La metafisica di Harry Potter - cap. 7

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I DRAGHI 5



Marina Lenti

La metafisica di Harry Potter


Prima edizione ISBN 978-88-96323-08-3 Š 2012 Camelozampa Tutti i diritti riservati info@camelozampa.com www.camelozampa.com www.camelopardus.it Copertina di Barbara Lenti Livraghi Editing di Livia Rocchi Beta reader: Amneris Di Cesare Chiara Valentina SegrÊ Stampato su carta certificata FSC


Alla memoria di mia madre



Indice Introduzione 9 Capitolo 1 – Una saga magica lunga sette libri 11 L’onnipresenza del sette nel mondo Babbano 14 Il significato simbolico del sette 22 Il sette nella saga potteriana 25 Capitolo 2 – Il viaggio alchemico di Harry Potter 29 Breve storia dell’alchimia 32 I sette romanzi come tappe del 37 viaggio alchemico Altri elementi alchemici nella saga 48 Capitolo 3 – L’inizio... della fine 57 Libero Arbitrio e Predestinazione 60 nel mondo Babbano Libero Arbitrio e Predestinazione 66 della Profezia nel mondo potteriano Il tema del Doppio e l’elemento probabilistico 71 L’Amore come elemento unificante 74 della dicotomia Il tema divinatorio nelle carte 76 Capitolo 4 – Le quattro Case di Hogwarts 81 Il numero quattro 84 Gli elementi naturali 87 Gli stemmi delle Case 94 La simbologia del colore 97 Grifondoro 98 Corvonero 103 Tassorosso 106 Serpeverde 108 Capitolo 5 – La via... horcrucis 115 Il diario 122


L’anello Il medaglione La coppa Il diadema Il serpente Harry Potter Capitolo 6 – I Doni della Morte La Bacchetta di Sambuco La Pietra della Resurrezione Il mantello dell’Invisibilità Capitolo 7 –Il Prescelto, l’Ombra e il mito della rinascita Ombra e anima La saetta La triplice rinascita Amore, Morte e Sacrificio Capitolo 8 – Gli aiuti magici Patroni e incarnazioni ani-magiche La fenice L’unicorno Le bacchette La spada di Grinfondoro e il Cappello Parlante La pozione Felix Felicis Oggetti magici connessi col riflesso Capitolo 9 – I poteri interiori Gli incantesimi Il Voto Infrangibile La Legilimanzia e l’Occlumanzia Le visioni di Harry Bibliografia

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Capitolo 7 Il Prescelto, l’Ombra e il mito della rinascita



Capitolo 7 – Il prescelto, l’Ombra e il mito della rinascita

I

l fatto che fra Harry e Voldemort esista qualche tipo di legame emerge subito fin dal primo volume: quando il ragazzo si reca per la prima volta a Diagon Alley, nella bottega di Olivander, la bacchetta magica che lo sceglie ha curiosamente, al suo interno, lo stesso nucleo di quella di Voldemort, ossia una piuma della medesima Fenice. Quella Fenice che scopriremo poi essere Fanny. Abbiamo visto nel capitolo precedente che, psicanaliticamente, gli uccelli sono immagini dell’anima, e a questo punto va da sé che, come le due bacchette condividono il medesimo contenuto, così i due corpi contengono lo stesso spirito. Il fatto poi che Harry, giunto a Hogwarts, potrebbe essere smistato dal Cappello Parlante sia nella casa di Grifondoro, tradizionalmente vista come positiva, che in quella sinistra di Serpeverde (già Casa di Voldemort) è ulteriormente indicativo della coabitazione, nel ragazzo, delle due parti contrapposte della sua personalità. Successivamente, nel secondo romanzo, apprendiamo che Harry e Voldemort condividono un comune retaggio Babbano e la difficile condizione di orfano. Come nota la psicologa junghiana Gail A. Grymbaum,1 l’orfano appartiene al simbolismo alchemico della Separatio, dal momento che questi non ha più i genitori. Privo di legami diretti, egli 1. G.A. Grynbaum, The Secrets Of Harry Potter, cit.

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deve cavarsela da solo senza l’abituale protezione parentale. Questo suo elevarsi solitario in mezzo alle correnti della vita fa parte del processo di divenire individuo. Un’ulteriore allusione, dunque, al percorso integrativo che attende i due maghi-controparti. Entrambi i ragazzi, poi, scoprono la ragione dei propri poteri solo allo scoccare dell’undicesimo compleanno, anche se ambedue hanno già avuto avvisaglie di qualche loro eccezionalità: Tom Riddle riesce a far accadere cose spiacevoli a chi lo contraria, muove le cose senza toccarle e comanda gli animali, mentre Harry ha reazioni magiche, seppure inconsapevoli, come quella di ritrovarsi sul tetto per sfuggire al cugino Dudley, di far rimpicciolire i capi di vestiario che non vuole indossare, di farsi crescere i capelli tagliatigli malamente da zia Petunia e di liberare involontariamente un boa allo zoo. Ancora: entrambi i ragazzi sono legatissimi a Hogwarts, che rappresenta il loro primo vero rifugio. Nel Principe mezzosangue sentiamo infatti Silente pronunciare queste parole: «Credo che Voldemort fosse affezionato a questa scuola più di quanto lo sia mai stato a una persona. Hogwarts era il luogo dove è stato più felice, il primo e l’unico in cui si è sentito a casa». Harry provò un certo disagio queste parole, perché era esattamente quello che provava anche lui per Hogwarts”.2

Infine, la cicatrice di Harry svolge la funzione di canale di comunicazione fra i due maghi, che non solo permette all’uno di avvertire la presenza e i pensieri dell’altro, ma che ha trasfuso qualcosa dall’uno all’altro. Nel caso di Harry si 2. J.K. Rowling, Harry Potter e il principe mezzosangue, cit. p. 394.

