Un matrimonio in sospeso

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1 Un invito a voce

Che Edith non fosse stata molto bene, non sembrava costituire una ragione sufficiente per essere al centro dell’attenzione; e Bruce, geloso dei privilegi dell’infermo e immerso in quel curioso spirito di rivalità che sua moglie aveva tanto spesso osservato, aveva cominciato, con grande intraprendenza, un’indisposizione tutta sua, come per sviare l’interesse altrui. La notizia lo raggiunse mentre era a Carlsbad. Poi ricevette una lettera da Edith, che parlava con riguardo e preoccupazione dei reumatismi di Bruce, lo scongiurava di essere diligente nella cura, e proponeva che chiamassero la bambina Matilda, dal nome di una ricca e santa – sebbene ancora in vita – zia di Edith. Avrebbe potuto essere utile in futuro per la bambina (in tutti i sensi) avere una madrina così benestante e religiosa. Dalla dettagliata descrizione pareva che la nuova figlia avesse, come se fosse una cosa naturale (e a due giorni di vita), capelli dorati, lunghi ben oltre la vita, ciglia notevoli e sopracciglia ben delineate, una boccuccia di rosa, fronte da intellettuale, lineamenti ben cesellati e una figura alta ed elegante. Era una magnifica creatura regale di una splendida bellezza classica, eppure era graziosa e accattivante. Aveva un grande talento 1


per la musica. Questo, a quanto pare, risultava evidente dallo spazio ampio tra gli occhi e dal timbro della voce. Sopraffatto dalla gioia per l’avvento di un simile modello di virtù e scandalizzato per il nome scelto da Edith, Bruce aveva risposto subito d’impulso per telegramma: certamente non matilda preferirei venisse chiamata aspasia.

Edith lesse questa colorita manifestazione d’opinione sul modulo incolore di un telegramma, ed essendo a Knightsbridge, incapace quindi di sentire l’ironia del messaggio, lo prese alla lettera. Disapprovava il nome, ma fu facilmente persuasa dalla suocera a non obiettare. L’anziana signora Ottley le fece notare che avrebbe potuto essere molto peggio. “Ma non è un bel nome,” protestò Edith. “Se non Matilda, piuttosto le avrei dato un nome che in qualche modo richiamasse Maeterlinck: Ygraine o Ysolyn o qualcosa del genere.” “Sì, cara, anche Mygraine è un bel nome,” disse la signora Ottley, assecondandola, “e lo è anche Vaselyn. Ma importa veramente? Non mi intestardirei su una cosa del genere. Ci si abitua a un nome. Lascia che la povera piccola venga chiamata Asparago se lui vuole così, e lasciagli credere di averla avuta vinta.” Così la bambina fu chiamata Aspasia Matilda Ottley. Era tipico di Edith rimanere salda nella propria opinione, benché senza aggressività. Quando Bruce fece ritorno dopo essersi rimesso, era troppo tardi per cambiare le cose e lui fece finta di aver inteso proprio quello.

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Archie chiamava sua sorella Dilly. Archie si era sentito ferito dall’inutile – almeno secondo lui – eccitazione riguardo a Dilly. Non che ne fosse in alcun modo geloso. Piuttosto era preoccupato che tante attenzioni la viziassero; che la rendessero, forse, egoista e vanitosa. Ma non era da Archie mostrare queste paure apertamente. Non scoppiava in gran pianti né lanciava oggetti in giro come avrebbero potuto fare molti bambini. Aveva metodi più indiretti, più sottili. Lanciava allusioni e cenni sul suo punto di vista che una persona intelligente avrebbe dovuto cogliere. Una mattina disse con una certa tortuosità: “Ho fatto un sogno così bello ieri notte, mamma”. “Davvero, piccino mio? Che tenero. Cosa hai sognato?” “Oh, niente di che. Non era male. Davvero piacevole. Era un bel sogno. Ho sognato di essere in paradiso.” “Veramente! Ma che bello. E chi c’era?” Questa è sempre la prima domanda di una donna. “Oh, ovviamente c’eri tu. E papà. Anche la tata. Che sogno stupendo. Proprio un posto incantevole.” “C’era anche Dilly?” “Dilly? Ehm… no… no… non c’era. Lei era nella stanzina, con Satana.” A volte Edith pensava che il nome di sua figlia fosse decisamente un fiasco – Aspasia per errore, Matilda per ostinazione, e Dilly per caso. A ogni modo, la bambina in sé era un successo. Aveva quattro anni quando si verificò l’episodio dei Mitchell. Tutta questa storia alla fine si incentra sui Mitchell. Gli Ottley vivevano in un piccolo appartamento bianco a Knightsbridge. Il padre di Bruce gli aveva lasciato, qualche tempo prima, una buona rendita a certe condizioni; 3


