europeo; il gruppo al parlamento europeo cambia nome in Gruppo democratico cristiano (Gruppo del Partito popolare europeo) nel marzo del 1978. Durante gli anni novanta e successivamente nel primo decennio del 2000, rispondendo a un’idea del democristiano tedesco Helmut Kohl, il Partito popolare europeo si è aperto a partiti di ispirazione liberale e conservatrice, politicamente allargandosi verso destra. Aderiscono infatti al Ppe sia partiti laici e liberali di destra quali Forza Italia, Piattaforma civica, Partito social democratico, Fidesz che partiti di destra democratica quali il Partito Popolare spagnolo, Ump francese, Nuova Democrazia greco, Kok finlandese, mentre il Partito Conservatore si limita ad un'alleanza esterna. Infatti dal 1999 fino al 2004 si è alleato con i Democratici europei, raggruppamento conservatore animato dal Partito Conservatore britannico, dando vita al Parlamento europeo al gruppo parlamentare del Partito popolare europeo - Democratici europei (Ppe-De). Nel luglio del 2009 il suo gruppo al Parlamento Europeo torna a chiamarsi Gruppo del Partito popolare europeo con l'uscita del Partito Conservatore britannico e il Partito democratico civico ceco, ma si conferma come il più numeroso.

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egoismi nazionali per rimediare da subito si schierò con decisione alle carenze dell’Ue in politica in favore della riconciliazione estera, sicurezza e difesa (Europe’s con “l’altra Europa” (per usare Foreign Policy needs less national un’espressione di Predrag Matvegoisms and more efficiency. Press jeievic) e la piena integrazione release Joseph Daul, Mep. delle ex-dittature comuniste nella Comunità europea. 11.05.2011. www.eppgroup.eu) Nei primi 15 anni successivi alla Nella sezione dedicata alle politisua fondazione nel 1976, bisogna che di sicurezza e difesa, il proammettere che la proiezione in- gramma di Atene denunciò la ternazionale dell’Europa non riapparizione di conflitti etnici rientrava tra le priorità del Ppe. nei Balcani e nell’ex Urss in seLa situazione cambiò tuttavia nei guito alla fine della contrapposiprimi anni novanta in seguito al- zione delle super potenze. Fu anla fine della Guerra Fredda con la che molte previdente a paventare, caduta della cortina di ferro e quasi 20 anni fa, “una maggiore instabilità” nel l’evoluzione dell’allora Comunità A livello internazionale Medio Oriente e l’Africa settentrioeconomica euronale dovuta alla p e a ( C e e ) n e l- il continente è ancora crescita demografil’Unione europea troppo debole ca della regione e (Ue). Per il Ppe, la sempre maggioche negli anni e divisa per i troppi re attrazione di precedenti aveva interessi nazionali gruppi integralisti. mantenuto un impegno costante in favore di Come risposta alle nuove minacce un’Europa federale e sempre più veniva auspicata una difesa counita, fu quindi un passo natura- mune europea (per il 1998), le schierarsi subito per una pre- strettamente legata alla Nato. senza europea più forte anche a Agli Stati Uniti veniva riconosciuto un legame particolare, fonlivello internazionale. dato sulla condivisione degli stessi valori, con l’auspicio di arrivare Il programma di Atene del 1992 Nel programma di base del Ppe, a un “partenariato paritario”. adottato dal IX congresso svolto- Altre priorità di politica estera si ad Atene nel novembre 1992, ribadite nel documento protre sezioni vengono dedicate ad grammatico del’92 furono l’adealtrettanti segmenti della politica sione all’approccio multilaterale estera (il processo di allargamen- negli accordi internazionali, la to, la politica di sicurezza e la promozione dei diritti umani, l’impegno per la cooperazione alproiezione globale dell’Europa). Per quanto riguarda l’allarga- lo sviluppo e il rafforzamento mento, o più correttamente la delle Nazioni Unite. riunificazione del Vecchio conti- Le tesi congressuali di Atene funente, c’è da rilevare che il Ppe rono poi alla base anche del ma-


PER UN NUOVO CENTRODESTRA Federico Eichberg e Bruno Tiozzo

nifesto elettorale del Ppe in vista to (con l’adozione dell’Euro, l’avdel voto per il rinnovo del Parla- vio della Strategia di Lisbona mento europeo nel 1994. Si trat- sull’economia della conoscenza e tava delle primo voto europeo in il travagliato processo costituzioseguito al crollo del muro di Ber- nale). Bisogna anche ricordare lino e il programma elettorale che in quel periodo (gli ultimi (denominato “Europa 2000: anni del ventesimo secolo), i parUnità nella diversità”) si apriva titi di centrodestra si trovavano con due capitoli (su sette) dedi- all’opposizione nei principali cati al ruolo dell’Ue nel mondo. Stati membri dell’Ue (Francia, (Jansen, p.142). Si constatava che Germania, Italia, Regno Unito). la fine della contrapposizione tra Nel programma d’azione adottaEst e Ovest aveva alterato per to dal XVI congresso Ppe, svolsempre i contenuti della politica tosi a Bruxelles nel febbraio internazionale e che adesso si 2004, un’ampia sezione viene inprefigurava una reale possibilità fatti dedicata agli aspetti della sicurezza mondiadi estendere la lile in seguito albertà e la democra- Il Ppe è convinto che l’inizio della guerzia a tutti i popoli ra contro il terrodell’Europa. Di l’Ue debba parlare rismo di matrice conseguenza si ri- con una voce sola jihadista. Si apchiedeva il sosteprova quindi la ligno per dare il ne- in politica estera e cessario sostegno in quella della sicurezza nea statunitense per permettere economico e politico alle nuove democrazie del- agli europei di salvaguardare il l’Europa centro-orientale e per proprio modello democratico e elaborare una politica comune sociale. Viene inoltre riconosciueuropea in materia di sicurezza e ta la legittimità di interventi midifesa, anche per evitare che litari promossi dalla Nato nelle l’Europa si trovasse di nuovo im- (purtroppo allora ricorrenti) conpreparata dinnanzi a conflitti co- dizioni di stallo del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. me quelli nell’ex Iugoslavia. La svolta degli anni 2000

L’interesse del Ppe per le tematiche di politica internazionale finì poi, di nuovo, in secondo piano per i successivi 10 anni quando l’attenzione nei congressi e i documenti ufficiali tendeva a dare risalto, innanzitutto, all’estensione dell’Unione (con i tre grandi allargamenti del’95, del 2004 e del 2007) e il suo consolidamen-

Forte per i cittadini – il documento elettorale del 2009

Nel documento “Forte per i cittadini” approvato dal XVIII congresso del Ppe, che ha avuto luogo a Varsavia nell’aprile 2009, in vista delle ultime elezioni europee un intero capitolo analizza i vari aspetti della politica estera. Il testo desta un particolare interesse in quanto il Ppe ormai è la

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FOCUS

Il viaggio dell’Unione: da Maastricht a Lisbona

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Da semplice organizzazione internazionale, l’Unione europea, nel corso degli anni, ha gradualmente acquisito numerose prerogative tipiche di una federazione, con il progressivo trasferimento di poteri e di sovranità dagli Stati membri agli organismi comunitari. Essa si fonda tuttora su trattati internazionali recepiti a livello interno da tutti gli Stati membri ma ha assunto personalità giuridica propria. Attualmente l’Unione europea si basa su due trattati fondativi: il Trattato sull’Unione europea (Tue), (detto anche “Trattato di Maastricht”) e il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (Tfue), (detto anche “Trattato di Roma”), recentemente modificati dal Trattato di Lisbona. A questi si aggiungono il Trattato Euratom e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea il cui valore vincolante è stato deciso proprio dal Trattato di Lisbona. Il problema della definizione dell’attuale status giuridico dell’Unione sfociò, il 29 ottobre 2004, nella firma, a Roma, del Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa, comunemente noto come Costituzione europea. Tale testo ribadiva la possibilità di una cooperazione rafforzata per la promozione di iniziative di integrazione tra gruppi di Paesi, già prevista nel trattato di Amsterdam e in quello di Nizza. Un nuovo trattato era stato richiesto dal Consiglio europeo attraverso la Dichiarazione di Laeken poiché il funzionamento delle istituzioni comuni, era ritenuto inadatto alla coesistenza di ben 27 stati membri, ciascuno dei quali con diritto di veto in aree fondamentali della politica comune. Il processo di ratifica della Costituzione venne, tuttavia, interrotto il 29 maggio 2005 con un referendum popolare in cui il 54,7% dell’elettorato francese ha scelto di non sottoscrivere il Trattato; pochi giorni dopo, il 1 giugno, anche la popolazione dei Paesi Bassi si dichiarò contraria all’introduzione del Trattato. Sebbene 18 stati membri avessero recepito il documento, prevalentemente per via parlamentare, la c.d. Costituzione europea non entrò in vigore. Dopo il “periodo di riflessione” durato due anni, il cancelliere tedesco Angela Merkel decise di rilanciare il processo di riforma con la Dichiarazione di Berlino del 25 marzo 2007, in occasione dei 50 anni dell’Europa unita, in cui venne espressa la volontà di sciogliere il nodo entro pochi mesi al fine di consentire l’entrata in vigore di un nuovo trattato nel 2009, anno delle elezioni del nuovo Parlamento europeo. Si svolse, così, sotto la presidenza tedesca dell’Unione il vertice di Bruxelles tra il 21 e il 23 giugno 2007 nel quale si arrivò ad un accordo sul nuovo trattato di riforma. L’accordo recepiva gran parte delle innovazioni contenute nella cosiddetta Costituzione, anche se con alcune modifiche al fine di rendere meno evidente il carattere per così dire “costituzionale” del vecchio testo, pur ribadendo pressoché tutti i meccanismi introdotti con il predetto testo, ed in più aggiungendo la facoltà per alcuni paesi di “chiamarsi fuori” da politiche comuni. Dopo la conclusione della conferenza intergovernativa che finalizzò il nuovo testo, il trattato di Lisbona venne approvato al Consiglio europeo del 18 e 19 ottobre 2007 proprio in tale città e firmato il 13 dicembre dai capi di Stato e di governo. Il trattato è stato ratificato da quasi tutti gli Stati firmatari, prevalentemente per via parlamentare, nel corso del 2008.


PER UN NUOVO CENTRODESTRA Federico Eichberg e Bruno Tiozzo

forza politica dominante dell’Ue guarda l’auspicio di una singola al momento esprimendo i suoi rappresentanza Ue nelle organizprincipali esponenti istituzionali zazioni internazionali. (Presidente della Commissione, L’Ue dovrebbe comunque scrollarPresidente del Parlamento, Pre- si da dosso l’immagine di una “susidente del Consiglio europeo, per Ong”, per meglio affrontare le Presidente di turno del Consi- sfide del terzo millennio e portare glio, la maggioranza dei capi di avanti gli interessi europei. A tal fine, sottolinea il documengoverno degli Stati membri). Il capitolo, denominato “Un’Eu- to, è anche importante prestare ropa unita sulla scena mondiale” maggiore attenzione ai valori conparte dalla convinzione impegna- divisi in occasione di futuri allartiva che l’Europa debba parlare gamenti dell’Unione. A differenza ad una voce sola. Non si tratta di dei precedenti documenti proun tentativo di ingegneria istitu- grammatici viene evidenziato che zionale per strappare delle prero- non sarà solo necessario valutare il rispetto dei criteri gative dalle canpolitici ed econocellerie nazionali. L’Ue deve scrollarsi mici da parte degli La ferma convinStati candidati. zione del Ppe è in- da dosso l’immagine Bisogna infatti tevece che gli stessi di una “super Ong” ner conto anche cittadini europei si della capacità euaspettano un’Euro- per affrontare le sfide ropea di proseguipa più forte e coesa del terzo millennio re nel processo di nel mondo, e che molti di loro nutrano una mag- integrazione e di conseguenza giore fiducia nei confronti del- vengono ipotizzate anche altre l’azione politica estera comune forme di adesione per non rallenpiuttosto un quella del proprio tare il processo di integrazione. Una linea di cautela che viene governo. Il Ppe riconosce che l’Ue negli condiviso anche da un recente liultimi anni, con lo sviluppo del- bro bianco sull’operato e le priola Politica estera e di sicurezza rità in politica estera del gruppo comune (Pesc), ha compiuto dei Ppe al Parlamento europeo (More passi importanti nella direzione Europe is the answer: Foreign Afdi una voce più coesa sulla scena fairs priorities for 2011, Epp, Brumondiale. Non è tuttavia suffi- xelles 2011). Gli europarlamenciente. Si riconosce che il ruolo tari Ppe precisano infatti che ocdell’Ue, nelle situazioni di crisi e corre trovare una via di mezzo negli organi internazionali, è an- tra la politica delle porte aperte cora quello dello spettatore pas- verso qualsiasi Paese richiedente sivo, piuttosto che del protagoni- e la difesa dell’identità culturale sta propositivo. Il testo è però europea. meno esplicito rispetto al docu- Viene riaffermata la comunità di mento del 2004 per quanto ri- valori e interessi tra Europa e

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Stati Uniti nella lotta per rafforzare la libertà, la democrazia, i diritti umani, lo stato di diritto e le regole dell’economia di mercato. Si auspica anche un rafforzamento del lato politico del partenariato transatlantico e la realizzazione, entro il 2015, di un mercato transatlantico. Più problematico il rapporto con la Russia. Si riconosce infatti nel testo che non sia possibile pretendere che gli obiettivi strategici di Mosca combacino con quelli dell’Europa. Ciò nonostante resta indispensabile un rapporto di buon vicinato e cooperazione, che tuttavia non induca a tacere la critica verso lo stato della democrazia in Russia e il suo comportamento verso i Paesi dell’Europa orientale e del Caucaso. La coesistenza pacifica tra l’Ue i suoi vicini deve infatti basarsi sul rispetto delle regole internazionali, sul riconoscimento dei confini e sul diritto per ogni Paese di scegliere liberamente alleanze e partner internazionali. Il “Processo di Barcellona: Unione per il Mediterraneo” viene definito, insieme al Partenariato orientale, un quadro di riferimento per la politica di vicinato. Il gruppo parlamentare riconosce invece, nel suo documento, che i “risultati del progetto Euromed finora sono stati molto modesti” e che bisogna rafforzare la cooperazione con i Paesi della sponda sud del Mediterraneo tramite politiche più coerenti ed efficaci. Un interessante spunto di riflessione al riguardo delle democrazie emergenti nel Medio Oriente

e nel Maghreb viene dal documento “Il mondo nel 2025” presentato dall’European Ideas Network (Ein), la rete dei think-tank legati al gruppo Ppe. Viene infatti auspicato l’emergere di una “Democrazia islamica” sul modello dei partiti europei d’ispirazione cristiana, per riconciliare la fede religiosa e dei principi politici rispettosi verso i diritti degli altri nonché favorevoli a un governo costituzionale. Un percorso finora tentato da Erdogan in Turchia e dal partito Istiqlal nel Marocco. Tornando al manifesto Ppe, rimane la fiducia nel multilateralismo, il libero commercio e le organizzazioni internazionali, dall’Onu al Fondo monetario internazionale passando per l’Omc (anche se questi devono migliorare la propria capacità di affrontare i nuovi problemi mondiali dalla protezione ambientale alla gestione dei flussi migratori e le materie prime, oltre alle norme etiche comuni per la ricerca scientifica e il corretto funzionamento dei mercati finanziari). Infine vengono formulate sette obiettivi prioritari per la politica estera dell’Ue: Sviluppare una relazione transatlantica salda e compatta; Consolidare l’area di pace europea; Lottare contro ogni forma di terrorismo; Prevenire lo scoppio di nuove guerre fredde; Migliorare le condizioni per una globalizzazione sostenibile basata sullo stato di diritto, un multilateralismo effettivo e il libero mercato; Intensificare la cooperazione mondiale allo svi-


PER UN NUOVO CENTRODESTRA Federico Eichberg e Bruno Tiozzo

luppo; Consolidare le organizzazioni internazionali. Il gruppo parlamentare ricorda anche, sotto la sezione dedicata alla promozione dei diritti umani nel mondo, la tutela dei diritti delle minoranze cristiane perseguitate. Sempre nel documento del gruppo viene auspicata una posizione inequivocabile nei confronti di Paesi dove il rispetto per i diritti umani resta precario, come la Russia e la Bielorussia (oltre alla Cina, Cuba, Corea del Nord, Myanmar ed Iran). Anche in occasione dell’ultimo congresso Ppe, a Bonn nel dicembre 2009, è stata approvata una risoluzione in cui si esprime preoccupazione per la situazione dei diritti umani in Bielorussia e piena solidarietà con l’opposizione democratica.

Partito repubblicano statunitense tramite l’International republican institute (Iri) e ormai si svolgono regolarmente degli incontri bilaterali tra delegazioni del Ppe e del Gop. Proprio questi “esercizi” di confronto e di dialogo dovrebbero allontanare lo spettro della riedizione aggiornata della battuta di Kissinger. “Si è vero, l’Europa ha finalmente un numero di telefono unico. Però risponde una segreteria che dice «se volete parlare con Berlino, premere 1; se volete parlare con Parigi premere 2; se volete parlare con Londra…»”. 81

Coordinamenti

Oltre alla linea politica estera stabilita dai congressi del Ppe e dai vertici dei leader di partito, esiste dal 2007 un coordinamento dei ministri degli Esteri, che si riuniscono in vista dei Consigli di Affari Esteri (Cae). Attualmente il gruppo è guidato da Franco Frattini. Gabriele Albertini è Presidente della Commissione Affari Esteri (Afet) al Parlamento europeo è all’interno del gruppo parlamentare Ppe c’è un gruppo di lavoro sulla politica estera presieduto dall’europarlamentare cipriota Ioannis Kasoulides. A livello internazionale, il Ppe ha negli ultimi anni lavorato per stabilire un dialogo con il

L’Autore federico eichberg Direttore relazione internazionali della Fondazione Farefuturo. Ha scritto Il domani appartiene al Noi insieme ad Angelo Mellone. bruno tiozzo Autore di numerosi articoli per riviste come Charta minuta, Con, Imperi e Millennio. Lavora come esperto per il ministero delle Politiche comunitarie.



