Calcio2000 n.241

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Bimestrale

LUG

diretto da Fabrizio Ponciroli

Calcio 2OOO

241 AGO

BE €8,00 | F €11,50 | PTE CONT €7,50 | E €7,50 | CHCT fch 8,50

prima immissione 01/07/2019

3,90€

intervista esclusiva ESCLUSIVA

Manolo Gabbiadini “Voglio far bene per conquistare l’Azzurro” intervista esclusiva ESCLUSIVA

ROBERTO DE ZERBI

“Studio per diventare un grande allenatore” leggende del calcio ESCLUSIVA

antonio conte

ALL’INTER

PER VINCERE

Andreas Brehme Il tedesco dell’Inter

Liverpool

I Reds sono nuovamente al top

Giganti del Calcio

Parlando con Gaizka Mendieta

SCUDETTIAMO

La Roma Campione d’Italia 1982/83

Speciale Golden Foot La storia di un premio regale


LOgo - WHITe

2019 PANINI - FORTNITE © 2019 Panini America, Inc. © 2019, Epic Games, Inc. Epic, Epic Games, the Epic Games logo, Fortnite, the Fortnite logo, in the United States of America and elsewhere. All rights reserved.

L’UNICA COLLEZIONE UFFICIALE

IN VENDITA IN EDICOLA


FP

UN CONTE PER IL REAME

D

opo aver atteso a lungo, forse troppo, l’estate è esplosa in maniera fragorosa. Un abbraccio torrido che surriscalda menti e cuori. Le vacanze sono un giusto premio. Ci si ricarica, in vista di una nuova stagione agonistica che ci accompagnerà verso Euro 2020. Onestamente non vedo l’ora che si ricominci. Da buon “tossicodipendente di pallone”, sono già in astinenza. Inoltre, quella che sta per arrivare, pare avere tutti i crismi della “stagione leggendaria”. La Serie A è tornata a pulsare. Tantissimi campioni hanno scelto di misurarsi con il calcio italiano. E, soprattutto, è tornato Antonio Conte. Non me ne voglia nessuno ma il rientro al Bel Paese dell’ex tecnico, tra le altre, di Juventus, Nazionale e Chelsea, è un “colpo da mille e una notte”. Sempre ritenuto che Conte sia uno dei tre migliori allenatori al mondo. Torna per una sfida clamorosamente complicata: spodestare dal trono la Vecchia Signora, il suo primo, grande, amore. Affascinante… Ci divertiremo, a prescindere dal proprio credo calcistico.

editoriale

Ponciroli Fabrizio

Nell’attesa, meglio godersi Calcio2000 e le sue tante storie di calcio. Il numero estivo si presenta ricco di goloserie. Lo speciale dedicato ad Antonio Conte era d’obbligo, così come un’analisi, dettagliata, sul perché il Liverpool si è consacrato Re d’Europa. Abbiamo poi fatto due chiacchiere con Roberto De Zerbi, tecnico in rampa di lancio che, ne siamo certi, farà tanta strada. Omaggio a Sergio Pellissier e divertimento assicurato con il deejay Gaizka Mendieta. Personalmente, mi ha sorpreso l’equilibrio di Manolo Gabbiadini, bomber al quale auguro di sfondare veramente (se lo merita). Spazio poi a succosi racconti. Dal Golden Foot (Calcio2000 sarà presente all’edizione 2019) alla Partita del Cuore, passando per icone come Andreas Brehme e Luigi Agnolin. Poi’ Poi basta, vi lascio alla lettura della vostra/nostra rivista! Rilassatevi il più possibile, datevi alla lettura, fatevi qualche tuffo o camminata che sia… All’orizzonte una stagione eccitante. Mi esalto sempre in estate ma, questa volta, credo che il fremito sia più che giustificato…

Non è l’uscire dal porto, ma il tornarci, che determina il successo di un viaggio

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SOMMARIO

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Calcio2OOO

Anno 22 n. 5 agosto/settembre 2019 ISSN 1126-1056

BOCCA DEL LEONE 6 LA di Fabrizio Ponciroli CONTE 8 ANTONIO SPECIALE

FOOT 50 GOLDEN SPECIALE

di Fabrizio Ponciroli

di Fabrizio Ponciroli e Sergio Stanco

Registrazione al Tribunale di Milano n.362 del 21/06/1997 Prima immissione: 01/07/2019 Iscritto al Registro degli Operatori di Comunicazione al n. 18246

EDITORE TC&C srl Strada Setteponti Levante 114 52028 Terranuova Bracciolini (AR) Tel +39 055 9172741 Fax +39 055 9170872 DIRETTORE RESPONSABILE Michele Criscitiello Diretto da Fabrizio Ponciroli Redazione Marco Conterio, Luca Bargellini, Gaetano Mocciaro, Chiara Biondini, Simone Bernabei, Lorenzo Marucci, Pietro Lazzerini, Tommaso Maschio, Lorenzo Di Benedetto.

Gabbiadini 18 MAnolo INTERVISTA ESCLUSIVA di Fabrizio Ponciroli

de zerbi 24 Roberto INTERVISTA ESCLUSIVA di Sergio Stanco

VIENNA 56 RAPID MAGLIE STORICHE di Gianfranco Giordano

64 MENDIETA GIGANTI DEL CALCIO di Fabrizio Ponciroli

PELLISIER 72 SERGIO EROI PER UN GIORNO di Sergio Stanco

BIELANOVIC 76 SASA DOVE SONO FINITI? di Daniele Perticari

DEL CUORE 30 PARTITA REPORTAGE di Fabrizio Ponciroli

34 LIVERPOOL SPECIALE di Luca Manes

1982/1983 80 ROMA SCUDETTIAMO di Patrick Inannarelli

silva 86 SanTIAGO L’ALFABETO DEI BIDONI di Stefano Borgi

BREHME 90 torino-cesena 40 ANDREAS LEGGENDE DEL CALCIO GARE DA RICORDARE di Luca Gandini

di Luca Savarese

AGNOLIN DA 46 LUIGI 98 SCOVATE GLI ASSI DEL FISCHIETTO CARLETTO

Hanno collaborato Sergio Stanco, Luca Manes, Luca Gandini, Davide Orlando, Gianfranco Giordano, Daniele Perticari, Patrick Iannarelli, Stefano Borgi, Luca Savarese, Carletto Nicoletti Realizzazione Grafica Francesca Crespi Fotografie Image Photo Agency, Agenzia Aldo Liverani, Federico De Luca, Mascolo/Photoview. Statistiche Redazione Calcio2000 Contatti per la pubblicità e-mail: media@calcio2000.it Stampa Tiber S.p.A. Via della Volta, 179 25124 Brescia (Italy) Tel. 030 3543439 - Fax. 030349805 Distribuzione Mepe S.p.A. Via Ettore Bugatti, 15 20142 Milano Tel +39 0289592.1 Fax +39 0289500688 Calcio2000 è parte del Network

di Davide Orlando

Il prossimo numero sarà in edicola il 10 settembre 2019 Numero chiuso il 27 giugno 2019



bocca del leone

la

Innanzitutto, grazie per i complimenti. Apprezzatissimi! Caro Maurizio, credo che sia sempre complicatissimo per un giocatore capire quando è giunto il mo-

» RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO

I VALORI NEL CALCIO

Ho 67 anni e ho sempre guardato calcio. Prima andavo allo stadio, poi ho iniziato ad andarci meno e a guardarlo alla televisione. Prima mi piaceva tanto perché c’erano valori forti nelle squadre. Gianni Rivera era una bandiera, Franco Baresi era una bandiera e lo è stato anche Paolo Maldini. Adesso guardo il calcio ma non voglio sapere i nomi dei giocatori del Milan, anche se mio nipote me le ripete sempre. Non li voglio sapere perché non sono giocatori con i valori forti che devono avere quelli che giocano nel Milan. Sono tutti finti. Tutti chiedono i soldi e pensano a dove andare a mangiare alla fine della partita. Paolo Maldini andava a casa sua quando il suo Milan perdeva. Non andava a ballare o festeggiare con un sacco di persone che magari non sanno neanche dove giochi. Il calcio lo guardo ancora ma mi manca il calcio di quando ero più giovane. Era più vero, con valori certi. Non è una questione di bandiere ma di valori. Gattuso ha deciso di andare via e ha fatto bene. Almeno lui sa di cosa sto parlando… Piero, mail firmata

mento di lasciare il campo, per sempre. Buffon è un ragazzo, anzi, un uomo intelligente. Sono certo che prenderà la decisione migliore. Ha sempre detto che non avrebbe mai giocato per fare figuracce e io credo che saprà cogliere l’attimo giusto per dire basta. FELICISSIMO PER CONTE MA… Direttore Ponciroli, sono un tifoso dell’Inter. Finalmente ci siamo liberati del complessato Spalletti e abbiamo preso Conte. Con lui si vince e vedere i tifosi bianconeri che rosicano non ha prezzo. Ho solo un dubbio su Icardi che non mi sembra affatto l’attaccante giusto per uno come

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BUFFON, RITIRATI Direttore, complimenti per la rivista. Mi piace come racconta il calcio. Si vede che ci mette passione e impegno. Io sono un tifoso della Juventus. Ero alla Partita del Cuore e ho visto giocare Gigi Buffon. Per me è stato il miglior portiere che abbia mai visto ma non capisco perché continua a giocare. Al PSG ha fatto fatica. Perché deve continuare? Non è forse meglio ritirarsi ora che è una leggenda? Secondo me deve trovare la forza di dire basta, anche se si sente ancora un giocatore. Maurizio, mail firmata

Conte. Lei che ne pensa? Chi potremmo prendere? A me piacerebbe anche Higuain. Andrea, mail firmata Caro Andrea, vedo che Spalletti ti è rimasto nel cuore. Ritengo che Conte sia il miglior allenatore che l’Inter potesse scegliere. Ha tutto quello che serve per “indirizzare” i nerazzurri verso la vittoria. Guarda, Conte sa far rendere ogni tipo di calciatore, l’importante è che sia disposto a seguire i suoi dettami. Se Icardi si metterà a disposizione con la giusta voglia, farà benissimo ma, in cuor mio, credo che Maurito, il prossimo anno, giocherà altrove. Higuain? Tutti possono rinascere con la cura Conte…


di Fabrizio Ponciroli

BRAVI A PARLARE DI CALCIO DONNE Mi chiamo Luciana e non scrivo mai a redazioni di giornali. Per caso ho avuto tra le mani Calcio2000 e ho letto l’intervista alla Boattin. Io gioco a calcio femminile, a livello amatoriale e sono contenta che ne avete parlato. Farete altro o è stato un caso? Il calcio femminile è vero, ve lo posso confermare io che lo pratico. Luciana, mail firmata

MAESTRO KLOPP? Caro Direttore, domanda secca: Klopp è così bravo come tutti dicono? Io ho visto la finale di Champions League e non mi è sembrato di vedere un Liverpool magnifico. È vero che chi vince ha sempre

ragione ma perché è il migliore secondo tutti? Giancarlo, mail firmata Caro Giancarlo, non so se Jurgen Klopp sia il migliore tra tutti i top allenatori, sicuramente è uno tra i primi della lista. La finale non è stata spettacolare (concordo) ma il Liverpool, per arrivare a giocarsela, ha disputato tanti grandi partite, non crede? Indubbiamente stiamo parlando di un tecnico dalle idee speciali…

GUIDA SERIE A 2019/20 Direttore, sono un fedelissimo lettore, sin dal primo numero. A settembre uscirà la Guida alla Serie A giusto? Ci tengo molto a quell’appuntamento, non mi dia brutte notizie Claudio, mail firmata Claudio, nessuna brutta notizia. Sul numero in uscita il 10 settembre, ci sarà la Guida Serie A 2019/20. Confermato!

» consigli per gli acquisti

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Luciana, non è stato un caso. Ho voluto personalmente parlare di calcio femminile. Credo che continuerò a farlo anche in futuro. Sempre stato convinto che sia uno sport vero, anche prima del successo che sta, giustamente, avendo.

BONIPERTI Per chi ama i colori bianconeri ma anche per chi è un vero appassionato di calcio. Un ritratto di Giampiero Boniperti, a firma Italo Cucci, Nicola Calzaretta e Salvatore Giglio. La storia, i racconti, gli aneddoti e le curiosità che hanno reso Giampiero Boniperti una leggenda della Vecchia Signora!!! 360 pagine da leggere tutte d’un fiato, con il supporto di 500 scatti fotografici d’autore. Edizioni Effedì.

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SPECIALE

Antonio Conte di Fabrizio Ponciroli

Antonio Conte si riprende la Serie A. La nuova sfida? Riportare l’Inter al top…

è TORNATO… PER VINCERE!

A

d aprile, Alessandro Cattelan aveva pronosticato un suo approdo in Germania, per l’esattezza al Bayern Monaco. Una scommessa persa (volentieri) dal conduttore di ECCP, illustre tifoso nerazzurro. Antonio Conte, infatti, ha scelto l’Inter. Corteggiato da mezza Europa, l’ex tecnico, tra le altre, di Juventus, Chelsea e Nazionale, ha deciso di riabbracciare la Serie A, tornando nel bel Paese. La sua nuova sfida? Riportare l’Inter al top, anzi, per essere più precisi, provare a sgambettare la Juventus, ossia il club che gli ha regalato, in passato, tante soddisfazioni. L’allenatore nativo di Lecce, in tutta la sua carriera, sia da calciatore che da allenatore, non è mai sceso in campo per partecipare o “fare bella figura”. A Conte interessa solo la vittoria, nient’altro. Neppure quando muoveva i suoi primi passi

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SPECIALE

Antonio Conte in periferia, ha mai accettato l’idea di “essere uno qualsiasi”. All’Arezzo, nella stagione 2006/07, agli albori della sua folgorante carriera, ha conosciuto anche il sapore, amaro, dell’esonero. Richiamato qualche mese più tardi dalla dirigenza del club granata, ha conquistato 24 punti in 10 gare, a conferma della sua incrollabile fiducia nei propri mezzi. A Bari lo ricordano tutti come un grande direttore d’orchestra. I Galletti della stagione 2008/09 sono ricordati come una squadra spumeggiante. Con Conte a guidarlo, gente come Gillet, Gazzi, Kamata, Stellini, Masiello, De Vezze e Barreto ha conquistato la massima serie. Una promozione storica, giunta l’8 maggio 2009, ossia

nel giorno della Festa di San Nicola: “È la vittoria del gruppo. Il momento topico? La vittoria in trasferta a Trieste. È una grande festa per la città e io che sono cattolico sono particolarmente felice che si possa festeggiare insieme la promozione e il patrono di Bari, San Nicola”, dirà un giovane e felicissimo Conte durante i pirotecnici festeggiamenti per la conquista della Serie A. Un leccese che porta in trionfo i baresi. Sembrava dovesse restare almeno un altro anno ma Conte è un uomo che adora rimettersi, sempre, in discussione. Così, a poche settimane dalla sua riconferma alla guida del club pugliese, fa le valigie. Vincenzo Matarrese, presidente del Bari, spiega così la rescis-

“La serie cadetta gli sta stretta. Cerca stimoli più forti. La Juventus è in un momento buio. Serve un “uomo forte” che non abbia paura di prendersi la responsabilità”

L’esperienza con la Nazionale è entusiasmante, il gruppo è tutto con lui

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LA GRANDE SFIDA

di Sergio Stanco

Antonio Conte e Maurizio Sarri raccontati da chi li ha conosciuti molto bene.

Ovunque è stato, è sempre diventato il leader del suo gruppo

sione da parte del “suo” tecnico: “Il successo l’ha cambiato. Il programma di Conte non ci convinceva. Non si può distruggere una squadra che ha vinto il campionato. E da presidente non voglio privarmi facilmente dei giocatori che con noi hanno fatto bene e a cui sono affezionato”, le sue parole alla Repubblica. I Galletti, senza Conte alla guida, resisteranno un solo anno nella massima serie. Intanto Conte se ne va a Bergamo. Prende il posto di Angelo Gregucci. Siamo a settembre. Inizia a spiegare il suo credo ma qualcosa non quadra. Il rapporto con Cristiano Doni, a quel tempo anima della Dea, è complicato. I due non si amano, arrivano ad un passo dal prendersi a cazzotti. La famiglia Ruggeri, proprietaria del club, non riesce a gestire la situazione. Conte, dopo la sconfitta interna con il Napoli, decide di lasciare: “L’ho fatto per il bene dell’Atalanta, non ho alcun rimpianto.

“Prendere Antonio come allenatore equivale a comprare un top player, quello che ti garantisce da solo 10-15 punti in più in classifica. Con lui l’Inter lotterà per lo Scudetto”. Parole e musica di Massimo Carrera, uno che Conte lo conosce molto bene, perché prima è stato suo compagno di squadra in campo, vincendo insieme praticamente tutto, e poi suo assistente in panchina (facendone addirittura le veci nel periodo della squalifica). “Ho conosciuto Antonio quando era giovanissimo: appena arrivato alla Juve mi sono immediatamente reso conto di quanto fosse pazzesca la sua voglia di arrivare, di emergere. Aveva una grinta e una determinazione fuori dall’ordinario, una leadership naturale. Ai miei tempi i capitani della Juve erano Baggio e Vialli, ma a lui non serviva avere la fascia al braccio per essere una voce importante dello spogliatoio. E da allenatore è lo stesso: non ha bisogno di alzare i toni per farsi seguire dai suoi calciatori. Ovvio, si arrabbia come tutti, ma ha una dote naturale e speciale che è quella di riuscire a trasmettere facilmente e immediatamente i suoi valori, la sua passione, i suoi principi. Quando arrivò alla Juve da allenatore ricordo ancora il suo primo discorso: pochi concetti, ma espressi in modo inequivocabile e deciso. Dopo quel discorso ho capito subito che i ragazzi si sarebbero buttati nel fuoco per lui. E così è stato. Si è creato un gruppo eccezionale, unito indissolubilmente, in grado di superare ogni avversità e senza nessuna gelosia. Chi stava fuori si sentiva coinvolto esattamente come chi veniva schierato tutte le domeniche, si metteva a disposizione della squadra e aiutava i compagni anche da fuori. È stato questo il segreto del successo di quella squadra: la vittoria dello Scudetto dopo due settimi posti consecutivi era difficile da precontinua a pagina 13

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SPECIALE

Antonio Conte Lascio una squadra in salute. Ieri qualcuno ha sbagliato, probabilmente anche io. Questa non è una macchia per la mia carriera, perché io i miei punti li ho fatti. L’unica macchia è quello che è successo con i tifosi. Auguro tutto il bene all’Atalanta e alla famiglia Ruggeri. Me ne vado anche per il bene loro, che non avranno il peso del mio ingaggio”. C’è chi pensa ad un suo ridimensionamento. Nient’affatto. Riparte, nell’estate del 2010, da

Credit Foto - Liverani

Siena, dove tutto era cominciato esattamente cinque anni prima. Grande cavalcata e seconda promozione “personale” in Serie A. La serie cadetta gli sta stretta. Cerca stimoli più forti. La Juventus è in un momento buio. Dopo Calciopoli, non si è più ripresa. Viene da due settimi posti in campionato che fanno ribrezzo alla famiglia Agnelli. Serve un “uomo forte” che non abbia paura di prendersi la responsabilità di provare a riportare la Vecchia

IL GUERRIERO

di Sergio Stanco

Nella sua carriera da calciatore Antonio Conte he vestito soltanto due maglie, quella della sua città natale, Lecce, e quella della Juventus, di cui è diventato capitano e simbolo. Cresciuto nel settore giovanile giallorosso, con il Lecce esordisce in Serie A nel 1986 in una gara casalinga contro il Pisa, quando ancora non ha 17 anni. Che sia un predestinato è evidente a tutti: nonostante non abbia le qualità tecniche da regista, fin da subito si distingue per corsa, grinta, capacità d’inserimento e anche doti acrobatiche fuori dall’ordinario. È il classico tuttocampista, come lo definiremmo oggi, o il giocatore box to box, come lo chiamano in Inghilterra. Capacità e abnegazione che non possono passare inosservate ad allenatori come Mazzone, che lo svezza a Lecce, e Trapattoni, che se ne innamora subito e lo porta a Torino. E’ il 1991 e da allora comincia la scalata di Conte ai vertici del calcio mondiale. Con la Juve, infatti, Antonio vincerà tutto il possibile: cinque scudetti, una Coppa Italia, quattro Supercoppe Italiane e una Coppa Uefa. Raggiunge l’apice della sua carriera quando riesce ad alzare al cielo di Roma la Champions League dell’edizione 1995-1996, l’ultima vinta dal club bianconero. A ricevere la coppa in quell’occasione fu Gianluca Vialli, che però al termine di quella stagione si trasferisce al Chelsea. Dall’anno successivo toccherà proprio ad Antonio Conte indossare la fascia da capitano della Juve e incarnarne i valori simbolo. Prima della fine della sua carriera riesce ancora a conquistare due scudetti, a sfiorare un’altra Champions League (sconfitta nel 2003 in finale col Milan ai rigori nella notte di Manchester, gara nella quale per altro colpisce anche una traversa di testa), a litigare con Mister Lippi per poi fare pace. Si ritira nel 2004, all’età di 35 anni, dopo 13 stagioni in bianconero e 295 presenze in campionato, 418 in totale e 43 reti all’attivo. Allo Stadium campeggia la sua stella, una delle 50 dedicate ai principali protagonisti della storia della Juve, quella stella che ora i tifosi bianconeri mettono in discussione per il suo “tradimento”. In Nazionale non è stato altrettanto fortunato, sebbene sia andato per due volte vicinissimo al traguardo: vicecampione d’Europa nell’Italia di Zoff in Olanda nel 2000 (“golden goal” di Trezeguet nei supplementari in una delle più clamorose beffe che il calcio italiano ricordi) e vicecampione del Mondo ad USA ‘94, quando l’Italia di Sacchi si arrese al Brasile solo ai rigori. Della Nazionale, poi, è diventato anche Commissario Tecnico, trascinandola fino ai quarti di finale di un Europeo, quello di Francia 2016, in cui la nostra Nazionale è stata probabilmente la sorpresa più bella. Ma questa è un’altra storia...

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Signora dove merita. Antonio Conte, da ex bianconero, accetta senza riserve: “Sono tornato a casa, dopo sette anni. Rientrare a Torino da allenatore era il traguardo che mi ero prefissato quando ho iniziato questa carriera”. In tanti gli danno del pazzo, certi che fallirà. Inaugura lo Juventus Stadium con una convincente vittoria sul Parma (4-1). Alla nona giornata, è già in testa al campionato. Chiude il girone d’andata, senza una sola sconfitta. Il 6 maggio 2012, sul neutro di Trieste, contro il Cagliari, si laurea Campione d’Italia con la Juventus (mantenendo l’imbattibilità): “Contento di aver riportato lo Scudetto a Torino. Bellissimo, incredibile anche perché inaspettato”. È l’inizio di una storia d’amore meravigliosa. Neppure la questione legata al filone del calcioscommesse (viene squalificato, alla fine, per quattro mesi e torna in panchina nel dicembre del 2012), distrae Conte dalla sua missione. La Vecchia Signora è tornata e fa incetta di trofei, almeno a livello italiano. Vince tre volte di fila il tricolore. La conquista del terzo Scu-

vedere, ma non posso dirti che mi abbia stupito, perché vissuta da dentro si aveva la chiara sensazione che stessimo facendo qualcosa di grande. E gran parte del merito è di Antonio, ovviamente”. La stima di Massimo Carrera è davvero infinita: “Con un allenatore così in panchina l’Inter può immediatamente ambire a competere con la Juve, non ho alcun dubbio in merito. I nerazzurri saranno protagonisti sia in campionato che in Champions League. Conte è forte, forte, forte, l’ho sempre detto, fin dal primo giorno di preparazione di quella prima stagione alla Juve. E col tempo è addirittura migliorato. All’Inter porterà la sua determinazione, la sua motivazione e la sua mentalità vincente”. Ma Conte non è l’unico top coach ad essere rientrato in Italia quest’anno. Anzi, l’ex tecnico della Juve se la dovrà vedere proprio con il suo ex club, che ha fatto ritornare nel nostro campionato un altro “big”. Quella contro Sarri si annuncia come una sfida ideologica e senza esclusione di colpi, anche perché ormai anche il tecnico toscano ha raggiunto lo status di “vincente”. E Massimo Carrera non ha dubbi che Sarri sia una scelta di livello assoluto: “Al Chelsea ha fatto benissimo e non era facile, visto che era al primo anno in un ambiente nuovo e un campionato a lui sconosciuto. Dopo qualche inevitabile difficoltà iniziale, con il tempo ha dimostrato di riuscire ad adattarsi ed è riuscito a farsi capire dai giocatori. Il suo lavoro è stato eccezionale e non sono io a dirlo, ma i risultati che ha conseguito”. A proposito di risultati: conta solo vincere o anche giocare bene? “Tutti vorrebbero vincere giocando bene, ovviamente, ma alla fine il risultato conta più di ogni altra cosa. Si può dire quello che si vuole, ma vincere è determinante perché nessuno si ricorderà mai del secondo classificato, ma solo di quello che arriva primo”. Conte e Sarri non si sono mai affrontati per il titolo, eppure i loro destini si sono incrocontinua a pagina 15

Al Chelsea, in due stagioni, ha conquistato Premier League e FA Cup

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SPECIALE

Antonio Conte detto è una galoppata impressionante: 102 punti conquistati in campionato (record europeo). Unico neo: la sconfitta, in semifinale di Europa League, contro il Benfica. Qualcuno arriva, sorprendentemente, a criticarlo ma la società non ha nessuna intenzione di privarsi della sua grande qualità. Lo riconferma per la stagione 2014/15 ma qualcosa sembra essersi incrinato nel rapporto tra Conte e la dirigenza bianconera: “Non si può mangiare con 10 euro in un ristorante da 100 euro”, afferma il tecnico, deluso dal mercato “non da Champions” che ha intenzione di portare avanti la società. E così, il 15 luglio, nonostante un contratto in essere, il tecnico leccese fa le valigie: “C’è stato un percorso in cui ho maturato delle sensazioni che mi hanno portato a questa decisione. Abbiamo fatto qualcosa di storico, facendo il record di punti e questo non ce lo toglierà nessuno”, spiega, alla Stampa, il diretto interessato. Un addio doloroso che non frena l’ambizione

Il terzo Scudetto con la Juventus, quello dei 102 punti

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di Conte. Smaltita la delusione, decide di accettare l’offerta della Nazionale. Circa un mese dopo viene ufficializzato il suo contratto biennale con l’Italia. L’impatto di Conte sull’ambiente azzurro è notevole. La Nazionale lotta, combatte, gioca. Nonostante l’assenza di grandissimi talenti, l’Italia di Conte si fa applaudire per il grande dinamismo e la coesione del gruppo. Ad Euro 2016, gli Azzurri vanno spediti. Buttano fuori la Spagna agli ottavi di finale. Nei quarti c’è la Germania che, solo ai calci di rigore, mette fine al sogno di Conte di vincere la rassegna europea. Soddisfatto del lavoro svolto, l’ex allenatore della Juventus è desideroso di tornare a lavorare quotidianamente. Ha bisogno di allenare un club, giorno dopo giorno, per soddisfare la sua sete di calcio: “Io penso che bisogna capire dove si è felici, so che farei molta fatica a stare in garage. Dopo la qualificazione agli Europei, a ottobre, sarà stata la gioia e il fatto di aver creato un gruppo di cal-


