Ti aspetto a San Qualcosa

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“Ti aspetto a San Qualcosa” di Beniamino Sidoti

Copertina di Alessandro Baronciani

Prima edizione: giugno 2023

Pubblicato in accordo con Angela Catrani per C.atWork Creative

ISBN 9791254640821

© 2023 Camelozampa

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Beniamino Sidoti

Beniamino Sidoti lavora da trent’anni al confine tra gioco e racconto: è stato tra i fondatori di Lucca Games, una delle più grandi manifestazioni di giochi al mondo, e giornalista radiofonico. Tiene corsi di scrittura creativa e di didattica ludica in giro per l’Italia e online, e lavora come autore ed editor per molti editori italiani: ha firmato due enciclopedie, una trentina di libri di divulgazione, e altrettanti titoli di narrativa e albi illustrati, tradotti complessivamente in una ventina di lingue.

Tra i suoi titoli più recenti: Dizionario dei giochi (con Andrea Angiolino, Zanichelli 2010, Unicopli 2022), Stati d’animo (Rrose Sélavy 2017), Strategie per contrastare l’odio (Feltrinelli 2019), Il ciclo dell’acqua (Editoriale Scienza 2022), Dante gioca con i dannati (Giunti, 2022).

A chi rispetta i sentimenti, perché l'amore prima è smarrimento, poi è conoscenza

Capitolo 1 Hansel e Gretel

La realtà è che sono in un posto che non conosco, e non è mio, e devo farlo mio.

Il posto si chiama San Qualcosa, o San Qualcuno: ha un nome, ma non voglio usarlo.

Perché usare un nome per chiamare qualcosa o qualcuno vuol dire accettarlo, riconoscerlo: e io questo posto non lo conosco, non è mio, non lo riconosco, ma devo farlo mio.

Io non sono di qui.

Sono arrivato qui da tre giorni, perché mio padre doveva andarci: non ne abbiamo parlato, semplicemente ci siamo andati, e ci resteremo. Me ne devo fare una ragione. Così ha detto mio padre.

Con mia madre ancora non ne ho parlato: perché non la sento da tempo, e con lei mio

fratello, Corrado.

Io sono Simone.

È strano, lo so: ma siamo tutti strani.

Le storie sono strane.

Prendiamo Hansel e Gretel: la storia è strana

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perché i genitori abbandonano i figli nel bosco. E poi se ne vanno. Io invece non sono stato abbandonato, ma ho dovuto lo stesso seguire mio padre. Anche se lui non c’è mai, intendiamoci: siamo venuti qui per lavoro, a San Qualcuno o San Qualcosa. E siccome ci siamo trasferiti per il lavoro di papà, per questo lui non c’è mai: perché è al lavoro. Io tra due settimane comincerò la scuola, e intanto devo ambientarmi.

Ora, io provo a immaginare cosa abbiano detto i loro genitori a Hansel e Gretel: magari «torniamo subito»; magari «non preoccupatevi». Però, a un certo punto, nella mia fantasia, gli dicono, a Hansel, «intanto ambientatevi»; oppure «se c’è qualche problema, dammi un colpo di telefono». Ho anche promesso a mio padre di non lamentarmi. Quindi devo smettere, subito. Devo amare San Qualcuno. Amerò San Qualcosa con tutto me stesso.

Amerò le sue case tutte uguali, l’arredo urbano (i segnali stradali, cioè), e questo cielo grigio.

Amerò i giardinetti nel numero di due (credo, per ora ne ho visti due), con i loro scivoli in

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plastica aderente antiscivolo, e le altalene immobili.

Amerò San Coso come Hansel amava il bosco. Ho già una strategia. Per amare devi conoscere: questa è la base della mia strategia. E siccome quando inizierà la scuola (tra due settimane) le cose le conoscerò come si deve, cioè come si fa a scuola, con una spiega, adesso le voglio conoscere a modo mio. Oggi quindi mi guideranno per Sant’Aggeggio Hansel e Gretel: io dovrò così scoprire questo posto come se fosse un bosco. Mi porterò da solo da qualche parte, e poi dovrò tornare a casa («tanto hai le chiavi, e se c’è qualche problema, dammi un colpo di telefono», sempre mio padre). È deciso.

Così mi sono portato nella piazza principale di San Paesino: mi guardo intorno, e c’è una chiesa col campanile, e c’è anche il municipio. Si guardano, come fanno spesso le chiese e i municipi: se non fossi guidato da Hansel e Gretel, ma da David Copperfield, ci farei caso. Adesso ignoro questa cosa, e mi limito a cercare tracce di marzapane,

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sassolini, e molliche di pane per terra. Come farebbe Hansel, insomma. Allora guardo per terra, e noto i piccioni: non avevo fatto ancora caso ai piccioni, da quando sono qui a San Gruppodicase. Forse, è da quando avevo quattro anni che non faccio caso ai piccioni: undici anni fa, quando avevo quattro anni, rincorrevo i piccioni, che si alzavano in volo per poi abbassarsi di nuovo; è documentato. C’è in un video, quindi è vero.

