Africa n°2 2019

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AFRICA N. 2 MARZO-APRILE 2019 - ANNO 98

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25 anni dal genocidio Nigeria

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Sommario

MARZO - APRILE 2019, N° 2

COPERTINA 44

Benvenuti nella Hollywood d’Uganda

3

EDITORIALE I nuovi africanisti

4 prima pagina di Raffaele Masto

di Simona Cella e Eugénie Baccot

di Pier Maria Mazzola

ATTUALITÀ

AFRICA

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Dall’Africa c’è sempre qualcosa di nuovo Plinio il Vecchio (I secolo d.C.) DIRETTORE RESPONSABILE

6 panorama di Enrico Casale

8 economia di Michele Vollaro

innovazione di Martino Ghielmi La ricostruzione del Ruanda di François Misser 17 Il genocidio evitabile di Daniele Scaglione 20 Il lato oscuro della green economy di Raffaele Masto 22 Città del Capo ha battuto la siccità di V.G. Milani e B. Zanzottera 9

10

Pier Maria Mazzola

SOCIETÀ

DIRETTORE EDITORIALE

26

Marco Trovato WEB

30

Il boom del turismo tra safari e mare di Marco Trovato Gli ultimi angeli del mare di Marco Trovato

Enrico Casale (news) Raffaele Masto (blog) PROMOZIONE E UFFICIO STAMPA

Matteo Merletto AMMINISTRAZIONE E ABBONATI

NATURA L’uomo che sussurra ai leoni di I. Fornasiero e Y. Chiba Zimbabwe. Le guerriere della natura di Gianni Bauce 40 Magiche notti sotto le stelle dell’Africa di Irene Fornasiero

34

Paolo Costantini

36

PROGETTO GRAFICO E IMPAGINAZIONE

Claudia Brambilla PROPRIETÀ

Internationalia Srl

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Provincia Italiana della Società dei Missionari d’Africa detti Padri Bianchi

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54 60

I castelli fatati dell’Etiopia di Marco Trovato Nigeria. In festa per l’emiro di Kano di Alberto Salza e Stefan Heunis Il più ricco di tutti di Mamadou Ahned

FOTO

Si ringrazia Parallelozero In copertina: Raphaël Fournier Mappe a cura di Diego Romar - Be Brand

SPORT

STAMPA

62

Jona - Paderno Dugnano MI Periodico bimestrale - Anno 98 marzo - aprile 2019, n° 2 Aut. Trib. di Milano del 23/10/1948 n. 713/48 SEDE

Viale Merisio, 17 - C.P. 61 - 24047 Treviglio BG 0363 44726 0363 48198 info@africarivista.it www.africarivista.it Africa Rivista @africarivista @africarivista africa rivista UN’AFRICA DIVERSA La rivista è stata fondata nel 1922 dai Missionari d’Africa, meglio conosciuti come Padri Bianchi. Fedele ai principi che l’hanno ispirata, è ancora oggi impegnata a raccontare il continente africano al di là di stereotipi e luoghi comuni. L’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dai lettori e la possibilità di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione. Le informazioni custodite verranno utilizzate al solo scopo di inviare ai lettori la rivista e gli allegati, anche pubblicitari, di interesse pubblico (legge 196 del 30/06/2003 - tutela dei dati personali).

I fantini del Sahel

di Gianfranco Belgrano

RELIGIONI Lo scatto. Passioni africane di Utomi Ekpei Benin. Le feste dei gemelli di A. Salza e G. Yambuya – foto di S. Heunis / Afp

64 68

INVETRINA

Eventi di Valentina G. Milani 77 GrAfric Novel di Roberto Morel NOVITÀ 72 CalendAfrica 78 Sapori di Irene Fornasiero 73 Arte di Stefania Ragusa 79 Solidarietà di Valentina G. Milani 74 Vado in Africa di Martino Ghielmi 80 Viaggi di Marco Trovato 75 Musica di Claudio Agostoni 82 Web di Giusy Baioni 75 Glamour di Stefania Ragusa 83 Bazar di Sara Milanese 76 Libri di Pier Maria Mazzola 84 NerosuBianco di Mario Giro 72

africa · 2 · 2019 1


TI POS I IM ULT

Dialoghi in KENYA Dal 21 al 28 luglio 2019 Una settimana di incontri formativi, visite culturali, testimonianze umanitarie, escursioni naturalistiche. Un viaggio che unisce impegno civile e passione per l’Africa, tra la sorprendente vitalità di Nairobi, la voglia di riscatto delle baraccopoli e gli incantevoli paesaggi della Rift Valley. Con Marco Trovato, direttore editoriale della rivista Africa. Possibili estensioni per safari, mare... Quota di partecipazione: da 1.150 e - volo aereo escluso 100 e di sconto per gli abbonati

organizza:

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Informazioni: 049 8751997 viaggi@africarivista.it


I nuovi africanisti L’Africa si ritrova, forse per la prima volta dal dopoguerra, al centro dell’attenzione dei media e dell’opinione pubblica (nel nostro piccolo, rileviamo un boom di interessamento all’iniziativa “Africa a scuola” lanciata dalla nostra rivista, che consiste in “lezioni” svolte nelle classi che ne fanno richiesta). Per tanti anni gli operatori dell’informazione su questo continente, rimasta sempre di nicchia, hanno reclamato una maggiore attenzione da parte della grande stampa, sia perché si rompesse il silenzio su tragedie che si consumano sul suolo africano all’insaputa dei più, sia, e soprattutto, perché si offrisse al grande pubblico un’immagine più attuale, più vera, più rispondente alle dinamiche di ogni tipo che, in contrasto con i nostri vecchi cliché, si producono sul continente. Quel giorno è venuto, ma non nel modo che speravamo. L’Africa si è imposta all’attenzione esclusivamente come serbatoio di emigrazione inarrestabile. L’ultimo rapporto di “Carta di Roma” (l’associazione che si occupa della deontologia giornalistica nei confronti dell’immigrazione), stilato con l’Osservatorio di Pavia (specializzato sull’analisi dei media), riferisce di oltre 4000 notizie sugli immigrati nei tiggì dei primi dieci mesi del 2018: il 10% in più che nell’analogo periodo del 2017 – una dozzina di anni fa eravamo nell’ordine di pochissime centinaia di news. Ahimè. La quantità ha neutralizzato la qualità. Gli spunti per i titoli e le notizie sono quasi sempre di carattere emergenziale e, anche quando si parla di accoglienza, nella gran parte dei casi non è per raccontare storie positive ma per denunciare (giustamente, peraltro) storture, abusi e ru-

berie. In questo crescendo di disinformazione sostanziale sui migranti, gli “africani” e i “neri” hanno acquisito un rilievo crescente sostituendo, nell’immaginario, l’invasione islamica. «Era facile donare per l’Africa o fare adozioni a distanza quando l’Africa era lontana. Ora che questa gente viene a casa nostra ci rivela che siamo razzisti. Il nero a chilometro zero non piace», scrive padre Zanotelli nel suo Manifesto contro il nuovo razzismo. E non è tutto. Ultimamente spuntano “esperti” d’Africa che hanno capito tutto, loro, e puntano con sicurezza il dito sulle cause (delle migrazioni, beninteso): la Francia, per esempio, e il celeberrimo franco Cfa, valuta di corso legale nelle ex colonie dell’Esagono. «Per far restare gli africani in Africa, basta che i francesi se ne stiano a casa loro». Basta?! Il neocolonialismo esiste, eccome, francese e non solo. Ma non è forse un’operazione di neocolonialismo mentale – ai danni degli italiani non informati ancor prima che degli africani – leggere la storia e la situazione di un continente con schemi riduttivi fino all’infantilismo? Per di più con finalità palesemente strumentali (certo non per amore dell’Africa). Il silenzio sull’Africa è stato rotto, sì. Purtroppo. Nel peggiore dei modi. Perché ne è uscito solo un altro rumore che si aggiunge al fragore delle falsità, o delle mezze verità, che già ci assordava. E perché l’Africa e gli africani sono diventati, una volta di più, vittime e non soggetti: di polemica politica, di distrazione di massa, di una comunicazione miope e irresponsabile. Pier Maria Mazzola

RICEVI AFRICA A CASA La rivista (6 numeri in formato cartaceo e/o digitale) si riceve con un contributo minimo suggerito di: · carta:Italia: 35 €; Estero 50 €; Svizzera: 45 Chf · digitale (pdf): 25 €/Chf · carta + digitale - Africa Social Club Italia/Svizzera: 50 € / Chf Estero: 60 € · Africa + Nigrizia: 60 € (anziché 70 €)

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ATTUALITร di Franรงois Misser

La ricostruzione del Ruanda


VENTICINQUE ANNI DOPO, IL RITRATTO DI UN PAESE TRASFIGURATO. CHE GUARDA AL FUTURO, SENZA DIMENTICARE IL PASSATO

È inevitabile associare il nome di questo piccolo Stato alla parola genocidio. Soprattutto a un quarto di secolo da quegli eventi. Da allora, però, il Ruanda è rinato, ed è oggi un modello per molti aspetti. Tranne che per la libertà di parola… Settembre 1994. Due mesi dopo la fine del genocidio e l’entrata del Fronte patriottico ruandese (Fpr) in Kigali, la capitale è solo tristezza e desolazione. Le finestre degli uffici dei ministeri sono quasi tutte in frantumi e l’elettricità non è ancora stata ripristinata. Si odono ancora spari a qualsiasi ora del giorno e della notte. I cani, divenuti pericolosi essendosi nutriti di carne umana, vengono abbattuti. Alle porte della città, i militari, in cerca di armi, controllano i veicoli. Sono infatti ancora attivi dei gruppi armati, gli abacengenzi (infiltrati). Nei quartieri aleggia l’odore dei cadaveri in decomposizione, che talvolta promana dalle latrine in cui sono stati gettati. Nella regione di Gitarama, in un ruscello giacciono corpi in putrefazione, anche quello di un bambino. Sulle colline sovrastanti i fiordi di Kibuye, sul Lago Kivu, il fetore dei corpi abbandonati da molti mesi, irriconoscibili, prende alla gola.

