Calcio2000 n.248

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Bimestrale

diretto da Fabrizio Ponciroli

Calcio 2OOO

ott

248 nov

BE €8,00 | F €11,50 | PTE CONT €7,50 | E €7,50 | CHCT fch 8,50

prima immissione 01/10/2020

3,90€

giganti del calcio ESCLUSIVA

Juary, l’uomo della bandierina

“Devo dire grazie a Pelé” Leggende del calcio ESCLUSIVA

Il brasiliano atipico Sócrates Reportage ESCLUSIVASerie A

a scuola da van gaal

“MI PIACE IL GIOCO DI GASPERINI”

Il calcio ai tempi del Covid-19

GRANDI ALLENATORI

Giù il cappello, parla Del Bosque

Speciale Stranieri Anni ‘80

Jordan, l’unico vero Squalo

Storie di Calcio

Quando c’era l’ItalPiacenza

Dove sono Finiti

Chi si ricorda di Piotti?



FP

SEMPRE INSIEME

S

tiamo attraversando un momento storico e sociale difficile. La nostra salute, sia fisica che mentale, è minacciata. Ogni giorno, dobbiamo sostenere nuove sfide. A volte delusione o rabbia sembrano prevalere su tutto il resto. Non molliamo… Non possiamo farlo e non dobbiamo farlo. La vita era e resta meravigliosa, così come la nostra passione numero uno: il calcio. Certo, non è ancora il gioco che ricordavamo ma il pallone continua a rotolare. Una certezza che sa anche di “normalità”. E, quindi, godiamoci il calcio, in questa formula “diversa”. Lo abbiamo fatto anche noi, realizzando, non senza fatiche, un nuovo numero di calcio2000. Ci tenevamo, volevamo fortemente uscire nuovamente. Come augurio di una pronta guarigione del giocattolo calcio, il più bello del mondo, abbiamo deciso di sederci ad un tavolo con Louis Van Gaal. Ne è uscita un’intervista mentalmente esaltante. Parlare della materia calcistica con il tecnico

editoriale

Ponciroli Fabrizio

olandese è un privilegio, un onore, uno spasso. Poi, come sapete, Calcio2000 ha sempre curato, con particolare attenzione, il passato. Da qui i servizi su Juary, l’uomo della bandierina (in bocca al lupo per il nuovo progetto), Socrates, l’elegante “dottore” della Fiorentina e l’unico vero Squalo che abbia calcato i campi della Serie A: Joe Jordan. Non soddisfatti, ci siamo tuffati in un’inchiesta con l’arbitro Gavillucci, marchiato come l’uomo nero e abbiamo rispolverato una squadra che, per anni, non ha schierato mai un giocatore straniero. Sapete di chi stiamo parlando… Insomma, un numero ricco. Il nostro regalo per chi ci ha sempre seguito con grande affetto. Il pallone continuerà a rotolare, qualunque cosa accada. Così come le nostre vite. Non sarà un virus, seppur infimo, a farci perdere l’entusiasmo per la vita. Continueremo a sorridere, anche sotto quelle mascherine che, in maniera prepotente, si sono rubati parte dei nostri visi. Buona fortuna!

Vivere è la cosa più rara al mondo. La maggior parte della gente esiste, ecco tutto…

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SOMMARIO

248

Calcio2OOO

Anno 23 n. 4 ottobre/novembre 2020 ISSN 1126-1056

BOCCA DEL LEONE 6 LA di Fabrizio Ponciroli van gaal 8 louis INTERVISTA ESCLUSIVA di Fabrizio Ponciroli

cassano 36 nicola eroi per un giorno di Gianfranco Giordano

piotti 40 ottorino DOVE SONO FINITI? di Thomas Saccani

44 reportage il calcio al tempo del covid

di Fabrizio Ponciroli

del bosque 48 VICENTE grandi allenatori di Carlo Bianchi

gavillucci 54 CLAUDIO L’INCHIESTA di Sergio Stanco

FAIR PLAY 15 PREMIO SPECIALE

Registrazione al Tribunale di Milano n.362 del 21/06/1997 Prima immissione: 01/10/2020 Iscritto al Registro degli Operatori di Comunicazione al n. 18246

EDITORE TC&C srl Strada Setteponti Levante 114 52028 Terranuova Bracciolini (AR) Tel +39 055 0132544 DIRETTORE RESPONSABILE Michele Criscitiello Diretto da Fabrizio Ponciroli Redazione Marco Conterio, Luca Bargellini, Gaetano Mocciaro, Chiara Biondini, Simone Bernabei, Lorenzo Marucci, Pietro Lazzerini, Tommaso Maschio, Lorenzo Di Benedetto. Hanno collaborato Sergio Stanco, Gianfranco Giordano, Mirko Di Natale, Stefano Borgi, Andrea Ranaldo, Carlo Bianchi, Veronica Lisotti, Thomas Saccani Realizzazione Grafica Francesca Crespi

di Fabrizio Ponciroli

16 sÓcrates lEggende del calcio

Fotografie Image Photo Agency, Agenzia Aldo Liverani, Federico De Luca, Mascolo/Photoview.

di Stefano Borgi

22 procuratori speciale

Statistiche Redazione Calcio2000

di Andrea Ranaldo

Contatti per la pubblicità e-mail: media@calcio2000.it

28 Juary GIGANTI DEL CALCIO di Fabrizio Ponciroli

MPV 60 PREMIO SPECIALE

di Veronica Lisotti

64 FERENVCVAROS MAGLIE STORICHE

di Gianfranco Giordano

jordan 72 JOE STRANIERI ANNI 80

Stampa Tiber S.p.A. Via della Volta, 179 25124 Brescia (Italy) Tel. 030 3543439 - Fax. 030349805 Distribuzione Mepe S.p.A. Via Ettore Bugatti, 15 20142 Milano Tel +39 0289592.1 Fax +39 0289500688 Calcio2000 è parte del Network

di Gianfranco Giordano

76 ITALPIACENZA STORIE DI CALCIO di Sergio Stanco

Il prossimo numero sarà in edicola il 10 dicembre 2020 Numero chiuso il 24 settembre 2020


www.panini.it © 2020 MARVEL

CONTIENE

32 FIGURINE SPECIALI

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IN VENDITA IN EDICOLA E IN FUMETTERIA!


bocca del leone

la

MA MORATA NO… Direttore, ha sentito? La Juventus ha preso Morata. Ma come è possibile? Un conto è Suarez, un altro prendere Morata che da anni è un mezzo giocatore. L’Inter ha Lukaku e noi prendiamo Morata? Mi sa che Paratici non ha più soldi e si è preso solo uno con un bel nome ma che non può fare l’attaccante alla Juventus. Mi dice che ne pensa. La seguo in radio sempre…

Daniele, mail firmata Caro Daniele, i cavalli di ritorno sono sempre complicati Ma se Vidal-Inter mi convince, la scelta bianconera, onestamente, mi preoccupa. Suarez (caos passaporto a parte) sarebbe stato un colpaccio. Dzeko pareva più logico, Morata è un azzardo… Da quando ha lasciato la Juventus (due stagioni, dal 2014 al 2016), Morata si è perso nell’oblio. Ovunque è stato (Real Madrid, Chelsea e Atletico Madrid) ha al-

ternato buone prestazioni a periodi, piuttosto corposi, di anonimato. E’ ancora nel pieno dei suoi anni (è un classe 1992) e, quindi, ha ancora modo per riscattarsi. Pare tanto la sua ultima grande occasione. Se Pirlo lo saprà riaccendere, la Juventus potrà brindare. Tuttavia, il rischio che possa fallire esiste… Ci sentiamo in radio!

DALLA SVEZIA CON FURORE… Direttore Ponciroli, l’ho sentita su Radiobianconera parlare di Kulusevski e sono d’accordo con lei. è il vero grande acquisto per la Juventus di quest’anno. è un grandissimo giocatore. L’avesse comprato un’altra squadra, tutti a fare titoloni. L’ha preso la Juventus non ne parla nessuno. Comunque vinciamo ancora noi quest’anno, siamo quelli con più testa e Conte sbarella sicuro. Io vivo in Svezia, quindi tifo ancor di più per Kulusevski quest’anno.

Filippo, mail firmata Caro Filippo, grazie per il “sostegno”. Kulusevski è un potenziale top player. Ne parleranno presto… Non sono così convinto della superiorità della Juventus su tutte le altre. Conte è uno che si arrabbia facilmente ma è un grandissimo allenatore. Inter e Napoli sono molto agguerrite quest’anno.

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di Fabrizio Ponciroli

GRANDE JUARY… Caro Ponciroli, sono di Avellino e averla vista con Juary mi ha riportato quando, da piccolo, mio padre mi portava a vedere l’Avellino di Juary. Era il mio giocatore preferito. Era piccolino ma correva forte e non la smetteva mai di correre. Quando giocavo con gli amici e segnavo, facevo il giro della bandierina come Juary. Mi è sempre sembrata una brava persona. è davvero così?

tempo per me e neanche posso offrirti un panino?”. “No grazie, come se avessi accettato”. Il giorno seguente mi arriva un messaggio: “Ricordati di trovare del tempo per un panino con me, amico mio”. La semplicità di una grande persona…

I I CINQUE ALLENATORI TOP Direttore, sono Mauro e sto raccogliendo pareri di giornalisti famosi su una do-

manda precisa: i cinque allenatori migliori della propria generazione? Mi potrebbe fare la sua classifica? Grazie in anticipo

Mauro, mail firmata Non sono un giornalista famoso ma rispondo volentieri. Credo tu intenda allenatori che ho visto “dal vivo”. Vado con la mia personale classifica, in ordine di “grandezza”: Sacchi, Capello, Trapattoni, Lippi e Guardiola.

Angelo, mail firmata Caro Angelo, ovviamente ti consiglio di gustarti Giganti del Calcio di questo numero, visto che è proprio su Juary. Ti posso dire che mi ha stupito la sua grande umanità. E’ una persona d’altri tempi. Un aneddoto che non ho potuto mettere nell’intervista. Al termine della chiacchierata, verso le 12, Juary mi chiede: “Dove vai a mangiare?”. “Vado in redazione, ho da lavorare”. Mi guarda stranito e mi risponde: “Ma come? Sei venuto fino a qui, hai perso del

LIBRO CONSIGLIATO DA UNDICIMETRI - STORIE DI RIGORE Autori: Cristian Vitali e Maurizio Targa Editore: SensoInverso Edizioni Dallo sconosciuto ma infallibile Giampiero Testa al trionfo di Berlino, passando per i tragici tiri mondiali di Baresi, Baggio e Di Biagio, il cucchiaio di Totti, la “buca” di Maspero, i sempreverdi Zico, Platini, Falcao e Gullit, gli errori macroscopici di gente come Caraballo e Luis Toffoli: sessanta racconti carichi di passione, incentrati sui più svariati tentativi di realizzazione dal dischetto. Storie, liti, drammi, atmosfere e leggende raccontate da un punto di osservazione molto particolare: quei fatidici e interminabili UndiciMetri.

