La vita inusuale di T. Tembarom

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I compagni della scuola pubblica di Brooklyn non sapevano cosa volesse dire quella “T”. Lui non lo diceva mai a nessuno. Quando glielo chiedevano si limitava a rispondere: “Non vuol dire proprio un bel niente. Tutti devono pur averci un’iniziale, no?”. In realtà si trattava dell’inevitabile trasformazione da scolaro di un nome che lui trovava assurdo e pretenzioso. Il nome di battesimo era Temple, abbreviato in “Temp”. Il cognome era Barholm, il che portava a “Temp Barom”. La naturale tendenza a evitare sprechi di tempo induceva a pronunciarlo come parola unica, ed essendo la lettera “p” superflua e ingombrante, il nome finì per diventare “Tembarom”, e tale rimase. È per ragioni anche molto meno inevitabili che i cognomi si sono evoluti col passare dei secoli. A lui Tembarom piaceva, e presto dimenticò di essersi mai chiamato in altro modo. La sua istruzione era cominciata a dieci anni. A quel tempo la madre morì di polmonite, contratta per essere andata a cucire per settantacinque centesimi al giorno indossando scarpe quasi completamente prive di suole mentre i residui di una bufera di neve si scioglievano per le strade. Poiché dopo il funerale erano rimasti solo venticinque centesimi nel malridotto scrittoio, uno dei pochi mobili che arredavano la stanza del caseggiato in cui vivevano e dove Tembarom dormiva su una brandina, il mondo gli si presentò come un luogo da esplorare in cerca almeno di un pasto al giorno. Non poté far altro che esplorarlo al meglio delle sue capacità di decenne. Il padre era morto due anni prima della madre, e Tembarom 1


aveva provato un vago sollievo. Era un immigrato inglese pieno di risentimento che tra le quattro mura tiranneggiava la famiglia e disprezzava qualunque caratteristica e istituzione americana. Era emigrato in America per farsi una posizione migliore; detestava l’Inghilterra e gli inglesi perché non c’erano “opportunità per un uomo, laggiù”, e trasferendo avversioni e risentimenti da un paese all’altro non aveva trovato miglior fortuna di quella che si era lasciato alle spalle. Di questo dava colpa all’America, e la famiglia, costituita unicamente da Tembarom e dalla madre, dovette ascoltare parecchio al riguardo, così come parecchio, in modo piuttosto contraddittorio, riguardo ai vantaggi e alla superiorità dell’Inghilterra, nei confronti della quale nel giro di sei mesi lui era diventato tetramente leale. In effetti aveva necessità di qualcosa con cui paragonare sfavorevolmente gli Stati Uniti. L’effetto che produsse su Tembarom, quando cominciò a frequentare la scuola pubblica dietro l’angolo, fu il desiderio di nascondere, con una determinazione che rasentava la doppiezza, il fatto umiliante che, se non fosse nato a Brooklyn, sarebbe potuto nascere in Inghilterra. L’Inghilterra non era ben vista dai ragazzi della scuola. Ai loro occhi la storia aveva dipinto quel paese in tutta la sua tirannica cupidigia e sanguinaria oppressione nei confronti dell’umile nato libero. L’atteggiamento più virile e ammirevole era affermare: “Datemi la libertà oppure la morte”… in effetti loro avevano il Quattro Luglio. Per quanto Tembarom e la madre fossero stati decisamente poveri quando il padre era in vita, quando lui morì, i proventi dei suoi lavoretti irregolari non integrarono più i guadagni derivanti dal cucito della madre permettendo di aggiungere uno o due sporadici giorni di pasti completi, con la conseguenza che i due si ritrovarono più che mai affamati e al freddo, e disperatamente al verde per poter pagare l’affitto della stanza. A volte Tembarom, un ragazzino asciutto e intraprendente, trovava un lavoretto occasionale. Consegnava messaggi e pacchi ogniqualvolta si imbatteva in qualcuno che si fidava abbastanza di lui; spaccava vecchie casse per farne legna minuta per accendere il fuoco; più di una volta badò a un bebè quando la madre lasciava la car2


rozzina davanti a un negozio. Ma a otto o nove anni il guadagno è proporzionato alla taglia. Tembarom tuttavia non aveva né l’occhio torvo del padre né quello avvilito della madre. Qualcosa di diverso da entrambi, proveniente da un più lieto passato, si era reincarnato nel piccolo. Aveva un sorriso seducente, un sorriso che incurvava all’insù gli angoli della bocca mostrando i denti sani e regolari, denti giovani – e tanti – che alla gente piaceva vedere. Solo di recente è diventato ragionevole supporre che, agli albori del mondo, gli esseri umani avessero corpi sani e menti sane. Era quello, naturalmente, il disegno originale della razza umana. Non avrebbe avuto senso creare una quantità di cose inutilmente imperfette. Neppure un carpentiere specializzato sprecherebbe il suo tempo per farle, se avesse buonsenso. Davanti al potere di fare un uomo, persino un dilettante l’avrebbe fatto al massimo della perfezione, sia dentro che fuori, costretto da una legittima vanità. Perché altrimenti si sarebbe vergognato di mostrare quelle cose e ammettere di averle fatte, tanto più a un mondo popolato da milioni di analoghe dimostrazioni di incompetenza. In base alla logica, quindi, la razza umana fu creata perfetta, senza macchia, sana e felice. Ma come abbia fatto, da allora, a evolvere imboccando innumerevoli direzioni meno sane, perdendo l’originaria perfezione e proporzioni, io, purtroppo, non sono in grado di spiegarlo nei particolari. Verosimilmente, però, non si può negare che sia andata più o meno in questo modo. Ci sono esseri umani che non sono belli; altri che non sono sani; ci sono quelli che odiano persone e cose con gran dispendio di energia fisica e mentale; altri ancora a cui non dispiace fare del male agli altri con parole o azioni; e ci sono coloro che non credono che il disegno originario della razza umana sia mai stato positivo già in partenza. Tutto questo sembra anormale e insensato, persino il non esser belli, e a volte ci si sente fortemente in dovere di resistere alla tentazione di ascoltare quella vocina interiore secondo cui nulla ha senso. Una tentazione davanti alla quale tanto vale puntare risolutamente i piedi, dato che non porta da nessuna parte. In quei frangenti gioverebbe ricordare un certo innegabile fatto che dovrebbe profilarsi più chiaro nelle nostre elucubrazioni filosofiche. Nessuno ha mai 3