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tratta della capacità di intendere il linguaggio dei serpenti, arte oscura in cui Voldemort eccelle e che si innesta perfettamente nella variegata simbologia dell’animale (di cui abbiamo già parlato nel capitolo 5) e in quella della Casa di Hogwarts fondata da Salazar Serpeverde (di cui abbiamo invece parlato nel capitolo 4). Questa “via” di comunicazione fra i due è riflessa persino nell’etimologia della parola. “Cicatrice” deriva infatti dal latino “cicatrix”, ricondotto a sua volta alla radice sanscrita kak, con significato di “legare”. Si potrebbe giustamente obiettare che la Rowling scrive in inglese e che dunque la semantica della parola italiana non può essere stata da lei contemplata, neppure inconsciamente. Ma anche usando la parola equivalente inglese scar, si perviene a una conclusione dal simbolismo sorprendentemente analogo: il vocabolo anglosassone è infatti filtrato attraverso l’antico francese escare, che a sua volta deriva dal greco eskhara (έσχαρα). Quest’ultima parola indica, oltre alla crosta che si forma a seguito di una bruciatura, anche una zona inferiore degli altari su cui si effettuavano le offerte per placare spiriti e divinità dell’Aldilà, permettendo così al sangue dell’animale sacrificale di scorrere verso il basso e di impregnare la terra.3 Poiché, psicanaliticamente, il mondo sotterraneo è quello dell’inconscio, ecco dunque come, anche in inglese, la cicatrice alluda simbolicamente a una connessione fra il ragazzo che rappresenta la coscienza dell’Io e il Mago Oscuro che a sua volta simboleggia, per usare un termine freudiano, il suo Es. La cicatrice è altresì il segnale visibile di questa frattura fra le due istanze della personalità. 3. G. Ekroth, The Sacrificial Rituals of Greek Hero-Cults in the Archaic to the early Hellenistic periods. Kernos Supplément, 12, Liège, Centre International d’Étude de la Religion Grecque Antique, 2002, p. 429.

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Ombra e anima

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oldemort non sarebbe dunque altro che l’Ombra di Harry, l’archetipo della parte oscura e inconscia di una persona; e tutta la vicenda ruota attorno a questo tema, correndo verso questo confronto/presa di coscienza finale. Molti altri sono gli indizi contestuali in questo senso. Anzitutto Voldemort, in quanto lato nascosto, è ColuiChe-Non-Deve-Essere-Nominato. Anche qui la Rowling gioca con due implicazioni: la prima è quella che fa perno sulla paura dell’ignoto che, come ci rammenta H.P. Lovecraft,4 è la paura più antica e radicata nell’essere umano. La stesso Silente ci ammonisce in merito quando spiega a Harry che “bisogna sempre chiamare le cose con il loro nome” e che “la paura del nome non fa che aumentare la paura della cosa stessa”.5 La seconda implicazione è legata ancora più profondamente al tema dell’Ombra e alla sua relazione con i nomi di persona. Per gli antichi Egizi, l’Ombra, chiamata shwt, era un’entità intrisa di poteri e una delle parti fondamentali costituenti l’uomo, assieme all’ib, il cuore con funzioni emozionali analoghe a quelle che noi attribuiamo al cervello. Completavano il quadro le trascendenze di cui abbiamo parlato nel capitolo sugli Horcrux a proposito della mummificazione e, guarda caso, il vero nome della persona (ren). Pure quest’ultimo, infatti, era ritenuto una parte vivente 4. H.P. Lovecraft, Supernatural horror in literature, 1927; trad. it. L’orrore soprannaturale nella letteratura, Sugarco, Milano,1994, p 15. 5. J.K. Rowling, Harry Potter e la pietra filosofale, cit., p. 283.

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dell’individuo ed era attribuito immediatamente alla nascita, poiché solo così la persona poteva venire adeguatamente in esistenza nel mondo reale. Tuttavia la sua conoscenza restava segreta, mentre gli venivano affiancati altri appellativi (i faraoni ne avevano fino a cinque) che invece potevano essere resi noti e usati normalmente. Lo stesso riflesso di pensiero si ritrova nelle società tribali sopravvissute alla modernizzazione: come ha acutamente osservato J.G. Frazer,6 poiché non sono in grado di discernere in modo ottimale fra parole e cose, esse fantasticano che il legame fra la persona o la cosa contraddistinta da un determinato nome non sia un’arbitraria associazione fra semantica e idea sottesa al vocabolo, bensì un tutt’uno che riunisce i due elementi al punto da poter veicolare la magia contro l’individuo sia attraverso le parti del suo corpo che attraverso il suo appellativo. Per tale motivo, i membri di queste società conservano tuttora il segreto del proprio vero nome all’interno di una ristrettissima cerchia, quando non giungono addirittura a nasconderlo a chiunque. In entrambi i casi usano, come sostituti, un soprannome o una perifrasi che individua la loro posizione all’interno della famiglia di appartenenza. La conoscenza del vero nome di una persona in ambito magico è una suggestione che è stata ben sfruttata nella letteratura fantasy: si pensi ad esempio alla saga di Earthsea di Ursula LeGuin, alla serie di Bartimeus di Jonathan Stroud, a quella di Percy Jackson di Rick Riordan o a quella di The Books of Magic di Neil Gaiman. Nel settimo libro potteriano, il tabù sul nome di Voldemort muta però di funzione, rispetto ai romanzi precedenti, 6. M. Frazer, The Golden Bough - A Study in Magic and Religion, cit., cap. XXII.

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e viene utilizzato invece come incantesimo per rintracciare i suoi nemici più pericolosi, ossia quelli che, come i membri dell’Ordine della Fenice, lo combattono e non temono di pronunciare il suo appellativo.