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i s u l c s e a t intervis Van Gaal

di Fabrizio Ponciroli

IL PERFEZIONISTA 8


D Non capita tutti i giorni di trascorrere 59’ a parlare della materia calcistica con un genio come Van Gaal…

elineare il personaggio Louis Van Gaal non è affatto semplice. Nella sua ricca bacheca figurano ben 20 trofei. Alcuni decisamente prestigiosi, come la Champions League vinta, ai tempi in cui allenava l’Ajax, ai danni del Milan. Allenatore rivoluzionario, amante del gioco offensivo, è sempre stato tratteggiato come un uomo eccentrico, difficilmente catalogabile. La sua carriera l’ha portato ad allenare, oltre che ai massimi vertici in Olanda, in Spagna, Germania ed Inghilterra. Niente Italia, perché, parole sue “… il calcio italiano non mi ha mai attratto veramente”. Ovunque è stato ha sempre lasciato un segno. Anche quando non è riuscito a far emergere il suo “piano calcistico”, tutti ne hanno apprezzato la grande professionalità e l’ossessione per il gioco. Nel 2016 ha detto basta. Niente più analisi dell’avversario, allenamenti e strategie tattiche. Meglio godersi ogni singolo giorno al fianco di Truus, la moglie che, per 25 anni, ha rinunciato a tutto pur di stargli al fianco. Eppure, il calcio è ancora una componente essenziale della vita di Louis. Lo comprendo alla Cena di Galà del Premio Fair Play Menarini. Dopo aver disquisito di quanto sia affascinante il nostro Paese, elogiandone cibi e profumi, Louis viene punzecchiato da un tifoso interista presente alla cena: “C’ero a Madrid”. Il riferimento è alla finale di Champions League del 2010, vinta dall’Inter di Mourinho proprio ai danni del Bayern Monaco allora allenato da Louis Van Gaal. In un lampo, ecco il vero Louis, l’allenatore freddo che non lascia nulla al caso: “Ricordo bene quella partita. Abbiamo avuto il 70% di possesso palla noi, loro hanno superato la metà campo cinque volte ma il trofeo è andato all’Inter di Mourinho, che è stato mio assistente (ai tempi del Barcellona, ndr). Che fastidio”. Una risposta secca, degna di uno degli allenatori più sediziosi di sempre. Il giorno seguente, arriva il momento dell’intervista… Appena si siede al “tavolo delle interviste”,

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clusiva

es intervista Van Gaal

Louis si prende subito il proscenio. È reduce da un pranzo in un ristorante in cui si è regalato una splendida e classica accoppiata toscana: tenerissima tagliata e vino rosso di qualità: “In Italia si mangia bene ovunque. Ci sono dei piatti incredibili e che dire del vino? Favoloso. Prima non amavano particolarmente i vini italiani, ora li adoro. Nebbiolo, Amarone, Chianti, è impossibile scegliere. Stamani all’enoteca Santo Stefano ho assaggiato tantissimi buoni vini e amato tantissimo il vin santo. Insieme a mia moglie, abbiamo acquistato diverse bottiglie. Ne valeva la pena”. Dopo aver rotto il ghiaccio, si passa all’intervista, non prima di una “lezione sul calcio italiano”: “Adoro l’Italia come Paese ma non mi è mai piaciuta a livello calcistico. È per questo che non sono mai venuto ad allenare in Italia. Ho avuto diverse offerte da club di Serie A, ma ho sempre rifiutato. Il calcio difensivo non mi è mai piaciuto. L’atmosfera calcistica italiana non mi è mai piaciuta ma adoro la

cultura italiana. Certo, ora qualcosa sta cambiando. Ho visto la sfida tra Italia e Olanda e devo dire che Mancini ha proposto un calcio diverso. Ovviamente parliamo di Nations League. Sarebbero delle semplici amichevoli, se non ci fosse un trofeo in palio”. Ci siamo, spazio alle domande… Anzi, è più una chiacchierata tra amici al bar, con il calcio al centro di tutto… “Nel corso della mia lunga carriera, ho avuto pochissimi giocatori che elargivano la mia filosofia calcistica in campo. Come allenatore, puoi intervenire sulla squadra solo durante l’intervallo, non puoi fare molto prima. Per questo hai bisogno di qualcuno, in campo, che possa intervenire in qualsiasi momento e che conosca perfettamente le tue idee. Infatti, ho sempre scelto il mio capitano non per essere il rappresentante degli altri giocatori ma per essere la persona che, in campo, trasmette le mie idee. È il mio rappresentante, non quello degli altri giocatori. Il mio primo capitano è stato Danny Blind. Ai suoi tempi, non aveva spazio nella nazionale

L’ultima tappa della lunga carriera di Louis Van Gaal sulla panchina del Manchester United

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UNA CARRIERA DA APPLAUSI Nato ad Amsterdam, l’8 agosto 1951, è stato un giocatore di calcio di medio livello. Curiosamente, si destreggiava come difensore. Proprio lui che farà dell’attacco la sua arma preferita. Dopo le prime esperienze da vice all’Az Alkmaar, la svolta arriva nel 1991, quando diventa allenatore dell’Ajax. Vince tantissimo nei suoi anni alla guida dei lancieri, tra cui la Champions League nel 1995 ai danni del Milan. Torna in finale anche l’anno successivo ma perde con la Juventus ai rigori: “Chi vince, ha sempre ragione. Quella Juventus era una grande squadra con giocatori come Ravanelli e Vialli. Bel team”, ricorda a distanza di tanti anni. Nel 1997 approda al Barcellona. Ha come vice Mourinho che ritroverà molte volte, da avversario, durante la sua carriera. Vince due volte la Liga, altri trofei ma non riesce ad imporsi in Europa. Nel 2000 accetta l’offerta della federazione olandese ma fallisce la qualificazione ai Mondiali del 2002. Torna prima al Barcellona e poi all’Ajax ma è con l’Az Alkmaar che torna il vero Van Gaal. Conquista l’Eredivisie nella stagione 2008/09, con 11 punti di vantaggio sulla seconda (i Cheese Farmers non vincevano il titolo dall’annata 1980/81). Dopo quattro anni all’Az, viene ingaggiato dal Bayern Monaco. Vince Bundesliga e Coppa di Germania ma fallisce l’appuntamento con la Champions League per colpa dell’Inter. Riprova come CT dell’Olanda e questa volta fa faville: conquista la semifinale al Mondiale del 2014 (orange eliminati dall’Argentina ai rigori). Chiuderà la Coppa del Mondo al terzo posto. Decide di mettersi alla prova con la Premier League. Firma un triennale con il Manchester United. Vince il suo 20esimo trofeo: l’FA Cup. Viene esonerato al termine della stagione 2015/16. Il suo posto viene preso da, ironia della sorte, Mourinho…

olandese, perché la star era Ronald Koeman ma, per come vedo io il ruolo di capitano, era perfetto. Io non potrei mai avere Cristiano Ronaldo o Messi come capitani delle mie squadre, tanto per capirci. Loro sono grandissimi calciatori ma non avrebbero le caratteristiche che cerco io in un capitano. I miei capitani erano gente come Mark Van Bommel o Philipp Lahm…”. D’improvviso, arriva la stocca alla cultura latina… “Ho lavorato in Spagna, Germania, Inghilterra e, ovviamente, Olanda. Credo che la cultura latina sia predisposta per evidenziare il calciatore singolo e non il team. Infatti, i media italiani esaltano spesso le giocate dei singoli”. Tuttavia, l’ex allenatore di Barcellona, Ajax, Bayern Monaco e tanti altri club, ha stima per il lavoro di alcuni suoi colleghi italiani: “Sacchi ha fatto tanto per il calcio. Credo di avere diversi punti in comune con Capello. Mi piace come gioca l’Atalanta di Gasperini. Non lo conosco ma mi piace il suo gioco. È un calcio che mi attrae. Ho visto che i suoi giocatori sanno perfettamente quello

Van Gaal con il Direttore Ponciroli durante l’intervista

che devono fare in campo. Hanno una mentalità aggressiva, vogliono la palla”. Louis torna, con la memoria, alla stagione 2008/09. Sulla panchina dell’Az Alkmaar, squadra di livello medio nel massimo campionato olandese, riesce a conquistare il titolo: “Quando sono arrivato, in rosa avevo buoni giocatori ma molto individualisti. Li ho convinti a diventare parte del team, a dare una mano ai compagni. Vedendo i giocatori più forti impegnarsi anche per la squadra, tutti gli altri hanno iniziato a

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es intervista Van Gaal

crederci ancor di più. Così abbiamo creato una squadra vera e siamo riusciti a vincere l’Eredivisie, senza perdere il talento di quelli più bravi”. Estasiato dall’impressionante capacità di Louis Van Gaal di “trattare” il tema calcio, mi lascio andare ad un commento in italiano… “Ma quanto è bello sentir parlare di calcio uno come Louis Van Gaal. Io sono innamorato, calcisticamente parlando, di quest’uomo”. Parole che piacciono alla troupe che sta seguendo i coniugi Van Gaal (in lavora-

A CASTIGLION FIORENTINO CON LOUIS Per tutta la durata dell’evento Premio Fair Play, Louis Van Gaal si è dimostrato un vero gentleman. Non ha mai rifiutato un selfie, si è sempre fermato a scambiare due chiacchiere con chiunque. Ha posato per foto di rito con chiunque e ha pure firmato un contratto. Il sindaco di Castiglion Fiorentino Mario Agnelli, “spinto” dal suo vice, ha offerto al tecnico olandese di fare un sopralluogo dello stadio Faralli, casa della Castiglionese, squadra del paese. Dopo la consegna del gagliardetto, a Van Gaal è stato chiesto di fare da “supervisore” delle operazioni della società Castiglionese. Louis Van Gaal non si è tirato indietro firmando lo scherzoso contratto. Il tutto davanti agli occhi della moglie Truus: “Speriamo che sappia quello che sta facendo”, le parole della consorte…

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zione in documentario sull’allenatore nativo di Amsterdam). Mi viene chiesto di replicare le stesse parole, ovviamente in italiano, rivolgendomi a Louis. Mi scappa un commento finale: “Ma perché non torni? Ci manchi Louis”. L’ex CT della nazionale olandese ascolta il mio elogio e ripete, divertito: “Mi manchi, mi manchi”. È l’occasione per saperne di più sul suo addio al calcio… “L’ho fatto per mia moglie Truus. Lei, 25 anni fa, ha lasciato il suo lavoro per seguirmi nella mia avventura a Barcellona. Ha scelto di starmi al fianco. Dopo così tanti anni in cui si è sacrificata per il mio lavoro, mi è sembrato giusto che toccasse a lei. E così ho deciso di smettere”. Una scelta non facile? “No, affatto. È stata una scelta che non mi è pesata affatto. Era arrivato il momento, tutto qui. Ho allenato per tantissimi anni. Sono stato in Spagna, Germania e Italia, ho allenato ai massimi livelli in Olanda e ho pure vinto con una squadra medio/piccola nel mio Paese (Az Alkmaar). Sono stato alla guida della nazionale per due volte… Cosa dovrei fare di più?”. Quindi nessuna chance che possa tornare… “No, ho fatto le mie scelte. L’unica cosa che potrei prendere in considerazione sarebbe tornare ad allenare la nazionale. In quel caso l’impegno sarebbe meno continuativo ma è solo un’ipotesi”. Si torna a parlare di calcio e, in particolare, dei momenti più significativi della sua carriera, sia positivi che negativi: “Ho ancora una ferita aperta per non essere riuscito a portare la nazionale olandese ai Mondiali del 2002. È un risultato negativo che ha segnato la mia carriera. Probabilmente il momento peggiore della mia carriera. Tra gli attimi indimenticabili, sicuramente la vittoria del mio giovane Ajax contro il grande Milan ma, anche la vittoria del titolo olandese con l’Az Alkmaar è stato un traguardo incredibile. E non posso dimenticare la vittoria dell’FA Cup con il Manchester United, soprattutto per come è arrivato quel trofeo. Di fatto ero già


stato esonerato. I media inglesi mi avevano massacrato. Ricordo l’articolo in cui la mia testa era appoggiata ad un blocco di pietra. Bene, credevo di aver perso tutto il rispetto della squadra dopo quell’articolo e, invece, tutti hanno dato il 110% e abbiamo vinto l’FA Cup. È stato meraviglioso”. Louis Van Gaal non cita la finale di Champions League persa a Madrid contro l’Inter. Appena sente la parola Madrid, si irrigidisce: “Si parla spesso di questa partita. La tattica di Mourinho era quella di aspettare e poi colpire. Non

gli interessava dominare la partita ma vincere. Loro hanno superato la metà campo cinque volte ma hanno vinto perché avevano Sneijder e Milito. Ero molto dispiaciuto, soprattutto perché Mourinho era stato mio assistente al Barcellona. Comunque, quella sconfitta, mi ha insegnato molto. Mi sono evoluto dopo quella partita. Ho capito l’importanza di cambiare alcune mie convinzioni. Prima pensavo solo ad attaccare, poi, grazie a quella finale persa, ho capito che si poteva giocare anche diversamente. Non era

Ha vinto ovunque è stato, qui festeggia la vittoria della Bundes

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es intervista Van Gaal

più solo una questione legata al dominare e attaccare ma capire l’avversario che avevo di fronte. Trovare la soluzione migliore per il mio team, analizzando sempre l’avversario di turno. Una lezione che mi è servita per i miei futuri successi, come ad esempio all’Az Alkmaar”. C’è tempo anche di parlare di quel calcio italiano che Louis Van Gaal non ha mai amato particolarmente ma che conosce alla perfezione… Louis, la Serie A è ricominciata. Ci si sofferma sullo stile di Conte: “Credo sia un buon allenatore ma, durante il match, non ha lo stile che a me piace. È troppo emotivo e questo, a mio avviso, non permette di analizzare la partita nella maniera più corretta

possibile”. La Juventus, invece, ha deciso di affidarsi a Pirlo… “Come giocatore è stato uno dei migliori, come allenatore è ancora tutto da scoprire. Non è detto che, se sei stato una star in campo, lo sarai anche come tecnico. Sicuramente non dubito della sua conoscenza del gioco”. Ci fanno segno che il tempo è scaduto. Guardo lo smartphone. Mi accorgo che la chiacchierata è durata la bellezza di 59’ (doveva essere di 10/15’). Incredibile. La conferma che, quando si parla con un genio del calcio, tutto scorre veloce. Ne vorresti sempre di più ma, purtroppo, Louis ha fatto altre scelte nella vita. Non importa, il suo sapere calcistico non verrà disperso…

Ai Mondiali del 2014 conquista il terzo posto, eliminato solo ai rigori dall’Argentina