Instancabile, un vero lavoratore, sempre concentrato su come migliorare la squadra

ciatori affiatato sicuramente mi aveva riempito di soddisfazioni, è stato un periodo in cui ho valutato se c’era la possibilità di restare. Dopo sono passati altri quattro mesi ed è stata veramente dura senza far niente, a pensare ad altri due anni così, sinceramente ho avvertito una difficoltà”. Nel luglio del 2016, accetta le lusinghe di Abramovich e sbarca in Inghilterra. I media inglesi sono scettici. Ancora una volta, lascia tutti a bocca aperta. I Blues conquistano la Premier League. Il titolo inglese arriva il 12 maggio 2017, grazie alla vittoria, per 1-0, sul campo del West Bromwich. L’eroe è uno dei giocatori meno improbabili: Michy Batshuayi. È lui, deludente per tutta la stagione, a regalare ai Blues la Premier League e a fare di Conte il quarto italiano a trionfare sul suolo della Regina (dopo Carlo Ancelotti, Roberto

ciati in diverse occasioni: è stato proprio Sarri a ereditare la panchina di Conte al Chelsea, ma quella dei Blues non è stata la prima volta. Nel lontano 2006-2007 Antonio era alla sua prima esperienza da primo allenatore, l’Arezzo gli aveva dato fiducia dopo un anno da vice a Siena. Una pesante penalizzazione (6 punti) affligge i toscani all’avvio di quel campionato di Serie B, ma alla fine la retrocessione arriverà solo nel finale, dopo aver lottato strenuamente e proprio per mano della Juve, sconfitta in casa dallo Spezia. Ad ottobre, però, dopo un inizio complicato, Conte viene licenziato, salvo poi essere richiamato a marzo: nonostante ventiquattro punti conquistati nelle ultime 10 giornate, l’Arezzo retrocede in Lega Pro (ma senza la penalizzazione si sarebbe salvato). E sapete chi guidò l’Arezzo da ottobre a marzo? Già, proprio Maurizio Sarri. Il capitano di quell’Arezzo era Mirko Conte, ex tra le altre di Inter, Napoli e Sampdoria. “Per Conte era la prima panchina da “titolare”, ma arrivava ad Arezzo carico di grandi aspettative. D’altronde, con tutto quello che aveva vinto da calciatore, in molti gli pronosticavano una grande carriera anche da allenatore. Per molti giocatori dell’Arezzo era quasi un sogno essere guidati da uno come lui, uno che aveva vinto praticamente tutto. E fin dal primo giorno ha fatto capire subito chi comandasse, mostrava grande determinazione, anche a costo di essere un po’ rude. Ricordo che una volta arrivammo allo scontro: mi provocò al punto che reagii e ci trovammo faccia a faccia. Solo dopo ho capito che lo aveva fatto deliberatamente, per stimolare una reazione, perché in quel momento aveva bisogno di dare una scossa e un messaggio allo spogliatoio. È uno attentissimo ai particolari e anche quella discussione non fu assolutamente casuale. Alla fine, quell’annata non fu positiva perché siamo retrocessi, ma secondo me non fece assolutamente male per essere alla sua continua a pagina 17

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SPECIALE

Antonio Conte

LA Carriera dell’allenatore conte

La grinta di Conte è un vero e proprio marchio di fabbrica

Stagione Squadra Campionato % Vittorie Piazzamenti e Trofei 2006-2007 Arezzo Serie B 33,33 Esonerato (31/10/2006) Richiamato (13/03/2007) - 20° gen.-giu. 2008 Bari Serie B 39,13 Subentra (28/12/2007) - 11° 2008-2009 Bari Serie B 52,27 Promosso in Serie A - 1° set. 2009-gen.2010 Atalanta Serie A 21,43 Subentra (21/09/2009) Si dimette (7/01/2010) 2010-2011 Siena Serie B 50,00 Promosso in Serie A - 2° 2011-2012 Juventus Serie A 60,47 Vince Scudetto 2012-2013 Juventus Serie A 66,04 Vince Scudetto e Supercoppa Italiana 2013-2014 Juventus Serie A 74,55 Vince Scudetto e Supercoppa Italiana 2016-2017 Chelsea Premier L. 78,72 Vince Premier League 2017-2018 Chelsea Premier L. 54,24 5° - Vince FA Cup 2019-2020 Inter Serie A — ??? Totale carriera 57,95

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A Siena conquista la sua seconda promozione in Serie A

Mancini e Claudio Ranieri). Un altro capolavoro. Resta anche l’anno seguente e, nonostante tanti problemi all’interno del club, riesce, miracolosamente, a conquistare l’FA Cup (mandando al tappeto il Manchester United di José Mourinho), trofeo quotatissimo in terra inglese: “Ho dimostrato, anche in Inghilterra, di essere un vincitore seriale, nonostante le difficoltà”, rivela, gonfiando il petto, ai media di tutto il mondo.

“Conte è il quarto italiano a trionfare sul suolo della Regina (dopo Carlo Ancelotti, Roberto Mancini e Claudio Ranieri)”

prima esperienza. A volte, semplicemente capita che le cose non vadano per il verso giusto. Secondo me la penalizzazione è stata un fardello troppo pesante. Nonostante tutto, comunque, siamo andati ad un passo da una salvezza che sarebbe stata miracolosa per tutte le difficoltà patite in quella stagione”. Neanche Maurizio Sarri riuscì ad invertire la rotta, ma anche di lui Mirko Conte ha ricordi molto positivi: “Sono due allenatori simili, che curano in maniera maniacale tutti i particolari. Con il tempo probabilmente entrambi hanno smussato un po’ il loro carattere: Conte era davvero tosto, Sarri un po’ troppo integralista. Ricordo che non amava le scarpe colorate e chiese al magazziniere di colorarcele tutte di nero. Mi fece prendere la multa dallo sponsor (ride, n.d.r.). Questo per dire quanto fosse rigoroso su certi aspetti. Credo che a parità di livelli tecnici, Conte possa realmente fare la differenza, ma da solo non può colmare il gap. Non ho dubbi, invece, che Sarri riuscirà a fare bene anche alla Juve, facendole esprimere il suo calcio, ma per me i bianconeri giocavano bene anche con Allegri. Per vincere la Champions, però, servirà anche un po’ di fortuna, quella che ad Allegri nei momenti decisivi è mancata…”.

I rapporti con la società sono ai minimi termini. Inevitabile, nonostante i due, prestigiosi, trofei conquistati in due stagioni, l’esonero che arriva, puntuale, il 13 luglio 2018. Dopo 13 anni, sempre con il piede sull’acceleratore, Antonio Conte si prende un anno sabbatico. In tanti lo tentano ma lui resiste, fino alla chiamata dell’Inter. Troppo stuzzicante l’idea di prendere la Beneamata e riportarla al successo… Una nuova sfida, forse la più difficile, sicuramente la più intrigante! Conte è tornato e lui sa solo vincere…

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i s u l c s e a t intervis Manolo Gabbiadini di Fabrizio Ponciroli

Alla scoperta di Gabbiadini, attaccante della Sampdoria con una predilezione per i gol che fanno storia‌

SEMPLICEMENTE MANOLO 18


M

anolo Gabbiadini è uno di quei giocatori che non finiscono spesso sotto i riflettori. Eppure, se vai a spulciare tra le statistiche, noti che è uno che sa far gol e, soprattutto, ha un certo feeling con le reti cosiddette pesanti (chiedere ai tifosi del Southampton per conferma e a chi c’era al Derby della Lanterna del 2014). Lo abbiamo raggiunto per farci raccontare la sua già lunga e intrigante carriera. Manolo, torniamo indietro nel tempo. Primi ricordi legati al pallone? “Mi ricordo di quando ero sul divano e mio padre, che faceva il portiere, mi lanciava la pallina e io mi impegnavo a parare. La passione di calcio era di casa, andavo a vedere spesso giocare mia sorella a calcio, quindi era inevitabile che il pallone fosse presente nella mia vita da bambino”. Quindi avresti voluto fare il portiere? “Sì, mi sono anche presentato come portiere… Mentre aspettavo per il provino, mi hanno detto di calciare il pallone. Calciavo forte e quindi, anche perché come portieri erano a posto, mi hanno messo a giocare in attacco”. Chi era il tuo idolo da ragazzino? “Ho cercato di prendere qualcosa un po’ da tutti i campioni dell’epoca. Direi che Ronaldo, il Fenomeno, è quello che mi piaceva di più”. Quando hai capito che il calcio, oltre ad essere una grande passione, poteva diventare la tua professione? Forse all’esordio con la maglia dell’Atalanta? “No, non all’esordio. In quel periodo lavoravo ancora in officina proprio perché c’erano tanti ragazzi che magari venivano convocati ma poi non avevano modo di proseguire a certi livelli. Forse ho iniziato a capire che potevo fare il calciatore professionista dopo il prestito al Cittadella e il rientro all’Atalanta in A”. Bologna, quindi, è stata una tappa importante per la tua crescita… “Assolutamente sì. Ho trovato un ambiente eccezionale. Ho avuto modo di giocare con

continuità e mi è servito molto. Sono cresciuto tanto a Bologna”. A tal punto da essere chiamato dalla Sampdoria… “Altro momento importante. Arrivavo in una squadra in cui c’erano giocatori di qualità ed esperienza come Obiang, Palombo, Gastaldello e tanti altri. Sono stato accolto benissimo”. Fai benissimo soprattutto quando, alla Sampdoria, arriva Mihajlovic… “Vero, sono stati sei mesi eccezionali, in cui ho giocato tanto e segnato diversi gol. Mihajlovic è un tipo diretto che ti dice sempre quello che pensa in faccia, anche se può essere qualcosa di spiacevole. Mi sono trovato benissimo con lui”. Da ricordare anche il gol nel Derby della Lanterna… “Un gol indimenticabile, gol che è valsa la vittoria. Un momento da ricordare”. Da Mihajlovic a Benitez al Napoli… “Un grandissimo allenatore. Nonostante avesse vinto tanti trofei e allenato giocatori pazzeschi, trattava tutti allo stesso modo. Ti faceva sentire importante, davvero un grandissimo gestore di persone”. Molto diverso da Sarri che hai avuto come allenatore sempre a Napoli… “Sarri guarda più al campo, è bravissimo a preparare le partite. È un maestro della tattica, su questo non ci sono dubbi”. Nel gennaio del 2017 decidi di trasferirti in Premier League… “È stata una scelta di vita. Mi sono trasferito con la mia famiglia. Nuovo calcio, nuova città, nuova cultura. È stato un altro passo importante nella mia carriera (Manolo è assistito da sempre da Silvio Pagliari, n.d.r.). Mi ha formato tantissimo l’esperienza in terra inglese. Sono grato della possibilità che ho avuto”. Beh, qualche gol pesante l’hai segnato. Come i due gol al Manchester United di Mourinho… “Arrivare e, dopo un mese, giocare una finale, a Wembley, contro lo United di Mourinho è sta-

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INTERVISTA

ESCLUSIVA

Manolo Gabbiadini to incredibile. Ho fatto anche doppietta, peccato non averla vinta. Ma è stato bellissimo. I due gol, ogni tanto, me li rivedo sullo smartphone”. I tifosi dei Saints ti amano ancora tantissimo, anche per il gol salvezza nella stagione 2017/18… “Sì, è vero. Non è mai mancato il loro appoggio. Ancora oggi mi scrivono sui social e io li ricordo con affetto”. Che differenze hai trovato tra calcio italiano e calcio inglese? “L’atmosfera del calcio inglese è favolosa. Non è solo per gli stadi ma per come vivono il calcio. Poi, a mio avviso, gli arbitri concedono di più rispetto ai nostri. Il gioco è meno spezzettato. Nessuno penserebbe mai di buttarsi per perdere tempo, non è nella loro cultura. Da noi c’è più tattica. Diciamo che, in Inghilterra, è un calcio molto da uno contro uno, da noi è più da 11 contro 11”. Tutto bene, anche a livello di cibo in Inghil-

Gabbiadini è amatissimo dai tifosi dei Saints

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Impegnarsi con il club per riconquistare la maglia della Nazionale

terra? “Diciamo che abbiamo iniziato a cucinare molto in casa. Grazie a quell’esperienza, sono diventato anche un po’ cuoco”. Esperienza in Premier, poi la Sampdoria investe nuovamente su di te… “(Ride, n.d.r.) Significa che qualcosa di buono l’ho fatto, se no non mi avrebbero cercato… È stato bello tornare, conoscevo l’ambiente, la città. Non ho avuto dubbi a scegliere, nuovamente, la Sampdoria”. Una buona annata, peccato per la mancata qualificazione in Europa… “Ci siamo andati vicini. Abbiamo sbagliato due partite e l’abbiamo pagata cara. Comunque abbiamo fatto una buona stagione e l’esperienza ci aiuterà il prossimo anno, dove contiamo di fare ancora meglio”. Che mi dici di quel ragazzino di 36 anni di nome Quagliarella? Ha fatto qualcosa di irripetibile quest’anno… “No, irripetibile no, perché credo che possa anche rifarlo. È un giocatore fortissimo. L’ho conosciuto e devo dire che, oltre ad essere un


IL GOL ALLO SWANSEA I tifosi dei Saints non dimenticheranno mai lo “striker” Gabbiadini. Recentemente, l’attuale bomber della Sampdoria si è complimentato con la sua ex squadra per la permanenza nella Premier League. Un tweet che ha generato una serie di commenti colpi di dolci parole per l’ex attaccante che, circa un anno fa, si è reso protagonista del “gol salvezza”. La memoria va a Swansea-Southampton dell’8 maggio 2018 (recupero della 31° giornata di Premier League, gara determinante per i Saints, obbligati a vincere per evitare guai seri (leggi retrocessione). Al Liberty Stadium c’è tanta adrenalina, in campo e sugli spalti. Le due squadre sono a pari punti, si giocano la permanenza nella massima serie inglese. Il match non si sblocca. Gabbiadini è in panchina, non sta attraversando un momento di grande forma. Al 68’, il bomber italiano viene mandato in campo al posto dell’infortunato Bednarek. Il tecnico Hughes gli chiede di dare il massimo per aiutare i suoi compagni. Dopo circa 4’, Gabbiadini, in mischia, trova il guizzo che vale il gol vittoria, anzi, per essere chiari, il gol salvezza. Con i tre punti conquistati, i Saints si staccano dai gallesi, condannandoli alla retrocessione: “È stato un gol importante che ha fatto felice tutti i tifosi del Southampton. Lo ricordo con grande felicità. C’è stata una grande festa negli spogliatoi nel post partita”, ci conferma l’autore del “gol salvezza”. Anche quella rete è sullo smarthphone di Manolo… Ogni tanto fa bene rivederlo!

grandissimo attaccante, è anche una stupenda persona”. E di Giampaolo cosa puoi dirmi? “Ha caratteristiche simili a Sarri. Cura molto i dettagli, prepara le partite con grande attenzione. Sai cosa devi fare in campo con Giampaolo”. E di questa Juventus invece? Perché domina da otto anni? “Perché è super organizzata e ha uno zoccolo duro di campioni che sanno come vincere. Ora ne ha persi un po’ per strada. Se ne sono andati Buffon e Barzagli ma, con i vari Chiellini e Bonucci, direi che sono a posto”. Poi hanno anche il marziano… “(Ride, n.d.r.). Eh sì, c’è poi il fattore CR7 che incide parecchio…”. A parte il calcio, che sport segui? “Mi piace molto il tennis”. Sei più fan di Federer, Nadal o Djokovic? “A me piace Nadal perché è un leone. Non molla mai, va sempre oltre i propri limiti. Poi, ovvio, non si può discutere il talento di Federer che, di fatto, è il Messi del tennis”. Mi dicono che sei anche appassionato di NBA…

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INTERVISTA

ESCLUSIVA

Manolo Gabbiadini

ADIDAS PUNTA SULL’AGILITà… Adidas Football ha presentato il futuro del calcio giocato sull’agilità: le nuove NEMEZIZ 19. L’evoluzione della leggenda prevede una serie di innovazioni ottimizzate, per offrire agli artisti del pallone prestazioni rivoluzionarie e un’agilità a trecentosessanta gradi. NEMEZIZ 19 è pensata appositamente per i calciatori più scattanti e multidirezionali, che non amano la prevedibilità e vogliono battere gli avversari a colpi di talento, giochi di gamba e dinamismo. La rivoluzionaria struttura della tomaia di NEMEZIZ 19 coniuga tensione, torsione e compressione sia dal punto di vista visivo che funzionale. Tutte caratteristiche che portano la partita a un nuovo livello, rendendo possibili movimenti mai visti prima in campo. Il sistema TENSION TAPE di adidas si basa su una nuova trama e composizione, per garantire un’aderenza senza precedenti al piede. Il nastro si adatta massimizzando l’agilità e l’accelerazione, per cambiare direzione più rapidamente ed essere sempre in vantaggio sugli avversari. Grazie al nuovo collo a V nastrato, la scarpa è facilissima da infilare e avvolge perfettamente la caviglia senza limitarne il movimento. La suola divisa e la tecnologia TORSION SYSTEM integrata, progettata per sopportare torsioni estreme, mantengono la centratura e l’equilibrio del corpo, indipendentemente dall’aggressività del movimento. NEMEZIZ 19 rientra nel nuovo pack 302 REDIRECT, insieme ai restyling di PREDATOR, COPA e X. L’ultima versione della storica collezione NEMEZIZ è formata da tomaia rosso elettrico, intersuola bianca, tacchetti rossi e tre strisce argentate sul tallone. La schiera di estimatori di NEMEZIZ annovera nomi quali Messi, Isco e Firmino, che indosseranno personalmente il modello. NEMEZIZ 19 è DISPONIBILE negli store e online.

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IL GOL AL genoa L’abbiamo detto. Gabbiadini è uno di quegli attaccanti che ha il senso del drama. Adora segnare gol pesanti che restano, per sempre, nella mente dei tifosi. A Genova, se segni in un Derby della Lanterna, entri in un ristretto club di eroi. Se poi segni un gol decisivo, di fatto, diventi una leggenda. Gabbiadini, il 28 settembre del 2014 (giorno in cui va in scena il Derby della Lanterna numero 109), ha indossato i panni di Superman. Suo il gol, su punizione (al 75’), che trafigge Perin, mandando al tappeto il Grifone, regalando il Derby alla Sampdoria. Tutti felici, tutti a fare i complimenti “all’uomo Derby”: “Nella ripresa siamo venuti fuori meglio noi e la rete di Manolo è stato un giusto premio alla nostra voglia di vincere. Non voglio dire che il risultato sia giusto, poteva finire in pari ma noi ci abbiamo creduto di più e nel calcio questo alla fine conta”, dichiara, in mix zone, un euforico Mihajlovic, allenatore della lanciatissima Sampdoria. Festeggia anche il presidente Ferrero: prima stracittadine e subito un successo, nel segno di Manolo. “Chiaramente è stato, ad oggi, il gol più importante in maglia blucerchiata. Segnare in un Derby della Lanterna è qualcosa di unico. Provi delle sensazioni che, a parole, non puoi descrivere”, ricorda lo stesso Gabbiadini.

“Vero, sono andato anche a vedere delle partite. Ho visto una gara delle NBA Finals a Miami e una gara tra Knicks e OKC quando nei Thunder giocava ancora Durant. Bellissimo vedere dal vivo l’NBA, sembra un grande circo. Sono un fan di Lebron James. Se lo incontrassi, gli chiederei l’autografo. Mi piacerebbe anche, se potessi, avere l’autografo di Alex Zanardi, un altro che stimo moltissimo”. Ma ora sono i Golden State Warriors a dominare… “Sì, ma io sono più per Lebron… Ai Warriors ci sono troppi campioni tutti insieme, preferisco

uno come Lebron che, da solo, ha fatto vincere il titolo ai Cavs”. Come siamo messi a film? “Prima li guardavo spesso, ora con i bimbi (è da poco nato il secondogenito Nicolò, n.d.r.) è dura. Comunque mi è sempre piaciuto, come film, Alla ricerca della felicità”. Mare o montagna? “Mare ma non disegno qualche giorno in montagna per rilassarmi”. Il prossimo anno ci saranno gli Europei. Speri in una chiamata dal CT Mancini? “La Nazionale è un mio obiettivo. Io devo pensare a far bene con la Sampdoria poi, se il CT dovesse chiamarmi, sarei felicissimo ma io devo pensare a far bene con il mio club”. Hai fatto da testimonial per il lancio di un nuovo progetto di educazione finanziaria chiamato “Next Life”. “Sì è un progetto del mio amico e consulente finanziario Michele Scarpeccio, rivolto a tutti gli sportivi professionisti, uomini e donne. Il motto è “costruisci oggi il tuo domani”: è fondamentale gestire bene i propri guadagni prima che sia troppo tardi, per affrontare il futuro con serenità e per non ritrovarsi in difficoltà nel post carriera”. Un ragazzo umile, sincero e con tanta voglia di fare al meglio il proprio mestiere. Gabbiadini è un giocatore vero, di quelli che ogni allenatore vorrebbe nella propria rosa. Brava la Sampdoria a credere in lui…

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I S U L C S E A T INTERVIS Roberto De Zerbi di Sergio Stanco

Una bella chiacchierata con Roberto De Zerbi, tecnico del Sassuolo nonché il più giovane allenatore della Serie A.

MISTER DIVERTIMENTO

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“H

ai presente quando vai al parchetto e vedi i bambini giocare a calcio? Cosa succede? Tutti corrono dietro al pallone. È normale, il bambino si diverte quando il pallone ce l’ha, non quando non ce l’ha. Per me da calciatore era lo stesso. E da allenatore, oggi, è uguale: mi diverto quando la mia squadra controlla il gioco, non quando lo subisce”. Inizia così la nostra chiacchierata con Roberto De Zerbi, tecnico del Sassuolo e allenatore più giovane di tutta la Serie A con i suoi soli 40 anni, al quale molti, però, preconizzano già un radioso futuro. Non a caso, per tanti critici Roberto è la massima espressione del Guardiolismo in Italia, anche se lui sfugge alle etichette e alle classificazioni: “Non ho un modello di allenatore, io studio calcio: ho apprezzato il Barcellona di Guardiola, così come il Bayern di Heynckes, ma anche il Borussia Moenchengladbach di Favre (che oggi allena il Borussia Dortmund, n.d.r.), la Germania che ha vinto il Mondiale. Guardo ovviamente ai colleghi che interpretano il calcio come piace a me, non necessariamente come poi lo faccio io: ad esempio, io e Gasperini non siamo uguali, ma guardare giocare l’Atalanta mi diverte tantissimo. Apprezzo anche Giampaolo e le sue squadre, così come ho trovato spunti interessanti nella Fiorentina di Paulo Sousa. Tutte squadre che giocano al calcio”. D’altronde, i non più giovanissimi si ricorderanno quanto bravo fosse a giocare al calcio il De Zerbi giocatore, anche se alla fine forse la carriera non gli rende merito. Ma il Roberto calciatore troverebbe spazio nella squadra di Mister De Zerbi? “Almeno per certi aspetti sì, ma sarebbe dura trovarsi dal punto di vista caratteriale. Io litigo ancora con me stesso, figuriamoci con il me stesso di vent’anni fa (ride, n.d.r.).

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ES INTERVISTA Roberto De Zerbi

Tuttavia, adoro i giocatori di qualità: più ne ho più sono contento, quindi in questo senso ci starebbe benissimo in una mia squadra. Poi, in ogni gruppo servono quelli di personalità, e a me quella non mancava. Ero un po’ rompiballe, quello sì, per questo dico che la convivenza non sarebbe facile. Al tempo ragionavo già da allenatore, andavo dal mister e gli dicevo come secondo me dovevo ricevere la palla, come dovevano muoversi i compagni. Una piaga. Allora quella “pesantezza” era fuori luogo, oggi l’ho trasformata in un punto di forza del mio lavoro”. Oggi quella maniacalità porta Roberto a macinare chilometri e osservare calcio a tutte le latitudini: “Mi piace guardarmi in giro, conoscere quello che inevitabilmente non posso conoscere e vedere se è compatibile con la mia idea di calcio. Guardo a tutti quegli allenatori che giocano un calcio offensivo: stimo

Qualcuno definisce De Zerbi il “Guardiola italiano”

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IL “ROMPIBALLE” De Zerbi nasce a Brescia nel 1979 e delle Rondinelle è un grandissimo tifoso, da sempre. Come tutta la sua famiglia d’altronde. Per questo quando nel 2008 riesce a vestire quella maglia (seppur per soli pochi mesi) raggiunge probabilmente l’apice della sua carriera. In realtà, però, il suo percorso era iniziato con grandissime aspettative: fin da quando calca il campo polveroso dell’oratorio di Mompiano si vede subito che il piccolo Roberto ha qualità fuori dall’ordinario, una classe sopraffina e l’intuito dei grandi fantasisti. Se ne accorge il Milan, che lo inserisce nel suo settore giovanile e lì lo fa crescere fino al ’98. Poi una serie di prestiti con poche luci e tante ombre, fino al colpo di fulmine: nel 2002 a Foggia De Zerbi incontra il suo “mentore” Pasquale Marino, con lui vince il campionato di C2 e instaura un rapporto eccezionale che dura ancora oggi. Con Marino va ad Arezzo e poi a Catania, con il quale conquista finalmente la Serie A. In realtà “Luce”, così veniva soprannominato per la sua incredibile visione di gioco, non giocherà mai la A col Catania, perché arriva la chiamata irrinunciabile del Napoli in B, che gli propone un quinquennale. Le cose però non vanno come Roberto sperava e nel arriva 2008 il prestito al Brescia di cui parlavamo in precedenza. Da lì in avanti ancora un prestito ad Avellino, poi l’esperienza in Romania con il Cluj, con cui vince due campionati e una coppa nazionale in due anni. Infine, il rientro in Italia, ancora un anno a Trento in Serie D prima del ritiro a soli 33 anni. Prematuro, forse, o solo propedeutico alla sua nuova carriera. Probabilmente, considerate le eccezionali qualità tecniche, da calciatore Roberto ha raccolto meno di quanto fosse lecito attendersi, da allenatore le prospettive di Mister De Zerbi sono altrettanto importanti. Chissà che in panchina non si riprenda, con gli interessi, quanto lasciato sul terreno di gioco. D’altronde, come lui stesso ci ha detto, essere rompiballe in panchina non è un difetto.