PER UN NUOVO CENTRODESTRA Domenico Naso

Una BUSSOLA per la destra del futuro

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ensare ad un centrodestra sganciato dagli antichi pregiudizi mediante un approccio laico, positivo ed europeo che si occupi di integrazione, cittadinanza e diritti civili e permetta una coerente evoluzione

DI DOMENICO NASO

Negli ultimi mesi, il centrodestra italiano è sprofondato in interminabili e sterili polemiche tra le varie anime, dedicandosi a dispetti e ripicche reciproche piuttosto che a una elaborazione coerente e moderna del programma dell’Italia che verrà. E pensare che fino agli strappi dello scorso anno tra Pdl e finiani, c’era stato chi aveva contribuito notevolmente al rinnovamento dei punti di vista dei liberalconservatori italiani in chiave europea, laica e contemporanea, spiazzando alcuni duri e puri restii a ogni forma di adeguamento ai tempi che stiamo vivendo e, dall’altro lato, instillando in molti altri la speranza concreta che anche in Italia un’altra destra è possibile. I temi al centro della rielaborazione ideale e programmatica sono stati fondamentalmente tre: immigrazione e nuova cittadinanza, diritti civili e laicità positiva.

Per quanto riguarda il sempre attuale (e strumentalizzato) tema dell’immigrazione, negli ultimi anni la Fondazione Farefuturo ha tentato, con successo, di superare vecchi pregiudizi propri di una certa destra, occupandosi con pragmatismo di un fenomeno che non è eludibile, che va affrontato e regolato, che segnerà il futuro del pianeta e che porta con sé una serie di problematiche collaterali che non possono essere sottovalutate. Prima fra tutte la cittadinanza, ormai non più considerabile un idolo totemico da preservare contro i malevoli influssi dello “straniero”, dell’altro. Nel paper Immigrazione integrata e cittadinanza di qualità, curato da Valentina Cardinali per Farefuturo, si affronta l’argomento sottolineando l’assoluta necessità di un cambiamento di rotta nei confronti del concetto di cittadinanza. “La cittadinanza – si legge

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nel paper – è un elemento im- essere adeguata ai tempi odierni: portante ai fini dell’integrazione. “In Italia, la cornice entro cui si Non è la chiave ma costituisce definiscono i limiti della conviun pilastro. La cittadinanza da venza, e quindi della cittadinanun punto di vista formale com- za, è definita dai principi cardine porta l’acquisizione di diritti ci- del nostro Stato (pluralismo, laivili, sociali, politici. Tuttavia, la cità dello Stato, rispetto delle licittadinanza formale non serve se bertà e dei diritti inviolabili non c’è la cittadinanza sostanzia- dell’uomo e del cittadino, a cui si le. Essere cittadini, infatti, non associano la tolleranza liberale, la significa soltanto fruire di diritti solidarietà e l’affermazione dele beni soggettivi ma anche di l’uguaglianza di opportunità). Il impegnarsi a contribuire alla lo- rispetto di questi principi fonro produzione. Non rispettare danti, della Costituzione e delle questa regola significa alimenta- leggi, il possesso dei requisiti re la cittadinanza differenziata previsti dalle norme per la concessione della citche è propria del tadinanza, la dimulticulturalismo Iniziamo dal concetto mostrazione della dannoso. […] Afconoscenza e della frontare il tema di cittadinanza: condivisione della cittadinanza urge una dialettica dell’humus italiano significa anche sono tutti elemenporsi il problema costruttiva sul della ridefinizione fenomeno immigrazione ti chiave per potersi definire “cittadidi regole di convivenza tenendo conto che esiste no”. Cinque anni di residenza e oggettivamente una iniqua di- condizione legale per gli adulti stribuzione delle risorse, che non possono essere un tempo condipende da ragioni o attributi di gruo, anche per votare. Il voto è carattere etnico e culturale, ma un esercizio di partecipazione dal fatto che esiste una differenza politica che in Italia si associa aldi status tra ospiti e ospitanti”. la capacità giuridica, ossia alla Fin qui l’analisi della situazione condizione riconosciuta dall’ordie delle problematiche, una foto- namento come maturità anagragrafia non certo luminosa di co- fica per esercitare il proprio dime l’Italia affronti l’ondata mi- ritto. Uno ius soli temperato a fagratoria e, soprattutto, di come vore dei figli di immigrati può regoli l’inclusione dei newcomers rappresentare un orizzonte auspinella comunità nazionale. Cosa cabile e ragionevole”. Ecco, dunfare, allora, per ridefinire il con- que, il triplo salto in avanti della cetto di cittadinanza e curare i proposta di Farefuturo: cittadimali atavici dell’accoglienza ita- nanza in cinque anni, diritto di liana? Il paper tratteggia una voto e cittadinanza automatica proposta concreta su come la leg- per i figli di immigrati anti sul ge sulla cittadinanza dovrebbe territorio italiano. Una cittadi-


PER UN NUOVO CENTRODESTRA Domenico Naso

nanza di qualità che, lungi dall’essere un semplice adempimento burocratico, diventa un elemento che contribuisce a realizzare l’integrazione tra immigrati e autoctoni, nel quadro di un’identità nazionale ed europea rispettosa delle proprie radici ma necessariamente evolutiva. L’Italia a chi la ama, dunque, diviene il concetto cardine del nuovo approccio alla problematica. Un salto di qualità nelle posizioni tradizionali della destra italiana che affronta con pragmatismo e modernità un fenomeno assolutamente centrale nello sviluppo futuro della nostra società. Altrettanto centrale, nell’elaborazione culturale di quel laboratorio politico che è Farefuturo, è il tema della laicità. Una laicità “positiva” che superi la dicotomia tra confessionalismo cieco e laicismo furibondo, che crei un legame di rispetto reciproco tra Stato e religione, senza dimenticare l’assunto basilare di una laicità statuale che non può essere in nessun modo intaccata. Tra gli altri, Federico Eichberg ha affrontato il tema nel n. 1/2010 di Charta minuta, tracciando i confini di questo nuovo approccio alla religione nella cosa pubblica. “I due poli (la religione come ideologia politicoidentitaria da un lato e l’assioma della libertà dalla religione dall’altro), – scrive Eichberg – risultato della degenerazione ideologica post 11 settembre, sono lo specchio simmetrico di una corsa dissennata all’abbandono della ragione. […] Il Cristianesimo,

Il Libro Percorsi possibili di cittadinanza Città e civiltà Franco Angeli 2009, euro 16,00 Il volume approfondisce, nell’ambito degli studi sulla società multic u l t u ra l e , l e modificazioni intervenute nella città e nel modo di concepire l’insieme di problemi che da tempo i commentatori racchiudono nell’espressione politiche per il riconoscimento dei diritti. Le città, che in passato furono le custodi delle nostre appartenenze identitarie, possono ora sembrarci i luoghi di attraversamento per individui ubiquitari che le vivono come lo spazio urbano per i propri negozi o la meta per gli ozi e di rado le considerano il deposito delle tradizioni con cui fare i conti attraverso forme di cittadinanza attiva. Ma anche al di fuori della città, il paesaggio del mondo viene modificandosi così da rendere necessaria una geografia umana del globo che tenga conto della precarietà che minaccia gli stati-nazione, dell’urgente necessità che molti hanno di migrare per garantirsi la sopravvivenza e una speranza nel domani. Il libro può essere considerato come un sistema di lemmi che procede dai quattro presenti nel titolo: città, civiltà, frontiere, cittadinanza. A ciascuna di queste voci afferisce una famiglia di concetti che s’interseca così da produrre alcuni possibili percorsi nell’ambito delle questioni sull’intercultura.

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lungi dal voler asservire l’ordinamento civile, concepisce l’assoluta dignità ed autonomia alla sfera politica ed al contempo fonda sulla ragione la sua visione dell’uomo e della realtà”. Ma dove si possono incontrare “sfera politica” e “sensibilità religiosa”? Per Eichberg, il grande terreno di incontro è rappresentato dalla dignità della persona, “intesa come fine e mai come mezzo, cifra della visione antropologica che le religioni possono portare al dibattito pubblico”. Laicità dello Stato significa, dunque, che tutti, nessuno escluso, possono intervenire nella discussione pubblica in vista di una decisione riguardante il bene e l’interesse di tutti. La laicità come fatto includente e non escludente. Tutti, anche le religioni, possono e devono intervenire nel dibattito pubblico, in un clima di ascolto e rispetto reciproco. Spetterà poi alla politica, allo Stato, prendere le decisioni che più riterrà opportune. La laicità positiva che si è fatta strada tra le due correnti opposte di clericali e anticlericali, si racchiude alla perfezione nel saluto rivolto da Nicholas Sarkozy a Benedetto XVI: “Mi auguro l’avvento di una laicità positiva che, pur vegliando sulla libertà di pensare, non consideri le religioni un pericolo ma un punto a favore”. Ed è Eichberg che, nell’articolo citato, traccia il futuro di questo nuovo concetto: “Nella consapevolezza dei rispettivi ambiti, autorità religiose e politiche possono trovare massima collaborazio-

ne su alcuni temi specifici di grande importanza nella società contemporanea. Innanzitutto il tema dell’emergenza educativa. Una sfida che non riguarda solo la famiglia e la scuola ma la società nel suo insieme, per la promozione di una solida etica delle responsabilità presso le nuove generazioni”. Vi è poi il tema della legalità, della morale politica, della cittadinanza, della partecipazione alla cosa pubblica. Ambiti di impegno alto e condiviso, dunque, non mancano. Toccherà ai due interlocutori interpretare al meglio questo nuovo approccio e armonizzare finalmente le diverse istanze. Il terzo punto, rielaborato negli ultimi anni, riguarda i diritti civili, con particolare riferimento al riconoscimento dei diritti delle coppie omosessuali. Solo fino a pochi anni fa, l’argomento era un vero e proprio tabù. A destra non si doveva né poteva parlare di gay, di omoaffettività, di Pacs, unioni civili e men che meno di matrimonio “alla spagnola”. Ne è prova anche qualche avventata affermazione di alcuni leader politici di primissimo piano che oggi hanno finalmente capito quale deve essere l’approccio al problema ma solo dieci anni fa si lanciavano in tesi sgangherate al limite dell’omofobia più gretta. E invece, oggi si può parlare di omosessualità anche a destra, interrogandosi su quale debba essere l’istituto normativo che riconosca finalmente i sacrosanti diritti di due persone dello stesso sesso che si amano e decidono di


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condividere la loro esistenza. Anche perché l’Italia è rimasta uno degli ultimi paesi in Occidente a non prevedere alcun tipo di garanzia. Ci si può sposare in Spagna, Portogallo, Belgio, Olanda, Svezia e Norvegia, mentre esistono altre forme di riconoscimento delle unioni gay in Francia, Svizzera, Germania, Inghilterra, Austria, Irlanda, Finlandia, Danimarca, Repubblica Ceca, Slovenia e Ungheria. Manchiamo solo noi, insomma. E se persino Marine Le Pen si è recentemente schierata a favore delle unioni gay, smentendo decenni di omofobia del Fronte Nazionale e usando l’argomento in chiave anti-islamica (in soldoni: “Noi siamo civili, rispettiamo le differenze e riconosciamo i diritti alle coppie gay”), l’anomalia italiana diventa sempre più preoccupante. Ecco, allora, che una parte della destra politica italiana comincia a interrogarsi e finalmente molti politici liberali o conservatori trovano il coraggio di dire pubblicamente che sì, le coppie gay devono avere un riconoscimento giuridico anche nel nostro paese. Fino a pochi mesi fa, la mosca bianca era Benedetto Della Vedova, che ogni anno sfidava i fischi della piazza ultraideologizzata per sfilare al Gay Pride, orgoglioso della sua appartenenza politica di centrodestra ma non per questo chiuso in steccati omofobici che non fanno onore alla grande famiglia liberalconservatrice e moderata di casa nostra. Questa legislatura non potrà mai approvare alcun

tipo di legge a tutela dei diritti delle coppie omosessuali. Ma già dalla prossima, ne siamo certi, si potrà cominciare a parlarne, trovando un punto di contatto tra centrodestra e centrosinistra e uscendo a testa alta da una vergogna continentale che ci vede fuori dal consesso delle nazioni civili su questo tema. Ecco, dunque, tre esempi di temi cardine del dibattito pubblico degli ultimi anni che necessariamente rappresenteranno il cuore dell’elaborazione politico-culturale del centrodestra che verrà. La sfida della costruzione di una nuova destra repubblicana, moderna, laica, inclusiva, passa anche e soprattutto attraverso questi argomenti. Ora tocca alla classe dirigente di oggi e di domani affrontare al meglio questo nuovo step di maturazione culturale. Se riuscirà nel suo intento, l’Italia avrà finalmente un centrodestra realmente liberale. Se fallirà, invece, saremo costretti, ancora una volta, a guardare con accecante invidia all’estero, sognando il nostro Sarkozy o il nostro Cameron, la nostra Merkel o il nostro Aznar, esattamente come abbiamo fatto negli ultimi quindi anni. Purtroppo.

L’Autore domenico naso Direttore del quotidiano online FareitaliaMag.

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La dialettica interna è il vero pilastro di un partito moderno

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n excursus analitico sulle politiche e sui leader di centrodestra francesi, inglesi e spagnoli per comprenderne i pregi e i difetti, in funzione di un rinnovamento interno alle dinamiche italiane. DI BRUNO TIOZZO


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Dopo gli anni Ottanta del ventesimo secolo, in cui trionfavano le idee liberiste di Reagan e Thatcher e quelli Novanta, in cui suscitò grande interesse il riformismo pragmatico di Clinton e Blair, viviamo da quasi un decennio il graduale rafforzamento di un centrodestra inclusivo e attento al sociale come vero e proprio baricentro della politica europea. La stagione del New Labour e del cosiddetto Ulivo mondiale avviata negli anni Novanta come un aggiornamento post-industriale della consueta politica di sinistra, resasi necessario anche in seguito alla fine della Guerra Fred-

da, non è riuscita a produrre degli effetti durevoli. La tradizionale politica socialdemocratica europea legata al movimento operaio è definitivamente tramontata, ma al suo posto non è subentrato un riformismo di sinistra corrispondente alle esigenze del terzo millennio. Il processo modernizzatore avviato da Tony Blair nel partito laburista britannico è stato sconfessato – di fatto – dai suoi successori Brown e Miliband. I socialdemocratici in Germania e i socialisti in Francia sono tallonati nei sondaggi dalla crescita dei verdi e da tempo non esprimono idee innovative. In Spagna l’era Zapatero sta per chiudersi con un bilancio fallimentare, mentre i socialdemocratici svedesi recentemente hanno subito il loro peggiore risultato elettorale da quando è stato introdotto il suffragio universale. Non solo sono molto lontani i tempi dei leader storici degli anni Settanta e Ottanta, come Brandt, Palme, Mitterrand e González, ma all’orizzonte non si intravedono nemmeno esponenti progressisti in grado di eguagliare i più recenti campioni Blair, Schröder e Jospin. In questo quadro, a dir poco mesto per i partiti del centrosinistra europeo, l’agenda politica viene stilata in sempre maggiore misura dalle forze di centrodestra che si riconoscono nel Partito popolare europeo (Ppe). Attualmente appartengono al Ppe 15 dei 27 capi di governo dell’Ue e in altri sei stati membri sono comunque presenti partiti

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aderenti al Ppe nella coalizione In Spagna, invece, il centrodedi governo. Sono altresì del Ppe stra è probabile che torni al gosia il presidente del Consiglio verno quando si andrà a votare europeo Van Rompuy, quello tra meno di un anno. della Commissione Ue Barroso Tratto comune del centrodestra e il presidente del Parlamento innovatore che guarda al futuro europeo Buzek. Molte delle for- è l’appropriazione di temi che ze politiche nazionali che fanno abitualmente vengono ritenuti parte del Ppe possono oggi es- prerogative della sinistra, quale sere definite dei veri country l’inclusione sociale e lo sviluppo party, ossia dei partiti della na- eco-sostenibile. All’estero auzione che in modo pragmatico menta infatti sempre di più il e privo di sterili ideologismi numero di importanti esponenti esercitano una guida unificante di centrodestra che destano cunei propri Paesi sulla strada riosità (più nei media che negli elettori) sbandierando delle posiverso la modernizzazione. zioni pragmatiche Approfondire e o addirittura libecomprendere cosa Per l’Economist ral su argomenti si muove nelle più etico-sociali, per importanti realtà Cameron è stato di centrodestra ol- più bravo come premier esempio in materia di diritti civili. treconfine diventa Ciò è diventato quindi un presup- rispetto a quando era posto necessario leader dell’opposizione possibile grazie a una soglia di tolleper prevedere ranza molto alta nei confronti l’agenda politica del futuro. Charta minuta ha scelto di ap- del dissenso interno e delle posiprofondire lo stato in cui si trova zioni eretiche affinché queste il centrodestra all’inizio del se- non sconfinino nella xenofobia o condo decennio del nuovo mil- in atteggiamenti anti-istituziolennio in tre Paesi europei: Fran- nali. Il modello della “grande cia, Regno Unito e Spagna. In tenda” dei repubblicani Usa, che due di queste realtà il centrode- al suo interno ospita posizioni a stra è al governo: in Francia da volte contrastanti tra di loro, è quasi un decennio, con un rin- quindi prevalso anche nel vecnovamento profondo del proprio chio continente. messaggio politico in occasione In Italia, diversamente dalle dedel passaggio da Chirac a Sarko- stre plurali di altri Paesi, s’è inzy. Nel Regno Unito da poco vece sempre più rafforzata una più di un anno David Cameron, sostanziale chiusura verso la diasecondo il lusinghiero commen- lettica interna ai partiti, conto dell’Economist, s’è dimostrato giuntamente a una convinzione più abile come premier rispetto di vera e propria insostituibilità a quanto non lo fosse come lea- dei loro leader. Diversa è anche la linea di conder dell’opposizione.