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LO SPETTACOLO DEL PREMIO FAIR PLAY

I

n un momento difficile come questo, è stato bello ritrovare la magia del Premio Fair Play Menarini. In quel di Castiglion Fiorentino (paese ricco di vita ed entusiasmo), sono accorsi in tanti per l’edizione 2020. Dall’allenatore Van Gaal (personaggio straordinario) a Boniek, l’indimenticabile “Bello di Notte” della Juventus, passando per tanti altri super personaggi come il pallavolista Despaigne, il mito della pallanuoto Campagna, la giovane promessa del nuoto italiano Pilato, lo sciatore Paris e tantissimi altri... Questi alcuni degli elementi che hanno reso la cerimonia di premiazione del XXIV Premio Internazionale Fair Play-Menarini un momento indimenticabile e significativo. Anche in questo critico 2020, segnato dal dolore e dalle difficoltà dovute all’emergenza sanitaria, la kermesse dedicata all’etica e al fair play ha voluto essere presente in calendario, lanciando un messaggio di fiducia in un futuro migliore e richiamando l’attenzione di tantissimi. Nel centro storico di Castiglion Fiorentino, nella suggestiva cornice di piazza del

Municipio, hanno infatti sfilato le più brillanti stelle del panorama sportivo italiano e internazionale condividendo con il pubblico, oltre a successi e carriere, storie di grande umanità, rispetto e impegno. “Anche quest’anno la cerimonia di premiazione ci ha riservato grandi emozioni- ha dichiarato Angelo Morelli, presidente dell’associazione Premio Fair Play. – Malgrado il delicato momento che stiamo attraversando, questa XXIV edizione ha visto la partecipazione di campioni, enti ed istituzioni di grande spessore che hanno alimentato il prestigio della nostra manifestazione. Tutti coloro che hanno ricevuto un riconoscimento incarnano i valori dell’etica e del rispetto e spero siano di grande esempio per le nuove generazioni, soprattutto in questo periodo storico. Nei mesi scorsi, a tutti è capitato di perdere la speranza, ma ritrovarci qui è stato per noi motivo di grande orgoglio e fiducia. Significa provare a ripartire dopo tante difficoltà, anche grazie a quell’atteggiamento di rispetto e determinazione che è poi la vera essenza del fair play”.

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di Stefano Borgi

del

LEGGENDE calcio Sócrates

IL “DOTTORE” NEL PALLONE 16

Credit Foto - Liverani


Medico, politico, grande bevitore di birra, Sòcrates faceva il calciatore per hobby. Fino a diventare una macchietta in un film con Lino Banfi...

D

ifficile definire la figura di Sòcrates con un solo tratto. Ancor più difficile (se non impossibile) inquadrarla, recintarla, risolverla in un’unica direzione. Chi era Sòcrates, vi chiederete... Un medico? Un filosofo? Un divulgatore, forse un uomo politico, o magari tutte queste cose insieme? A proposito, Sòcrates ha fatto anche il calciatore. Per circa 10 anni, ad altissimi livelli. In molti, però, pensano che il “futebol” (per lui) sia stato solo un passatempo. Quindi, chi era davvero Sòcrates Brasileiro Sampaio de Souza Vieira de Oliveira (questo il suo nome per esteso)? Diciamo che il ragazzo si era laureato in medicina alla USP (Universidade de São Paolo). Come filosofo portava il nome, voluto dal padre, innamorato del Socrate originale. Come politico mostrava carisma, personalità, voglia di arrivare, e con la famosa “Democracia Corinthiana” ci era quasi riuscito. Quasi... No, ne siamo certi: Sòcrates era meglio, molto meglio come calciatore. Dal ‘77 all’83 realizza 172 reti in 297 partite nel Corinthians, poi ne fa 22 in 60 con la nazionale brasiliana, nel frattempo vince 3 campionati Paulistas ed un titolo di calciatore sudamericano dell’anno. E poi volete mettere quelle cinque prove d’autore a Spagna ‘82, il gol da fuori area al sovietico Dasaev, il destro vincente sul palo di Zoff, un centrocampo da sogno con Zico, Junior, Falcao e Toninho Cerezo, insomma... Sòcrates è storia del calcio: altro che hobby, altro che passatempo. Poi vai a vedere il comportamento fuori dal campo, e allora qualche dubbio ti sovviene. Il numero di birre

bevute, un pacchetto di sigarette al giorno, Sòcrates sembrava viaggiare un metro sopra (o sotto, a seconda dei casi) agli altri. Come il suo Brasile, splendido, spettacolare, apparentemente invincibile, che in 90’ si fa infilare (e battere) tre volte da tale Paolino Rossi. Non a caso Sòcrates aveva il soprannome più lungo dello stesso nome: “O calcanhar que a bola pediu a Deus”. Ovvero: “Il colpo di tacco che la palla chiese a Dio”. Appunto, il colpo di tacco... un gesto tecnico di rara bellezza che sublima alla perfezione quell’innato senso di superiorità. Ed infatti “el calcanhar” lasciò il Brasile e venne in Italia, un po’ per soldi, un po’ per fama, parecchio per dire: “voi italiani siete bravi, siete furbi, avete vinto il mondiale. Ma il calcio siamo noi, e adesso vi insegniamo cos’è il calcio”. Nel 1984, quando Sòcrates approda a Firenze, nel campionato italiano giocavano Falcao, Junior, Toninho Cerezo, Zico, Edinho, Orlando, Batista, Dirceu e Juary, un esercito di maestri del cosiddetto “futebol”. Di questi Sòcrates era la mente, il capitano, la guida spirituale. Peccato che, a differenza loro, non fosse più un calciatore. SVOLTA... A SINISTRA Sòcrates nasce a Belem, nello stato di San Paolo, il 19 febbraio 1954. Tra il Brasile (diciamo pure Amazzonia) e la Magna Grecia c’è differenza, eppure l’influenza del padre Raimundo ebbe un imprinting decisivo nella mente fertile del figlio. Fino a convincerlo che il calcio, seppur fonte di guadagno e dolce vita, non doveva essere per lui la

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del

LEGGENDE calcio

Sócrates

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cosa più importante. Però vivaddio Sòcrates era pur sempre brasiliano, se la spiaggia era lontana... sotto casa c’era la strada di Riberão Preto, ed è proprio lì che il ragazzo comincia a giocare al calcio. Undici anni dopo nascerà anche il fratello Raì che (seppur apprezzato professionista) seguirà le sue orme con scarsa enfasi e minor efficacia. Sòcrates intanto studia medicina, ed ha una particolarità: è alto, altissimo (1,93), ma con un piede piccolo, piccolissimo. Fonti ufficiali dicono avesse il 38, ma qualcuno giura sul 37. Che messo a confronto con il 45 di Eraldo Pecci (suo futuro compagno di squadra alla Fiorentina) sembravano due sport diversi. La sua prima casacca fu quella del Botafogo (non quello ufficiale, un omonimo del glorioso club di Paraiba), quindi il Corinthians nel quale Sòcrates fa faville. E non solo in campo. È nello spogliatoio dove il ‘nostro’ dà il meglio di sè, organizzando la rivoluzionaria “Democracia Corinthiana”. Abbiamo detto dell’influenza paterna che, se possibile, Sòcrates porta a livelli estremi. D’accordo con l’allenatore-sociologo Adilson Monteiro Alves e con i calciatori più rappresentativi, Wladimir, Casagrande (quello del Torino), Zenon, nasce un movimento che caratterizzerà il calcio brasiliano. Ed anche la società verdeoro che, in quel momento, assisteva al crepuscolo della dittatura militare. In pratica tutte le decisioni del club venivano prese per maggioranza, dopo una votazione alla quale partecipavano tutti: dal presidente ai dirigenti, dai titolari alle riserve, fino ai magazzinieri. Ed uno valeva uno. Accompagnati dal motto “Libertà con responsabilità”

si decidevano gli orari degli allenamenti, la campagna acquisti e cessioni, addirittura le formazioni. Vennero aboliti i ritiri, per Sòcrates un vero e proprio spauracchio da evitare. Ovviamente, ai più, la cosa sembrò completamente folle, figuriamoci (si diceva) se 4-5 “Che Guevara de noantri” possono ricreare un ambiente democratico, un’autogestione totale all’interno di una squadra di calcio. Ma quei visionari, guidati dal carisma infinito di Sòcrates, ci riuscirono. E l’aspetto più assurdo è che il tutto, in quei due anni di esistenza, funzionò alla perfezione. Il Corinthians non solo vinse due campionati Paulistas (1982 e 1983), ma risanò anche i suoi debiti, ma la “Democracia Corinthiana” riuscì pure ad anticipare l’epoca delle sponsorizzazioni. Ed infatti sulla maglietta del Corinthians apparvero i primi slogan politici come il semplice termine “Democracia”, piuttosto che “Vogliamo votare il nostro presidente”. Quest’ultimo era un must assoluto nel pensiero di Sòcrates, andare contro João Figueiredo ed usare il calcio per veicolare il pensiero di massa. Per questo arrivò a promettere, in caso di affermazione del principio, di non trasferirsi all’estero per continuare a combattere la battaglia in patria. Ma questo non accadde, ed il “dottore” partì per Firenze. NO BIRRA, NO PARTY Che dire? Povero Sòcrates, c’è da capirlo. Da Riberão Preto a Pinzolo non c’è solo l’oceano... c’è un mondo. Forse due. Sopratutto c’è il ritiro. E poi il preparatore atletico (la Fiorentina ne aveva uno rigidissimo, Armando Onesti), le corse in salita, le ripetute, tutte cose che il “dottore” non sopportava. Non concepiva. Prima però facciamo un


passo indietro, a quello che Sòcrates avrebbe trovato in riva all’Arno. La Fiorentina dei Pontello, giunti al quinto anno di gestione, era decisa a fare il definitivo salto di qualità. Sfumato il terzo scudetto nel 1982, sfumato anche l’anno precedente (stagione ‘83-’84) per il gravissimo infortunio ad Antognoni, il conte Flavio era deciso a tutto pur di cucirsi il tricolore sul petto. Era quella una Fiorentina bellissima e spettacolare, che però aveva bisogno di una grande punta da affiancare a Monelli, visto che Bertoni avrebbe

raggiunto l’amico Maradona a Napoli. Se la giocavano Voeller e Rummenigge, già bloccati dalla coppia di mercato Corsi-Allodi, in attesa di sapere se (e quando) Antognoni avrebbe recuperato. Ahimè... le notizie a riguardo non erano buone, i tempi di recupero si allungavano, serviva un centrocampista (meglio se trequartista) per sostituire degnamente il ‘capitano’. La scelta allora cadde su Sòcrates, che in gioventù aveva fatto il centravanti, per poi esplodere “todocampista” nel Brasile di Telè Santana. Il

Il pensiero di PAOLO MONELLI “Quella volta che Valcareggi lo rimandò a dormire...” Sòcrates arrivò a Firenze come centrocampista, ma nel Corinthians aveva fatto soprattutto il centravanti. Quindi per uno come Monelli, considerato un giovane anche se già al 4° anno di serie A, allenarsi col brasiliano poteva essere una grande occasione. E invece? “Invece non dialogava – confessa Paolone. Stava parecchio sulle sue, a noi giovani non dava consigli. Lo dico perché, al contrario, i vecchi che c’erano in squadra ci consigliavano eccome. Personalmente rimasi molto male quando Bertoni fu ceduto al Napoli, l’anno prima con Daniel avevamo fatto benissimo (3° posto in classifica e 22 gol in coppia n.d.r.) quindi mi sarei aspettato un attaccante forte che giocasse accanto a me. Poi Antognoni non guariva e allora presero Sòcrates. Ma non so se fosse quello che ci voleva...” Com’era Sòcrates in allenamento? “Ricordo che fece tantissima fatica. Di certo non era abituato a carichi di lavoro simili. A Pinzolo, in ritiro, dopo pochi giorni era già cotto. Mentre noi facevamo le ripetute in salita, lui faceva giri di campo. Mi raccontava che, in Brasile, le squadre si ritrovano 20 giorni prima del campionato e fanno subito le partitelle. Tutto un altro mondo...” In patria Sòcrates era una sorta di capo carismatico, anche nello spogliatoio. Con voi ha mai provato ad imporre le sue idee? Ha mai parlato di politica? “No, per niente. Alle cene che facevamo non veniva mai. Ricordo aveva moglie e 4 figli, e stava sempre con loro. Riguardo alla politica so che fece degli incontri, delle conferenze, ma con noi non affrontò mai l’argomento”. Che tipo di calciatore era? “A mio parere un po’ lento per il calcio italiano. Certo, sopperiva con un gran senso della posizione. Giocava spesso di prima, aveva un buon piede. Però se lo pressavi andava in difficoltà. Comunque, un ottimo giocatore. Del resto, la carriera parlava per lui...” In conclusione, c’è un aneddoto gustoso che può raccontarci? “Beh, si... Sòcrates era un personaggio particolare, però come tutti i brasiliani amava il Carnevale. E infatti, il giorno dopo il Martedì Grasso, arrivò al campo in condizioni pietose. Praticamente non aveva dormito. Valcareggi lo guardò negli occhi e gli disse: vai a letto che è meglio, ci vediamo domani. E lui se ne andò...”