◀ Operaie in un cantiere edile a Kigali. Dall’economia alla politica, le donne sono protagoniste della rinascita del Ruanda

Un’altra Kigali Dopo l’olocausto – che secondo il bilancio del governo fece 1.074.017 vittime, di cui 934.218 identificate – c’era tutto un Paese da ricostruire. Poco oltre la frontiera, nei campi profughi erano ammucchiate più di due milioni di persone, trascinate in Congo dal governo e dall’esercito genocidari. E rimaneva da fare il più difficile: guarire le piaghe invisibili del dolore della vedova e dell’orfano. Venticinque anni dopo, Kigali è trasfigurata. Quella che fu una città calma e provinciale è ora costellata di grattacieli e di centri commerciali. Gli hotel a cinque stelle si sono moltiplicati. In centro, l’ex quartiere generale del “governo interino” mandante del genocidio, l’albergo Les Diplomates, ha fatto posto al Serena, un hotel extralusso. A poca distanza, i turisti nuotano nella piscina dell’Hotel des Milles Collines, ignari che nel 1994 essa serviva da cisterna ai profughi assediati dalle milizie interahamwe. La città, dominata dal “bunker” del nuovo ministero della Difesa, è passata dai 300.000 abitanti del 1994 agli attuali 745.000. africa · 2 · 2019 11

Courtesy Gianmarco Maraviglia



ATTUALITÀ di Daniele Scaglione*

Il genocidio evitabile Nella primavera del 1994, un milione di persone furono massacrate a colpi di machete in uno dei più atroci stermini di massa della storia dell'uomo. Il generale canadese Roméo Dallaire avrebbe potuto fermare la carneficina... se lo avessero ascoltato. Venticinque anni dopo l’ecatombe, l’allora capo dei caschi blu dell’Onu in Ruanda accusa la comunità internazionale. E sé stesso Qual è l’attacco più terribile che avete in mente, dopo la fine della Seconda guerra mondiale? Se si fa questa domanda a chi vive in Europa e negli Stati Uniti d’America, è probabile che la risposta sia l’attentato dell’11 settembre 2001, a New York e contro il Pentagono. Nel World Trade Center furono uccise 2606 persone. In effetti si tratta dell’attentato terroristico più devastante della storia, seguito da quelli avvenuti a Tikrit, Iraq, nel 2014, e a Sabra e Shatila nel 1982, in Libano (su quest’ultimo, però, le cifre sono rimaste incerte e, secondo alcune fonti, le vittime potrebbero essere oltre 3500). Nessuno di questi attentati, però, si avvicina a una “giornata tipo” del Ruanda nella primavera del 1994. Tra aprile e luglio di quell’anno, nel Paese africano è stato commesso un numero impressionante di attacchi peggiori di quelli sopra citati. In sintesi, dal 6 aprile al 19 luglio del

1994 è come se in Ruanda le Twin Towers fossero state abbattute tre volte al giorno. Tre volte al giorno, per 104 giorni di fila. Tutti sapevano Ha senso questa contabilità dei morti? In realtà è indecente. Ma ha senso farla per capire qualcosa del genocidio dei Tutsi. Il capo dei caschi blu in Ruanda, il generale canadese Roméo Dallaire, nel giu-

gno di quell’anno riceve la telefonata di un funzionario del governo americano, che gli fa diverse domande. Quante persone sono state uccise la scorsa settimana? Quanti rifugiati vi sono? Quanti dispersi? E quanti morti vi aspettate nella settimana entrante? E quanto pensate che queste uccisioni possano ancora andare avanti? Dallaire chiede il senso di tutte quelle stati-

stiche. Senza scomporsi, il funzionario risponde che Washington sta valutando se intervenire in Ruanda, ma, secondo le stime a sua disposizione, ci vogliono almeno 85.000 morti per giustificare la messa a rischio della vita di un soldato statunitense. Gli Usa, come noto, al pari di tutte le altre potenze mondiali scelsero di non intervenire a difesa delle vittime del genocidio. Washington,

Un sopravvissuto al genocidio, di etnia hutu, mostra le ferite infertegli dalle milizie estremiste hutu interahamwe, persuase che l’uomo simpatizzasse con i Tutsi. Questa celebre fotografia, realizzata nell’ospedale di Nyanza dal reporter americano James Nachtwey, vinse il World Press Photo del 1994

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in realtà, s’impegnò anche nel boicottare ogni forma di intervento, e la Francia si spinse ancora più in là, sostenendo concretamente un regime che il genocidio l’aveva pianificato e lo stava compiendo.

Laura Leyshon

Senso di colpa Rappresentanti del cosiddetto “mondo avanzato” che si presero a cuore le vicende del piccolo Paese africano non ve ne furono molti. Il generale Dallaire fu uno di questi, e la pagò. La mattina del 26 giugno 2000 viene trovato su una panchina di un parco di Hull, in Québec. I poliziotti lo portano in ospedale. La diagnosi è semplice: ha aggiunto parecchio alcool agli psicofarmaci che assume ogni

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giorno. Perché prenda quelle medicine, invece, è faccenda più complicata. Roméo Dallaire ha cinquantadue anni e il mese precedente ha dovuto abbandonare l’esercito canadese, di cui era generale a quattro stelle. Dopo la missione in Ruanda veniva assalito da incubi in cui vedeva corpi mutilati e cadaveri in decomposizione, cadeva in profonde crisi depressive, manifestava tendenze suicide. Con il passare del tempo non guarisce, anzi peggiora. Si mette nelle mani dei dottori ma, come egli stesso riconosce, «ci sono situazioni in cui anche le migliori cure e i terapisti più bravi non possono aiutare un soldato che soffre di questa nuova generazio-

CENTO GIORNI DI FOLLIA

Nel 1990 il Fronte patriottico ruandese (Fpr), costituito da rifugiati tutsi in Uganda, dà guerra al governo ruandese controllato dagli estremisti hutu. Il 6 aprile 1994, l’aereo che riporta il presidente Habyarimana a casa dopo una tornata di colloqui per la pace in Tanzania viene abbattuto sull’aeroporto di Kigali. L’indomani si scatenano i massacri – pianificati dagli estremisti Hutu e ai quali i media incitavano da tempo – ai danni dei Tutsi (all’epoca circa il 10% della popolazione) come pure degli Hutu moderati. Il genocidio – che sterminò, secondo gli attuali dati governativi, oltre un milione di ruandesi – fu perpetrato da un gran numero di civili, oltre che dall’esercito e dalle milizie interahamwe. La controffensiva dell’Fpr guidato da Paul Kagame mise fine, il 16 luglio, a cento giorni di st omunità internazionale, Onu compresa, brillò per la sua inettitudine. (P.M.M.)

ne di “ferite da peacekeeping”». In Ruanda, Dallaire c’era andato allo scopo di contribuire a costruire la pace. Invece fu un massacro, il peggiore di tutta la seconda metà del Novecento. In 104 giorni furono ammazzate, in media, circa 8000 persone al giorno, un omicidio ogni decina di secondi. Al conto dei morti vanno aggiunti un paio di milioni di ruandesi fuggiti oltre confine e più o meno altrettanti rimasti in Ruanda ma sfollati chissà dove per salvarsi la vita. In poco più di tre mesi un intero Paese è stato rivoltato come un calzino.

◀ Roméo Dallaire, 72 anni. Dopo il genocidio del Ruanda, il generale ha sofferto di una forma particolarmente grave di disturbo post-traumatico da stress, che lo ha spinto nel 2000 a un tentativo di suicidio

Senza vergogna Dallaire si è sentito – sono parole sue – «pienamente responsabile della morte di dieci soldati belgi, di altri morti, delle ferite non curate per mancanza di medicinali di molti dei miei soldati, dell’assassinio di 56 operatori della Croce Rossa, di due milioni di rifugiati e dello sterminio di circa un milione di ruandesi». Per molti altri, invece, non era successo niente che li riguardasse. Nel 1995 la conferenza africana francofona si aprì con un minuto di silenzio in memoria del presidente Habyarimana, ma nessuno ricordò le vittime del genocidio. Nel giugno del 1998 Bill Clinton dichiarò che tutto era stato causato da «risentimenti tribali». «Che cosa può fare la Francia, quando dei capi africani decidono di regolare i loro conti con il machete?», chiese il presidente François Mitterrand. Sono argomenta-



ATTUALITÀ di Raffaele Masto

Il lato oscuro della Il 70% del minerale usato per le batterie delle auto ecologiche e dei telefoni proviene dalla Repubblica democratica del Congo. Dove l’estrazione costa poco perché i diritti dei lavoratori sono inesistenti

LA DIFFUSIONE DELLE AUTO ELETTRICHE FA CRESCERE LA DOMANDA MONDIALE DI COBALTO.