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dotta scelta verso i partiti popu- tralpe nei confronti di Sarkozy listi, xenofobi e anti-europeisti deriva principalmente dalla che negli ultimi anni hanno ri- mancata realizzazione delle proscosso sempre maggiori consensi messe fatte durante la spettacoin giro per il nostro continente, lare campagna elettorale e inveanche come conseguenza del ste anche l’immagine del presiprocesso di omologazione dei dente. Il Sarkò che aveva vinto le partiti dominanti. Nel resto del elezioni sull’appello alla Francia Ppe vige una presa di distanza “che lavora e si alza presto la pressoché unanime verso queste mattina” si è ben presto trasforformazioni, intorno alle quali si mato, nell’immaginario colletticrea un cordon sanitaire. Invece in vo, nel presidente bling bling, Italia, stenta ancora a emergere amante delle griffe e della dolce un centrodestra libero dai fanta- vita. Tra gli episodi che hanno smi del passato e inequivocabile recato più danno all’immagine nella sua condanna di manifesta- di Sarkozy rientra senz’altro quello della nozioni razziste o demagogiche. In Italia si è rafforzata mina del figlio Jean (nato nel 1986) alla guida F R A N C I A – L a sempre più una dell’influente ente rupture mancata sostanziale chiusura pubblico che geMeno di un anno stisce La Defense, manca alle prossi- verso la dialettica il distretto parigime elezioni per interna ai partiti no degli affari. l’Eliseo e i sondaggi non sono al momento partico- Le molte ruptures con le pratiche larmente clementi con Nicolas del passato annunciate da SarkoSarkozy, leader del centrodestra zy prima di arrivare alla presie grande vincitore nel voto del denza, rimangono comunque de2007. Resta tuttavia il più pro- gli impegni audaci ed encomiababile successore di se stesso per bili finalizzati a una svolta mola mancanza di alternative credi- dernizzatrice della Francia e bili. Com’è noto, il più forte dei dall’Europa. Dall’impegno per la potenziali candidati socialisti, mobilità sociale preposto a romDominique Strauss-Kahn, è fini- pere lo strapotere delle scuole to fuori gioco in seguito a uno d’élite all’interessamento per scandalo sessuale e Marine Le una cittadinanza più inclusiva Pen, carismatica neo leader (“la Francia a chi l’ama”). Dalla dell’estrema destra, avrà sicura- necessità di arrivare a una laicità mente un buon risultato al pri- positiva per stemperare l’annosa mo turno ma non riuscirebbe conflittualità Stato-Chiesa in mai a prevalere se dovesse arriva- Francia, al lancio dell’Unione re al ballottaggio. Proprio come per il Mediterraneo e un parziale riorientamento della politica suo padre nel 2002. La delusione degli elettori d’Ol- estera francese.

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Il problema è però che ben po- democristiani, gollisti di varie che delle ruptures sono state por- sfumature con i rivali giscardiani tate avanti e la Francia di Sarko- di ieri. Importante in questo senzy nel 2011 non si differenzia so, oltre al sistema elettorale uniparticolarmente da quella di Jac- nominale che rafforza e responsaques Chirac nel 2006. Man ma- bilizza i singoli parlamentari, è no che si avvicina il momento stata una struttura leggera (ma della riconferma, la rotta è stata non inesistente) che ha permesso corretta in una direzione più ras- anche la formazione di correnti sicurante. Al momento sono sta- (volte a stimolare la riflessione ti accantonati gli ambiziosi pro- politica interna, non per suddivigetti verdi del primo anno di dere gli incarichi). Copé ha la sua presidenza e gli ultimi rimpasti Génération Françe, mentre Nadi governo hanno portato al- thalie Kosciusko-Morizet, l’atl’uscita di scena di ministri già tuale ministro dell’Ambiente, ha socialisti, come Bernard Kou- Écologie bleue. Ci sono anche partiti e movimenchner, o comunque estranei alla La tanto attesa rupture ti associati che spaziano dai crimilitanza politica di destra, come che i francesi speravano stiano-democratici Rachida Dati. con l’elezione di Sarkozy tradizionalisti di Christine Boutin Hanno fatto inveal GayLib. Questi ce il loro rientro non è avvenuta, anzi è in posti chiave del tornato il modello Chirac hanno la loro autonomia organizzatigoverno gli esponenti gollisti seguaci di Chirac, va, ma sostengono i candidati a partire dal navigato ministro Ump alle elezioni. degli Esteri, Alain Juppé. Sem- Una grande sfida, presente sulla bra infatti che Sarkò intenda scena politica da quasi trent’anpuntare innanzitutto sulla credi- ni, arriva dall’estrema destra del bilità dell’amministrazione nello Fronte nazionale (Fn). Una prescacchiere internazionale in vista senza ingombrante che non è venuta meno nonostante la fortissidelle elezioni. Di estrazione chirachiana è anche ma penalizzazione che subisce Jean-François Copé, il nuovo e nella rappresentanza parlamentaambizioso segretario generale re a causa del sistema elettorale dell’Unione per il movimento maggioritario a due turni. Si popolare (Ump). A nove anni pensava che un colpo letale sadalla sua fondazione si può con- rebbe stato inflitto all’estrema statare che la coagulazione in un destra dalla fama di uomo legge solo soggetto delle diverse anime e ordine che Sarkò si era guadadel centrodestra moderato fran- gnato da ministro dell’Interno. cese ha funzionato. Convivono Così non è stato e il Fn ha riprelaicisti, precedentemente nel so la sua salita nei sondaggi sotPartito radicale, con cattolici ex to la guida di Marine Le Pen.


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FOCUS

Il discorso di Cameron sulla Big Society It’s great to be here in Liverpool. I’ve been in Downing Street for a couple of months now and it seems to me that the business of government falls into two categories. There are the things you do because it’s your duty. Sometimes unpopular – but you do them because it is in the national interest. And yes, cutting the deficit falls into that camp. But there are the things you do because it’s your passion. The things that fire you up in the morning, that drive you, that you truly believe will make a real difference to the country you love. And my great passion is building the Big Society. Anyone who’s had even a passing interest in what I’ve been saying for years will know that. It’s an idea I spoke about when I ran for the leadership of the Conservative party, when I was elected, throughout all the years in opposition, during the election campaign and when I stood on the steps of Downing Street. So I can’t tell you how excited I am that, after all that talking, we’re now finally doing. And today, I want to take this opportunity to explain some of the real, practical steps that we are taking to help make the Big Society a reality. 93 The Big Society But before I get into the details, let me briefly explain what the Big Society is and why it is such a powerful idea. You can call it liberalism. You can call it empowerment. You can call it freedom. You can call it responsibility. I call it the Big Society. The Big Society is about a huge culture change where people, in their everyday lives, in their homes, in their neighbourhoods, in their workplace don’t always turn to officials, local authorities or central government for answers to the problems they face but instead feel both free and powerful enough to help themselves and their own communities. It’s about people setting up great new schools. Businesses helping people getting trained for work. Charities working to rehabilitate offenders. It’s about liberation –the biggest, most dramatic redistribution of power from elites in Whitehall to the man and woman on the street. And this is such a powerful idea for blindingly obvious reasons. For years, there was the basic assumption at the heart of government that the way to improve things in society was to micromanage from the centre, from Westminster. But this just doesn’t work. We’ve got the biggest budget deficit in the G20. And over the past decade, many of our most pressing social problems got worse, not better. It’s time for something different, something bold – something that doesn’t just pour money down the throat of wasteful, top-down government schemes. The Big Society is that something different and bold. It’s about saying if we want real change for the long-term, we need people to come together and work together – because we’re all in this together. Potere trovare l’intero discorso al sito: http://www.number10.gov.uk/news/speeches-and-transcripts/2010/07/big-society-speech-53572


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Curiosa, con la droite repubbli- coalizione anomala, per la Gran cana di Sarkozy che riscopre il Bretagna, insieme con i liberali. ruolo importante della religione Proprio come negli anni da leanella società, è la ferma difesa der dell’opposizione, Cameron della laïcité francese da parte di ha continuato a dimostrarsi un Marine Le Pen. A prima vista visionario che lavora pazientepare una presa di distanza dalla mente sul progetto della cosidtradizionale linea di destra legit- detta Big Society, una realizzaziotimista e reazionaria che finora ne su vasta scala del principio di ha goduto di un grande seguito sussidiarietà che mira a miglionelle file del Fn. In realtà si trat- rare la qualità della vita dei brita di una mossa ingegnosa per tannici grazie a un maggiore poter contrastare l’immigrazione controllo sulle scelte che riguarislamica con maggiore coerenza. dano le loro vite. Ergendosi a paladina della sepa- L’insolito accordo di coalizione razione netta tra Stato e religio- ha finito per logorare i liberali, mentre l’approvane, qualunque essa sia, diventa in- Cameron ha trasformato zione per Cameron rimane alta. È già fatti più semplice riuscito a trasfordenunciare le ma- l’immagine dei tories mare l’immagine nifestazioni di ap- dal nasty party dei conservatori partenenza aldal nasty party, anl’Islam in territo- ad una forza inclusiva tipatico e inelegrio francese. Una al passo con i tempi gibile nell’era simile linea di argomentazione viene portata Blair, a una forza politica incluavanti anche dalla destra xenofo- siva, al passo con i tempi; attenba olandese (da Pim Fortuyn ta ai temi sociali e ambientali. prima e Geert Wilders poi) che Riesce anche a rivolgere critiche attacca l’immigrazione islamica alla società multiculturale (da proprio in quanto ritenuta di non confondere con quella mulavere un impatto “oscurantista” tietnica) in quanto il suo partito sullo stile di vita liberale del non può essere accusato di razzismo. La stessa presidente del Paese nordeuropeo. partito, Sayeeda Warsi, è infatti GRAN BRETAGNA – Big society musulmana di origine pakistana. Il Partito conservatore continua in costruzione Nel Regno Unito è invece passa- a rappresentare un centrodestra to poco più di un anno da quan- molto plurale al suo interno, avdo è diventato premier David vantaggiato anche dal sistema Cameron, il giovane leader rifor- elettorale uninominale che conmatore dei tories. La vittoria elet- tribuisce a creare un legame torale non ha raggiunto le aspet- molto forte tra i parlamentari e i tative della vigilia e i conserva- loro collegi di provenienza. tori governano quindi in una Esponenti tradizionalisti come il


PER NUOVO CENTRODESTRA Bruno Tiozzo

ministro del Lavoro, Iain Dun- uno sbiadito ricordo. La crisi can Smith (favorevole a misure economica internazionale ha colper far diminuire i divorzi) con- pito duramente il Paese iberico e vivono con i liberisti nostalgici i socialisti di Zapatero hanno della Thatcher e l’eretico Phillip contribuito in modo irresponsaBlond, animatore del think-tank bile a riaprire le ferite del passaResPublica e autore del saggio to, ignorando i validi principi Red Toryism dove si scaglia con- della transición. La recente presidenza di turno spagnola dell’Ue tro lo strapotere del mercato. C’è però un campo in cui Came- non ha lasciato segni memorabiron, per adesso, non ha avuto la li, mentre l’annoso conflitto tra forza o la volontà di innovare, ed Stato centrale e regioni autonoè l’Europa. Non solo i conserva- me si è ulteriormente radicaliztori si sono opposti al recente zato. Per ultima si è aggiunta Trattato di Lisbona ma, in segui- l’esplosione del malessere giovato alle ultime elezioni per il Par- nile rappresentato dalla protesta degli indignados. lamento Europeo Nonostante le nel 2009, Came- Nel Partido popular suddette difficolron ha addirittura tà, bisogna però ritirato la delega- esiste una grande ricordare che la z i o n e t o r y d a l dialettica interna Spagna resta cogruppo Ppe. Si munque una detratta della realiz- che arricchisce le idee z a z i o n e d i u n a e i progetti per il futuro mocrazia stabile con un sistema promessa fatta alcuni anni fa per conquistare la sostanzialmente bipartitico dove leadership del partito; ma sia i le due principali formazioni si conservatori che il resto del cen- riconoscono reciprocamente e si trodestra europeo avrebbero si- alternano, in forme ordinate, al curamente solo da guadagnare governo del Paese. In base alle molte similitudini da un continuo confronto. (tra cui l’esperienza di una laceSPAGNA – Pur sempre un mo- rante guerra civile e di una lunga dittatura), il centrodestra itadello La Spagna che si appresta a riac- liano, dopo la fine della cosidcogliere il Partido popular (Pp) detta Prima Repubblica (in cui al governo è diversa rispetto al la democrazia, per certi versi, era Paese dinamico che il centrode- rimasta incompiuta per l’imposstra consegnò ai socialisti dopo sibilità di un’alternanza al gola sconfitta elettorale del 2004. verno nazionale), avrebbe fatto L’economia in forte della Spagna bene a studiare meglio l’esempio crescita e il sempre maggiore pe- dei cugini spagnoli. In Spagna è so a livello internazionale ai riuscita la costruzione di un partempi dei governi presieduti da tito unitario e vitale che riunisce José María Aznar sono ormai i filoni storici del centrodestra e

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che guarda avanti, senza nostalgie o recriminazioni del passato. La forte leadership del presidente del partito non impedisce un vivace confronto al suo interno. Il sindaco di Madrid, Alberto Ruiz-Gallardón, e la presidente della regione che comprende la capitale, Esperanza Aguirre, non nascondono di essere grandi rivali e ciò non viene considerato un danno per il partito. Esiste anche un pluralismo interno in merito alle posizioni politiche: per esempio Ruiz-Gallardón ha una posizione più aperta sulle unioni omosessuali rispetto al resto del partito. Interessante al riguardo è che il sindaco della capitale abbia una biografia politica più di destra rispetto a molti dei suoi avversari interni. Infine, il Pp ha anche dimostrato di essere un vero e proprio partito in quanto è sopravissuto a diversi avvicendamenti alla leadership suprema, e non è neanche stato percepito come un dramma quando l’ex leader Aznar (ormai presidente onorario) rivolse delle dure critiche al successore Mariano Rajoy in occasione dell’ultimo congresso del partito nel giugno 2008. L’Italia, dove esiste una maggioranza “naturale” di centrodestra, resta però un’anomalia in quanto la fortissima rivalità che lo caratterizza sembra impedire alle molte personalità interessanti emerse al suo interno di realizzare quelle riforme che potrebbero renderlo un modello anche all’estero. Qualcosa di simile era già successo nella sinistra degli

anni Settanta e Ottanta, dove la forte rivalità tra Pci e Psi impedì a leader carismatici come Enrico Berlinguer e Bettino Craxi di compiere il salto di qualità per diventare riferimenti a livello internazionale.

L’Autore bruno tiozzo Autore di numerosi articoli per riviste come Charta minuta, Con, Imperi e Millennio. Lavora come esperto per il ministero delle Politiche comunitarie.




PER UN NUOVO CENTRODESTRA Giuseppe Leone

Dall’Msi a Fli: una lunga camminata verso i valori di cui l’Italia ha bisogno

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na puntuale retrospettiva sulla storia della destra e del centrodestra italiani per maturare coscienza dei fatti, senso critico e desiderio di cambiamento. DI GIUSEPPE LEONE 99

È dalla fine della seconda guerra mondiale che in Italia stenta a decollare l’idea di destra, di una destra non mera espressione dei poteri economici, ma di popolo, nazionale ed europeista. La sconfitta del fascismo aveva infatti travolto ogni posizione nazionalpopolare cosicché dichiararsi di destra significava, soprattutto nel secondo dopoguerra, essere etichettato quale fascista. E questo favorì anche le vittorie elettorali in serie della Democrazia Cristiana che poteva raccogliere i voti dei tantissimi italiani che di destra erano, ma che si vergognavano (o avevano paura) di manifestarlo o di dichiararlo. Si dirà. Ma esistevano L’Uomo qualunque di Giannini e il Partito Liberale. È vero, ma queste due formazioni non hanno mai

rappresentato i valori della destra. Il primo era una Lega Nord ante litteram, sia pure lontano mille miglia dall’idea di Padania e diffuso su tutto il territorio nazionale, che incentrava quasi tutta la sua attività politica in una battaglia contro le tasse che ricorda molto quella di Bossi contro Roma ladrona. Il secondo era la rappresentazione in Parlamento dei desiderata della Confindustria e dei ceti borghesi medio-alti. Restava quindi l’Msi. Ma questo partito, vera destra, almeno fino alla fine degli anni ’50, era agli occhi degli italiani (e non a torto) solo un raggruppamento di nostalgici e reduci del regime fascista, che costituiva una vera e propria riserva indiana nel Parlamento e nel Paese, non soggetto di politica, ma tollerato a mala pena dagli altri


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partiti e considerato dalla Dc una l’Msi fu ancora più emarginato e possibile cassaforte di voti in fun- ghettizzato, soprattutto dopo la zione anti-sinistra (ovvero contro vittoria elettorale del 1972 che vide il partito guidato da AlmiPci e Psi, allora alleati). Il primo tentativo dell’Msi di rante, diventato Msi-Destra Nauscire dal ghetto dove era co- zionale vista la fusione con il parstretto dalla visione reducistica tito monarchico di Alfredo Covelli dei suoi aderenti e dalla chiusura (Pdium), raggiungere l’8,7% dei netta nei suoi confronti da parte voti alla Camera e il 9,2% dei voti delle altre forze politiche, risale al Senato. alla fine degli anni ’50 e al soste- Gli anni di piombo furono durisgno dato ai governi, monocolore simi per i missini. Gli slogan “ucDc, Zoli (19 maggio 1957-1 lu- cidere un fascista non è reato’’ e glio 1958) e Tambroni (25 marzo “camerata, basco nero, il tuo posto 1960-26 luglio 1960). La Demo- è al cimitero’’ erano regolarmente crazia Cristiana era infatti divisa scanditi nei cortei e nelle manifestazioni dell’ultratra i sostenitori del sinistra (e non solo), p r o s e g u i m e n t o Il crollo del vecchio mentre in Parladella politica di mento prese vita il coalizione del qua- mondo democristiano dripartito (Dc, Pli, manda in “libera uscita” cosiddetto “arco costituzionale’’, una Pri, Psdi) e quelli vera e propria conche propugnavano tanti voti di destra ventio ad excludenl’apertura a sini- alle Comunali del 1993 dum nei confronti stra, ovvero al Psi, che dopo l’invasione dell’Ungheria dei deputati e senatori della destra. del 1956 aveva rotto con la politica Un altro duro colpo venne, dopo le del Fronte Popolare che lo legava al elezioni del ’76 che videro un riPci. Ciò portava a governi deboli e dimensionamento dei gruppi pardi breve durata e l’Msi di Arturo lamentari missini, con la scissione Michelini cercò di entrare nel di Democrazia Nazionale. Semgrande gioco politico appoggiando brava un colpo mortale, ma l’Msiquei due esecutivi. Ma la reazione Dn si riprese già nelle elezioni podelle sinistre e anche di vasti settori litiche anticipate del 1979 che della Dc (grandi manifestazioni videro sparire dal Parlamento gli contro Tambroni presero le mosse scissionisti di Dem. Naz. Anche a Genova dove l’Msi intendeva nelle consultazioni del 1983 (che svolgere il suo congresso nazionale segnarono l’ingresso alla Camera e si estesero presto in tutta Italia) del giovane Gianfranco Fini) prorespinsero la destra di nuovo ai seguì il trend positivo dell’Msimargini della politica. Anzi, con Dn, anche se il partito restava ai l’apertura a sinistra, l’esplosione margini della politica. La vera del ’68, con le stragi che insangui- svolta fu l’avvento alla segreteria narono il Paese a partire dal ‘69 e missina di Fini nel congresso di con l’insorgere del terrorismo, Sorrento del dicembre del 1987,