elaborato statistiche sul numero enorme di creature perfettamente sane, gentili, amichevoli e perbene che costituiscono la maggioranza di qualunque agglomerato di esseri umani in qualunque posto: persone che non sono malvagie, crudeli o depravate, e non per via di un continuo autocontrollo, bensì semplicemente perché non vogliono esserlo, perché è più naturale e piacevole essere l’esatto opposto; persone che non mentono perché non riescono a farlo godendone e, caso mai, trovano quell’esercizio un fastidio e una noia; persone le cui maniere ed etica sono pregevoli perché la loro naturale preferenza va in quella direzione. Sono milioni coloro che, nelle vicissitudini della vita e della quotidianità, vengono di fatto ignorate perché non fanno nulla per suscitare eloquente condanna o scintillante cinismo. Non c’è ancora l’abitudine di tenerne traccia. Quando si legge un quotidiano pieno di drammatiche descrizioni di crimini e misfatti, a volte si prova il desiderio che l’attenzione sia richiamata sui propri simili, sulla loro quantità, sulla loro correttezza, sulla loro normalissima assenza di qualunque desiderio di violenza e sull’altrettanto normalissima disponibilità a tendere una mano. Verrebbe quasi da pensare che gran parte delle persone non credano alla loro esistenza. Ma quando sulle strade capita un incidente, sono sempre in molti a sbucare dal nulla per offrire solidarietà e soccorso; e se si verifica una calamità nazionale, materiale o sociale, all’improvviso il mondo sembra pullularne. Sono migliaia i Brown, Jones e Robinson che, tutti assieme, inviano derrate ai paesi colpiti da carestie, sostegno nelle zone devastate dai terremoti, aiuti a soldati o a minatori feriti o a senzatetto colpiti dalle inondazioni. Sono coloro che, del tutto spontaneamente, hanno continuato a crescere retti e a portare avanti l’Intenzione Primaria. Sono loro a costituire la maggioranza; se così non fosse, i popoli della terra si sarebbero divorati a vicenda ormai da secoli. E per quanto questo sia senz’altro vero, un certo facile cinismo dubita totalmente della loro esistenza. Quando un insieme di circostanze sufficientemente drammatiche impone uno di essi all’attenzione generale, costui è chiamato angelo oppure folle. Ma non è né l’una né l’altra cosa. È un essere umano del tutto normale. Tembarom era così, del tutto normale. Gli piaceva lavorare e 4


gioiva dell’allegria, quando la incontrava, anche se in forma contenuta. Era di compagnia, e anche a dieci anni era una persona pratica. Prese gli spiccioli dal cassetto del vecchio scrittoio e, ricordando che aveva aiutato più volte Jake Hutchins a vendere giornali, andò a cercarlo e a consultarsi con lui riguardo all’investimento del suo capitale. “Dove stai andando, Tem?” gli chiese una donna che viveva nella stanza accanto, quando si incontrarono sulle scale. “Cosa pensi di fare?” “Mi metterò a vendere giornali, se riesco a procurarmene un po’ con questi,” rispose dischiudendo la mano a mostrare l’entità delle sue ricchezze. La donna era povera quasi quanto lui, sebbene non a tal punto. Lo osservò colpita per un momento, poi si rovistò in tasca. Ne estrasse due monete da dieci centesimi e rifletté, esitante. Poi osservò di nuovo il bambino. L’espressione di normalità in quegli occhi di decenne dispiegò i consueti effetti positivi. “Prendi questi,” disse porgendogli le due monete. “Ti aiuteranno a incominciare”. “Ve li restituirò, signora,” disse Tem. “Grazie, Mrs Hullingworth.” Nel giro di due settimane glieli aveva riportati. Quello fu l’inizio. Si ritrovò a vivere tutte le esperienze che si sarebbe trovato a vivere un figlio di nessuno. La classe anormale lo trattava male, quella normale lo trattava bene. Riuscì a procurarsi cibo sufficiente per evitare di morire di fame. A volte dormiva sotto un tetto, più spesso all’aperto. Preferiva dormire all’aperto per oltre metà dell’anno, e per il resto del tempo faceva quel che poteva. Vide e imparò molte cose strane, ma non si lasciò mai insidiare dal vizio in quanto, inconsapevolmente, preferiva il decoro. Vendeva giornali, e ci aggiungeva qualunque lavoretto si profilasse all’orizzonte. L’educazione che le strade di New York gli impartirono fu di tipo liberale. Si abituò al caldo, al freddo e alla pioggia, ed essendo dotato di polmoni sani e di un corpicino resistente, oltre alla già menzionata tendenza alla normalità, non soffrì di deperimento fisico più di quanto ne avrebbe sofferto un ragazzino dell’India. Dopo aver venduto giornali per due 5


anni trovò un impiego come garzone in un negozietto. I progressi portati da un impiego fisso furono ispiratori per le sue energie. Fece nuovi progressi, e mentre diventava grande trovò impieghi migliori e meglio pagati. A quindici anni già divideva una piccola camera in affitto con un altro ragazzo. Ovunque vivesse, le amicizie erano sporadiche. Ma gli altri ragazzi gli si assiepavano attorno. Era inconsapevole di quel suo influsso; il fatto è che quell’influsso era simile a un fuoco in inverno, o a una brezza fresca in estate. Era naturale radunarsi dove essi regnavano. Un giorno cominciò a frequentare una scuola serale per imparare la stenografia. Alcuni ragazzi che conosceva bene erano in fermento per una voce che girava: c’erano dei tizi che guadagnavano fino a cento dollari alla settimana “scrivendo abbreviato”. L’adolescenza non poteva resistere alla florida grandiosità di quell’idea. Quattro di loro cominciarono il corso, fiduciosamente certi che di lì a sei settimane sarebbero diventati i beneficiari di quattrocento dollari al mese. Ma uno dopo l’altro abbandonarono, finché non rimase che Tembarom, che progrediva lento e inesorabile. Era animato dall’unica intenzione di farsi strada nel mondo, di arrivare il più lontano possibile. E tenne duro con la stenografia, che a diciannove anni gli fece trovare un impiego nella redazione di un giornale. Scriveva sotto la dettatura di un direttore nervoso e tormentato, che quando andava su tutte le furie per il superlavoro e l’incompetenza trovava che quel ragazzo lindo, sorridente e dalle gambe lunghe non versava mai benzina sulle fiamme della sua collera. Era un giovanotto comune, che non spiccava per l’intelligenza particolarmente brillante ma aveva una mente lucida e un buon carattere, oltre alla curiosa capacità di riuscire a calarsi nei panni dell’altro, nei suoi problemi e stati d’animo. Questo gli fece guadagnare di tanto in tanto qualche nuova modesta incombenza. Durante un’emergenza fu inviato in qualità di reporter a raccogliere i particolari di un incendio. Ciò che riportò in redazione era utilizzabile, e la sua euforia nello scoprire di aver fatto un buon lavoro fu sufficientemente sincera da indurre Galton, il direttore, a offrirgli altre possibilità. Quella fu, per Tembarom, una magnifica esperienza. Le sug6


