Pagine da Un cuore di polvere bianca

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© 2012 ATí Editore S.r.l. www.atieditore.it prima edizione Ottobre 2012 ISBN 978-88-89456-38-5


Cecilia Romano

Un cuore di polvere bianca



Ad A. che con il suo amore mi ha restituita a me stessa.



Emma ha gli occhi grandi e le ciglia lunghissime, come di bambola. Sono la prima cosa che noti quando la guardi. Assomiglia a me quand’ero piccola, se non fosse per il blu intenso degli occhi, come di cielo. Stasera mi infila i piedi sotto la pancia e si fa vicina, così vicina che sento il suo cuore battere. Ascolto il suo respiro lieve e vedo il movimento della sua pancia che sale e scende come un’onda leggera. Mi prende il viso con le mani e lo gira dalla sua parte alla ricerca di attenzione. Vuole dirmi qualcosa di importante. “Mamma, se il nonno è il tuo papà e tu vivi con il tuo papà perché il mio papà non vive con me?”. La stringo a me soffocandola al petto. Non voglio che percepisca il mio turbamento e che veda i miei occhi sgomenti mentre respiro il mio fiato corto. E mi chiedo come farò a spiegarle, dove troverò tutte quelle parole che diventano fiaba.



UNo

“Il più bello dei mari è quello che non navigammo. (…) I più belli dei nostri giorni non li abbiamo ancora vissuti”. NAziM hikMEt



1.

ho il cuore altrove e le mani sudate, uno stato febbricitante e delirante che non vuole passare. Mi hanno insegnato che il dolore è un viaggio che dev’essere affrontato e che è inutile scappare perché anche se decidi di lanciarti nel vuoto poco importa: lui ti insegue, non ti lascia spazio, ti bracca e alla fine della corsa tu ti ritrovi senza respiro. E io soffro d’asma. A Parigi c’è una panchina verde. Mi ci potrei sedere e convincermi che tutto passa, che tutto quello che arriva trova anche la strada per andarsene. Dovrebbe essere così anche per questo senso di smarrimento. Dovrebbe esserci una porta. Ma anche se apparisse adesso, all’improvviso, io mi sentirei comunque piccola, non riuscirei ad afferrare la maniglia e alla fine, anche se mi alzassi sulle punte, la porta rimarrebbe chiusa. Del resto stamattina non ho indossato nemmeno le mie scarpette rosse, quelle con il tacco alto. Forse basterebbero uno sgabello o una mano gentile che aprisse l’uscio al mio posto. o meglio, una bufera che lo spalancasse. o semplicemente potrei immaginare di essere trasparente e di avere il potere di passarci attraverso. Lasciarmi attraversare dall’amore senza che il suo odore resti attaccato ai vestiti; chiudere gli occhi e sentirmi trapassare dal vento. Correre, correre e lasciare che le ortiche mi pungano le gambe nude. 13


Fuori cade la neve e sono senza pelle. Per la prima volta.

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2.

Tu raccontami di te. Io ti racconterò di me, a poco a poco. 20 GiUGNo 1999 oggi è il giorno del mio compleanno. L’asilo chiude per le vacanze estive e io ho portato Emma dai miei genitori: ci rimarrà per due settimane intere, per la prima volta. Salgo in macchina per far ritorno a Milano e già mi manca. Mi chiedo se starà bene, se capirà il motivo della mia assenza, se le mancherò, se mangerà abbastanza e dormirà la notte. Mia suocera dice che sono una cattiva madre e ogni volta io mi chiedo come siano le buone madri, cosa facciano e cosa mi manchi per esserlo. oggi è anche il giorno del mio compleanno: ho prenotato un tavolo in un locale sui Navigli. Penso a Roberto e al mio futuro e mi ritrovo a sperare che le cose cambino e migliorino, che l’affetto basti a riempire quel vuoto che si sta trasformando in voragine, ogni giorno di più. La porta di casa è socchiusa e Roberto è lì, immobile, perso in un sonno lontano e sterile.