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favorito da Giorgio Almirante, il leader indiscusso della fiamma tricolore nel precedente ventennio. Con il cambio ai vertici, infatti, veniva meno la fase reducistica del partito e l’Msi-Dn si gettava a pieno titolo nell’arengo politico favorito anche dalla lotta di Bettino Craxi contro i due partiti egemoni dell’epoca, Dc e Pci. Bisogna però aspettare il crollo del Muro di Berlino (novembre 1989), gli anni di mani pulite e i referendum promossi da Mario Segni (inizi degli anni ’90) perché l’MsiDn diventi un protagonista della vita politica. La disgregazione e la frantumazione del vecchio mondo politico del cosiddetto arco costituzionale e l’avvento del maggioritario portano alla nascita di nuovi partiti (la Lega Nord, Forza Italia) e alla trasformazione di vecchi (il Pci diventa prima Pds e poi Ds, la Dc diventa sturziana cambiando in Ppi). Ma è soprattutto il crollo del vecchio mondo democristiano a mandare in libera uscita tanti voti di destra che, nelle elezioni comunali di fine 1993 di Roma e Napoli, si spostarono in massa sui candidati missini (Fini nella Capitale, Alessandra Mussolini nel capoluogo partenopeo) mandandoli al ballottaggio, perso al fotofinish con Rutelli e Bassolino. Ed è alla vigilia dei ballottaggi che Silvio Berlusconi, sollevando un grande scandalo, afferma che se fosse stato cittadino romano avrebbe votato per Fini. È lo sdoganamento della destra, ma non a opera del tycoon della Fininvest (come molti e lui stesso sostengono), ma per il voto dei tanti

Il Libro Una squadra di centrodestra Mauro Mazza I ragazzi di via Milano Fergen 2006, 144 pp., euro 10,00 È la squadra più famosa del giornalismo italiano. Eppure negli anni Settanta nessuno voleva giocare contro i Ragazzi di via Milano che si chiamavano Gianfranco Fini e Maurizio Gasparri, Francesco Storace e Silvano Moffa, Gennaro Malgieri e Mauro Mazza, Gianni S. Rossi e Bruno Socillo, Claudio Pompei e Pino Rigido, Adalberto Baldoni e Aldo Di Lello, Adolfo Urso e Teodoro Buontempo…. Lavoravano nella redazione del Secolo d’Italia, il quotidiano del MsiDn. Una palestra di giornalismo e di politica, di cultura e di rapporti umani per quella che sarebbe diventata la classe dirigente di Alleanza nazionale, in anni davvero difficili per la Destra italiana e per il Paese intero. Un viaggio nella memoria, illustrato da 40 foto d’epoca di Enrico Para e da una decina di pagine del Secolo con protagonisti Peppe De Rosa, Angelo Mancia, Giorgio Almirante, Nino Tripodi, Pino Romualdi, Cesare Mantovani, Franz Maria D’Asaro e Alberto Giovannini.

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cittadini che votarono per i due zie all’intuito di Fini e Tatarella, candidati missini in alternativa che vide la luce grazie all’intenso alla sinistra. Il passo successivo lavoro dietro le quinte (ma non che fece diventare l’Msi-Dn un troppo) di Adolfo Urso. Fu una partito non solo rispettato, ma svolta irreversibile. Tra le lacrime di governo, fu l’appuntamento di tutti i congressisti, infatti, veelettorale del 27 e 28 marzo del niva lasciata “la casa del padre’’ 1994, un vero e proprio capola- per iniziare una nuova vita. Il parvoro (questo sì) di Berlusconi che tito non poteva né doveva essere riuscì a sconfiggere “la gloriosa più considerato una forza neofamacchina da guerra’’ di Achille scista, ma una destra moderna, inOcchetto costruendo due diverse serita nel concerto delle destre eucoalizioni con la sua Fi: una al ropee, con gli occhi non più rivolti Nord con la Lega e una al cen- al passato ma al futuro. In effetti, a Fiuggi, fu portato a termine un trosud con l’Msi-Dn. La vittoria scaturita dalle urne processo naturale, iniziato già da Giorgio Almirante portò al primo gonegli anni ’70 alverno Berlusconi e A Fiuggi fu terminato l’insegna dello sloai primi ministri gan “non rinnegare, missini (Pinuccio il processo iniziato da Tatarella, Adriana Almirante con lo slogan non restaurare’’, ma che necessitava di Poli Bortone, Aluna vera e propria tero Matteoli, Pu- “non rinnegare, scossa rappresentata blio Fiori e Dome- non restaurare” proprio dall’abbannico Fisichella). L’esecutivo, come è noto, durò dono della “casa del padre’’ non da poco: circa sette mesi, perché, da tutti accettata (Pino Rauti fondò un lato, la Lega si sganciò e, dal- un altro partito che doveva rapl’altro, la magistratura milanese presentare la continuazione del recapitò al premier, nel bel mezzo vecchio Msi). di un importante vertice interna- L’esperienza di Alleanza nazionale zionale a Napoli, un avviso di ga- è durata fino al marzo del 2009, ranzia che fece precipitare la si- contrassegnata da rapporti più o tuazione e portò alla crisi di meno conflittuali (ma forse è megoverno che condusse, nel gennaio glio dire competitivi) con Fi, ma del 1995, Lamberto Dini a Pa- sempre nell’ambito di un’organica alleanza di centrodestra. Nel lazzo Chigi. Ma a fine gennaio si svolge anche 2008, infatti, dopo la vittoria eletl’ultimo congresso dell’Msi-Dn. Si torale sotto il simbolo del Pdl voregistra infatti quella che è passata luto da Silvio Berlusconi, furono alla storia italiana come la svolta di avviate le procedure di sciogliFiuggi, ovvero la nascita di Alle- mento di FI e An per la comune anza nazionale, un progetto nato confluenza, insieme con altre forze già nel 1992 (articolo di Fisichella politiche minori, nel Popolo della sul giornale romano Il Tempo), gra- libertà. Fini, diventato presidente


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della Camera, il 10 maggio di quell’anno lasciò la guida del partito. Nel suo discorso all’assemblea di An, sottolineò, a dimostrazione dei grandi passi compiuti dalla destra dal dopoguerra ad allora, che “non siamo più figli di un dio minore. È stata ricomposta una frattura. È stato superato un fossato’’. E aggiunse: “La nascita del Pdl è l’ultimo anello della strategia di Fiuggi’’. Fini comunque sottolineò che c’era ancora tanto altro lavoro da fare per costruire il Pdl che doveva diventare “un grande punto di riferimento maggioritario del Paese. Per dare alla società italiana quei valori di cui ha bisogno’’. Ma Fini si sbagliava. Il grande progetto del Pdl non è decollato soprattutto per due visioni opposte del partito tra i due cofondatori. Per Berlusconi doveva e deve essere solo poco più di un comitato elettorale, chiamato a diffondere le decisioni del governo a mobilitarsi per le grandi occasioni. Per Fini era ed è il partito che deve scegliere la linea politica ed elaborare la strategia di governo (anche perché l’esecutivo non è un monocolore, ma si regge sull’alleanza Pdl-Lega). Da qui le incomprensioni, i primi attriti, la rottura con la cacciata di Fini dal Pdl dello scorso anno. La reazione, ed è storia di oggi, è stata la nascita di Futuro e Libertà per l’Italia. Un partito ancorato al centrodestra, ma che ha l’ambizione di rifondarlo e rammodernarlo. L’impresa è difficile, ma le vicissitudini degli anni passati hanno fortemente temprato gli uo-

mini che si stanno cimentando in questa nuova avventura. “Una camminata difficile, lunga, faticosa. Per certi versi in salita’’ ha affermato Fini. Ma si tratta di un tragitto da compiere per dare finalmente all’Italia “quei valori di cui ha bisogno’’.

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L’Autore giuseppe leone Capo ufficio stampa della Camera dei deputati.


gli strumenti di

Il centrodestra del futuro dovrà affrontare prima di tutto il problema più grave dell’Italia di oggi: la questione meridionale. In questo documento, che pubblichiamo integralmente, Giancarlo Lanna (presidente Simest) e Raffaele Borriello (direttore generale dell’Ismea Investimenti per lo sviluppo) analizzano le problematiche, antiche e nuove, che affliggono il Sud Italia, tracciando anche una possibile strategia per uscire dall’impasse. Una migliore gestione dei fondi comunitari, una nuova go-

vernance locale, una ritrovata etica pubblica: ecco i capisaldidella riscossa del Mezzogiorno. Una riscossa non più rimandabile perché se non va il Sud, l’Italia non potrà mai tornare a essere protagonista sulla scena economica internazionale.


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1 - Il Mezzogiorno non è un’altra Italia In Italia la crescita si è fermata. Anche di recente, il Fondo Monetario Internazionale ha messo in evidenza come il nostro Paese sia quello che, nel mondo, è cresciuto meno nell’ultimo decennio, segno di un’economia bloccata e, ancora di più, di un modello di sviluppo non adeguato ad una economia globalizzata. Oltre ed al di là delle statistiche, è peraltro di facile constatazione il clima di quotidiana preoccupazione e, spesso, di vera e propria sfiducia di fronte ad dato della disoccupazione che non si riesce ad affrontare se non con gli strumenti eccezionali (e perciò a tempo) della cassa integrazione, del numero sempre maggiore di famiglie che avvertono la fatica di arrivare a fine mese, delle tante imprese che si trovano in seria difficoltà. In questo quadro, si sta diffondendo l’idea che il Mezzogiorno sia diventato un carico troppo pesante per l’Italia, con la sua immagine di disorganizzazione, di apparente resa di fronte al fenomeno della criminalità, di opacità e di “impianificabilità” del suo modello di sviluppo. I percorsi tradizionali di intervento – incentrati essenzialmente sulla specializzazione e sul “confinamento” regionale delle politiche, con la sottile anche se non confessata opinione che il dualismo Nord – Sud non sia riducibile e sia invece una sorta di male endemico da tenere sotto controllo – sono del tutto inadeguati. Di fronte a noi, in Europa, abbiamo il paradigma della Germania, che in meno di venti anni ha affrontato e sostanzialmente risolto il tema dell’in-

tegrazione della sua parte orientale, partendo da una valutazione politica complessiva dei propri vantaggi competitivi derivanti dalla sua posizione geografica (Germania come baricentro logistico dell’Europa al centro delle rotte nord-sud ed est-ovest) e dalla specializzazione produttiva. Ciò che manca all’Italia è una lettura finalizzata dei propri vantaggi competitivi. Venti anni di politica debole e di iniziative tecnocratiche di governo dei processi economici e sociali hanno consentito di affrontare le emergenze (dall’ingresso nell’Euro al controllo degli equilibri di bilancio) e di gestire più o meno bene il fronte della spesa, ma non quello - altrettanto determinante anche per un efficace governo degli equilibri di finanza pubblica - della crescita. Una risultanza generale può oggi considerarsi definitivamente acquisita: la soluzione alla curva piatta dello sviluppo non può in alcun modo continuare ad incentrarsi sulla visione di Paese duale o costituito da due aree con destini separati. Ciò che serve è una rilettura delle differenze all’interno di un modello che “agisca” con lungimiranza identificando i vantaggi competitivi del nostro sistema-Paese e pratichi una nuova governance per gestirli in una prospettiva di sviluppo adeguata alle dinamiche del mercato globale. Unità di visione del modello di competitività e governance federale non sono antitetiche. 2 - Cos’è il Mezzogiorno Il lunghissimo silenzio sul futuro del Mezzogiorno e sui suoi potenziali di svi-


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luppo ha accreditato un’immagine piatta e mortificante di questa grande parte del nostro Paese, che potrebbe invece indirizzarsi ad una rinascita segnata, per fare solo qualche esempio, dal nuovo ciclo dell’economia pugliese, dalla ripresa di protagonismo di Napoli, dalla viticoltura di pregio della nuova agricoltura siciliana. Il Mezzogiorno è dunque nell’opinione diffusa il luogo delle crisi. È, questa, una visione sciatta e distratta che non va contrastata con astratte logiche di programma, ma in modo pragmatico, partendo da una serie di semplici ed essenziali considerazioni: il Mezzogiorno va considerato come una regione di un’Europa, che, nel suo complesso, è e rimane un’area di economia forte in un quadro mondiale caratterizzato da un grande equilibrio sociale (bassi livelli di marginalità, equilibrio nella distribuzione dei redditi, sicurezza, salute); un’economia che, senza violenza, ma con la forza del proprio modello di sviluppo economico, sociale e culturale, sta progressivamente allargando i propri confini verso Est e verso il Mediterraneo; certamente ogni tensione economica e sociale che colpisce l’Italia e l’Europa ha nel Mezzogiorno ripercussioni di maggiore entità, ma non si tratta di un sistema disperato e incapace di reagire. Chiunque “va al Sud” scopre una realtà inaspettata (proprio perché non raccontata o mal raccontata), vitale e in grado di far leva sulle proprie potenzialità; infine, contro la logica dello sviluppo omologato, che appartiene a momenti nei quali la crescita rispondeva ad obiettivi prioritariamente

quantitativi, oggi lo sviluppo presenta ovunque in Europa (ed in Italia) logiche animate dal nesso qualità/diversificazione. La sfida è dunque quella della specificità/qualità, da ricercare all’interno di un quadro europeo ed italiano che offre condizioni generali di praticabilità dei progetti: regole e governance, apertura dei mercati, sicurezza, finanza. In questa prospettiva è un grave errore pensare ad una strutturale diversità del Mezzogiorno rispetto all’Italia. Assolutizzare questa diversità significa di fatto vedere il Mezzogiorno come un’area di separatezza e di inferiorità. Va invece adottato un criterio al tempo stesso di specificità e di sistema, analogo a quello con cui si valutano le differenze, ad esempio, tra le economie del Nord Est e del Nord Ovest. Oggi il futuro del Mezzogiorno è legato al modo in cui l’Italia e l’Europa usciranno dalla crisi e, più in particolare, alla collocazione delle propria specificità in questo quadro di difficoltà, ma anche di emersione di nuove opportunità. L’economia del Mezzogiorno non è diversa dall’economia italiana, ne rappresenta una “specificità all’interno di una gamma” e come tale va compresa e gestita. Si tratta di uscire dalla logica degli ultimi decenni che ha tentato di rilanciare l’economia del Mezzogiorno forzandolo “dentro” il modello di sviluppo che il Paese stava sperimentando: ancoraggio e traino senza vera soggettività. 3 - I pilastri di una nuova visione I pilastri di questa visione politica del futuro dell’Italia ed in particolare del

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suo Mezzogiorno possono essere sintetizzati in quattro punti. Made in Italy. Il concept forte, che non fa distinzione tra Nord e Sud, attorno al quale far evolvere un modello di sviluppo capace di immettersi e partecipare con competitività ai flussi di crescita e alle domande dei mercati globali è quello di Made in Italy. Il Made in Italy deve essere attualizzato e valorizzato mediante approcci di “contagio sistemico tra aree” in quanto, nei mercati internazionali, opera come un brand globale (il nostro più importante brand globale) che copre una gamma vasta di prodotti (dalla meccanica di precisione emiliana, piemontese o veneta ai vini della Sicilia, al turismo della penisola salentina) caratterizzati da logiche di eccellenza, di innovatività, di creatività-design nonché da un forte legame con le tradizioni culturali del territorio. Il territorio, infatti, compone il concetto di Made in Italy in modi differenti per profilo di gamma; anche quando è il territorio stesso ad essere oggetto di offerta (come la Toscana o la Sicilia per il turismo), questa offerta non può che presentarsi come prodotto specifico all’interno di una gamma. Disgregare o rompere il concetto di Made in Italy o non coltivarlo e valorizzarlo in modo adeguato è una scelta che contraddice ogni logica di sviluppo competitivo. Mediterraneo. La posizione geostrategica dell’Italia non è la composizione schizofrenica di un Nord che fa sistema con le economie centro europee ed un Mezzogiorno che galleggia in una non

meglio precisata dimensione mediterranea. Accettare questa visione significa rinunciare a gestire un fondamentale potenziale geostrategico del nostro Paese. La scelta non può dunque essere che unica: interpretare e gestire attivamente i vantaggi della posizione dell’Italia nel Mediterraneo, inteso nel suo insieme come baricentro di scambi e area di sviluppo analoga per potenziale (soprattutto nel lungo periodo) all’est dell’Europa. Governance. Politica di sviluppo significa scelta di un assetto amministrativo e, dunque, di un assetto di governance. Federalismo e sussidiarietà sono concetti potenti se associati ad una visione politica lungimirante e robusta. Federalismo e sussidiarietà consentono - attraverso una temperata configurazione del piano delle deleghe - di agire in modo differenziato in relazione alle specificità dei territori valorizzandone le risorse, le potenzialità e le diversificazioni, evitando che il federalismo venga interpretato come dissoluzione dell’unità nazionale. Infrastrutture. Reti e servizi infrastrutturali sono i primari fattori di induzione e attrazione degli investimenti, di supporto all’efficienza e di riduzione dei costi di transazione. La logica di sviluppo ed estensione delle infrastrutture dovrà:(i)orientarsi secondo approcci di filiera (con al primo posto, dunque, le infrastrutture di connettività breve e lunga); (ii)valorizzare le reti di ricerca e sviluppo (a partire dai centri di eccellenza già consolidati nel Mezzogiorno, in particolare all’interno di diverse Uni-


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versità); (iii)operare seguendo procedure di convergenza interregionale degli investimenti mediante vincoli che prevedano la presenza contrattuale ovvero di forme dirette di obbligazione della PA con le imprese e le Parti sociali; (iv)assicurare l’efficace utilizzo dei fondi comunitari. Tali pilastri dovranno sorreggere un impianto politico che sappia operare in modo integrato su due piani: il modello di crescita ed il modello di governance. 4 - Le opportunità di crescita per l’Italia: il valore del Mezzogiorno Le analisi sul modello produttivo del nostro Paese si ripetono fino allo stereotipo sottolineando gli elementi di debolezza (presenza di un tessuto costituito per la gran parte da piccole e medie imprese, iperframmentazione del sistema produttivo, peso ancora eccessivo della componente manifatturiera, scarsità degli investimenti in R&S, arretratezza del sistema infrastrutturale, debito pubblico eccessivo, ecc.). Il “galleggiamento” dell’Italia sembrerebbe legato a virtù un po’ misteriose (la creatività, la vitalità imprenditoriale, ecc.) o alle performance individuali di manager e imprenditori, i cui risultati spiegano solo sé stessi ma non rivelano l’esistenza di una forza di sistema. In questa visione, l’Italia non sarebbe in grado di sviluppare policies strutturate per il proprio sviluppo, limitandosi a seguire le fisiologie positive o a “parare i colpi” delle crisi o delle congiunture negative. Si tratta di stereotipi un po’ vecchi che

non aiutano ad avere una visione aggiornata del nostro Paese. Va invece affermato che esiste in Italia una forza sistemica che deve essere riconosciuta e sostenuta nel suo strutturarsi. Il punto di attacco fondamentale non può che consistere in una rilettura del concetto più forte che il mercato internazionale ci riconosce: il Made in Italy. La distintività dei prodotti italiani è legata al riconoscimento internazionale di un legame tra creatività e design che nei mercati internazionali ha una forza straordinaria. Nel tempo questo concetto è stato legato soprattutto all’eccellenza della componente estetica; oggi è diventato capacità di governo di un processo produttivo specifico e sofisticato che gestisce l’intero ciclo di progettazione del prodotto. La gestione di questa leva primaria di competitività richiede una policy dedicata e modelli specifici di business e di organizzazione dei processi. Non c’è dubbio che l’economia del Mezzogiorno sia un’economia orientata alla qualità, che può collocarsi pienamente nella più avanzata espressione del Made in Italy. Le componenti sono le medesime (Abbigliamento, Arredamento, Alimentazione, Automazione, Accoglienza); ciò che cambia è, da un lato, il mix (meno Automazione e Arredamento, buona presenza di Abbigliamento, forti componenti di Alimentazione e Accoglienza), dall’altro il nesso gamma-marchio. Il Made in Italy ha radici mediterranee di eccellenza (la dieta mediterranea nell’Alimentazione, il particolare ed unico connubio natura-cul-

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tura-storia che da sostanza all’Accoglienza, la sartorialità di eccellenza nell’Abbigliamento, ovunque l’artigianalità), ma manca nel Mezzogiorno una gestione industriale delle proprie specificità: la gestione moderna del marchio implicito costituito dal Mediterraneo e la declinazione originale della leva del design (salvo episodi) non sono nella pratica dei sistemi produttivi del Sud. È dunque fondamentale una gestione attiva del Made in Italy in chiave mediterranea. Il Mediterraneo come concept esprime il nostro primo “potenziale” in quanto costituisce il valore più sicuro con cui ripartire per una nuova fase di crescita.