Esce il 21 marzo in libreria La variabile africana (Egea, 2019, pp. 192, € 18,50) di Raffaele Masto, un saggio sulle riserve naturali del continente e su quanto esse condizionino gli equilibri geopolitici. Ne pubblichiamo un’anticipazione. Nella prima metà del XIX secolo Charles Goodyear inventò il processo di vulcanizzazione: portando il caucciù ad alte temperature con una aggiunta di zolfo si otteneva una materia relativamente elastica ma compatta, capace di deformarsi e di tornare alla sua forma originaria. RAFFAELE MASTO

LA VARIABILE AFRICANA

Riserve naturali ed equilibrio geopolitico del pianeta

20 africa · 2 · 2019

Di fatto, ai primi del Novecento re Leopoldo II del Belgio deteneva il monopolio del caucciù, dato che si era appropriato quasi totalmente del vasto territorio che costituisce il bacino idrografico del fiume Congo e che ospita la più grande foresta pluviale del mondo dopo quella amazzonica. Per soddisfare la crescente domanda europea di caucciù gli uomini del sovrano belga non esitarono a ridurre gli indigeni in schiavitù: sequestravano donne e bambini per costringere gli uomini a rispettare la consegna delle quantità necessarie e, come monito per gli altri raccoglitori, finirono per tagliare mani e piedi, o addirittura sterminare gli abitanti dei villaggi che non riuscivano a fornire abbastanza lattice. Il risultato furono migliaia di morti e di mutilazioni, fino a che un gruppo di giornalisti e diplomatici denunciarono quello che passò alla storia come un genocidio. Un genocidio che aveva aperto una

E LO SFRUTTAMENTO DEI MINATORI CONGOLESI

nuova era, una svolta determinante per l’industria europea che fu in buona parte finanziata dall’Africa. Materiale strategico Oggi sta accadendo qualcosa di analogo. Il mondo è sul punto di passare dall’economia dei fossili – carbone, petrolio, gas – alla green economy, cioè un sistema fondato sulle energie rinnovabili o sull’elettricità. Il passaggio più evidente è quello all’alimentazione elettrica delle auto, a cui stanno lavorando tutte le grandi imprese del settore. Per esempio la Volkswagen punta a vendere tre milioni di auto elettriche entro il 2025. La Volvo ha comunicato che dal 2019 smetterà di produrre macchine alimentate solo a benzina o diesel. I governi di Gran Bretagna e Francia hanno

assunto l’impegno a bandire la vendita di veicoli con motori a combustione dal 2040. Anche le compagnie petrolifere sono convinte che le auto elettriche porteranno al declino la domanda di greggio. I giganti del business Se si calcola che per realizzare la batteria di un’auto elettrica servono dai 4 ai 14 chilogrammi di cobalto (presente anche nelle batterie di telefoni, tablet e pc), si comprende perché il prezzo di questo minerale negli ultimi due anni sia raddoppiato, arrivando a costare sul London Metal Exchange oltre 80.000 dollari a tonnellata. A fare affari d’oro sono le grandi imprese mondiali del mining. La multinazionale Glencore è il principale estrattore di cobalto al mondo e con-


green economy trolla quasi un terzo delle forniture globali; pare che ogni incremento di un dollaro sul prezzo del materiale si traduca per la società anglosvizzera in 55 milioni di dollari di guadagno. Alle spalle della Glencore, nella corsa al cobalto sono impegnate imprese di tutto il mondo: la Panasonic, costruttore giapponese di batterie, l’americana Tesla, la svedese Northvolt, la tedesca Daimler, la canadese First Cobalt, l’australiana Pilbara Minerals, e anche Rosatom, l’azienda russa per l’energia nucleare. E ovviamente dietro ognuno di questi cartelli ci sono le economie nazionali. La Cina è il Paese più attivo e meglio posizionato e si è già accaparrata migliaia di tonnellate del metallo strategico per produrre batterie. La cinese Gem, società che si occupa di

raffinazione e ha tra i suoi clienti aziende produttrici di batterie e automobili in tutto il mondo, ha sottoscritto un accordo con la Glencore per ottenere una fornitura triennale di cobalto di 52.800 tonnellate: siamo a oltre il 50% di quanto estratto nel 2017 nell’intero pianeta. Del resto questo grande interesse della Cina è comprensibile, dato che è diventata in pochi anni il primo mercato mondiale per la vendita di autoveicoli e detiene anche il primato della vendita di auto elettriche, che ha superato il milione di pezzi. Gli obiettivi del governo sono ambiziosi: raggiungere i cinque milioni di vetture elettriche sulle strade entro il 2020. Scandalo congolese Le quantità di cobalto necessarie per questa svol-

ta sono infinite e la più grande riserva mondiale di questo metallo è la Repubblica democratica del Congo, la stessa regione che forniva il caucciù a Leopoldo II del Belgio. Nonostante considerevoli riserve di cobalto si trovino anche in Cina, Zambia, Russia e Australia, il 70% del cobalto utilizzato nel mondo proviene oggi dal Paese centrafricano, e il motivo è semplice: il cobalto congolese è il più conveniente perché i costi di produzione sono bassissimi. In Congo non esistono miniere realmente organizzate, il metallo viene estratto da decine di siti occasionali che si trovano essenzialmente nella regione del Katanga, dove si stima che almeno 100.000 persone scavino a mani nude o con strumenti rudimentali, senza alcuna supervisione

né misure di sicurezza. Tra questi minatori artigianali ci sono migliaia di bambini a partire dai sette anni – almeno 40.000 ragazzini secondo un rapporto di Human Rights Watch – che lavorano a 2 dollari per 12 ore al giorno. Morti e feriti sono frequenti, per non parlare dell’esposizione ai metalli, che fa insorgere problemi respiratori e altre malattie da inquinamento dell’aria e della terra. Gli investimenti delle case automobilistiche nel settore dell’auto elettrica (previsti 100 miliardi di dollari, pari a 88 miliardi di euro) stanno trainando al rialzo la domanda di questo minerale e di conseguenza il suo prezzo è schizzato verso l’alto: raddoppiato in due anni. Il governo di Kinshasa ha triplicato le royalties che impone agli imprenditori minerari, tanto da arrivare a quasi il 10% del prezzo di vendita. Inoltre, ha deciso di mettere fine ai contratti di lunga durata con le grandi compagnie minerarie rinegoziandoli tutti. Le ricchezze però spariscono nelle tasche dei politici corrotti. E nelle miniere illegali decine di migliaia di schiavi congolesi rischiano la vita ogni giorno in nome di quella che ci ostiniamo a chiamare “green economy”. africa · 2 · 2019 21


ATTUALITÀ testo di Valentina Giulia Milani – foto di Bruno Zanzottera / Parallelozero

Città del Capo ha battuto la siccità


IN SUDAFRICA ISTITUZIONI E CITTADINI SI SONO ALLEATI PER FAR FRONTE ALL’EMERGENZA IDRICA. UN ESEMPIO PER IL MONDO INTERO

Limitatori di consumi, docce temporizzate, riutilizzo delle acque, impianti di desalinizzazione. E sistemi innovativi per catturare l’umidità nell’aria. Così la metropoli sudafricana è riuscita a ridurre del 60% l’utilizzo dell’acqua Un’anziana signora siede sul marciapiede davanti casa e osserva sconsolata una sorta di tombino blu: «Anche oggi senz’acqua – sospira –. Colpa di questo dannato marchingegno». L’accusato è un limitatore dei consumi dell’acqua, installato di recente dalla municipalità di Città del Capo in tutte le abitazioni dei sobborghi popolari (quelle, per intenderci, che stanno tra le baracche delle township e le ville blindate dei quartieri dei bianchi): collegato all’acquedotto tramite un contatore, blocca la fornitura al superamento del volume previsto dalle restrizioni (in questo momento, 70 litri a testa al giorno). Risultato: molte famiglie rimangono spesso coi rubinetti asciutti nel primo pomeriggio fino al mattino seguente. «Qui si taglia senza preavviso una risorsa vitale – si lamenta Zama Timbela, attivista del Progressive

◀ In coda a una fontana pubblica in un sobborgo di Città del Capo. «Anche se l’emergenza è passata, le preoccupazioni restano – spiega l’ambientalista David Fig –. Le dighe non bastano più. Bisogna trovare nuovi metodi di approvvigionamento»

Youth Movement –. Nelle zone residenziali, invece, se un benestante supera la soglia paga una multa, ma continua ad avere l’acqua». La scarsità di precipitazioni e l’esaurimento delle riserve idriche hanno provocato nel 2018 l’emergenza acqua nella Provincia del Capo Occidentale, in particolare nell’area metropolitana di Città del Capo, 4 milioni di abitanti, costringendo le autorità a inedite misure restrittive. I giorni dell’emergenza Il Theewaterskloof, il maggiore dei bacini artificiali che riforniscono la città, era sceso a un decimo della sua capienza, pari a 480 miliardi di litri. Gli studiosi avevano previsto un imminente Day Zero, il giorno in cui non sarebbe più uscita acqua da nessun rubinetto della città. Il livello di massima allerta è scattato in estate. Le strade sono state tappezzate di manifesti che esortavano la popolazione a non sprecare una sola goccia. Niente piscine, né giardini irrigati. Consumo massimo consentito: 50 litri d’acqua a testa al giorno (in Italia il consumo quotidiano pro capite è di circa 250). Il panico ha spinto la genafrica · 2 ·2019

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te a svuotare gli scaffali dell’acqua nei supermercati. Nei ristoranti e nei luoghi pubblici i rubinetti sono stati disattivati e sostituiti da gel igienizzanti. A fabbriche e aziende agricole è stato imposto il dimezzamento dei consumi. Certe imprese sono state costrette a sospendere la produzione. «Ho dovuto tenere chiusa la mia attività per un mese. Ho una famiglia e viviamo del mio lavoro – dice Andy, proprietario di un autolavaggio, tornato oggi in attività –. Per precauzione adesso ho acquistato una pompa che estrae l’acqua dal sottosuolo». Altre realtà hanno installato taniche raccogli pioggia, come l’ong italiana Cesvi, attiva nella township di Philippi. «Abbiamo una casa di accoglienza per donne vittime di violenza, non possiamo permettere ▼ La principale riserva d’acqua di Città del Capo – un enorme bacino chiamato Theewaterskloof – è oggi al 65% della sua capienza massima