Però poi non credo di avere più notato i piccioni in questi undici anni: mio padre li considera dei topi con le ali, puliti come topi, simpatici come topi. Quindi io non li ho mai guardati davvero.

Sono curiosi, con un occhio che guarda dappertutto senza barlumi di intelligenza.

I piccioni si cercano tra di loro e si guardano intorno in attesa di pericoli. Hanno paura di tutto ma ciò nonostante, camminano impettiti – tengono il petto in fuori, come se dovessero darsi un’aria seria… Per favore, sei un piccione! Abbassa il capo!

No, il piccione abbassa il capo solo per becchettare.

Per tirare su le briciole da terra. Le molliche che…

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Le molliche! Hansel!

Corro di nuovo in mezzo ai piccioni per farli volare via.

Non lo facevo da undici anni.

È una bella sensazione.

Adesso guardo le briciole per terra, sono un mucchietto sparso: non so, mi aspettavo qualcosa più tipo una freccia che punta da qualche parte, che mi dicesse dove andare.

Invece le molliche sono sparse e disordinate. Allora le guardo meglio, perché la scommessa è questa, che io imparo se provo a conoscere qualunque cosa, e non a far finta di niente, a dar per scontato il disordine. Le guardo meglio, perché si ama solo ciò che si conosce. E io ti amerò, San Centrocittà!

Adesso le briciole formano una costellazione: sono come stelle legate da un disegno che vediamo dalla Terra. Sono diventate un segno, qualcosa da interpretare, da capire e da conoscere.

I piccioni continuano a girare intorno. Capisco che manca qualcosa.

Mi metto le cuffie e faccio partire un brano a caso da una playlist a caso.

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Adesso sono in questa piazza, con la chiesa di San Siamoqui, che sarà dedicata a San Siamoqui, immagino. Guardo le briciole, con la musica a volume smodato.

Musica: non so cosa di preciso, è inglese. È musica vecchia, di quando io non ero ancora nato. Del secolo scorso.

Con la musica le immagini mi paiono più nitide, più significative.

Le briciole, per dire, risplendono, come stelle.

Le cose intorno a me si muovono al rallentatore.

Una bici passa piano lungo la strada. Una vecchina sbriciola un panino per i piccioni che si sono allontanati. Sbriciola un panino e mi guarda male: è chiaro che se dovesse scegliere tra me e i piccioni, il suo amore andrebbe ai topi con le ali. Le sorrido e la saluto con la mano. I piccioni non ci riescono a salutare. Tiè.

Una ragazza, dietro la vecchia, risponde al saluto. Abbasso subito la mano, vergognoso. La abbassa anche lei.

Le briciole risplendono, e sono stelle. Sorrido, e scatto una foto.

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Mi guardo intorno e noto adesso che in un angolo della piazza sta la cartoleria Stella. Stella. Costellazione. Tutto torna.

Vado in là, sorridente e baldanzoso. Impettito. Come un piccione. Apro le braccia e volo per la piazza, verso la cartoleria Stella.

Quando apro la porta della cartoleria, credo suoni qualcosa, perché la cartolaia alza gli occhi dal giornale locale, credo L’Eco di San Quaggiù, o Il resto di San Paesino, o La Gazzetta di San Giornale. Mi dice qualcosa, cioè muove le labbra mentre la musica va alta nelle mie orecchie. Non volevo farmi notare, ma sono evidente come un piccione fosforescente in mezzo alla foresta buia.

Devo dire qualcosa. Sorrido. Mi tolgo un auricolare.

Dico la prima cosa che mi viene in mente.

«Avete del marzapane?»

Non è granché come prima cosa che mi viene in mente. Cioè, non è la migliore domanda da fare in una cartoleria.

La cartolaia sorride, però, nonostante tutto.

«Ciao» dice. «No, non ce l’ho. Forse in pasticceria, ma non sono sicura. Se vuoi ho

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delle gomme pane» e le tira fuori da sotto il bancone. Ormai sono qui, e compro una gomma pane. Pago ed esco.

Con il pugno lavoro la gomma pane, ammorbidendola e sentendo i muscoli tendersi e rilassarsi: mi è sempre piaciuto, era da tanto che non lo facevo, come la corsa tra i piccioni.

Mi guardo intorno, la piazza continua a essere una piazza bella piazza. Chissà cosa succederebbe a lasciare delle tracce con una gomma pane: cioè, la gomma dovrebbe cancellare le tracce, non lasciarle.

Probabilmente si creerebbe un paradosso spazio temporale di quelli che piacciono a Corrado, mio fratello. La casetta di marzapane si trasformerebbe in un buco nero di gomma che cancellerebbe tutta la striscia della Via Lattea, e San Quaggiù scomparirebbe per sempre.

Mi rimetto l’auricolare che mi ero tolto e continuo ad andare: devo trovare la strada per tornare a casa mia, e devo vedere tutto come un bosco.

La ragazzina di prima mi si avvicina e a

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cenni cerca di dirmi qualcosa. Le rispondo, non solo per cortesia, ma anche perché sono Hansel e lei deve essere Gretel. Tolgo tutti e due gli auricolari.

