Roedner

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Martedì 17 agosto 1944.

L’ultima notte della sua vita Spartaco la passò quasi in bianco, in canottiera e mutande sulla branda sfondata, invocando invano un filo d’aria dal lucernaio affacciato sul cortile, mentre le pareti bianche e disadorne del sottotetto, nel quale si era trasferito in fretta e furia pochi giorni prima, incombevano su di lui come per soffocarlo. Verso le cinque del mattino, quando l’afa del ferragosto finalmente si attenuò, si assopì brevemente e visse un incubo angoscioso, nel quale il pensiero della scuola si fuse con le preoccupazioni di quelle ore decisive. Era in sala professori, a tu per tu con don Andrea, l’insegnante di religione. Il sacerdote portò l’indice davanti alla bocca, come per intimargli il silenzio, e tirò fuori dalla sua vecchia borsa di pelle marrone due passaporti. Glieli infilò nella tasca della giacca proprio mentre la porta della sala si apriva ed entrava il preside, con quel suo sorriso untuoso e il distintivo del Partito appuntato all’occhiello. Aveva visto quel gesto furtivo? Sospettava di lui? Spartaco non lo sapeva, ma scivolò fuori e si avviò quasi correndo lungo il corridoio. Cercava la targhetta della Quarta A con ansia sempre più febbrile, ma si ritrovò al piano sbagliato, quello del biennio... Ritornò verso la grande scalinata centrale, che durante l’intervallo era affollata da ragazzi tumultuanti ed ora invece era desolatamente deserta, e salì al secondo piano, mentre il cuore gli martellava impazzito. La bidella gli sorrise in modo equivoco e allusivo – sapeva tutto anche lei? - mentre lui, con infinito sollievo, riconosceva l’aula che stava cercando e vi entrava. Lei era seduta al solito banco in seconda fila, pallida e seria, indicibilmente bella e distante. Vedendolo, accennò un sorriso e protese una mano. Lui infilò la sua nella tasca della giacca, cercò alla cieca i passaporti e glieli porse. Lei li afferrò con impazienza febbrile e ne aprì uno; subito il suo sorriso di riconoscenza si trasformò in un’espressione di sgomento. Trovò il coraggio di accostarsi al banco e di guardare: sulla pagina interna del passaporto era stampigliata un’enorme, oscena “J” rossa. Nel sogno aprì la bocca per giustificarsi, ma la voce non gli usciva, emise solo un soffio, quasi un rantolo. Lei lo guardò con aria di rimprovero, poi la


porta dell’aula si spalancò e Spartaco scorse il volto sogghignante del preside; dietro di lui, lo sapeva benissimo, c’era don Andrea in catene, e loro, loro che venivano a prendere anche lui... Si ridestò di soprassalto in un lago di sudore e salutò con sollievo la scialba luce del mattino. Erano le sette: versò l’acqua dalla brocca nella catinella, si lavò sommariamente e si fece la barba. Scese in latteria per bere un caffè e dare un’occhiata ai titoli dei giornali. Raccontavano come al solito un cumulo di bugie, ma tra le righe qualcosa si riusciva ad intuire, magari con l’aiuto di Radio Londra, che ormai ascoltavano tutti, anche i fascisti. Il dottor Marco Bassi subentrava nell’incarico di capo della Provincia a Piero Parini, che si era dimesso pochi giorni prima in disaccordo con la fucilazione di piazzale Loreto. Sotto i colpi delle sconfitte militari sempre più gravi, il regime mostrava le prime crepe. “Metterli al muro tutti, quei cani!” disse il lattaio, con convinzione. A chi si riferiva, ai politici o a “quegli altri”? Era un provocatore o solo un ingenuo? Spartaco non aveva nessuna intenzione di scoprirlo a proprie spese, perciò non fece nessun commento. Pagò e risalì nell’appartamento. L’appuntamento con Saetta nella chiesa di via Copernico era per le otto e mezzo, aveva tutto il tempo per prepararsi. Scelse una camicia a quadri e dei pantaloni di lino. Poi aprì la cassapanca, ne ammucchiò il contenuto sul pavimento e sollevò l’asse di compensato che faceva da doppio fondo. Prese la Beretta e due bombe a mano Sipe, grandi come pacchetti di sigarette, e rimise tutto a posto. La pistola nella tasca dei pantaloni formava una protuberanza troppo vistosa; a malincuore, Spartaco si infilò un soprabito bianco e mise la rivoltella in una tasca e le due Sipe nell’altra. Nonostante il sogno, era certo che tutto sarebbe andato liscio, ma la prudenza non era mai troppa. Saetta fu puntuale come un orologio svizzero: non per niente era il veterano del gruppo, quello a cui si affidavano le missioni più rischiose. Quando si incrociarono nel punto stabilito, la grande acquasantiera della chiesa di via Copernico, non si scambiarono neanche un cenno di saluto. “Taci, il nemico ti ascolta”, diceva un famoso manifesto di Boccasile. Spartaco si incamminò verso la fermata del tram e Saetta lo seguì sul marciapiede opposto, ad una ventina di metri di distanza, per coprirgli le spalle. Salirono da due diverse portiere sulla stessa vettura sovraffollata, separati da