Lo sviluppo del Made in Italy richiede la crescita di una significativa economia dei servizi. Qui occorre lavorare su due reti (potenzialmente) esistenti: la prima è quella dei distretti tecnologici che nel Mezzogiorno sono numerosi e diversificati. Sono, questi, i luoghi dove rafforzare il nesso tra imprese innovative e ricerca applicata; la seconda è quella delle reti urbane. La funzione di governance dei processi esercitata dalle città rappresenta ovunque in Europa una leva straordinaria di sviluppo: nel Mezzogiorno nessuna città ha la massa critica per svolgere questo ruolo in modo autonomo. Occorre lavorare su una rete urbana della governance che ha un bari-


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centro nell’asse Roma-Napoli, la cui interazione funzionale avrebbe la stessa logica del progetto MiTo che ha integrato su dieci linee di progetto Milano e Torino e candiderebbe questo polo metropolitano (potente sotto tutti i profili) ad assumere di fatto il governo dello sviluppo del Mediterraneo, ed una declinazione territoriale nel triangolo Roma-Napoli, Bari, Palermo. Questa rete urbana dovrebbe produrre un progetto di gestione integrata dei principali asset (alta formazione, strutture di ricerca, reti logistiche, sistemi fieristici, programmazione culturale, ecc.) e di sviluppo coordinato di area vasta. Non si può ancorare lo sviluppo al territorio senza la gestione attiva della leva finanziaria. Una nuova “finanza di territorio” parte da due strumenti: uno strumento finanziario (banca del Sud), che si incentri, da un lato, sull’impiego della finanza a servizio della competitività e della crescita delle realtà territoriali anche attraverso una gestione del credito più attenta ai fabbisogni delle imprese e, dall’altro, su un meccanismo di sostegno alle politiche infrastrutturali necessari. Ma la banca del Sud deve anche svolgere un ruolo importante come soggetto in grado di riattivare le reti dei Confidi, attraverso una funzione di supporto in termini di servizi; un nuovo sistema di management delle risorse comunitarie. Sono risorse ingenti, la cui utilizzazione presenta carenze profonde e diffuse. È qui necessario un salto di qualità che renda effettivo ed efficace l’utilizzo di queste risorse attraverso una nuova modalità di presidio del ma-

cro processo di programmazione (e progettazione), pianificazione, controllo, valutazione. Tutto ciò va inquadrato in una convita scelta di campo verso una centralità del Mediterraneo come orizzonte di nuovo sviluppo (così come è stato per il nordest la scelta dell’orizzonte dell’Europa dell’est). È persino banale ribadire che queste scelte devono essere accompagnate da una adeguata logica di infrastrutturazione. 5 - La governance come processo di reistituzionalizzazione del Mezzogiorno Ciò che emerge dalle riflessioni fin qui fatte è – oltre alla necessità di una ricetta specifica per lo sviluppo - la necessità di una rinnovata governance dello sviluppo: la retorica del “meno Stato” ha fatto più male al Sud che al resto del Paese. Presenza dello Stato non è solo ordine pubblico e sicurezza: è prima di tutto sostegno alla soggettività positiva attraverso meccanismi mirati di accompagnamento e coordinamento, fino alla decisa azione sussidiaria in caso di manifesta debolezza: la logica del commissariamento in caso di default o di gestione in odore di illegalità motiva interventi in caso di crisi conclamata e grave; sarebbe invece necessario adottare logiche analoghe anticipatamente, quando è evidente un ritardo grave nella gestione della governance. I temi chiave che animano il dibattito internazionale sullo sviluppo sono ana-

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loghi se non simili a quelli che caratterizzano la discussione sul futuro del Mezzogiorno. Questi temi dovranno essere sviluppati all’interno del processo di attuazione della riforma dello Stato in direzione federale. In senso generale, una multilevel governance che ripartisca il potere di decidere in modo più distribuito sul territorio è coerente con una logica di sviluppo moderno, ispirato a concetti di qualità e di diversificazione/specializzazione. Questa riforma si sta però costruendo in una fase di debolezza estrema dello Stato, il che può dare adito a derive di egoismo locale che contraddicono il principio di sussidiarietà (adottato dall’Unione Europea fin dalla fine degli anni ’80) e, perciò, le capacità di intervento di livelli amministrativi superiori in caso di provata difficoltà di quelli inferiori. Ciò che è in gioco non è il rapporto tra autonomia e responsabilità, ma quello tra autonomia e solidarietà. Su questo aspetto si registrano voci preoccupate, potremmo dire: ragionevolmente preoccupate. Infatti, l’opzione della responsabilità di gestione del proprio sviluppo è coerente con una moderna visione del futuro, ma va contemperata con una responsabile gestione delle debolezze strutturali. Quasi tutti gli analisti sono concordi nel ritenere che lo sviluppo del Mezzogiorno possa ripartire da un significativo miglioramento dell’intero quadro della governance locale. Quest’ultima dovrà dunque essere perfezionata mediante la previsione di forme di flessibilità ap-

plicativa (quali, ad esempio, quelle adottate nel caso delle Spagna) che permettano - anche “all’interno” del Mezzogiorno - di interpretarne in modo differenziato il disegno, assegnando ai diversi livelli (Regioni, Stato, Unione Europea) compiti “adatti” alle specificità locali e modificabili nel tempo. Il primo terreno di applicazione di questo principio è evidentemente quello della gestione dei fondi comunitari, ad oggi profondamente critica. Più in generale, nel Mezzogiorno va affrontato un processo di “reistituzionalizzazione”, intendendo tale termine nel suo significato più ampio. Istituzione, infatti, non è solo lo Stato, ma tutto ciò che aiuta le persone a superare una condizione di solitudine ed isolamento. In una visione aggressiva e di moda dello sviluppo questo assume spesso le vesti di una retorica dell’individuo che “sfida” il mercato in un quadro di regole deboli. Viceversa, l’esperienza ci dice che oggi vincono le società coese e governate come, in Europa, la Germania con la sua riedizione di una economia sociale di mercato che vede una compartecipazione equilibrata di mercato, Stato, parti sociali, con ruoli non confusi ed in ogni caso responsabili. Reistituzionalizzare il Mezzogiorno significa perciò partire dai luoghi dove gli individui tentano insieme di costruire comunità aperte, nella vita civile e nella vita economica e sociale: la famiglia e l’associazionismo; la politica ed il tessuto amministrativo. Buona società significa buona politica e buona amministrazione.


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Sappiamo di partire da una base fragile: anche l’associazionismo più motivato e gli amministratori locali più preparati e convinti possono fare poco da soli di fronte ad un compito che, se visto da una prospettiva così frammentata, finisce troppo spesso per essere di pura difesa. Sentire la presenza dello Stato nel Mezzogiorno è importante non solo per la lotta alla criminalità, ma per “rendere normali” i processi amministrativi di base e per difendere e rassicurare i cittadini nel loro impegno civile. Una buona normalità amministrativa è l’obiettivo primario di una nuova logica di governance. Su una buona normalità è possibile innestare una logica di investimento che può sicuramente portare il Mezzogiorno lontano dalle attuali difficoltà. Per ottenere questo occorre intervenire sui processi amministrativi (e sui processi politici che stanno a monte) con la stessa determinazione con la quale si sta combattendo il male della criminalità: tempi e qualità delle decisioni devono rapidamente migliorare. Non basta una ordinaria attività di monitoraggio e controllo, occorre piuttosto una forte componente di affiancamento alle amministrazioni del Mezzogiorno di professionalità eccellenti, che possano presidiare tutta la catena operativa: dalla progettazione alla realizzazione degli interventi. Per il Mezzogiorno si può partire dalla gestione dei fondi strutturali con “l’obiettivo 100%”: 100% di impegno, 100% di spesa effettiva, 100% di qualità dei progetti e degli interventi, entro i

termini che l’Unione Europea pone. Facendo questo otterremo un netto miglioramento anche delle procedure amministrative in altri settori. Lo Stato non deve per questo mettere a disposizione “risorse aggiuntive”, ma esercitare la sussidiarietà sui processi, proporzionalmente al loro livello di criticità e di efficienza, al limite sostituendosi alle amministrazioni palesemente incapaci di decidere e realizzare gli interventi: la mancata utilizzazione delle risorse in una momento di crisi e di forti vincoli di bilancio è un fatto di non sopportabile gravità.

L’Autore raffaele borriello Direttore generale dell’Ismea Investimenti per lo sviluppo. Giancarlo lanna Presidente Simest.

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Minuta Cultura

Una cultura che non cambia è una cultura morta di Bianca Maria Sacchetti Economia sociale

Per un’economia che non sia solo profitto di Michele Trabucco Cultura

Siamo figli di un comune destino di Angelica Stramazzi RUBRICHE Africa felix

Mama Hawa, la madre degli ultimi di Michele Trabucco Land of the free

A rischio l’egemonia culturale americana di Giampiero Ricci



Bianca Maria Sacchetti

La psicosi dell’altro dall’antichità a oggi

Una cultura che non cambia è una cultura MORTA Una società che ha paura dell’alter può portare una nazione alla deriva e alla perdita dei propri valori di identità e di cività. Bisogna fornire una visione culturale di apertura e di accettazione nella quale un giovane immigrato scelga di voler appartenere

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Congenita nell’uomo è l’esigenza di definizione. La maniera più facile, ma non la più autentica, di fissare e, quindi, rafforzare, un’identità è per opposizione. È molto complessa la dialettica relativa a questa tematica, in quanto sarebbe riduttivo ritenere che solo mediante lo speculum io-altro, popolo x-barbaro, si possano ricavare per differentiam degli esaurienti paradigmi culturali, antropologici e religiosi. L’essenza di una nazione sarà di certo parziale e debole se sagomata solo o soprattutto mediante il “gioco delle differenze” con il resto del mondo e il rischio è che si arrivi ad affermare in modi estremi le proprie caratteristiche etniche e, quindi, a combattere le impurità altrui, degenerando così in nazionalismo. È altrettanto vero, però, che nel corso della storia, per un popolo, il formarsi di una marcata coscienza è molto spesso coinciso con il corroborarsi del concetto di alterità, andando a forgiare una rappresentazione di barbaro in accezione “oppositiva asimmetrica”. Per i greci, faro in una ri-

flessione come questa che ci accingiamo a fare, furono decisive le guerre persiane, che modificarono in maniera rilevante la percezione che questo popolo aveva di sé e, soprattutto, dell’altro, in particolar modo dell’orientale, a cui fu affibbiata una serie di stereotipi, come quello della dissolutezza, della lussuria, della tendenza a farsi assoggettare da sistemi dispotici, che, seppur in parte trasformati, confluiranno in un modello culturale eurocentrico. Fu proprio in occasione di tale conflitto che Erodoto VIII 144 definì, per la prima volta a chiare lettere, la comunità ellenica, medesima per sangue, lingua, culti, costumi, inaugurando così la concezione della grecità (Hellenikón) come unità etnico-culturale. Non dobbiamo, tuttavia, leggere questo dato storico-storiografico con eccessiva rigidezza: i greci di certo approfittarono della guerra persiana per avvalorare il senso di grecità e rimarcare la distanza con l’oriente ma questa operazione non fu di certo intrapresa ex nihilo. La consapevolezza di appar-


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tenere a una civiltà contraddistinta da unitarietà doveva in qualche modo già esistere e fu proprio questa che portò con sé l’immediata e fisiologica deduzione delle differenze e opposizioni fra ethne, fino alla codificazione di un vero e proprio modus cogitandi declinato nelle varie discipline, dall’arte, alla pittura vascolare, alla letteratura e alla filosofia. Gli “esseri altri” che Odisseo incontra nel suo peregrinare - i Ciclopi, le Amazzoni, i Centauri, collocati al di fuori del consorzio umano e contro i quali l’eroe aveva l’obbligo di combattere al fine di purificare il mondo degli uomini - dal VI secolo esistono, hanno una voce, sono reali e vanno combattuti. Il parallelismo fra il ciclope “violento e privo di leggi”, che né pianta, né ara, né conosce assemblee di consiglio, né leggi, e il persiano, glabro, lascivo e schiavo per natura, è emblematico di quello che è il processo di maturazione relativo alla definizione di alterità nel mondo antico. Wilfried Nippel è a proposito illuminante: «I modelli di percezione dell’altro sviluppati nell’antichità vedono mescolarsi, secondo proporzioni variabili di caso in caso, empirismo e teoria, autopsia e trasmissione di topoi letterari, sforzi di comprendere le culture straniere ed etnocentrismo, giustificazione del dominio su altre civiltà e ammirazione per prestazioni culturali di alto livello, autoriflessione nello specchio dell’altro e proiezione

di concezioni sociali alternative nella sfera dell’estraneità». Nel caso specifico dell'Ellade, gli episodi bellici di Maratona e Salamina, gratificanti e del tutto inaspettati, furono occasione preziosa di confronto e contribuirono, quindi, a ratificare un etnocentrismo greco che aveva, prima, una veste ancora troppo astratta. La parola “barbaro” assume così un potenziale semantico molto forte, dal momento che coloro che apostrofano qualcuno con tale termine si identificano in automatico con i presunti maestri di civiltà, con coloro che sono dalla parte giusta. Il concetto di barbaros, stando alle riflessioni di Maurizio Bettini che parla di Todorov, possiede due diverse accezioni. Da una parte ha un senso relativo e reversibile: sono barbari coloro che non parlano la nostra lingua o che la parlano in maniera scorretta e sguaiata; dall'altra, invece, ha un respiro assoluto, absolutus “sciolto da”, indipendente dal punto di vista di colui che parla. La categoria di “barbaro”, secondo quest'ultima classificazione, sarà alimentata da tutti quelli che trasgrediscono le regole del vivere comune, che sono privi di buon senso, che agiscono spinti da crudeltà e violenza, che non mostrano alcun rispetto per le vite altrui. Le barbarie più atroci scaturiranno dal non riconoscere dignità umana agli altri, dalla sopraffazione, dall’intolle-

Chi apostrofa qualcuno con la parola barbaro si identifca in automatico come presunto maestro di civiltà e di giustizia


CULTURA

ranza, tutti comportamenti che hanno intriso il Ventesimo secolo rendendolo raccapricciante teatro delle varie persecuzioni etniche. Mauro Moggi, in un interessante intervento contenuto in una raccolta di saggi intitolata Lo straniero, ovvero l’identità culturale a confronto, ci fornisce una distinzione fra xenoi e barbaroi, secondo la quale i primi sono posti in una condizione di estraneità con valenza esclusivamente politica, mentre i secondi saranno “stranieri due volte”, in quanto la lontananza non sarà solo politica ma anche etnica e culturale. Per un ateniese, lo xenos era uno spartano, un corinzio, un isolano, un “simile”, insomma, con cui veniva condiviso il medesimo patrimonio culturale, antropologico e religioso ma che si poneva al di fuori della propria polis. Volendo, a questo punto, declinare tali concetti in chiave odierna, potremmo trovare dei sensibili parallelismi. Anche noi abbiamo a che fare con barbaroi e xenoi: sono diversi i non-italiani ma purtroppo la diversità è altrettanto percepita fra italiani, fra cittadini di questa o quella regione, di questa o quella provincia. E, nostro malgrado, non si tratta soltanto di specificità e eterogeneità ma di intolleranza, antagonismo e incomunicabilità, insomma dell’annosa questione italiana nord-sud. In tutti i casi, che si parli di immigrato o di “terun”, è la paura l’approccio

più consueto, fuorviante e devastante quando è il legislatore a farsi dominare o a cavalcarla demagogicamente ai fini del consenso politico. Se coloro che guidano il paese sono in preda a bassi istinti e deliberano sotto dettame di pavidità e insicurezza, allora funeste e buie saranno le previsioni. La paura è quasi sempre legata alla categoria della sicurezza e alla sua salvaguardia, riferimenti, invece, parziali e riduttivi rispetto al principio di legalità che li contiene ma si spinge oltre, contemperando la reciprocità di diritti e doveri, il principio di uguaglianza e integrazione, ossia tutto ciò che dovrebbe ispirare e fondare le politiche nazionali e immigratorie. Ciò che è al di fuori della porta, della finestra, per usare la celebre immagine di Edmond Jabés, che allo straniero e al concetto di condivisione ha dedicato molta attenzione, è foriero di relativizzazione, ovvero di un sistema valoriale che, in quanto diverso, destabilizza e deassolutizza il nostro. L'ordine al quale si aspira nella gestione del pubblico e del privato è ottenuto attraverso norme che devono aiutare a prevedere i fenomeni in modo da assicurare sempre un controllo del reale. In questo senso è chiaro che lo straniero costituisce l'anomalia, l'eccezione, lo strappo alla regola. Ed è qui che si annidano paura e diffiden-

La paura dell’altro è quasi sempre legata all’insicurezza e alla sua salvaguardia e minano il principio di legalità

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za, condizioni dell'animo che dovrebbero essere aliene ai cittadini e, ancor di più, ai governanti di un paese. Abbiamo il timore del “nuovo” poiché facciamo scarso affidamento sulla Abbiamo paura nostra capacità del nuovo poiché di assorbirlo sennon siamo capaci di accoglierlo za snaturarci, di accoglierlo senza annullarci, di fonderlo senza che sbiadiscano i confini significativi fra il prima e il dopo, fra noi e loro. Lo straniero è anche “contenitore di sbagli e male”: senza tale capro espiatorio saremmo costretti a confrontarci con noi stessi, a rifletterci nell'inclemente speculum veritatis e quindi a fare i conti 120 con inadeguatezza ed errori. La paura dello straniero fa spesso da collante populista a comunità nazionali spaesate e governi inerti, autoreferenziali, piegati da problematiche interne finché, caduto il velo del barbaro, si scopre il Re nudo. Pensiamo al sublime scritto del poeta greco Kavafis che trascrivano integralmente per quanto appare universale e attinente a certa politica italiana che, probabilmente, dopo Lampedusa non avrà più nulla da fare.