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che rimangano senz’acqua», spiega Luvuyo Zahela, coordinatore della Casa del Sorriso. Taniche e secchi Sono state escogitate soluzioni: chi ha installato sistemi di controllo a tempo per le docce (due minuti al massimo per lavarsi) e chi ha posizionato catini in modo da riutilizzare l’acqua per il water. Anche i benestanti sono stati obbligati a uscire di casa per procurarsi l’acqua. Ancora oggi si ritrovano in tanti a fare la fila alle sorgenti naturali della Table Mountain. «Riempio tre taniche ogni sabato – spiega un uomo in coda –. In casa la usiamo per lavare perché quest’acqua non è trattata, ma almeno non sprechiamo quella che viene dalle dighe». Nelle township, gran parte delle persone vive in baracche senza impianti idraulici. «Tutti i giorni, quando torno da scuola, vado a prendere l’acqua alle fontanelle comuni», racconta Likhona Booi,

14 anni, mentre trasporta due pesanti secchi verso la casa di lamiere che condivide con cinque fratelli. «C’è un rubinetto ogni cinquecento persone. Si creano code infinite. E a volte l’acqua finisce prima del proprio turno». Il Day Zero è arrivato, ma solo in alcune zone. «Nei giorni di massima crisi – racconta Zama Timbela – la municipalità ha completamente bloccato la fornitura nelle baraccopoli, aggravando le precarie condizioni igieniche, quindi sanitarie, della popolazione», che già deve fare i conti con malattie quali tubercolosi e aids in un Paese dove si registra il più alto tasso al mondo di persone affette da Hiv. E c’è chi sulla crisi ha speculato. «Il prezzo dell’acqua minerale è schizzato alle stelle. Una bottiglia da un litro e mezzo prima costava circa 15 rand, adesso 30» (quasi due euro). Danni economici Le restrizioni delle autorità e gli accorgimenti adot-

tati dai cittadini hanno permesso di superare la fase più critica. Le piogge che sono tornate hanno fatto tirare un respiro di sollievo. «Il problema però è solo rimandato – avverte Richard Pfaff, ricercatore dell’Environmental Monitoring Group, con sede a Città del Capo –. I cambiamenti climatici e l’aumento della pressione demografica stanno inaridendo la nostra regione». Le conseguenze stanno già facendosi sentire sul comparto agricolo. «I vigneti delle celebri winelands hanno sofferto moltissimo negli ultimi anni – dice Pfaff –. La produzione vitivinicola è scesa del 20% e le cantine hanno dovuto licenziare migliaia di lavoratori». Anche l’ortofrutticolo ha subito contraccolpi. Lo conferma Marijke Ehlers, manager della Rooibos Limited, la più antica e grande fabbrica di rooibos, il famoso tè rosso sudafricano: «Nell’ultimo anno abbiamo fatti i conti



SOCIETÀ di Marco Trovato

Sven Torfinn / Panos Pictures / Luz

Il boom del turismo tra safari e mare

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ANALISI DI UN SETTORE IN PIENA ESPANSIONE CHE DÀ LAVORO A QUASI DIECI MILIONI

Visitatori in crescita, profitti record e prospettive rosee. Gli operatori turistici in Africa hanno più di un motivo per sorridere. Ma molto resta ancora da fare. Luci e ombre dell’industria dei viaggi in un continente ancora da scoprire

DI AFRICANI Sessantaquattro milioni di persone hanno visitato lo scorso anno un Paese africano. Nel 2000 erano state 22 milioni. Un balzo in avanti del 300%. Oggi il comparto del turismo nel continente vale 73 miliardi di dollari (il 3% del prodotto interno lordo) e produce 9 milioni e mezzo di posti di lavoro. Il Marocco, con undici milioni di arrivi, guida la classifica delle nazioni più visitate, seguito a ruota dal Sudafrica con oltre 10 milioni di presenze. Sul podio c’è anche l’Egitto che, secondo l’Organizzazione mondiale del turismo, è la destinazione maggiormente cresciuta nell’ultimo periodo. Dopo anni di crisi, innescata dalle rivolte popolari del 2011, sono tornati a sorridere gli albergatori sul Mar Rosso e del Cairo, anche se lo spettro del terrorismo tiene ancora lontani molti potenziali visitatori (alla vigilia della Primavera Araba, erano oltre 14 milioni: cinque più di quelli attuali). Anche la Tunisia, a lungo penalizza◀ Nel parco nazionale del Serengeti, in Tanzania, una guida masai sorveglia la savana per assicurarsi che nessuna bestia feroce si avvicini ai suoi clienti mentre fanno colazione

ta dall’insicurezza, torna a conquistare la fiducia degli stranieri: 8 milioni lo scorso anno, un milione in più del 2017. Nella classifica delle destinazioni preferite ci sono Kenya, Namibia, Tanzania, Algeria, Botswana, Etiopia e Madagascar. Per il futuro si scommette sul successo di Mozambico, Sudan, Uganda, Ciad, Zambia, Angola, Zambia, Zimbabwe, Malawi, São Tomé e Príncipe. Ottime prospettive A sedurre i turisti sono la fauna selvaggia e la natura (52%), il mare e le spiagge assolate (31%), le attrazioni culturali e antropologiche (17%). La città più visitata è stata Johannesburg, ma l’80% dei viaggiatori vi è transitato per poche ore (il suo aeroporto è uno hub per l’intera Africa australe). Ci sono poi altre mete, per certi versi insospettabili, come Lagos o Abuja in Nigeria, che attirano soprattutto visitatori “domestici” o “regionali”, spesso legati al cosiddetto “turismo congressuale”. Infatti, se la gran parte dei flussi turistici proviene dall’Europa, a livello continentale si registra un forte incremento del numero dei viaggiatori africani africa · 2 ·2019

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LA TOP 10 DELLE DESTINAZIONI AFRICANE Visitatori in milioni Fonte: Organizzazione mondiale del turismo (Unwto); dati riferiti al 2018 Marocco

11,1

Namibia

2,1

Sudafrica 10,2

Mozambico 1,8

Egitto 8,7

Kenya

1,5

Tanzania

1,4

Uganda

1,3

Tunisia

7,9

Algeria 2,2

Frédéric Noy / Cosmos

– ormai il 40% del totale –, che appartengono all’incipiente classe media e possono muoversi con più facilità rispetto al passato (per disponibilità di maggiori risorse economiche e di migliori collegamenti). Le agenzie di viaggio tradizionali (in Italia ne sopravvivono seimila: dimezzate in dieci anni) perdono terreno – pur conservando ancora una bella fetta di mercato – nei confronti dei tour operator (in ascesa quelli africani) che vendono online pacchetti e servizi senza necessità di interme-

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diazioni coi clienti. I margini di crescita delle presenze turistiche sono immensi, se pensiamo che oggi la sola Spagna registra in un anno gli stessi arrivi dell’intero continente africano (il cui peso complessivo vale nemmeno il 5% del traffico turistico mondiale). O che città come Londra, Parigi, Roma o Venezia hanno da sole il doppio dei visitatori di Sudafrica o Marocco. Secondo l’Organizzazione mondiale del turismo, il numero dei viaggiatori stranieri in Africa raddoppierà entro il 2030.

Maggiore competizione Le previsioni ottimistiche attirano grossi investimenti nel settore alberghiero: le maggiori catene internazionali coi loro brand globali – Marriott, Accor, Hilton, Ibis Style, Radisson Blu – stanno moltiplicando la capacità recettiva (oggi vantano 423 hotel e circa 75.000 camere). E non mancano gli imprenditori locali – specie in Nigeria, Costa d’Avorio, Ghana, Sudafrica e Kenya. In totale, secondo uno studio del World Travel & Tourism Council, gli investimenti

nel settore lo scorso sono stati di circa 30 miliardi di dollari: +5% dal 2015. Non sempre la qualità dei servizi offerti è all’altezza delle aspettative, anche per colpa di management inadeguati, e talvolta le tariffe elevate fanno a pugni con la scarsa manutenzione. Tuttavia, gli standard migliorano un po’ dappertutto (le recensioni degli ospiti sulle piattaforme web fungono da stimolo per i gestori in contesti di concorrenza crescente). La competizione si fa sempre più dura anche nel settore del trasporto aereo, dove le compagnie europee che un tempo detenevano il monopolio dei collegamenti con le capitali africane oggi devono confrontarsi con altri vettori attivissimi, come Turkish Airlines o Ethiopian Airlines. La battaglia per il controllo dei cieli africani passa attraverso fusioni (Air France-Klm), acquisizioni (nel gruppo Lufthansa sono confluite Swiss e Brussels Airlines) e alleanze strategiche (Sky Team e Star Alliance). Per effetto della concorrenza, le tariffe dei voli hanno cominciato a scendere, specie per le capitali più gettonate. Per favorire gli arrivi, alcuni governi stanno ampliando e ammodernando gli aeroporti, la cui limitata capacità ha rappresentato finora un freno all’incremento del traffico.