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e, psicanaliticamente, Voldemort è la parte non integrata della personalità di Harry, egli è anche, metafisicamente, un riflesso della sua anima, esattamente come suggerisce – lo abbiamo visto in apertura di capitolo – il cuore delle bacchette dei due maghi. Come ha evidenziato lo psicanalista Otto Rank, l’Ombra è strettamente connessa all’idea del Doppio e quindi all’altra immagine di sé. Del resto è facile rendersene conto se pensiamo che, nella nostra civiltà moderna, di questa concezione è rimasta ampia traccia nella produzione letteraria: ricordiamo, come esempio su tutti, la fiaba di Hans Christian Andersen in cui l’Ombra riduce a propria ombra l’uomo cui apparteneva, fino ad annientarlo. Dopo aver esaminato vari esempi di superstizioni primitive – alcune sopravvissute persino nei nostri Paesi civilizzati, come quelle che vietano di calpestare le ombre, oppure di osservare la propria immagine allo specchio in determinate circostanze (il che, di nuovo, ci porta alla mente un riflesso letterario, quello del Ritratto di Dorian Grey di Oscar Wilde) – Rank rileva che questi rituali sottintendono un’identificazione fra ombra e anima e che dunque arrecare danno alla prima implica consequenzialmente perdere la seconda e, metaforicamente, morire.7 È facile a questo punto comprendere perché allora, nel nostro immaginario, figure di 7. O. Rank, Der Doppelgänger, Vienna e Lipsia, 1914; trad. it. Il doppio, Sugarco, Milano, 1994, p.75.

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non-morti quali vampiri e zombie non possiedano né ombra né immagine riflessa essendo già, essi stessi, il riflesso di una persona che fu. Ma, richiamandosi a Sigmund Freud, Rank osserva inoltre che tutto ciò che è soggetto a tabù ha carattere di ambivalenza, ed ecco quindi che all’ombra è anche associata, oltre a quella di spettro mortifero, una valenza di fecondità. Essa è meno diffusa, ma è altrettanto ricca di rituali di scongiuro, volti a impedire che certe ombre cadano su donne incinte, poiché il bambino che attendono potrebbe assumere le qualità di coloro che le hanno proiettate. Anche qui possiamo agevolmente renderci conto di tale chiave di lettura citando materiale a noi più familiare, il Vangelo secondo Luca. Quando infatti l’Arcangelo Gabriele annuncia a Maria la sua imminente maternità, le dice: Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo. Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio. (1:26-35)

L’ombra è quindi anche un simbolo di virilità e, di nuovo, mi sovviene un parallelo letterario, questa volta nella fiaba di Peter Pan: lui e i suoi Bambini Smarriti, che non vogliono crescere, la perdono spesso e debbono riattaccarsela. Ancora una volta, tutte queste osservazioni ci riconducono al bisogno di Harry di conquistare il controllo della propria Ombra, poiché solo così è possibile il raggiungimento della piena maturità psichica, fisica e spirituale.

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La saetta

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orniamo ora alla questione della cicatrice: oltre a essere, come abbiamo visto, un canale di comunicazione, essa è anche un marchio, un elemento che V. JA. Propp ha individuato come tratto distintivo tipico del corredo eroico.8 Quello di Harry, oltretutto, ha una forma ben precisa: una saetta. Il fulmine, e relativo tuono, come simbolo divino fa parte di moltissime culture antiche: citando solo alcuni dei moltissimi esempi, per i Greci era attributo di Zeus, di Giove per i Romani, di Thor per le popolazioni nordiche, di Azaka-Tonnerre per le popolazioni haitiane, di Hadad per quelle semitiche, di Hora Galles e Pajonn per quelle finniche, di Perun per quelle slave, di Rudra e Indra per gli Indù, di Tarhun per gli Ittiti, di Tinia e Aplu per gli Etruschi, di Kaminari e Take-mika-zuchi per i Giapponesi, di Lei-zi per i Cinesi, di Min per gli Egiziani, di Chaac per i Maya, di Illapa per gli Inca, di Mchabo per gli Algonchini, di Namarrkun per gli Australiani, di Tawhiki per i Maori. In particolare, poi, la folgore è uno dei maggiori simboli dell’iconografia buddista, a significare il potere spirituale della “buddità” che frantuma le realtà illusorie del mondo.9 La saetta richiama inoltre un’altra forte simbologia mistica, quella della runa Sowelu, che ha appunto tale forma. L’alfabeto runico (Futhark) è suddiviso in tre famiglie (Aettir) di otto rune ciascuna: Freya, Heimdall e Tyr. So8. V. JA. Propp, Morfologie skazki, Academia, Leningrad, 1928; trad. it Morfologia della fiaba, Einaudi, Torino, 1988, p. 57. 9. J. Campbell, The Hero Of A Thousand Faces, 1949, Princeton University Press, Princeton, NJ, 1973, p. 87.

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welu appartiene alla seconda, che si riferisce alle grandi prove della vita, ed è l’ultima di questa serie. Come riassumono Umberto Carmignani e Giovanna Bellini,10 queste prove sono quelle “necessarie per forgiare il carattere ed entrare in contatto con il senso profondo dell’esistenza: il rapporto con la morte (runa Hagalaz), con il dolore della perdita (Nauthiz), con il vuoto (Isa), con la capacità di rinascere dalle proprie ceneri (Jera), di scendere nelle profondità dell’inconscio (Eihwaz), di penetrare attraverso i misteri centrali dell’amore (Perth), di contattare la dimensione spirituale (Algiz) e poter finalmente affrontare nella pienezza della scelta (Sowelu), l’ultima fase del percorso”, cioè quella in cui, forti e saggi grazie alle lezioni apprese, potremo mettere la nostra conoscenza al servizio altrui, per aiutare il prossimo a superare gli stessi ostacoli di cui abbiamo avuto ragione. Se si fa mente locale a tutte le tappe runiche appena menzionate, ci si accorge che corrispondono esattamente a quelle affrontate anche da Harry. La saetta Sowelu, che segna il principio e la fine della fase di Heimdall, ricordando a tutti l’eccezionalità dell’unico sopravvissuto a un Avada Kedavra in tutta la Storia della Magia, rappresenta quindi la scarica di energia finale che “unisce le polarità del cielo e della terra in una deflagrazione di luce […]. È la preparazione all’illuminazione, […] un annuncio della realizzazione del sé”.11

10. U. Carmignani – G. Bellini, Runemal, il grande libro delle Rune, L’Età dell’Acquario, Torino, 2009, p. 52. 11 Ivi, p. 224.