La paura dello straniero fa spesso da collante populista a governi inerti

Aspettando i barbari Che aspettiamo, raccolti nella piazza? Oggi arrivano i barbari. Perché mai tanta inerzia nel Senato? E perché i senatori siedono e non fan leggi? Oggi arrivano i barbari. Che leggi devon fare i senatori? Quando ver-

ranno le faranno i barbari. Perché l’imperatore s’è levato così per tempo e sta, solenne, in trono, alla porta maggiore, incoronato? Oggi arrivano i barbari. L’imperatore aspetta di ricevere il loro capo. E anzi ha già disposto l’offerta d’una pergamena. E là gli ha scritto molti titoli ed epiteti. Perché i nostri due consoli e i pretori sono usciti stamani in toga rossa? Perché i bracciali con tante ametiste, gli anelli con gli splendidi smeraldi luccicanti? Perché brandire le preziose mazze coi bei ceselli tutti d’oro e argento? Oggi arrivano i barbari, e questa roba fa impressione ai barbari. Perché i valenti oratori non vengono a snocciolare i loro discorsi, come sempre?


CULTURA

Oggi arrivano i barbari: sdegnano la retorica e le arringhe. Perché d’un tratto questo smarrimento ansioso? (I volti come si son fatti seri!) Perché rapidamente e strade e piazze si svuotano, e ritornano tutti a casa perplessi? S’è fatta notte, e i barbari non sono più venuti. Taluni sono giunti dai confini, han detto che di barbari non ce ne sono più. E adesso, senza barbari, cosa sarà di noi? Era una soluzione, quella gente. Costantino Kavafis Facile trasporre a oggi l'evocazione forte di tale angoscia: il parallelismo tra l'immobilismo del Senato ateniese e quello delle nostre Camere, il ricorso ad alchimie e colpi di scena per

"far impressione", che si tratti di bracciali con ametiste, o ville e casinò a Lampedusa, e la necessità dell'alta tensione perché, altrimenti, senza barbari che sarà di noi? Gli immigrati non sono Ecco allora una uno tsunami, ma politica dell'immipersone diverse con volti da conoscere grazione fatta solo di respingimenti, di caccia al diverso, di presunzione di clandestinità in capo a soggetti che scappano dalla fame e dalla guerra, dove il cardinal Bagnasco definisce "illusione piantonare le coste di un intero continente " e grande assente è la solidarietà. È questo il miglior modo per creare 121 dei mostri, forse tra gli espatriati, senz'altro nella comunità nazionale, il cui tessuto umano e sociale degrada e arretra. Diffusa, soprattutto sotto lo choc emergenziale, è la tendenza a parlare degli immigrati in termini di folla, se non addirittura, di "tsunami", mentre si tratta di persone diverse, con soggettività e volti da conoscere. Bisogna allora frantumare quella immaginaria massa indistinta in identità separate, autonome, perché le relazioni umane sono sempre tra Una cultura che non persone e mai tra cambia è una cultura folle. morta e non c’è nulla La legislazione atdi cui essere fieri tuale vede alla base la riforma del 1998 con la Ebbe 40 e il d.lgs 286, la cosiddetta Bossi-Fini del 2002 e le sue modifiche del 2009 del cosiddetto pacchetto-sicurezza. Con la legge 40/98 si affronta or-


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ganicamente il fenomeno mediante la programmazione dei flussi d'ingresso per lavoro, il contrasto all'immigrazione illegale, l'avvio di misure per una effettiva integrazione degli stranieri regolari. La legge Bossi-Fini integra e sostituisce numerose parti dei provvedimenti legislativi vigenti e introduce norme ex novo in linea col principio cardine della riforma che è l'aggancio del soggiorno duraturo col lavoro sicuro e lecito, il binomio permesso-contratto di lavoro, oltre a misure che tendono ad arginare il fenomeno dell'immigrazione clandestina, in particolare mediante l'accompagnamento coatto alla frontiera. Le novità del 2010 introducono il tanto dibattuto reato di immigrazione clandestina per chi entra illegalmente nel territorio italiano, oltre alla istituzione delle cosiddette ronde e al limite di permanenza di 180 giorni nei centri d'espulsione cie e ad altre limitazioni. Venne tolto in limine l'obbligo di denuncia per i medici, norma delatoria e, quella sì, barbara. Non solo l'inasprimento delle norme e la caccia al clandestino hanno contribuito ad appesantire la cappa della xenofobia che già si respirava, ma anche la politica strillata di un partito i cui slogan sono alla stregua di “fora dai bal”, riferito ai profughi di Lampedusa. C'è bisogno di un ripensamento culturale, un sussulto umanitario, un assetto giudico che consenta di adeguare il concetto di cittadinanza ai mutati fenomeni dell'immigrazione. Bisogna puntare, per dirla con Cardini, non tanto sul concetto di nazio-

ne, che ha in sé un elemento insopprimibilmente ideologico e biologico, quanto su quello di patria, quella che «non sta nelle teste dove albergano le idee astratte bensì nel suolo sul quale si poggiano i piedi, dal quale proviene il nostro pane quotidiano, la cui lingua si è appresa fin da bambini e sotto il quale dormono i nostri morti». Se questo è il punto di partenza, allora il concetto di cittadinanza va rivisto in considerazione dei flussi migratori e soprattutto della cosiddetta seconda generazione in emigrazione. L'Europa del Diciannovesimo secolo e dei primi del Ventesimo, quella degli stati nazionali in concorrenza tra loro, presa dall'ideologia nazionalistica, ha favorito politiche di assimilazione e uniformità culturale al servizio dei singoli stati e non sono stati promossi studi, neppure negli Usa a causa della sua ideologia nativista e del "melting pot", sul fenomeno delle seconde generazioni di immigrati. A partire dagli anni ‘80 si è maturata la convinzione che le migrazioni siano divenute strutturali alla demografia e all’economia dei nostri paesi e che la presenza degli immigrati abbia una valenza culturale per le nostre società che risultano multiculturali di fatto ma devono andare oltre, divenendo interculturali e promuovendo una "democrazia culturale" che sappia accettare e dare cittadinanza alle diversità esistenti sul territorio. In questo ambito si colloca la scoperta dei fenomeni di costume legati alla "seconda generazione dei figli degli immigrati", formata da quei ragazzi


CULTURA

che, a legislazione italiana invariata, restano stranieri, in quanto l'appartenenza rimane legata allo ius sanguinis e non allo ius soli, con la totale insignificanza giuridica del fatto che siano nati in Italia, vi abbiano frequentato le scuole, vi lavorino, producano e partecipino alla vita civile e culturale italiana. Restano quindi immigrati, cioè sottoposti allo status giuridico riservato alla propria famiglia, non godono di agevolazioni amministrative e giuridiche, rimangono sottoposti al regime dei permessi, non godono dei diritti civili e di partecipazione alla vita locale e non possono accedere ad alcune professioni proprio in quanto "stranieri" e "immigrati". Da qui la necessità di ripensare il loro status giuridico: a livello di diritto e di appartenenza nazionale bisogna arrivare a leggi che pongano a fondamento lo ius soli superando la visione razziale dello ius sanguinis e rifondare, partendo da questi giovani, il concetto di cittadinanza. La loro, infatti, è una cittadinanza autentica e reale, che deve essere trasformata in cittadinanza giuridica con tutto ciò che ne consegue e, quindi, anche col diritto di voto. Proprio ai ragazzi di seconda generazione si applica a pieno titolo la "cittadinanza di residenza" che supera quella desueta legata alla nazionalità. In un Paese “conservativo” come il nostro, una riflessione tanto delicata va affrontata scongiurando del tutto il timore di un affievolimento dell’identità della nazione accogliente, la qua-

le deve anzi ben palesare i principi fondamentali della propria civiltà e tradizione. Come dice il premier Cameron, che cito per essere l'Inghilterra pioniera nelle politiche dell'immigrazione e per la critica al multiculturalismo, è il momento di passare a un liberalismo muscolare, in cui la vita nazionale ruoti intorno a certi valori chiave e li promuova attivamente, aggregando intorno ad essi. Bisogna fornire, insomma, una visione di società alla quale il giovane immigrato senta di voler appartenere poiché viziato è il meccanismo che si nutre della paura dell'alter, in quanto trascina un individuo, un partito, un intero Stato alla deriva, fiaccandoli e tradendo i più alti e nobili valori. Citando ancora una volta Bettini, che mediante un’icastica metafora tenta di delineare il tanto delicato concetto di trasformazione antropologico-culturale: «Qualsiasi cultura viva è simile alla mitica nave Argo. Il suo viaggio era durato così a lungo che tutte le sue parti erano state cambiate, assi, funi, vele... eppure era sempre la stessa nave. Una cultura che non cambia è una cultura morta e non c'è nulla di cui essere fieri».

l’autore Bianca Maria Sacchetti Laureata in Lettere classiche all’Università di Firenze con tesi in Storia greca, è iscritta al corso di Editoria presso l’Associazione Torre di Babele.

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Per un’economia che non sia solo profitto Secondo il pensiero moderno il settore economico coincide solo con quello della produttivitĂ : un pericoloso fraintendimento che il concetto di cooperativa può smentire in maniera costruittiva.

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Trasformare l’Europa nell’“economia della conoscenza più competitiva e dinamica del mondo... capace di una crescita economica sostenibile, con più e migliore occupazione e con una maggiore coesione sociale” è uno degli obiettivi principali formulati nel trattato di Lisbona. In quell’occasione la crisi economica era ancora lontana e impensabile, almeno nella mente e nella realtà quotidiana di milioni di persone. Ora che la crisi “morde” ancora tanti cittadini, non solo occidentali, e parecchie riflessioni sono state fatte sulle cause prossime e remote, possiamo avanzare ulteriori proposte e considerazioni sul modello economico dell’occidente, così “malato” a causa di alcune grandi fratture e distorsioni che si sono annidate nel corso del tempo nella cultura economica e sociale dei cosiddetti paesi ad economia avanzata. In questo obiettivo la cooperazione, ed in essa l’impresa cooperativa, ha un ruolo altrettanto importante e prezioso di altre forme capitalistiche presenti nel mercato. L’epoca moderna ci ha lasciato una delle eredità più pericolose per l’analisi e la formulazione di modelli economici: il convincimento che la sfera economica sia solo quella della produttività, finalizzata alla massimizzazione del profitto. Una tale riduzione e restrizione ha portato alla nefasta dicotomia tra economia e sociale, come se il vero imprenditore è solo quello che è animato da intenti esclusivamente

autointeressati. L’errore di fondo, quindi, è l’aver confuso l’economia di mercato con il sistema capitalistico, cioè il genere con la specie, dove il capitalismo può essere una forma dell’economia di mercato, ma non l’unica ed esclusiva. Ciò, come dice Stefano Zamagni, “ha portato ad identificare l’economia come il luogo della produttività della ricchezza, o del reddito, e il sociale come il luogo della solidarietà e/o della compassione”. La pressione di una finanza orientata solo a risultati di breve termine; l’ideologia che parte dall’assunto antropologico dell’homo oeconomicus – che è un assunto e non una proposizione dimostrata – ovvero dell’egoismo razionale, e giunge alla conclusione che i mercati, anche quelli finanziari, sono assetti istituzionali in grado di autoregolarsi. Un ordine liberale che voglia dirsi tale non può accettare che tutti abbiano le medesime motivazioni e preferenze; né il fatto che una differenza tra individui diventi una discriminazione, né che sul piano economico ci sia spazio solo per l’impresa capitalistica e una logica di “mera finanziarizzazione”, sganciata da una economia reale. La cooperazione può diventare un mezzo del e nel mercato per rafforzare quella coesione sociale così vitale per la società attuale ancora immersa nella gestione della più grande crisi economica del dopoguerra, rigenerando i valori di “equità, fiducia, reciprocità e de-

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mocrazia”. Ma come è possibile 1995 di Manchester ha chiarito dar voce e maggior valore ad una che: “una cooperativa è un’assorealtà che troppo spesso viene ciazione autonoma di persone unisnobbata perché ritenuta poco effi- te volontariamente per soddisfare ciente e stimolante per il benessere le loro aspirazioni e bisogni economici, sociali e culturali comuni e la ricchezza di un paese? Occorre innanzitutto riconoscere attraverso la creazione di un’impreche la recente crisi ha messo in di- sa di proprietà comune e democrascussione il principio della unicità ticamente controllata”. In questa otdell’impresa capitalistica e che è tica i principi fondativi, ribaditi prorealmente ed efficacemente possi- prio a 150 anni dalla prima coobile fare impresa anche se si per- perativa fondata a Rochdale, in Inseguono “fini di utilità sociale” e si ghilterra nel 1844, sono rimasti imè mossi all’azione da motivazioni mutati. Innanzitutto c’è l’adesione di tipo pro-sociale. In questo modo volontaria, libera, aperta a tutti, che chiarisce cosi può colmare, anme ogni persona che se non completaSi deve sanare lo strappo può aderire, senmente, il divario tra za vincoli di capiambito economico e tra l’economia tale, di istruzione, ambito sociale. Fare e il sociale: prima di competenza o cooperazione signifila persona altro. Poi il conca affermare che pritrollo democratico ma c’è il mercato e e poi il profitto da parte dei soci, poi il capitalismo; che in tal modo che prima c’è la persona e poi il profitto; prima il “be- sottolinea il primato della persona, ne comune” e poi il bene indivi- del lavoro sul capitale (in questo duale; prima la relazione e poi la senso allora si potrebbe dire che competizione. Fare cooperazione la cooperativa è anticapitalistica, significa superare la falsa contrap- ma solo perché inverte i rapporti di posizione tra libertà e giustizia; ef- forza tra lavoro e capitale). Imporficacia ed equità; interesse perso- tante è il principio della partecipanale e solidarietà; indipendenza e zione dei soci, che concorrono appartenenza. Fare impresa coo- equamente secondo il famoso adaperativa significa mettere al centro gio “una testa, un voto” (e non in la mutualità, la reciprocità, il lavo- rapporto al capitale impiegato o ro, la fraternità, la democrazie sen- versato). L’autonomia è indipenza nulla togliere al perseguimento denza stabiliscono che il controllo dell’organizzazione deve restare di reddito, sviluppo e benessere. È vero che ci possono essere diver- sempre nelle mani dei soci. Infine se forme cooperative ma la Dichia- ricordiamo che la cooperativa erorazione di identità cooperativa del ga servizi non solo di formazione,


ECONOMIA SOCIALE

ma anche di educazione ai propri vizi supplementari ai suoi soci e a soci. Per ultimo la prospettiva di tutta la società. collaborazione tra cooperative e Importanti anche per il sistema soimpegno verso la comunità diventa ciale ed economico, innanzitutto il segno di una responsabilità nei per lo sviluppo regionale. Gli effetconfronti della società e del cosid- ti positivi della globalizzazione non raggiungono sempre tutti e, detto “bene comune”. Un’impostazione liberale non può anzi, la globalizzazione ha spesso accettare che non si concili un'eco- un risvolto negativo che genera nomia sana e competitiva con una emarginazione e scontento. Le cooperative aiutano a rispondere società giusta e responsabile. Le cooperative sono l'unica forma a questa sfida perché, grazie allo di impresa la cui ricchezza non di- spirito di solidarietà che dà loro vipende tanto dal capitale quanto ta, sono la cerniera fra il mercato dalle donne e dagli uomini che vi e la piccola impresa o l'individuo. Esse permettono lavorano. Le cooperaalle piccole imtive sono imprese diNelle cooperative, prese di compeverse da tutte le altre tere in mercati perché nascono e si a differenza delle altre più vasti, pur fondano più sui valori imprese la ricchezza conservando la che sulle risorse. Valodipende dagli uomini propria autonori come l'orgoglio nei mia e la base loconfronti di un prodotpiù che dal capitale cale. Fanno sì to e di un servizio fatpoiche coloro to a regola d'arte, la volontà di condivisione con gli al- che vivono in regioni con difficoltà tri, la partecipazione alla pari, la si soddisfino capitale di soddisfare solidarietà sono elementi vitali per le proprie esigenze in maniera auuna coesione sociale e un’econo- tonoma. Pertanto, le cooperative hanno un mia sana e realistica. E il modello funziona in Italia come ruolo decisivo nello sviluppo regioin altri paesi europei. È un dato di nale e locale. fatto che nel mercato imprese co- L’associazione in cooperativa ànme le cooperative possano tran- cora stabilmente l’impresa alle coquillamente fare utili, essere inno- munità locali perché la solidarietà vativi e competitivi e allo stesso sulla quale si reggono esce dai tempo perseguire obiettivi sociali e confini dell'impresa e si allarga alla realtà sociale. In molte zone ruambientali di ordine più generale. Le cooperative sono imprese per- rali sono le cooperative che manché competitive, produttive e auto- tengono in vita i servizi locali. nome ed hanno un “valore aggiun- Altro aspetto importante, a cui le to” che consiste nel fornire dei ser- cooperative possono dare un si-