◀ Dalla piscina del Four Seasons Safari Lodge, nel Parco nazionale del Serengeti, in Tanzania, alcune turiste osservano gli elefanti abbeverarsi a una pozza



NATURA testo di Gianni Bauce – foto di Iapf

Le guerriere della natura

IN ZIMBABWE È NATA UNA MOTIVATISSIMA UNITÀ ANTIBRACCONAGGIO. È COMPOSTA DI SOLE DONNE

36 africa · 2 · 2019


Si chiamano Akashinga, “le Coraggiose”. Fanno parte di una task force che difende gli animali in via d’estinzione dai cacciatori di frodo. Armate e ben addestrate, sfidano gli stereotipi maschili e si prendono la rivincita sulla vita Pubblichiamo in anteprima lo stralcio di un capitolo del libro All’ombra dell’albero delle salsicce (Polaris, 2019, pp. 277, € 17,00), da questo mese in vendita online: storie sulla conservazione della fauna africana a cura di Gianni Bauce, guida naturalistica in Zimbabwe. “Se vuoi ottenere qualcosa, devi chiederlo al capovillaggio; ma se vuoi veramente ottenerlo, devi chiederlo a sua moglie”. Così recita un proverbio africano che allude all’enorme – ma tutt’altro che ostentato – potere della donna nelle aree rurali dello Zimbabwe. Damien Mander, 39 anni, impegnato da anni nella lotta al bracconaggio con la sua International AntiPoaching Foundation, conosce bene il potere e le capacità delle donne di questo Paese. Per questo le ha ingaggiate nella sua attività contro i cacciatori di frodo. L’idea gli è venuta l’anno scorso, durante una missione nella Valle del Basso Zambesi. «Mentre giravo per i villaggi – racconta – ho incontrato alcune donne sventurate, relegate ai margini della vita sociale: vedove, orfane, ragazze madri, ripudiate

dai mariti, talune costrette a mendicare o prostituirsi». Donne rimaste sole, ma con una gran voglia di riscatto. Damien ha offerto loro l’occasione. Intuizione vincente «Avevo un progetto in mente – racconta l’ex militare delle forze speciali australiane –. Volevo trasformare le riserve un tempo destinate alla caccia, oggi in forte declino e dunque pericolosamente abbandonate, in aree di conservazione controllate e tutelate dalle comunità locali, affinché ne potessero beneficiare sia gli animali che le popolazioni». Damien aveva bisogno dell’appoggio delle donne… di quelle donne: ansiose di tornare protagoniste. Così è nato il progetto Akashinga (in chishona significa “le coraggiose”), una task force di guardiane della natura ben addestrate ed equipaggiate. L’idea del team “rosa”, invero, non è una novità: già nel 2013 in Sudafrica veniva costituita contro il bracconaggio la Black Mamba Anti-Poaching Unit (Africa 3/2016), composta da donne addestrate alla prevenzione e repressione per proteggere rinoceronti, ghepardi e licaoni. «Quel che rende

innovativo Akashinga è l’impiego di donne discriminate e vulnerabili – ci tiene a precisare l’ideatore –. L’obiettivo è infatti coniugare l’emancipazione di donne svantaggiate con la riabilitazione e gestione di aree selvagge in maniera alternativa allo sfruttamento venatorio». Più forti dei pregiudizi Damien ha aperto le candidature esclusivamente a donne senza lavoro, ragazze madri, mogli abbandonate, prostitute, vittime di violenze e abusi sessuali, orfane, vedove e mogli di carcerati (in particolare di bracconieri finiti in carcere). La risposta è stata sorprendente. «Mi sono trovato davanti a un plotone di ventisei donne da addestrare, cariche di entusiasmo e aspettative, pronte più che mai a mettersi in gioco». Le reclute hanno affrontato un duro addestramento. «Dopo aver studiato le abitudini della fauna e i segreti dell’ambiente – spiega Damien –, le aspiranti scout sono state preparate a gestire gli scenari più impegnativi attraverso l’uso delle armi, il combattimento corpo a corpo e l’esercitazione alle azioni di guerriglia come quel-

le che possono aver luogo in un contesto di lotta alla caccia di frodo». Le Akashinga hanno imparato le tecniche di pattugliamento e di mimetismo, i rudimenti del primo soccorso, le tecniche di arresto e perquisizione, l’acquisizione di elementi probatori e la preservazione della scena del crimine. Inizialmente il progetto ha trovato resistenza e diffidenza da parte degli uomini… Il ruolo di ranger combattenti non si addice alle donne, tantomeno a quelle “rifiutate” dalla comunità. Alcune sono state derise, insultate, addirittura minacciate. Ma le allieve di Damien non si sono fatte intimidire. Con determinazione e orgoglio hanno conquistato la fiducia e il rispetto di tutti. Risultati sorprendenti «Alla cerimonia di investitura al termine del corso, hanno applaudito quasi duemila persone provenienti dai villaggi delle ventisei ragazze». Oggi, Vimbai, Tracey, Primrose e compagne, di età compresa tra i 18 e i 35 anni, si muovono sicure nella boscaglia indossando la mimetica e imbracciando il fucile d’assalto come vere professioniste, custodendo uno dei patrimoni più preafrica · 2 · 2019 37



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COPERTINA testo di Simona Cella – foto di Eugénie Baccot / Parallelozero

Benvenuti nella Hollywood d’Uganda

44 africa · 2 · 2019


ARMI SPAZIALI, KILLER SPIETATI, ZOMBIE E MAESTRI DI KUNG FU:

A Wakaliga, una baraccopoli della capitale Kampala, Isaac Nabwana ha realizzato il suo sogno: produrre film d’azione nel cortile di casa, a costi irrisori. E conquistare il pubblico con effetti speciali

SUL SET DI WAKALIWOOD TUTTO È POSSIBILE

Dopo Hollywood (Stati Uniti), Bollywood (India), Nollywood (Nigeria), è la volta di Wakaliwood, in Uganda. A Wakaliga, uno slum di Kampala, Isaac Nabwana con la sua casa di produzione Ramon Film sovverte le leggi del cinema rivendicando con i suoi oltre 40 film a basso budget il diritto di fare produzioni di genere in un Paese povero e senza la minima struttura cinematografica. Soprannominato il Tarantino africano, Nabwana propone un cinema popolare infarcito di zombie, cannibali, mafiosi, killer e arti marziali che unisce in un esplosivo mix culturale ugandese, cinese e occidentale. Successo planetario Da alcuni anni Wakaliwood, così è chiamato il mondo cinematografico di Nabwana, ha attirato l’attenzione di giornalisti di tutto il mondo: Bbc, Cnn, Al Jazeera, Wall Street Journal. I suoi film artigianali prodotti tra le baracche di lamiera arroventate dal sole all’Equatore, grazie al web hanno ◀ Ciak, si gira! A Wakaliga il regista ugandese Isaac Nabwana dà l’avvio alle riprese di un nuovo film

raggiunto una platea globale. Qual è il segreto di tanto successo? Isaac Nabwana è un self made man che è riuscito a trasformare una passione in un modello sostenibile per la sua piccola comunità. Cresciuto dalla nonna durante la sanguinosa dittatura di Idi Amin e sopravvissuto alla guerra civile, Nabwana da bambino si è nutrito di cinema attraverso i racconti del fratello che gli recitava a memoria le storie dei film di kung fu di Chuck Norris e Bruce Lee. L’interesse per il ciak è cresciuto con l’età. Fabbricando mattoni si è pagato poche lezioni in una scuola privata e con grande determinazione ha proseguito da autodidatta, studiando i rudimenti del montaggio e l’abc della ripresa. Con i risparmi ha comprato una videocamera, assemblato un computer e iniziato la sua avventura cinematografica. Il successo è arrivato nel 2010 con Who Killed Captain Alex?, un film prodotto in trenta giorni con un budget inferiore ai 200 dollari. Il trailer caricato su YouTube ha raggiunto a oggi più di 3 milioni di visualizzazioni. La copia originale del film è andata africa · 2 · 2019 45


purtroppo perduta e rimane solo una versione con commenti in inglese di un videojoker. La trama è semplice. Captain Alex, pluridecorato ufficiale dell’esercito ugandese, è incaricato di catturare Richard, capo dell’organizzazione criminale Tiger Mafia, che controlla Kampala. Quando Captain Alex cattura suo fratello, Richard giura vendetta, ma qualcuno prima di lui riesce a uccidere il Capitano… Il successo del film (oltre alle visualizzazioni su YouTube sono state vendute almeno centomila copie del dvd) ha convinto Nabwana a girare il sequel, Tebaatusasula. Il trailer è diventato subito virale, ma per un inconveniente tecnico il film è andato distrutto. Deciso a rifarlo, Nabwana ha lanciato una campagna di crowdfunding su Kickstarter per raccogliere 160 dollari per la produzione. Alla fine ◀ Ogni nuovo film verrà venduto in migliaia di copie di dvd (duplicate manualmente da un addetto della Ramon Film Production ◀ Isaac Nabwana alle prese con il montaggio di un suo film. È in questa casetta che nel 2006 è iniziata l’avventura di Wakaliwood ◀ Il regista Isaac Nabwana, 44 anni, appassionato di cinema e fondatore di Wakaliwood, gira una scena tra i vicoli fangosi della sua baraccopoli ◀ Fabbri e artigiani producono le armi usate sui set. Malgrado gli scarsi mezzi a disposizione, i film finora realizzati sono quasi cinquanta 46 africa · 2 · 2019

ne ha raccolti ben 13.000, che sono serviti a girare un film in alta definizione e a pagare cibo, spese sanitarie e dentistiche per la troupe e relative famiglie. Nabwana sostiene di amare i film di azione, di voler divertire il pubblico e di prendere spunto dalla realtà per scrivere le sue strampalate sceneggiature. Bad Black a.k.a. si ispira a Black, una giovane e carismatica ragazza balzata agli onori della cronaca per aver truffato un uomo d’affari inglese per la modica cifra di 2 milioni e mezzo di sterline. Considerata una sorta di Robin Hood ugandese, nella versione di Wakaliwood la donna ruba le medaglie di un commando americano, che invece di chiamare la polizia mette a ferro e fuoco la baraccopoli. Altro record rivendicato da Nabwana è di aver prodotto un film sugli zombie senza conoscere George Andrew Romero, maestro del genere horror, e senza quindi aver subito l’influenza del genere creato dal regista americano. Bukunja Tekunja Mitti: The Cannibals e Eaten Alive in Uganda giocano con la tradizione, citando gli Abasezi o Night Dancers, che, secondo la leggenda, nelle notti di luna piena vengono posseduti dagli spiriti trasformandosi in feroci danzatori a caccia di carne umana. La violenza sul set è ben lontana, però, da qualsiasi realismo (per simulare il sangue nelle scene di azione si usano dei preservativi pieni di inchiostro rosso) e benché