una era che non lasciasse il ministero degli Esteri prima dei cinquant’anni. Un pomeriggio Edith stava parlando al telefono con un tono di tale disperata supplica che avrebbe sciolto il più duro dei cuori, ma che non sembrò avere un grande effetto sul centralino, che evidentemente quel giorno non era sensibile al pathos. “Oh! Centralino, perché vuole riattaccare? La prego riprovi di nuovo… Se voglio un numero? Sì, voglio proprio un numero, certo, altrimenti perché starei telefonando? Voglio il 6375 Gerrard.” Qui si intromise Archie. “Mamma, posso prendere il tuo allacciabottoni lungo?” “No, Archie, non adesso, caro… Va’ via Archie… Sì, ho detto 6375 Gerrard. Solamente 6375 Gerrard! È in linea? Oh, la smetta di chiedermi se li ho in linea! No, non hanno risposto… Lei è il 6375?… Oh – numero sbagliato – mi scusi… 6375 Gerrard? Solo 6 – è in linea? Non 6375 Gerrard?… È qualcun altro? Oh, sei tu, Vincy? Voglio dirti…” “Mamma, posso prendere il tuo allacciabottoni lungo?” Qui sopraggiunse Bruce. Edith riattaccò. Archie sparì. “È proprio meraviglioso, Edith, ciò che quell’allenatore Sandow ha fatto per me! All’inizio ridevi di me, ma sono migliorato in modo prodigioso.” Bruce si aggirava per la stanza facendo una ginnastica proprio molto blanda, e di tanto in tanto si colpiva il braccio sinistro con il pugno destro. “Guarda che muscolo – guardalo – e tutto in così poco tempo!” “Sorprendente!” disse Edith. “Il motivo per cui so quale straordinario effetto abbiano avuto su di me questi pochi giorni è una cosa che ho appena fatto e che non avrei potuto fare prima. Certo, di base sono un uomo molto forte, e ho solo bisogno di un piccolo…” 4


“Cosa hai fatto?” “Beh, hai presente quella ridicola gran cassapanca di legno che ti ha mandato per il compleanno la tua terribile zia Matilda – la trovo un regalo assurdo, puro ciarpame.” “Sì?” “Quando è arrivata riuscivo a stento a spingerla da un lato all’altro della stanza. Ora l’ho sollevata dalla tua camera fino al ripostiglio. Facilmente. Non male, no?” “Sì, ti fa un gran bene fare tutti quegli esercizi; non dubito sia di importanza capitale… Ehm, sai, vero, che ho fatto togliere tutte le cose dalla cassapanca da quando ci hai provato l’ultima volta?” “Cose, quali cose? Non sapevo ci fosse qualcosa dentro.” “Solo un servizio da tè d’argento e un paio di vassoi,” disse Edith a bassa voce. Lui si tranquillizzò quasi subito e disse: “Edith, ho novità per te. Conosci i Mitchell?”. “Se conosco i Mitchell? Mitchell, il tuo eroe nell’ufficio, con cui ti bisticci sempre? Diciamo che per lo meno conosco i Mitchell di nome. Per forza.” “Bene, cosa credi abbiano fatto? Ci hanno invitati a cena.” “Davvero? Figurati!” “Sì, e ho trovato particolarmente amichevole da parte sua aver fatto l’invito verbalmente. Mitchell mi ha detto proprio: ‘Ottley, vecchio mio, hai qualcosa in programma per domenica sera?’.” A quel punto Archie apparve alla porta e disse: “Mamma, posso prendere il tuo allacciabottoni lungo?”. Edith scosse la testa e si accigliò. “‘Ottley, vecchio mio,” continuò Bruce, “tu e tua moglie avete qualcosa da fare domenica? Se siete liberi, spero proprio tralascerete i convenevoli e verrete a cena da noi. Credi 5