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del

LEGGENDE calcio

Sócrates

primo a non esserne felice fu Eraldo Pecci che, pur riconoscendone la grande valenza tecnica, non si “prese” mai col brasiliano: troppo diversi di carattere, troppo uguali in mezzo al campo. Il secondo era De Sisti, tecnico amante delle regole e gruppo coeso, al quale fu data una gran brutta gatta da pelare. Il terzo... fu proprio Sòcrates che, suo malgrado, si vide catapultato in un mondo troppo diverso da lui. Dicevamo di Armando Onesti, preparatore atletico di professione, designer di moda per diletto, il quale costruì intorno al brasiliano un vestito troppo stretto. Quello che, sopratutto, non andava giù a Sòcrates era il dopo-pranzo, solitamente dedicato alla “birretta”. Invece l’ordine era mangiare velocemente (10-15 minuti), sana passeggiata digestiva, e poi riposo in camera. Prima dell’allenamento pomeridiano. Caffè, ammazza caffè, birra e rutto libero... niente da fare. Sòcrates chiarì subito che così non si poteva andare avanti, lo spogliatoio si spaccò in due correnti (una pro, l’altra contro Sòcrates), il resto lo fece la malattia di De Sisti che dopo poche giornate fu sostituito da Ferruccio Valcareggi. Nel frattempo, però, la Fiorentina si era attardata in campionato e già fuori dalla coppa Uefa, insomma la stagione che doveva essere della consacrazione si stava trasformando in quella del fallimento. Con i Pontello che iniziarono a subire le prime contestazioni.

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Credit Foto - Liverani

EPPUR SI MUOVE... Nonostante questo il rendimento di Sòcrates non fu malaccio. E poi alla gente piaceva quella sua eleganza, quel suo caracollare in mezzo al campo, i colpi di tacco a metà tra l’esibizionismo ed il no-look tipico dei fuoriclasse. Eh già perché, a Firenze, si era sparsa la voce che i compagni di squadra non lo capissero. Che ci arrivassero dopo. In pratica non erano abbastanza intelligenti per il suo modo di giocare, fatto di tocchi veloci, giocate di ‘prima’, assist rapidi e ficcanti.


Si ringrazia Panini per la gentile concessione delle immagini

Sui quali però, si diceva, bisogna saperci andare. Insomma... sarà per il suo carisma, la sua bellezza in campo (il dottore era comunque elegante, quasi regale nel muoversi), la gente di Firenze era comunque con lui. E Sòcrates rispose con 9 gol ufficiali in 36 partite: 1 in coppa Italia, 2 in coppa Uefa, 6 in campionato. Memorabile il primo, contro l’Atalanta il 7 ottobre 1984, uno “scavetto” d’autore rifilato al malcapitato Benevelli. Un po’ triste l’ultimo, alla Cremonese il 21 aprile 1985, che coincise anche con la sua l’ultima partita in maglia viola. Già, vi chiederete... perchè Sòcrates rimase un solo anno a Firenze? Semplice: perché aveva capito che il calcio italiano non faceva per lui. Perché la ‘saudade’ aveva preso il sopravvento. Perché la moglie ed i 4 figli spingevano per tornare in Brasile. Perché la nuova gestione viola, diretta da Nassi ed organizzata da Agroppi, non concepiva un soggetto così “alternativo”. E destabilizzante. Sòcrates tornò in patria, al Flamengo quindi al Santos, dove nel 1988 terminò la sua carriera. CIGARETTES AND... CICUTA l’accostamento con la cicuta (il veleno che uccise l’omonimo filosofo) è fin troppo scontato. Però, se ci pensate, Sòcrates è come se piano piano si fosse suicidato, proprio come fece l’illustre predecessore. Cioè, il dottore sapeva che quella condotta di vita poteva significare la sua fine, ma non ci badò più di tanto. Addirittura, scherzava sul giorno della sua dipartita: “morirò – ebbe a dire – una domenica nella quale il Corinthians vincerà il titolo brasiliano”. Detto fatto: il 4 dicembre 2011 (alla tenera età di 57 anni) Sòcrates se ne va proprio men-

tre il Corinthians si aggiudica il ‘Brasileirão’. Fatale l’ennesima infezione intestinale, contratta la sera prima, al termine di una cena tra amici. Al 90’ della gara decisiva contro il Palmeiras tutti i componenti della squadra campione festeggiarono col braccio sinistro alzato, in onore di Sòcrates. In onore di colui che si era sempre dichiarato “comunista ed anticapitalista”. E che era rimasto “corinthiano” fino alla morte. SOCRATES O ARISTOTELES? Chiudiamo tra il serio ed il faceto. Si suol dire che un’artista raggiunga la fama solo quando viene fatto oggetto di imitazione. Ecco... Sòcrates ebbe l’onore, non solo di essere imitato, ma addirittura di avere un film incentrato sulla sua persona. Chi non ricorda “L’allenatore nel pallone”, una sorta di parodia sul mondo del calcio interpretato da Lino Banfi? Resta memorabile la figura di Oronzo Canà, la “B-zona”, i 3/4 di Gentile, i 7/8 di Collovati più la metà di Mike Bongiorno... Su tutti, però, spiccava l’omologo di Sòcrates (non omonimo, perché il protagonista si chiamava Aristoteles), costruito ad immagine e somiglianza del più famoso centrocampista brasiliano. Alto, stralunato, dinoccolato, perfino spaesato, il film si conclude con un lieto fine che (purtroppo) non corrisponde alla realtà. Non sappiamo se il “dottore” abbia mai saputo di questa caricatura a lui ispirata ma, per consolarlo, ricordiamo cosa disse di lui il grande Pelè: “Sòcrates? E’ il calciatore più intelligente che il Brasile abbia mai avuto”. Siamo certi che per l’uomo dai mille soprannomi, amante della parola, degli ideali, più attento al pensiero piuttosto che all’azione, questo sia stato il più bel complimento che potesse ricevere.

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speciale

Procuratori

Cronistoria della professione che da decenni fa sognare milioni di appassionati. Ma è davvero tutto rose e fiori?

di Andrea Ranaldo

I Re Mida del Calcio

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speciale

Procuratori

A

lcuni vendono solo sogni, i più bravi solide realtà. Quel che è certo è che gli agenti sportivi hanno assunto un ruolo centrale nell’industria del calcio, tanto che personaggi come Jorge Mendes e Mino Raiola sono ormai star globali, alla stregua dei campioni che rappresentano. Un ritorno di immagine che va di pari passo con quello economico: secondo Forbes, Mendes, nel 2019 ha negoziato 1,18 miliardi di dollari di contratti attivi, che gli sono valsi quasi 120 milioni di commissioni; il “povero” Raiola si è invece fermato a “soli” 70,3 milioni. Ma parliamo di casi eccezionali, della punta di un iceberg che è ben più corposo: soltanto in Europa si contano circa 8000 agenti sportivi abilitati, di cui 600 in Italia. Professionisti che, senza salire agli onori della cronaca, posseggono competenze giuridiche ed economiche, prima ancora che calcistiche, e che negli ultimi anni, a causa di un clamoroso autogol della FIFA, di cui parleremo in seguito, sono entrati in diretta concorrenza con faccendieri e improvvisati che hanno palesato tutti i limiti del sistema. Ora, dalla FIFA fino alle Federazioni nazionali, sono tutti concordi: è giunto il momento di rimettere ordine nel settore. Passo dopo passo, e riforma dopo riforma, le cose stanno lentamente cambiando. La storia di questa professione ha però radici molto lontane, che affondano nella terra dei tulipani: tutto ebbe inizio in Olanda, grazie all’intelligenza di un campione indimenticabile. IL PROFETA DEL GOL E DEL CALCIO MODERNO Johan Cruijff è sempre stato un rivoluzionario: in campo, in panchina, e anche nel rapporto con i dirigenti dell’Ajax. Non stupisce, quindi, che proprio nel mitico 1968 sia stato il primo top player a presentarsi all’incontro per il rinnovo del contratto in compagnia di un uomo d’affari, al secolo Cor Coster,

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commerciante di diamanti e futuro suocero di una delle pietre più preziose e luccicanti della storia del calcio. I colletti bianchi dei lancieri non la presero benissimo: parliamo di un’epoca in cui i giocatori erano considerati una “proprietà privata” dei club, che potevano, così, deciderne le sorti senza alcun tipo di contraddittorio. E, nei casi di ostracismo più bieco, anche di troncarne la carriera. Con tutti, forse, ma non con Cruijff, che la spuntò: Coster si occuperà della redazione del contratto e darà vita a una nuova carriera, che farà sognare milioni di calciofili in tutto il mondo. Nel 1968 nasce la figura dell’agente sportivo. IL PIONIERE ITALIANO Il calcio, in Italia, è una religione: era inevitabile, quindi, che l’esperienza di Cor Coster trovasse piena replica anche nel nostro Paese. Il primo “Papa” della chiesa degli agenti sportivi italiani è stato Antonio Caliendo, tuttora in attività. Napoletano classe 1944, dopo una carriera nel mondo dell’editoria, Caliendo stravolgerà la sua vita, e quella di coloro che ripercorreranno le sue orme, grazie al campione della Fiorentina Giancarlo Antognoni, che nel 1977 gli affida la procura. È il primo caso in Italia, ed è anche l’inizio di una carriera folgorante, che l’8 luglio del 1990, in occasione della finale dei Mondiali tra Germania e Argentina, lo porterà all’ingrato dubbio sulla squadra che avrebbe dovuto tifare: dodici dei ventidue calciatori in campo erano infatti suoi assistiti. UNA PRIMA VOLTA MONDIALE Estate 1990. L’Italia è in fibrillazione per le “Notti Magiche” di quello che verrà ribattezzato, come da tradizione, “il miglior Mondiale di sempre”. A margine della kermesse iridata, Antonio Caliendo, ancora lui, insieme ad altri grandi nomi del settore come Canovi, Branchini, Carpeggiani


IL PRESIDENTE Agente calcistico di lungo corso e sindacalista della categoria, abilitatosi nel 2004, Christian Bosco è oggi Presidente della IAFA, associazione che ha giocato un ruolo decisivo nel promuovere la riforma per il nuovo inquadramento legislativo della professione. Di cosa si occupa la vostra associazione? “La IAFA ha come finalità essenziale la tutela dell’immagine e dei diritti degli Agenti di Calciatori come categoria professionale, e si occupa anche di formazione e preparazione agli esami di abilitazione”. Nell’immaginario collettivo l’agente sportivo è considerato un privilegiato: a parte i casi eccezionali, qual è la reale fotografia del settore? “È un falso mito. In larga parte i media prendono ad esempio e danno risalto a pochi casi limite, che oramai operano come vere e proprie “holding”, piuttosto che come liberi professionisti. Questi rappresentano al massimo l’1% dei circa 8000 agenti professionisti in ambito europeo, di cui circa 600 sono italiani. La realtà dei fatti dice, invece, che quella degli agenti sportivi è una categoria poco tutelata, con più oneri che diritti. Ad oggi lo scenario è ancora alquanto complesso, soprattutto per quanto concerne il recupero dei crediti per i quali, nel 90% dei casi, bisogna sostenere lunghe e dispendiose controversie innanzi al giudice ordinario. È poi doveroso evidenziare che le gravi criticità conseguenti alla predetta “deregulation” continuano a sortire effetti nefasti, perché da un giorno all’altro si sono immessi nel circuito di riferimento migliaia di soggetti non qualificati, e spesso senza scrupoli e deontologia, arrecando pregiudizi non solo agli agenti abilitati ma anche ai fruitori dei loro servizi (società e atleti), provocando una vera e propria “distorsione” del mercato dei trasferimenti, comprovata dai recenti report annuali di settore. Purtroppo, come prevedibile, anche dove ci sono stati interventi regolamentari mirati, “i mercanti stanno provando di tutto per non uscire dal tempio” ... Che consiglio darebbe a un giovane che vuole intraprendere questa carriera? “In primis deve essere consapevole che la professione di agente non è un “gioco”, e di certo non corrisponde all’eden rappresentato da TV e giornali. Spese ingenti, concorrenza sleale, pratiche scorrette, difficoltà a riscuotere i crediti vantati, millantatori e faccendieri che ostacolano il lavoro, sono solo alcune delle svariate difficoltà negativamente caratterizzanti. I consigli che posso dare sono quelli di svolgere il necessario percorso formativo, fare gavetta collaborando con agenti stimati e corretti, dimostrarsi affidabili, rispettare i colleghi, evitare di provare a fare “passi più lunghi delle proprie gambe”, curare in maniera impeccabile i rapporti e le relazioni. Il tutto corroborato, imprescindibilmente, da passione, dedizione, pazienza, e spirito di sacrificio”.