gestioni letterarie implicite nel “lavorare a un giornale” erano più di quanto avesse mai osato sperare. Per chi ha venduto quotidiani e dormito dentro una botte o dietro a una catasta di legname in un deposito, fare un servizio su un incendio scoppiato in una rimessa per tram sembra un’incursione nella letteratura. Si applicò a un meticoloso studio dei quotidiani: i punti di vista, lo stile della prosa. Ai suoi occhi erano perfetti. Arrivare a esprimersi con facilità in quello stesso linguaggio era il massimo delle sue aspirazioni. Non aveva dubbi sulla grandezza del suo ideale. A volte il rispetto e la fiducia del ragazzo facevano quasi commuovere Galton, memore dei tempi in cui aveva anche lui diciannove anni e guardava con riverenza ai giornalisti di New York. Tembarom gli piaceva sempre più. Anzi, averlo vicino lo tranquillizzava, e si ritrovò a offrirgli un’assurda, piccola opportunità dopo l’altra. Quando questi portava in redazione i suoi pezzi, costellati di indizi fin troppo evidenti della sua profonda ignoranza, Galton ci metteva mano e li utilizzava, dando nel frattempo a Tembarom suggerimenti illuminanti e ironici che il giovane accettava immancabilmente con animo grato. Non si faceva illusioni sulle proprie capacità. Galton gli si ergeva davanti come una sorta di dio, e sebbene il direttore fosse un uomo dalla mente acuta, per quanto esausta, e dotato di senso dell’umorismo, naturalmente la situazione sfociò in una relazione armoniosa. Era uno dei molti che inconsapevolmente si allontanavano dal freddo per stare accanto al bagliore del fuoco vivo di Tembarom, o che cercavano rifugio dal calore nella sua fresca brezza. Era ignaro del suo privato, arduo studio dello stile giornalistico, e lieto di constatare che quella recluta così giovane e piacevole stava facendo progressi. Spinto dal puro, modesto timore del ridicolo, Tembarom teneva per sé le proprie alte ambizioni. Faceva pratica di servizi giornalistici su incendi, matrimoni e incidenti scrivendo nel suo angolo-letto. L’angolo-letto di una pensione di terza categoria non è un luogo piacevole, e quando a Tembarom balenava quel pensiero richiamava alla mente le notti trascorse nei camion vuoti o dietro le cataste di legname, e pensava che il lusso lo stesse viziando. Si diceva che aveva sempre avuto fortuna. Non sapeva, come chiunque altro, che la fortuna lo avrebbe seguito anche se fosse andato a vivere in una 7


carbonaia. Mrs Bowse, l’affaticata affittacamere, aveva cominciato a lasciarsi rasserenare dai suoi modi già il giorno in cui si era presentato per chiedere vitto e alloggio. La donna aveva un inizio di influenza, ed era reduce da una concitata zuffa con una cuoca disonesta, per cui quando lui si presentò era incline a dar battaglia. Nel giro di pochi minuti ogni velleità battagliera era svanita. Gli diede la camera. Non c’era dura regola che lo spaventasse. “Ovviamente quel che dite è legge,” disse rivolgendole il suo sorriso amichevole. “Chiunque accetta pensionanti deve stare molto attento. Le sta venendo un brutto raffreddore, vero?” “Mi è venuta di nuovo la grippe, ecco cosa,” rispose lei quasi bruscamente. “Avete mai provato il G. Destroyer? G sta per grippe, sapete. Un nome che resta in mente. Dicono che a chi l’ha inventato ha fruttato diecimila dollari. G. Destroyer. Appena lo vedi su un cartellone devi subito scoprire cosa significa. A me la grippe è appena passata, e ne ho ancora un mezzo flacone in tasca. Portatevelo dietro, e bevetene un po’ ogni mezz’ora. Provatelo. Per me è stato un toccasana.” Tirò fuori il flacone dalla tasca del gilè e glielo porse. Lei lo prese e lo girò. “Siete molto generoso,” esitò la donna, “ma non mi va di portarvi via la vostra medicina. Dovrei uscire a comprarne una bottiglietta. Quanto costa?” “Il prezzo è sopra; ma il problema è proprio l’andare a prenderla. Non avete tempo, e vi uscirà di mente.” “Mi sa che andrà proprio a finire così,” disse Mrs Bowse lanciandogli un’occhiata penetrante. “Vedo che ne sapete qualcosa di pensioni.” “Credo di saperne qualcosa sul provare a procurarsi tre pasti al giorno… o almeno due. Non è un’impresa da poco, in qualunque modo lo si faccia.”

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Quando il giorno dopo prese possesso del suo angolo-letto e scese per il suo primo pasto, tutti i pensionanti lo guardarono con interesse. Mrs Bowse, guarita dalla grippe, aveva parlato loro del G. Destroyer. Jim Bowles e Julius Steinberger lo guardavano perché avevano pressappoco la sua stessa età e condividevano una stanza sullo stesso piano; la giovane donna che lavorava al banco informazioni di un grande magazzino del centro perché era una giovane donna; il resto della compagnia lo guardava perché un giovanotto in un angolo-letto poteva essere rumoroso oppure no, e l’episodio del G. Destroyer lasciava presagire una natura benevola. Mr Joseph Hutchinson, il corpulento, insoddisfatto inglese di Manchester, lo guardava dall’alto in basso perché il semplice fatto di essere un nuovo arrivato l’aveva messo nella posizione di potenziale bersaglio di critiche. Mr Hutchinson era venuto fin lì perché gli era stato detto che tra i munifici e innumerevoli multimilionari di New York avrebbe potuto trovare dei finanziatori per la sua invenzione, l’idea che l’aveva perseguitato per tutta la sua scialba esistenza. Ma ad accoglierlo non aveva trovato quell’estasi prodiga che gli era stata descritta, e stava diventando violentemente ostile nei confronti del capitalismo americano e negativo nei suoi giudizi sulle istituzioni americane. Anch’egli, come il padre di Tembarom, era un inglese pieno di risentimento. “Quel ragazzo non mi sembra un granché,” disse in quello che pensava fosse un tono sommesso alla figlia che, seduta accanto a lui, 9


cercava di placarne le ire per l’attesa di pane e burro e per potersi servire di nuovo. L’incrollabile, sana, vecchia convinzione feudale che si dovesse strepitare alla volta dei domestici se dimostravano di non avere “l’occhio lungo” quando lui voleva qualcosa era uno dei suoi tratti salienti. “Aspetta un attimo, papà, non sappiamo ancora niente di lui,” mormorò Ann Hutchinson in tono tranquillo, sperando che le parole del padre fossero state coperte dall’acciottolio di coltelli, forchette e piatti. Appena prese posto Tembarom scoprì che, guardando davanti a sé, vedeva Miss Hutchinson, e prima della fine del pasto si disse che era stato davvero fortunato ad avere il posto a tavola proprio di fronte a un soggetto così interessante. Non ne sapeva nulla di “tipi”, ma se fosse stato uno di quelli che ne sapevano, probabilmente avrebbe pensato che fosse un tipo speciale. Invece sapeva soltanto che la ragazza apparteneva al genere che veniva continuamente da fissare, che fosse opportuno o meno. Era una cosina dalla corporatura incredibilmente esile, una di quelle corporature che conferiscono a una ragazza un’aria fanciullesca e leggera come una piuma. In poche riescono a mantenerla dopo i quattordici o quindici anni. Sarebbe bastato un colpo di vento per farla volare via, ma era chiaro che non sarebbe mai successo: la ragazza era ben ferma e salda sui suoi piedini. Una persona dalla forza normale avrebbe potuto sollevarla con una mano, e avrebbe avuto la tentazione di farlo. Ann aveva una gola sottile e armoniosa, e per il visetto inglese da margherita che sosteneva faceva pensare allo stelo di un fiore. La rotondità delle guance, nelle quali facevano di tanto in tanto la loro comparsa due fossette totalmente inaspettate, e l’azzurro non-ti-scordar-di-me degli occhi, che erano grandi e anch’essi tondi, le conferivano l’aspetto di una bambina particolarmente dotata e osservatrice. Guardava le persone nel modo in cui lo fanno certe creaturine in carrozzina incutendo soggezione: con quello sguardo limpidamente e lontanamente silenzioso che supera ostacoli terreni e riserva alle follie una benevola pazienza. Tembarom, interessato, sentiva che davanti a quello sguardo una persona si sarebbe intimorita, se avesse avuto qualcosa di meno che ineccepibile da nascondere. Eppure non era 10