CULTURA di Alberto Salza e Gisèle Yambuya – foto di Stefan Heunis / Afp

Foto di Stefan Heunis / Afp

In festa per l’emiro di Kano

54 africa · 2 · 2019


SCENE D’ALTRI TEMPI: IN NIGERIA UN SOVRANO DELL’EPOCA PRECOLONIALE SFILA NELLO SFARZO TRA I SUOI SUDDITI

Il Nord della Nigeria è tristemente noto per i sanguinosi attentati di Boko Haram. E per la severa legge coranica che regola la vita locale. Ma in occasione del Durbar Festival nella città di Kano esplode una gioia incontenibile Squilli di tromba, rulli di tamburo, cavalieri armati di lance e stalloni bardati con paramenti sontuosi. Sembra il set di un colossal hollywoodiano. Invece è il corteo dell’emiro di Kano, uno dei più influenti leader politici e religiosi della Nigeria. L’occasione per vedere dal vivo il dignitario islamico, sovrano dell’omonimo Stato federato del Paese, è il tradizionale Durbar Festival: una cerimonia solenne introdotta nel XIV secolo. Ritorno al passato Durbar è parola di origine urdu. Nasce dall’unione di due termini: dar, “porta”, e bar, “udienza”, mettendo in rilievo la funzione di apertura del palazzo e dell’incontro dell’emiro con la comunità. L’evento si tiene due volte l’anno: all’indomani dell’Eid alFitr, la festa che celebra la fine del Ramadan, e in occasione dell’Eid al-Kabir, che indica l’apertura del

◀ Cortigiani, guerrieri e musicisti sfilano a cavallo per le vie di Kano in occasione del Durbar Festival. La città è piena di immondizia, mentre il corteo dell’emiro è carico di gioielli e paramenti sontuosi

pellegrinaggio alla Mecca. Il Durbar Festival è dunque collegato al calendario lunare dell’islam, a testimoniare il fatto che l’emiro esercita la sua autorità sia a livello religioso (è la guida suprema dei musulmani sunniti di questa regione) sia politico (amministra il territorio assieme al governatore). Il Durbar raduna nella polverosa città di Kano centinaia di capivillaggio e una moltitudine impressionante di sudditi, oltre un milione di persone appartenenti per lo più al gruppo linguistico hausa, desiderosi di manifestare deferenza a Sua Maestà l’Incorruttibile. Sul Durbar, l’americano Sulayman Nyang, preside del dipartimento di studi africani dell’Università di Howard, ha usato parole dure: «Sono abili manipolazioni della tradizione al servizio del potere secolare e di coloro che abbiano un’autorità religiosa residuale». Il legame di affetto e sottomissione che lega il popolo al suo emiro affonda le radici nella storia medievale: il re proteggeva (con il suo esercito) i confini del regno, amministrava campi e pascoli, interpretava il diritto islamico, risolveva africa · 2 · 2019 55



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RELIGIONI testo di Valentina G. Milani – foto di Bruno Zanzottera / Parallelozero

Le feste dei gemelli


IN BENIN SI CELEBRANO DUE INSOLITE RICORRENZE CHE VEDONO PROTAGONISTI I GEMELLI E LE STATUETTE CHE LI RAPPRESENTANO

In questo angolo di Africa occidentale si registra il più alto tasso di parti gemellari al mondo. Ma anche un elevato tasso di mortalità infantile. Per scongiurare le disgrazie, si invoca la protezione degli spiriti dei “figli doppi” Una domenica mattina di fine settembre, all’alba, decine di donne e uomini vestiti a festa si dirigono verso la chiesa cattolica di Ouidah per partecipare alla messa. Giunti sul sagrato, trovano un ostacolo imprevisto: il sacerdote vuole impedire l’accesso alle donne. «Potete entrare a condizione che lasciate fuori quei feticci», ammonisce l’uomo, indicando le statuette strette in grembo con colorati parei. Scoppia un’animata discussione. Da una parte c’è il prete, determinato a estirpare dalla comunità ogni traccia di retaggio animista. Dall’altra, le donne, decise a partecipare alla funzione religiosa senza rinunciare agli oggetti di culto della tradizione. «Sono i nostri figlioli, hanno diritto di partecipare alla celebrazione nel giorno della loro festa»: una signora si fa portavoce del gruppo e riesce a convincere il prete a far entrare tutti, “bambini di legno” compresi.

Celebrazione per due neonate gemelle in una Chiesa evangelica nei pressi di Cotonou. Per i Fon, i gemelli sono immortali: continuano a vivere portando felicità o dolore a seconda che vengano coccolati o maltrattati

Culto popolare In Benin è un giorno speciale: si festeggiano i gemelli defunti in una nazione che registra il più alto tasso al mondo di parti gemellari e che è conside-

rata, insieme al vicino Togo, la culla della religione vodu. «La maggior parte delle famiglie in queste terre ha almeno una coppia di gemelli. Siamo fortunati perché ci proteggono», sorride una donna mentre sistema il vestito del suo bambino di legno prima di entrare in chiesa. A differenza di altre regioni africane dove si pensa che la nascita di due persone identiche sia un fenomeno dalle origini demoniache, sulle coste dell’Africa occidentale affacciate sul Golfo di Guinea il parto gemellare è considerato un evento straordinariamente favorevole, tanto che si è sviluppato, soprattutto tra le popolazioni fon, ewè e yoruba, un vero e proprio culto sincretico che prevede altari appositi, rituali, offerte e due giorni di festa all’anno: uno dedicato ai gemelli morti e l’altro a quelli vivi, rispettivamente il 26 settembre, giorno dei santi gemelli Cosma e Damiano, e la seconda domenica di ottobre. Corpi di legno A essere molto elevato, in Benin, è infatti anche il tasso di mortalità infantile: circa 70 decessi per 1000 nascite. Non a caso, africa · 2 · 2019 69


nel giorno della festa dei “gemelli morti” la chiesa è gremita di statuette di legno che rappresentano i bimbi perduti, o meglio, «sono – come precisa una mamma – i nostri figli o nipoti che sono andati via». Dei gemelli la popolazione non dice che siano morti bensì “partiti nella foresta a cercare cose buone e a lavorare per la prosperità della famiglia” e spesso vengono identificati con le scimmie che frequentano i boschi sacri alle divinità vodu. Se un fratello viene a mancare, le famiglie si rivolgono a falegnami che modellano delle figure in legno alte circa 20 centimetri. «Ne scolpisco tantissime e cerco di farle a immagine e somiglianza del defunto», spiega Alphonse Makou, uno dei migliori falegnami di Ouidah, mentre è chino sulle sue ultime due creazioni. Racchiusi in rigidi corpi di legno, i gemelli ritornano a vivere coi parenti; gli uomini di casa si preoccupano di mantenerli economicamente e le ◀ Quando un gemello muore, in Benin viene intagliata una statua in legno, hohovi, che lo rappresenta. Le statuette ospitano lo spirito del defunto e vengono trattate dalle famiglie come dei veri e propri bambini. I gemelli, come ogni fenomeno eccezionale, suscitano in Africa sentimenti contrastanti. Certe popolazioni vedono in tali nascite un presagio nefasto; altrove – come in Benin, dove la frequenza di parti gemellari è la più alta al mondo –, il timore, che è comunque sempre presente, si traduce in venerazione 70 africa · 1 · 2019

donne li accudiscono come persone in carne e ossa facendo loro il bagno, spalmando sul loro corpo crema e borotalco, vestendoli con abiti in miniatura e nutrendoli, oltre che, naturalmente, dedicando loro preghiere, suppliche e rituali. Banchetti e preghiere «Io mi prendo cura di tanti bambini perché accudisco anche quelli di mia sorella e di alcune amiche che non possono mantenerli», dice Ejidiah de Souza mostrando la sua schiera di statuette vestite rigorosamente in bianco e rosa (i colori che devono indossare i gemelli durante la festa in loro onore). La spianata di fronte al Tempio del Pitone di Ouidah si riempie, dopo la messa, di statuette per il banchetto preparato in loro onore. File di bambolotti vengono allineate davanti a una tavola imbandita con arance, caramelle, biscotti, banane, arachidi e, soprattutto, fagioli: «Ne vanno matti», dice fiera Ejidiah. Mentre i gemelli “mangiano”, imboccati dalle donne, un gruppo di musicisti suona il djembé. Il ritmo si fa sempre più frenetico: è il momento delle offerte alle divinità, durante il quale ci si scambiano cibo e saluti. Poi, di colpo, tutto si ferma. Una sacerdotessa si fa largo tra la folla. Dà il via a un rituale per interpellare le divinità dei gemelli: si serve di noci di cola e alcol che mischia e getta per terra. La gente trattiene il respiro.