Bielsa, ad esempio, anche se sono lontano dalla sua idea. Uno che mi ha davvero impressionato è Roger Schmidt, ex Bayer Leverkusen che ora allena in Cina: ricordo una partita in Europa League, 3-0 Bayer Leverkusen primo tempo, 4-3 per l’Ajax il finale. Nonostante il vantaggio di tre gol, pressione non altissima, di più, andava a pressare anche il capo-tifoso avversario nella curva opposta (sorride, n.d.r.). In un’amichevole contro il Bayern di Guardiola ricordo Pep che guardava il Bayer Leverkusen con una faccia come a dire: “Ma chi allena ‘sta squadra?”. Un calcio offensivo quasi “folle”. Bellissimo da vedere, eh, ma non sempre pratico ed efficace. Io dico sempre che se esci in pantaloncini e piumino c’è qualcosa che non va, non può funzionare. Devi sempre essere coerente”. E qui si torna alla teoria, alla filosofia: “Filosofia è una parola grossa, io parlo sempre di un’idea di base sulla quale poi si stratificano tutte le altre. Una propensione, un indirizzo ci devono essere e devono essere chiari a tutti, altrimenti poi nessuno ti segue. Come dicevo prima, il mio principale obiettivo è il divertimento: mio, dei miei ragazzi, del pubblico allo stadio e di quello che ci guarda da casa. Il calcio è uno spettacolo, nessuno guarda uno spettacolo brutto. E qui torniamo a quanto dicevamo in precedenza, secondo me è più facile divertirsi e divertire se il pallone ce l’hai tu, perché puoi determinare gli eventi, è più facile arrivare al risultato e dunque essere gratificati. Non è un qualcosa che mi sono costruito nel tempo, per me è sempre stato così. Credo che il modo di impostare il lavoro da parte di un allenatore, e come poi questo si sviluppi, dipenda semplicemente dal proprio carattere, dalle opinioni, dalle esperienze passate, da quello che uno è. Poi sei tu che trasformi tutto questo in quello che vuoi”. E il modo di approcciare il lavoro da parte di De Zerbi è davvero originale, da una parte maniacale, dall’altra anche “social”. Il De

A soli 40 anni De Zerbi è già considerato un predestinato

Zerbi allenatore è anche frutto del suo tempo, giovane, tecnologico, che non ha paura di condividere: “Non sono geloso delle mie idee, tanto sono sicuro che nessuno riuscirà a svilupparle come lo faccio io. E questo non per arroganza, solo perché sono mie. Vale anche per me: io non riuscirò mai a replicare le idee di qualcun altro, posso studiarle, cercare di applicarle al meglio, ma finirei comunque per personalizzarle. Adoro il mio lavoro, a volta pure troppo, quando comincio a parlare di tattica o di calcio in generale non smetto più. L’altro giorno avevo bisogno di capirne di più su un accorgimento tattico, sapevo che Mister Giampaolo lo utilizzava da tempo, così l’ho chiamato per chiedergli qualche consiglio: bene, siamo stati più di un’ora al telefono. Mi capita spesso di condividere idee, tattiche, riflessioni con altri allenatori, come ad esempio Mandorlini e Pa-

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CLUSIVA

ES INTERVISTA Roberto De Zerbi

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De Zerbi è un allenatore moderno, con idee decisamente innovative

squale Marino, due miei ex tecnici ai quali sono rimasto legato, e non avrei problemi a farlo anche con altri colleghi, perché non ci vedo nulla di male. Per due ragioni: sono il più giovane, dunque è normale che non abbia l’esperienza degli altri, e di questo non me ne vergogno, e poi perché non trovo che chiedere consigli ad altri allenatori sia per me denigrante. Le cose che non conosco voglio impararle e la strada più facile per riuscirci, è farmele spiegare da chi ne sa più di me. Io non so se altri allenatori facciano lo stesso, ma a me piace condividere con quelli che stimo e che ovviamente sono disponibili a fare altrettanto. E fortunatamente qualcuno che non sia geloso dei suoi “segreti” l’ho trovato (sorride, n.d.r.)”. E allora parliamo anche noi un po’ di tattica: “Non ho moduli predefiniti o preferiti, non sono un dogmatico, ovvio che puntando su due terzini che spingono, due mezzali, due ali e un play basso, il 4-3-3 è lo schieramento che ho usato di più nella mia pur breve carriera. Tuttavia, non sono un integralista e non escludo che in futuro troverò un altro modulo che si adatti meglio alla qualità dei giocatori di cui dispongo, sempre rispettando la filosofia di calcio propositivo ed offensivo di cui parlavamo prima. Mi piacciono particolarmente i giocatori tecnici, quelli in grado di creare superiorità numerica, sono quelli che ti spostano l’equilibrio. Solo che non puoi fare la classifica, perché i calciatori sono tutti diversi: è come una casa, ti servono gli architetti, i geometri, i muratori, i tecnici. Se porti tutti i geometri e nessuno si sporca le mani non vai da nessuna parte. Non mi piace il giocatore che fa tutto, il calciatore deve fare il suo. Così come i giocatori sono diversi nello spogliatoio: nella mia rosa, ad esempio, ho Matri e Odegaard, uno ha 35 anni, ha giocato in grandissime squadre e ha vinto scudetti, l’altro ne ha 20 e si affaccia oggi al grande calcio, non possono essere uguali. Nella mia valutazione tecnica si equivalgono, ovviamente, ma poi quando devo prende-


re decisioni devo rispettare anche il loro passato, non posso prescindere da quanto mi possano dare anche a livello caratteriale e d’esperienza”. Sarà anche giovane il De Zerbi allenatore, ma non si può dire che non abbia le idee chiare: “Vado fiero della passione per questo mestiere, del tempo che ho gli ho dedicato, e che continuo a dedicargli quotidianamente, e alla coerenza che ho avuto rispetto alla mia idea, senza cambiarla neanche nei momenti più difficili: perché applicare un calcio offensivo a Foggia da primo in classifica era una cosa, farlo a Benevento da ultimo è inevitabilmente diverso. Sono passato come un esaltato all’inizio, perché cercavo di giocare a calcio contro chiunque e ovviamente qualcosa abbiamo pagato. È lì, in quelle situazioni che devi avere le palle anche nel cervello, perché in mezzo alle gambe le abbiamo tutti. A me piace stare sotto pressione, io ascolto, m’incazzo, mi carico, sono un vendicativo, adoro mettere a tacere le critiche. Ho una grande fortuna, non ho mai messo in dubbio la mia idea, l’ho adeguata, modificata, smussata, ma mai cambiata, perché è quella che mi rappresenta. La mia idea sono io, dunque non dovevo sforzarmi per difenderla, perché fa parte di me. Non è questione di essere sicuri di sé, ma di essere sempre se stessi, vai avanti con la tua idea perché sei tu. Il martedì, quando arrivavamo a sei-sette sconfitte consecutive, alla squadra dicevo: abbiamo fatto così, non è andata bene ma non perché non funziona l’idea, perché evidentemente non è bastato, dobbiamo solo raddoppiare gli sforzi”. Non è difficile, dunque, capire da che parte si schieri il De Zerbi allenatore nella diatriba tra quelli che puntano al gioco e quelli per cui, viceversa, conti solo il risultato: “Chi dice che conta solo vincere, poi - però - deve anche dare la ricetta. Se me la dà, io la seguo.

Se mi assicura che si vince sempre, io la applicherò senza discutere. Ma non c’è una ricetta, semplicemente perché vincere è il fine, e su questo ci siamo, ma poi bisogna capire come arrivarci a quell’obiettivo. Nell’arrivare alla vittoria, c’è anche da fare una scelta: c’è chi sceglie l’episodio, chi i grandi giocatori, chi la forza, chi decide di difendersi in braccio al portiere e giocare in contropiede, chi cerca di dare un’organizzazione precisa. Di sicuro tutti hanno un elemento in comune, che è la qualità dei giocatori, perché senza quella non si vince di certo, qualsiasi idea di calcio tu abbia. La cosa più importante è riuscire a far esprimere i tuoi calciatori al massimo: se qualitativamente sono superiori e tu riesci a farli esprimere al meglio, allora vinci. Per farli rendere al meglio, però, c’è l’organizzazione, l’aspetto psicologico, la connessione con i compagni e tante altre cose. Ed è questo il bello di questo mestiere, che non finisci mai di imparare e di cercare quella ricetta che ti rappresenta al meglio”. Lo lasciamo così, Roberto, assorto nei suoi pensieri. Ci stringe la mano, ma c’è tempo per un’ultima domanda, quasi “off record” come si dice in gergo. La risposta, però, gli esce talmente spontanea che è impossibile non riportarla: “Quando ho cominciato sono partito con l’idea di diventare uno dei più grandi allenatori. Oggi ho capito di essere capace, ma non sono ancora un allenatore vero. Non mi sento ancora un Giampaolo, un Sarri, e non solo per una questione di età o esperienza. Ma è lì che voglio arrivare. Mia mamma mi ha sempre detto che ci pensa la vita a buttarti giù, tanto vale sognare in grande. Quello che mi auguro è di diventare un allenatore top”. Sarà, ma la nostra sensazione è di averci appena parlato con un allenatore top…

“Oggi ho capito di essere capace, ma il mio obiettivo è di diventare un grande allenatore”

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reportage partita del cuore 2019 di Fabrizio Ponciroli

Calcio2000 non ha voluto mancare alla gara della solidarietà tra campioni in campo e fuori…

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C

i sono partite di calcio in cui il risultato ha una valenza relativa. La Partita del Cuore, appuntamento annuale con la solidarietà, è uno di quei momenti in cui si scende in campo per qualcosa di più importante, ovvero aiutare il prossimo. L’edizione 2019 (la numero 28 della storia) è andata in scena all’Allianz Stadium. Un evento nel segno della spensieratezza e della beneficenza. Tanti gli spunti. Marco Masini, Direttore Tecnico della Nazionale Italiana Cantanti, qualche minuto prima del match, parla ai media da navigato uomo di calcio: “Il rispetto è importante, dobbiamo trasmettere amore ma è anche una partita di calcio, quindi ci teniamo a far bene. Ho fatto personalmente scouting per trovare i ragazzi giusti. Preparare la Partita del Cuore è complicato, ci si impiega un anno ma credo che abbiamo fatto un buon lavoro e messo su una buona squadra. Poi, in panchina, c’è un certo Allegri”. Vero, c’è Max, alla sua ultima panchina in quello che, per cinque anni, è stato il suo stadio. Ironia della sorte. Siede sulla panchina della Nazionale Italiana Cantanti e, di fronte, ha proprio Andrea Agnelli, il presidente con cui si è appena lasciato e che gioca (con il numero “3”) tra le fila della squadra Campioni per la Ricerca. Il pubblico (sold out all’Allianz Stadium) dimostra di gradire. Urla e applausi per tutti. All’entrata di Cristiano Ronaldo, cerimoniere d’eccezione, la gente risponde

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reportage partita del cuore 2019

gli altri Tanti gli ex campioni in campo, tra

anche Javier Zanetti

con un boato. “Sarebbe stato carino se avesse giocato, non capita tutti i giorni di essere sullo stesso campo con uno del calibro di CR7”, ci racconta, nel prepartita, un 47enne Raoul Bova intenzionato a non sfigurare nel ruolo di bomber scelto di Allegri. Le formazioni ufficiali sono decisamente intriganti. La Nazionale Italiana Cantanti di Max Allegri si presenta con Buffon, Marcorè, Chiellini, Fabi, Vallesi, Belli, Javier Zanetti, Shade, Briga, Ruggeri e, appunto, Bova. Dall’altra parte, per l’undici titolare dei Campioni per la Ricerca, spazio a Storari, Giletti, Agnelli, Vettel, Albertini, Mick Schumacher, Elkann, Totti, Nedved, Leclerc e Pirlo. A dirigerla Michel Platini, un altro che, in

i associati La storia continua, Biondo tra gli ultim

maglia bianconera, qualcosa di buono ha fatto. La prima sorpresa è la presenza, in calzoncini e maglietta, di un generosissimo Cristiano Ronaldo (al posto di Mick Schumacher). Il cinque volte Pallone d’Oro avrebbe dovuto limitarsi a dare il calcio d’inizio allo show ma, si sa, il portoghese, quando vede un pallone, non sa controllarsi. E, come per magia, l’Allianz Stadium è ai suoi piedi. Fa di tutto con la palla, regalando giocate da fuoriclasse. La prima palla gol la spreca, goffamente, Vettel su imbeccata proprio del “7” bianconero. Dominio assoluto dei Campioni per la Ricerca. Per fortuna Buffon, ultimo baluardo della Nazionale Italiana Cantanti, conferma di essere ancora un vero por-

LA PARTITA DEL CUORE Giunta alla sua 28° edizione, la Partita del Cuore nasce il 3 giugno 1992. La prima edizione si è svolta allo Stadio Olimpico di Roma. Per la cronaca, sfida tra la Nazionale Italiana Cantanti e la Nazionale Radio Telecronisti RAI con vittoria di quest’ultimi per 6-5. Il record di raccolta fondi dati in beneficenza grazie alla Partita del Cuore è di 2,1 milioni di euro (edizione 2015, sempre a Torino). Lo scorso anno, allo Stadio Luigi Ferraris di Genova, sono stati raccolti 1,1 milioni di euro.

LA NAZIONALE ITALIANA CANTANTI L’Associazione Nazionale Italiana Cantanti è nata nel 1981, voluta da Mogol, da un gruppo di musicisti e dall’attuale Direttore Generale Gianluca Pecchini. Nel corso degli anni, la squadra ha disputato oltre 500 partite, davanti a più di 20 milioni di spettatori. La prima gara in assoluto è stata disputata il 30 maggio 1981. Tra i tanti progetti di solidarietà sostenuti, la NIC è scesa in campo in Paesi come Iran, Palestina, Bosnia, Albania, Somalia, Kenya, Namibia, India, Russia e tanti altri. Il viaggio è ancora in corso… L’attuale presidente della squadra è Paolo Belli, eletto nell’agosto del 2017. È il settimo presidente dopo Mogol, Morandi, Ramazzotti, Ruggeri, Pupo e Barbarossa.

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na Cantanti all’Allianz Stadium La formazione della Nazionale Italia

tiere, di quelli che sanno fare il loro mestiere. CR7, onnipresente, tenta anche la rovesciata (a lato) con Paolo Belli che si inchina davanti a Sua Maestà (per la gioia del pubblico). A sbloccare il punteggio ci pensa proprio il marziano. Stanco di vedere gli altri fallire gol clamorosi e stuzzicato da Buffon, Cristiano decide di fare tutto da solo. Azione personale da fuoriclasse, palla incollata al piede e, davanti a Buffon, colpo nell’angolino. C’è anche l’esultanza tipica di CR7. L’ultimo “siuuuu” della stagione. Tutto perfetto. Anche Le Roi, in panchina, sorride divertito. Sorride un po’ meno Raoul Bova che si danna l’anima per infastidire Storari. Al 24’, CR7 decide che è tempo di lasciare il proscenio. Cambio con Mick Schumacher e altra vagonata di applausi. Senza il magico CR7, i Campioni per la Ricerca perdono smalto. Brigha (ottimi fondamentali) ha una grandissima occasione per pareggiare ma Storari lo ipnotizza. Al 37’ si animano anche i tifosi della Ferrari: numero di Vettel che si libera e calcia benissimo colpendo la traversa. Tira aria di gol... lo trova finalmente Brigha (su assist di Chiellini) per l’1-1 che rimette in equilibrio match e applausi. All’intervallo, dopo le parole di Manuel Bortuzzo, tocca a Bob Sinclair allietare i presenti con la sua, coinvolgente, musica. Alla ripresa, squadre stravolte ma lo show non ne risente. Casillo coglie due pali di fila e si dispera. In campo, per i Campioni della Ricerca, ci sono, contemporaneamente, tre piloti di Formula 1. A Vettel e Leclerc, si aggiunge Giovinazzi (c’è pure Mick Schumacher ancora nel ruolo di “baby”). Dopo aver fatto ballare

rca anche il presidente Tra le fila dei Campioni per la Rice bianconero Agnelli

tutti, in campo anche Bob Sinclair (a onor del vero rivedibile in maglietta e pantaloncini!). I Campioni della Ricerca si affidano alle giocate di Pirlo e Nedved per provare a tornare in vantaggio ma la difesa della Nazionale Italiana Cantanti regge l’urto. A sorpresa, il vantaggio è proprio della NIC: scivolone di Storari, Casillo, altro elemento dai piedi educati, non ha problemi a depositare in rete. Passano un paio di minuti e Rizzoli fischia un penalty per i Campioni per la Ricerca. Vallesi, autore del fallo da rigore, invoca, invano, il VAR. Sul dischetto va Pirlo (chiamato a furor di popolo dagli spalti). Ovviamente la palla, dopo aver accarezzato il palo, finisce in fondo alla rete: 2-2, palla al centro. I Campioni della Ricerca ci credono e vanno avanti con un gran diagonale di Giovinazzi, pilota Alfa Romeo. All’84’, incredibile scatto di Nedved per sradicare il pallone da Casillo, più giovane di 24 anni (la classe del ceco non ha età, così come la sua capacità di preservarsi fisicamente nel tempo). Sul finale, ovazione per una sgroppata del portiere Fede che si fa tutto il campo sostenuto dal pubblico. In perfetto stile Partita del Cuore. Al triplice fischio dell’arbitro Rizzoli, si abbracciano tutti. Tra i più felici il rapper Biondo che mostra, orgoglioso, la maglia di Pirlo: “Sono tifoso rossonero, non potevo lasciarmela scappare. I suoi figli sono miei fan. Ho detto a Pirlo che avrei fatto la foto con loro ma solo se mi avesse dato la sua maglia. E così è andata…”. Hanno vinto la solidarietà, la beneficenza e l’amore per il prossimo. Ancora una volta, la Partita del Cuore ha fatto centro…

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SPECIALE Liverpool di Luca Manes

TUTTO A TINTE

REDS

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Il Liverpool nuovamente sul tetto d’Europa. Il club torna a brillare…

M

inuto 91 di Liverpool vs Napoli, sfida decisiva per la qualificazione alla fase a eliminazione diretta della Champions League 2018-19, Allison Becker si inventa la parata dell’anno bloccando da distanza ravvicinata un tiro a “botta sicura” di Arkadiusz Milik. È una delle immagini più nitide di un trionfo per niente scontato, ma forse anche quella più esemplificativa di come i Reds siano stati in grado di aggiungere l’ultimo tassello di un team vincente. L’ex estremo difensore della Roma, a nostro modesto parere tra i primi tre al mondo nel suo ruolo, è servito per coprire una lacuna apparsa evidente a tutti proprio nella finale dello scorso anno contro il Real Madrid. Chi può dimenticare le colossali papere di Loris Karius al cospetto di Benzema e compagni. Spedito in Turchia il tedesco e relegato in maniera definitiva in panchina l’incerto – soprattutto in uscita – Simon Mignolet, il Liverpool ha investito 62,5 milioni di euro per il gigante brasiliano. Tanti soldi, ma ben spesi, così come stanno dando un ritorno immenso gli oltre 80 milioni sborsati per Virgil van Dijk, che se non è il miglior difensore dell’orbe terracqueo poco ci manca. La svolta, anche dal punto di vista finanziario, è arrivata con la cessione (per 150 milioni di euro...) di Coutinho al Barcellona. Il Liverpool ha trovato maggior equilibrio in avanti e puntellato alla grande la difesa, mentre a dirla tutta i catalani non hanno invece trovato il campionissimo capace di sostituire Neymar. L’esito della semifinale dello scorso aprile ne è un’evidente conferma. Il cammino nell’ultima Champions League è stato tutt’altro che facile sin dal principio. Come accennato, la qualificazione si è materializzata

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SPECIALE Liverpool

ALBO D’ORO CHAMPIONS LEAGUE CLUB NAZIONE Real Madrid Spagna Milan Italia Liverpool Inghilterra Bayern Monaco Germania Barcellona Spagna Ajax Paesi Bassi Inter Italia Manchester Utd Inghilterra Juventus Italia Benfica Portogallo Nottingham Forest Inghilterra Porto Portogallo

SUCCESSI 13 7 6 5 5 4 3 3 2 2 2 2

per il rotto della cuffia, a causa di prestazioni scialbe e senza mordente in trasferta – tre sconfitte su tre, compresa quella clamorosa a Belgrado. Scorie dell’infausta notte di Kiev, quando il sogno Champions tanto cullato la scorsa campagna è svanito tra errori e infortuni? Probabile. Poi però si è registrato il cambio di marcia, il blitz a Monaco di Baviera, la passeggiata con il Porto e la doppia sfida stellare con il Barcellona, sul cui esito fiabesco (per i Reds) sono state versate tonnellate di inchiostro. A ragione. Lo 0-3 subito nonostante una prestazione monstre al Nou Camp è stato incredibilmente ribaltato in una di quelle notti in cui Anfield non è solo il dodicesimo uomo in campo, ma pure il tredicesimo e quattordicesimo. In un calcio accusato spesso a ragione di essere “plastificato, “senza anima”, la tifoseria del Liverpool è ancora una gradevole eccezione, capace di infondere grinta e furore agonistico anche a protagonisti inaspettati quanto improbabili. Uno su tutti Divock Origi. La scorsa stagione il belga era stato relegato ai margini della rosa, tanto da finire in prestito al Wolfsburg – dove non ha lasciato un ricordo indelebile... Quest’anno si è saputo ritagliare spazio alle spalle magnifici tre ManéFirmino-Salah e farsi trovare prontissimo alla

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FINALI PERSE 3 4 3 5 3 2 2 2 7 5 0 0

FINALI GIOCATE 16 11 9 10 8 6 5 5 9 7 2 2

Champions vinta, Salah e Klopp quasi non ci credono

bisogna. Contro Messi e compagni il belga ha segnato una doppietta storica, mentre nella sfida con gli Spurs ha chiuso definitivamente i giochi nel finale una volta chiamato a sostituire uno spento Firmino. A livello di gioco l’atto conclusivo del Wanda Metropolitano è stato una sorta di anti-climax di una Champions League infarcita di sorprese e segnata dal dominio delle squadre della Premier, ma va detto che entrambe le finaliste arrivavano all’appuntamento drenate di energia e con alcune stelle non al meglio. E, come spesso accadde in queste occasioni, hanno contato molto l’esperienza e il blasone.


Con la sesta coppa il Liverpool è diventato il terzo club più vincente, dopo Real Madrid e Milan, nella massima competizione continentale. Una legacy europea nata negli anni Settanta, dominati in lungo e in largo a livello domestico. Curiosamente nessuno dei successi in Coppa dei Campioni (“solo” uno in Coppa Uefa nel 1973) è giunto con alla guida del team l’uomo che ha cambiato per sempre le sorti dei rossi della Merseyside: Bill Shankly. Eppure, l’esordio di Shankly non fu dei migliori: un rotondo 0-4 interno contro il Cardiff City nella vecchia Second Division. Il tecnico scozzese ci mise tre anni per riportare i Reds in prima divisione, ma solo una stagione per vincere un titolo atteso da quasi 20 anni. Era il 1964, da quel momento il Liverpool si sarebbe trasformato in una delle potenze del calcio mondiale che ben conosciamo. Shankly fu uno dei primi a curare la componente psicologica dei giocatori, sapendo gestire alla perfezione i suoi ragazzi anche fuori del campo di allenamento di Melmwood. La base del suo

ragionamento era che quando uno degli undici mandati in campo si trovava in difficoltà, spettava ai suoi compagni aiutarlo e sostenerlo proprio come avrebbero fatto tra loro i minatori di Glenbuck. Un altro dei suoi grandi meriti fu quello di contornarsi di assistenti di grande valore. Due tra i membri più illustri della cosiddetta “boot room”, Bob Paisley e Joe Fagan, furono i suoi successori sulla panchina dei Reds e coloro che raccolsero i frutti di quanto da lui seminato. Paisley sedeva in panchina in una delle partite più entusiasmanti mai vissute a Anfield, il 3-1 a un accreditatissimo St Etienne, cui non bastò l’1-0 dell’andata. Fu David Fairclough, il supersub per eccellenza, a regalare il passaggio del turno ai Reds e a mandare in visibilio la Kop – quella solo posti in piedi che “ondeggiava” a ogni azione dei propri beniamini. L’Olimpico di Roma iniziò a diventare lo stadio talismano del Liverpool in una calda sera di fine maggio 1977 contro il fortissimo Borussia Mönchengladbach, che al secondo turno aveva but-

Il Liverpool festeggia la Coppa dei Campioni vinta ai danni della Roma

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SPECIALE Liverpool

tato fuori il Torino di Graziani e Pulici. Un match dominato ben oltre il 3-1 riportato sul tabellino. In un secondo tempo scoppiettante al momentaneo pareggio del Pallone d’Oro 1977, il danese Allan Simonsen, risposero i due difensori Tommy Smith e Phil Neal. Quest’ultimo su un rigore che si era procurato “King” Kevin Keegan, il quale non andò a segno, ma fu tra i migliori in campo. Una delle grandi scoperte di Shankly, di lì a qualche settimana sarebbe approdato proprio in Germania, in quel di Amburgo, lasciando la maglia numero sette a un degnissimo successore: Kenny Dalglish. Lo scozzese diventerà una bandiera dei Reds ancora più di KKK, prima da giocatore e poi da allenatore. Proprio un suo gol decise la seconda finale di Coppa dei Campioni consecutiva (mai un club inglese era riuscito a centrare il bis), su assist dell’altro genio scozzese Graeme Souness al 64’ di un match duro e spigoloso contro il Club Bruges allenato dal mago Ernst Happel. Al cospetto delle mitiche e sempre rimpiante Due Torri del vecchio Wembley il Liverpool entrava ormai nella storia. In semifinale i Reds avevano superato di nuovo il Borussia Mönchengladbach, mentre il Bruges aveva sconfitto ai supplementari Juventus. Curioso come gli inglesi si fossero trovati a fronteggiare nelle finali di Coppa dei Campioni del 1977 e del 1978 le due stesse compagini superate nel doppio confronto – allora si faceva così – di Coppa Uefa nel 1973 e nel 1976. La stragrande maggioranza degli addetti ai lavori aveva pochi dubbi sul fatto che il Liverpool potesse imitare dinastie come quelle di Bayern Monaco e Ajax, capaci di infilare dei fantastici tris, ma il piccolo Nottingham Forest del fumantino Brian Clough aveva altre idee in proposito. Eliminò i Reds nel primo turno dell’edizione 1979-80, centrando poi due clamorose vittorie che ne fanno l’unica squadra europea capace di vincere più coppe dei Campioni che campionati. Terminato il momento d’oro del Forest, ecco di nuovo il Liverpool alla ribalta. Nel 1980-81 c’è da mandare in archivio un fragoroso 10-1 ai finlandesi dell’OPS (più larga vittoria

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Bruce Grobbelaar si gode la vittoria della Coppa Campioni nel 1984

di sempre in Coppa dei Campioni) e una per la verità non troppo complicata battle of Britain con l’Aberdeen di Alex Ferguson. Ben altra storia in semifinale, con un tiratissimo doppio confronto con il Bayern Monaco, eliminato solo grazie alla regola del gol segnato in trasferta. All’Olympiastadion l’improbabile marcatore fu Ray Kennedy, cui seppe rispondere solo Kalle Rummenigge. Un altro Kennedy, Alan, decise nei minuti finali la gara del Parco dei Principi di Parigi con il Real Madrid. Una contesa aspra e dominata dalla tattica come quella con il Bruges, a cui il Liverpool arrivò con gli uomini di punta, Dalglish e Souness, acciaccati. Sull’unica distrazione della difesa delle Merengues il terzino sinistro del Liverpool riuscì a infilarsi nel corridoio giusto e regalare la terza affermazione a Paisley nella massima competizione continentale. Un record per ora solo eguagliato, ma ancora non superato. Anche l’attesa per il quarto trionfo fu breve, appena tre anni. Nel frattempo, al centro dell’attacco si era insediato un baffuto gallese, Ian Rush. Mortifero in Inghilterra, dalle polveri bagnate nella fugace apparizione in Italia con la maglia della Juventus, nel torneo edizione 1983-84 timbrò il cartellino ben cinque volte, compresi due gol semifinale di ritorno Dinamo Bucarest – ostacolo più arduo incontrato sul loro cammino dai Reds insieme al fortissimo Athletic Bilbao, capace di fare 0-0 in Inghilterra


ma poi trafitto proprio da Rush al vecchio San Mamés. L’atto conclusivo di quel torneo ha infestato per anni le notti dei tifosi romanisti più attempati. Per la Roma sembrava la “congiunzione astrale” perfetta, dopo coppa giocata alla grande e un fantastico recupero in semifinale contro il Dundee United, i giallorossi avevano l’occasione di alzare il trofeo di casa all’Olimpico, designato nuovamente come sede della finale. Ma come accaduto poi in altre partite europee – non ultima la semifinale del 2018 – lo stadio romano porta bene al Liverpool, che a distanza di sette anni rivince la competizione all’ombra della Madonna di Monte Mario. Con Falcão in precarie condizioni di forma, una Roma apparsa subito in riserva inizia malissimo l’incontro subendo gol a causa della zampata di Neal su un rimpallo e presunto fallo sul portiere Franco Tancredi). Il successivo massimo sforzo della formazione capitolina frutta il pareggio di Roberto Pruzzo, che in avvitamento di testa porta le squadre all’intervallo sull’1-1. Dopo succede poco o nulla, le squadre si temono, la stanchezza prende il sopravvento e Pruzzo e Cerezo escono per infortunio. Due rigoristi mancati, insieme allo squalificato Aldo Maldera. Eppure, alla

lotteria dei penalty il Liverpool sbaglia subito con Steve Nicol. Il resto è storia: le spaghetti legs dell’ex soldato dello Zimbabwe Bruce Grobbelaar, i tiri alle stelle di Conti e Graziani e il rigore decisivo di Alan Kennedy. In una squadra con una forte ossatura irlandese e scozzese, il terzino inglese Phil Neal è però l’unico ad avere partecipato a tutti e quattro i successi. Fagan, altro fedelissimo di Shankly, nel frattempo subentrato a Paisley, continuava una dinastia “bloccata” già l’anno successivo con i tragici fatti dell’Heysel, che tra le altre cose determinarono l’esclusione del Liverpool dalle coppe europee per sei anni. Dal 1990 i Reds non vincono il campionato inglese, una macchia che tarda a essere cancellata. In Europa, beh lì la musica è differente. Prima la Coppa Uefa 2001, poi c’è stata Istanbul. Fatti salvi i tre minuti spacca coronarie di Manchester United v Bayern Monaco del 1999, la finale del 2005 tra Milan e Liverpool rimarrà per sempre una delle rimonte più assurde della storia del calcio. Un thriller degno del miglior Hitchcock: tre gol in sei minuti per zittire i milanisti che già assaporavano lo champagne e un Dudek prodigioso nei supplementari e ai rigori per consegnare ai very Reds purosangue Carragher e Gerrard un trofeo strameritato. Dopo la pazza serata di Istanbul, raccontata con dosi industriali di humor inglesi da John Graham Davies nel suo libro “Ho battuto Berlusconi” sono arrivate altre due finali, la rivincita milanista griffata Pippo Inzaghi ad Atene e la già citata serata da incubo di Karius. Ma quando l’Europa è davvero il tuo giardino di casa appare quasi fisiologico che si concretizzi la sesta coppa dei campioni. E ora che si è “sbloccato” Klopp chissà che non arrivi pure il tanto agognato trionfo in Premier...