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La triplice rinascita

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’“illuminazione” di Harry passa attraverso la sua rinascita, ma prima di esaminarla, occupiamoci della speculare rinascita del suo Antagonista. Mentre, come vedremo, la rinascita finale di Harry ha connotati metafisici, quella di Voldemort è un atto puramente terreno, in cui la Rowling sembra trasfondere anzitutto la tradizione celtica: il corpo di Voldemort che emerge a nuova vita dal paiolo richiama infatti alla mente il calderone del dio Bran. Esso era un oggetto magico in grado di resuscitare i morti che vi venivano immersi; tuttavia coloro che tornavano in questo mondo dall’Aldilà assumevano una forma non completamente integra, in quanto non erano più in grado di parlare. Il mito celtico risuona anche nel parallelismo con la figura di Taliesin, la cui leggenda narra di come la dea Ceridwen, per donare al proprio figlio Morfran il dono di una grande lungimiranza, si dedicasse a preparare una pozione apposita. Dopo aver raccolto le erbe necessarie, Ceridwen mise un ragazzo di nome Gwion a sorvegliarne la bollitura. Per una serie di circostanze, tre gocce dell’elisir caddero in grembo a Gwion anziché addosso a Morfran, con la conseguenza che fu il primo, e non il secondo, a beneficiare del dono dell’estrema saggezza. Per sfuggire alle ire di Ceridwen, Gwion mutò la propria forma umana, attraverso il regno degli Elementi, mentre Ceridwen faceva altrettanto per poterlo inseguire: lui diventò un uccello e lei un falco, lui un salmone e lei una lontra, lui una lepre e lei un segugio. Alla fine lui si trasformò in un chicco di frumento e lei in una gallina che lo inghiottì, per poi partorirlo nove mesi 182


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dopo. Una volta nato il bambino, Ceridwen non si sentì di ucciderlo e perciò lo affidò alla sorte, mandandolo alla deriva in una barchetta (un destino comune a moltissimi eroi come Mosé, Sigfrido, Perseo, Karna e Sargon), da dove venne salvato. Battezzato Taliesin, egli diventò uno dei più grandi bardi del Galles. Taliesin rinasce dunque tre volte: dal calderone, dal grembo della dea e dall’acqua. Il tema della triplice rinascita sovrannaturale si incontra anche nella mitologia norrena: la Völuspa narra infatti la storia della strega Gullveig, che fu bruciata tre volte dagli dèi di Asgard, e per tre volte riemerse dalle fiamme illesa. Inoltre, lo si incontra anche nel mito greco, con la figura di Dioniso. Le versioni della storia di questo dio sono molteplici, tuttavia quella più nota narra come Zeus concepì Zegreo assieme a Persefone. Il re degli dèi, volendo fare del pargolo il proprio successore, attirò involontariamente su questi le ire di sua moglie Era, la quale spinse i Titani a rapirlo, a farlo a pezzi e a divorarlo. Apollo ne seppellì i resti sul monte Parnaso, mentre Atena trovò il cuoricino del piccolo e lo portò a Zeus. Questi lo cucinò in un brodo che fece poi bere a Semele, principessa tebana, divenuta sua amante. Ella concepì così un bambino. Messa in guardia da Era sulla reale identità di Zeus, che Semele ignorava, la fanciulla ne chiese conto al dio, ma finì incenerita dalle sue folgori. Su incarico di questi, Ermes strappò quindi il feto dal grembo della madre e se lo cucì nella coscia fino a quando giunse a completa gestazione. Una versione alternativa del mito racconta invece che Dioniso venne normalmente partorito da sua madre, ma fu esposto dal nonno Cadmo e affidato a un corso d’acqua: il bimbo sopravvisse e venne allevato dagli abitanti della Laconia. Quale che sia la versione preferita, 183


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Dioniso rinasce comunque tre volte: da una pozione, da Semele e da Ermes (oppure dall’acqua). In curiosa similarità con gli esempi appena citati, anche il Signore Oscuro rinasce tre volte: dopo essere venuto al mondo allo stesso modo di qualunque essere umano, in quel fatale 31 dicembre 1926,12 egli rinasce suo malgrado, dopo che l’Avada Kedavra lanciato contro Harry Potter gli rimbalza addosso la notte di Ognissanti del 1980, in una forma di vita da lui stesso definita “men che spirito, meno del più miserabile fantasma”;13 successivamente, riesce a racchiudere quel soffio in un rudimentale involucro fisico, simile a un orrendo neonato, grazie a una pozione a base di sangue di unicorno (le cui virtù sono spiegate nel primo volume della saga) e veleno di serpente. Poi, con l’episodio del calderone nel cimitero di Little Hangleton, Voldemort risorge infine alla sua terza e ultima vita. Ed è qui che, accanto alla tradizione mitologica già esaminata sopra, la Rowling trasfonde antichi riti antropologici, adottando per la nuova pozione tre elementi cruciali, carne, ossa e sangue che sfruttano il principio della magia omeopatica, secondo cui l’oggetto naturale inanimato, o la pianta o l’animale impiegati, diffondono benedizioni o maledizioni attorno a sé in relazione alla propria natura intrinseca e all’abilità del mago a impiegarla. 12 Qui non si tratta di un nebuloso personaggio mitico, di cui nulla si sa fino a quando fa la propria apparizione nell’episodio che lo riguarda; si tratta invece, pur nella finzione romanzesca, di un essere umano della nostra dimensione, ancorché dotato di poteri magici e, pertanto, il suo primo venire in esistenza è segnato a buon diritto dal processo naturale della nascita. 13 J.K. Rowling, Harry Potter e il calice di fuoco, cit., p. 555.