e Bonetto, convinsero la FIGC a istituire l’albo professionale dei procuratori sportivi. Il primo al mondo: seguiranno l’esempio prima il Portogallo, poi l’Inghilterra e la Spagna, e via via tutte le Federazioni. A tutte le latitudini era ormai assodata l’importanza di una figura

“Cor Coster nel 1968 darà vita a una nuova carriera, che farà sognare milioni di calciofili in tutto il mondo. La figura dell’agente sportivo”.

che aiutasse un calciatore nella gestione degli aspetti economici e del fuori-campo. Entra, così, in “affari” la stessa FIFA, che di lì a poco istituirà l’Albo Procuratori Sportivi FIFA, a cui era possibile accedere solamente dopo aver superato un esame che si sosteneva nella

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speciale

Procuratori sede svizzera di Zurigo. Tale abilitazione permetteva a un agente di operare nel calciomercato internazionale. Questo fino al 2001, quando la FIFA decise di introdurre un esame unificato in tutto il mondo, strutturato in 15 domande, di cui 10 scelte dalla FIFA e 5 dalla Federazione di competenza. La prova di abilitazione verteva sul diritto sportivo, sui regolamenti internazionali, e su alcuni calcoli relativi ai costi di trasferimento dei calciatori. La percentuale di chi risultava idoneo era, mediamente, molto bassa.

calciatori di guadagnare grosse cifre, e in modo assolutamente lecito, a margine delle trattative di rinnovo del contratto o di trasferimento del proprio “assistito”. IL DIETROFRONT Il “liberi tutti” erroneamente concesso da Blatter ha generato confusione e creato enormi problemi a un settore già di per sé piuttosto convulso. La “nuova” FIFA di Infantino ha già ufficialmente annunciato l’intenzione di ritornare sui propri passi, reintroducendo sia l’albo professionale che un esame che attesti la preparazione dei can-

“Estate 1990. Antonio Caliendo, insieme ad altri grandi nomi del settore convinsero la FIGC a istituire l’albo professionale dei procuratori sportivi. Il primo al mondo”. L’INIZIO DELLA FINE: LA DEREGULATION Il peccato originale è datato 1° aprile 2015, e a dispetto del giorno non si tratta di uno scherzo, sebbene ne assuma presto le sembianze. Il presidente dell’epoca della FIFA, Joseph Blatter, con la cosiddetta “Deregulation”, cancella l’albo degli agenti sportivi e liberalizza la professione, dando vita alla figura dell’intermediario. Non viene più richiesto alcun tipo di tesserino, e soprattutto non esistono più requisiti minimi. Viene quindi abolito anche l’esame, mantenuto in vita solamente da alcune Federazioni. Chiunque, con una spesa di segreteria di cinquecento euro e una banale autocertificazione, può così operare nel calciomercato mondiale. Di fatto, si traduce, anche, in un escamotage che permetterà ai parenti dei

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La Deregulation voluta da Blatter ha cambiato tutto


didati. Nel frattempo, alcuni Paesi si sono portati avanti con il lavoro e, tra questi, figura anche l’Italia, non nuova come abbiamo visto al ruolo di apripista. Con la legge di Bilancio del 2018, il Governo italiano ha risposto alle perplessità espresse dai professionisti del mondo del calcio istituendo, attraverso il CONI, il Registro Nazionale degli Agenti Sportivi, che coinvolge tre degli Sport professionisti riconosciuti in Italia: il calcio, la pallacanestro e il ciclismo. Per potersi iscrivere al nuovo albo è obbligatorio superare un triplo esame: una prova generale, sia scritta che orale, presso il Coni, e una specialistica gestita direttamente dalla Federazione di competenza. Sono, invece, iscritti d’ufficio tutti coloro che erano agenti abilitati nell’era pre-deregulation.

FATTA LA LEGGE, TROVATO L’INGANNO Come da tradizione italiana, entrano in gioco i tribunali. I cosiddetti intermediari avevano infatti ottenuto una deroga fino al 31 dicembre 2019, scaduta la quale, per poter operare legittimamente in Italia, si trovavano obbligati a superare il triplo esame previsto dall’ordinamento sportivo nazionale. Non tutti, però, sono stati studenti diligenti: alcuni dei bocciati hanno così trovato, apparentemente, soluzione iscrivendosi al registro di un Paese straniero in cui non era ancora previsto un esame di abilitazione, per poi chiedere alla FIGC l’iscrizione come agente stabilito. La Federazione ha, con colpevole noncuranza, accolto tali richieste, che sono però state successivamente rigettate dal CONI, che con maggiore solerzia ha fiutato l’inganno. A questo punto sono iniziati i ricorsi: il TAR ha respinto tutte le istanze, ma il Collegio di Garanzia, con grande sorpresa, ha invece ribaltato la situazione, dando ragione a un ricorrente. È il cavallo di Troia che ha permesso a una trentina di intermediari di essere ufficialmente abilitati come agenti, anche se non sono mai stati giudicati idonei da un esame pubblico. La IAFA - Italian Association of Football Agents, presieduta da Christian Bosco, ha impugnato il provvedimento del Collegio di Garanzia, ed è ora in attesa di giudizio per i casi sopraccitati. Per quelli futuri, invece, la “triangolazione” con l’estero è stata definitivamente scongiurata da un decreto ministeriale del Ministero dello Sport, che ha chiarito che anche i soggetti registrati presso una Federazione estera, per poter operare nel nostro Paese, devono avere superato una prova equipollente a quella italiana. È in questo clima di processi e incertezza che migliaia di professionisti attendono, con fiducia, ma anche con un pizzico di giustificata impazienza, una risposta chiara e definitiva dalle istituzioni, che riporti il sereno nell’industria più bella del mondo: quella chiamata “calcio”.

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C L A C L E D I T GIGAN Juary

di Fabrizio Ponciroli

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Credit foto: Liverani


è stato Campione d’Europa ma Juary è noto per quella danza attorno alla bandierina…

“A

volte mi sorprende che si ricordano di me per come esultavo invece che per come giocavo”. Parole e musica di Juary Jorge dos Santos Filho, semplicemente Juary. Nell’estate del 1980, la Serie A decide che è giunto il momento di riaprire le frontiere calcistiche. Ogni squadra della massima serie italiana si concede un campione straniero. L’Avellino decide di puntare su un minuto brasiliano cresciuto nel Santos. Inizia così l’avventura di Juary nel nostro calcio… A distanza di 40 anni, Juary è nuovamente in Italia. Ha partecipato, attivamente, all’apertura dell’Academy Santos a Piazza Tirana, a Milano. L’occasione per aprire il libro dei ricordi e far capire a tutti che quel ragazzo dall’esultanza particolare era anche un signor giocatore… Juary, partiamo dai tuoi idoli da ragazzino… “Il mio idolo è sempre stato Pelé. Mi ricordo che lo vedevo ovunque, anche al cinema. Un giocatore pazzesco, dotato di qualità incredi-

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LCIO

CA GIGANTI DEL Juary

Si ringrazia Panini per la gentile concessione delle immagini

bili. Io sono cresciuto nel Santos, casa sua. Ho avuto anche la fortuna di allenarmi tante volte con lui e di essere in campo nell’ultima partita di Pelé. Guarda, lui era avanti rispetto a tutti gli altri giocatori di 10 anni. Era unico…”. Ti ha mai detto qualcosa O Rei? “Mi ha detto una cosa che non dimenticherò mai. Io ero all’inizio della mia carriera e sognavo di diventare un giocatore professionista. Lui, un giorno, mi ha preso da parte e mi ha detto: ‘Non pensare a diventare un grande giocatore, pensa a diventare un grande uomo’… è un insegnamento che non ho mai dimenticato. Per me Pelé è stato un esempio, un modello”. Parliamo del tuo arrivo in Italia, ad Avellino… “Guarda, qui c’è da divertirsi nel raccontare come è andata (ride, n.d.r.). Io mi trovavo a Guadalajara e sono salito sull’aereo che mi doveva riportare in Brasile per le vacanze. Avevo appena finito la mia prima stagione in Messico. Mentre mi trovavo sull’aereo mi hanno detto: ‘O ti butti ora o devi venire in Italia, ad Avellino. Luis Vinicio ti vuole. Dobbiamo andare ad incontrarlo’. Io non sapevo nulla di Avellino e della Serie A. Ho risposto che andava bene, mi basta tornare per le vacanze in Brasile. ‘Tranquillo, stiamo in Italia tre o quattro giorni. In realtà non sono più tornato in Brasile”. Insomma, sei stato ingannato… “No, è accaduto tutto velocemente. Da Gualajara siamo andati in Canada e poi dritti a Roma. Mentre eravamo in volo, mi hanno detto che ero già un giocatore dell’Avellino, che non c’era nessun incontro da fare con nessuno. Mi ricordo che ero terrorizzato. Andavo in una città di cui non avevo mai sentito parlare. Ho fatto un viaggio in aereo a pensare a tutta la mia vita, a come stava cambiando per sempre…”.

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In effetti… “Ti dico anche che il mio primo incontro con Sibilia (patron dell’Avellino, n.d.r.) è stato molto difficile. Quando me lo sono trovato davanti, ero molto teso. Non volevo giocare per lui, mi faceva paura. Sibilia mi guardava attraverso gli occhiali appoggiati al naso… Poi fissava Vinicio, l’allenatore che mi aveva voluto ad Avellino. Poi hanno iniziato a parlare tra loro. Dopo un po’ di tempo Vinicio mi ha raccontato quello che si sono detti quel giorno in quella stanza…”. Siamo curiosi… “Queste le parole di Sibilia a Vinicio: ‘Luis, io ti ho chiesto un calciatore forte e tu mi hai portato questo… è piccolo, come fa a giocare in Italia’… Per fortuna Vinicio l’ha convinto a prendermi, anche se Sibilia l’aveva minacciato che, se fossi andato male, mi avrebbe mandato via a calci nel sedere. Per fortuna sono riuscito a dimostrare che potevo giocare in Serie A (ride, n.d.r.). Che ricordi hai dell’esperienza ad Avellino? “Ho dei ricordi bellissimi. Devo ringraziare Di Somma che mi ha preso sottobraccio e mi ha insegnato tutto del calcio italiano e di Avellino. Inoltre, Vinicio è stato bravo a creare un gruppo di uomini uniti. Ognuno aveva un suo preciso ruolo nella squadra e il mio era importante. Mi sono sentito parte del gruppo sin da subito. Vinicio sapeva che, per salvarci, dovevamo chiuderci bene e poi ripartire. Ecco, ripartire in contropiede era la mia specialità. Per questo i due anni ad Avellino sono andati bene”. Subito sei diventato un idolo per tutti per quella danza attorno alla bandierina ad ogni tuo gol… “Innanzitutto devo dire che quell’esultanza è nata per caso. Tutto è nato prima di una partita contro il San Paolo. Io ero al Santos. Un giornalista mi ha chiesto come avrei esultato in caso avessi segnato. Non mi veniva nessu-


na idea e non ci ho più pensato. Poi, durante la partita contro il San Paolo, ho segnato e, d’istinto, mi sono avvicinato alla bandierina e mi sono messo a danzare. è andata bene, visto che ho segnato ancora in quella partita (ride, n.d.r.)”. Sei stato uno dei primi a creare una propria esultanza… “Penso proprio di essere stato il primo… Dopo di me sono arrivati altri, alcuni mi hanno anche imitato. Lo ha fatto Roger Milla ai Mondiali e recentemente anche Neymar. Mi ha fatto piacere. L’unica cosa che, a volte, tutti si ricordano di me per l’esultanza e non per i trofei vinti”. Torniamo alla tua carriera. Dopo la tappa ad Avellino, nel 1982 approdi all’Inter… “Non è andata come speravo. Sono arrivato all’Inter troppo giovane e inesperto. Ero inibito davanti a tanti, troppi campioni. Loro erano fortissimi. Io ero abituato alla gente di Avellino, a Milano ho sofferto. Mi sono chiuso in me stesso e ho perso la gioia. Però, lo devo dire, a Milano sono cresciuto moltissimo come uomo. Mi ha fatto capire che il calcio non era solo allegria, che bisognava anche lavorare per raggiungere certi traguardi. è stata una grande lezione”. Poi sei stato all’Ascoli e alla Cremonese. Quale squadra italiana ti è rimasta più nel cuore? “Avellino. Sono arrivato in città nel 1980, avevo solo 20. Ho visto tanta gente morire per il terremoto e tanta altra gente ricostruire le loro vite dalle macerie. L’amore che ho per Avellino è unico. Sono stato anche a Guadalajara e Porto ma Avellino è la città del mio cuore”. Hai parlato del Porto, club con cui hai vinto tutto… “Dopo l’esperienza in Italia, non avrei mai pensato di fare tanto bene al Porto. Con quel club ho vinto tutto. Quando, nel 1985, sono arrivato al Porto sapevo che era l’ultima chance importante della mia carriera. Ho trovato una