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Una bottiglia vuota, appoggiata a terra, mi rammenta crudelmente che una cena a lume di candela non cambierà il corso delle cose. Ma è solo un attimo, come sempre, e subito dopo io torno ad essere una sognatrice impavida, una viandante ingenua che spera che Roberto, aprendo gli occhi, mi sorrida rivelando d’essere ancora l’uomo di allora. ho bisogno di essere forte e invece mi sento debole, smarrita in un passato che non riesco a lasciar andare via, che ritorna con i suoi ricordi inchiodandomi al presente e facendomi male, come sa farsi male solo chi conosce l’amore. è da quando è nata la bimba che non usciamo. Vado in camera e mi preparo. Stasera voglio essere bella. La notte, fissando il soffitto, mi ritrovo a chiedermi se sia ancora bella e desiderabile, se abbia ancora le carte per affascinare un uomo e farmi corteggiare. E mi domando se gli altri vedono il dolore che mi porto dentro, se passeggiando per strada il mio viso riveli ciò che il mio cuore nasconde anche a se stesso. Roberto si sveglia e si precipita in camera. “Ciao, cosa fai?”. “Mi sto preparando per uscire. è meglio che ti prepari anche tu. il tavolo è prenotato per le nove”. Mi guarda smarrito e poi sillaba un semplice no. “Sono stanco. Non mi va di uscire”. Passo la mezz’ora successiva a pregarlo e le mie ginocchia che toccano terra cominciano a bruciare facendosi di fuoco. Ma io sono testarda, purtroppo. Prende la giacca e usciamo. Saliamo in macchina e io accendo la radio. ho bisogno che la voce di qualcuno colmi il vuoto tra noi. Metto una mano fuori dal finestrino e mi faccio accarezzare dal vento caldo dell’estate. Per un attimo penso ad Emma e al desiderio di essere felici ma anche alla crudele consapevolezza che la felicità non la si può immaginare, tantomeno inventare. 16


Mi stacco da me e mi guardo sopravvivere. io, la bambolina bella, quella che è caduta sempre in piedi e senza lacrime. Roberto fissa la strada per evitare di guardare me. Fa il giro dell’isolato e poi frena davanti al portone di casa. “Ecco, siamo usciti. Adesso scendi che ho altro da fare”. Lo guardo incredula e le lacrime mi salgono agli occhi. Non è solo dolore: è anche rabbia, frustrazione e delusione. Gli afferro il braccio, non voglio cedere e glielo stringo forte. Voglio che mi veda, voglio che veda la bufera che mi scuote dentro e che scuota anche lui, restituendomi l’uomo dolce che era. Cerca di liberarsi dalla mia presa ma la mia mano diventa di marmo. E poi è un attimo: Roberto mi guarda e mi schiaffeggia sulla guancia. io rimango immobile priva di qualsiasi reazione, anche quando apre la portiera dalla mia parte spingendomi sul marciapiede di fronte a casa. Sento solo tutte le lacrime trattenute rigarmi la guancia ma continuo a restare lì, come un pierrot perduto con il viso macchiato di nero. Salgo le scale al buio e una volta in casa corro allo specchio: fisso il mio viso alla ricerca degli occhi belli di una donna che non c’è più. Accendo la luce della camera da letto e mi sdraio sul lenzuolo fresco. tutto intorno ruota e io per la prima volta provo paura e nessuna vergogna di piangere tutte le lacrime che ho. Penso ad Emma e ai miei genitori e come un fulmine che squarcia la notte ripenso a quell’amore al quale ho vigliaccamente rinunciato in cambio di questo schiaffo sulla guancia.

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3.