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Per il suo rituale, Voldemort adopera l’osso del padre, la carne del servo e il sangue del nemico: elementi specifici non citati a caso. Se, da una lato, la carne di Codaliscia serve unicamente da supporto materiale al nuovo corpo di Voldemort, non potendosi ravvisare particolari implicazioni sull’importanza simbolica del donatore (Minus è considerato semplicemente un servo, quindi probabilmente la carne viva più facilmente reperibile in giro in quelle particolari circostanze), molteplici sono invece le applicazioni “magiche”, adottate presso i popoli non civilizzati, che impiegano le ossa dei defunti. Una specifica credenza reputa che queste contengano ancora vita – tant’è che il costume funerario di alcune tribù australiane prevedere la rottura di quelle del braccio per liberare lo spirito del defunto e permettergli di raggiungere l’Aldilà – la quale può essere rinnovata irrorandole con del sangue. Nel fatto che Voldemort usi proprio le ossa di suo padre si potrebbe anche leggere una sorta di rivincita psicologica sul genitore che non l’ha mai voluto e lo spregio definitivo di ciò che egli è stato: non solo Voldemort l’ha ucciso, per fredda vendetta, tanti anni addietro, ma ora usa sacrilegamente le sue spoglie, in modo quasi “cannibalistico”, per un rito che lo aiuterà a fabbricarsi un corpo immortale. Tuttavia, il fatto che Voldemort disprezzi la parte Babbana di sé al punto da rigettare il proprio nome anagrafico, induce a pensare che debba esserci di più, in questa scelta, che una mera rivalsa. La spiegazione potrebbe derivare allora dal fatto che, secondo alcuni sistemi magici come il Palo Mayombe, l’affinità del defunto con l’officiante riveste una particolare importanza in quanto potenzia la carica magica del rito. Il Palo Mayombe, originario del Congo, è stato tramandato dagli schiavi trapiantati in America ai tempi del 185


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colonialismo spagnolo. Secondo alcuni, rappresenterebbe il lato oscuro della Santeria, religione sincretica di origine africano-caraibica, mentre secondo altri sarebbe simile allo Sciamanesimo, in quanto utilizza elementi della natura come bastoni, ossa, pietre, terra, erbe, mescolati – guarda caso – in appositi calderoni assieme ad altri oggetti sacri. Purtroppo, su questo punto, la Rowling non si è mai addentrata a spiegare le proprie fonti antropologiche, forse timorosa che ulteriori precisazioni potessero corroborare le risibili accuse di incitamento alla stregoneria che trovano proprio nel rituale del calderone descritto nel quarto libro uno dei loro cavalli di battaglia preferiti. Pertanto, ancorché basata su credenze magiche esistenti e corroborata dal fatto che la scrittrice abbia già usato nozioni di magia caraibica nell’invenzione degli Inferi e forse anche in quella dell’incantesimo Aguamenti,14 qualsiasi teoria sul materiale antropologico fondante questo dettaglio del rito nero voldemortiano resta pura speculazione accademica. Ci si muove invece su terreno più solido quando si esamina l’elemento sangue. Alla luce di quanto avverrà successivamente nella vicenda, si può infatti affermare con certezza che qui la Rowling abbia voluto usare la valenza antropologica del sangue come veicolo dell’anima. Esso è infatti imprescindibile elemento della vita umana: ci accompagna alla nascita, ci permette di rimanere in vita, scandisce la maturità sessuale e i periodi di fecondità della donna, è presente durante il primo rapporto sessuale e, infine, durante il parto, chiudendo così il cerchio. Non stupisce quindi che assuma un ruolo centrale nei riti magici e che la sua qualità di elemento 14 Una delle divinità Palo Mayombe è la Madre Agua, che governa il mare e tutto ciò che vi dimora.

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vivificante finisca per assumere, nelle credenze primitive, valenze di vettore spirituale. La Rowling gioca qui con due diversi convincimenti “magici”: il primo, appunto, quello appena evidenziato; il secondo quello per cui incorporare in sé una parte del nemico equivale a ereditarne la forza e le qualità. Voldemort agisce esclusivamente in base a quest’ultimo assunto, ritenendo che avere nelle proprie vene il sangue di Harry lo renda immune dalla magia di Lily, che finora gli ha impedito di toccarlo (così come si legge nell’episodio finale del primo libro, in cui il professore posseduto da Voldemort prova dolore fisico se messo a contatto diretto con il ragazzo). Il grande mago trascura invece completamente il primo aspetto, commettendo così un errore fatale. Harry infatti, anche con un pezzo di anima di Voldemort racchiuso in sé, restava comunque – fino all’episodio cimiteriale – un essere mortale, poiché un Horcrux è una riserva da cui il mago oscuro può attingere per non morire, ma esso non regala alcuna indistruttibilità al suo mero contenitore (quale anche Harry, benché essere vivente, innegabilmente è diventato). Il ragazzo sopravvive dunque al primo Avada Kedavra perché il sacrificio di Lily l’ha protetto, ma la seconda volta, quando l’Anatema-CheUccide gli viene scagliato contro nella foresta di Hogwarts,15 è trattenuto alla vita proprio grazie all’errore di valutazione sulla forza del sangue commesso da Voldemort. Ce lo spiega Silente nel limbo dalle sembianze di King’s Cross quando afferma: 15 Non sfugga, fra l’altro, come il confronto decisivo avvenga in una foresta, considerata allegoricamente un luogo iniziatico per eccellenza.

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«Ha preso il tuo sangue per far rinascere il suo corpo! Il tuo sangue nelle sue vene, Harry, la protezione di Lily dentro di te e dentro di lui! Ti ha legato alla vita finché lui vive».16

E questo non è il solo effetto: l’Amore altruista del ragazzo, che lo spinge a sacrificarsi per il bene della comunità – poiché morire è l’unico modo per distruggere l’ultimo pezzo di anima di Voldemort che alberga in lui e che garantisce l’immortalità al mago oscuro quand’anche tutti gli altri Horcrux siano stati distrutti – opera infatti un altro miracolo: allo stesso modo in cui Lily aveva immunizzato suo figlio attraverso il sacrificio della propria vita, sempre grazie al legame di sangue, esso attiva la protezione magica e impedisce a Voldemort di nuocere a quella stessa gente che Harry ha voluto salvare. È come se il sangue-anima del ragazzo fosse un anticorpo capace di provocare una malattia autoimmune nel corpo dello stesso Mago Oscuro e gli si ritorcesse contro. Harry, rivolto a Voldemort, lo evidenzia chiaramente a pagina 678 dei Doni della morte: «Non ucciderai nessun altro questa notte […] Non potrai uccidere nessuno di loro, mai più. Non capisci? Ero pronto a morire per impedirti di fare del male a queste persone…» «Ma non l’hai fatto». «…era mia intenzione, ed è questo che importa. Ho fatto quello che ha fatto mia madre. Sono protetti da te. Non hai notato che nessuno dei tuoi incantesimi funziona 16 J.K. Rowling, Harry Potter e i doni della morte, cit., p. 651.