Lei sorride, poi mi chiede se sto guardando il campanile.

Sì, le dico. In fin dei conti, un campanile in una piazza è come un albero alto in mezzo al bosco. E lo sanno tutti che per trovare una strada bisogna guardare le cose dall’alto. Sta masticando una gomma. Sorride e intreccia le dita.

«Andiamo sul campanile?» mi chiede. «Giusto» le rispondo. «Andiamo» dice, e mi prende la mano. Quella con la gomma pane masticata dalla mano.

E accade una cosa strana: non dice “che schifo”, o non lascia la mano. Sorride ancora, ché la Gretel di San Posto è abituata a trovare gomme pane sudaticce, forse.

«Amo le gomme pane. E odio i piccioni» dice.

Poi non ci diciamo più niente. Conosce bene il prete, mi viene da pensare che tutti conoscano il prete, in questo paese. E così possiamo salire.

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E poi siamo in cima: è una bella giornata e non c’è foschia. Così oltre a San Questopaese si vede anche Quell’altropaese e Quell’altroancora.

Gretel indica da una parte e mi dice: «Di là c’è il mare. È lontano, a piedi non ci si arriva: però se devi comprare un costume da bagno per andare al mare, devi fare ancora più strada».

Vedo anche la zona industriale, e immagino che papà sia lì, da qualche parte, a lavorare.

Mio padre ha comprato un furgone giallo, con cui abbiamo fatto il trasloco: lo cerco con lo sguardo, ma non lo riconosco.

«A cosa pensi?» mi chiede quella che ho deciso essere Gretel.

«Sto cercando di immaginarmi che tutto questo sia un bosco, e che noi siamo sull’albero più alto del bosco».

«Bello. Posso aiutarti?»

Sorrido. Avevo deciso che questo era un mio gioco, e che non dovevo farmi aiutare da nessuno. Però siamo dentro Hansel e Gretel, e lei è la mia sorellina piccola, e quindi devo dirle di sì, credo. E poi non ho mai incontrato una ragazza con il cuore di gomma pane, quindi devo fidarmi. E poi, è solo oggi,

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mica è detto che la rivedo.

«Sì, aiutami» le dico.

«Allora, quello è il bosco, giusto?»

«Giusto. Bosco».

«Guarda là sotto… Quella è Cappuccetto Rosso» e mi dice anche il suo nome vero.

«Fa le medie, e secondo me ha il ragazzo, e penso che sia un lupo, il ragazzo».

«Mostrami le cose» le dico.

«Ok, fratello» mi dice. E non sa di avere ragione.

«Quella è una radura» continua.

«Cosa c’è nella radura?» le chiedo.

«Cosa dovrebbe esserci? Cosa c’è di solito nelle radure?»

«La casa di una strega» le suggerisco.

«Sì!» si illumina e ride proprio. «Dobbiamo andarci! Vieni, scendiamo!»

E scendiamo di corsa.

La casa della strega non è fatta di marzapane. Meglio così: non avrei la possibilità di conoscerla.

A vederla da fuori sembra un condominio.

Stacco un pezzo di intonaco, e lo assaggio.

Poi ne passo un altro a Gretel: «Non mi pare marzapane».

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Molto seria, lei lo assaggia: «No, sa di cemento».

La guardo, e sto per raccontarle tutto.

Poi decido che non voglio essere preso per matto, e che voglio continuare a scoprire tutto di San Questo, e ho una missione da compiere.

Così stiamo zitti per un tempo interminabile, quasi un minuto. Se avessi avuto gli auricolari mi sarei preoccupato di tutto questo silenzio.

Poi lei dice: «Però qui deve esserci un tesoro».

Annuisco.

«Sai che io sto cercando un tesoro?»

prosegue. «Cioè, non oggi. Oggi sto accompagnando un tipo strano in giro per il bosco in mezzo ai palazzi. Però ogni tanto cerco tesori. E uno in particolare. Ma è un segreto e non puoi ancora saperlo».

Mi sta bene. Annuisco di nuovo.

Cerchiamo il tesoro. Io faccio il giro della casa in un senso, lei nell’altro. Ci troviamo a metà strada, dall’altro lato dell’edificio.

Io ho trovato una carta dorata per terra, e una biglia (che chissà chi ci gioca più con le biglie, sono una cosa del secolo scorso).

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Lei ha preso una pubblicità con un numero telefonico, e una foglia molto grande. Ce li mostriamo.

Ancora non è abbastanza per fare un tesoro.

Gretel estrae un sacchetto di carta dalla tasca posteriore dei suoi pantaloni (Gretel ha addosso dei pantaloni corti, ma non quelli di moda: quelli che io porto quando voglio avere le ginocchia libere). Mette tutto dentro e poi mi restituisce il sacchetto.

«Portalo a casa e coltivalo. Così il tesoro cresce».

Mi pare un’idea balorda.

Rido.

Non lo facevo da un po’.

È una bella sensazione.

Così ci salutiamo. Ma non in maniera complicata. No. Ci diciamo così: «Allora ciao».

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