LA CARRIERA DI JUARY Juary Jorge dos Santos Filho è nato a Sao Joao de Meriti, nello stato di Rio de Janeiro, il 16 giugno 1959. Attaccante di grande rapidità, è cresciuto nel Santos. Nel 1979 ha indossato la casacca del Tecos, in Messico (cinque reti in 25 gare). Nell’estate del 1980, Vinicio lo chiama all’Avellino. In due stagioni con gli irpini, va a segno 13 volte (34 presenze totali). Arriva così il passaggio all’Inter, allora guidata da Marchesi. Fatica a lasciare il segno (solo due reti) e, nel 1983, lascia Milano per accasarsi all’Ascoli. Una buona stagione con i marchigiani (cinque reti), seguita da un’annata non felicissima alla Cremonese. Trova la via del gol solo due volte. Poche per la riconferma. Quasi a sorpresa, firma con il Porto. È la scelta migliore della sua vita. Con il club portoghese vince tutto: Primeira Liga (1985/86), Supercoppa portoghese (1986), Coppa del Portogallo (1986/87), Coppa dei Campioni (1987), Supercoppa Uefa (1987) e Coppa Intercontinentale (1987). Suo il gol che decide la finalissima di Coppa Campioni contro il Bayern (2-1, Juary realizza la rete del successo all’80’). Nel 1988 fa ritorno in Brasile. Portuguesa, nuovamente al Santos e altre esperienze poco felici prima di lasciare il calcio giocato nel 1992. Si è poi divertito ad allenare, soprattutto i giovani. Importante l’esperienza da tecnico al Sestri Levante (tre stagioni, dal 2010 al 2013). Curiosità: nel 1981 ha inciso un 45 giri. Il nome del brano musicale? Sarà così!

Il Direttore Ponciroli in compagnia di Juary e Sylvio

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CA GIGANTI DEL Juary

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Juary, con la casacca dell’Avellino, in gol contro il Milan - Liverani

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CA GIGANTI DEL Juary

squadra fortissima. Allora il Porto era molto famoso e rispettato in Portogallo ma sconosciuto in Europa. Noi siamo riusciti a vincere la Coppa Campioni nel 1987. è stata la vittoria che ha reso il Porto un top club in Europa”. Hai segnato in finale di Coppa Campioni… “Sì, il gol del definitivo 2-1 contro il Bayern Monaco. Abbiamo segnato io e Madjer”. Il Tacco di Allah… “Giocatore fortissimo. Quando puntava l’av-

L’ACEDEMIA SANTOS A MILANO “Vogliamo insegnare ai giovani la tecnica. Il calcio è allegria”. Lo ribadisce più volte Juary. Ci tiene che i ragazzi possano scendere in campo e divertirsi. Insieme a Sylvio, Juary ha deciso di metterci il cuore nel progetto Academy Santos Futebol Clube Italia: “Diamo un’occasione a ragazzi dai cinque ai 17 anni. Ci teniamo che vada tutto bene, è il nostro grande sogno”. Gli fa eco Sylvio, “organizzatore” dell’Academy: “È la prima scuola calcio del Santos in Europa. Abbiamo incontrato il presidente del Santos e gli abbiamo spiegato il nostro progetto. Ha subito accettato ed eccoci qua. Speriamo che sia la prima scuola Santos in Europa di tante altre. Vogliamo portare le nostre idee di calcio qui in Italia”. Sorta a Piazza Tirata, la scuola calcio potrà contare sull’esperienza di Juary: “Il calcio deve essere gioia. La tattica è importante ma, quando si è piccoli, bisogna anche divertirsi tanto. Questo è il nostro primo obiettivo”.

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versario, lo saltava sempre. Era anche molto intelligente in campo. Ci trovavamo bene io e Madjer. Purtroppo, ho perso il suo contatto ma ha un ruolo speciale nel mio cuore”. Juary hai giocato con e contro tantissimi campioni… “Devo ringraziare Dio perché ho avuto la fortuna di giocare contro giocatori incredibili. Penso a Maradona e Platini, tanto per fare due esempi. Con quelli che ho giocato, ricordo Beccalossi. Faceva giocate da brasiliano…”. Chi è stato il difensore che ti ha dato più noia? “Ti dico che, quando affrontavo questo, non riuscivo a dormire il sabato sera. Parlo di Vierchowod. Guarda, lui era un incubo. Ogni volta che lo saltavo, lui recuperava sempre. Credo sia stato il difensore più forte che abbia mai affrontato. Poi era cattivo, nel senso buono del termine. Lui, sulla palla, arrivava sempre deciso. Un bel problema…”. Che effetto ti fa, a distanza di 40 anni, a pensare che sei stato uno dei primi stranieri ad arrivare in Italia… “Sono tanto orgoglioso di questo… In Italia, in quel 1980, sono arrivati giocatori come Zico all’Udinese, Falcao alla Roma, Prohaska all’Inter, Jordan al Milan, Brady alla Juventus… Nomi che nessuno scorderà mai”. Come nessuno scorderà Juary, l’uomo che danzava, dopo ogni gol, attorno alla bandierina e che, meglio sottolinearlo, ha deciso una Coppa dei Campioni. Prima di andarsene, Juary mi firma la maglia di Retro Football del Porto del 1987 e mi svela un segreto: “Purtroppo la maglia della finale con il Bayern Monaco non ce l’ho più. L’ho scambiata con qualcuno, non so neanche con chi. E quello che mi fa più male è che ho solo una maglia del mio Avellino. Quella sì che era una bellissima maglietta”. Insomma, Juary ha vinto tutto con il Porto ma il suo cuore appartiene alla splendida città di Avellino.


ADRENALYN XL 2020/21 PANINI: PRIMO, SECONDO E TEMPI SUPPLEMENTARI Ci sono tradizioni che è bello ritrovare, soprattutto in questi momenti non facile. La Serie A è ripartita. Parallelamente è tornata una delle collezioni Panini più amate. E’ appena uscita in edicola ‘Calciatori Adrenalyn XL 2020/21’, la raccolta ufficiale di card dedicata alle squadre e ai grandi protagonisti della Serie A, rinnovata nella grafica e nei contenuti. La collezione è composta da 466 bellissime card, di cui 146 realizzate su materiali speciali e con grafiche ed effetti particolari, suddivise in due uscite separate e con bustine di diverso colore: le ‘Primo Tempo’, già in vendita, contengono 233 card; le ‘Secondo Tempo’, disponibili da fine settembre, con le altre 233 card per completare la raccolta. A queste, da fine ottobre si aggiungeranno anche le bustine ‘Tempi Supplementari’, con le card ‘Plus’ sugli ultimi trasferimenti, gli allenatori e altre card. Inoltre, ad aggiungere valore alla collezione, le card ‘Limited Edition’, dedicate a 20 calciatori di cui 3 in versione con firma

in oro. Oltre a essere un collezionabile Panini, ‘Calciatori Adrenalyn XL 2020/21’ è anche un gioco che consente di ricreare vere partite di calcio attraverso la costruzione della formazione più competitiva. Le partite possono essere disputate sul nuovo ‘Campo da gioco’ per due giocatori contenuto nello ‘Starter Pack’, ma anche giocate online in sfida dirette, oppure in appassionanti tornei tra collezionisti (sul sito www.paniniadrenalyn. com). Le card sono dotate di un codice che permette di giocare. “Come in ogni stagione, la collezione ‘Calciatori Adrenalyn XL’ celebra la ripresa del campionato - dice Antonio Allegra, direttore mercato Italia di Panini -. In quest’anno particolarmente difficile, lo fa con importanti novità, originate anche delle tempistiche con cui è ripartita la stagione, che siamo certi piaceranno a tutti gli appassionati della raccolta”. Appuntamento in edicola!


O N R O I G N U EROI PER Nicola Cassano di Gianfranco Giordano

36 Credit Foto: Alè Taranto


C’è stato un momento in cui Nicola Cassano è entrato nella storia del calcio…

IL CASSANO DI TARANTO…

N

icola Cassano da Bari vecchia, nessuna parentela, è balzato all’attenzione del grande pubblico il 7 dicembre 1980. Nel giorno di Sant’Ambrogio, il Milan alle prese con il suo primo campionato di Serie B faceva visita al Taranto. I Rossoneri erano imbattuti in testa alla classifica, ma quel giorno subirono una pesante sconfitta, 3-0 con doppietta di Bortolo Mutti, in seguito ottimo allenatore, e in mezzo una bellissima rete di Cassano. Partito dall’out destro, Cassano puntò Baresi, lo mise a sedere con una serie di finte poi entrò in area e segnò con un forte tiro. In carriera Baresi subì solo due volte l’onta di finire a terra davanti a un avversario, il secondo è stato un certo Romario ai tempi del PSV in

Nato a Bari il 4 giugno 1959, a 16 anni arriva al Napoli, ma non esordisce mai in prima squadra, anche a causa di un infortunio. Dopo Napoli due campionati in C con Treviso e Monopoli poi la grande occasione al Taranto in Serie B. La retrocessione e un infortunio gli impediscono di spiccare il grande salto e comincia a girare nei campi di Serie C, Prato, Asti, Nola e Altamura, dove chiude la carriera professionistica.

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RNO

GIO EROI PER UN Nicola Cassano

una partita di Coppa Campioni. Grazie a Ippazio Prete del’A.P.S. Taras 706 a.C., il Supporters Trust tarantino, entro in contatto con Nicola. Gli chiedo tramite un messaggio se è disponibile per un’intervista, poco dopo mi risponde dicendomi che mi chiamerà all’inizio del pomeriggio. ome promesso richiama e subito si scusa per non aver chiamato prima, dopo due parole passiamo al tu, la sua simpatia e la sua semplicità mi travolgono. Nicola cosa ti ricordi di quel Taranto-Milan? “Sembrerà strano ma ero triste, io sono milanista fin da bambino e quel giorno ero triste per il Milan che aveva perso. A quei tempi Rivera era dirigente del Milan, quando ero piccolo lui era il mio idolo e quel giorno ero emozionato perché sapevo che sarebbe stato in tribuna a vedere la partita. Comunque non ho messo a terra Baresi, ho fatto una serie di finte e lui semplicemente ha perso l’equilibrio ed è scivolato. Poi naturalmente ero anche contento, lo stadio era pieno e dopo la partita c’era tutta la città che faceva festa. Quell’anno il Taranto era una bella squadra, purtroppo nel girone di ritorno siamo calati e

STATISTICHE

squadra serie pres. reti 1978/79 Treviso 1979/80 Monopoli 1980/81 Taranto 1981/82 Taranto 1982/83 Prato 1983/84 Asti 1984/85 Asti 1985/86 Asti 1986/87 Nola 1987/88 Altamura 1988/89 Altamura 1989/90 Altamura 1990/91 Altamura 1991/92 Altamura 1992/93 Altamura

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C1 C2 B C1 C2 C2 C1 C2 C2 Interr. Interr. C2 C2 C2 C2