che la signora Ottley perdonerebbe un invito a voce?’ Ho risposto: ‘Beh, Mitchell, in effetti non credo che abbiamo nulla in programma. Sì, vecchio mio, sarà un piacere’. Insomma ho accettato. Ho accettato subito. Quando si è trattati in modo amichevole, dico sempre, perché essere ostili? E la signora Mitchell è una donnina incantevole – sono sicuro che ti piacerebbe. Pare che muoia dalla voglia di conoscerti.” “Davvero! Mi chiedo se sia ancora viva allora, perché tu e Mitchell vi conoscete da otto anni, e io non l’ho ancora incontrata.” “Beh, la conoscerai adesso. Acqua passata, ormai. Vivono a Hamilton Place.” “Oh sì… a Park Lane?” “Ti ho detto che le cose gli vanno molto bene, e la moglie ha una rendita.” “Mamma,” ricominciò Archie, come una litania, “posso prendere il tuo allacciabottoni lungo? So dov’è.” “No, Archie, certo che no; non puoi chiudere i lacci degli stivali con un allacciabottoni… Beh, sarà divertente, Bruce.” “Credo che dopo cena faranno qualche gioco,” disse Bruce. “Tutti molto allegri, rime musicali, cose del genere… Cosa ti metti, Edith?” “Mamma, lasciami prendere il tuo allacciabottoni lungo. Lo voglio. Non è per gli stivali.” “Certo che no. Che seccatura che sei! Va’ via… Penso che indosserò l’abito color salmone con la fascia di quella specie di color maionese… (No, non puoi averlo, Archie.)” “Ma, mamma, l’ho preso… Tra poco lo posso sistemare, mamma.” Domenica sera il buonumore di Bruce sembrò vacillare; ebbe una delle sue reazioni improvvise. Vedeva solo il lato negativo delle cose. 6


“Che diavolo è quella cosa nei tuoi capelli, Edith?” “È un bandeau.” “Non mi piace. I capelli ti stanno molto bene senza. Quanto diavolo l’hai pagato?” “Circa sei e undici, mi pare.” “Non essere frivola, Edith. Faremo tardi. Ah! Sembra davvero un peccato, proprio la prima volta che si cena con gente come i Mitchell.” “Non faremo tardi, Bruce. Sono le otto in punto, e otto in punto immagino voglia dire, beh, le otto. Sicuro di avere il numero giusto?” “Dai, Edith!… Ho una memoria infallibile, cara. Non sbaglio mai. Non l’hai mai notato?” “Ah… oh sì… credo di sì.” “Beh, è a 168 Hamilton Place. Sbrigati, cara.” Durante il tragitto in taxi le diede molte istruzioni e le consigliò di essere perfettamente a suo agio e assolutamente spontanea; non c’era nulla che inducesse a comportarsi diversamente, sia nel signore che nella signora Mitchell. Inoltre, disse, non importava proprio cosa avesse indossato, purché si fosse messa l’abito migliore. Sembrava un peccato che non ne avesse preso uno nuovo, ma non c’era nulla da fare, dato che adesso mancava il tempo. Edith ammise di non conoscere un posto adatto dove poter comprare un abito da sera alle otto e trenta di domenica sera. E a ogni modo, le disse, era davvero carina, proprio molto elegante; d’altronde, la signora Mitchell non era il tipo di persona da pensare male di una donna graziosa solo perché un po’ sciatta e fuori moda. Quando si accostarono a ciò che gli agenti immobiliari nel loro modo sensazionale chiamano una superba, desiderabile, sontuosa residenza di città, videro che si stava chia7