affatto uno sguardo critico. La ragazza indossava un vestito nero con il colletto bianco, e i capelli rossi e vaporosi erano così folti che lui non poté fare a meno di ricordare un paio di donne che ne avevano in quantità analoga e sembravano in grado di portarli solamente in una sorta di ammasso disordinato. Quelli di lei sembravano totalmente sotto controllo, eppure erano una tale meraviglia di brunita foltezza che la mano era tentata di allungarsi a toccarli. Durante i pasti divenne compito di Tembarom impedire che gli occhi si volgessero troppo spesso verso quei capelli e la loro proprietaria. Se fosse stata una ragazza che prendeva le cose per il verso sbagliato, avrebbe preso il padre per un verso decisamente sbagliato. Ma poiché per lei opinioni e sentimenti erano solo una questione di punto di vista e gli era molto affezionata e lo considerava sua sacrosanta responsabilità e dovere, si prendeva cura di lui come se fosse stata una madre dal cuore particolarmente tenero alle prese con un figlio troppo esuberante. Quando si udiva il ruggito dell’uomo, la voce sottile e tranquilla di lei andava sempre a lenire le altrui orecchie indignate nell’esatto istante in cui quello cessava. Il suo ruolo nella vita era fungere da palliativo: la madre, il cui ben addestrato comportamento verso il maschio dominante della famiglia era di stampo vittoriano del primo periodo, era vissuta e morta svolgendo quella funzione. Mai era esistita donna più buona e calorosa. Joseph Hutchinson l’aveva adorata e aveva fatto affidamento su di lei nell’esatta misura in cui l’aveva tormentata. Quando sbuffava come un toro infuriato perché non riusciva ad abbottonarsi il colletto, o a trovare la pipa che si era infilato in tasca, lei non aveva mai detto niente di più che un: “Suvvia, Mr Hutchinson,” né fatto niente di più che lasciare il cucito per allacciargli il colletto con dita carezzevoli e suggerirgli con tranquillità che a volte gli capitava di avere già la pipa con sé. Apparteneva alla categoria che soleva chiamare il proprio marito rispettosamente con il cognome. Quando morì lo lasciò alla figlia come una sorta di eredità, dopo aver passato le ultime settimane della sua vita a spiegare devotamente tutto ciò di cui “papà” aveva bisogno per vivere comodo e tranquillo. La piccola Ann non aveva mai dimenticato un dettaglio; ne aveva anzi migliorati alcuni, essendo più acuta della madre e avendo 11


una mente limpida e lungimirante. L’avevano chiamata “piccola Ann” per tutta la vita. Un po’ perché anche sua madre si chiamava Ann, ma soprattutto perché le persone pensavano che le calzasse a pennello, e non perché fosse particolarmente piccola, pur essendo una personcina minuta e leggera, ma perché il suono di quella parola aveva un che di affettuoso. Nonostante le ristrettezze in cui versava, Mrs Bowse avrebbe preferito perdere due pensionanti piuttosto che tenere Mr Joseph Hutchinson, se non fosse stato per la piccola Ann. Perciò li tenne, e nel giro di tre mesi la ragazza era diventata “la piccola Ann” quasi per chiunque, alla pensione. La sua normalità prendeva la forma di un istinto che rasentava il genio nel capire di cosa le persone avessero bisogno e, in qualche suo modo occulto, per riempire vuoti o superare situazioni difficili. “È un portento, quella ragazza,” diceva Mrs Bowse a un pensionante dopo l’altro. “È un portento,” mormoravano Jim Bowles e Julius Steinberger in malinconica segretezza mentre inclinavano la sedia contro la parete del loro angolo-letto e fumavano. Ovviamente entrambi quei giovani trasandati e indigenti si erano subito perdutamente innamorati di lei. Un fatto puramente umano e inevitabile, ma dopo essersi resi conto nell’arco di poche settimane che la ragazza era troppo occupata a prendersi cura del vecchio padre di Manchester chiassoso e irritabile, così come di tutti gli altri, per avere tempo di farsi corteggiare persino da giovanotti in grado di comprare degli stivali nuovi quando quelli vecchi avevano smesso di essere a tenuta stagna, i due furono costretti a rassegnarsi al fatto tutto sommato confortante che per loro lei era diventata una madre, neppure una sorella. Ann rammendava i loro calzini e attaccava i loro bottoni con l’energica franchezza a cui era impossibile dare un significato più sentimentale se non l’inveterata abitudine a riparare qualunque cosa che ne avesse bisogno e che, se anche all’inizio risultò sconcertante nella sua serenità, finì per ridurre i giovani a due agglomerati di devozione. “È un portento,” sospiravano quando ogni fine settimana trovavano il loro triste, esiguo bucato ordinatamente posato sul letto. 12