13 15 20 24 27 31 26 33 21

1 0 2 0 6 3 3 2 1

32 19

1 1

23 1

1 0

retrocessi in Serie C, oltretutto siamo partiti con cinque punti di penalizzazione”. Il primo contratto da professionista con il Napoli. “Sono arrivato a Napoli a 16 anni, solo più tardi a carriera finita mi sono reso conto che il Napoli mi aveva fatto un contratto da professionista da subito, al tempo con gli Azzurri c’era Burnich una grande persona, all’apparenza burbero ma molto umano. Nel 1976, io mi allenavo regolarmente con la prima squadra, l’allenatore Rivellino voleva farmi giocare nella fase finale della Coppa Italia (ai tempi la Coppa si giocava dopo il campionato) ma in allenamento mi sono fatto male al ginocchio e sono rimasto a casa”. Come giocavi, quali erano le tue caratteristiche? “Io ero un dribblomane, mi piaceva divertirmi in campo, quando avevo la palla puntavo l’av-


versario e andavo di finte, se non facevo tunnel al mio marcatore, non ero contento. Mutti recentemente ha detto che quando entravo in campo io spaccavo le partite. Poi in campo ero un provocatore, ero giovane, e spesso sfottevo gli avversari. Mi ricordo una partita, giocavo ad Asti, in cui ho fatto di tutto per far imbestialire il mediano che mi marcava, le ho provate tutte e lui niente, impassibile. A fine partita ci siamo salutati, mi ha detto che sapeva che lo avrei provocato ed era riuscito a non farsi trascinare nel mio gioco. A quel punto ci siamo messi a ridere e ci siamo abbracciati”. Com’erano i tuoi rapporti con gli allenatori? “Non erano buoni (ride n.d.r.). Ho litigato con tutti però alla fine mi facevano sempre giocare titolare, ero fatto così se dovevo dire qualcosa lo dicevo senza problemi. Invece i miei rapporti con i presidenti erano migliori, mai litigato con nessuno”. Dopo Napoli vai a Treviso, Monopoli e poi a Taranto, sembri lanciato verso una brillante carriera e invece la Serie B è stato il tuo massimo livello, cosa è successo? “Ai tempi del Taranto c’era interesse nei miei confronti e avevo proposte da varie squadre, anche di Serie A. Purtroppo ho avuto un infortunio, uno strappo al quadricipite femorale, sono rimasto fermo 4/5 mesi e ho perso il treno. Comunque, devo dirti che non ho nessun rimpianto, alla fine in tutti i posti dove ho giocato sono stato bene e mi sono divertito”. Dopo Taranto tanta Serie C. “In particolare sono rimasto tre anni ad Asti, l’ultimo anno è arrivato Michele Padovano, un altro estroso come me, siamo diventati subito amici. Poi le ultime stagioni ad Altamura, i primi due anni in Interregionale abbiamo vinto tutto, coppa e campionato. Io ero stato

ingaggiato per fare da chioccia ad una squadra giovane. Per me lo spogliatoio è la cosa più importante nel calcio, se non c’è gruppo non si combina niente. Si finiva che la sera, verso le undici, invece di dormire mandavamo due dei ragazzi più giovani a prendere le pizze e i dolci e facevamo serata insieme, era un ambiente splendido e andavamo tutti d’accordo”. Quando hai chiuso con il calcio? “Dopo Altamura ho giocato ancora un paio d’anni nei dilettanti, ma era solo per divertirsi. Eravamo una squadra di amici, ci autogestivamo solo per stare insieme. Finito di giocare ho proprio chiuso con il calcio e devo dire che, anche se non giravano tutti i soldi di adesso, già al tempo l’ambiente del calcio era un po’ snob. Nel tempo libero io cercavo di evitare quell’ambiente e preferivo frequentare i miei amici che erano completamente estranei al pallone. Dopo il calcio ho avviato un’impresa di autotrasporti, furgoni niente autocarri, ma due anni fa ho venduto tutto”. Cosa fai adesso? “Adesso mi occupo di volontariato, da ragazzo ero andato una volta a Lourdes con i miei genitori, ho visto tante persone in difficoltà e avrei voluto fare l’accompagnatore ma purtroppo bisognava fare un corso e non era conciliabile con la mia attività sportiva. Io sono cresciuto in un quartiere popolare, ho visto tanta gente farsi un mazzo così per un pezzo di pane, quando giocavo in due mesi guadagnavo più di mio papà in un anno. Adesso faccio il volontario in una ONLUS, mi alzo tutte le mattine alle 5.30 e sono felice perché posso aiutare persone in difficoltà. Questa esperienza mi riempie la vita, mi commuove”. Finita l’intervista ci salutiamo, sembriamo due amici di vecchia data.

“Adesso faccio il volontario in una ONLUS, mi alzo tutte le mattine alle 5.30 Questa esperienza mi riempie la vita”

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TI I N I F O N O S DOVE Ottorino Piotti

di Thomas Saccani

IL PORTIERE DALLE MANI SALDE 40


C

Credit Foto: Liverani

lasse 1954, nativo di Gallarate, Ottorino Piotti è stato un signor portiere. Si pensi che, nel corso della sua quasi ventennale carriera, ha indossato le casacche di Milan (dal 1980 al 1984), Atalanta, Genoa, Avellino, Como e Bolzano. Dopo aver lasciato, nel 1991, il calcio giocato, ha intrapreso la carriera di dirigente sportivo. Poi la decisione di mettersi in gioco nel ruolo di procuratore ma con regole ben precise, le stesse che seguiva quando difendeva la porta da fuoriclasse del calibro di Maradona, Platini o quel Paolo Rossi che è diventato il suo vero incubo… Ottorino, come si è avvicinato al mondo del calcio? “Come tutti i ragazzi della mia epoca, ho iniziato a giocare all’oratorio. Avevamo una bella squadretta che segnava tanti gol ma ne incassava pure troppi. Così, da attaccante che faceva gol, mi sono ritrovato in porta. Diciamo che abbiamo segnato di meno ma prendevamo anche pochi gol, quindi sono rimasto in porta”. Ma ha dismesso i panni dell’attaccante con dispiacere? “No, onestamente mi è sempre piaciuto il ruolo di portiere. Quando capitava di giocare al

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DOVE SONO

FINITI?

Ottorino Piotti campetto con gli amici, spesso mi mettevo in porta. È un ruolo che mi è sempre piaciuto anche da piccolo. Avevo una predisposizione per la porta”. Chi erano i suoi idoli da piccolo? “Sai, mio padre era interista, quindi i miei idoli, da piccolo, sono stati Giuliano Sarti e Lido Vieri”. Negli anni ‘60/’70 non era semplice scegliere di fare il calciatore professionista. Quale è la sua storia? “È avvenuto in maniera naturale, non me ne sono quasi accorto. Ho fatto tutte le categorie, partendo dalla Seconda Categoria. I miei compagni di allora sognavano di fare il calciatore ma io sono sempre restato con i piedi ben piantati per terra e pensavo solo a migliorarmi, senza farmi illusioni. Quando sono finito al Como, che militava in Serie B, come terzo portiere, beh lì ho iniziato a capire che quella poteva essere la mia strada”. Como, Bolzano e poi Avellino, squadra con cui esordisce in Serie A… Ricorda quella partita? “Come potrei mai dimenticarla… Credo sia stata l’emozione più forte che abbia mai provato. Essendo nato vicino a Milano, per me San Siro era il massimo. Mio padre mi aveva portato a vedere giocare l’Inter e, il destino ha voluto, che il mio esordio in Serie A avvenisse proprio a San Siro, contro il Milan. Mi è sembrato di volare”. Parliamo dell’opportunità di andare al Milan… “Stavo facendo benissimo ad Avellino. Ero tra i top portieri del campionato. Ricordo che ce la giocavamo io e Castellini… Quindi sapevo che ero molto appetito dai grandi club ma non era

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il mondo di adesso. La volontà del giocatore non contava molto. Inoltre, io sono andato al Milan quando ancora lo spettro della Serie B sembrava impossibile. Mi dicevano: ‘Ma no, vedrai che risolvono…’. E, invece, mi sono ritrovato a giocare nel Milan ma in Serie B per lo scandalo del Totonero”. Al posto giusto nel momento sbagliato… “Esattamente. Ho lasciato Avellino che ero nel giro della Nazionale e mi sono ritrovato a giocare in Serie B, con il Milan, prendendo anche meno soldi rispetto ad Avellino. Inoltre, in futuro, ho saputo che mi volevano anche tanti altri grandi club come Juventus e Lazio…”. Al Milan sei rimasto comunque per quattro anni… “Purtroppo non ho trascorso degli anni belli al Milan a livello societario. Come se non bastasse, quando sono andato all’Atalanta, poco dopo il Diavolo è diventato di Berlusconi… Ma c’è un aneddoto curioso…”. Ora siamo curiosi… “In quell’estate del 1984, io ho parlato con il Pisa ma, per questioni varie, non si è trovato l’accordo con l’allora presidente Anconetani. Sono quindi tornato ad allenarmi con i rossoneri che avevano appena preso Terraneo. L’Atalanta si è fatta avanti e io ne ho parlato con Liedholm: ‘Mister, la ringrazio per l’ospitalità ma ho questa occasione… C’è l’Atalanta che mi vuole e io andrei’… La risposta del Barone non la dimenticherò mai: ‘Secondo me Piotti stai sbagliando. Oggi Terraneo è il numero uno qui, domani magari è Piotti il numero uno’. Non l’ho ascoltato, ero giovane e volevo giocare. Con il senno di poi, ho fatto una scelta sbagliata”. Chi era la sua bestia nera tra gli attaccanti


LA SUA CARRIERA Ottorino Piotti nasce a Gallarate il 31 luglio 1954. Milita nelle giovanili della Gallaratese. Poi, nel 1974, diventa il terzo portiere del Como. Dopo una stagione nel Bolzano, con ben 30 presenze, torna ai lariani dove si mette in luce per le sue doti di portiere. Nel 1977, a 23 anni, viene scelto dall’Avellino. Diventa il titolare inamovibile degli irpini che, grazie anche alle sue parate, conquistano immediatamente la promozione in Serie A. Resta all’Avellino sino al 1980: “Non ho mai saltato una partita, se non in un caso, quando sono uscito dal campo per infortunio”, racconta… Al Milan rimane per quattro stagioni, sino al 1984, giocando al fianco di gente come Franco Baresi, Fulvio Collovati, Mauro Tassotti, Aldo Serena, Filippo Galli e tanti altri. Nell’estate del 1984 si trasferisce all’Atalanta dove resta sino al 1990 (120 presenze totali). L’ultimo anno della sua carriera lo spende al Genoa. Poi, nel 1991, il ritiro. Dirigente prima, procuratore oggi…

che ha affrontato? “Non ho dubbi: Paolo Rossi. Non perdonava mai. Bastava una corta respinta e lui ti puniva”. Ha giocato anche con tantissimi campioni… “Dovrei citarne tanti per non fare torti. Credo che, se proprio devo fare un solo nome, sia giusto dire Franco Baresi. Incredibile giocatore, in campo sapeva guidare la difesa come nessuno”. Non ho sofferto molto l’addio al calcio. Avevo i bambini piccoli, quindi avevo voglia di stare più tempo con la famiglia. Ma sarei anche potuto andare avanti un anno… Al termine della stagione con il Genoa (1990/91, n.d.r.), sono stato chiamato da Percassi, presidente dell’Atalanta che mi voleva a Bergamo ancora una volta. Io avevo fatto sei stagioni all’Atalanta, quindi ero anche ben voluto. Nello stesso periodo sono stato contattato da Marotta che, allora, era all’Udinese. Ero tentato da Udine ma ho pre-

ferito aspettare l’offerta della Dea che poi non si è concretizzata ma, forse, era destino che andasse così”. Appese le scarpette al chiodo, è rimasto nel mondo del calcio. Oggi è un procuratore, giusto? “Prima ho fatto il dirigente sportivo, poi ho deciso di mettermi in gioco come procuratore. Ormai il calcio è cambiato. Penso ai giovani di oggi. Io ero umile e non mi sarei mai sognato di sentirmi arrivato dopo una partita. Oggi, basta una presenza in Serie B, e questi giovani si sentono già dei fenomeni. Personalmente, cerco di aiutarli a capire come bisogna comportarsi per arrivare all’obiettivo”. C’è un giovane al quale è particolarmente legato? “La mia più grande soddisfazione è Moreo. L’ho seguito dalle giovanili delle Caronnese. Un ragazzo con i valori giusti. Pensa che poteva andare al Lecce, in Serie A, ma ha preferito restare all’Empoli per migliorarsi e farsi trovare pronto, in futuro per la massima serie. è un ragazzo che ho nel cuore”. Piedi ben piantati per terra e mani salde. Ottorino Piotti non è stato fortunatissimo a livello di “scelte calcistiche” eppure è sempre stato “sul pezzo”. Avrebbe potuto vincere e guadagnare di più ma si è sempre comportato in maniera coscienziosa. Un grande portiere e, soprattutto, un grande uomo…

Si ringrazia Panini per la gentile concessione delle immagini

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reportage CALCIO AL TEMPO DEL COVID di Fabrizio Ponciroli

Raccontare il calcio ai tempi dei Covid-19 è esercizio complicato. Tante le componenti che rendono questo reportage di difficile stesura. L’epidemia ci ha tolto la spontaneità di tanti gesti. Il calcio si è isolato, in tutti i sensi, nell’attesa che si possa tornare ad abbracciarsi per un gol allo stadio. Credo che il modo migliore per spiegare cosa sia il calcio senza vita (gli spettatori) sia necessario lasciarsi andare… Ed è quello che ho fatto… 44


In diretta (silenziosa) da San Siro…

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reportage CALCIO AL TEMPO DEL COVID