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su di loro? Non puoi torturarli. Non puoi toccarli. Non impari dai tuoi errori, Riddle, vero?».

Voldemort non può imparare alcunché perché, in quanto posseduto dal principio maschile del Potere non può, per dirla con le parole di Marie-Louise Von Franz,17 “seguire le vie nascoste della spiritualità femminile e l’atteggiamento dell’amore”. A differenza di Harry, Voldemort non ha conosciuto l’affetto di una madre, né quello di una compagna o comunque di una effettiva figura di riferimento e non ha potuto quindi assorbire l’essenza del femminino che ha condotto invece il ragazzo a imitare Lily per la salvezza di chi ama. In un’intervista,18 la Rowling ha sottolineato quanto il fatto di essere stato concepito grazie all’influsso di un filtro d’amore sia emblematico dell’incapacità del Signore Oscuro di afferrare questo sentimento: È stato un modo simbolico per mostrare che proveniva da un’unione senza amore ma, naturalmente, tutto avrebbe potuto cambiare se Merope fosse sopravvissuta e lo avesse tirato su lei e lo avesse amato. L’incantesimo sotto il quale Tom Riddle senior diede i natali a Voldemort è importante perché mostra una coercizione e non ci sono molti modi più pregiudizievoli per venire al mondo del risultato di un’unione del genere.

Anche Silente ci conferma questa incapacità limitante del Signore Oscuro quando spiega a Harry che “di elfi domestici e storie per bambini, di amore, fedeltà e innocenza Volde17 M.L. Von Franz, Der Schatten und das Böse im Märchen, Kösel, Munchen, 1974, trad. it. L’ombra e il male nella fiaba, Boringhieri, Torino, 1995, p. 227. 18 J.K. Rowling and the Live Chat, Bloomsbury.com, 30.07.2007.

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mort non sa e non capisce niente. Niente. Che tutti hanno un potere che va oltre il suo, oltre la portata di qualunque magia, è una verità che non ha mai afferrato”.19 Se non fosse stato per il legame di sangue con la sua controparte viva, Harry, dal canto suo, non sarebbe sopravvissuto fisicamente all’esperienza del secondo Avada Kedavra, così come non è sopravvissuta Lily. Né rileva il fatto che Harry sia nel frattempo divenuto immortale secondo la leggenda dei Doni, in base alla quale il proprietario che li avesse riuniti avrebbe messo in scacco la Morte. Perché la Pietra gli scivola via dalle mani20 e la Bacchetta di Sambuco, nel momento in cui viene colpito dalla Maledizione, non è in suo possesso, anche se ne è il legittimo padrone. Un’allusione al fatto che non si domina la morte perché si hanno i tre oggetti leggendari – sia che si voglia intendere una disponibilità letterale degli stessi all’esatto momento del trapasso o anche solo una mera e generica proprietà – ma perché si è domata la paura di perire, considerando la propria morte mezzo di altrui salvezza, così come fece Gesù Cristo. A questo punto, quando ha luogo il duello tra le mura di Hogwarts fra Protagonista e Antagonista, il potere insito nella Bacchetta di Sambuco è solo un mezzo meccanicistico per sgombrare fisicamente il campo dall’ormai spuntata minaccia del Signore Oscuro. Privo dei suoi Horcrux e dei suoi poteri nei confronti della comunità, a Voldemort non rimane infatti che la superiorità dell’abilità magica con cui vincere il duello. Il punto non è dipanato dalla Rowling in modo cristallino, tuttavia si deve desumere che il sacrificio 19 J.K. Rowling, Harry Potter e i doni della morte, cit., p. 652. 20 Ivi, p. 646.

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di Harry abbia immunizzato gli altri ma non lui stesso (e a dire il vero non appare chiaro neppure il motivo per cui il legame di sangue operi solo a senso unico, trattenendo Harry dalla morte ma non Voldemort, se non con la spiegazione implicita per cui tale “ancoraggio” si attivi solo in virtù dell’autosacrificio compiuto poco prima dal ragazzo, circostanza che lo rende superiore al Mago Oscuro). Pertanto la sfida a “singolar tenzone” con un mago dalle abilità superiori rappresenta per Harry ancora una minaccia. Ed è qui che entra in gioco il fatto che, essendo diventato il padrone della Bacchetta di Sambuco – dopo avere disarmato Draco Malfoy, che ne era a sua volta entrato in possesso disarmando Silente sulla Torre d’Astronomia – si trova ormai al riparo dalla superiorità magica di Voldemort alla quale, diversamente, soccomberebbe. Già in occasione del primo duello magico fra i due nel Calice di fuoco, Harry era stato salvato dalla bacchetta. Quella volta si era trattato della consonanza fra le due anime di piuma di fenice che aveva temporaneamente bloccato il funzionamento delle rispettive stecche; questa volta, molto più semplicemente, la Bacchetta di Sambuco, riconoscendo di avere davanti il proprio padrone, fa rimbalzare l’offensivo Avada Kedavra su chi l’ha lanciato, provocando così la morte del Signore Oscuro. La prima volta che aveva colpito Harry con analoga Maledizione, Voldemort era sopravvissuto perché aveva già fabbricato degli Horcrux. Questa volta, essendo stati distrutti questi ultimi, il potente mago è tornato a essere un comune mortale. Bisogna dire che si tratta di una fine davvero ingloriosa per un personaggio che è sempre stato rappresentato come estremamente sveglio e intelligente, nonché come la quintessenza della potenza magica. Sfruttare la bacchetta 191