“La tifoseria del Liverpool è ancora una gradevole eccezione, capace di infondere grinta e furore agonistico”.

I tifosi del Liverpool sono sempre al fianco della propria squadra

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io

c l a c l e d e leggend Andreas Brehme

di Luca Gandini

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Le travolgenti scorribande di Andreas Brehme, un campione spesso sottovalutato ma sempre decisivo.

NEL SEGNO DEL TERZINO

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uella del 9 novembre è una data particolarmente significativa per la storia della Germania, tanto da venire definita “Schicksalstag”, “Il Giorno del Destino”. Nel 1918, con il Paese ormai allo stremo delle forze e a un passo dalla sconfitta nella Prima Guerra Mondiale, veniva annunciata la nascita della repubblica e calava definitivamente il sipario sul Secondo Reich. Nel 1922, Albert Einstein era nominato vincitore del Premio Nobel per la fisica, mentre, esattamente un anno dopo, un fallito colpo di stato a Monaco di Baviera portava all’arresto di alcuni leader del Partito Nazionalsocialista, tra i quali il giovane austriaco Adolf Hitler. Sempre nella stessa data, ma nel 1938, con la “Notte dei Cristalli” iniziava la persecuzione delle comunità ebraiche che avrebbe in breve dato origine alla Shoah. La sera del 9 novembre 1989, infine, cadeva il Muro di Berlino e prendeva il via il processo di riunificazione delle due Germanie, separate dopo il catastrofico epilogo della Secon-

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alcio

el c leggende d Andreas Brehme

da Guerra Mondiale. Non è dunque un caso che il 9 novembre 1960, ad Amburgo, sia nato Andreas Brehme, un simbolo del calcio tedesco e l’emblema di una Germania vincente, il campione destinato a firmare uno tra i gol più ricordati nell’ultracentenaria storia della Nationalmannschaft. 5 SBERLE AL REAL Questa, però, è una storia ancora in là da venire. C’è infatti tanta gavetta, agli albori dell’avventura calcistica del giovane Andy. I primi calci tirati nel Barmbek-Uhlenhorst, piccola formazione amburghese in cui tra l’altro anni prima aveva giocato anche il padre Bernd, e poi una stagione di apprendistato nel Saarbrücken, nella Serie B della Germania Ovest. La svolta per lui arrivò nel 1981/82, quando debuttò in Bundesliga con la maglia del Kaiserslautern. Vi militò per 5 stagioni, non riuscendo a conquistare nessun titolo, ma rendendosi ugualmente protagonista insieme ai compagni di un’esaltante cavalcata in Coppa UEFA proprio in quel 1981/82. Nel ritorno dei quarti di finale, infatti, i “Diavoli Rossi” inflissero al Real Madrid un clamoroso 5-0 che rappresentò la più pesante sconfitta patita fino a quel momento dai “Blancos” nella storia delle Coppe europee. Il Kaiserslautern sfiorò poi l’impresa in semifinale, ma alla fine si dovette arrendere ai futuri vincitori, gli svedesi dell’IFK Göteborg allenati da un giovane Sven-Göran Eriksson. Il percorso di crescita

Il momento topico della carriera di Brehme, il rigore all’Argentina

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di Andy Brehme proseguiva inesorabile con l’avventura in Nazionale nel Campionato Europeo del 1984, un’esperienza poco brillante per la Germania Ovest (eliminata ai gironi), ma non per lui, che venne eletto miglior terzino sinistro del torneo. Non deluse neppure due anni più tardi, nel Mondiale messicano, laddove cominciò ad emergere, prorompente, la sua capacità di essere decisivo nelle sfide da dentro o fuori.

“Brehme venne eletto miglior terzino sinistro del Campionato Europeo del 1984” Nei quarti di finale contro i padroni di casa, infatti, si prese la responsabilità di calciare e trasformare uno dei rigori nella lotteria finale, mentre in semifinale una sua punizione mancina condannò all’eliminazione la Francia di Michel Platini. In finale contro l’Argentina non riuscì ad incidere, tanto che “La Gazzetta dello Sport” lo bocciò con un 5,5 e con questa valutazione: “Ha giocato a centrocampo cercando di arginare gli attacchi argentini e cercando di dare anche una mano a Matthäus nella marcatura di Maradona. Non ha combinato molto”. Pazienza. L’Argentina conquistò la Coppa, ma ci sarebbe stato tempo e modo per una gustosa rivincita. Proprio dopo il Mundial, Brehme passò al Bayern Monaco per 2 milioni di Marchi. Venne impiegato come terzino destro ed iniziò ad arricchire il proprio palmarès personale. Il primo anno si laureò campione nazionale e andò vicino ad aggiudicarsi anche la Coppa dei Campioni, sfumata nella sfortunata finale di Vienna contro il Porto. La seconda stagione fu più deludente, con il Bayern secondo in campionato dietro al Werder Brema ed eliminato dal Real Madrid nei quarti di finale della Coppa Campioni. Ormai pilastro della Nazionale, con cui continuò a giocare da terzino destro, Brehme


Il terzino tedesco ha appena segnato dagli 11 metri il gol che vale un Mondiale

si riconfermò protagonista nell’Europeo di casa, segnando tra l’altro un gran gol contro l’Italia nella gara di apertura. Poi, però, proprio nella sua Amburgo, cedette in semifinale all’inarrestabile Olanda di Marco van Basten, Ruud Gullit e Frank Rijkaard, i futuri cuginirivali di tante sfide al cardiopalma nel campionato italiano. IL LEADER DELLA SINISTRA Eh sì, perché proprio in quell’estate del 1988 l’ambiziosa Inter di Ernesto Pellegrini lo acquistò dal Bayern insieme al centrocampista Lothar Matthäus nel tentativo di strappare lo Scudetto al Milan dei tre olandesi. Pagato solo 1 miliardo e 700 milioni di Lire e ac-

colto con qualche perplessità, Brehme si rivelò invece il valore aggiunto dei nerazzurri. Affidato alle cure di Giovanni Trapattoni, che lo impiegò stabilmente nel ruolo di terzino sinistro, si adattò subito al nostro calcio sfoderando prestazioni che univano la qualità tecnica alla carica agonistica. Abile nelle chiusure difensive grazie a un tackle inesorabile, era poi in grado di ribaltare il fronte dell’azione con memorabili scorribande sulla fascia, concluse o con precisi cross mancini o con micidiali tiri con entrambi i piedi. Con un campione del genere, l’Inter vinse lo Scudetto con 58 punti, un record mai toccato prima nei tornei a 18 squadre, mentre il bomber Aldo Serena, usufruendo dei cross del tedesco, si

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el c leggende d Andreas Brehme

laureò capocannoniere del campionato con 22 gol. Nell’epoca spensierata della “Milano da bere”, la Milano nerazzurra si mangiò avversari di livello assoluto come il Napoli di Maradona e Careca; il Milan, che proprio in quel 1989 vinceva la Coppa dei Campioni; la Juventus, magari un po’ più appannata del solito ma pur sempre temibile; e la sbarazzina Sampdoria di Paolo Mantovani, all’inizio del proprio grande ciclo. Nell’estate del 1990, poi, il mondo del calcio si trasferì armi e bagagli proprio qui in Italia per la 14ª edizione del Campionato Mondiale. I tedeschi, scottati da due secondi posti consecutivi, misero in chiaro le cose sin dall’esordio, liquidando la forte Jugoslavia con un eloquente 4-1. La caratura di Andreas Brehme emerse ancora una volta nelle sfide a eliminazione diretta. Negli ottavi di finale, un suo splendido destro a giro tagliò le gambe ai grandi rivali olandesi, mentre in semifinale contro l’Inghilterra non solo segnò la rete del provvisorio 1-0, ma si incaricò pure di trasformare uno dei rigori che eliminarono Gary Lineker e compagni. Il momento più importante della carriera lo visse ovviamente in finale, di fronte all’Argentina del solito Maradona. Una partita noiosa, a tratti cattiva e decisa da un episodio. Quello che indusse l’arbitro messicano Edgardo Codesal a fischiare un calcio di rigore per la Germania Ovest per un dub-

Brehme alza la Coppa

44del Mondo, anno 1990


bio fallo di Néstor Sensini su Rudi Völler. Il rigorista ufficiale, Matthäus, preferì lasciare l’onere dell’esecuzione a Völler, il quale a sua volta declinò l’invito rivolgendosi a Brehme: “Coraggio, Andy: vai tu sul dischetto e vinci questo Mondiale”. Con la solita umiltà e freddezza, l’uomo del destino lasciò allora partire un destro chirurgico che non lasciò scampo al fenomenale pararigori Sergio Goycochea. La vendetta era servita: la Germania Ovest era per la terza volta regina del mondo.

Si ringrazia Panini per la gentile concessione delle immagini

IL CANTO DEL CIGNO A fine anno fu addirittura terzo nella classifica del Pallone d’Oro dietro all’amico Matthäus e al nostro Totò Schillaci, tuttavia alcuni infortuni di troppo gli fecero vivere una stagione di alti e bassi. Nel momento decisivo di quel 1990/91, però, il valore del terzino tedesco riemerse di nuovo, tanto da trascinare l’Inter alla vittoria in Coppa UEFA. Fu invece nel 1991/92 che tutto girò per il verso sbagliato: alcune incomprensioni con il nuovo tecnico Corrado Orrico, la crisi di tutta la squadra e il deludente 8° posto finale portarono Brehme e la società a una malinconica e forse frettolosa separazione. Lui tornò comunque sulla breccia in estate, capitanando la Germania finalmente riunificata al secondo posto europeo dietro la sorprendente Danimarca. Venne rieletto miglior terzino sinistro della competizione e poté dunque tuffarsi con fiducia nell’avventura nella Liga spagnola con il Real Saragozza. Una sola stagione avara di soddisfazioni e, a quasi 33 anni, la decisione di tornare al Kaiserslautern, il club che l’aveva lanciato. Lo ritrovammo nuovamente tra i protagonisti al Mondiale di USA ‘94, insieme ad altri grandi ex del campionato italiano come Lothar Matthäus, Rudi

Völler e Jürgen Klinsmann. Partirono bene, i tedeschi, ma nei quarti di finale incapparono nella Bulgaria di un ispiratissimo Hristo Stoichkov e dovettero abbandonare la speranza di un clamoroso bis iridato. Per Brehme, quella, fu l’86ª e ultima partita con la Nazionale tedesca. Si poté quindi dedicare anima e corpo al suo Kaiserslautern, con cui si tolse la soddisfazione di conquistare una Coppa di Germania nel 1995/96 e, soprattutto, un indimenticabile ed inaspettato titolo nazionale nel 1997/98, al fianco di un giovanotto originario dell’ex Germania Est destinato a diventare la stella del calcio tedesco nel decennio successivo, Michael Ballack. Sfortunatamente, dopo un inizio promettente come allenatore, la parabola sportiva e umana di Andreas Brehme iniziò poi a virare pericolosamente verso il basso a causa di alcuni gravi problemi economici. Disavventure che non gli hanno mai fatto dimenticare i colori con cui visse i migliori anni della sua vita: “Io sono tedesco, ma ancora di più sono nerazzurro”, ha rivelato recentemente, suscitando la commozione di quanti ancora ricordano le sue inarrestabili scorribande a San Siro. Ce ne fossero, di campioni come Andreas Brehme, nell’Inter di oggi.

“Pagato solo 1 miliardo e 700 milioni di Lire e accolto con qualche perplessità, Brehme si rivelò invece il valore aggiunto dei nerazzurri”

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O T T E I H C S I F I ASSI DEL

GL

Luigi Agnolin di Davide Orlando

Ripercorriamo le gesta di un direttore di gara che ha lasciato il segno nel mondo del calcio…

L’ARBITRO RIBELLE DAL CUORE D’ORO

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Credit Foto: Liverani


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chietto, sincero e personalità da vendere: tre caratteristiche che descrivono alla perfezione Luigi Agnolin, ex arbitro di Bassano del Grappa che ha calcato i campi della Serie A dal 1973 al 1990. Una carriera prestigiosa, ricca di successi e riconoscimenti (ma anche di polemiche) in Italia e all’estero, 226 partite dirette in Serie A, il mondiale in Messico nel 1986 e quello in Italia del 1990, una finale di Coppa delle Coppe nel 1987 e una finale di Coppa dei Campioni nel 1988, nel suo personale palmarès. Una lunga carriera in campo, ma anche fuori dal rettangolo di gioco, dove, dopo il 1990, Luigi Agnolin ricoprì dapprima il ruolo di designatore arbitrale in Serie C e poi il ruolo di commissario straordinario dell’AIA durante lo scandalo di Calciopoli, nel 2006. Abbandonato il mondo arbitrale poi, dapprima divenne direttore generale della Roma, poi amministratore delegato del Venezia nell’Hellas Verona. E poi ancora Perugia, Siena e una piccola parentesi in politica. Una carriera ricca di riconoscimenti ma anche di polemiche,

dicevamo: come dimenticare i celebri diverbi con fuoriclasse del calibro di Bettega e Maradona? Episodi impossibili da non raccontare. Quel diverbio da leggenda con Roberto Bettega… Ci sono alcuni episodi che nel calcio hanno lasciato un solco indelebile. Il fatto che avvenne il 26 ottobre del 1980, a Torino, in occasione del derby della Mole, e che vide come protagonisti Luigi Agnolin, Roberto Bettega e la Juventus, dimostra che cosa rappresentava davvero la categoria arbitrale di quel tempo: protagonisti carismatici, autorevoli, in campo ma anche fuori. Juventus – Torino, un derby battagliero, passionale come ogni derby che si rispetti, che culminò con un acceso litigio tra il Bobby Gol dell’era bonipertiana e Luigi Agnolin, arbitro di polso e di sostanza. La partita andò più o meno così: Franco Causio portò in vantaggio gli uomini della Vecchia Signora, Agnolin annullò la seconda rete di Marco Tardelli per fuorigioco e Ciccio Graziani pareggiò, dopo un rigore negato

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TTO

ISCHIE F L E D I S S A GLI Luigi Agnolin

al bianconero Brady. Risultato in bilico fino al momento della doppietta granata sempre con Graziani che mise in rete il pallone, dopo che Pulici ostacolò Dino Zoff in uscita. Proteste veementi della Juventus e quelle famose parole rivolte da Agnolin a Bettega: “Adesso vi faccio c..o così!” proprio in seguito alle lamentele da parte degli uomini della Vecchia Signora. Parole pronunciate in veneto, secondo alcuni, accompagnate da un gesto che poco spazio lasciava all’immaginazione. Negli spogliatoi, poi, gli animi faticarono a calmarsi e, tra i giocatori, anche lo stesso Dino Zoff non prese benissimo quella decisione molto discussa: “All’arbitro avrei dato un pugno, scrivete proprio così”, riferì ai giornalisti. Per lo stesso Agnolin però, il risultato di quel gesto, dopo quella partita, fu pesante: squalifica di quattro mesi e per quattro lunghi anni non arbitrò più la Juventus. Un rapporto, quello con la Vecchia Signora, mai troppo felice: l’arbitro di Bassano del Grappa, venne successivamente contestato anche nel 1986, quando dopo la vittoria del Napoli di Maradona per tre reti a uno, fu vittima di pesanti accuse, espresse dalle parole dell’allora portiere bianconero Stefano Tacconi: “Qualcuno farebbe bene ad usare gli occhiali. - … - Non cerco alibi, il Napoli ha meritato di vincere, ma la Juventus paga errori clamorosi. Due casi determinanti mi sembrano troppi. Certa gente avrebbe bisogno di farsi

Il diverbio con Roberto Bettega è diventato leggendario

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curare, perché o non ci vede bene o se ci vede bene chiude gli occhi. Lì per lì non abbiamo avuto la forza di protestare, ma anche i guardalinee ci hanno condannato”. Fonte [sportevai.it]. Un arbitro ribelle per qualcuno, il Maradona degli arbitri, per qualcun altro. Luigi Agnolin era un uomo tutto d’un pezzo, un arbitro di polso e all’avanguardia, un direttore di gara senza paura, rispettoso e rispettato, anche dai più grandi. Poco importa se davanti c’era Platini o quel tale Diego Armando Maradona, al quale proprio Agnolin annullò una rete contro l’Uruguay, durante il mondiale di Messico ’86. “Solo lui poteva non convalidarmi un gol del genere. Gli mettemmo pressione per tutta la partita, dovevamo vincere a ogni costo. Lui niente, non si filava nessuno. Mi piaceva Agnolin” [gianlucadimarzio.com], disse El Pibe de Oro qualche anno dopo durante un’intervista. Insieme a Paolo Casarin e Rosario Lo Bello, Agnolin fu tra i migliori arbitri in Italia e non solo. Proprio con il collega Casarin, nel 2012 venne inserito nella Hall of Fame del calcio italiano, nella categoria Arbitro Italiano. Un fischietto di altri tempi che amava arbitrare i grandi fuoriclasse come Maradona, Platini, Rummenigge e Gigi Riva e le grandi partite, da Milano a Torino, da Roma a Napoli. Big match e soddisfazioni ma anche tanta gavetta e grossi sacrifici, una professione amata e svolta sempre con passione: una vera scelta di vita, come lui stesso raccontò in un’intervista del 2007: “Arbitrare? Indubbiamente è stata una scelta di vita. Mi ha portato a valutare una professione lavorativa congeniale all’arbitraggio, quella di insegnante di educazione fisica”. [Rainews. it] Figlio d’arte (il padre Guido arbitro ben 155 partite in Serie A) e un esordio che iniziò sui campi di provincia. “Risale al 1961 in una partita delle giovanili. Bassano contro Marchesane: un derby. Non era un Inter-Milan, ma in quel caso avvertì comunque una certa apprensione. Terminai la gara con la consapevolezza di aver intrapreso un percorso nuovo, tutto da scoprire”. [Rainews.it]


La carriera di Luigi Agnolin fuori dal campo Luigi Agnolin, dopo la carriera arbitrale, ebbe diverse importanti esperienze fuori dal campo di gioco. Tra il 1990 e il 1992 ricoprì il ruolo di designatore in Serie C e in seguito ad alcuni contrasti con Antonio Matarrese, presidente federale di allora, venne sostituito. L’incarico più importante avvenne nel 2006, quando Agnolin fu nominato commissario straordinario dell’AIA, in seguito alla vicenda di Calciopoli. Il suo fu un giudizio molto netto, riassunto nelle parole pronunciate in un’intervista di qualche anno fa: “Era figlio dell’arroganza dei poteri forti che trovavano terreno fertile nell’ignoranza e nell’arrivismo”. L’avvocato Guido Rossi, allora gli affidò l’incarico di ripulire il calcio italiano e Luigi Agnolin non perse tempo: inquisì gran parte degli arbitri, ma la sua gestione non fu molto apprezzata tanto che il mandato non gli venne rinnovato e, nell’ottobre dello stesso anno, venne sostituito da Cesare Gussoni. Il ruolo extra-campo comprese anche il prestigioso ruolo di presidente del settore giovanile e scolastico della FIGC nel 2007, il ruolo di direttore generale del Perugia dal 2011 al 2013 e quello di DG del Siena dall’agosto del 2014. Fu importante anche il ruolo che ebbe nella Roma, nel lontano 1994: nella capitale fu nominato direttore generale, un’esperienza formativa bella e importante che si concluse in seguito a differenze di vedute con l’allora presidente Franco Sensi, come ricordò lo stesso Agnolin: “Ricordi bellissimi, fu un’esperienza formativa. Sanificai l’ambiente, tolsi i privilegi ai tifosi che il mio predecessore aveva abituato ad avere. Si concluse quando ebbi un diverbio con il Presidente Franco Sensi, quando ci fu l’episodio del fallo laterale di Aldair a Torino. Lui ci vedeva un complotto del Palazzo io invece davo ragione all’arbitro e dicevo che l’errore fu del brasiliano che andò a battere la rimessa in gioco indossando i guanti”. [Rainews.it] Arbitro internazionale dal 1978, Agnolin si guadagnò la stima di tutti per i suoi modi di fare

Agnolin sapeva come farsi rispettare in campo, anche da gente del calibro di Platini - Liverani

sul campo, con i giocatori e con tutti gli addetti ai lavori. Contrario da sempre all’introduzione della tecnologia in campo, era un uomo capace di prendersi le sue responsabilità senza paura o timori di conseguenze. Sempre padrone della partita e spesso contro-corrente, come quella volta quando l’allora designatore D’Agostini gli ordinò di tagliarsi la barba perché “un arbitro non può scendere in campo in quel modo”. L’appello, ovviamente, cadde nel vuoto. Regole del genere non erano fatte per un personaggio forte come Agnolin, che non amava sottostare a rigide imposizioni dettate dall’alto. Un vero sceriffo sul campo, una persona dal cuore d’oro nelle questioni extra-calcistiche: dal 1986 fino agli ultimi giorni della sua vita, Luigi Agnolin ha collaborato con la Comunità Villa S. Francesco di Facen di Pedavena (comunità che ospita giovani con disagi familiari) e con l’annessa squadra di calcio della Stella Azzurra, formazione multietnica aperta a tutti i ragazzi del territorio, per la quale si spese con grandi gesti di solidarietà fino alla fine dei suoi giorni.

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SPECIALE

Golden Foot di Fabrizio Ponciroli

Un premio prestigioso, un riconoscimento al talento, semplicemente il Golden Foot

SEMPRE PIÙ GOLDEN…

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LL THE BEST FOOTBALLERS IN THE WORLD HAVE BEEN AND WILL BE HERE”. Una frase che racchiude il senso del Golden Foot. Lasciare la propria impronta sulla famosissima Champions Promenade, significa diventare, immediatamente, leggenda. Il primo a rendersi immortali è stato un certo Roberto Baggio. Correva l’anno 2003. Il Divin Codino è stato il primo di una lunga serie di fuoriclasse che hanno avuto l’onore di essere premiati con il sempre più ambito Golden Foot. La genesi del premio porta la griffe di Antonio Caliendo, noto procuratore (tra i suoi assistiti, stelle del calibro di Carlos Dunga, David Trezeguet, Maicon, Salvatore Schillaci, Daniel Passarella e proprio Roby Baggio) a cui va il merito di aver creato quello che, oggi, è un premio ambitissimo e sognato da ogni fuoriclasse del calcio: “Sono felice di averlo ideato. Credo che sia una sorta di passaporto per l’eternità. Lasciare le proprie impronte sulla Champions Promenade equivale, infatti, ad un lasciapassare per l’eternità. È una testimonianza fissa che puoi vedere e toccare con mano ogni volta che vuoi. Ci sono tantissimi tifosi di calcio che scattano foto ricordo vicino all’impronta dei piedi dei loro idoli e turisti che magari non sanno nulla di calcio che non perdono l’occasione di farsi immortalare vicino al calco dei piedi di Pelé o Maradona”. Antonio Caliendo ha premiato moltissimi artisti del pallone ma c’è un campionissimo al quale è particolarmente legato: “Nel 2010 abbiamo premiato, come Legends, Francisco Varallo. È stato il primo giocatore professionista al mondo. Sono andato personalmente, con alcuni tecnici, a 250 km da Buenos Aires, dove viveva, per fare il calco dei suoi piedi. Quando lo abbiamo incontrato, aveva 101 anni. È stato un asso del Boca Juniors. Quando è tornato dai Mondiali del 1930 disputati in Uruguay, l’allora presidente del Boca gli ha detto: ‘Firma qui e non dovrai più preoccuparti di come

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SPECIALE

Golden Foot

TUTTI I VINCITORI In attesa di scoprire chi sarà il vincitore dell’edizione 2019 (l’evento è in programma il 28-29 ottobre), ripercorriamo la storia del premio e, soprattutto, dei suoi illustri vincitori. Come detto, Roberto Baggio è stato il primo a portarsi a casa il Golden Foot (2003). A seguire, tocca a Pavel Nedved (2004). Nel 2005, viene premiato Andrij Shevchenko, stella del Milan. Nell’edizione 2006, tutti gli applausi sono per l’allora madridista Ronaldo (Il Fenomeno). Vittoria azzurra nel 2007 con Alex Del Piero, bandiera bianconera, a spazzar via la concorrenza. Sia nel 2008 che nel 2009, successi brasiliani, rispettivamente con Roberto Carlos e Ronaldinho. Nel 2010, a lasciare le proprie impronte sulla Champions Promenade di Montecarlo, è il giallorosso Francesco Totti. Si premia una leggenda dello United nel 2011: Ryan Giggs. Anche Zlatan Ibrahimovic si fregia del titolo (2012). Nel 2013 altra vittoria di grande impatto mediatico: Didier Drogba. All’ivoriano seguono Andrés Iniesta (2014), Samuel Eto’o (2015), Gianluigi Buffon (2016), Iker Casillas (2017) e Leonardo de Araújo (2018). Lo scorso anno, premiato l’attaccante del PSG Edinson Cavani. E quest’anno? Chi avrà l’onore di entrare a far parte della Champions Promenade, la “passerella” che si trova sul lungomare del Principato di Monaco dove sono posizionati i calchi in bronzo delle impronte dei più grandi calciatori di sempre?

trovare i soldi per sfamare la tua famiglia. Ci penseremo noi, tu dovrai solo giocare a calcio’… Non potevo lasciarmi sfuggire l’occasione di avere il primo giocatore professionista nella lista dei premiati del Golden Foot. È stato emozionante e doveroso nei confronti di Francisco Varallo, una vera leggenda del calcio. Essere riusciti a rendergli omaggio prima che morisse è stato un atto dovuto nei confronti di un personaggio che, con la sua classe, ha illuminato le future generazioni”. È bene ricordare che il Golden Foot viene assegnato, ogni anno, a giocatori, con almeno 28 anni di età, che si siano distinti sia in campo che per la loro personalità fuori dal

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rettangolo verde. La votazione avviene attraverso il sito ufficiale del Golden Foot: “Dopo una prima votazione da parte dei giornalisti di tutto il mondo, avviene una scrematura. I 10 finalisti vengono poi messi in rete e, a quel punto, è la gente a decretare il vincitore. È l’unico premio in cui sono i tifosi a scegliere chi verrà premiato. Ci teniamo molto a questa formula, è giusto che sia del pubblico l’ultima parola visto che sono proprio i tifosi a rendere eterni i campioni che premiamo. Inoltre, il fatto che ogni giocatore lo può vincere una sola volta, lo rende ancor più unico e, soprattutto, diverso da altri premi come, ad esempio, il Pallone d’Oro”. Il tutto viene celebrato a Montecarlo, con la

gradita partecipazione del Principe Alberto II di Monaco, un vero estimatore del gioco del calcio: “Ovviamente la location aiuta in maniera importante. Guarda, è stato proprio il Principe a volere che l’evento andasse in scena a Montecarlo. In origine, avevo scelto Roma ma, a causa della lungaggine delle istituzioni pubbliche di allora, l’ho proposto al Principe che ha accettato immediatamente. A dire il vero, avrebbe voluto che le impronte fossero posizionate all’interno dello stadio ma gli ho proposto la soluzione della Promenade e gli è piaciuta tantissimo. Il Principe è un vero appassionato di calcio. Colleziona tutti i momenti più significativi delle tante premiazioni che ha fatto al Golden