All’incirca nell’arco di una settimana i sentimenti di Tembarom per la ragazza sarebbero stati esattamente quelli dei due vicini di camera, se non che la sua natura, pur pratica, non era affatto incline alla supina rassegnazione. Ma era un ragazzo giudizioso, e non creò problemi. Persino Joseph Hutchinson, che naturalmente provava una feroce avversione per qualunque “stupidaggine” di cui venisse fatta oggetto Ann, sua figlia e proprietà, fu sufficientemente rabbonito dal buonumore e dalla pronta benevolenza di Tembarom da astenersi da aperte aggressioni verbali. “Quel ragazzo non mi dispiace più tanto come all’inizio,” ammise riluttante nel conversare con la piccola Ann una sera dopo una buona cena e una bella fumata di pipa. “Non è stupido come sembra.” Tembarom aveva il dono, proprio come la piccola Ann, di capire quel che serviva alle persone. Sapeva quando passare la senape e altri condimenti sparsi per la tavola. Raccoglieva le cose che cadevano in punti scomodi da raggiungere, non interrompeva le persone più vecchie e sagge di lui, e più di una volta, nel trovarsi all’ingresso e vedendo Mr Hutchinson che versava nell’umore irritabile da robusto inglese e battagliava per infilarsi il cappotto, balzava verso di lui con piglio lieve e amichevole per aiutarlo. Però non lo faceva con la gentilezza ostentata o con le maniere del giovane vigoroso che offre aiuto al grassone attempato, ma come per effetto naturale del trovarglisi accanto. A Mrs Bowse e al resto del pensionato occorse meno di una settimana per prendere in aperta simpatia il ragazzo. Ogni sera, quando si sedeva a cena, portava loro notizie, storielle e nuovi modi di dire. Quando era presente, aneddoti e chiacchiere da redazione conferivano alla tavolata un che di giornalistico, e quella era una cosa nuova e originale. Presto ognuno fece amicizia con lui, mostrando interesse per quel che faceva. La benevola protezione di Galton nei suoi confronti non passava inosservata. Era considerata la cosa giusta nel posto giusto. Quando la sera Tembarom rincasava divenne un’abitudine interrogarlo sugli eventi propizi che gli capitavano. Divenne “T.T.” invece che Mr Tembarom, tranne che per Joseph Hutchinson e figlia. Hutchinson lo chiamava Tembarom, mentre la 13


piccola Ann, quando gli rivolgeva la parola, intercalava nei discorsi frequenti e rispettosi “Mr Tembarom”. “Rimediato qualcosa oggi, T.T.?” lo interrogava qualcuno quasi ogni sera mentre l’interesse per il resoconto delle avventure della giornata aumentava di settimana in settimana. La piccola Ann non faceva mai domande, e raramente commenti, ma ascoltava sempre con attenzione. In base a quanto dedotto, e a quanto intuito dalle proprie deduzioni, si era fatta un’idea piuttosto precisa di quanto fosse stata dura la sua giovane esistenza. Non raccontava storie patetiche su di sé, ma lui, Jim Bowles e Julius Steinberger erano diventati grandi amici, e le amichevoli fumate di tabacco a buon mercato negli angoliletto portavano alla sincerità nei rapporti, e le diverse circostanze in cui ciascuno “se l’era vista brutta” durante i loro pochi anni di vita fornivano materiale per lunghe chiacchierate condite da aneddoti. “Ma d’ora in poi sarà tutto più facile,” diceva Tembarom. “Sono diventato bravo a stenografare. Non così bravo da sfondare, ma abbastanza bravo da conservarmi il posto di lavoro con Galton. È molto buono con me. Se fossi più esperto credo che mi assegnerebbe una rubrica, forse quella delle cronache mondane. Al momento ce l’ha un tizio di nome Biker. Venti dollari. Si prende una sbornia colossale due volte al mese, l’idiota. Perdinci, vorrei avercelo io il suo lavoro!” La casa di Mrs Bowse aveva un salotto in cui, se ne avevano voglia, i pensionanti potevano stare la sera. Era una stanza spaventosa che si intravedeva appena entrati nell’atrio buio dal soffitto alto: uno spazio di tetra desolazione punteggiata qua e là da incongrue vivacità di colore. L’effetto era prodotto da litografie a colori da grandi magazzini riccamente incorniciate alle pareti, a cui si aggiungevano chiassosi coprischienali con motivi di donne indiane o capitribù con i colori di guerra, o mazzi di papaveri dalle tinte sgargianti. Erano regali di Natale ricevuti da Mrs Bowse, o acquisti d’occasione fatti ai grandi magazzini in base al suo gusto, e oculatamente ponderati. Aveva invece comprato le sedie di noce e il divano con la tappezzeria di tessuto felpato rosso e verde quando il fallimento di una pensione lì vicino li aveva fatti scendere alla portata dei suoi mezzi. Il rosso e il verde erano ormai sbiaditi, e l’intento lietamente spe14


ranzoso di coprischienali e cuscini era nascondere le zone lise e le macchie. La mensola del camino era impreziosita da uno specchio dalla cornice noce scuro e oro e da innumerevoli vasi in stile ornato da novantotto centesimi. Il centrotavola conteneva alcuni poderosi rami di glicine artificiale ricoperti di polvere. Il fondo della stanza era reso attraente da un angolino intimo, in stile tenda, con armi primitive e complementi di cotone orientale ormai da tempo logori e dalla tonalità quasi lebbrosa. La proprietaria della pensione fallita aveva una personalità “artistica”. Ma Mrs Bowse era un’anima piuttosto buona, e i pensionanti trovavano piacevole sia lei che la sua casa; quando l’illuminazione a gas era accesa e qualcuno suonava il rag-time alla pianola di seconda mano il salotto era un bel posto. La piccola Ann non si faceva vedere spesso lì, ma di tanto in tanto scendeva con il cucito – aveva sempre con sé “qualcosina da cucire” – e sedeva nell’angolino intimo ascoltando gli altri parlare o lasciando che qualcuno le confidasse i propri guai. Talvolta era la vedova del New England, Mrs Peck, con l’aspetto da maestra zitella ma che aveva un figlio, sposato a una brava donna, che abitava ad Harlem e aveva il vizio del bere. Si confidava sempre con la piccola Ann, interrogandosi sull’opportunità di mettergli di nascosto nel tè un deterrente contro l’alcol. Tal altra era Mr Jakes, un ometto depresso che era stato abbandonato dalla moglie per nessun motivo in particolare che gli riuscisse di scoprire. Ma i più assidui erano forse Julius Steinberger e Jim Bowles, che facevano del loro candido meglio per presentarsi ai suoi occhi come giovani uomini d’affari energici, se non di successo, non totalmente indegni di attenzione, e che manifestavano immancabilmente, e ogni giorno di più, la loro devozione. In altri momenti era Tembarom, su cui la ragazza non aveva mai espresso opinione, ma con cui aveva fatto amicizia. Le piaceva ascoltare i racconti della redazione e di Mr Galton, ed era sempre interessata alle sue speranze di “sfondare”. Tembarom la trovava la persona più saggia, più schietta e composta mai conosciuta. Ann parlava con l’accento largo, piatto e amichevole di Manchester, e quando lasciava cadere un suggerimento esso era portatore di una convinzione deliziosamente misurata, in 15