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di tasso contro quella di agrifoglio e giocare l’equilibrio dei contendenti sulle anime gemelle di questi due strumenti, appartenenti a un uccello dalle valenze così soprannaturali, avrebbe regalato una conclusione più degna e credibile alla vicenda: l’autosacrificio di Harry, infatti avrebbe potuto caricare la sua normale bacchetta di quella marcia metafisica in più che – a parità di caratteristiche fisiche (la stessa piuma di fenice) – avrebbe consentito al ragazzo “santificato” di superare il Mago Oscuro reo di crimini e aberrazioni innominabili, senza che questi fosse tolto di mezzo da conseguenze magiche meramente meccanicistiche (il rimbalzo dell’Avada Kedavra). Peccato non aver sfruttato in questo senso un’ambientazione già precisamente delineata: da un lato abbiamo infatti un Harry capace di compiere il sacrificio che, per i dettami della dottrina cristiana cui la Rowling pare essersi evidentemente ispirata, sottintende il più grande amore concepibile secondo il Nuovo Testamento (“nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” – Giovanni 15:13); dall’altro abbiamo un mago che, oltre ad aver spento innumerevoli vite, ha posto in atto l’arroganza estrema di voler dominare la Morte con metodi che sovvertono le leggi di Dio e degli uomini. Così, si compie ciò che è affermato nel Vangelo (Giovanni 12:25): Chi ama la sua vita la distrugge, ma chi odia la sua vita in questo mondo, la salvaguarderà per la vita eterna.

Pertanto Harry, che non ha subìto il richiamo ammaliante dei Doni e che ha offerto altruisticamente la propria vita per il bene altrui, diventa suo malgrado il Signore della Morte, mentre Voldemort, che ha cercato con ogni mezzo di violare le leggi naturali a spese altrui, soccombe a una 192


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dipartita repentina e ingloriosa, senza che i suoi sforzi per proteggersi siano andati a buon fine. Da notare che il vocabolo usato nella traduzione evangelica dall’Aramaico al Greco è “psiche” (ψυχή), che nelle versioni italiane prevalenti viene tradotto semplicisticamente con “vita”, anziché col nostro termine più prossimo –- anche se non perfettamente equivalente dal punto di vista filosofico – di “anima”, parola semanticamente molto più ricca. La psiche della concezione greca è infatti, in origine, il soffio vitale che “anima”, appunto, il corpo e che lo abbandona nel momento della morte, uscendone attraverso il respiro o una ferita e diventando uno spettro che si aggira nell’Ade, dove condurrà l’esistenza delle ombre come immagine del defunto.21 Dunque, il passaggio evangelico visto sopra, anche se non è uno di quelli espressamente richiamati dalla Rowling sulle tombe di Godric’s Hollow di cui ci occuperemo fra poco, può riassumere perfettamente l’essenza dei due personaggi e le motivazioni sottostanti alle loro opposte sorti. Riprendendo a questo punto il discorso, lasciato in sospeso, della speculare, triplice rinascita/incarnazione di Harry, possiamo tracciare anche il percorso di quest’ultimo: egli è dapprima il bambino magico; quindi diventa un Horcrux, ma al contempo anche un Prescelto, quando Voldemort compie accidentalmente il trasferimento la notte di Ognissanti, cambiando per sempre la sorte del piccolo secondo le implicazioni che abbiamo già precedentemente esaminato; infine egli diviene un Signore della Morte. 21 B. Snell, Die Entdeckung des Geistes – Studien zur Entstehung des europäischen Denkens bei den Griechen, Classen Verlag, Amburg, trad. it. La cultura greca e le origini del pensiero europeo, Einaudi, Torino, 1982, p. 29.

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Amore, Morte e Sacrificio Emblematiche dell’intreccio fra Amore e Morte che permea l’intera saga, sono le due citazioni che la Rowling sceglie come epitaffi sulla tomba dei genitori di Harry e di Ariana Silente che si trovano a Godric’s Hollow. La prima è tratta dalla Prima Lettera di S. Paolo ai Corinzi (15:26): L’ultimo nemico a essere annientato sarà la morte.

Per la dottrina cristiana, ciascuno eredita la condanna alla mortalità a causa dal Peccato Originale commesso dal Primo Uomo; ma grazie a Colui che si è fatto Uomo e ha sconfitto la morte, ognuno riceverà la vita in Cristo. Alla fine, il Male sarà dunque definitivamente sconfitto dal Bene e dall’Amore. Tuttavia, secondo l’Apocalisse, il trionfo del Regno di Cristo non avrà luogo senza l’ultimo assalto delle forze del Male. Il nemico di Dio, il demonio, subirà l’ultima sconfitta di fronte a Cristo resuscitato. Allo stesso modo, metaforicamente, Harry abbraccia la propria morte (e resurrezione) perché l’ultimo assalto del Signore Oscuro al mondo possa essere reso vano e la comunità magica possa continuare a vivere una vita degna di tale nome, anziché sopravvivere in una schiavitù di terrore di cui ha avuto già un assaggio per ben due volte. Ma il concetto di Morte vista come ultimo nemico viene da ben più lontano, rispetto al Cristianesimo. Marie Louise 194


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Von Franz scrive infatti22 che “nella mitologia egizia e in alcune fiabe africane, la morte viene rappresentata come il nemico che ci uccide alla fine della vita, il che trova risonanza nella parola agonia, che significa lotta. Oggi ciò viene razionalizzato con l’idea che il moribondo lotta per la vita, per respirare, ma originariamente era una lotta con il nemico invisibile. Rostand rispecchia la stessa concezione nel suo dramma Cyrano de Bergerac, in cui la morte è l’ultimo nemico con il quale Cyrano combatte la sua ultima battaglia”.23

L

a seconda iscrizione tombale è tratta invece dal Vangelo secondo Matteo (6:19):

Là dove è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore.

Il cuore vive se gli offriamo un tesoro per cui valga la pena mettersi in cammino, la nostra vita è davvero tale se abbiamo coltivato persone, azioni, speranze e passioni volte a costruire il Bene e l’Amore possibili, in vista della creazione di un mondo migliore. Harry – come Lily prima di lui, ma anche come Piton e ancora come tutti i membri dell’Ordine caduti prima di loro e mossi dalla stessa ragione – sceglie il 22 M.L. Von Franz, L’Ombra e il Male nella fiaba, cit., p. 162. 23 “Eccola che viene, mi sento già i piedi di marmo, le mani di piombo. Ma, visto che viene…. Voglio aspettarla in piedi…(estrae la spada) e armato […]. Mi sta guardando… Mi pare proprio che mi guardi, che si permetta di fissarmi il naso – lei che sul teschio camuso non ha naso… (si mette in guardia). Che dite? Che è inutile resisterle?... Lo so. Ma non si combatte solo per vincere. No, è assai più bello quando è inutile!...”, cfr E. Rorstand, Cyrano de Bergerac, 1897 - trad. it. Cirano di Bergerac, Newton Compton, 1993, p. 96.