NEROsuBIANCO

ritagli dal sito di www.africarivista.it

Franco Cfa: una polemica nata vecchia di Mario Giro

Non si può discutere di questioni serie come la decolonizzazione in termini di propaganda politica da utilizzare come clava contro avversari. La questione della fine delle colonie ci vede tutti (noi europei) responsabili. Anche gli italiani, che tendono a rimuovere quella pagina. La recente memoria della strage di Debra Lebanos del 1937 in Etiopia (il massacro di migliaia di giovani monaci cristiani ortodossi perpetrata agli ordini di Graziani) non può che renderci umili. Ma tant’è: ora si vocifera delle responsabilità della Francia in termini di neocolonialismo economico, tramite franco Cfa. Iniziamo col dire che tale polemica antifrancese di Di Maio e Di Battista sulle colonie francesi è roba vecchia. Il dibattito sul neocolonialismo alla parigina, sul franco Cfa e sul resto, data dagli anni Sessanta e furoreggia a fasi alterne soprattutto in Francia e fino ad oggi. Niente di nuovo sotto il sole, nessuna “verità” improvvisamente scoperta. Se questo poi serva per costruirsi un “nemico perfetto”, è un’altra storia. Da sempre le sinistre europee si sono trovate d’accordo con i liberisti anglosassoni nella critica alla Françafrique (come si chiamava), e del Cfa. Per le prime non era vera decolonizzazione; i secondi erano e sono contrari al monopolio di un mercato protetto governato paternalisticamente. I sostenitori invece affermano ancora oggi che la “zona franco” ha portato stabilità. La questione è controversa e di non facile lettura. A Parigi il tema è talmente sentito che qualche anno fa Sarkozy fece passare una legge sull’eredità coloniale mettendo in luce la parte – a suo dire – positiva. In Francia ci fu una levata di scudi. Poi la legge fu cambiata. Nella sinistra francese la questione è ancora lacerante, tra chi tiene alla grandeur e chi la contesta. Il franco Cfa infatti è uno degli strumenti con cui la Francia ha tenuto assieme le sue ex colonie in un quadro politico ed economico dato: quello della guerra fredda. Favoriva infatti l’ancoraggio africano al blocco occidentale durante lo scontro bipolare. Vi era anche un aspetto di prestigio geopolitico: il generale De Gaulle considerava l’Africa francofona un modo per contare di più, per esempio all’Onu. Certo vi è stato anche un lato oscuro della Françafrique: cambi di regime, fedeltà imposte, corruzione, scambi. Di questo sono piene le biblioteche francesi: quindi anche qui nulla di nuovo. Sappiamo che chi provò a ribellarsi finì male come Sankara in Burkina Faso, o isolato come il guineano Sékou Touré. Non che l’alternativa all’influenza francese fosse migliore: basta guardare alla storia dei Paesi africani anglofoni, alle loro guerre civili, ai colpi di Stato, ecc. Gli stessi regimi di Conakry e Ouagadougou furono 84

africa / INVETRINA · 2 · 2019

durissimi con la popolazione, a parte la retorica vetero-marxista. Dal punto di vista economico si dibatte ancora se la “zona franco” abbia o no favorito lo sviluppo in Africa: le opinioni sono divise anche a Parigi. L’Fmi, ad esempio (che non è certo un modello di sensibilità per l’Africa), è stato sempre contrario. La realtà è che mantenere il franco Cfa è costato più a Parigi di quanto ci abbia guadagnato. Le Finanze d’oltralpe hanno spesso dovuto coprire i buchi che i leader africani provocavano con la loro finanza allegra. Chi può dire di averci guadagnato è stata la parte del settore privato francese che investe in Africa, eliminando i concorrenti europei dentro il suo monopolio. Le leadership africane francofone sono state in maggioranza favorevoli alla zona, come forma di economia protetta: un’assicurazione sulla carriera. Ma non è diverso da tante dollarizzazioni latinoamericane. Mitterrand svalutò il Cfa contro il parere di Chirac (il più “francoafricano” dei presidenti francesi dopo De Gaulle). La volontà di Parigi di difendere la propria “zona” monetaria con esborsi continui è diminuita con il tempo anche nei ministeri: le Finanze francesi volevano smettere di pagare. Anni fa ci furono rivelazioni, scandali, giudizi, inchieste… A un certo punto l’equilibrio della Françafrique si è spostato a favore dei partner africani: leader longevi che avevano conosciuto tanti presidenti e ministri francesi avevano un’ottima consapevolezza dei pesi e contrappesi e delle lotte interne alla politica francese. Ormai era l’Africa a incidere sui processi politici parigini e non più il contrario. Gli africani erano diventati così abili da influenzare Parigi tanto che i polemisti d’oltralpe cominciarono a parlare di Afriquefrance e non più di Françafrique… Tutto sommato la Francia ci ha rimesso, sicuramente in termini economici e talvolta anche politici. La maggioranza dell’opinione pubblica francese non ha mai avuto gran simpatia per la Françafrique. Ancor meno il mondo delle ong o le Chiese. Con gli ultimi presidenti (Sarkozy, Hollande e Macron) la questione ha perso peso: la fine della guerra fredda e l’inizio della globalizzazione ha fatto crollare l’interesse francese per quell’area. Ora Parigi vorrebbe dei partner per presidiare l’ex Africa francofona, come nel caso del Mali. L’onnipotente cellula africana all’Eliseo è ridotta a un ufficetto; il ministero della Cooperazione è assorbito dall’Agenzia della cooperazione. Restano solo alcune reti di influenza del settore privato. La Francia istituzionale ha fatto i conti con il passato e già da tempo ha cambiato rotta. Tornare su tale polemica è come tornare agli anni Ottanta. È bene concludere con due osservazioni chiave. La prima è che la zona franco-africana, grazie alla comunanza della lingua, ha prodotto molto in termini di educazione e cultura, avvicinando due mondi che erano lontani. La fine della colonizzazione ha offerto agli africani una via privilegiata verso Occidente, tramite la Francia. L’altra è che le alternative postcoloniali furono anche peggiori, come quella sovietica o cinese, e soprattutto quella del disinteresse e dell’abbandono completo praticato da altre potenze ex coloniali. Con ciò che poi è accaduto e accade in Somalia, Eritrea o Libia… noi italiani è meglio che stiamo zitti.


MISSIONARI D’AFRICA Notizie e progetti dei padri bianchi italiani e svizzeri N. 1 MARZO - APRILE 2019 - ANNO 98

WWW.MISSIONARIDAFRICA.ORG

a cura di Enrico Casale

AMICI DEI PADRI BIANCHI ONLUS MISSIONARI D’AFRICA

RD CONGO LA GRANDE FUGA

ALLEGATO REDAZIONALE

Attratti dal sogno di una vita migliore, migliaia di giovani lasciano il Paese. Spesso truffati, sono costretti a vivere in condizioni difficili nei campi profughi in Uganda o in Burundi

«Di trafficanti di esseri umani ce ne sono molti anche ai nostri giorni, e noi cristiani stiamo a guardare immobili questa triste realtà!». Le parole sono calate come una mazzata sull’uditorio. Padre Alberto Rovelli, missionario in Rd Congo, aveva organizzato a Bukavu una conferenza sul tema della tratta di esseri umani in ricordo del cardinal Lavigerie, ma non si aspettava una risposta così. Il suo voleva essere un omaggio al fondatore dei Padri Bianchi, ma si è trovato di fronte a una realtà dura che in Congo purtroppo è ancora viva. «Tutti – racconta padre Alberto – avevano vicende molto pesanti da raccontare. E ciò mi ha un po’ sorpreso. Le loro storie però vanno ascoltate e meditate perché ci possono insegnare moltissimo». Un papà affermava che, per emigrare di nascosto dai genitori, alcuni giovani congolesi hanno venduto la casa, l’auto o quanto avevano e poi sono partiti per i campi profughi a Kampala o a Bujumbura. A Bujumbura ci sono almeno duemila profughi in attesa di documenti falsi per proseguire il viaggio verso l’Europa o l’America. «Siamo venuti a sapere – continua padre Alberto – che ci sono centinaia di giovani di Bukavu

che aspetteranno anche 10-15 anni i documenti falsi per fuggire. Spesso consegnano molti soldi a sedicenti mediatori, che poi fuggono col maltolto e non si fanno più vedere. A quel punto, i ragazzi sono in una situazione di non ritorno: tagliati da ogni legame con la famiglia e la loro terra, non sono più nulla e non possono più ritornare a Bukavu». Un signore raccontava che anche lui, tentato di fare le valigie, si era presentato al campo profughi di Bujumbura. «Solo per poter entrare nel campo – spiega padre Rovelli – gli avevano chiesto mille dollari. Ha però agito intelligente-

mente: ha chiesto al responsabile del campo quanto tempo avrebbe dovuto vivere nel campo prima di andare in America. Gli ha risposto che prima di lui c’erano duemila persone (uomini, donne, ragazze minorenni), ma se portava 10.000 dollari sarebbe partito entro 15 giorni. Davanti a quella risposta gli è venuto meno ogni desiderio di lasciare il Congo pensando che con 10.000 dollari poteva fare qualcosa di buono rimanendo. Dalla Repubblica democratica del Congo non si portano via solo i minerali senza nemmeno pagare le tasse; ora rubano anche la gioventù».


ITALIA CI HA LASCIATI PADRE COSTA Il 28 novembre è morto padre Luigi. Per quarant’anni ha vissuto e lavorato come parroco e animatore missionario in Ruanda, piccolo e difficile Paese dell’Africa centrale

Per quasi quarant’anni ha lavorato nel Paese delle mille colline come parroco e nel centro missionario di Kigali. In Ruanda, padre Luigi Costa, scomparso a fine novembre nella comunità di Castelfranco Veneto, aveva lasciato il cuore. Là era arrivato giovane sacerdote seguendo la sua vocazione missionaria e là aveva trascorso gran parte della sua vita. Una vita iniziata in salita. Luigi Costa nasce a Bassano del Grappa (Vi) nel 1937. La sua è una famiglia poverissima, come erano allora molte famiglie venete. È quindi costretta a emigrare. Il padre, in cerca di lavoro, lo trova ad Aosta nelle acciaierie di Cogne. Giovanissimo, Luigi sente nascere la vocazione al sacerdozio. Nel 1949, entra così nel seminario minore dei Padri Bianchi a Parella (To), poi a Treviglio (Bg) e, di nuovo, Parella per il ginnasio, il liceo e i corsi di Filosofia. L’11 settembre 1960 va a Gap, nel Sud della Francia, per il noviziato. Si recherà in seguito a Heverlé, vicino a Leuven, in Belgio, dal 1961 al 1964, per i corsi di Teologia. Il 28 giugno 1964 pronuncia il giuramento nella società missionaria dei Padri Bianchi e qualche mese dopo, il 5 settembre, è ordinato diacono a Heverlé. Sarà poi ordinato sacerdote ad Aosta il 26 giugno 1965. I nove anni successivi lo vedono impegnato nell’animazione missionaria e vocazionale in Italia, in diverse comunità: Treviglio, (in seminario), Ciriè, e Albiano d’Ivrea (To). Nel 1974 parte per l’Africa: destinazione Ruanda. Dopo aver imparato la lingua locale, diventa curato di Mushaka di Nyundo. Dieci anni più tardi, parroco a Nyamiyaga, fino al 1989. Tornato brevemente

in Italia, dove offre il suo contributo all’animazione missionaria, subisce un serio incidente. La caduta da un albero gli procura lesioni alle gambe e alla schiena che lo costringeranno a rientrare periodicamente in Italia per le cure mediche. Nel 1994 riparte per il Ruanda, dove è dapprima vicepar-

roco e poi parroco a Nyagahanga. Dal 2006 lavora come amministratore al Cml (Centro missionario Lavigerie) a Kigali. Nel 2013 rientra definitivamente in Italia e risiede nella comunità di Castelfranco Veneto. Non dimenticherà mai il Ruanda, il suo secondo Paese.