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SPECIALE

Golden Foot Foot con cura maniacale. Ci tiene particolarmente”. Oltre al Golden Foot, ad ogni edizione vengono premiate anche delle Legends (lo scorso anno, ad esempio, sono stati premiati Didier Deschamps, Marcello Lippi, Andrea Pirlo e Clarence Seedorf): “Ne abbiamo premiati moltissimi e ne premieremo altrettanti in futuro. Ricordo, con grande emozione, l’anno in cui c’era George Best tra le Legends da premiare. È stato durante l’edizione del 2005, a pochi mesi dalla sua morte. Durante la cerimonia, il presentatore gli fece una domanda. Erano presenti tanti numeri 7 della storia del calcio in quel particolare anno e, quindi, gli venne chiesto: ‘Scusa George, chi è stato il più grande numero 7 della storia del calcio secondo te?’. Dopo aver fatto una pausa e aver guardato l’intera sala, Best ha risposto così: ‘C’è qualcuno della famiglia Beckham

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presente? No? Beh, allora sono io il miglior 7 della storia’. Una risposta geniale, in quel periodo, infatti, Beckham veniva dipinto come il 7 per eccellenza ma, signori, Best è stato di un altro livello. Nessuno come lui, nessuno aveva il suo talento. Felici che ci sia anche lui tra le Legends del Golden Foot. Credo che Best sia stato qualcosa di irripetibile nel mondo del calcio”. Appuntamento al 28/29 ottobre per l’edizione 2019. In corsa, come ogni anno, nomi prestigiosi perché, è un dato di fatto, il Golden Foot non è per tutti… Non vi resta altro da fare che collegarvi al sito ufficiale www.goldenfoot.com e dare la vostra preferenza. Il vostro voto conta, come spiegato da Antonio Caliendo, ideatore del Golden Foot, l’ultima parola è quella del pubblico. * Si ringrazia l’ufficio stampa Golden Foot per le immagini


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Alla scoperta della storia della maglia di uno dei club più blasonati d’Austria…

IL VALZER DEL RAPID

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fine ‘800 Vienna era una città in fermento, Freud, Klimt, Strauss, Schnitzler e tanti altri personaggi rendevano la città una delle capitali mondiali della cultura e l’Impero asburgico era all’apice della sua potenza, nonostante si cominciassero a vedere le prime crepe che porteranno nel giro di due decenni al crollo. In questo ambiente effervescente cominciano a nascere i primi sodalizi sportivi, anche qui come nel resto del mondo furono gli inglesi o gli austriaci di ritorno a diffondere cricket, rugby e calcio. Il 22 agosto 1894 venne fondato il primo club calcistico austriaco, si tratta del

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First Vienna FC, tre anni dopo e precisamente il 22 luglio 1897 nasce l’Erster Wiener Arbeiter-Fußball-Club, letteralmente Primo Club Calcistico Viennese dei Lavoratori, colori sociali rosso e blu, il rosso rappresentava i lavoratori e il blu la libertà, la sede del club era nel distretto di Rudolfsheim, attualmente XV distretto. I fondatori erano principalmente dipendenti della fabbrica di cappelli Böhm, avevano appreso i rudimenti del football da operai specializzati inglesi che si occupavano dei macchinari della fabbrica. Gli inizi sportivi furono disastrosi, dopo una prima amichevole finita 1-1 con il Meidlinger i Lavoratori misero


in fila una lunga serie di sconfitte, nel 1898 non vinsero neanche una partita registrando in alcuni casi dei passivi molto pesanti. Teatro di queste prime esibizioni era la Schmetz, piazza d’armi prospiciente la caserma Radetzky usata principalmente per esercitazioni militari. L’8 gennaio 1899, nella speranza di mettere freno a questa lunga serie di sconfitte, i soci decidono di cambiare denominazione in Sportclub Rapid, su ispirazione del Rapid Berlin, naturalmente i Rossoblù continuarono a perdere anche con la nuova denominazione. Oltre alla speranza di trovare qualche vittoria, all’origine del cambio di nome c’è anche un motivo pratico in quanto le autorità imperiali avevano cominciato a perseguitare le associazioni dei lavoratori, così i soci del club decisero che un nome neutro avrebbe evitato loro dei problemi. La prima divisa era composta da una camicia rossa con collo, polsini e taschini blu abbinata a pantaloni e calzettoni neri. Dopo una serie di coppe e tornei organizzati dai club, nel 1900 venne fondata la FußballUnion, che organizzò il primo campionato ufficiale a livello cittadino, il Rapid venne inserito in seconda divisione e si classificò al terzo posto. Il 12 maggio 1901 i viennesi giocarono la prima partita in trasferta, pareggio 1-1 contro i praghesi dell’FC Austria, l’anno successivo la maglia diventa rossoblù divisa a metà con collo a camicia chiuso da bottoni. Nel 1903 il Rapid si trasferisce nel campo sportivo di Rudolfsheim, un vero campo dedicato alle attività sportive inaugurato il 14 marzo 1903, sconfitta 0-3 contro l’SC Graphia. Nella primavera del 1906 il campo venne ampliato con la costruzione di tribune e di una sede sociale, per festeggiare i lavori venne organizzato un torneo della durata di una settimana nel mese di giugno. In concomitanza con il torneo il Rapid decise di cambiare colori sociali da rossoblù, probabilmente le vecchie maglie erano logore a causa dei numerosi lavaggi, a biancoverde. La nuova divisa è composta da maglia a righe orizzontali bianche e verdi con collo a

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girocollo bianco chiuso da bottoni, i pantaloncini e i calzettoni sono neri. I nuovi colori sono sicuramente legati al territorio, secondo una teoria riprendono i colori dello stemma araldico di Rudolfsheim, altri sostengono che bianco e verde derivano dai colori della linea del tram 49 che attraversava il distretto. In quegli anni nasce il Rapidgeist, ovvero lo spirito del Rapid, nei pressi del campo sorgeva la chiesa e l’orologio della torre campanaria fungeva da segna tempo per la partita, allo scoccare delle 17.00 il pubblico cominciava ad applaudire incessantemente e dava la carica ai giocatori per un ultimo quarto d’ora di gioco arrembante. Un po’ come il Grande Torino qualche anno dopo. Il 15 maggio 1910 il Rapid gioca la sua ultima partita a Rudolfsheim, ospiti di giornata gli ungheresi del Nemzeti SK di Budapest per il risultato di 1-1. La città di Vienna aveva deciso di non rinnovare il contratto di affitto per dare spazio ad un’area mercatale, un nuovo terreno venne trovato nel distretto di Hütteldorf alla periferia occidentale della città. Il nuovo stadio venne inaugurato il 28 aprile 1912, vittoria per 2-1 contro il Wiener AC. Nella stagione 1911/12 la Niederösterreichischer Fußballverband (Federazione Calcio Bassa Austria) organizzò quello che viene considerato il primo campionato di calcio austriaco, vi partecipavano undici squadre tutte di Vienna. Il Rapid giocò le prime dieci partite in trasferta per la man-

canza di uno stadio, successivamente, nel girone di ritorno dopo l’inaugurazione del campo di Hütteldorf, dieci partite in casa. Il Rapid, che in questa stagione passava a una maglia a strisce verticali con collo chiuso da laccetti, vinse il titolo con un punto di vantaggio sul Wiener SC. Nel secondo decennio del secolo scorso il Rapid è la squadra leader del movimento calcistico austriaco. I Biancoverdi vincono otto titoli dei primi dodici campionati, piazzandosi due volte al secondo posto. Nel 1918/19 il Rapid vince la prima edizione della coppa nazionale, realizzando il primo double insieme al campionato. Le vittorie numerose, le origini proletarie del club e la presenza in squadra di Josef Uridil, forse il primo calciatore austriaco ad ottenere una popolarità fuori dal campo di gioco, portarono il Rapid ad essere la squadra di calcio più popolare del paese a partire dagli anni ‘20. In questi anni il verde diventa il colore predominante, nella stagione 1915/16 la maglia è verde con un vistoso collo bianco chiuso da laccetti, dalla stagione seguente la maglia è completamente verde. Nel 1924 venne introdotto il professionismo nel calcio austriaco, la possibilità di pagare i giocatori migliori sovvertì le gerarchie del calcio viennese e per qualche anno il Rapid lasciò le prime posizioni del campionato. Nella stagione 1923/24 i Biancoverdi tornarono ad indossare la maglia a righe orizzontali con collo chiuso da


laccetti, in questi anni il Rapid è una delle squadre più forti d’Europa tanto che il Bologna nel 1925 decide di giocare la finale del campionato italiano con maglia verde e pantaloncini neri su ispirazione del club viennese. Interessante la divisa della stagione 1928/29, maglia verde con vistoso collo bianco e maniche bianche, pantaloncini e calzettoni sempre neri con bordino bianco verde, con questa divisa il Rapid vinse la Mitropa Cup nella stagione successiva, battendo nella doppia finale lo Sparta Praga. L’introduzione del professionismo favorì da parte dei principali club la necessità di aumentare gli incassi (un secolo fa i problemi erano gli stessi di oggi), Hugo Meisl, segretario della federazione austriaca ebbe l’idea nel 1927 di organizzare un torneo a cui avrebbero partecipato i principali club di Austria, Ungheria, Cecoslovacchia e Jugoslavia, due anni più tardi l’Italia sostituì la Jugoslavia. Era nata la Coppa dell’Europa Centrale, più conosciuta come Mitropa Cup e da molti considerata la mamma della Coppa Campioni. Dello stesso progetto faceva parte la Coppa Internazionale dedicata alle quattro squadre nazionali. Negli anni ‘30 il Rapid indossa diverse divise alternandole da una stagione all’altra, se non nel corso della stessa stagione. Maglia completamente verde con collo a V, maglia verde con collo a camicia chiuso da laccetti e vistosa fascia orizzontale bianca, maglia a strisce verticali con collo a camicia bianco chiuso da laccetti, sono anni in cui il Rapid fatica a rimanere ai vertici del calcio nazionale. Il 12 marzo 1938 la Germania nazista invade l’Austria da questo atto detto in tedesco Anschluss, nasce una sola nazione. L’azione politica modificherà completamente la vita austriaca, anche il calcio subirà le conseguenze e da questo momento il campionato austriaco sarà considerato una Gauliga e il vincitore parteciperà alle finali per la vittoria del campionato tedesco di calcio. Il Rapid vinse nel 1938 la Coppa di Germania, battendo in finale l’FSV Francoforte e nel 1941 riuscì

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nell’impresa di vincere il campionato battendo in finale il fortissimo Schalke 04. Unica squadra austriaca a riuscire nell’impresa (il First Vienna venne sconfitto in finale l’anno successivo), il Rapid superò nel girone di qualificazione Vfl Neckarau, Stuttgarter Kickers e TSV Monaco 1860, in semifinale i viennesi ebbero la meglio per 2-1 sul Dresdner SC guadagnandosi l’accesso alla finale. Il 22 giugno 1941, davanti a 95.000 spettatori, si giocò la finale all’Olympiastadion di Berlino in una giornata calda e assolata. I tedeschi segnarono due reti nei primi minuti della partita e triplicarono nel secondo tempo, quando tutti pensavano ad una vittoria dello Schalke, gli austriaci riuscirono a segnare quattro reti in undici minuti (dal 60’ al 71’) le ultime tre realizzate da Bimbo Binder. Quel giorno il Rapid scese in campo con una maglia verde con collo a girocollo bianco. Alla ripresa dell’attività agonistica nella stagione 1945/46 il Rapid vinse il campionato, la maglia era verde con collo

a camicia chiuso da laccetti. Nella stagione 1948/49 ritorna la maglia a strisce verticali biancoverdi con collo bianco a camicia chiuso da laccetti, la stagione seguente sempre strisce verticali ma il collo bianco è a V. Nella stagione 1950/51 maglia a righe orizzontali con collo a V bianco, pantaloncini neri e calzettoni biancoverdi a righe. Nel 1953/54 maglia verde con collo bianco chiuso da laccetti e vistosa fascia bianca diagonale, i pantaloncini sono bianchi e i calzettoni verdi con risvolto bianco. Nella stagione 1956/57 maglia completamente verde con collo a girocollo, pantaloncini neri e calzettoni verdi con risvolto bianco, sulla maglia compare una R come stemma sociale. Dalla stagione successiva e fino alla fine degli anni ‘60 vengono usate maglie a strisce verticali, con strisce prima di larghezza media e poi più larghe, i pantaloncini prima neri e poi bianchi mentre i calzettoni sono biancoverdi a righe. Nel 1961 i Viennesi raggiungono le semifinali di Coppa dei Campioni, dopo aver per-


so a Lisbona per 3-0 il 4 maggio ospitano il Benfica al Prater. A cinque minuti dalla fine, sul risultato di 1-1, l’arbitro inglese Leafe nega un rigore ai padroni di casa e si scatena un vero putiferio sugli spalti e in campo, Leafe è obbligato a fischiare la fine della partita in anticipo per evitare un’invasione da parte del pubblico mentre in campo si scatena una rissa tra i giocatori. Nella stagione 1966-67 un’insolita camicia verde con collo a camicia bianco e maniche bianche vede il Rapid vincere l’ennesimo titolo, la stagione successiva arriverà il venticinquesimo titolo di campione. Nella stagione 1970/71 il Rapid sfoggia una maglia più moderna verde con collo a girocollo bianco, pantaloncini neri e calzettoni verdi con bordo bianco, la vera novità della stagione è la comparsa del primo sponsor commerciale sulla maglia del club viennese, si tratta della Raiffeisen Bank, colosso bancario austriaco, dalla stagione successiva comparirà il logo della Zentralsparkasse, sempre dello stesso gruppo bancario. A partire dalla stagione 1974/75 il club si legò alla ditta produttrice di mattoni e materiali edili Wienerberger, come quasi tutti i club austriaci in quegli anni cambiò anche la denominazione ufficiale in SK Rapid-Wienerberger, sempre in quella stagione l’Adidas cominciò a fornire divise marchiate al club. Nella seconda metà degli anni ‘70 bellissime maglie verdi con collo a girocollo bianco e strisce del fornitore bianche sulle maniche, i pantaloncini neri o bianchi, sempre marchiati con le tre strisce, e calzettoni verdi. Nel 1977 il Rapid si trasferì al Gerhard Hanappi Stadion, nel 2014 un ultimo trasloco nel nuovo Allianz Stadion. Nel 1981/82 la maglia diventa biancoverde a strisce verticali con collo verde a V, i pantaloncini sono bianchi e i calzettoni a righe, con questa divisa il Rapid mette fine ad una striscia negativa di tredici anni senza vincere il titolo, questa è anche la divisa indossata dai viennesi in occasione della loro prima finale di Coppa delle Coppe il 15 maggio 1985 a Rotterdam, sconfitta

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per 3-1 contro l’Everton. In questi anni gioca per il Rapid Hans Krankl, uno degli attaccanti più forti del decennio. Per tutti gli anni ‘80 l’Adidas propone questa divisa, nella stagione 1991/92 il fornitore è la torinese Kappa che propone esattamente la stessa divisa del fornitore tedesco. Dal 1992/93 il fornitore è la Diadora che nelle prime tre stagioni presenta una maglia verde con sottili strisce verticali bianche e una fascia orizzontale di forma irregolare, il collo a camicia bianco è chiuso da un bottone, pantaloncini bianchi e calzettoni bianchi con bordo verde. Nella stagione 1995/96, divisa composta da maglia biacoverde a righe orizzontali con collo a camicia bianco, pantaloncini e calzettoni bianchi, i Viennesi raggiungono per la seconda volta la finale di

Coppa della Coppe, l’8 maggio 1996 incontrano a Bruxelles il PSG soccombendo per 1-0. Nelle stagioni 1996/97 e seguente maglia verde con vistosa fascia verticale bianca centrale con collo a camicia bianca, pantaloncini e calzettoni sono di preferenza bianchi. Il contratto con la Diadora termina nella stagione 1998/99, la ditta italiana propone una maglia bianca con fianchi verdi, maniche blu e verdi e collo a camicia verde, pantaloncini e calzettoni bianchi. Con il nuovo millennio torna la Adidas come fornitore, maglie diverse ad ogni stagione proponendo abbinamenti di verde e bianco in diverse combinazioni. La seconda maglia del Rapid è stata per quasi un secolo bianca con bordi verdi, le poche volte che necessitava il cambio, a metà degli anni 70 è stata usata


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una maglia bianca con fascia verticale verde, forse ad imitare l’Ajax che in quel periodo andava per la maggiore, a partire dalla stagione 1994/95 si è deciso di usare i colori rosso e blu delle origini. Un’eccezione c’è stata nell’autunno del 1984 quando il Rapid incontrò il Celtic negli ottavi di Coppa delle Coppe, era la prima volta che i Viennesi giocavano contro una squadra che indossava gli stessi colori. Dopo aver vinto in casa per 3-1, il Rapid affrontò la trasferta in Scozia indossando un completo azzurro in riferimento ai colori dei Rangers. Il Celtic vinse per 3-0 una partita molto dura, durante l’incontro vennero gettate in campo alcune bottiglie di vetro e l’UEFA ordinò la ripetizione della partita in campo neutro, si giocò a Manchester all’Old Trafford un mese dopo e il Rapid vinse 1-0 indossando una divisa completamente rossa in onore del Manchester United. Un logo comparve sulla maglia nella stagione 1956/57, si trattava di una R maiuscola bianco sulla maglia verde e scomparve a fine stagione. Lo stemma sociale tornò, in maniera definitiva nella stagione 1991/92, si trattava di un logo in bianco e nero stilizzato, dalla stagione successiva comparve il vero stemma sociale: scudo biancoverde e scritta Rapid rossa in campo blu, il tutto circondato da foglie di alloro.

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Un ringraziamento particolare a Laurin del Rapideum, il museo del club, per la sua disponibilità e per gli aneddoti che mi ha raccontato. Nel catalogo HW del Subbuteo il Rapid è il numero 36, maglia biancoverde a strisce verticali con pantaloncini bianchi e calzettoni bianchi con bordi verdi.

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C L A C L E D I T GIGAN Mendieta

di Fabrizio Ponciroli

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GAIZKA, ANIMA LIBERA Meteora alla Lazio, ma giocatore dai piedi raffinati e dagli interessi molteplici…

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l nome Gaizka Mendieta, soprattutto ai tifosi della Lazio, evoca ricordi poco piacevoli. La sua esperienza nella capitale, sponda biancoceleste, è durata una sola stagione. Non è andata come lo spagnolo di Bilbao sperava ma, su questo c’è da metterci la mano sul fuoco, il ragazzo, con il pallone ci sapeva fare per davvero. Classe 1974 (lo stesso anno di nascita di Alex Del Piero), Gaizka Mendieta è stato uno dei centrocampisti più completi che la Spagna abbia mai sfornato. Doti tecniche impressionanti, ha lasciato il segno soprattutto al Valencia, dove è rimasto per nove stagioni, conquistando una Copa del Rey (1999) e una Supercoppa (1999). Nel 2001, sbarca alla Lazio per una cifra monster, pari a 89 miliardi di vecchie lire. Non riesce ad imporsi ma poco importa. Torna in Spagna, gioca, per un anno, al Barcellona, con gente come Iniesta e Xavi e poi si diverte pure in Premier League, vestendo la casacca del Middlesbrough, club con cui vince anche una League Cup (2004). Oggi fa parte della squadra delle LaLiga Legends ma, come scopriremo, ha tanti altri interessi che coltiva con passione, la stessa che ha ancora

in campo… Gaizka, partiamo dalla tua “occupazione” nella squadra delle leggende della Liga… “Penso che per i tifosi è una grande opportunità poter vedere in campo delle leggende, in questo caso la squadra LaLiga Legends. Sono giocatori internazionali, con esperienza anche nella Liga. è un prodotto che piace alla gente, perché si dà la possibilità ai tifosi di rivedere grandi star. Ogni anno ce ne sono di nuove che si aggiungono

Il Direttore Ponciroli mentre intervista Mendieta

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CA GIGANTI DEL Mendieta

alla squadra, anche perché la Liga continua ad attrarre i migliori giocatori del mondo. Abbiamo l’opportunità di giocare in tanti Paesi, proprio grazie alla squadra LaLiga Legends. Per noi ex giocatori, poter giocare di nuovo e risentirsi professionisti è qualcosa di impagabile”. Avete una squadra davvero fortissima, con campionissimi di qualità assoluta. Oltre a te, basta citare gente come Morientes, Hierro, Mijatovic e tanti altri… Ma chi è il più in forma di tutti? “Beh, direi che Julio Baptista (visto anche alla Roma, n.d.r.) è davvero in grande spolvero, anche perché ha smesso da poco”. Passione per il calcio ma anche per la musica. Da anni ti diletti a fare il deejay… “È una passione che ho dai tempi in cui giocavo al Valencia. Quando ho smesso di giocare, ho avuto ancora più tempo per dedicarmi alla musica e a fare il deejay. Ho partecipato a tanti festival. Diciamo che, soprattutto in estate, è il momento in cui do più spazio alla musica. Non avrei mai pen-

sato che sarebbe diventata un impegno così serio”. Di che altro ti occupi? “Beh, faccio tante apparizioni in TV. Sono ambasciatore per la Liga e pure per gli Europei del 2020. Poi mi piace anche tenermi in forma…”. Spiegaci meglio… “Oltre alle partite di calcio a cui partecipo, mi piace andare in bicicletta e mi diverto pure a mettermi alla prova con il il triathlon”. In Italia sei ricordato per la tua non molto fortunata esperienza alla Lazio. Che ricordi hai di quel periodo? “Non è andata come mi speravo, ma è un’esperienza che mi ha aiutato a crescere. Mi ha formato molto”. In quella Lazio c’erano tanti grandi campioni, molti sono diventati allenatori, come Mihajlovic, Inzaghi e Simeone. Tu non ci pensi ad allenare? “Ho il patentino da allenatore, l’ho preso. Non so, vediamo. Ora sono preso da tanti

LA Carriera di GAIZKA Stagione Squadra Campionato 1991–92 Castellón Segunda División 1992–93 Valencia Liga 1993–94 Valencia Liga 1994–95 Valencia Liga 1995–96 Valencia Liga 1996–97 Valencia Liga 1997–98 Valencia Liga 1998–99 Valencia Liga 1999–00 Valencia Liga 2000–01 Valencia Liga 2001–02 Lazio Serie A 2002–03 Barcelona Liga 2003–04 Middlesbrough Premier League 2004–05 Middlesbrough Premier League 2005–06 Middlesbrough Premier League 2006–07 Middlesbrough Premier League

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Pres. Reti 16 0 2 0 20 2 16 1 42 0 36 1 35 10 54 12 53 19 47 14 31 0 47 6 38 3 8 0 29 3 8 0


FARO AL VALENCIA Il miglior Gaizka Mendieta si è visto, senza ombra di dubbio, in maglia Valencia. Dopo due stagioni al Castellon, nell’estate del 1992, firma con il club dei pipistrelli. È l’inizio di una lunga storia d’amore che dura fino al 2001, anno del suo passaggio alla Lazio, in Italia: “Il momento più bello della mia carriera dico sempre che è il giorno del mio esordio come calciatore professionista perché è il giorno in cui è iniziato tutto. Non l’esordio ufficiale a Cadice, ma lo esordio come titolare a Mestalla, c’è stato l’inizio di tutto. Ovviamente ho un grande ricordo dei titoli ottenuti, delle finali giocate con il club, sono state 10 stagioni, sono molti anni, ma forse questi sono i momenti più speciali”. Il top nel 1999 quando, con alla guida il tecnico italiano Claudio Ranieri, arriva il successo in Copa del Rey (primo trofeo dopo 19 anni di attesa per il Valencia) e pure la prima Supercoppa spagnola della storia del club. Oltre alla stella Gaizka Mendieta, in quella squadra brillano giocatori del calibro di Santiago Canizares, Kily Gonzalez, Adrian Ilie, Jocelyn Angloma e pure l’italianissimo Amedeo Carboni. L’unico smacco, le due finali di Champions League persa, consecutivamente. Nel 2000, il Valencia guidato da Hector Cuper si infrange contro il Real Madrid (3-0 il risultato finale per i blancos). L’anno seguente, è il Bayern Monaco a sbriciolare, a San Siro, il sogno di Gaizka Mendieta di diventare Campione d’Europa con il suo amato club. I bavaresi si impongono ai calci di rigore, dopo che la gara termina in parità (1-1 con rete proprio di Mendieta): “Purtroppo non è andata per il verso giusto. Sono ancora convinto che quel Valencia fosse migliore di quel Bayern Monaco. Era la nostra seconda finale, ci sentivamo pronti. Un peccato che sia finita così. Se ci ripenso, mi fa ancora male”, ricorda il diretto interessato.

Il Valencia del 1999, una squadra fortissima con Mendieta in cabina di regia - Liverani

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“Operazione Nostalgia è una realtà digital che vuole far emergere i valori positivi del calcio”

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“Classe 1974, Gaizka Mendieta è stato uno dei centrocampisti più completi che la Spagna abbia mai sfornato. Doti tecniche impressionanti, ha lasciato il segno soprattutto al Valencia, dove è rimasto per nove stagioni, conquistando una Copa del Rey e una Supercoppa”

impegni”. Il miglior allenatore che hai avuto e perché è stato il migliore… “Il miglior allenatore per me è stato Héctor Núñez perché mi ha dato la possibilità di giocare continuamente e regolarmente al Valencia. Hiddink è stato quello che mi ha formato e quello che forse ha avuto maggiori ripercussioni su di me è stato Luís Aragonés, un grande conoscitore di calcio, dei calciatori. E’ sempre stato molto onesto con tutti loro. Ogni giocatore che ha lavorato con lui, condividerà questa opinione”. Fai mille cose, non hai mai la voglia di fermarti e rilassarti un po’? “Onestamente, non è facile. Viaggio tantissimo però la passione è fortissima e quindi cerco di tenere fede a tutti gli appuntamenti. Per fortuna, almeno fino ad ora, sono riuscito a fare tutto abbastanza bene. Speriamo di continuare così anche in futuro”. Hai anche il patentino da allenatore… Alleneresti mai in Italia? “Sì, ho il patentino UEFA A e la mia intenzione è quella di ottenere il tesserino UEFA Pro e naturalmente sì, mi piacerebbe allenare in Italia. Fare l’allenatore significa stare vicino al campo e questo è quello che ci emoziona di più. Se in qualsiasi momento arrivasse un’opportunità interessante per me, accetterei sicuramente la sfida”. Torniamo a parlare di calcio: nella Liga c’è ancora Messi ma non c’è più CR7… “Beh, CR7 ha fatto una scelta professionale. Cercava nuovi stimoli”. Ti aspettavi una resa così alta nel suo primo anno in Italia? “Sì, non avevo dubbi. Ha fatto bene in Inghilterra, ha fatto benissimo in Spagna, quindi ero più che convinto che avrebbe fatto bene anche in Italia. Ecco, forse mi aspettavo qualche difficoltà in più all’inizio, visto che, al Real Madrid, c’era la squadra che giocava per lui ma stiamo parlando di un fuoriclasse”.