ramente dando una festa in grande. Un portiere e quattro camerieri incipriati erano in bella mostra. “Per Giove!” esclamò Bruce non appena scese, “non avevo idea che al vecchio Mitchell le cose andassero così bene.” Il maggiordomo non aveva mai sentito parlare dei Mitchell. La casa apparteneva a Lord Rosenberg. “Al diavolo!” disse Bruce, mentre si fiondava nel taxi. “Bene! Per una volta in vita mia mi sono sbagliato. Lo ammetto. Certo, ovviamente è Hamilton Gardens. Scusa. Eppure in qualche modo sono piuttosto contento che Mitchell non viva in quella casa.” “Hai perfettamente ragione,” replicò Edith, “il fallimento di un vecchio amico e collega non può essere motivo di soddisfazione per nessun uomo.” Hamilton Gardens era un posticino tetro, come una casa popolare fuori da Marylebone Road. Bruce, provando a suonare il campanello, sfortunatamente disattivò tutte le luci della casa e se ne rimase tutto solo e disperato al buio quando, per fortuna, il custode, allontanatosi per spedire una lettera, si affrettò a tornare, e riaccese le luci. “Non avrei dovuto pensare che qui giocassero alle rime musicali,” disse ad alta voce a Edith mentre aspettava. “E adesso non è buffo? Ho una strana sensazione che l’indirizzo giusto sia Hamilton House.” “Immagino tu sia perfettamente certo che non vivano in un istituto privato per ritardati” suggerì dubbiosa Edith. Dopo aver domandato venne fuori che i Mitchell non vivevano a Hamilton Gardens. A Edith venne un’idea, e chiese un elenco telefonico. I Winthrop Mitchell vivevano a Hamilton Terrace, St. John’s Wood. “Finalmente!” disse Bruce. “Adesso saremo davvero ver8


gognosamente in ritardo, considerato che è la prima volta. Ma sentiti del tutto a tuo agio, cara. Promettimelo. Entra con tutta naturalezza.” “Come altro potrei entrare?” “Intendo come se nulla fosse successo.” “Credo sia meglio dir loro cosa è successo,” ribatté Edith; “li farà ridere. Spero abbiano cominciato a mangiare.” “Di sicuro avranno finito.” “Forse li troveremo che stanno giocando!” “Suvvia, ora, non essere pungente, Edith cara – mai essere pungenti – la vita ha i suoi alti e bassi. Bene! Sono piuttosto contento, dopo tutto, che Mitchell non viva in quel buchetto orrendo.” “Non ne dubito,” disse Edith; “non sarebbe di alcuna possibile soddisfazione per te sapere che un tuo amico e collega è penosamente al verde o disperatamente indigente.” Arrivarono alla casa, ma non c’erano luci né alcun segno di vita. Sì, i Mitchell vivevano lì, ma erano fuori, spiegò la cameriera. La cena era stata sabato, la sera prima… “Strano,” disse Bruce, quando rientrò. “Avevo un curioso presentimento che qualcosa sarebbe andato storto in questa cena dai Mitchell.” “Che cena dai Mitchell? Non sembra proprio essercene.” “Sai,” Bruce continuò il filo dei suoi pensieri, “in qualche modo ero certo che sarebbe stato un insuccesso. Non era strano? Spesso penso di essere un pessimista, eppure guarda come la sto prendendo bene. Assomiglio più a un fatalista – a volte so a malapena cosa sono.” “Potrei dirti io ciò che sei,” commentò Edith, “ma non lo farò, perché adesso devi portarmi al Carlton. Ci arriveremo prima che chiuda.”

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Estratto da Ada Leverson, Un matrimonio in sospeso Titolo originale dell’opera Tenterhooks (1912) Traduzione dall’inglese di Clementina Liuzzi e Daniele Parisi © 2012 astoria srl via Aristide De Togni 7 – 20123 Milano Prima edizione: aprile 2012 ISBN 978-88-96919-31-6 Progetto grafico: zevilhéritier

www.astoriaedizioni.it


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