13 SEttEMbRE 1994 La prima volta che mi hai chiamato Amore passeggiavamo sulla riva destra del Naviglio Grande. Faceva caldo e c’era vento di tramontana; le imposte delle finestre sbattevano, le tovaglie dei tavoli all’aperto danzavano impazzite e tu ridevi contento. La prima volta che mi hai chiamato Amore è stato all’improvviso, per un motivo banale. te lo ricordi? io e Roberto siamo seduti al tavolino di un bar. Lui fuma mentre con le mani mima animatamente un lungo discorso sulla sua impossibilità ad instaurare qualsiasi tipo di rapporto che richieda un impegno sentimentale. La sua naturale predisposizione a rovinare tutto quello che tocca e che ama è un cancro che uccide velocemente e che lui accetta come se fosse un destino ineluttabile che niente e nessuno potrà mai cambiare. il fumo della sigaretta sale al cielo e i miei pensieri lo seguono docili. “Sono come un bambino che ha tra le mani il suo giocattolo preferito. Prima lo guarda, lo gira e lo rimira fino a quando, curioso di scoprire il segreto custodito all’interno, decide di romperlo”. “Ma dentro non c’è nessun segreto; il giocattolo è rotto, frantumato in mille piccoli pezzi e nessuno te lo può più restituire. Nella sua interezza, intendo”. Ed io sono il suo giocattolo prezioso, mi dice. Si blocca e mi osserva attento: il vento mi ha scompigliato i capelli e c’è rimasta impigliata una piccola foglia. 18


Allungando la mano verso la mia testa la prende tra le dita. Un gesto semplice e banale. Un gesto come tanti, che chiunque fa e subito dopo scorda ma che per qualcuno diventa la consapevolezza dolce di una possibilità percepita allora come destino. “Non ti devi innamorare di me” mi dice tutto d’un fiato e le sue dita navigano la tovaglia per afferrare le mie. La sua è una conclusione mentre per me è un inizio. io non gli rispondo, anzi, gli dico solo sì e nel mentre, in quell’attimo sospeso, gli accarezzo la guancia scostandogli i capelli. Roberto mi afferra la mano avvicinandola alla bocca, respirandone la pelle fragile. “Sì” gli sussurro mentre in realtà l’unica cosa a cui penso è che sono arrivata e lo posso portare via dalla solitudine e dall’affanno che gli opprimono l’anima. io sento il tuo dolore, penso. Provo compassione e tenerezza e in quell’istante trattenuto provo per Roberto tutto il bene del mondo. oggi non so se fosse amore ma so che in quel pomeriggio di settembre io sentivo solamente il viaggio del suo respiro, ascoltavo il silenzio del suo cuore e scrutavo i suoi occhi sbarrati. Quegli occhi spalancati che avrei voluto chiudere perché trovassero riposo ma che allora non avevo nemmeno il coraggio di sfiorare. E se dopo si fossero aperti di nuovo portandosi via le mie illusioni? Vedo la cameriera passarci vicino; raccoglie le briciole e sistema i bordi delle tovaglie svolazzanti. il mio cappuccino si è freddato, ormai. 19


Un vecchio tutto bianco si siede accanto a noi e comincia a fissare insistentemente la mia gonna a fiori. La mia nudità mi rende fragile; imbarazzata, tento invano di allungare la stoffa per coprire le ginocchia. Roberto percepisce il mio lieve turbamento, mi fa un cenno e insieme ci alziamo. io lo seguo, senza domande, come se fosse naturale. Lui si avvicina al bancone per pagare e il ragazzo della cassa, capelli ricci e modi disinvolti, gli stringe la mano salutandolo. “Ciao. è da un po’ che non ti si vede”. “beh, sì. ho avuto molto da fare in questo periodo” gli risponde lui. “E il lavoro come va? Li fai ancora i trompe-l’oeil?”. Roberto dipinge, è una delle prime cose che mi ha confidato quando ci siamo conosciuti qualche settimana fa. tele a olio con soggetti astratti. Un’unica eccezione per i mari in tempesta e le spiagge di sabbia e sale, che lui ama. “io dipingo e tu?” mi ha chiesto. “io niente”. Come se niente fosse qualcosa di tangibile e reale che puoi prendere e portare via, una cosa da tenere sempre con te, come un fazzoletto in una tasca, un anello, l’unghia di un dito. E ricordo di aver pensato che avrei voluto avere anche io una passione da poter raccontare. Una passione che non fosse una persona, che coinvolgesse solo me, una passione di notte e di giorno, forte, una di quelle che non ti fa pensare ad altro. Come una malattia, qualcosa che desse un senso al resto. “No, quelli no. Con quelli non si campa” gli risponde Roberto. E io non posso fare a meno di spiare il suo sguardo triste, 20


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