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OPERAZIONE LEGGENDA

Cresce la richiesta di vedere in campo i campionissimi del passato… Il fascino del passato, soprattutto se glorioso, è unico. Chi ci ha fatto emozionare con epici gol o giocate da fuoriclasse, ha sempre un posto speciale nel nostro cuore. La nostalgia per i bei tempi andati sta portando sempre più campionissimi a tornare in campo per accontentare coloro che li hanno amati e applauditi quando erano giovani virgulti dal talento sconfinato. Tante le partite organizzate per permettere ai fan di rivedere i propri idoli in maglia e calzoncini. L’ultima proposta di livello è Operazione Nostalgia Stars vs LaLiga Legends. Un evento (6 luglio, stadio Manuzzi di Cesena) che ha richiamato tantissimi tifosi. Troppa ghiotta l’occasione di vedere all’opera gente del calibro di Alex Del Piero, Edgard Davids, Fernando Morientes, Gaizka Mendieta, Fernando Hierro (e tanti altri) per lasciarsela scappare. “Operazione Nostalgia è una realtà digital che vuole far emergere i valori positivi del calcio. Grazie all’apporto fondamentale di AIC, siamo riusciti a portare la nostra realtà social anche sul campo. Direi che siamo sulla strada giusta”, confida Andrea Bini, founder di Operazione Nostalgia. Gli fa eco Tommaso Franco di AIC: “Ho incontrato Andrea Bini nel 2015. Al primo raduno, c’erano 500 tifosi per vedere quattro ex giocatori a San Babila, a Milano. In quattro anni, il fenomeno è cresciuto a dismisura e ora parliamo di eventi che coinvolgono migliaia di tifosi e tantissime leggende del passato”. L’idea di “investire” sulle Legends è ben radicata in Spagna. La squadra LaLiga Legends è seguitissima e amatissima dai fan: “La squadra Liga Legends è nata nel 2013. L’obiettivo è sempre stato quello di promuover il marchio della Liga nel mondo. Siamo stati in Messico, Portogallo, Plonia e tanti altri Paesi. Ora siamo venuti in Italia, Paese molto appassionato di calcio, proprio come il pubblico spagnolo. Liga e Serie A sono due campionati top, normale che ci siano tanto interesse attorno a queste partite”, conferma Fernando Sanz, giocatore della formazione Liga Legends. Gli fa eco Fernando Morientes, altro fuoriclasse della squadra: “È un vero piacere poter giocare nella fila della squadra delle leggende della Liga. Cerchiamo sempre di dare il massimo, anche se non è facile. Non sono più in forma quando giocavo a calcio regolarmente. Da fuori sembro in forma ma vi assicuro che gli anni passano per tutti”. Gli anni passano, eppure, ogni volta che tornano a calciare un pallone su un terreno verde, i tifosi impazziscono, dimenticando la propria fede calcistica: “Ogni tifoso che viene a questo tipo di evento, fa il tifo per tutti. Si presentano allo stadio con le magliette dei propri idoli del passato ma sostengono tutti. Lo scorso anno abbiamo giocato a Parma ed è stato incredibile vedere tutte quelle persone sugli spalti del Tardini che si divertivano, applaudendo ogni giocatore, senza pensare se fosse

Mendieta con la casacca della Lazio, stagione 2001-2002 - Liverani

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Cr7 è arrivato in Italia... Messi lascerà mai il Barcellona? “Beh, suppongo che a un certo punto Messi lascerà il Barça, ma speriamo che sia il più tardi possibile. Parliamo di un giocatore che fa parte del Barcellona, e quindi della Liga, da sempre. Bello vedere che la sua carriera è legata ad un solo club. Comunque Messi ha detto, in alcune occasioni, che vorrebbe tornare nella sua città natale per chiudere la sua carriera”.


L’evento organizzato da Operazione Nostalgia al Tardini di Parma nel 2018

o meno un giocatore della propria squadra del cuore. Questo è il bello di questa tipologia di eventi. Uno spirito che si respira solo in manifestazioni come quelle organizzate da Operazione Nostalgia”, rivela Diego Fuser, giocatore di Operazione Nostalgia Stars. E che nessuno pensi che non ci sia spazio per la competizione: “No, quando scendi in campo, non vuoi mai fare delle brutte figure. Anche se non hai lo scatto e la preparazione fisica di un tempo, vuoi sempre vincere. Sicuramente giocare al fianco di campioni che sanno stare in campo, aiuta parecchio”, conclude l’ex bomber del Real Madrid Fernando Morientes. L’impressione è che la crescita di progetti legati al mondo delle leggende del calcio sia destinata a protrarsi a lungo. Troppo forte il richiamo della nostalgia…

Intanto il Real Madrid sta attraversando un momento difficile mentre le inglesi dominano in Europa… “Nell’ultimo anno, le squadre della Premier League hanno fatto benissimo ma, se ci si concentra sugli ultimi 10 anni, direi che il calcio spagnolo ha fatto risultati grandissimi. Comunque, sicuramente, la Premier League, insieme alla Liga, sono i due campionati migliori in Europa”. In Italia aspettano Guardiola per un rilan-

cio a livello internazionale… “Sono sicuro che, prima o poi, vedremo Guardiola in Italia. Bisogna solo aspettare”. Parola di Gaizka Mendieta, meteora nella sua avventura italiana ma stimatissimo all’estero dove ha sempre dimostrato di essere un fuoriclasse assoluto. Anche adesso che non gioca più a calcio, è coinvolto in progetti ambiziosi e prestigiosi. C’era da aspettarselo da uno che coltiva mille passioni, tutte con la massima cura…

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O N R O I G N U EROI PER Sergio Pellisier di Sergio Stanco

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Sergio Pellissier ha dato l’addio al calcio dopo 22 anni di onoratissima carriera, di cui 19 spesi nel Chievo. Un’altra bandiera che ha smesso di sventolare. Abbiamo però ancora tempo per uno splendido “rewind”.


STANDING OVATION

è

il 13 maggio, a San Siro si gioca un Inter-Chievo valido quasi solo per gli almanacchi, come si diceva un tempo. Dopo una partenza lanciata, i nerazzurri si sono un po’ sgonfiati, finendo per accontentarsi di una qualificazione in Champions League messa in discussione solo nelle ultime giornate, ma solo per un pizzico di presunzione e superficialità. Il Chievo, invece, affossato dalla penalizzazione, ha lottato finché ha potuto, fino a quando la matematica dava un barlume di speranza, salvo poi perdere energie fisiche e nervose, arrendendosi nel finale. Quel Chievo, oltre alla Serie A, sta perdendo un altro pezzo di storia: qualche giorno prima, infatti, il suo Capitano Sergio Pellissier ha annunciato l’addio al calcio in una conferenza stampa emozionante. Dopo 19 anni di lunga militanza in gialloblu, i tifosi clivensi non vedranno più quel furetto maglia numero 31 scorrazzare per il campo, segnare come una tassa ed esultare come un ossesso. Ma Sergio Pellissier è, è stato e sarà molto di più, per tutti. E lo dimostra proprio l’80’ minuto di quella partita, che in quel momento prende una piega del tutto diversa e, pur nel piccolo di quel gesto, a suo modo entra nella storia: Di Carlo richiama il giovane Vignato, 18 anni, ed inserisce proprio il Capitano, che di primavere ne ha 40. Quella sostituzione è anche una sorta di ricambio generazionale, il simbolo del tempo che passa e del calcio moderno che avanza. Sarà, ma almeno per

adesso San Siro sa da che parte schierarsi. Il giovane Vignato avrà altre occasioni per farsi ammirare, apprezzare ed applaudire, adesso la scena è tutta per Pellissier: il pubblico si alza in piedi al suo ingresso in campo e gli riserva un tributo da brividi. In tanti anni di carriera, non abbiamo assistito spesso ad un applauso di San Siro così bello, spontaneo e sentito, ad un avversario. Sergio si guarda intorno, quasi un po’ stranito, sorpreso, intimidito. Come a dire: “Ma davvero state facendo questo per me? Non ci credo”. Invece sì, più di 55mila tifosi nerazzurri in piedi per una bandiera. Poco importa che fosse quella del Chievo, l’importante è che sventolasse ancora forte per un po’. “È stato uno dei momenti più emozionanti della mia carriera – ammette Sergio Pellissier ai nostri microfoni – È stato strano per me, perché mi considero un giocatore normale e di solito i giocatori normali non godono di questo trattamento (sorride, n.d.r.). Ma è stato ovviamente bellissimo, significa che comunque qualcosa di buono in tanti anni l’ho fatto”. Molto più di qualcosa, aggiungiamo noi: nel 1997 esordio in B col Torino, nel 2002 quello in Serie A col Chievo, maglia con la quale disputa 19 stagioni consecutive, arrivando fino in Champions League e Nazionale. Record di presenze con i clivensi e miglior marcatore in Serie A con la casacca gialloblu (112 gol). Basta? Di fatto lascia un pezzo di storia non solo del Chievo, ma del nostro calcio: “La scelta è stata ponderata e ovviamen-

“Gli applausi dei tifosi interisti a San Siro mi hanno fatto grandissimo piacere, significa che qualcosa di buono l’ho fatto in carriera”

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RNO

GIO EROI PER UN Sergio Pellisier

te soffertissima, ma ho ritenuto fosse quella migliore. D’altronde faccio solo questo da 22 anni e l’ho sempre fatto con grande passione. Fortunatamente ho avuto il tempo di prepararmi, di assorbire e digerire, se avessi smesso all’improvviso sarebbe stato più difficile. Forse, però, ancora non me ne rendo conto, probabilmente quest’estate quando non andrò in ritiro accuserò il colpo (sorride, n.d.r.)”. E allora questo non può non essere il momento dei bilanci, delle riflessioni, anche dei rimorsi. Sergio è un fiume in piena: “Il calcio mi lascia 22 anni di ricordi bellissimi, di momenti di gioia e anche di sofferenza, dalla quale però sono sempre uscito. Io lascio al calcio la mia voglia, la mia serietà, il mio spirito di sacrificio e spero che questo serva ai ragazzi di oggi, che non mi sembrano molto propensi a sacrificarsi. Non ho mai avuto dubbi al momento di lasciare, già sapevo che non avrei fatto l’allenatore: quello in cui i più giovani si sentono già arrivati perché hanno esordito in A, che non vogliono andare in prestito in C e magari se gli fai un’osservazione ti rispondono anche, non è più il mio calcio. Io mangiavo l’erba, anche la sabbia dei campi della Serie C di una volta, che non era la Lega Pro di oggi. Pur di arrivare in Serie A avrei fatto qualsiasi cosa e neanche mi sognavo di arrivare in Champions League o Nazionale perché, per quanto fossi umile, non pensavo di averne le qualità. Invece grazie al sacrificio ho raggiunto tutto questo. Ai giovani d’oggi lascio questo mio insegnamento, il mio esempio, perché possano farne tesoro. Se dovessi scegliere una foto simbolo della mia carriera, ad esempio, punterei su quella in cui ho alzato il trofeo di B nel 2008, perché è quella che mi rappresenta al meglio: dalla Champions League in B, scelgo di rimanere fedele al Chievo e da capitano lo riporto in A. Alzare quella coppa ha significato tantissimo per me e per il club. Poi, ovviamente, mi resta il rammarico di aver assaporato solo i preliminari di Champions League senza riuscire

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Una vita al Chievo, sempre con grande professionalità e umiltà

a qualificarci alla fase a gironi, ma anche la gioia dell’esordio in Nazionale riuscendo ad andare in gol dopo soli 11’ da mio ingresso in campo (Italia-Irlanda del Nord, 6 giugno 2009, allenatore Lippi, n.d.r.). Quella è stata la ciliegina sulla torta della mia carriera. Sono emozioni che mi porterò sempre con me”. Al di là del sacrificio, però, Sergio Pellissier è stato anche un bomber di razza, ha punito tutti, anzi spesso si divertiva a colpire nei grandi appuntamenti. Una volta li chiamavano ammazza-grandi. Il “pistolero” Pellissier ha tutte le tacche sulla sua cintura, ma quando vedeva bianconero impazziva come un toro che vede il drappo rosso. E l’accostamento con il Toro non è casuale, vista la militanza nel settore giovanile granata: “Sì, alla Juve ho segnato anche una tripletta (5 aprile 2009, era la Juve di Ranieri, ma anche


di Buffon, Camoranesi, Marchisio, Del Piero…, n.d.r.), una serata indimenticabile. Ma proprio ad una gara contro la Juve è legato forse il mio rammarico più grande: era il 9 maggio 2011 e abbiamo pareggiato 2-2 a Torino. Sul finire, però, ho avuto un’occasione a tu per tu con Buffon, avrei potuto concludere a rete e fare gol, sarebbe stata probabilmente la prima vittoria nella storia del Chievo in trasferta contro i bianconeri. Invece ho deciso di fare l’assist ad Uribe e l’occasione è sfumata”. Ha avuto modo di rifarsi bomber Pellissier: “Ricordo con piacere tutti i miei gol, non riesco a distinguere tra belli e brutti, perché per me sono tutti belli (sorride, n.d.r.). Di solito li divido tra importanti e meno importanti: ovviamente sono rimasto molto legato al primo in A (al Parma nel 2002, n.d.r.), così come al centesimo nella mia carriera (contro il Novara dieci anni più tardi, n.d.r.). E, naturalmente, alla tripletta alla Juve, perché segnare tre gol ai bianconeri non è cosa di tutti i giorni”. L’ultimo proprio in questa disgraziata stagione (7 ottobre 2018: MilanChievo 3-1, n.d.r.), un gol che non è riuscito a scuotere i suoi compagni, ma che se non altro ha consentito a Pellissier di andare a segno per la diciassettesima stagione consecutiva: “Chiudere così è stata la delusione più brutta della mia carriera, non per la retrocessione in sé, ma per come è arrivata. Io dico sempre che si può perdere, ma non senza lottare. Le

Uno dei tanti gol di Pellissier, questo alla Juventus nel 2016

sconfitte così erano quelle che più di tutte mi facevano imbestialire: ricordo una nel derby, al martedì successivo arriviamo per la riunione tecnica e sbotto. Sono venuti giù i muri dello spogliatoio (sorride, n.d.r.): non posso concepire la superficialità, la presunzione, la mancanza di reazione. Lo spirito, la grinta, l’orgoglio, non possono mai mancare”. Ed è questo atteggiamento che ha fatto innamorare il pubblico del Chievo, ma non solo. Non sono gli anni di militanza ad eleggere una bandiera, ma è l’esempio in campo e fuori.

“Per me i gol che ho fatto sono tutti belli, ma certamente la tripletta segnata alla Juventus ha un sapore speciale” Ed è per questo che è particolarmente difficile gestire il momento dell’addio: “Io sono stato fortunato, perché ho la fortuna di aver giocato in una squadra il cui presidente è ancora un tifoso. Nelle piazze in cui il calcio è solo business, non sarebbe stato altrettanto facile. Se trattiamo questo sport solo come una questione economica, è normale ammainare le bandiere senza troppo riguardo. Qui non è stato così, avrei potuto continuare a giocare anche se non fossi stato in grado di camminare (sorride, n.d.r.). Sono stato io, però, a decidere di lasciare, perché non volevo rappresentare un peso in campo o una presenza ingombrante nello spogliatoio: tuttavia, il presidente Campedelli, con il quale ho sempre avuto un rapporto eccezionale, ha ritirato la mia maglia e mi ha proposto di rimanere in società come presidente operativo del club. Sono onorato della fiducia e spero di esserne all’altezza”. Il meritato lieto fine di una favola davvero meravigliosa. Standing ovation per voi.

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TI I N I F O N O S DOVE Sasa Bjelanović

di Daniele Perticari

A tu per tu con Sasa Bjelanović, ex centravanti, tra le altre squadre, di Genoa, Torino e Verona, oggi direttore sportivo dell’HNK Hajduk Spalato, una delle squadre più importanti della Croazia e di tutta l’ex Jugoslavia. Con lui abbiamo parlato della sua nuova carriera, del calcio nella sua nazione e delle sue prospettive future. Credit foto: Ufficio Stampa Hajduk Spalato

DIRETTORE E GENTILUOMO 76


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i corsa, sempre di corsa. Da calciatore, da direttore sportivo, da padre. E anche nel tempo libero. E con un’oasi, vera e propria, da riabbracciare quando si torna a casa. Ogni giorno, 160 km di andata, il lavoro di scrivania e di campo e altri 160 km al ritorno, prima di ritrovare l’affetto della famiglia. Dicevamo dell’oasi: digitate Morske Orgulje su Google o su Youtube o, se siete più fortunati ed avete la disponibilità, andate a cercarlo (nelle stagioni calde) a Zara, casa sua. Ecco, è davanti all’ “Organo Marino” che Sasa Bjelanović trova il tasto per interromperla, la corsa, e guardare il mare che si perde dentro ad una scalinata costruita per fungere da organo, riproducendo suoni di ogni genere che, in tutta sincerità “attraggono molto più i turisti che noi di Zara, ma noi ci andiamo comunque perché è un allestimento bellissimo”. La tranquillità che serve, perché dopo anni a rincorrere il pallone anche se sei un centravanti, e decidi di diventare un direttore sportivo, devi avere nel taschino per essere sempre lucido e sopportare la responsabilità e le pressioni. Già, le pressioni, perché dal 2016 prima da assistente e poi da diesse in carica dell’HNK Hajduk Spalato, sono diverse. “Siamo una delle squadre più seguite e tifate dell’intero territorio balcanico – ci ha detto con fierezza Bjelanović – e da questo consegue il fatto che l’attenzione sia sempre al massimo livello anche se le capacità economiche delle società del calcio croato, non siano uguali agli altri club europei”. Torneremo sullo specifico della gestione di una squadra, ma la curiosità maggiore al momento è quella di capire come e quando, il centravanti tutto cuore, colpi di testa, lotta e gol (22 in Serie A, 42 in Serie B con 3 centri anche in Coppa Uefa e altri da aggiungere allo score nei vari campionati e coppe nazionali) abbia trovato un tassello del puzzle con scritto “Direttore Sportivo” da inserire nello spazio vuoto mancante della propria carriera. “Da sempre, in Italia, ho avuto la predisposizione ed il

dono, oltre alla curiosità, di conoscere ogni giocatore, ogni avversario. Dalla Serie A alla Serie C. Prendevo informazioni su tutto e tutti e dato che in Croazia per regolamento, per essere direttore sportivo devi ottenere il patentino di allenatore, ho studiato sia da direttore che da allenatore effettuando tutto il percorso per avere l’attestato “Uefa A”. Se oggi sono questo è perché ho perseguito il mio obiettivo di diventare un direttore osservando anche quelli che ho avuto nelle mie esperienze da calciatore”. C’è un giorno in cui la vita di Bjelanović è cambiata. Via gli scarpini, su la cravatta. Via i sorrisi e la concentrazione da spogliatoio. Dentro le telefonate e gli incontri per supportare prima e disegnare poi, la sua squadra. “Ho avuto la fortuna di non avere periodi morti – ci ha confessato - perché appena decisi di smettere di giocare, iniziai il percorso dirigenziale. Per questo ho potuto usare tutta l’energia che avevo in campo per destinarla al nuovo lavoro. È un po’ come se non avessi mai smesso, almeno dal punto di vista mentale. Anzi, a dirla tutta, questo è un ruolo che richiede un dispendio di forze mentali assolutamente maggiore rispetto a quando giocavo, perché ogni giorno devi gestire, parlare, motivare, negoziare e questo è molto più duro del lavoro di campo, che è prevalentemente fisico”. Se non lo avete mai conosciuto di per-

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DOVE SONO

FINITI?

Sasa Bjelanović sona o visto dal vivo, Sasa potrebbe sembrarvi il classico marcantonio tutto fisico e potenza, anche nell’esprimersi. Nient’affatto. Il gigante di Zara è un mix di determinazione e gentilezza, eleganza e padronanza di linguaggio, idee decise e faccia pulita. Doti che già i suoi compagni dell’ultima fase della carriera avevano identificato. “Verso la fine della carriera i miei compagni già mi chiamavano “Direttore”, in diverse squadre. Forse per i miei modi di comportarmi, di vestirmi, di parlare con loro. Già iniziavano a vedere alcune mie qualità e caratteristiche per il post carriera. A questo aggiungete che sono un appassionato, anzi possiamo dire proprio “malato” di calcio e il gioco è fatto: è stato facile seguire questa passione”. Spalato, dicevamo. Una città che vive per gli sport di squadra con l’Hajduk che ha nel palmarès 17 campionati vinti (9 jugoslavi, 6 da quando esiste il campionato croato), 17 coppe nazionali (stesso computo dei campionati) e 5 Supercoppe. Una piazza che,

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quindi, esige risultati. “C’è una responsabilità enorme in un posto come questo dove la quotidianità, le pressioni mediatiche e della tifoseria, non ti permettono di rilassarti. L’unica cosa che ci dà un po’ di giovamento sono i risultati. Io, però, cerco sempre di stare sul pezzo e anche dopo le vittorie, punto a focalizzare il lavoro da organizzare per le settimane successive”. Insomma, Sasa cerca di portare un po’ di mentalità occidentale dove il calcio e il movimento vive un bel momento in cui si potrebbe però soffrire di vertigini, specie dopo il secondo posto al mondiale di Russia, il più importante risultato di sempre della Nazionale. “In Croazia, come in tutta la ex Jugoslavia - ha confermato – il calcio è basato tantissimo, ancora tantissimo, sul talento, solo ed esclusivamente sul talento. Abbiamo la fortuna di vivere, da questo punto di vista, in una miniera d’oro non solo per il calcio, ma per tutti gli sport di squadra. Mancano però le infrastrutture, gli investimenti su


allenatori e metodologie. Il secondo posto dei mondiali in Russia non è, e ripeto purtroppo, figlio di un lavoro programmatico, ma è quasi esclusivamente il risultato del mix del talento assoluto di molti dei nostri ragazzi, che poi si sono formati a livello tattico e professionale lontano dalla Croazia. Quella che ha perso contro la Francia è una squadra composta da giocatori che sono usciti dal nostro campionato verso l’estero, che erano ancora dei ragazzini. Purtroppo, dietro a questo risultato si nasconde ancora tanta improvvisazione e poca programmazione”. E allora, da dove prende la forza, una squadra, per sfornare giocatori come Boksic, Jarni, Bilić o Rapaić per fare qualche nome del passato dell’Hajduk? Impossibile fare paragoni con le squadre di casa nostra. “I top club croati, a livello economico, non possono essere messi in competizione con quelli di Serie A. Anzi, penso che probabilmente il discorso si possa fare solo con qualche squadra di Serie B. Il problema maggiore è che non ci sono diritti tv che possano aiutarci a chiudere i budget. Il nostro è composto quasi totalmente dai ricavi della vendita dei migliori giocatori, anzi per dirla tutta, dalla vendita di quelli che hanno maggiore mercato. E questo significa, ogni sei mesi, neanche ogni stagione, dover riprogrammare e non poter avere progetti a lungo termine. L’unica soluzione? Destinare risorse al settore giovanile, dal quale riusciamo molto spesso a crescere giocatori importanti che poi arrivano in prima squadra”. La dimostrazione? Prendete le statistiche della stagione e osservate le presenze di Bradarić (terzino sinistro classe ‘99), Nejasmić (centrocampista, ’99), Palaversa (centrocampista, 2000, già venduto al Manchester City), tanto per far qualche nome. “E non è finita qui – strizza l’occhio Bjelanović – perché nella seconda squadra abbiamo altri talenti pronti da sfornare. Due nomi? Uno è Cubelić, un 2003 di cui sentirete parlare, ma soprattutto Vusković, un difensore centrale del 2001 destinato ad ave-

re un futuro veramente importante”. È quasi il tempo dei saluti e di tornare, sempre di corsa, a Zara. Ma prima divertiamoci un po’. Da direttore sportivo e con un budget adeguato, per quali ex compagni avrebbe fatto follie, il direttore Bjelanović, per averli nella sua squadra? “Il Principe Milito con cui ho giocato al Genoa, Vucinic che era con me a Lecce e Jorginho che ho avuto come compagno all’Hellas Verona. E poi Chiesa, dei giocatori di oggi.

“22 gol in Serie A, 42 in Serie B e 3 centri anche in Coppa Uefa” Per Chiesa spenderei qualsiasi cifra”. Ovviamente in Italia, perché è quella la destinazione del viaggio del direttore Sasa. “È un pensiero costante, tornare a vivere e non solo a lavorare nel vostro paese. In questo momento sto benissimo all’Hajduk, ho da poco rinnovato il contratto fino al 2022, affronto un lavoro che si svolge in una piazza importante e con tante pressioni e questo significa che sto imparando molto per quello che mi servirà in futuro. L’idea è quella di tornare un giorno, quando sarà il momento, per lavorare in una squadra che voglia programmare a lungo termine e che abbia figure definite in ogni ruolo. Sono una persona che vuole assumersi le responsabilità e che lavora ogni giorno per trovare conferma delle proprie decisioni, e per questo penso che ad oggi di squadre, anche in Italia, che ti diano questo tipo di possibilità, non ce ne siano molte”. Probabilmente ha ragione lui. Che intanto, rallenta la corsa, dopo i soliti più di 320 km al giorno da pendolare del calcio. Arriva a Zara, al Morske Orgulje e si guarda intorno. Non è impossibile trovarsi a passeggiare assieme a qualche concittadino che conosciamo anche noi. Qualche nome? Dado Prso, Danijel Subašić, Šime Vrsaljko. E uno che nel mondo è, diciamo, abbastanza noto: si chiama Luka Modrić. È piccola Zara, ma dev’esserci un’aria particolare…

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Roma 1982/1983 di Patrick Iannarelli

Un urlo: Roma! Dopo 41 anni, i giallorossi tornano a trionfare in Italia conquistando il secondo tricolore della sua storia‌

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Credit Foto: Liverani


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tto maggio 1983, ore 16:19 circa. Agostino alza la testa, crossa al centro dell’area di rigore e il solito Pruzzo stacca più in alto di tutti, superando un incolpevole Silvano Martina. Servono almeno un altro paio d’ore, ma Roma, di lì a poco, diventerà una bolgia. Dopo il successo iridato dell’estate appena passata, la Capitale è di nuovo in festa. 41 anni dopo l’ultima volta, la Roma è matematicamente campione d’Italia. Spiegare cosa significa vincere a Roma non è cosa semplice, nemmeno Sebino Nela è riuscito ad esprimersi al meglio. Nella città Eterna per antonomasia, dove tutto sembra rimanere fermo al suo po-

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Roma 1982/1983 sto, vincere non è mai semplice. Un coacervo di emozioni, un insieme di istinti che arrivano direttamente all’interno e che ti fanno amare in maniera folle e a volte esagerata questa squadra. Una compagine bella quanto vincente, a cui è mancato il tassello più prezioso. Quella maledetta Champions League, che sembrava ormai ad un passo da Trigoria. Ma nel calcio, come nella vita, nulla è stato scritto a tavolino. O forse sì. Il problema che il romanziere disponibile in quella notte di maggio non aveva a disposizione strumenti colorati di giallo o di rosso. E scelse una trama fredda, distaccata. Di liverpooliana fattura, in una delle città più calde del mondo. Ma questa è un’altra triste storia, che si discosta da quell’anno magico dominato da una banda di grandissimi giocatori e da un insegnante di vita che nel tempo libero insegnava calcio.