quanto quel che diceva era in genere il risultato di un processo mentale logico basato su dettagli racimolati con quel suo modo discreto di ascoltare e di non dire mai nulla. “Se Mr Biker beve, non riuscirà a tenersi il posto di lavoro,” disse a Tembarom una sera. “E forse potreste averlo voi, se ce la mettete tutta.” Tembarom arrossì un po’. Arrossì di gioiosa emozione. “Ehi, non sapevo foste al corrente,” rispose. “Siete fonte di continuo stupore. Non dite quasi mai nulla, ma il modo in cui capite le cose mi colpisce”. “Forse se parlassi di più non capirei così tanto,” rispose lei rigirando il cucito per esaminarlo. “Non sono mai stata brava a parlare. Papà è un gran conversatore, mentre dalla mamma ho imparato ad ascoltare. Si deve, quando si vive con un buon conversatore.” Tembarom osservò la ragazza con garbo maschile, sforzandosi di celare la propria convinzione che Ann fosse del tutto consapevole delle caratteristiche salienti del padre proprio come lo era di altre cose. “Già,” convenne. Poi, dopo aver raccolto le forbicine cadute dalle ginocchia di lei e avergliele cortesemente restituite, aggiunse in tono ansioso: “Quindi vi ricordate di Biker! Mi chiedo, se mai ottenessi quel posto, se ce la farei a conservarlo”. “Sì,” stabilì la piccola Ann. “Ce la fareste. Io credo che siate quel tipo di persona, Mr Tembarom.” “Davvero?” le chiese euforico. “Parola d’onore?” “Sì.” “Diventerò arrogante se mi incoraggiate in questo modo,” disse; poi, mentre perdeva la sua espressione lieta, aggiunse: “Biker si è laureato a Princeton”. “Non ne so molto di alta società,” disse la piccola Ann. “Non ho mai visto i quartieri alti, né il centro città, né tantomeno la campagna, ma non penso che ci voglia una laurea per scrivere su un giornale quel che si vede.” Tembarom sorrise. “In effetti non sono pezzi da intellettuali,” disse. “‘Martedì sera si è tenuto un importante raduno a casa di Mr Jacob Sturtburger al 16


79 della 200ma Strada in occasione del matrimonio della figlia, Miss Rachel Sturtburger, con Mr Eichenstein. La sposa indossava un abito di raso bianco peau de cygne con guarnizioni in pizzo duchesse’.” La piccola Ann sollevò lo sguardo su di lui. “Non so cosa sia il peau de cygne, e immagino non lo sappia neppure la sposa. Ho frequentato solo una scuola di paese, ma sarei capace anch’io di scrivere un articolo del genere.” “Questo è il genere quartieri alti,” disse Tembarom. “In quello quartieri centrali a volte le spose indossano il velo di trina della madre, ma non sono molto diversi. Sapete, penso che con un po’ di fortuna potrei sfondare.” “Lo penso anch’io,” replicò la piccola Ann. Tembarom abbassò gli occhi sul tappeto, riflettendo sulla questione. Ann continuava cucire. “Con voi è così,” disse dopo un attimo, “mettete le cose in testa a una persona. Mi avete dato un grande incoraggiamento, piccola Ann.” Non è improbabile che, se non fosse stato per l’assennata convinzione nella voce di lei, Tembarom si sarebbe sentito meno baldanzoso quando, due settimane dopo, allorché Biker fu licenziato senza tanti complimenti dopo una sbornia decisamente esagerata, Galton si rivolse disperato a Tembarom con un ansioso interrogativo negli occhi. “Pensi di poterlo fare, il suo lavoro?” gli chiese. In quel momento Tembarom credette che il cuore gli balzasse in gola. “Voi cosa ne pensate, Mr Galton?” chiese “Qui non c’è niente da pensare,” fu la risposta di Galton. “Qui c’è bisogno di certezze assolute.” “Sentite,” disse Tembarom, “se lo darete a me combatterò con tutte le mie forze, prima di dichiararmi sconfitto.” Galton lo osservò, ne studiò attentamente la corporatura lunga e robusta, il viso giovanile affilato ed entusiasta, soprattutto il sorriso cordiale. “Ti prendo in parola,” decise. “Fatti qualche amico su a Harlem e non farai fatica a recuperare le notizie. Direi almeno di provarci.” Il cuore di Tembarom gli balzò di nuovo in gola, e di nuovo do17


vette mandarlo giù. Fu lieto di non avere il cappello in mano: sapeva che avrebbe perso il controllo e l’avrebbe lanciato in aria. “Grazie, Mr Galton,” disse arrossendo intensamente. “Vorrei riuscire a esprimere tutta la mia gratitudine per la fiducia che mi dimostrate, ma non ne sono capace. Grazie, signore.” Quando la sera comparve in sala da pranzo di Mrs Bowse, la sua persona emanava una tale euforia, e il suo passo era così baldanzoso, che subito attirò l’attenzione generale. Per qualche strano motivo tutti lo guardarono, e nell’incontrarne lo sguardo avvertirono la presenza di una qualche nuova esultanza. “Rimediato qualcosa, T.T.?” chiese Jim Bowles. “Ne hai tutta l’aria.” “Sfido che ne ho tutta l’aria,” rispose Tembarom sfilando il tovagliolo dall’anello con un involontario svolazzo. “Ho rimediato la rubrica dei quartieri alti… rimediato e come, perdinci!” Un benevolo coro di congratulazioni si levò dalla tavola. “Ben fatto!” “Tre urrà per T.T.!” “Ne sono felice!” “Una bella fortuna!” esclamarono uno dopo l’altro. Ne erano tutti lieti, e la sensazione generale era che Galton avesse nuovamente dato prova di buonsenso e fatto la cosa giusta. Persino Mr Hutchinson si sporse sulla sedia per grugnire la propria approvazione. Dopo cena Tembarom, Jim Bowles e Julius Steinberger salirono assieme e riempirono l’angolo-letto di grandi nuvole di tabacco; inclinarono le sedie contro il muro e fumarono con accanimento la pipa, rossi in viso e ciarlieri, infervorandosi con i progetti euforici della gioventù. Da alcune settimane la fortuna non arrideva a Jim Bowles e Julius, e vedersi arrivare “il buon vecchio T.T.” nei panni del protagonista di una fiaba aveva agito da sprone. Se nella vita una persona non è mai stata in grado di guadagnare più del necessario per pagarsi vitto e alloggio, una cifra di venti dollari si staglia enorme nella sua entità. Potrebbe rappresentare un inizio. “Per prima cosa bisogna capire come si fa,” disse Tembarom. “E la prima cosa non la so. Devo pensarci. Non posso chiederlo a Biker. Non me lo direbbe in ogni caso.” “Io dico che quello è matto,” intervenne Steinberger. 18


