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Diari di Bordo

Imprevisti di viaggio...ovvero,

Quella volta che sono morta a New York di Valeria Merlini

Che mattina! Fa freddo più del solito. New York a gennaio può tirare brutti scherzi. Si passa dal freddo perforante in cui devi uscire intabarrata tanto da sembrare la sorella gemella dell’omino Michelin, alle giornate miti, in cui non è che proprio sudi, ma te la puoi godere. Per esempio puoi andartene per strada senza quegli orridi berretti di lana che certi turisti osano sfoggiare (ma che, a loro avviso, risultano perfetti per evitare le stilettate di vento gelido che spira dall’Hudson). Il colbacco che mi aveva prestato mia madre prima di partire, quello in visone nero, l’unica povera bestiola che ammettevo portabile (solo ed esclusivamente perché non avendolo sempre sotto gli occhi non me ne rendevo conto), era perfetto. Uscita dall’albergo, devo rincorrere Bubi che, al solito impaziente di fare colazione (ma ben più stufo di aspettare il mio quarto cambio d’abito), si è già infilato nell’abituale caffé all’angolo. Per la nostra per-nulla-leggera colazione: uova strapazzate con bacon per me, pancake con frutta fresca per lui, succo d’arancia, caffé. O la parvenza di un caffé. Ma non rimpiango certo il mio misero Nescafè italiano…

Programma della giornata definito. Prima un giro dalle parti di Wall Street con il Battery Park e la strizzatina di palle al toro…chissà mai che porti fortuna (quelle in galleria Vittorio Emanuele sono un vero pacco…). Poi le nostre strade si divideranno. Quella di Bubi verso Canal Street. La mia segnata da un

personale pomeriggio da favola. All’uscita del coffee shop mi rendo conto che il doppio paio di guanti oggi è d’obbligo. Il tempo di arrivare davanti alla borsa, scattare due foto, e siamo obbligati a rintanarci nel primo e più vicino Starbucks. Cavolo, non mi ricordo proprio un freddo del genere. Mai. Da nessuna parte. Qui si tratta di folate gelide, ma gelide vere, che non danno scampo. E le mie mani sono ormai insensibili. Tanto che tolti i doppi guanti e preso tra le mani il bicchierone di caffé bollente, il risultato è una sensazione orribile di bruciore. Che non passa. Incredibile, mi viene da piangere. Il solo pensiero di tornare là fuori è tremendo. Ma alla fine si esce di nuovo. Perché quando senti


che questa sarà la giornata giusta, allora trovi la forza dentro te stessa per affrontare quei -16°C che oggi hanno colpito la città. Me la ricorderò sicuramente, questa sensazione. E questa giornata. … Il taxi mi porta all’entrata di Saks, sulla Quinta. Quel Saks visto in tutti i miei film e letto in tutti i miei libri. Ora sono qui. E, cosa più importante, sono sola. Con a disposizione tutto il tempo che voglio. Non posso non trovare tra tutte quelle scarpe, ben 10022 paia a disposizione per una sola settimana, quelle che fanno per me. L’ascensore arriva all’ultimo piano. Non guardo nulla, testa bassa e prima di tutto operazione bagno. Prima la pipì. Poi posso non pensare più a nulla. Eccetto che a loro. Faccio finta di non aver visto tutte quelle donne che si accalcano sui vari divanetti. No, non guardare! Mi piacerebbe dilungarmi sui bagni che accolgono le clienti nei magazzini Saks, ma non c’è tempo.

Ad aspettarmi, loro. Scarpe, centinaia di scarpe, anzi migliaia, tra cui scegliere. A pensarci bene io odio queste cose. Sono così intime le mie svendite speciali per i giornalisti nei

vari uffici stampa milanesi, che qui mi viene quasi un mancamento. Tentenno. Troppe scarpe.

Bisogna avere metodo. Vado per settori. Balenciaga, Marc Jacobs, Dolce & Gabbana, Gucci, Alexander McQueen, Lauboutin, Dior…fino a loro. Nella loro esposizione perfetta le Blahnik, poi le Jimmy Choo. Passo da una all’altra indecisa. Chiedo il mio numero di queste e di quelle. Le provo, ma poi mi dico “Ma dove le indosserò mai?”. Metto giù. A malincuore. E passo oltre. Caovilla. … Caovilla. mi dice qualcosa… e poi le vedo. Delle René Caovilla, un unico paio, assolutamente giovani. Le provo.

Perfette. Le prendo. Appagata. Le voglio indossare subito. Fa un freddo cane fuori, ma devo metterle subito. Tanto torno in albergo in taxi. Oh! Come mi stanno bene. Oh! Come cammino bene. Esco. Sono al settimo cielo. Chiamo un taxi con la


mano senza guanto (non sento nemmeno più il freddo). Non si ferma. Scendo dal marciapiede per farmi vedere. Il tacco si spezza. Traballo. Barcollo. Infine cado in avanti. E, in quel mentre, sulla Fifth Avenue, quella dei film americani, quella dai cui tombini esce davvero il vapore, passa un taxi. Occupato da due donne che rientrano al loro albergo cariche di sacchetti di Saks. L’altro Saks. Con i loro acquisti. Con le loro scarpe perfette. Le mie non lo erano… Poi lo schianto. Accompagnato dallo stridio della frenata. Valeria Merlini


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