“Se un brasiliano arriva a Roma e prende un soprannome come il suo (Ottavo Re, n.d.r.) siamo davanti a qualcuno che ha tracciato un solco indelebile nella storia del club” Vincere a Roma non è mai semplice. Lo abbiamo visto nel corso degli anni e con il passare del tempo, quando delle ottime squadre non sono riuscite a portare a casa l’intera posta in palio. Squadre troppo belle per essere vere, compagini spinte fino al baratro da un tifo a volte insostenibile. L’insostenibilità. Forse è proprio questo che rende difficile la vita in una piazza calda come quella giallorossa, che cerca in tutti i modi di spingere la squadra. Non è passione, nemmeno amore. È un sentimento talmente tanto complesso e

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IL RICORDO DI NELA Uno dei simboli dello scudetto, ma soprattutto una carriera scandita anche dalla maglia giallorossa sulle spalle. Sebastiano Nela, in arte Sebino, ci ha raccontato che cosa era quella Roma, ma soprattutto cosa ha significato per la sua carriera vincere uno scudetto da protagonista con i colori giallorossi: Cosa ricorda in particolare di quell’anno? Qual è stata la cosa più bella? “È stato un anno dove ci si divertiva tutti i santi giorni. La cosa più bella rimangono i diecimila tifosi che venivano quando si giocava a Torino con la Juventus, era come quasi giocare in casa. C’erano tantissimi tifosi e venivano sempre a sostenerci. È uno dei ricordi più belli anche di tanti miei compagni di squadra”. Qual è stata la partita in cui avete raggiunto la consapevolezza di poter vincere? “Eravamo consapevoli di essere una squadra forte. Sicuramente la partita di Pisa, la gara che ci ha convinto del tutto, in quel momento lì abbiamo pensato di poter vincere il campionato. C’è sempre stato rispetto per le nostre avversarie, ma quella è stata la partita determinante per la nostra convinzione”. Cosa vuol dire vincere uno scudetto a Roma? “Non si può spiegare, bisognerebbe provare. Erano altre stagioni, altri tempi, altre società. Erano cose diverse rispetto al calcio di oggi. Il tifo, la passione. Sono cose particolari, è difficile spiegarle”. Quanto ha inciso la vittoria dello scudetto nella sua carriera? “Io venivo già da due campionati e mezzo al Genoa e subito ho vinto lo scudetto. Mi sono reso conto che potevo essere un giocatore di buon livello per la nostra serie A. Mi ha aiutato tanto il gruppo, era una squadra fortissima che giocava un gran calcio, eravamo avanti a tutti come filosofia calcistica. è stato bello far parte di una squadra così forte e importante, chiaramente ti dà maggiore convinzione. Fin da subito mi sono reso conto del livello di quel gruppo”.


strutturato che risulta difficile sminuire con la semplice passione calcistica. Pacche sulle spalle, nervosismi, voglia di prevalere sui rivali della città. Non ci sono motivi veri e propri, ma semplici pretesti per poter vedere una squadra dominare. Con la voglia di stupire il mondo intero. Non è semplice, assolutamente. Ma chi riesce nell’impresa può dire di aver veramente vinto dieci scudetti. Perché nell’insostenibile peso dell’irrazionalità, l’aritmetica è un’opinione, la Roma no. Chi ha vissuto l’anno dello scudetto è sempre stato consapevole della forza di quella squadra. Lo ha raccontato Luciano Tessari, storico vice di Niels Liedhom, ma anche tantissimi calciatori di quella stagione. Mancava però la conditio sine qua non, quel fattore decisivo che avrebbe unito la finalizzazione di Roberto Pruzzo, le qualità di Bruno Conti e il peso specifico di un simbolo di Roma, Agostino Di Bartolomei. La figura determinante fu proprio quella di Niels Liedholm, uno svedese apparentemente glaciale ma che ha conquistato l’Italia con il suo calcio futuristico e che ricalcava a larghi tratti quello olandese, seppur con diverse accezioni. Spiegare un allenatore come Liedholm è complicato sotto molti punti di vista, anche perché personaggi simili appartengono ad una letteratura di vita ormai scomparsa. Pochi allenatori hanno saputo rapire i sentimenti dei propri giocatori anche a distanza di moltissimi anni. “Anni stupendi”, come lo stesso Sebino Nela racconta. Ma non è soltanto una questione di libertà o meno, l’allenatore svedese ha saputo raccogliere in una squadra tutto ciò che è assolutamente necessario per vincere un campionato. La consapevolezza dei propri mezzi, caratteristica non scontata. L’unione di un gruppo di uomini, di difficile interpretazione sin dalla notte dei tempi. Ma soprattutto la voglia di raggiungere un obiettivo. Senza l’abnegazione non si va da nessuna parte e quella squadra aveva sacrificio da vendere, anche nelle

Gli anni passano ma Falcao resta un idolo assoluto della tifoseria della Roma

partite più complesse. Ma c’erano anche qui simboli che hanno segnato un’epoca e intere generazioni, come ad esempio Agostino Di Bartolomei. Raccontare la storia di “Ago” non è mai facile, soprattutto dopo quel gesto compiuto a dieci anni di distanza dalla maledetta finale di Coppa dei Campioni. Ma quel romano verace ha sempre segnato un movimento incredibile, quel calcio che stava probabilmente cambiando i dogmi futuri degli attuali allenatori. La visione di gioco c’era, un piede niente male anche per il ruolo occupato. Mancava la velocità e in quel momento arrivò una delle mosse più semplici ma allo stesso tempo più significative del tecnico svedese: prendere il numero 10 e arretrarlo in difesa. Maggiore visione di gioco, possibilità di giocare con meno pressione da parte degli avversari e un elemento carismatico in difesa.

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Roma 1982/1983

Il tecnico Liedholm osserva i suoi assi Falcao e Cerezo allenarsi. Credit foto: Liverani

Un centrocampista di livello a dipingere calcio in maniera artistica, perché Di Bartolomei si nutriva di pallone ma anche di arte. Passione condivisa con lo svedese “napoletano”, come tutti lo chiamavano. Perché non importa da quale parte del mondo vieni, sul rettangolo di gioco le emozioni si mescolano in quel prato verde apparentemente delineato, ma in fin dei conti senza veri e propri confini. Tanto la qualità a centrocampo non mancava di certo. Ancelotti da una parte, Paulo Roberto Falcao dall’altra. Ecco, se un brasiliano arriva a Roma e prende un soprannome come il suo (Ottavo Re, ndr) siamo davanti a qualcuno che ha tracciato un solco indelebile nella storia del club. Per negare un suo trasferimento all’Inter, leggenda narra che ci fu l’intromissione di qualcuno dall’alto, di molto in alto, per bloccare il tutto. Per farvi capire quanto possa contare la Roma tra i tifosi di

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fede giallorossa. Cinque anni in cui quel brasiliano di Xanxerê ha letteralmente creato calcio anche quando non c’era la possibilità. Un portamento unico, chi ha avuto la fortuna di vederlo giocare dal vivo ancora ricorda quei movimenti che scandivano i suoi 90’ in campo. Ironia della sorte, quel giocatore entrò quasi per caso nella “lista della spesa” di mister Tessari. Uno stop al volo e un tiro di destro di poco fuori bastano per far innamorare anche chi non cerca ritmi compassati. Nonostante ciò che è stato in grado di costruire a Roma, la critica stroncò anche il numero 5. Troppo lento, troppo anonimo. Troppo macchinoso. Ma era colpa di un virus, perché quando Paulo Roberto Falcao ha deciso di prendersi la Roma, non l’ha più mollata. In attacco c’era anche il terminale offensivo adatto, ovvero Roberto Pruzzo. Ma il vero


top player di quella squadra era sicuramente Bruno Conti, che si era appena meritato l’appellativo di “Marazico”. Prima il baseball, in quella Nettuno tanto a stelle e strisce, poi il calcio. Probabilmente fu proprio lui uno dei personaggi decisivi di quel tricolore, visto il mondiale appena giocato. Un campionato del mondo e uno scudetto con la maglia della Roma, in pochi sono riusciti a replicare un’impresa simile. La qualità, l’estro, ma soprattutto le giocate di puro istinto. Perché chi gioca nella Roma e sa cosa vuol dire essere romanisti è ben conscio che il ragionamento lucido e freddo non fa parte delle peculiarità di questi colori. Servirebbero giorni interi per poter raccontare la storia di ogni singolo personaggio di quello scudetto, da Franco Tancredi ad Aldo Maldera, passando per Chierico, Iorio, Nela, Vierchowod e tanti altri che hanno riportato

Bruno Conti, uno degli artefici dello Scudetto giallorosso del 1983

un tricolore in un posto dove mancava ormai da troppo tempo. Una ragnatela perfetta, fatta di uomini, sentimenti e calcio. Giocatori che hanno segnato intere generazioni con partite incredibili, vinte su campi complicati e difficili. Gare giocate su terreni in cui era difficile per tutti poter esprimere un calcio moderno e ideologico come quello dello svedese. Partite in cui la consapevolezza stava emergendo, come quella di Pisa. Ma anche sconfitte brucianti, come le quattro partite stagionali contro la Juventus. Ma in un anno in cui tutto sembrava complicato, in cui c’era entusiasmo per un mondiale vinto ma non si sapeva quale fosse la vera direzione della squadra, quei giocatori sono riusciti ad esprimersi al meglio grazie a tanti fattori e a quella genuina bontà che solo a Roma puoi far tua… Più di qualche interprete appena nominato ha avuto un passato particolare e dei genitori che “volevano altro”. Il calcio ancora non veniva visto come un lavoro, ma soltanto come quel vecchio passatempo che qualcuno aveva portato dalla perfida Albione. E tra scaramanzie del Barone e tanti destini intrecciati nel modo giusto, lo scudetto tornò a Roma dopo 41 lunghissimi anni, riportando il sole in una città che per mille motivi stava vivendo una lunga notte. Ma quando il calcio è una ragione di vita, una filosofia, un credo atipico, tutto cambia e può sballare ogni singola concezione umana. L’immaginazione, la voglia di poter trionfare in un luogo che è mentalmente vessato da chi ha il successo nel sangue, sportivo e non. Ma soprattutto la consapevolezza dei propri mezzi. E dunque non importa quanta oscurità trovi dentro o fuori di te, l’importante è conoscere anche in maniera intima qual è il tuo vero amore, soprattutto calcistico. Ecco perchè non si può spiegare cosa vuol dire vincere con i colori giallorossi. Perché anche nelle notti più buie, anche senza un manto di stelle, Roma bella appare.

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n o d i b i e d o Alfabet Santiago Silva

di Stefano Borgi

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Idolo in Sud America, famoso per le sue esultanze naif, in Italia “El Tanque “segnò solo un gol. Per giunta su rigore...


UN CARRO ARMATO CON LE RUOTE SGONFIE...

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antiago Martin Oliveira Silva, in arte “el tanque”, è uno dei tanti misteri, fallimenti, diciamo pure bidoni (nell’alfabeto dedicato lo poniamo alla lettera S) approdati nel campionato italiano. Ed è addirittura recidivo... La prima esperienza nostrana, infatti, fu nel Chievo (gennaio 2002) voluto fortemente dal direttore sportivo Giovanni Sartori, ammaliato dai tanti gol che il ragazzo aveva segnato in patria: Central Espanol, River Plate e Defensor Sporting di Montevideo. Una media di quasi un gol ogni due partite, non male per un ragazzo allora di soli 22 anni. Ahilui, quello era il Chievo neopromosso di Gigi del Neri, che in serie A faceva faville: Legrottaglie, Corini, Eriberto, Manfredini, Corradi, Marazzina... Più i futuri campioni del mondo Barone e Perrotta. E poi il gioco spumeggiante, la favola del primo anno tra i “grandi”, un quinto posto finale che volle dire qualificazione Uefa. Capirete che gli spazi per un giovane, rampante centravanti, per di più arrivato dall’estero, erano pressoché inesistenti. Nove anni dopo la seconda possibilità, alla Fiorentina, con Pantaleo Corvino che lo sceglie come vice-Gilardino. Il pedigree stavolta è di tutto rispetto: esperienze in Germania, Portogallo, Brasile e Argentina, caterve di gol con Newell’s Old Boys, Velez Sarsfield e Banfield. Le folle che lo adorano, anche grazie ad un modo di esultare diciamo così... originale. Eppure, anche il secondo giro nel Belpaese non porta fortuna. Ma andiamo con ordine...

MONTEVIDEO, LA “CIUDAD” DE LOS CAMPEONES Peccato perché le premesse c’erano tutte: innanzitutto la città natale, Montevideo. Uno può dire, che ci vuole? Montevideo è la capitale, una metropoli da 2 milioni di abitanti, la città più popolosa, il porto più importante, il terminal più all’avanguardia di tutto l’Uruguay. In più Montevideo è la patria della Cumparsita, ballo tipico composto nel 1915 dal musicista Gerardo Matos Rodriguez. E poi lo stadio del Centenario, insignito dalla Fifa del titolo di “stadio storico”, che fu sede della prima finale di coppa del mondo: quella vinta 4-2 dall’Uruguay di Josè Andrade sull’Argentina di Guillermo Stabile. A Montevideo, infine, hanno visto la luce Juan Alberto Schiaffino ed Enzo Francescoli, due tra i più grandi calciatori che abbiano mai vestito la “celeste”. Tra gli attaccanti Daniel Fonseca, Walter Pandiani, Marcelo Otero, Ruben Sousa e Marcelo Zalayeta. Spaziando, invece, in tutte le zone del campo (panchina compresa) citiamo Pablo Montero, Josè Santamaria (difensore pluridecorato col Real di Alfredo Di Stefano) e mister Oscar Washington Tabarez. Infine, e arriviamo così al colore viola, ricordiamo su tutti l’Artillero Pedro Petrone, il primo capocannoniere (1932) della storia viola, anch’esso campione del mondo nel 1930. Narra la leggenda che, grazie alla potenza del suo tiro, i cipressi di Fiesole si inchinassero... piegati da tanta forza e precisione. L’erede naturale, almeno sul prato dell’Artemio Franchi, sembrava proprio

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doni

ei bi Alfabeto d Santiago Silva

rispondere al nome di Santiago Silva, all’apparenza una via di mezzo tra Pasquale Bruno ed il commissario Montalbano. E poi quel nomignolo, “el tanque” (i’ttanche, in vernacolo fiorentino) a dir poco impegnativo: “carro armato”. Silva arriva alla Fiorentina all’età di 31 anni, non certo un ragazzino, ma proprio per questo c’è chi è disposto a scommettere sulla sua riuscita in viola. Come Josè Alberti, agente Fifa ed esperto di calcio sudamericano: ‘’Silva è un giocatore non particolarmente alto, ma nei contrasti è molto forte. È un costante pericolo per le difese avversarie: credo che la Fiorentina abbia fatto un ottimo affare acquistandolo. Credo che nel campionato italiano potrà segnare 18-20 gol. È un giocatore che, a 31 anni, ha già avuto molte esperienze, anche in Europa. Nel suo ruolo è uno dei migliori. Avrà sicuramente modo di giocare, perché, a mio giudizio, si guadagnerà fin da subito uno spazio da titolare. Può calciare di destro, di sinistro ed è molto forte di testa’’. Rincara la dose Sabatino Durante, procuratore ed anch’egli grande conoscitore del calcio argentino: “Santiago Silva, se è stato acqui-

L’unico gol di Santiago Silva in maglia viola contro la Roma...

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stato per una cifra attorno ai 2-2,5 milioni di euro, è un ottimo affare. Lui è un giocatore che sa fare gol, specialmente negli ultimi anni ha segnato molto. L’unica perplessità riguarda la sua età, perché è un classe ‘80, ma 2 o 3 stagioni a buoni livelli le garantisce sicuramente. È molto forte fisicamente, e grazie a questa sua caratteristica sa far salire la squadra molto bene, favorendo anche gli inserimenti dei centrocampisti. Inoltre, ha i piedi educati: certo non stiamo parlando di Eto’o, ma nel campionato italiano ci può stare tranquillamente. Diciamo che può essere stato preso per sostituire Gilardino, rispetto al quale garantisce un maggior numero di soluzioni offensive”. Tombola! Con queste referenze la Fiorentina (si disse) completa l’attacco, e regala a Mihajlovic un’eccellente vice-Gilardino. Ma si sa, le cose non vanno mai come vorremmo. Iniziamo col dire che quella Fiorentina visse una stagione molto precaria (eufemismo): esonerato Mihajlovic, al suo posto arriva Delio Rossi. Poi la cazzottata con Ljajic, il terzo cambio in panchina con Vincenzo Guerini e la salvezza conquistata alla


Si ringrazia Panini per la gentile concessione delle immagini

penultima giornata. Insomma... Santiago Silva che arriva in un calcio sconosciuto (col Chievo, 9 anni prima, neppure una presenza da titolare) e si inserisce in un contesto che di certo non lo aiuta. L’esordio è alla prima giornata di campionato: la Fiorentina batte 2-0 il Bologna e “i’ttanche” rileva Gilardino all’80’. La prima da titolare arriva 10 giorni dopo contro il Parma (3-0 per i viola), ma del gol nemmeno l’ombra. E lo stesso non si palesa fino alla 14°, già con Delio Rossi in panchina, quando a Firenze si presenta la Roma di Luis Enrique. Santiago Silva (come sempre) parte riserva, entra al 63’, ed a 4 minuti dalla fine calcia un rigore sotto la Fiesole: destro radente a spiazzare Stekelemburg per il 3-0 finale. L’esultanza? Assai contenuta, e anche in questo traspare tutta la difficoltà di un ragazzo arrivato a Firenze per spaccare il mondo, al contrario relegato al ruolo di comprimario. Fu quello, per “el tanque”, il canto del cigno dalla causa viola: un altro subentro sette giorni dopo a San Siro contro l’Inter (stavolta al posto di Ljajic) e poi la decisione condivisa di separarsi. Lo score totale di Santiago Silva in maglia viola recita: 12 presenze (più una in coppa Italia), tre sole da titolare, un gol inutile su rigore, nessun punto portato alla classifica. Sopratutto nessuna esultanza degna di questo nome. E per uno come lui, affetto da mania di protagonismo, fu lo smacco più grosso. TRA PAZZE ESULTANZE E LA MAGLIA NUMERO 10 Ripartiamo dalla fine: Santiago Silva arriva in maglia viola per le sue reti, ma anche per la fama dovuta alle esultanze. Strane, pazze, in molti casi fuori di testa. Del resto in Sud America spesso fanno a gara: telecronisti, commentatori, calciatori, è una lotta a chi fa più spettacolo, a chi buca il video e trascina le folle. Ecco, in questo “el tanque” Silva è il

numero uno riconosciuto. Si va dal prendersi a schiaffi in mezzo al campo, alla simulazione di un attacco cardiaco, al mettersi alla guida di una macchinina medica, allo sfilarsi uno scarpino e portarlo alla bocca: mimando una telefonata, fingendo di bere champagne. Insomma, di tutto di più. E invece dopo il rigore realizzato contro la Roma, una tenue smorfia di soddisfazione, un veloce abbraccio e via... senza strafare. Infine, la maglia numero 10: Montuori, De Sisti, Antognoni, Baggio, Rui Costa, Adrian Mutu, la numero 10 viola è un concentrato di stile, classe e personalità. Capita però che alcuni anni la numero dieci resti senza padrone, o in attesa di... Ed allora, guarda caso, nel luglio 2011 la maglia casca sulle spalle proprio del tanque Silva, che però dovrà cederla dopo appena sei mesi. Non va meglio da gennaio a giugno 2012 quando un altro uruguagio, tale Ruben Olivera di scuola juventina, subentra al connazionale facendo (se possibile) ancora peggio. Fino ad arrivare ai giorni nostri: da Aquilani a Bernardeschi, da Eysseric a Pjaca, insomma... non c’è proprio di che rallegrarsi. EL TANQUE OGGI... La storia di Santiago Silva in riva all’Arno finisce dunque il 20 dicembre 2011, con la panchina nello 0-0 di Siena. Il 17 gennaio 2012 approda al Boca Juniors in Argentina col quale resta 18 mesi segnando 19 gol in 52 gare ufficiali. Quindi 2 anni al Lanus (la città natale di Maradona) col quale si aggiudica la Coppa Sudamericana. Nel 2017 prova un’esperienza in Cile con l’Universidad Catolica di Santiago e nel 2018 viene ingaggiato dalla squadra argentina del Gimnasia de la Plata. Facendo un rapido calcolo... 567 gare ufficiali e 196 reti, con la media di un gol ogni tre partite. Non male per uno che è venuto in Italia per scrivere la storia, ed invece si è dovuto accontentare dell’alfabeto dei bidoni. Boa sorte Santiago...

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ar c i t n e m i d re da non

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Torino - Cesena di Luca Savarese

sette volte toro Gigi Radice plasma un Toro totale, capace di divertire e far sognare. Addirittura, di vincere, il suo settimo scudetto, il primo dopo il Grande Torino. La Juve, sua rivale di sempre, deve accontentarsi del secondo posto. Domenica 16 maggio 1976. Un Comunale colmo e caldo, dopo il pareggio per 1 a 1 col Cesena, accoglie il titolo. La dedica è d’obbligo: Superga ed i suoi eroi. 90Credit Foto - Liverani


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ancano pochi minuti alla gara contro il Sassuolo. Il Grande Torino freme e spinge. Il Toro ha appena siglato, con Simone Zaza, la rete del 2 a 2. Lorenzo De Silvestri ha una palla sulla destra, la mette in mezzo. La sfera si alza ma riesce nello stesso tempo a rimanere tesa, pulita, pronta. È in questo frangente, ricco di attesa, che Andrea Belotti decide di volare. Lo fa in rovesciata, una delle sue armi più segrete ma non troppo, la stessa con la quale aveva giustiziato sempre il Sassuolo all’inizio dello scorso campionato. Sopra il dischetto del rigore, lato curva sud, viaggia in aereo. Si chiama Gallo ed è in equilibrio. Stoccata di destro che batte Consigli, che pure poco prima aveva preso un’altra rovesciata del numero 9 granata. Quando scende, alza la cresta ed inizia la festa: Torino 3, Sassuolo 2. Il Gallo ha colpito ancora. Il Toro ha mostrato il suo carattere, che quando gli vengono i cinque minuti, si salvi chi può. In fon-

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GARE DA NON

DIMENTICARE

Torino - Cesena do, questo eroico furore, che dalle parti del corso granata del Po chiamano tremendismo, è parte integrante della sua identità, sancita e ribadita dalla sua magia. Un quid di fierezza che precede, accompagna e segue le gare, entra nei suoi interpreti, unisce ed accredita alla gioia le sue generazioni. Non saranno magari gioie durature come quelle dei cugini bianconeri, ma calibrate e forse proprio per questo ancor più gustose. E se è così oggi, qua e là, figuriamoci cosa doveva essere questo spirito ieri, prima dentro il mito del Grande Torino, poi, a metà degli anni Settanta, tra le maglie di una formazione che si apprestava a diventare tricolore. Primavera 1975, la Juventus timbra il cartellino di campione d’Italia per la sedicesima volta, ma il re dei bomber è il granata Paolino Pulici, con il vanto di 17 marcature. Era il Toro di Mondino Fabbri, subentrato in corso d’opera, l’anno prima, a Gustavo Giagnoni, il mister col colbacco, recentemente scomparso. Ma l’orizzonte è terso di dubbi sulla Torino granata. Il campionato finisce con uno zero a zero contro il Cagliari. Il Toro termina la sua corsa al sesto posto, come un treno che non ne ha più. Due giorni dopo, apriti cielo, Orfeo Pianelli, il presidente, annuncia le dimissioni. Non riesce a sopportare le pesanti contestazioni dei tifosi dopo una stagione anonima. “Basta, lascio il Toro a qualcuno più bravo di me e quello che avrò dalla mia quota di cessioni, lo devolverò in opere di bene”. Sembra avere le idee chiare Pianelli. Lui, viene dal mondo operaio, capitano d’industria, lo è diventato,

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mica ci è nato. Dal febbraio 1963 è al timone del Toro e ha sempre sperato di riportarlo ai fasti antichi, cioè allo scudetto. Sono giorni burrascosi nell’ambiente del Fila e dintorni. Il giorno seguente, ecco le dimissioni di Mondino Fabbri, che abbandona, nonostante abbia già firmato per la nuova stagione. Ma, non vuole mica mettere in ambasce il presidente. Il consiglio d’amministrazione tuttavia respinge le dimissioni del numero uno. Così, il 27 maggio, Pianelli si reinsedia e sceglie velocemente il nuovo tecnico: sarà Gigi Radice, di Cesano Maderno, ex difensore, campione d’Europa nel 63 col Milan e reduce da un vero e proprio miracolo sportivo: la salvezza del Cagliari, portato ad un’insperata salvezza. C’è ancora Pianelli, ma è il Toro di Pianelli 2.0. Una riedizione, con molto più carisma, e con quella fretta dettata dallo stupore e dalla voglia di fare le cose in grande. E infatti, si preme forte sull’acceleratore. In unione con il diesse Giuseppe Bonetto, si pianifica un mercato a 5 stelle. I due, si scatenano. Dal Bologna arrivano il giovane regista Eraldo Pecci per 750 milioni e per 100 milioni più Cerezer il difensore tuttofare Vittorio Caporale, che ci metterà poco a diventare Caporalbauer... Dalla Ternana, arriva il giovane centravanti Garritano, dal Vicenza prendono il difensore Gorin, dal Monza i mille polmoni di Patrizio Sala. Si salutano Mascetti e Aldo Agroppi che si accaseranno rispettivamente a Verona e Perugia. Si respira, si taglia quasi con il coltello un clima di grande novità. Cambia anche la divisa, che d’ora in


Un vero bomber, l’anima del Toro, il grande Pulici

IL TABELLINO DELLA PARTITA Serie A – Torino – 16/05/1976

TORINO - CESENA 1-1 TORINO (4-4-2): Castellini, Santin, Salvadori, Patrizio Sala, Mozzini, Caporale, Claudio Sala, Pecci, Graziani, Zaccarelli, Pulici. A disposizione: Cazzaniga, Garritano, Gorin II. All.: Radice. MILAN (4-4-2): Boranga, Ceccarelli, Oddi, Festa, Danova, Cera, Rognoni, Frustalupi, Bertarelli, Bittolo, Urban. A disposizione: Bardin, Zuccheri, Petrini. All.: Marchioro. MARCATORI: 16’ st Pulici, 25’ s.t. Mozzini (autogol). ARBITRO: Casarin (Italia) Spettatori: 68.000 circa

poi sarà totalmente, compresi i calzoncini, granata. Già, totalmente. Questo Toro, dopo varie mezze misure, vuole agire nella totalità. E totali appaiono anche i dettami tattici. Santin, libero, diventa marcatore puro in luogo di Marino Lombardo. Roberto Salvadori, da mediano, viene indietreggiato a terzino fluidificante, sacrificando di fatto Fabrizio Gorin. Vittorio Caporale studia velocemente e con profitto da guardiano senza orpelli di una difesa, che visto il potenziale offensivo della squadra, deve essere giocoforza tosta, pronta, essenziale. Castellini in porta, Salvadori e Santin terzini, Mozzini stopper, Caporale libero. A centrocampo, Patrizio Sala laterale di spinta, Zaccarelli interno, Claudio Sala tornante in appoggio alle punte, Graziani e Pulici. La novità più grande? Il ruolo di Claudio Sala, dirottato dalla trequarti, ora presidiata dal raziocinio di Pecci, all’ala. Qui si divertirà e divertirà, scrivendo versi, da consumato poeta, liberi, frizzanti, spesso esaltanti. Davanti, Ciccio Graziani e Paolino Pulici, sono inadatti ai deboli di cuore. La mentalità è ad alto tasso offensivo. Alla Radice del successo Radice, davvero predispone nei gangli della sua squadra una mentalità totale: tutti devono sapere fare tutto. Quando il Toro sale, palla al piede, sembra un carro armato e, 90 volte su cento, vince la sua battaglia. La campagna non parte però benissimo. Sconfitta di misura a Bologna e i primi mugugni dei tifosi. Subito smentiti nella prima gara casalinga: 3 a 0 al Perugia e tanti saluti ai malumori. Seguono un pareggio per 1 a 1 contro l’Ascoli ed una vittoria confortante in casa al cospetto dell’Inter, con Pulici e Gorin a piegare le resistenze nerazzurre, ma la grande bellezza per il popolo granata, avviene all’ottava. Graziani e Pulici, di rigore, matano madama. Il Toro è il terzo incomodo tra Juve e Napoli, in cima alla classifica. Cadono i partenopei, il Toro no. Quando a febbraio la signora è cam-