“Matto da legare,” concordò Tembarom. “Quando sono uscito dall’ufficio di Galton sono sceso e l’ho trovato in redazione che diceva a Miss Dooley: ‘Quel tizio, Tembarom, prenderà il mio posto. Ma se non conosce nemmeno l’ortografia! Voglio proprio vedere che begli articoli farà’. Parlava a voce alta per farsi sentire da me, poi se ne è uscito con una specie di risata di naso.” “Di’, T.T., la conosci l’ortografia?” chiese Jim pensieroso. “L’ortografia? Io? No,” rispose Tembarom con incrollabile buonumore. “Dovrò addomesticare un dizionario e incatenarlo alla gamba della scrivania. Le parole con doppia ‘m’ o ‘l’ mi fanno sempre sudare sette camice. Ma il problema maggiore è come trovare le notizie, e il nome del tizio che mi darà le informazioni. Non puoi presentarti alla porta di uno, suonare il campanello e chiedergli se è in procinto di sposarsi, di farsi seppellire o di organizzare un ricevimento.” “Avete sentito bussare?” disse Steinberger. In effetti qualcuno stava bussando, e Tembarom balzò in piedi per andare ad aprire; credeva fosse Mrs Bowse venuta per una delle sue incombenze domestiche. Era invece la piccola Ann Hutchinson, con un ago infilato sul davanti del vestito e un ditale sul dito. “Sono venuta a prendere i calzini nuovi di Mr Bowles,” disse con fare materno. “Ho promesso che glieli avrei contrassegnati.” Nel vederla, Bowles e Steinberger balzarono a loro volta dalla sedia e le andarono incontro con il consueto fremito di piacere. “Un trattamento che la dice lunga sui comfort della casa! ” esclamò Tembarom. “Come se non fosse abbastanza, per un uomo, avere dei calzini nuovi; deve pure trovarseli già belli e contrassegnati! Ma di cos’erano fatti quelli vecchi? D’oro massiccio? Non credo che vengano i ladri a rubarteli.” “Non succederà, quando li avrò contrassegnati, Mr Tembarom,” rispose la piccola Ann, sollevando su di lui gli occhi seri e tondi color non-ti-scordar-di-me, ma con una fossetta profonda che si materializzava vicino al labbro; “però se non lo facessi, tutte e tre le paia di calze non tornerebbero più dalla lavanderia.” “Tre paia!” esclamò Tembarom. “Tre paia di calze nuove? Ecco cos’aveva in ballo la scorsa settimana. Non mettetegli quei contrassegni, piccola Ann. Mica è giusto che un uomo abbia tutto.” 19


“Eccole,” disse Jim porgendogliele. “Da venticinque ribassate a dieci, da Tracy’s. Sono o non sono di qualità?” La piccola Ann le ispezionò con l’occhio pratico dell’intenditrice d’affari. “Nei negozi di Manchester verrebbero a costare circa uno scellino,” stabilì, “e potrebbero essere ribassate a sei pence. Sono piuttosto belle, tenetele con cura.” Non era la ragazza sempre pronta ad attardarsi in conversazioni vivaci in un atrio o sulla porta di una camera da letto, e si era appena girata con i calzini nuovi in mano quando Tembarom, colpito da un’improvvisa ispirazione, la raggiunse in fretta. “Sentite, ho pensato una cosa,” disse di slancio. “Una cosa da chiedervi.” “Di che si tratta?” “Di come organizzarmi per la rubrica delle cronache mondane,” rispose esitante. “Mi stavo domandando se sarebbe chiedervi troppo se… beh,” si interruppe all’improvviso e se ne restò lì con le mani in tasca a guardarla con bramosa ammirazione, “mi pare che voi sappiate tutto.” “No, che non lo so, Mr Tembarom. Ma sono felice per la vostra rubrica. Lo siamo tutti.” Una delle maggiori difficoltà che Tembarom doveva fronteggiare quando parlava con la piccola Ann era resistere alla forte tentazione di afferrarla, stringerla a quel suo sano, tumultuoso, giovane petto e tenervela stretta. Quando se ne accorgeva si vergognava di sé, ma sapeva che quella sua veniale debolezza era condivisa da Jim Bowles e da Steinberger, così come da altri. Quel suo essere così esile, leggera e morbida; la contegnosa franchezza dei suoi occhi; e la singolare aria da bambina cresciuta e particolarmente dotata producevano un effetto che bisognava combattere. “Volevo solo dire,” cercò di spiegarsi, “che se mi lasciaste mettere in chiaro questa cosa con voi mi sarebbe d’aiuto. Penso che voi mi aiutereste ad arrivare da qualche parte. Devo buttar giù un piano per avvicinarmi alle persone a cui succedono cose che possono diventare materiale per le cronache mondane, capite. Biker non ha avuto successo con questo, ma – perdinci! – io devo sfondare. Devo!” 20


“Sì,” rispose la piccola Ann, gli occhi pensosi fissi su di lui. “Dovete, Mr Tembarom.” “Non c’è un’anima, giù in salotto. Vi dispiacerebbe scendere con me e ascoltarmi mentre cerco di chiarire e trovare una soluzione? Intanto potreste continuare a cucire.” Ann rifletté per un attimo. “Ci verrò se papà può fare a meno di me,” decise. “Vado a chiederglielo.” Si allontanò, e dopo due o tre minuti tornò portando con sé il piccolo cesto da lavoro. “Può fare a meno di me,” annunciò. “Sta leggendo il giornale, non ha voglia di parlare.” Scesero le scale e trovarono il salotto deserto. Tembarom alzò la luce a gas, che era stata abbassata, e la piccola Ann sedette nell’angolino intimo con il cestino sulle ginocchia. Tembarom avvicinò una sedia e sedette di fronte. Ann infilò l’ago e prese uno dei nuovi calzini di Jim. “Eccoci qui,” disse. “Le cose stanno in questi termini,” cominciò Tembarom. “La pagina è una nuova proposta, innanzitutto. Prima la rubrica sui quartieri alti non c’era proprio. C’era solo la Quinta Strada e i suoi Quattrocento; ma il nostro non è un giornale alla moda, e i Quattrocento non hanno interesse a comprarlo per leggerci il loro nome sopra. Anzi, sarebbero disposti a pagare per tenercelo fuori. I quartieri alti stanno crescendo a dismisura, e da quelle parti c’è un sacco di gente a cui farebbe piacere che gli amici leggessero dei loro matrimoni e ricevimenti, e che comprerebbero una decina di copie da distribuire, se sopra ci fosse il loro nome. Non c’è fine alle signore e ragazze che vorrebbero vedere i loro vestiti descritti sul giornale e far leggere le descrizioni alle amiche. E anche loro comprerebbero il giornale, ci scommetterei. Incrementerebbe un bel po’ le vendite. È stata un’idea di Galton, che ha affidato l’incarico a Biker perché pensava che un ragazzo istruito avrebbe fatto presa sulla gente. Ma in qualche modo ha fallito. A quanto pare non piaceva. Era tenuto a distanza. La rubrica è sempre stata terribilmente sguarnita… nessuna foto delle spose, niente. Galton ne ha fatto una malattia. Era 21