RUANDA, UN PAESE IN CAMBIAMENTO? A 25 anni dal genocidio, il Ruanda sta cambiando. Dopo la strage che ha portato alla morte di almeno 800mila Tutsi e Hutu moderati, il Paese sta conoscendo un lungo periodo di stabilità. A guidare la nazione è Paul Kagame, un politico certamente autoritario, ma che viene considerato da molti africani un modello. Da quando Kagame è salito al potere ha rafforzato le istituzioni e investito molto sulla crescita economica. I dati sono inequivocabili: in media la crescita del Prodotto interno lordo, dal 2001 al 2014, è stata del 9% e, nonostante le flessioni legate alla crisi economica internazionale, il sistema produttivo non si è mai fermato. Il Ruanda è poi uno dei cinque Stati dell’Africa subsahariana meno corrotti, secondo Transparency Internatio-

nal. Tanto i commercianti locali quanto gli investitori stranieri continuano a celebrare il grado di sicurezza e affidabilità che incontrano quando fanno affari con i ruandesi. Le autorità vantano inoltre il maggior numero di donne impegnate in politica a livello mondiale. Le deputate occupano il 55% dei seggi in Parlamento. Negli ultimi anni, le autorità hanno lavorato molto per scoraggiare le tensioni etniche. Ma, sotto una coltre di normalità, covano ancora le divisioni. Alcuni osservatori internazionali temono che scontri su basi etniche possano ancora scoppiare qualora la presa dello Stato dovesse allentarsi. Un’incognita che grava ancora su un Paese piccolo, ma strategico per gli assetti dell’Africa centrale.


BURKINA FASO L’ANGELO DELL RAGAZZE MADRI Padre Maurice Oudet accoglie le giovani che hanno avuto un figlio fuori dal matrimonio. Trova loro una abitazione e le aiuta a studiare. Per sconfiggere i pregiudizi

È dura la vita delle ragazze madri in Burkina Faso. Dare alla luce un figlio fuori dal matrimonio significa essere emarginate, escluse, allontanate dalla famiglia e dalla società. Soprattutto per le donne mossi, l’etnia più grande del Paese. Alcuni giorni dopo il parto, le giovani madri sono autorizzate «a chiedere perdono agli uomini della grande famiglia» (agli uomini, perché nella cultura mossi, le donne non fanno veramente parte della famiglia). «La donna – spiega Maurice Oudet, Padre Bianco, chiamato “l’angelo delle ragazze madri” – deve essere accompagnata da un nipote e offrire alcuni doni. Spesso la famiglia offre un perdono che è poco più che formale, ma non le concede la possibilità di rientrare in casa o, a volte, gliela concede ma solo per pochi giorni. Queste giovani rimangono così da sole con i loro figli. Abbandonate, devono ricostruirsi una vita senza il supporto della famiglia e della comunità». Padre Oudet le accoglie nella comunità di Koudougou, la terza città del Paese. Quando le incontra, le conforta e, dopo averle rassicurate, si mette a cercare un posto dove possano essere ospitate. A volte riesce a convincere una zia o un parente. Altre volte le inserisce in famiglie disposte ad accettarle. Altre volte ancora, trova appartamenti dove due, tre o quattro mamme con i loro bambini possono essere ospitate condividendo le spese. «Cerchiamo di fare in modo che nessuna di loro viva da sola con il suo bambino – continua padre Ou-

det –. Per aiutarle, organizziamo incontri nei quali le mamme possono confrontarsi tra loro sui principali problemi». Le ragazze madri si impegnano e cercano di sfruttare al massimo le occasioni di riscatto che offre loro padre Oudet. «Organizziamo corsi professionali per aiutarle a diventare parrucchiere o sarte – conclude il missionario –. Altre vogliono tornare a scuola. Quindi le iscriviamo alle superiori, o anche alle elementari per quelle che sono analfabete. Loro sono coscienti quanto noi

che solo attraverso la preparazione scolastica e la formazione professionale si può costruire un futuro lontano dai pregiudizi».

DONNE ANCORA SOTTOMESSE Sebbene la parità di genere sia tutelata dalla Costituzione e dalla legge del Burkina Faso, nella vita quotidiana sono molto diffusi, mutilazioni dei genitali femminili, matrimonio forzato e precoce, e violenza domestica. Le decisioni sulla gravidanza e sul matrimonio sono spesso prese dagli uomini della famiglia e non dalle ragazze o dalle donne. Di conseguenza, solo il 17% delle donne in Burkina Faso fa uso di contraccettivi e oltre 2000 donne muoiono di parto ogni anno.

Nel 2014 e nel 2015 i ricercatori di Amnesty International hanno intervistato 379 donne e bambine, documentando i molteplici ostacoli che impediscono l’accesso ai servizi medici di contraccezione. Tra le persone intervistate, vi erano anche 35 vittime di matrimoni forzati e precoci che erano riuscite a fuggire. La legislazione nazionale prevede per le ragazze l’età minima di 17 anni per il matrimonio, ma nella regione settentrionale del Sahel più della metà (51,3%) delle ragazzine tra i 15 e i 17 anni risulta già sposata.


AMICI DEI PADRI BIANCHI ONLUS

ITALIA 5X1000: UNA FIRMA PER LA SPERANZA

MISSIONARI D’AFRICA

Basta una firma sulla denuncia dei redditi per finanziare progetti di sviluppo in Africa

Una firma può trasformarsi in un gesto di solidarietà. Come? Attraverso il 5 per mille, un meccanismo che, attraverso la denuncia dei redditi, permette di destinare una parte della propria Irpef a organizzazioni che operano nel mondo del volonta-

5X1000

riato nazionale e internazionale. Da anni, è possibile destinare il 5 per mille alla Onlus «Amici dei Padri Bianchi». I fondi vengono utilizzati per progetti culturali, sociali e di sviluppo a favore delle popolazioni dei Paesi del Sud del mondo, in particolare in Africa. A garantire il corretto impiego sono proprio i Padri Bianchi che promuovono i progetti, li seguono nel loro sviluppo, ne verificano l’efficacia, destinano le quote corrette di fondi. In questi anni sono state molte le iniziative sostenute grazie al 5 per mille a favore di categoriedi categorie svantaggiate della popolazione. Come le ragazze madri aiutate da padre Maurice Oudet in Burkina Faso, oppure i malati psichiatrici in Ghana, i carcerati nel Kivu (Rd Congo), gli orfani e i ragazzi vulnerabili di Beira (Mozambico) o anche

il sostegno ai Padri Bianchi anziani ritornati in patria dopo anni di duro lavoro nelle missioni. «Sapere di poter contare sul 5 per mille – spiega Paolo Costantini, Padre Bianco ed economo – è fondamentale per la nostra Onlus, perché ci permette di avere quel flusso costante di fondi indispensabile per poter programmare le nostre attività. Questi soldi, in sostanza, ci garantiscono la sostenibilità economica dei nostri progetti nel mediolungo termine». Va ribadito che al contribuente non costa nulla: basta la propria firma nell’apposito riquadro del Modello 730 o del Modello Unico della dichiarazione dei redditi e aggiungere il codice fiscale della Onlus «Amici dei Padri Bianchi», codice fiscale

93036300163

QUARESIMA DI FRATERNITÀ MISSIONARIA COME SOSTENERCI • Donazioni per i progetti dei missionari Indicare il progetto specifico o il missionario che si vuole sostenere oppure scrivere “donazione liberale pro missioni”. • Donazioni per l’assistenza dei padri anziani • 5x1000 ad Amici Padri Bianchi Onlus Non costa nulla! Basta indicare sulla dichiarazione dei redditi, modello 730 o modello unico, il codice fiscale della nostra Onlus: 930 363 001 63 • Sante Messe I Missionari d’Africa sono disponibili a celebrare sante Messe secondo le intenzioni degli offerenti. Usare il CCP allegato alla Rivista.

Tel. 0363 44726

Anche se il timore avrà sempre più argomenti, tu scegli la speranza. (Seneca)

africa@padribianchi.it

Intestare le offerte a : “Amici dei Padri Bianchi Onlus” tramite • Conto Corrente Postale n°9754036 • Bonifico bancario - IBAN: IT73 H088 9953 6420 0000 0172 789 • Assegno intestato a Amici dei Padri Bianchi • Online con carta di credito o Paypal dal sito www.missionaridafrica.org Per una dichiarazione per la detrazione fiscale scrivere a paolo@africarivista.it Eredità o lasciti I Missionari d’Africa, registrati a livello legale come Provincia italiana della Società dei Missionari d’Africa detti Padri Bianchi, possono essere aiutati e sostenuti anche con eredità o lasciti. Per informazioni scrivere a: economato@padribianchi.it

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