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GARE DA NON

DIMENTICARE

Torino - Cesena pione d’inverno, dietro ha il Toro, che ha solo 3 punti in meno dei bianconeri. Il Toro gioca un calcio veloce, concreto, i gol, non mancano quasi mai. Dopo l’Inter, ne fa le spese anche l’altra milanese, battuta a San Siro per due a uno con scalpi di Graziani e Zaccarelli. La squadra gioca bene ma perché sta bene. All’interno dell’ambiente regna un clima concentrato quando si deve giocare, rilassato e leggero lontano dai campi. Radice sa essere esigente come un generale ma affettuoso come un papà quando, prima di scendere nell’ordalia del campo, batte la mano sul cuore ai suoi. Nei ritiri spesso gli scappa più di un sorriso. Specie in quello di Como. Eraldo Pecci, la vis comica della masnada, ad un certo punto lo raggiunge e gli dice: “Mister non riesco a dormire, sopra Como, c’è Chiasso...”. Si ride e si scherza ma quando c’è da correre, testa bassa e via ad incornare, da vero Toro. Pecci, è il raccordo tra le sabbie mobili del centrocampo e la savana avanzata. “Barattolo”, così lo iscrive alla cerchia dei propri epiteti Brera, che paragona Eraldo al suo fratello grasso. Legge tanto Eraldo, la domenica smista e cuce, i giorni feriali sotto con Camus, sulla tomba del quale, porterà poi i fiori. Quel Toro è un verso libero, senza segni d’interpunzione, veloce, improvviso, plastico, sembra una pagina futurista. “Non è a furia di scrupoli che un uomo diventerà grande, la grandezza arriva, a Dio piacendo, come un bel giorno”. Ebbe a dire proprio Albert Camus. La grandezza arriva, a quel Toro, tutta dentro quel campionato. Pulici e Graziani, incarnano la coppia gol perfetta. Di testa, di piedi, di ribattuta, da vicino, da lontano, la mettono dentro in tutti i modi. Pulici stende il Bologna con una tripletta alla giornata numero 16. Graziani invece,

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due turni dopo, contro l’Ascoli, regala un assolo. Riceve palla sulla mancina, appena dentro l’area grande. Decide di uccellare con una gincana di finte i malcapitati marcatori. Si gira e si rigira e tra i piedi ha il pallone, un po’ ballerino, un po’ attore. Alla fine, manda al bar anche il portiere ed entra defilato in porta col pallone. Robe da videogioco livello ultimate. Gesti alla Ibra ma quando Zlatan non era ancora stato pensato. Si tutto molto bello per dirla alla Pizzul, ma davanti continua ad essere prima la Juve. E hai voglia di segnare e vincere se poi segnano e vincono anche quelli. Ma c’è ancora un derby, quello di ritorno, da giocare. 28 marzo 1976. Stadio Comunale. Mancano sette giornate al termine di quell’entusiasmante torneo. La dea bendata quel giorno dà una mano ai granata. Ecco il doppio autogol juventino. Cuccureddu e Damiani infilzano due volte Zoff. Lassù, gli eroi di Superga, sono sentinelle che strizzano occhi complici. Bettega accorcia le distanze. Il Toro il suo lo ha fatto. Ma c’è anche un fatto extra campo. Durante il primo tempo un petardo è scagliato dalle parti di Luciano Castellini. Il giaguaro, ferito, mica può continuare. Dentro il vice Romano Cazzaniga. La gara sarà vinta a tavolino dal Toro che già aveva trafitto madama sul rettangolo di gioco. Ora la Juve è ancora prima, ma il Toro le sta dietro, ad un solo punto. Sette giorni più tardi il Torino ospita il Milan e la Juve va nella Milano nerazzurra. Prevale il fattore G.: Garritano e Graziani piegano il diavolo. A Milano cade la Juve, che deraglia per mano di un gol di Mario Bertini. Il Toro è davanti. Duello che prosegue fino ad arrivare alla giornata sedici. Toro impegnato in casa contro il Cesena. Juve di scena a Perugia. E qui finisce la cronaca ed inizia l’epos. 16 maggio 1976. Chi va allo sta-


Graziani vincerà ancora tanto, compreso un Mondiale con Bearzot

dio sa che quando tornerà a casa, il cielo sopra Torino, potrebbe essere tricolore perché un Toro potrebbe aver conquistato il titolo. Era dai tempi del Grande Torino che non si vedeva un Torino così grande. Ad aprile, in California, due Steve Jobs e Wozniak in un garage con pochi dollari in tasca e pochi materiali da assemblare, danno vita alla Apple. Una scossa di creatività rivoluziona l’informa-

Zaccarelli, uno dei grandi pilastri di quel magnifico Torino

tica. Anche nel garage piccolo ma spazioso del suo carattere strenuo, il Toro, sta creando qualcosa in grado di rivoluzionare il campionato dai soliti monarchi. Toro in campo con Castellini, Santin, Caporale, Salvadori, Mozzini, P. Sala, Sala, Pecci, Zaccarelli, Pulici, Graziani. Risponde l’undici bianconero romagnolo con Boranga, Oddi, Danova, Cera, Ceccarelli, Rognoni, Frustalupi, Festa, Bittolo, Urban, Bertarelli. In panchina ci sono Gigi Radice per il Toro e Pippo Marchioro per il Cesena. Arbitra Paolo Casarin della sezione di Mestre. Il Comunale è strapieno, quasi straripa. 64.733, è record stagionale. “Quando il Toro entra in campo i suoi tifosi lo salutano così: un lungo e assordante tam tam si scatena dai popolari e giunge fino alle fiammanti maglie granata per restarvi appiccicato per novanta minuti, come fosse un impegno d’onore”, dirà la sera in tv Beppe Viola nel suo servizio. Ma, mica è finita. Perché c’è un’altra

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GARE DA NON

DIMENTICARE

Torino - Cesena fiumana, che non ha trovato il biglietto ed è stipata fuori dai cancelli, mendicante di notizie. Eccolo l’esercito granata, ha un’arma fondamentale, si chiama radiolina. Mica c’è il calcio live di oggi con mille tv. Per sentire cosa fa la Juve, l’unica che può ancora dar fastidio al Toro per il titolo, bisogna frequentare il tempio sacro di “Tutto il calcio minuto per minuto”. A Perugia, secondo campo, c’è la voce rauca di Sandro Ciotti pronto a notificare quanto avviene tra Perugia e Juve. A Torino, campo principale, ecco il timbro pastoso, di Enrico Ameri, che racconterà Torino-Cesena. E il racconto, quando i secondi tempi sono ripresi da poco, parte così: “Un enorme drappo bianco recante un grande scudetto tricolore si è innalzato, alle 16.30 nel cielo dello stadio Comunale di Torino trascinato da tre grappoli di palloni granata, ed è salito altissimo seguito da migliaia di spettatori commossi che ne hanno accompagnato il volo con gli sguardi. Quasi come una risposta dal cielo scenderà, a fine partita, portato dai paracadutisti dell’aero club Torino, un altro tricolore. Così, hanno avuto inizio i festeggiamenti per il settimo scudetto”. Sembra il ritmo di un esametro. Enrico Ameri ci mette tutta la sua poesia. Del resto, le strofe granata stanno per redigere l’opera omnia, lo scudetto. Poi aggiunge: “Dirige Casarin, giornata calda, sono presenti quasi 70 mila spettatori e l’incasso è record, duecentoventi milioni”. In campo, intanto, i tifosi collegati via radio apprendono una notizia. Claudio Sala, infortunatosi a Verona, la settimana scorsa, ha recuperato ed è regolarmente in campo. È tutto apparecchiato per la festa.

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Ma, il ghiaccio lo rompe a Perugia Renato Curi, che porta in vantaggio gli umbri sulla Juve. Ciotti lo annuncia e dopo pochi istanti, ecco Ameri: “Scusa Ciotti, questo è l’urlo del Comunale di Torino che ha appreso in questo momento la notizia che tu hai dato”. Il grosso, lo sta facendo il Perugia. L’appetito vien mangiando. Graziani mette in mezzo per Pulici, è una palla tesa. Tuffo a filo d’erba di Puliciclone, Boranga non ci può arrivare. È il sedicesimo della ripresa. Ma, il Toro se non ci mette un po’ di sofferenza, non può essere sé stesso. Mozzini devia una palla che sorprende Castellini. Il Cesena pareggia e brutti pensieri invadono le menti torinesi. “Il pallone è andato a battere sulla testa di Mozzini, una delle più straordinarie e balorde autogol”, sentenzia Ameri. Da Perugia, non si sente più nulla. Si ascolta la radio, si prega, chi è allo stadio guarda. Occhi e orecchie sono un tutt’uno di attesa. Poi, ecco il dulcis in fundo per il Toro “Casarin decreta il segnale di chiusura dell’incontro, Torino campione d’Italia dopo 27 anni. È terminato un campionato che non ha davvero lesinato emozioni”. Si sentono grida di “Evvai”, provengono da appena fuori la cabina Radio Rai. Radice è contento, ma da vero mastino della concentrazione è dispiaciuto per quell’autogol. Quisquilie. Il Toro ritrova lo spasso tricolore e come una marcia innamorata via verso Superga. L’ultimo, del 1949, fu di quegli eroi. Questo, di questi ragazzacci pieni di ritmo e velocità, vola come carezza e grazie. Il Torino è in cima all’Italia per la settima volta. Non ci è più tornato. Ecco, perché quel 16 maggio 1976 è uno scrigno prezioso.

Si ringrazia Panini per la gentile concessione delle immagini



e r a d r o c i r Gare da Torino - Cesena di Luca Savarese

sette volte toro Gigi Radice plasma un Toro totale, capace di divertire e far sognare. Addirittura, di vincere, il suo settimo scudetto, il primo dopo il Grande Torino. La Juve, sua rivale di sempre, deve accontentarsi del secondo posto. Domenica 16 maggio 1976. Un Comunale colmo e caldo, dopo il pareggio per 1 a 1 col Cesena, accoglie il titolo. La dedica è d’obbligo: Superga ed i suoi eroi. 90Credit Foto - Liverani


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ancano pochi minuti alla gara contro il Sassuolo. Il Grande Torino freme e spinge. Il Toro ha appena siglato, con Simone Zaza, la rete del 2 a 2. Lorenzo De Silvestri ha una palla sulla destra, la mette in mezzo. La sfera si alza ma riesce nello stesso tempo a rimanere tesa, pulita, pronta. È in questo frangente, ricco di attesa, che Andrea Belotti decide di volare. Lo fa in rovesciata, una delle sue armi più segrete ma non troppo, la stessa con la quale aveva giustiziato sempre il Sassuolo all’inizio dello scorso campionato. Sopra il dischetto del rigore, lato curva sud, viaggia in aereo. Si chiama Gallo ed è in equilibrio. Stoccata di destro che batte Consigli, che pure poco prima aveva preso un’altra rovesciata del numero 9 granata. Quando scende, alza la cresta ed inizia la festa: Torino 3, Sassuolo 2. Il Gallo ha colpito ancora. Il Toro ha mostrato il suo carattere, che quando gli vengono i cinque minuti, si salvi chi può. In fon-

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corda GARE DA ri Torino - Cesena

do, questo eroico furore, che dalle parti del corso granata del Po chiamano tremendismo, è parte integrante della sua identità, sancita e ribadita dalla sua magia. Un quid di fierezza che precede, accompagna e segue le gare, entra nei suoi interpreti, unisce ed accredita alla gioia le sue generazioni. Non saranno magari gioie durature come quelle dei cugini bianconeri, ma calibrate e forse proprio per questo ancor più gustose. E se è così oggi, qua e là, figuriamoci cosa doveva essere questo spirito ieri, prima dentro il mito del Grande Torino, poi, a metà degli anni Settanta, tra le maglie di una formazione che si apprestava a diventare tricolore. Primavera 1975, la Juventus timbra il cartellino di campione d’Italia per la sedicesima volta, ma il re dei bomber è il granata Paolino Pulici, con il vanto di 17 marcature. Era il Toro di Mondino Fabbri, subentrato in corso d’opera, l’anno prima, a Gustavo Giagnoni, il mister col colbacco, recentemente scomparso. Ma l’orizzonte è terso di dubbi sulla Torino granata. Il campionato finisce con uno zero a zero contro il Cagliari. Il Toro termina la sua corsa al sesto posto, come un treno che non ne ha più. Due giorni dopo, apriti cielo, Orfeo Pianelli, il presidente, annuncia le dimissioni. Non riesce a sopportare le pesanti contestazioni dei tifosi dopo una stagione anonima. “Basta, lascio il Toro a qualcuno più bravo di me e quello che avrò dalla mia quota di cessioni, lo devolverò in opere di bene”. Sembra avere le idee chiare Pianelli. Lui, viene dal mondo operaio, capitano d’industria, lo è diventato,

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mica ci è nato. Dal febbraio 1963 è al timone del Toro e ha sempre sperato di riportarlo ai fasti antichi, cioè allo scudetto. Sono giorni burrascosi nell’ambiente del Fila e dintorni. Il giorno seguente, ecco le dimissioni di Mondino Fabbri, che abbandona, nonostante abbia già firmato per la nuova stagione. Ma, non vuole mica mettere in ambasce il presidente. Il consiglio d’amministrazione tuttavia respinge le dimissioni del numero uno. Così, il 27 maggio, Pianelli si reinsedia e sceglie velocemente il nuovo tecnico: sarà Gigi Radice, di Cesano Maderno, ex difensore, campione d’Europa nel 63 col Milan e reduce da un vero e proprio miracolo sportivo: la salvezza del Cagliari, portato ad un’insperata salvezza. C’è ancora Pianelli, ma è il Toro di Pianelli 2.0. Una riedizione, con molto più carisma, e con quella fretta dettata dallo stupore e dalla voglia di fare le cose in grande. E infatti, si preme forte sull’acceleratore. In unione con il diesse Giuseppe Bonetto, si pianifica un mercato a 5 stelle. I due, si scatenano. Dal Bologna arrivano il giovane regista Eraldo Pecci per 750 milioni e per 100 milioni più Cerezer il difensore tuttofare Vittorio Caporale, che ci metterà poco a diventare Caporalbauer... Dalla Ternana, arriva il giovane centravanti Garritano, dal Vicenza prendono il difensore Gorin, dal Monza i mille polmoni di Patrizio Sala. Si salutano Mascetti e Aldo Agroppi che si accaseranno rispettivamente a Verona e Perugia. Si respira, si taglia quasi con il coltello un clima di grande novità. Cambia anche la divisa, che d’ora in


Un vero bomber, l’anima del Toro, il grande Pulici

IL TABELLINO DELLA PARTITA Serie A – Torino – 16/05/1976

TORINO - CESENA 1-1 TORINO (4-4-2): Castellini, Santin, Salvadori, Patrizio Sala, Mozzini, Caporale, Claudio Sala, Pecci, Graziani, Zaccarelli, Pulici. A disposizione: Cazzaniga, Garritano, Gorin II. All.: Radice. MILAN (4-4-2): Boranga, Ceccarelli, Oddi, Festa, Danova, Cera, Rognoni, Frustalupi, Bertarelli, Bittolo, Urban. A disposizione: Bardin, Zuccheri, Petrini. All.: Marchioro. MARCATORI: 16’ st Pulici, 25’ s.t. Mozzini (autogol). ARBITRO: Casarin (Italia) Spettatori: 68.000 circa

poi sarà totalmente, compresi i calzoncini, granata. Già, totalmente. Questo Toro, dopo varie mezze misure, vuole agire nella totalità. E totali appaiono anche i dettami tattici. Santin, libero, diventa marcatore puro in luogo di Marino Lombardo. Roberto Salvadori, da mediano, viene indietreggiato a terzino fluidificante, sacrificando di fatto Fabrizio Gorin. Vittorio Caporale studia velocemente e con profitto da guardiano senza orpelli di una difesa, che visto il potenziale offensivo della squadra, deve essere giocoforza tosta, pronta, essenziale. Castellini in porta, Salvadori e Santin terzini, Mozzini stopper, Caporale libero. A centrocampo, Patrizio Sala laterale di spinta, Zaccarelli interno, Claudio Sala tornante in appoggio alle punte, Graziani e Pulici. La novità più grande? Il ruolo di Claudio Sala, dirottato dalla trequarti, ora presidiata dal raziocinio di Pecci, all’ala. Qui si divertirà e divertirà, scrivendo versi, da consumato poeta, liberi, frizzanti, spesso esaltanti. Davanti, Ciccio Graziani e Paolino Pulici, sono inadatti ai deboli di cuore. La mentalità è ad alto tasso offensivo. Alla Radice del successo Radice, davvero predispone nei gangli della sua squadra una mentalità totale: tutti devono sapere fare tutto. Quando il Toro sale, palla al piede, sembra un carro armato e, 90 volte su cento, vince la sua battaglia. La campagna non parte però benissimo. Sconfitta di misura a Bologna e i primi mugugni dei tifosi. Subito smentiti nella prima gara casalinga: 3 a 0 al Perugia e tanti saluti ai malumori. Seguono un pareggio per 1 a 1 contro l’Ascoli ed una vittoria confortante in casa al cospetto dell’Inter, con Pulici e Gorin a piegare le resistenze nerazzurre, ma la grande bellezza per il popolo granata, avviene all’ottava. Graziani e Pulici, di rigore, matano madama. Il Toro è il terzo incomodo tra Juve e Napoli, in cima alla classifica. Cadono i partenopei, il Toro no. Quando a febbraio la signora è cam-

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pione d’inverno, dietro ha il Toro, che ha solo 3 punti in meno dei bianconeri. Il Toro gioca un calcio veloce, concreto, i gol, non mancano quasi mai. Dopo l’Inter, ne fa le spese anche l’altra milanese, battuta a San Siro per due a uno con scalpi di Graziani e Zaccarelli. La squadra gioca bene ma perché sta bene. All’interno dell’ambiente regna un clima concentrato quando si deve giocare, rilassato e leggero lontano dai campi. Radice sa essere esigente come un generale ma affettuoso come un papà quando, prima di scendere nell’ordalia del campo, batte la mano sul cuore ai suoi. Nei ritiri spesso gli scappa più di un sorriso. Specie in quello di Como. Eraldo Pecci, la vis comica della masnada, ad un certo punto lo raggiunge e gli dice: “Mister non riesco a dormire, sopra Como, c’è Chiasso...”. Si ride e si scherza ma quando c’è da correre, testa bassa e via ad incornare, da vero Toro. Pecci, è il raccordo tra le sabbie mobili del centrocampo e la savana avanzata. “Barattolo”, così lo iscrive alla cerchia dei propri epiteti Brera, che paragona Eraldo al suo fratello grasso. Legge tanto Eraldo, la domenica smista e cuce, i giorni feriali sotto con Camus, sulla tomba del quale, porterà poi i fiori. Quel Toro è un verso libero, senza segni d’interpunzione, veloce, improvviso, plastico, sembra una pagina futurista. “Non è a furia di scrupoli che un uomo diventerà grande, la grandezza arriva, a Dio piacendo, come un bel giorno”. Ebbe a dire proprio Albert Camus. La grandezza arriva, a quel Toro, tutta dentro quel campionato. Pulici e Graziani, incarnano la coppia gol perfetta. Di testa, di piedi, di ribattuta, da vicino, da lontano, la mettono dentro in tutti i modi. Pulici stende il Bologna con una tripletta alla giornata numero 16. Graziani invece,

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due turni dopo, contro l’Ascoli, regala un assolo. Riceve palla sulla mancina, appena dentro l’area grande. Decide di uccellare con una gincana di finte i malcapitati marcatori. Si gira e si rigira e tra i piedi ha il pallone, un po’ ballerino, un po’ attore. Alla fine, manda al bar anche il portiere ed entra defilato in porta col pallone. Robe da videogioco livello ultimate. Gesti alla Ibra ma quando Zlatan non era ancora stato pensato. Si tutto molto bello per dirla alla Pizzul, ma davanti continua ad essere prima la Juve. E hai voglia di segnare e vincere se poi segnano e vincono anche quelli. Ma c’è ancora un derby, quello di ritorno, da giocare. 28 marzo 1976. Stadio Comunale. Mancano sette giornate al termine di quell’entusiasmante torneo. La dea bendata quel giorno dà una mano ai granata. Ecco il doppio autogol juventino. Cuccureddu e Damiani infilzano due volte Zoff. Lassù, gli eroi di Superga, sono sentinelle che strizzano occhi complici. Bettega accorcia le distanze. Il Toro il suo lo ha fatto. Ma c’è anche un fatto extra campo. Durante il primo tempo un petardo è scagliato dalle parti di Luciano Castellini. Il giaguaro, ferito, mica può continuare. Dentro il vice Romano Cazzaniga. La gara sarà vinta a tavolino dal Toro che già aveva trafitto madama sul rettangolo di gioco. Ora la Juve è ancora prima, ma il Toro le sta dietro, ad un solo punto. Sette giorni più tardi il Torino ospita il Milan e la Juve va nella Milano nerazzurra. Prevale il fattore G.: Garritano e Graziani piegano il diavolo. A Milano cade la Juve, che deraglia per mano di un gol di Mario Bertini. Il Toro è davanti. Duello che prosegue fino ad arrivare alla giornata sedici. Toro impegnato in casa contro il Cesena. Juve di scena a Perugia. E qui finisce la cronaca ed inizia l’epos. 16 maggio 1976. Chi va allo sta-


Graziani vincerà ancora tanto, compreso un Mondiale con Bearzot

dio sa che quando tornerà a casa, il cielo sopra Torino, potrebbe essere tricolore perché un Toro potrebbe aver conquistato il titolo. Era dai tempi del Grande Torino che non si vedeva un Torino così grande. Ad aprile, in California, due Steve Jobs e Wozniak in un garage con pochi dollari in tasca e pochi materiali da assemblare, danno vita alla Apple. Una scossa di creatività rivoluziona l’informa-

Zaccarelli, uno dei grandi pilastri di quel magnifico Torino

tica. Anche nel garage piccolo ma spazioso del suo carattere strenuo, il Toro, sta creando qualcosa in grado di rivoluzionare il campionato dai soliti monarchi. Toro in campo con Castellini, Santin, Caporale, Salvadori, Mozzini, P. Sala, Sala, Pecci, Zaccarelli, Pulici, Graziani. Risponde l’undici bianconero romagnolo con Boranga, Oddi, Danova, Cera, Ceccarelli, Rognoni, Frustalupi, Festa, Bittolo, Urban, Bertarelli. In panchina ci sono Gigi Radice per il Toro e Pippo Marchioro per il Cesena. Arbitra Paolo Casarin della sezione di Mestre. Il Comunale è strapieno, quasi straripa. 64.733, è record stagionale. “Quando il Toro entra in campo i suoi tifosi lo salutano così: un lungo e assordante tam tam si scatena dai popolari e giunge fino alle fiammanti maglie granata per restarvi appiccicato per novanta minuti, come fosse un impegno d’onore”, dirà la sera in tv Beppe Viola nel suo servizio. Ma, mica è finita. Perché c’è un’altra

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corda GARE DA ri Torino - Cesena

fiumana, che non ha trovato il biglietto ed è stipata fuori dai cancelli, mendicante di notizie. Eccolo l’esercito granata, ha un’arma fondamentale, si chiama radiolina. Mica c’è il calcio live di oggi con mille tv. Per sentire cosa fa la Juve, l’unica che può ancora dar fastidio al Toro per il titolo, bisogna frequentare il tempio sacro di “Tutto il calcio minuto per minuto”. A Perugia, secondo campo, c’è la voce rauca di Sandro Ciotti pronto a notificare quanto avviene tra Perugia e Juve. A Torino, campo principale, ecco il timbro pastoso, di Enrico Ameri, che racconterà Torino-Cesena. E il racconto, quando i secondi tempi sono ripresi da poco, parte così: “Un enorme drappo bianco recante un grande scudetto tricolore si è innalzato, alle 16.30 nel cielo dello stadio Comunale di Torino trascinato da tre grappoli di palloni granata, ed è salito altissimo seguito da migliaia di spettatori commossi che ne hanno accompagnato il volo con gli sguardi. Quasi come una risposta dal cielo scenderà, a fine partita, portato dai paracadutisti dell’aero club Torino, un altro tricolore. Così, hanno avuto inizio i festeggiamenti per il settimo scudetto”. Sembra il ritmo di un esametro. Enrico Ameri ci mette tutta la sua poesia. Del resto, le strofe granata stanno per redigere l’opera omnia, lo scudetto. Poi aggiunge: “Dirige Casarin, giornata calda, sono presenti quasi 70 mila spettatori e l’incasso è record, duecentoventi milioni”. In campo, intanto, i tifosi collegati via radio apprendono una notizia. Claudio Sala, infortunatosi a Verona, la settimana scorsa, ha recuperato ed è regolarmente in campo. È tutto apparecchiato per la festa.

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Ma, il ghiaccio lo rompe a Perugia Renato Curi, che porta in vantaggio gli umbri sulla Juve. Ciotti lo annuncia e dopo pochi istanti, ecco Ameri: “Scusa Ciotti, questo è l’urlo del Comunale di Torino che ha appreso in questo momento la notizia che tu hai dato”. Il grosso, lo sta facendo il Perugia. L’appetito vien mangiando. Graziani mette in mezzo per Pulici, è una palla tesa. Tuffo a filo d’erba di Puliciclone, Boranga non ci può arrivare. È il sedicesimo della ripresa. Ma, il Toro se non ci mette un po’ di sofferenza, non può essere sé stesso. Mozzini devia una palla che sorprende Castellini. Il Cesena pareggia e brutti pensieri invadono le menti torinesi. “Il pallone è andato a battere sulla testa di Mozzini, una delle più straordinarie e balorde autogol”, sentenzia Ameri. Da Perugia, non si sente più nulla. Si ascolta la radio, si prega, chi è allo stadio guarda. Occhi e orecchie sono un tutt’uno di attesa. Poi, ecco il dulcis in fundo per il Toro “Casarin decreta il segnale di chiusura dell’incontro, Torino campione d’Italia dopo 27 anni. È terminato un campionato che non ha davvero lesinato emozioni”. Si sentono grida di “Evvai”, provengono da appena fuori la cabina Radio Rai. Radice è contento, ma da vero mastino della concentrazione è dispiaciuto per quell’autogol. Quisquilie. Il Toro ritrova lo spasso tricolore e come una marcia innamorata via verso Superga. L’ultimo, del 1949, fu di quegli eroi. Questo, di questi ragazzacci pieni di ritmo e velocità, vola come carezza e grazie. Il Torino è in cima all’Italia per la settima volta. Non ci è più tornato. Ecco, perché quel 16 maggio 1976 è uno scrigno prezioso.

Si ringrazia Panini per la gentile concessione delle immagini



SCOVATE

da carletto Carlo CARLETTO Nicoletti (Direttore Artistico MATCH MUSIC) seguirà i profili Instagram e Twitter dei giocatori più importanti del pianeta Calcio e ci segnalerà le foto e i tweet più divertenti e particolari. Segnalate quelle che magari potrebbero sfuggirgli scrivendogli al suo profilo Twitter e Instagram @carlettoweb

ROSSI

Si è sposato con la compagna storica Jenna, Pepito Rossi. Campionato sfortunato per i tanti infortuni, ma fortunato in amore.

In vacanza a Tokyo il terzino del Torino.

DANI ALVES

MESSI

DIAMANTI

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Stranamente sobria la foto del terzino ex Juve in preparazione della Coppa America.

Tre ex viola in vacanza in Grecia: Diamanti, Gilardino e Dainelli.

Gli occhiali sobri di Del Piero.

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DE SILVESTRI

Post ironico del campione argentino in ritiro per la Coppa America, si gusta il mate mentre il suo compagno di stanza Aguero dorme.

Relax in business class per il campione del mondo del PSG

Il vero bomber con la barba festeggia la promozione in Serie B del suo Pisa.



NAZIONALE ITALIANA CANTANTI UN PROGETTO DI SOLIDARIETÀ CHE CONTINUA ANNO 2019

FANO • BELLUNO • TORINO • CAPRAIA

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Coordinamento Gianluca Pecchini


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