una muraglia di umanità stanca e mal vestita, insofferente della guerra, della fame e del caldo. Arrivato in piazza Gorini, Spartaco si accorse con disappunto di essere parecchio in anticipo, una leggerezza che a uno come lui poteva costare molto cara. Soprappensiero per il sogno inquietante, non aveva calcolato bene i tempi del trasferimento; se avesse atteso stando fermo nella piazza, avrebbe potuto attirare qualche sguardo indiscreto, ma di allungare il giro proprio non se la sentiva. Si fermò davanti ad una vetrina e finse di guardare i francobolli e le monete che vi erano esposte, ma non appena il negoziante si voltò a guardarlo riprese a camminare. Entrò in un caffè e chiese la chiave della toilette: era consapevole di dare fondo al repertorio completo delle imprudenze che avrebbe invece dovuto evitare, ma fin dal suo risveglio era attanagliato dall’ansia, e l’unico rimedio che conosceva per dominarla era l’iperattività. Finalmente l’orologio da polso gli diede il responso liberatorio che attendeva. Si accertò che Saetta fosse sempre dietro di lui e si avviò verso il portone del numero 12. L’intermediario era già lì ad attenderlo: un uomo di mezza età alto e distinto, dai capelli brizzolati. Se era veramente il suo uomo o meno, Spartaco l’avrebbe capito solo dalla risposta che avrebbe dato alla parola d’ordine concordata con don Andrea. Lo sconosciuto lo fissò prima ancora che Spartaco aprisse bocca. Brutto segno, pensò lui, ma il disagio svanì com’era venuto: “Per favore, per andare in via Celoria?” La risposta fu immediata, ed era quella giusta: “Dritto in via Ponzio, poi la prima traversa. Deve andare verso la Casa dello Studente o verso il campo Giuriati?” La tensione si allentò di colpo, e Spartaco non poté fare a meno di sorridere. I suoi presagi infausti non erano dunque premonizioni ma parto delle sue angosce segrete. Sbagliava anche Dante, il suo poeta prediletto, nel canto di Ulisse, quando diceva che “presso al mattin del ver si sogna”. Tra poco, in un rifugio sicuro, avrebbe messo a punto nei minimi dettagli la “consegna” delle sue due protette all’organizzazione che le avrebbe messe in salvo, e il suo compito sarebbe terminato. Le sue notti sarebbero state più tranquille e le sue


giornate più noiose, almeno fino alla prossima “missione”. Saetta avrebbe vigilato sul loro incontro e sul suo ritorno a casa, sano e salvo. L’ “intermediario” approfittò proprio del suo momentaneo calo di tensione per sorprenderlo. Fece un passo avanti, lo afferrò per i baveri della giacca e gridò: “È lui!” Era una presa energica ma l’uomo aveva le mani sudate: Spartaco riuscì a divincolarsi e a partire di corsa verso via Ponzio. Quasi subito sentì dei passi dietro di lui e la voce di prima che gridava: “Fermati! Fermati o sparo!”. Spartaco non si fermò e qualcuno sparò. Chiuse gli occhi aspettando il dolore ma non era stato lui ad essere colpito. Sentì un grido e il tonfo di un corpo che cadeva pesantemente sull’asfalto. Si voltò senza interrompere la corsa. Il suo inseguitore era stato abbattuto, sicuramente da Saetta, e questo gli dava un momentaneo vantaggio, perché il ferito doveva essere il capo, e i gregari erano chini su di lui. Con un po’ di fortuna Spartaco, che era pratico della zona, avrebbe potuto far perdere le sue tracce, ma non poteva certo abbandonare Saetta al suo destino. Perciò si fermò al riparo di un platano, infilò la mano nella tasca del soprabito e prese una bomba a mano.


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