convinto che sarebbe stato un successo. Ma Biker non faceva altro che bere, più o meno, e non ha più avuto la mente lucida, comunque. Credo sia questo il motivo per cui non è riuscito a far presa su quelli dei quartieri alti.” “Forse era troppo istruito, Mr Tembarom,” disse la piccola Ann. Stava ricamando la lettera “J” con del cotone rosso, e apparentemente l’attenzione esteriore era tutta concentrata sul lavoro. “Ed è qui,” riprese Tembarom, “che entrate in gioco voi. Continuate a lavorare come se a New York non esistesse altro che quel calzino, ma immagino che siate già arrivata al punto. Forse era proprio questo. Voleva scrivere i pezzi sulla Quinta Strada, ma ad Harlem non andava bene. Quando faceva le domande metteva su arie da Princeton. Per la miseria! Uno non può metter su proprio nessuna aria quando è lui a fare le domande.” “Voi farete più presa,” dichiarò la piccola Ann. “Avete modi amichevoli e buonsenso da vendere. Me ne sono accorta.” “Davvero?” disse Tembarom grato. “Un altro grande incoraggiamento, per me, piccola Ann. Credo che ciò di cui l’uomo ha più bisogno è il buonsenso, quello da pochi centesimi al metro. Non ho mai pensato di avere quello che costa dei gran dollari, io. Io non mi darò delle arie.” “Mr Galton sa bene che tipo siete. Credo sia per questo che vi ha affidato la pagina.” Quelle parole, pronunciate con il sagace accento di Manchester, non erano né lusinghiere né non lusinghiere; erano semplicemente imparziali. “Bene, ora che ho avuto il lavoro non posso fallire,” disse Tembarom. “Devo scoprire da solo come avvicinarmi alle persone con cui voglio parlare. Devo scoprire a chi avvicinarmi. La piccola Ann diede l’ultimo punto rosso alla lettera “J” e ripose nel cesto il calzino accuratamente piegato. “Mi è appena venuta un’idea, Mr Tembarom,” disse. “Chi prepara le torte nuziali?” “Perbacco!” proruppe Tembarom, “Le torte nuziali!” “Sì,” proseguì la piccola Ann, “devono pur esserci delle torte nuziali, e forse se andaste nei negozi dove le vendono e faceste amicizia con i gestori, loro vi direbbero per chi le stanno preparando; e potre22


ste procurarvi gli indirizzi e andare a caccia di notizie.” Tembarom, avvampante di ammirato entusiasmo, le allungò la mano. “Qui la mano, piccola Ann,” disse. “Mi avete aperto un mondo, proprio come sapevo sarebbe successo. Siete davvero il massimo.” “Beh, la torta nuziale viene subito dopo la sposa,” fu la risposta di lei. La testolina pratica di Ann aveva prodotto un suggerimento pratico. La sola idea delle torte aveva aperto nuovi scenari. I pasticcieri non si limitavano ai matrimoni, ma fornivano anche rinfreschi per ricevimenti e balli. E i balli conducevano ai saloni in cui erano organizzati. Un altro posto dove raccogliere informazioni. E poi c’erano le chiese, e i fioristi che allestivano gli ambienti. Via via che parlavano, l’eccitazione di Tembarom cresceva sempre più. Un’illuminazione portava a un’altra; nuovi panorami si aprivano su tanti fronti. Tutto cominciò a sembrare così facile da rendergli impossibile capire come Biker avesse potuto entrare in quella terra promessa e uscirne amareggiato e a mani vuote.” “Pensava troppo a se stesso e troppo poco agli altri,” riepilogò la piccola Ann con la sua voce indulgente e ragionevole. “Che sciocco è stato.” Tembarom cercò di non guardarla in modo affettuoso, ma suo malgrado la sua voce risultò sia affettuosa che ammirata. “Come riuscite ad andare al cuore delle cose con tre parole soltanto!” esclamò. “Neppure Daniel Webster sarebbe stato in grado.” “Probabilmente far sapere ai negozianti che lavorate per un giornale vi sarà d’aiuto,” proseguì con candida saggezza mondana. “Penseranno che diventerà una sorta di pubblicità. E così sarà. Fatevi fare dei bei biglietti da visita con stampato sopra il vostro nome e il nome del ‘Sunday Earth’.” “Perdinci!” esclamò Tembarom dandosi una manata sul ginocchio. “Eccone un’altra! Riuscite a pensare proprio a tutto, voi!” Ann smise di lavorare un istante per guardarlo. “Ci sareste arrivato da solo, dopo un po’,” disse. Ann non era una di quelle donne irrispettose la cui intenzione manifesta è istruire l’uomo superiore. Era nata in una stradina di Manchester, e cresciuta dalla madre, il cui addestramento si era sviluppato attraverso una gestione coniugale di Mr Hutchinson affettuosamente piena di tatto. 23


“Mai far sentire un uomo sminuito quando vuoi fargli capire una cosa ragionevole, Ann,” le aveva detto. “Se lo fai le cose non andranno mai bene tra voi. Loro non lo sopportano. A quanto pare l’Onnipotente li ha fatti così. Sono sempre stati i padroni, e non farà male a nessuna donna lasciare che tali rimangano, se può aiutarli a pensare in modo ragionevole. Devi far sì che un uomo si senta a suo agio, dopodiché lo indirizzi verso la via più ragionevole. Ma non tiranneggiarlo mai. Se lo farai se ne avrà a male. Io e tuo padre siamo stati molto felici assieme, ma non lo saremmo mai stati se non mi fossi fatta questo proposito già nelle due prime settimane di matrimonio. Forse è la volontà dell’Onnipotente, per quanto io non sia mai stata sicura riguardo al modo di pensare dell’Onnipotente, come sembra invece essere certa gente.” Nonostante Tembarom non appartenesse alla schiera maschile che si infuria automaticamente di fronte a un accenno di pronta logica femminile, naturalmente ne fu placato e incoraggiato. “Beh, forse ci sarei arrivato, dopo un po’,” rispose, sempre cercando di non guardarla in modo troppo affettuoso, “ma io non ho tempo da perdere. Diamine, sono così contento che siate qui!” “Non mi fermerò a lungo.” La voce aveva una sfumatura di paziente rammarico. “Papà si è stancato di tentare con l’America. Ha avuto troppe delusioni. Ha intenzione di tornare in Inghilterra.” “Tornare in Inghilterra!” esclamò Tembarom afflitto. “Cielo, come faremo senza di voi, Ann?” “Farete come prima che io arrivassi,” rispose la piccola Ann. “No. Impossibile. Anche volendo non potremmo.” Si alzò dalla sedia e cominciò a camminare per la stanza, le mani sprofondate nelle tasche. La piccola Ann cominciò a fare i primi punti di una lettera “B”. Non c’era essere umano al mondo in grado di dire quel che pensasse. “Non dobbiamo sprecare tempo a parlare di questo,” lo esortò. “Parliamo della rubrica. Ci sono le sartorie, sapete. Se vi faceste amiche un paio di sarte vi spiegherebbero per filo e per segno di cosa sono fatte le loro creazioni. Alle donne piace vedere i loro vestiti descritti con precisione.”

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Estratto da Frances Hodgson Burnett, La vita inusuale di T. Tembarom Titolo originale dell’opera: T. Tembarom Pubblicato per la prima volta nel 1913 Traduzione dall’inglese di Simona Garavelli © 2017 astoria srl corso C. Colombo 11 – 20144 Milano Prima edizione: agosto 2017 ISBN 978-88-98713-73-8 Progetto grafico: zevilhéritier

www.astoriaedizioni.it


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