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gnificativo contributo, riguarda la sfida della responsabilità sociale dell’impresa, in quanto “integrano strutturalmente le altre parti interessate”. Un’impresa libera dal fine ultimo di assicurare il profitto per gli investitori è anche libera di adottare una prospettiva di lungo termine nell’interesse dei soci, dei clienti, dei dipendenti e di tutta la comunità. Infine possiamo cogliere un ulteriore contributo della cooperativa alla sfida della governance. La partecipazione alla vita civica è un punto fondamentale per una “buona società”. Esse offrono agli individui la possibilità di prendere in mano il proprio destino, di organizzarsi per raggiungere obiettivi comuni. I cittadini che si associano in cooperativa dimostrano che non dobbiamo appiattirci sul pensiero unico. Le cooperative dimostrano che si può fare qualcosa di importante, che il lavoro, l'impresa e il profitto non sono finalità in sé a cui tutto deve tendere. Tramite le cooperative, i cittadini si creano autonomamente il posto di lavoro, forniscono assistenza e servizi sociali, difendono i propri interessi comuni come consumatori, concedono prestiti a tassi equi e si assicurano mutuamente contro i rischi. In questa prospettiva, non si può pensare che un sistema politico-istituzionale non favorisca della “fioritura di quei soggetti che realizzano modi diversi di fare economia”; che una organizzazione democratica non “favorisca gli spazi

di libertà e azione senza privilegiare gli uni o gli altri”; perché “né la visione liberal-individualista del mondo, in cui tutto è scambio, né la visione statocentrica della società, in cui tutto è doverosità, sono guide sicure per farci uscire dalle secche in cui le nostre società sono oggi impantanate”. S. Zamagni, La cooperazione, il Mulino; La lezione e il monito di una crisi annunciata, dispense universitarie, Bologna; Verso una nuova teoria economica della cooperazione, il Mulino. S. Scarpellino, La cooperativa di lavoro nella teoria economica, Rubbettino. R. Prodi, Il valore aggiunto della cooperativa, Commissione Europea. A. Zevi, La cooperazione nell’economia italiana, dispense universitarie, Roma.

l’autore michele trabucco Giornalista freelance, laureato in Teologia e in Scienze dello sviluppo e della cooperazione internazionale.


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IL FUTURO Ăˆ GIĂ€ QUI

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Bimestrale della Fondazione Farefuturo Nuova serie anno III - n. 16 - maggio/giugno 2009 - Euro 12 Direttore Adolfo Urso

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LA RUSSIA DOPO IL MURO Bimestrale della Fondazione Farefuturo Nuova serie anno III - n. 18 - settembre/ottobre 2009 - Euro 12 Direttore Adolfo Urso

COME ABBONARSI A CHARTA MINUTA


Angelica Stramazzi

Siamo FIGLI di un comune destino Un patrimonio di valori e principi identitari è tale se riesce a migliorare la comprensione del presente attraverso la progettazione di ciò che verrà in futuro non troppo lontano.

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Ogni società che si rispetti dovrebbe, se realmente volesse sopravvivere alle continue sfide lanciate da un universo ormai globale e in continua trasformazione, custodire e preservare nel modo più opportuno ciò che di più prezioso e caro possiede: ricordi, tradizioni, narrazioni di un passato che, nonostante tutto, non può essere cancellato. In effetti, il problema della “conservazione” della memoria – delle sue fonti, dei suoi rituali e aneddoti – compare sulla scena pubblica a partire dalla seconda metà del ventesimo secolo, imprimendo un’accelerazione spaventosa e indiscussa a un processo di trasmissione di un passato che risulta tanto più inviso quanto più è, nei fatti, ignorato e volutamente dimenticato. Del resto, da più parti è stato sottolineato come «dalla fine degli anni Ottanta, la preoccupazione del passato, nelle sue differenti manifestazioni, occupa un

posto preponderante nello spazio pubblico. Questo interesse accresciuto per la storia – e in particolare per i crimini della storia – si accompagna spesso a un’invocazione del ricordo, a un appello al dovere della memoria»1. È particolarmente significativo notare come sia proprio a partire dagli anni Ottanta che si materializza di fatto la necessità di recuperare tutto il materiale storiografico relativo a un passato ancora inesplorato e parzialmente raccontato. Se in questo arco temporale – gli anni Ottanta giustappunto – affiora la possibilità di costruire dalle fondamenta un “dovere della memoria”, è soprattutto perché il momento del disimpegno e della spensieratezza comporta, di fatto, una maggiore nitidezza nell’affrontare le fratture e le divisioni che, qualche decennio prima, avevano fortemente lacerato l’intero Paese. La stagione del riflusso, seppur caratterizzata


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da una minore partecipazione attiva della società alla politica e da una spiccata propensione nei confronti di uno stile di vita votato all’edonismo, lascia aperti ampi spazi vuoti. Se da un lato si avverte l’esigenza (e la volontà) di chiudere un periodo intriso di movimentismo e di “dedizione alla causa”, dall’altro, si cerca di evitare, soprattutto in ambito storiografico, che l’oblio prenda il sopravvento. Di qui la necessità, dapprima avvertita e poi tradotta in azioni concrete, di raccontare le vicende di un Paese che aveva conosciuto l’orrore della guerra civile e le lotte fratricide. In sostanza, la messa all’angolo del “privato che diventa

politico” coincide, in buona parte, con la stagione del “mal d’archivio” (l’espressione è di Jacques Derrida): il desiderio convulso e spasmodico di registrare il passato si fonde con una vera e propria ossessione di tipo memoriale. Prima di andare a indagare le modalità in base alle quali l’Italia ha elaborato una sua memoria storica più o meno largamente condivisa, occorre specificare attraverso quali fasi avviene e si esemplifica quel processo di sedimentazione del passato che resta, ancora oggi, di rilevanza estrema per chiunque desideri confrontarsi con ciò che è accaduto. Parlare di sentimento comune, di idem sentire, risulta,


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oggi più di prima, un percorso difficile, soprattutto di fronte al fatto che il nostro mondo – con le sue regole intrinseche, le sue logiche interne più o meno riconosciute – vive una fase si scollamento dalla realtà e da ciò che fattivamente esiste. Pensieri, riflessioni, sogni ed emozioni: tutto (o quasi) viene sacrificato in nome di una spasmodica e sempre più compulsiva ricerca di un successo che è tanto più effimero quanto più intensamente desiderato. Eppure, nonostante le enormi sfide poste dalla globalizzazione e indirizzate al “piccolo” microcosmo europeo e nazionale, il desiderio di voler costruire una narrazione storica il più possibile condivisa e accettata non è mai mancato, soprattutto negli animi di chi, durante il secondo conflitto mondiale, aveva conosciuto, in prima persona, gli orrori causati da una guerra civile lacerante e umanamente disastrosa. Tuttavia, ogni qualvolta si desideri affrontare la questione relativa alla possibile esistenza o meno, nel nostro Paese, di una memoria collettiva e comunemente accettata e condivisa, i problemi in cui si incorre non sono pochi, né da sottovalutare. Come in ogni trattazione socio-politica che si rispetti, la chiarificazione terminologica costituisce il primo e più importante passo da compiere con consapevolezza di giudizio e cognizione di causa. Troppo spesso, infatti, la confusione operata da molti a livello concettuale finisce poi inevi-

tabilmente per trasformarsi in una un ben più pericolosa incertezza di tipo contenutistico, incertezza in grado spiazzare chi legge ancor prima di chi scrive. Detto questo, dunque, resta da capire cosa debba intendersi con il termine “memoria” e, dopo aver specificato in cosa essa consista, identificare gli ambiti di applicazione e di riferimento. In buona sostanza, tutte le volte che sentiamo citare la parola “memoria” dobbiamo pensare che si stia parlando di qualcosa che consente a tutti noi la costruzione e il mantenimento di un’identità nel


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corso del tempo, a dispetto delle numerose sfide e dei continui cambiamenti che la società globale non solo pone, ma a volte ci impone. Frammentazioni e segmentazioni sociali, fratture e scioglimenti di partiti, associazioni e sindacati, disgregazioni di nuclei identitari e dispersione di tradizioni: tutto questo costituisce il nucleo principale di quel processo in perenne mutazione che rende il contesto in cui siamo immersi una “società liquida”, fluida, disposta sì alla modernizzazione ma non troppo alla perdita dei suoi valori

e principi costitutivi. Se, da più parti, è stata ribadita l’importanza di armonizzare un intero bagaglio di esperienze e tradizioni all’interno di un mondo sempre più dominato dal multiculturalismo e dall’internazionalizzazione, dall’altro si è cercato di sottolineare la vitale necessità di non gettare al vento ciò che di più prezioso avevamo ereditato dai nostri avi. Preservare (e custodire) un’identità – conoscerla, apprezzarla e amarla per ciò che sa offrirci – significa affidarsi sostanzialmente alla memoria, alla sua capacità di collegare


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il passato a un futuro ancora tutto da costruire. Solamente attraverso la realizzazione di un sentimento di identità vivo e forte, il singolo può percepire se stesso in maniera costante e mai estemporanea; può, in altri termini, sfruttare quella “funzione adesiva” della memoria per sentirsi sempre lo stesso, nonostante il trascorrere del tempo. Del resto, la metafora del ponte che congiunge una riva all’altra di un fiume è stata, per lungo tempo, utilizzata ogni volta che si desiderasse spiegare, in modo esemplificativo, il concetto di memoria e la sua principale declinazione, ossia il termine “identità”. Non a caso, un filosofo e pensatore intramontabile come Immanuel Kant amava dire che la memoria serve «a legare in una esperienza coerente ciò che non è più con ciò che non è ancora per mezzo di ciò che è presente»2. Ecco, in questa frase si riassume quanto detto finora, ossia che un patrimonio di valori e principi identitari è tale se riesce a migliorare la comprensione del presente attraverso la progettazione di ciò che verrà in futuro non troppo lontano. Tuttavia, troppo spesso, è stato sottovalutato e messo da parte il fatto che, in una qualsiasi società o collettività, il mantenimento di una memoria viva e mai spenta deve necessariamente inserirsi in un processo coerente in grado di legare passato e presente. Il merito di Kant, nello specifico, è stato proprio quello di aver intuito, prima degli altri, che

non può esserci reminiscenza senza un’indagine fedele e obiettiva di tutto ciò che ci ha preceduto, un’indagine che, per aspirare a essere tale, deve, per forza di cose, sviluppare una coerenza capace di legarsi alle sfide del tempo. Come sempre, dopo aver chiarito i contenuti, occorre stabilire quale debba essere l’obiettivo finale dell’indagine. In sostanza, ciò che si intende fare è sottolineare come nel nostro Paese sia di fatto presente, nonostante le numerose resistenze in proposito, la volontà di tenere vivo quel “dovere della memoria” che altro non è se non accettazione ragionata di un percorso storico che ha visto protagonisti i nostri avi. Sebbene lo storico abbia, troppo spesso, influenzato, con le sue personali convinzioni, la trasmissione del passato, la sua figura rimane, ancora oggi, di fondamentale rilevanza. Sarebbe infatti impensabile credere di poter operare una ricostruzione storiografica prescindendo dal ruolo che, in tale processo, ha il narratore, colui che racconta ai posteri vicende che non hanno personalmente vissuto. Bene però ricordare che un compito simile – la trasmissione di ciò che è stato a coloro che desiderano formarsi una coscienza critica – richiede la massima fedeltà e aderenza ai fatti, alle vicende che hanno caratterizzato la nostra società. Nessun giudizio di valore, dunque, ma solamente analisi obiettiva e distaccata: questo è il miglior modo


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Ipse dixit Osserva il gregge che pascola davanti a te: non sa che cosa sia ieri, che cosa sia oggi; salta intorno, mangia, digerisce, salta di nuovo, e così dal mattino alla sera e giorno dopo giorno, legato brevemente con il suo piacere e con il suo dispiacere, attaccato cioè al piolo dell’attimo e perciò né triste né annoiato ... L’uomo chiese una volta all’animale: Perché mi guardi soltanto senza parlarmi della tua felicità? L’animale voleva rispondere e dire: Ciò avviene perché dimentico subito quello che volevo dire - ma dimenticò subito anche questa risposta e tacque; così l’uomo se ne meravigliò. Ma egli si meravigliò anche di se stesso, di non poter imparare a dimenticare e di essere sempre attaccato al passato: per quanto lontano egli vada e per quanto velocemente, la catena lo accompagna. È un prodigio: l’attimo, in un lampo, è presente, in un lampo è passato, prima un niente, dopo un niente, ma tuttavia torna come fantasma e turba la pace di un istante successivo. Continuamente si stacca un foglio dal rotolo del tempo, cade, vola via - e improvvisamente rivola indietro, in grembo all’uomo. Allora l’uomo dice ‘mi ricordo’.” F. Nietzsche, Considerazioni inattuali - Sull’utilità e il danno della storia per la vita, 1884 La distruzione del passato, o meglio la distruzione dei meccanismi sociali che connettono l’esperienza dei contemporanei a quella delle generazioni precedenti, è uno dei fenomeni più tipici e insieme più strani degli ultimi anni del Novecento. La maggior parte dei giovani alla fine del secolo è cresciuta in una sorta di presente permanente, nel quale manca ogni rapporto organico con il passato storico del tempo in cui essi vivono. Questo fenomeno fa sì che la presenza e l’attività degli storici, il cui compito è di ricordare ciò che gli altri dimenticano, siano ancor più essenziali alla fine del secondo millennio di quanto mai lo siano state nei secoli scorsi. Ma proprio per questo motivo gli storici devono essere più che semplici cronisti e compilatori di memorie, sebbene anche questa sia la loro necessaria funzione.. E. J. Hobsbawm, Il secolo breve, Milano, 1997 “La storia recente dell’uomo europeo si riassume in questa incapacità di cadere nel tempo, e riconoscerlo. Di lavorare sulla memoria, ma anche di oltrepassarla per estenderne i confini e costruire su di essa. [...] Quel che ci salva, e ci dà il senso del tempo, è il nostro “esser nani che camminano sulle spalle di giganti”. I giganti sono le nostre storie, i successivi e contraddittori volti che abbiamo avuto in passato, e in quanto tali personificano il vissuto personale e collettivo che ci portiamo dietro come bagagli. Dalle loro alte spalle possiamo vedere un certo numero di cose in più, e un po’ più lontano. Pur avendo la vista assai debole possiamo, col loro aiuto, andare al di là della memoria e dell’oblio”. B. Spinelli, Il sonno della memoria, Milano, 2001

La memoria è il rombo sordo del tempo, scandisce il distacco dal passato per tentare di capire quel che è accaduto. E. Loewenthal, La Stampa, 25.1.2002

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di procedere all’interno di una ricostruzione di tipo storiografico. Assunzione del proprio passato, infatti, significa accettazione responsabile di un patrimonio ampio e vasto di valori e credenze, sogni e sentimenti che, per lungo tempo, hanno caratterizzato – e continuano a caratterizzare – la storia di un Paese che ancora fa fatica a riconoscersi e a percepire se stesso come un unicum inseparabile. Ecco perché nella voglia di esaminare – in modo chiaro e puntuale – un percorso di vite e di esperienze passate e recenti, il superamento di ciò che a lungo ha diviso gli animi (e i cuori) di molti italiani non può, per nessun motivo al mondo, equivalere al rifiuto schietto e diretto di una storia che abbiamo ereditato. La trasmissibilità della memoria – dei suoi fasti e delle sue battute d’arresto – deve necessariamente passare attraverso un atto spontaneo ma significativo di riconoscimento, di apprezzamento e stima verso tutto ciò che è stato fatto per consegnare ai posteri una patria migliore e maggiormente pacificata rispetto al passato. Del resto, la possibilità di costruire su solide basi una “memoria placata”3 – una memoria in equilibrio tra la ripetizione ossessiva di un trascorso doloroso e la negazione perversa di ciò che realmente è accaduto –, è stata vista come la precondizione per poter vivere il presente in maniera serena, evitando, come purtroppo spesso accade, di difendere tout court posizioni ormai chiaramente anacronistiche.

