La discendente di Tiepole

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La discendente di Tiepole

Romanzo

Butterfly Edizioni


PROLOGO La discendente pensò fosse giunto il momento di rivelarsi. Aveva atteso troppo. Aveva mentito troppo. Un simile segreto avrebbe rischiato di ucciderla. I suoi piani erano oramai saltati; non poteva più fidarsi di nessuno. Ognuno faceva il suo gioco, e tutti aspiravano alla conoscenza dell'antica magia di Tiepole. Si sarebbe procurata dei nemici. La farsa doveva terminare là, prima che la situazione potesse degenerare ulteriormente. Non serviva più a nulla fingere quando sapeva bene che in questo modo rischiava di perdere tutte le persone che amava. Quella sera stessa avrebbe posto la parola fine a quella storia.


L'arrivo e l'inizio

Quando aprii le imposte della finestra un vento fresco mi colpì in pieno viso, costringendomi a socchiudere gli occhi. Eppure a coprire per intero i quattro angoli del paese c’erano le montagne, increspate come onde marine, immobili come mostri pietrificati, luminescenti sotto la tenue luce del sole. Tiepole contava poco più di mille anime che abitavano in minuscole abitazioni attaccate le une alle altre. I portoni si affacciavano direttamente sulla strada stretta e per questo impraticabile per le autovetture, la quale alternava asfalto forato a tratti a sampietrini rialzati o addirittura mancanti. Malagevole e scomodo, quel luogo era un paese popolato soprattutto da persone anziane. Era piuttosto d’estate che i giovani tornavano da Roma per trascorrevi le vacanze con i propri parenti. Quindi, come sosteneva mio padre, dovevo considerarmi fortunata di essere arrivata lassù nella metà di luglio, perché almeno avrei potuto socializzare con qualcuno della mia età. Io non mi trovavo a Tiepole per una vacanza, né per stabilirmi lì (questo me lo auguravo con tutto il cuore). Non ero mai stata in quel posto sebbene mia madre vi avesse trascorso la sua infanzia e la sua adolescenza. Tiepole faceva parte della mia vita in modo indiretto; era una parte di me, ma ancora non lo sapevo. Ero giunta fin lì, dopo circa un'ora di macchina, perché mio nonno era morto da quattro giorni. Lui, padre di mia madre, aveva trascorso gli ultimi anni della sua vita da solo in una piccola casa tra quelle montagne, abitazione lasciata molto raramente. Io non lo avevo mai conosciuto. Non andavamo mai a trovarlo a Tiepole, né lui veniva a trovarci a Roma. E ritrovarmi in casa sua, nel luogo dove aveva consumato quasi per intero tutta la sua esistenza, mi provocava un inguaribile senso di disagio. Le sue foto erano ovunque, foto di lui a cavallo, immagini in bianco e nero di comitive di uomini e donne che non potevo riconoscere. Mancavano (fatto del quale non mi interessai all'inizio) le foto di lui assieme a mia nonna (morta quando io avevo solo qualche mese di vita). Tutta la casa odorava di chiuso, di polvere stantia e muffa. Mio nonno doveva aver passato gli ultimi giorni prima di accusare il malore chiuso in casa, completamente in solitudine, isolato dal resto del mondo. Questo


pensiero non fece che accrescere il mio disagio, che capii ben presto causato dal senso di colpa. Sapevo che mio nonno abitava tra quelle montagne, ma mai avevo mostrato interesse per lui. Me ne vergognai. Dopo il suo funerale svoltosi in città, (al quale non aveva partecipato nessuno dei Tiepolesi) i miei genitori furono entrambi d’accordo che si doveva trascorrere qualche giorno a Tiepole per risistemare la sua casa e decidere cosa farne. Se trasformarla in un luogo di villeggiatura per noi (cosa che io aborrivo decisamente), o se cercare di trovare in meno tempo possibile un affittuario. L’idea di trascorrere qualche giorno in quel posto non mi piaceva affatto, ma non potevo tirarmi indietro o il senso di colpa mi avrebbe divorata. Dovevo dedicare del tempo agli affari di mio nonno, almeno adesso che non c’era più. Mi sarei sentita, in un certo senso, più sollevata. «Emma!» Mi sentii chiamare dal piano inferiore, e fui strappata in modo brusco da tutti i miei pensieri. Richiusi la finestra in fretta, poiché il vento si era fatto all’improvviso più forte. «Sto scendendo!» risposi al richiamo di mia madre, non senza una nota d’amarezza nella voce. La casa di mio nonno contava due piani, di cui quello superiore era costituito solo da una piccola camera il cui mobilio era formato da un letto a una piazza e mezzo, un comodino e un armadio. Lo si raggiungeva salendo una scala stretta, la più scomoda che avessi mai visto. La discesi con estrema lentezza, con il timore infondato che potesse crollare da un momento all’altro sotto i miei piedi. Tutto dentro quella casa dava l’impressione che dovesse cadere a pezzi. Raggiunsi il piccolo salone, dove vidi mia madre armeggiare con una delle ante di una madia tarlata che proprio non si decideva ad aprirsi. Dirimpetto a me, dal minuscolo angolo cottura, una pentola bolliva fumante sul gas. Alle mie spalle sentii che qualcuno tirava lo sciacquone del bagno: mio padre comparve subito dopo aprendo una porta cigolante. «Questo bagno è un buco!» si lamentò. «Trovi difficoltà anche nel prendere la carta igienica!» «Papà...» lo rimbeccai sarcastica. «questo posto è un buco!» Mio padre sorrise e annuì. «Invece di lagnarvi, perché non venite a darmi una mano?» si lamentò mia madre mentre continuava a lottare con la piccola serratura della madia. Mio padre, ancora sorridendo, ubbidì e prese il suo posto. Lei si venne a piazzare accanto a me, sbuffando e imprecando.


Da qualche giorno a quella parte era divenuta intrattabile. Non si era mai sfogata per la perdita di mio nonno; almeno non davanti ai miei occhi e, sebbene non lo desse a vedere, non le piaceva trovarsi nella sua vecchia casa. Esattamente come me e mio padre, anche lei non si sentiva a suo agio in quel posto. Nemmeno mio padre fu in grado di girare la chiave e aprire la serratura. Lasciò perdere prima di spazientirsi. «Credo sarà meglio scardinare lo sportello.» concluse .«Tanto se non lo faremo noi, ci penseranno le termiti!» Guardò mia madre che non aprì bocca. Poi lei incrociò le braccia al petto e alzò le spalle; quindi tornò alla pentola fumante. Io e mio padre ci scambiammo un’occhiata preoccupata. Tuttavia nessuno dei due provò a chiederle cosa non andasse; sarebbe di nuovo esplosa in un monologo sconclusionato. Forse aveva solo bisogno di tempo o di lasciare presto quel posto. Le piaceva meno di quanto piacesse a me. Doveva rievocarle troppi ricordi.

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