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sacrificio motivato dall’Amore. Ma a differenza di tutti gli altri personaggi, che si sono sacrificati per degli affetti particolari, concepisce il proprio sacrificio in virtù di un Amore ecumenico, transpersonale, esattamente come lo concepisce Gesù Cristo. La Rowling ha dichiarato in proposito: Per me [i paralleli religiosi] sono sempre stati ovvi, ma non ho mai voluto parlarne troppo apertamente perché pensavo che avrebbe potuto mostrare alla gente che voleva solamente la storia, la direzione ove stavamo andando.24

Secondo la scrittrice, anche le due citazioni all’inizio dei Doni della morte – la prima tratta dalle Coefore di Eschilo e la seconda da Altri frutti della solitudine di William Penn – sono una chiave di lettura per la serie: Mi è davvero piaciuto scegliere queste due citazioni perché una è pagana, naturalmente, mentre l’altra viene dalla tradizione cristiana […]. Sapevo che sarebbero stati quei due passaggi sin da quando venne pubblicata La camera dei segreti. Ho sempre saputo che, se fossi riuscita a usarli all’inizio del settimo, allora avrei dato perfettamente continuità al finale. Se fossero stati pertinenti, allora sarei andata nella direzione in cui avevo bisogno di andare.25

Tuttavia, in questo caso, la dichiarata pertinenza non è così chiara. O almeno, appare chiara solo nella citazione tratta da Altri frutti della solitudine, dove William Penn parla 24 S. Adler, “J.K. Rowling talks about Christian Imagery”, in MTV Online, 10.06.2008. 25 Ibidem.

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del valore dell’amicizia, della compenetrazione fra la vita e la morte e di un attraversamento di questa esperienza che ricorda molto la concezione di Silente relativa alla “prossima grande avventura”. Di fronte all’estratto delle Coefore, preso dalla lamentazione funebre contenuta nel primo episodio della tragedia, si rimane invece perplessi. Anzitutto va detto che il testo inglese della citazione – e di conseguenza anche la traduzione italiana – non specifica chi sia a pronunciare ogni frase, cosicché sembra che stia parlando un unico personaggio, quando in realtà si tratta di un pezzo a tre voci, che include Oreste, Elettra e il Coro. Le Coefore è la parte centrale di una trilogia, l’Orestea, che inizia con l’Agamennone e termina con Le Eumenidi. Nella prima tragedia si compie il destino del re di Argo Agamennone, che viene assassinato per mano della moglie Clitennestra e dall’amante di lei, Egisto. Nelle Coefore, Agamennone viene vendicato dal figlio Oreste il quale, con la complicità della sorella Elettra che lo introduce a corte sotto mentite spoglie, uccide prima Egisto e successivamente la madre Clitennestra. Il tutto su preciso ordine del dio Apollo. Tuttavia, essendosi a sua volta macchiato di un crimine familiare, Oreste viene inseguito dalle Erinni, divinità vendicatrici di questo tipo di delitti. È questo il tema trattato nell’ultima tragedia della trilogia, Le Eumenidi, che si risolve con l’assoluzione di Oreste, grazie anche all’intervento della dea Atena. Non è necessario penetrare a fondo nella concezione umana secondo la visione eschilea per comprendere, già dalla trama, che tutto ciò ha ben poco, se non nulla, a che fare con la vicenda di Harry. Anche lui vendica i genitori, certo, ma anzitutto lo fa contro un estraneo e in secondo 197


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luogo non si macchia comunque di un omicidio, poiché Voldemort in realtà si uccide da solo facendosi involontariamente rimbalzare addosso l’Avada Kedavra da lui stesso lanciato con la Bacchetta di Sambuco. Quanto al riferimento del sangue presente sia nella tragedia eschilea che nella saga rowlinghiana, si tratta di due concetti ben diversi: da un lato si parla del sangue versato delittuosamente all’interno della famiglia (la moglie uccide il marito e viene a sua volta uccisa dal figlio), dall’altro si parla di un legame di sangue ricavato attraverso un incantesimo – quello operato nel cimitero di Little Hangleton – che, anziché donare l’immunità sperata, inserisce – come abbiamo visto sopra – un “anticorpo” di Amore nelle vene malvagie di un mago oscuro. Anche l’invocazione agli dèi di benedire i figli è totalmente fuori contesto: Eschilo sta infatti chiedendo agli dèi, per bocca della Corifea, di assistere Oreste ed Elettra nella loro azione delittuosa, cruenta e vendicatoria. Un elemento che non trova posto né nella storia di Harry, né all’interno dei presupposti che la muovono. La vendetta del giovane mago, infatti, non è quella “hammurbica” dell’“occhio per occhio”, bensì quella effettuata attraverso l’atto di amore più grande: il sacrificio del sé per il bene altrui. Con tale gesto il ragazzo attiva l’“anticorpo” che Voldemort ha introdotto in sé tre anni prima e rende così immune dai suoi perniciosi poteri l’intera comunità magica. Oltretutto, se Harry riecheggia la moderna filosofia del Cristo, Oreste ed Elettra riecheggiano invece un sistema meccanicistico schiacciato fra volontà contrapposte di diversi dèi pagani, come se gli uomini fossero marionette alla loro mercé. Questo riflette l’arcaica concezione omerica di cui abbiamo già accennato nel capitolo 3, anche se Eschilo la 198


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usa in senso critico per mostrare che ogni atto di riparazione del genere di quello operato da Oreste non fa che provocare un’intensificazione degli orrori, il che introduce il problema del ruolo dell’azione umana come fatto interiore, non ridotto a pura reazione o a determinazione esterna. L’impressione, dunque, è che la Rowling si sia fatta trarre in inganno dal significato letterale delle parole, senza rendersi pienamente conto di cosa si celi veramente dietro la tragedia eschilea.

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