Resta da chiedersi, dopo aver chiarito che la trasmissione di un ricordo – e quindi di un passato ricco di vicissitudini – costituisce il presupposto dal quale non si può prescindere, in che modo in Italia si stata elaborata, nel corso del tempo, una cultura della memoria e a quali istituzioni sia stato affidato l’arduo compito di raccontarla. Diversi autori4 infatti hanno ampiamente riflettuto sul fatto che, nell’Italia della Prima Repubblica, la narrazione storica del passato sia stata affidata principalmente ai partiti che, di quel periodo, furono i principali – se non addirittura assoluti – protagonisti. Nell’immediato dopoguerra, le istituzioni rappresentative che più godevano di apprezzamento e stima da parte della cittadinanza erano proprio quelle partitiche e sindacali, se non fosse altro per il semplice fatto che furono quei “contenitori” ad accompagnare (e a volte anche ad anticipare) i principali momenti di cleavages vissuti dal popolo italiano. Secondo un importante studio condotto dal sociologo Alessandro Cavalli, la volontà – tipica della Prima Repubblica – di rimuovere collettivamente l’esperienza del fascismo e della Resistenza ha generato l’incapacità di rielaborazione di quelle (ma non solo) stesse vicende, determinando di fatto una “monumentalizzazione della memoria”. Pian piano, attraverso un lento ma costante processo di annacquamento del passato, unitamente a un’intensa opera di mi-


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stificazione dei trascorsi storici, la ridefinizione di valori e principi non è riuscita a trasformarsi in identità collettive, a tal punto che «i monumenti perdono il loro significato e restano nel paesaggio come puri reperti archeologici»5. Se, come del resto è accaduto, il ricordo di ciò che è avvenuto nel tempo si riduce a svolgere la semplice e sbrigativa funzione di testimonianza, senza riuscire a scorgere propositi di interpretazione del presente e ancor più del futuro, a quel punto la ricostruzione storiografica perde d’importanza, riducendosi a essere essa stessa una mera elencazione di fatti e date, di nozioni e sigle. Nulla di più. Tuttavia, lo spazio lasciato libero da narrazioni estemporanee e (quasi) mai riempito da riflessioni in grado di consegnare ai posteri materiale serio e ragionato su cui riflettere, è stato dominato – come sottolineato poco prima – dai partiti e dalle loro organizzazioni collaterali, molto ben sviluppate e radicate sul territorio nel periodo che seguì il dopoguerra italiano. Lo stesso Cavalli ha giustamente ricordato come due altre importanti istituzioni – la scuola e la famiglia – si siano volutamente tirate fuori da questo processo di “maieutica dell’identità” (l’espressione è di Joël Candau), dimenticando invece che il loro prezioso contributo avrebbe potuto sviluppare un più diffuso e condiviso sentimento di appartenenza. Del resto, affidare in esclusiva ai partiti il compito

della costruzione di una narrazione comune si è rivelato – e i tempi di oggi lo confermano – un errore non certo di scarsa rilevanza. L’organismo partitico – che, ex definitione, è espressione di una pars, di una parte e non già del tutto – ha dimostrato, nel corso del tempo, di esprimere i principi (e gli interessi) del proprio sistema valoriale di riferimento, dimenticando invece di farsi portavoce delle istanze di un’intera comunità civile. Tuttavia, mentre per i partiti si sanciva l’impossibilità di parlare per generalia, la scuola e la famiglia riponevano nelle istituzioni rappresentative l’intero compito di “educare” le giovani generazioni al rispetto della Carta costituzionale e della patria in senso lato. Del resto, lo stesso Alessandro Cavalli6 non mette in dubbio lo “spazio di manovra” quasi esclusivo che i partiti, in un primo momento, e i mass media in seguito, hanno avuto nel trasmettere le immagini relative al periodo della Resistenza, dell’antifascismo e il rapporto tra questi elementi e il regime democratico. Mentre durante la Prima Repubblica le organizzazioni partitiche godevano di ampia considerazione e rispetto presso l’opinione pubblica, la stagione di Tangentopoli ribalta completamente questo rapporto di fedeltà che univa il cittadino/elettore al suo gruppo di riferimento, spostando l’attenzione del singolo verso altri mezzi di comunicazione. Sull’importanza dei mass media

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nella costruzione del discorso sulla storia si sono soffermati anche altri studiosi. Nello specifico, la sociologa americana Mabel Berezin7 – sebbene la sua trattazione sia riferita al periodo fascista – ha affermato che «i partiti politici e lo stato italiani hanno perso la memoria» e la capacità di raccontare, in un unico linguaggio, i momenti salienti che hanno caratterizzato la storia del nostro Paese. La costruzione narrativa di una comune memoria sarebbe quindi passata «dalla sfera politica dello Stato e del partito alla sfera di mercato dei mass media e della cultura popolare», sancendo di fatto una sconfitta di quei tradizionali strumenti di informazione e divulgazione del sapere che avevano acquisito grande importanza nell’immediato dopoguerra. Tuttavia, se da un lato i moderni mezzi di comunicazione di massa hanno – tra gli aspetti positivi – la capacità di diffondere notizie in maniera illimitata e senza barriere, dall’altro lato il “mercato della memoria” si è rivelato sostanzialmente debole. Le proposte teorizzate dai media – proprio perché in grado di raggiungere tutti in qualsiasi momento – si sono rivelate incapaci di consolidare appartenenze e fedeltà, poiché dotate di scarso potere normativo e quindi non cogenti. In buona sostanza, l’uso della storia da parte dei mass media si è rivelato fallimentare nel momento in cui, per far breccia nel cuore dello spettatore, ha ricercato a tutti i costi lo scoop e la novità, trascu-

rando contenuti e argomentazioni più articolate che – a detta degli esperti di settore – avrebbero annoiato soprattutto i più giovani. La ricerca spasmodica e sfrenata della narrazioni “facili” e a buon mercato ha finito per decretare il successo della “vulgata sensazionalistica” rincorsa per anni da tv e radio, aprendo di fatto la porta alla “spettacolarizzazione” della storia. Se, dunque, durante la Prima Repubblica, il racconto della memoria era affidato ai partiti e, proprio per questo, acquisiva un “potere normativo” in grado di imporsi sulla società, ora, con la perdita di importanza delle interpretazioni partitiche, quello stesso racconto diventa più fluido, mutevole e cangiante. Nulla di strano o di deleterio, se non fosse per il fatto che le proposte dei mass media «se non sono accompagnate da categorie che ne consentono l’elaborazione […] restano allo stato di frammenti accatastati insieme ad altri frammenti»8. Per questo, si rende assolutamente necessaria l’elaborazione – e la proposizione soprattutto ai più giovani – di un unico sistema di valori, credenze e principi messo insieme non solo dagli storici, ma da tutti gli attori sociali in grado di esprimere sentimenti identitari autentici e non già settoriali. Non mancheranno critiche e opposizioni, provenienti per la maggior parte da chi si sentirà spossessato da una storia che credeva essere di sua esclusiva pertinenza o dominio, mentre i principali beneficiari


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di tale processo saranno proprio coloro che, fino a oggi, risultavano di fatto esclusi dalle grandi narrazioni storiografiche. D’altronde, per poter essere davvero patrimonio di tutti, la storia – e la memoria nello specifico – deve essere non solo comunemente accettata e riconosciuta, ma deve essere anzitutto onnicomprensiva, globale e mai escludente. Solo così, si potrà finalmente raggiungere l’obiettivo della condivisione “senza sé e senza ma”, unitamente alla compiuta costruzione di un bagaglio di ricordi che spazzi via la tentazione di citare alcuni ed estromettere altri. L’Italia, come è noto, celebrara il centocinquantenario della sua Unità e lo fa in un clima di conflitto e odio permanete, di “caccia alle streghe” senza sosta e battute d’arresto. Sarebbe invece auspicabile la creazione di una condizione ottimale per poter non solo festeggiare questa importante ricorrenza, ma soprattutto per sentirsi figli di un comune destino. All’interno di tale scenario, la scuola e la famiglia dovranno recuperare quella indispensabile e insostituibile funzione educativa delle giovani generazioni, generazioni che vivono oggi una dolorosa fase di disorientamento e paura del futuro. Successivamente – e solo una volta che insegnanti e genitori avranno svolto in maniera adeguata il loro arduo compito – le istituzioni diverranno il punto di cerniera e di trasmissione delle diverse tradizioni e identità presenti nel territorio

del nostro Paese. Per sentirci finalmente tutti eredi di un passato comune, senza divisioni né laceranti fratture. 1

Emmanuel Kattan, Il dovere della memoria, Napoli, Ipermedium, 2004, p.29. 2

I. Kant, Antropologia pragmatica, I parte, Laterza, Roma – Bari, 2001, p.34.

3 Cfr. Emmanuel Kattan, Il dovere della memoria, Napoli, Ipermedium, 2004. 4

Cfr. N. Gallerano, Antifascismo, resistenza, identità nazionale, in “Passato e presente”,1995,pp. 141-147; N. Tranfaglia, Un passato scomodo. Fascismo e postfascismo, RomaBari, Laterza, 1996.

5

Alessandro Cavalli, I giovani e la memoria del fascismo e della Resistenza, Il Mulino,XLV, 1,1996, pp.51-57.

6

Alessandro Cavalli, I giovani e la memoria del fascismo e della Resistenza, op. cit. 7 Mabel Berezin, The Dead Are Equal:History Making, Moral Relativism and the Rise of the New Italian Right, Working Paper#534, University of Michigan, 1996. 8

A. Cavalli, I giovani e la memoria, op. cit., p.55.

l’autore angelica stramazzi Specializzanda in Sistemi e modelli politici all’Università di Perugia. Collabora con Spinning Politics, testata online di comunicazione politica, e con diverse testate locali del Lazio. Svolge attività di consulente politico, occupandosi di comunicazione politica.

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RUBRICA

Mama Hawa, la madre degli ultimi DI MICHELE TRABUCCO*

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È conosciuta da tutti come Mama Hawa, con il tipico appellativo della saggezza e rispettabilità africana. Pronunciare il suo nome in Somalia, significa evocare un eroe. Guardare il suo ospedale vuol dire vedere un miracolo. Hawa Abdi è una ginecologa, di sessantaquattro anni, nata in un piccolo villaggio della martoriata ex colonia, che è stata annoverata dal magazine americano Glamour “tra le più significative donne dell’anno 2010”, insieme ad altre come Julia Roberts e la principessa Rania di Giordania. L’hanno descritta come un mix di “umanità e generosità, come madre Teresa, e di forza e decisione, come Rambo”, per essere riuscita a costruire nelle maltrattate terre di quella parte del Corno d’Africa, un’area di rifugio di cure mediche, di recupero fisico e morale per tantissime migliaia di persone ferite da oltre vent’anni di guerre civili e militari. Il suo ospedale si trova a poche decine di chilometri da Mogadiscio, lungo una delle strade maggiormente trafficate da sfollati e feriti, che cercano di sfuggire agli scontri e agli attacchi continui delle diverse fazio-

ni dei ribelli e delle truppe governative. Mama Hawa ha iniziato la sua avventura in una piccola stanza nel 1983, dando nutrimento ai bambini e aiuto medico alle donne incinte. Da allora quella piccola stanza si è trasformata progressivamente nell’attuale grande casa di accoglienza per oltre 90mila persone, luogo di pace e rispetto. Un vero miracolo. Come sia riuscita lo spiega lei stessa durante le conferenze in giro per il mondo alle quali ogni tanto presenzia per raccogliere fondi a favore della sua struttura. “È semplice: chi non segue le regole del campo viene privato della parte di terra affidatagli al suo ingresso. Inoltre, il controllo della vita interna viene attuato dalle stesse persone che ci sono nate e cresciute”. Così, in una sorta di “comune” ante litteram, con una forma di autogoverno e un forte leader carismatico, la vita di queste migliaia di persone è un’oasi di serenità e pace dentro il caos e le atrocità della guerra somala. Per questo attira le accuse e le minacce delle milizie armate, come quelle del partito dell’Islam fondamentalista, che


AFRICA FELIX

Nella Somalia martoriata dalle guerre civili, a pochi chilometri da Mogadiscio, c’è un campo medico che aiuta le donne a partorire e i bimbi a non morire di malnutrizione, frutto dell’impegno di una grande donna.

lo scorso anno fece irruzione nei rifugi del campo distruggendo tutte le attrezzature mediche e sanitarie, sparando all’impazzata su civili innocenti e inermi, soprattutto donne e bambini, provocandone la fuga nella boscaglia con la conseguente morte di decine di bimbi, privati di cibo per troppi giorni, e arrivando all’arresto di Mama Hawa Abdi. Un affronto che, arrivato a conoscenza dell’opinione pubblica mondiale, ha provocato sdegno e indignazione e la conseguente pressione internazionale su questo gruppo armato che si è visto così costretto a rilasciare la dottoressa e a ritirarsi dal campo. La dottoressa Abdi è figlia di quella fortunata generazione di somali nata e cresciuta durante la pace. Così ha potuto vincere una borsa di studio e andare all’estero, precisamente in Russia, perché durante gli anni della guerra fredda la Somalia era un alleato comunista. Arrivata a studiare a Kiev, unica donna tra i novantuno studenti somali, realizzò il suo sogno: diventare medico. Aveva dodici anni quando vide morire sua mamma durante la gestazione del suo ultimo figlio. Da allora la piccola Hawa decise di diventare medico per aiutare la sua gente. La sua totale dedizione ha contagiato anche le sue due figlie, diventate a loro volta medico, e impegnate giorno e notte a cu-

rare i bambini malnutriti, le partorienti e a provvedere a ogni altra forma di assistenza per alleviare le sofferenze di questa povera gente. Oggi l’ospedale ha quattrocento posti letto, sei dottori, quarantatre infermiere, novecento alunni della scuola infermieristica, tre sale operatorie e nutre oltre ottocento bambini. Lei effettua parti cesari, toglie schegge di pallottole, sutura le ferite, cura malaria, dissenteria, tubercolosi ma soprattutto si occupa della malnutrizione. La sua opera è instancabile, fino a 12-14 ore al giorno. E ci sarà sempre tanto lavoro finché la Somalia non troverà la road map verso la pace e la stabilità politica.

*Giornalista freelance

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RUBRICA

A rischio l’egemonia culturale americana DI GIAMPIERO RICCI*

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In questo inizio di seconda decade del terzo millennio l’America è assediata. Nel breve volgere di qualche anno il Paese, uscito vincitore dalla Guerra Fredda, si trova a rischio blackout del sistema federale con le casse di Washington a secco mentre Congresso e Presidente litigano su tagli di tasse e deficit, mentre l'agenzia di rating Standard & Poor’s dirama outlook negativi per il debito pubblico appesantito dai bailouts dei giorni caldi della crisi, causando un pericoloso downgrade dei titoli di Stato del Tesoro. Sembra un secolo fa quando G. H. W. Bush alla televisione, nei giorni della dissoluzione sovietica, comunicava ai propri cittadini che gli Usa erano divenuti Undisputed Leader of the World. Ma com'è andata in crisi la leadership statunitense? Certo, la Guerra asimmetrica del terrorismo qaedista, la controversa gestione del dopo 11 Settembre, l'irrisolto conflitto israelo-palestinese e i rapporti con il mondo arabo hanno avuto un ruolo ma oramai non bastano più a giustificare una china che pare senza freni. È infatti chiaro come sia andato in tilt sia andato un intero sistema di egemonia, non solo militare, economica o politica, ma anche, e forse soprattutto, culturale. L'irrompere sul mercato dei capitali, della

politica e della comunicazione di un terzo della popolazione mondiale è la risposta di Frédéric Martel. Ricercatore e giornalista francese, già autore di De la culture in Amerique (Gallimard, 2006), Frédéric Martel è il protagonista della prima uscita di Lands of the free, rubrica attraverso la quale proveremo a scandagliare l’attualità a stelle e strisce. Con il suo Mainstream, 2010 Serie Bianca Feltrinelli, pg. 440, Martel analizza professionalmente le infrastrutture portanti che furono alla base dell'egemonia culturale Usa, per poi concentrare la sua indagine sul nascere e il crescere dei nuovi flussi culturali antagoniste. Mainstream è un termine che in italiano può assumere significati differenti. È “tradizionale” oppure “corrente principale”, ma, nell'accezione massmediatica, che ha costituito il successo delle industrie di intrattenimento americane come la Disney, vuole significare la capacità di un messaggio di raggiungere orizzontalmente il maggior numero possibile di persone. Martel analizza il fenomeno di Hollywood e il sistema di infiltrazione del messaggio cinematografico all'interno delle offerte culturali europee nel secondo dopoguerra; gli accordi commerciali della potente Mpaa che rappresenta le major nel vecchio continente, il ruolo sto-


LAND OF THE FREE

rico della vendita dei pop corn nei cinema come effetto-traino della strategica industria del corn di cui gli States sono primo produttore al mondo; infine il passaggio dai cinema di quartiere ai drive-in, alle multisale, in quanto motori della crescita di nuovi baricentri urbanistici nelle ultramoderne megalopoli americane. Martel entra dentro il sancta santorum delle corporation dell'intrattenimento per studiare il successo di Toy Story o del Re Leone, per comprendere ciò che determina il semaforo verde per una sceneggiatura o per un’altra, l’endorsment globale del fenomeno “indie” (“indipendente” quale garanzia di qualità) e quindi la capacità di gestire successi planetari nel tempo attraverso la transumanza tra i media con l'esempio principe della rinascita dell'industria dei musical. Interessante è poi l'analisi dell'autore sull'evoluzione dei professionisti della comunicazione e in particolare del giornalista americano, con i racconti sul successo di tre donne, Pauline Keale, Tina Brown e Oprah Winfrey, si tratta di tre giornaliste accomunate dalla capacità di gestire il cambiamento di sensibilità e le gerarchie culturali in modo inclusivo. Pauline Keale, poco conosciuta in Europa, ebbe il coraggio di dire dalle colonne del New Yorker degli anni '70, sino ad allora allineato sullo snobismo cinematografico europeo, quanto vi fosse bisogno “di qualcosa di più dei buoni sentimenti di sinistra per fare un buon film”, dando così il via alla stagione della New Left e del pop newyorkese. Il movie aveva rimpiazzato il libro come oggetto culturale di riferimento e tutto ciò che era comunicazione era diventato degno di analisi professionale. Ecco quindi l'epopea di Tina Brown e delle Big Soft Glossy alla Il diavolo veste Prada con la nascita del concetto di trendsetter e poi del marchio Oprah Winfrey che vuol dire l'irrompere del format del tabloid talkshow

nella tv. Tutti questi sviluppi massmediatici sono però già un dato acquisito per nuovi attori come le industrie dell'industrie dell'intrattenimento di Cina o India o per l'America Latina, ma anche per quelle dell'informazione araba rivoluzionata da AlJazeera o per le produzioni dei teleromanzi del Ramadan, un'offerta appositamente costruita per togliere spazio alla capacità di entratura dell'offerta di intrattenimento targata Usa. Naturalmente le sfumature sono diverse: il partito comunista cinese bara sfilando gli investimenti dalle mani anche di imprenditori corazzati come Murdoch; l'India punta sulla sua Bollywood e sul miliardo di persone di mercato interno per creare proprie major pronte ad “entrare” nel capitale di quelle americane; l'America Latina gioca la sua partita sulla crescente popolazione di latinos cittadina americana sempre più integrata; Al-Jazeera compete sull'inarrestabile proliferare della tv satellitare e di internet su cui, come abbiamo imparato, anche le peggiori dittature del mondo arabo nulla possono; poi i teleromanzi del Ramadan a occupare un “tempo” che con la crescete offerta mediatica globale rischiava di diventare veicolo di “americanizzazione”. Cosa succederà nel futuro del mainstream americano? Per Martel la digitalizzazione della comunicazione messa in movimento dagli americani stessi con la diffusione di internet ragionevolmente genererà una segmentazione per generi in tutte le offerte culturali, una differenziazione del pubblico-target. I contenuti culturali verranno distribuiti per nicchie e tale frammentazione non potrà che indebolire il concetto di mainstream e quindi un’egemonia culturale americana che deve cercare un atterraggio morbido o ripensarsi, pena il ridimensionamento. *Esperto di cultura americana

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NOTE CHARTA


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