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ultima volta allo stadio a vedere una partita dal vivo? Lo scorso 2 febbraio: Juventus-Fiorentina. Mentre vedevo correre CR7, mai avrei immaginato di dover attendere oltre cinque mesi prima di tornare a frequentare un impianto dedicato al calcio, il più bel gioco del mondo. Quando l’Inter mi ha comunicato l’accettazione del mio accredito stampa, ho avuto un sussulto. Ho immediatamente pensato: “Chiaro, non è il calcio che conosco ma è pur sempre calcio”. Rodato da mille partite davanti alla TV, eccomi

parcheggiare l’auto a poche decine di metri dall’entrata della “zona stampa”. Nei pressi del maestoso San Siro, c’è un’atmosfera surreale. Due ragazzi, sui 12/14 anni, si rincorrono con la bicicletta. Nessun tifoso presente… La scritta INTER-TORINO A PORTE CHIUSE rende lo scenario ancor più desolante. Dopo aver ritirato l’accredito (e scoperto di essere stato posizionato al numero 181 della sala stampa), mi avvicino agli addetti della Croce Rossa: “Prego, venga pure…”. Iniziano i controlli. Doverosi, necessari… Dopo avermi consegnato l’igienizzante, arriva un ordine sanitario: “Mi spiace ma non può usare la sua mascherina. Aspetti che le diamo una delle nostre”. Peccato, la mia, stile militare, era perfetta per l’occasione. Indossata l’ormai classica mascherina azzurrina, supero i tornelli. Ci sono due percorsi obbligatori. Uno per i giornalisti, l’altro per i fotografi. Niente ascensore, ovviamente. Si sale a piedi che fa anche bene al fisico… Finalmente rivedo il manto erboso di San Siro. Bellissimo. Attorno il silenzio più assordante che abbia mai

E POI DA IBRA… Non contento di aver assistito a Inter-Torino, sono tornato a San Siro, questa volta per Milan-Parma. Un omaggio a Ibrahimovic, alla sua 100esima presenza con il Milan. Stesse procedure per entrare nel Tempio. Stessa situazione surreale. Tuttavia, godersi Re Zlatan dal vivo, non ha prezzo… Il seguente aneddoto fa capire perché sia un giocatore (e una persona) diversa da tutti. Siamo nelle fasi finali del match. Il Diavolo è in vantaggio 3-1 e, di fatto, i 22 in campo stanno aspettando solo il triplice fischio finale dell’arbitro Irrati per andarsene a fare la doccia. Sono stremati. Ibra non è stato sostituito. È ancora in campo. I rossoneri recuperano palla a centrocampo. Kessié, uno dei migliori in campo, parte in contropiede. Rebic taglia, permettendo a Ibrahimovic di poter ricevere. L’ivoriano, invece che servire Re Zlatan, sceglie la palla filtrante per Rebic. Non una grande idea, tanto che la difesa dei ducali sbroglia. Ibra va, letteralmente, fuori di testa: “Frankkkkkkkk, non a lui, a meeeee!!!”, urla nel silenzio di San Siro. Kessié, sorpreso dalla furia di Ibra, prova a rispondere, rendendo il “21” ancor più adirato: “Dovevi darla quiiiiiiiiii, non lààààààààààà”. Kessié capisce che è meglio rincorrere gli avversari che continuare a litigare con il gigante svedese. A fine partita, il volto di Ibra è di quelli che vorrebbero strozzare qualcuno… Pioli, nel post match, cerca di riportare la calma: “Ibra è un leone… A volte urla a sproposito ma ci aiuta a crescere”. Delle urla se ne sono accorti tutti i (pochi) presenti…

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sentito. Mi infilo nel mio posto n.181. Attorno a me seggiolini vuoti, intervallati da qualche collega intento a prepararsi per il “lavoro quotidiano”. Ognuno cerca la propria routine lavorativa, quasi volesse far credere che è tutto normale. Tuttavia, di normale non c’è niente. Quasi mi sento fuori luogo. Quando nell’aria si sprigionano le note dell’inno dell’Inter avverto un senso di smarrimento. Mi sento come un piccolo pesciolino rosso in un acquario enorme, finto, deserto, di quelli con le alghe di plastica per capirci... Per fortuna entrano le squadre a scaldarsi. Qualche voce, il pallone che rimbalza, poco altro… Si parte. Non fosse per il prestigio dei club coinvolti, potrebbe sembrare una gara di terza categoria con zero spettatori e urla di rimbrotto degli allenatori. E dire che i giocatori, oltre al vocio, ci mettono anche la gamba (per quel che si può giocando ogni tre giorni). Si sentono anche i commenti dei giornalisti. Alla papera di Handanovic, nessun insulto ma in tanti sgranano gli occhi: “Ma che ha fatto?”. Strano… Il momento più snervante è l’intervallo. In un silenzio assoluto, il rumore dei palloni calciati dai panchinari intenti a sgranchire le ginocchia e tenere lontane le zanzare è inquietante. Non è il mio calcio, non è il calcio di nessuno… “Ma perché non ha giocato Eriksen dall’inizio?”. Nasce un piccolo dibattito in tribuna stampa. Il tempo scorre lentamente. I 15’ di pausa sembrano infiniti, più lunghi di una puntata di Beautiful. Poi, ecco nuovamente i giocatori in campo. Si riprende a giocare. Qualche emozione la regalano, per fortuna, i giocatori dell’Inter che, spronati dal proprio allenatore, ribaltano lo

svantaggio. In campo si festeggia molto il primo gol di Godin con la casacca nerazzurra e il ritorno alla rete di Lautaro Martinez. Comprendo che non deve essere facile per i 22 in campo. Devi dare l’anima ma non c’è un’anima che ti incita… Finisce Inter-Torino con il successo, in rimonta, della squadra di Conte (per la fredda cronaca, diceva uno bravo). In sala stampa, come automi, ci alziamo tutti all’unisono. Saluto un paio di colleghi. Ci scappa anche una battuta: “Attento alle code fuori dallo stadio”. Rifaccio il percorso dell’andata al contrario e risalgo sulla mia auto. Mi lascio San Siro alle spalle, nella speranza che, la prossima volta, non sia un teatro fantasma abitato da poche anime perdute. Un’esperienza diversa ma che mi ha ricordato come, anche nel calcio multimilionario di oggi, l’anima erano, sono e saranno sempre i tifosi che, con la loro vera passione, rendono gli stadi un luogo magico, vivo, sognante. Conserverò l’accredito di Inter-Torino gelosamente. Perché? Semplice, per ricordarmi di quanto sia triste, per un vero appassionato di calcio, assistere, live, ad una partita a porte chiuse…”. Per fortuna, al momento di chiudere questa nuovo numero dedicato alla nuova stagione agonistica, il peggio sembra ormai alle spalle. Il calcio, timidamente, si sta riprendendo. Gli stadi si stanno rianimando ma non dovremo mai dimenticare quanto è accaduto. Che ci serva da lezione per il futuro e, soprattutto, che ci aiuti a capire quanto siamo fortunati a poter godere, tutti insieme, dello spettacolo più bello del mondo…


I R O T A N E L L GRANDI A Del Bosque di Carlo Bianchi

A COLLOQUIO COL MARCHESE... 48


Del Bosque è una leggenda del calcio. Al Real Madrid lo venerano da sempre...

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SMAS l’Associazione dei Corrispondenti Sportivi Esteri in Spagna ci permette di incontrare il Marchese (poi diremo perché) Don Vicente Del Bosque González, 69enne icona del calcio spagnolo sia come giocatore che come tecnico. Lo ricordiamo indimenticato centrocampista del Real Madrid dove disimpegnò la quasi totalità della propria carriera (1968-1984) conquistando cinque Campionati oltre a quattro Coppe del Re. Fu anche internazionale con La Roja in 18 partite (1975-1980) e l’unico ad essere riuscito a diventare Campione del Mondo e d’Europa sia con il club che con la Nazionale. Passò poi a dirigere La Cantera Blanca per ben quindici anni fino ad arrivare ad essere primo allenatore per quattro anni (1999-2003) conquistando due Campionati, due Champions League ed una Coppa Intercontinentale per poi passare a dirigere la Nazionale spagnola vincendo il Mondiale del 2010 e la Coppa d’Europa per Nazioni nel 2012. Come titoli individuali fu eletto dalla FIFA miglior allenatore del Mondo nel 2012 mentre il Re Juan Carlos I nel 2011 lo insignì del titolo di Marchese. Da sempre riconosciuto più come persona che come personaggio, di un’educazione e squisitezza di rapporti eccezionale, dotato di valori umani fuori dal comune sempre dimostrando solidarietà verso gli altri e preferendo i fatti a parole e proclami. In questa intervista Don Vicente esordisce riassumendo brevemente la sua carriera professionale riconoscendo di

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ENA GRANDI ALL Del Bosque

essere comunque una persona imperfetta. Ammette di aver avuto fortuna sia personale che professionale soprattutto nella vittoria del Mondiale, frutto di una lavoro incessante e ben programmato, eredità di quella squadra che vinse l’Europeo due anni prima con Luis Aragonés, oltre ad ammettere di aver avuto a disposizione una generazione di giocatori fuori dal comune. Come vede il calcio senza pubblico in questo particolare momento che stiamo vivendo? “Quello che è successo è stato incredibile, sembravamo tutti esperti della pandemia, ci sono state molte morti ma attualmente non sappiamo ancora dove ci condurrà tutto questo. L’aspetto più importante della vicenda è stato che sia la Liga che la Federazione come il CSD si siano messi d’accordo per riprendere il Campionato sulla base e facendo tesoro dell’esperienza tedesca sviluppata a mio modo di vedere con estrema serietà. Certamente il calcio è per il pubblico però almeno per il momento ci dobbiamo adattare alle circostanze”. Cosa le piace del calcio attuale?

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“Vedo molte partite anche di altri campionati, a mio modo di vedere recentemente ci sono stati troppi cambi nella conduzione tecnica, per esempio quello di Albert Celades del Valencia. Tipico esempio di come molti dirigenti pensano che se un allenatore non alza la voce dimostra di non avere in mano lo spogliatoio, scaricando il più delle volte i problemi della squadra su di lui, che paga sempre un prezzo troppo alto per errori non suoi. Quindi niente di nuovo sotto il sole”. È vero che una vittoria in un Mondiale si apprezza molto di più una volta terminato che nel momento della conquista? “A dire il vero non sono una persona che si fa prendere molto dai ricordi e dalle emozioni considerando che il merito va ai giocatori, però nemmeno mi metto come l’ultimo della fila. Quella vittoria contribuì a collocare la Spagna nel gotha mondiale oltre ad accrescere l’autostima che molte volte a livello di nazione ci è mancata. In tempi passati sembrava che la maglietta che indossavamo ci pesasse troppo e


proprio quella vittoria la rese più leggera”. Lei è sempre stato una persona con un comportamento molto etico sia come giocatore che come allenatore... “Devo ammettere di essere stato molto fortunato, viviamo in un periodo nel quale dobbiamo trasmettere messaggi positivi noi che abbiamo come vetrina la nostra professione. Io dopo essermi ritirato mi sono dedicato per diciassette anni alla formazione dei giovani e mai mi sono sentito imprescindibile ma certamente molto utile al club. Il calcio mi ha dato questa stabilità emotiva che è risultata poi molto utile anche e soprattutto a livello personale”. Qual è il giocatore italiano per il quale ha avuto maggior rispetto e dicasi lo stesso per gli allenatori? “Fabio Capello è stato indubbiamente l’allenatore, nei suoi due periodi madridisti, che ha rappresentato la persona giusta al posto giusto e nel momento adeguato. Anche Carlo Ancelotti più recentemente ha interpretato nel modo più corretto lo spirito del madridismo. Come giocatore invece direi che Franco Baresi è stato il massimo, un vero uomo squadra e condottiero di quel Milan vincente”. Che futuro vede per Iniesta, il giocatore spagnolo più amato in Giappone? “Ogni giocatore è figlio del suo tempo, mai guardare indietro poichè probabilmente uno come lui non ci sarà. Ho sempre provato una grande ammirazione, è stato molto importante per la Spagna come pure sono stati i suoi compagni artefici delle vittorie in Nazionale. La speranza è che la nostra squadra sia sempre competitiva nei tornei ai quali parteciperà”. Si dice che Luca Romero sia il nuovo Messi... “Per caratteristiche tecniche gli si avvicina però chi può dire e prevedere un futuro altrettanto roseo per questo giovane. Io sono stato tanti anni nel settore giovanile del Real Madrid e mi sono emozionato con molti giocatori per poi constatare che con il tempo l’euforia si è frenata. Bisogna stare sempre con i piedi ben saldi a terra”.

Tornando al Mondiale ci racconti la sua esperienza il giorno della finale ed i momenti prima della gara... “La routine di sempre, la mattina in hotel l’ho passata con il mio amico John Metgod, compagno al Real Madrid ed osservatore dell’Olanda. Il pranzo, poi la classica siesta (in verità non mi ricordo se chiusi occhio), l’incontro con la squadra e poi tutti allo stadio, insomma proprio niente di particolare. Già sapevamo come avrebbero giocato gli olandesi. Ci ho messo solo un po’ di romanticismo che nel calcio a questi livelli non guasta mai e che tutti noi non dovremmo mai perdere. Per un romantico come me solo lo scenario era straordinario con la possibilità di diventare Campioni del Mondo grazie all’inerzia positiva che ci aveva portato alla finale. In definitiva un giorno normalissimo”. Carota o bastone nelle relazioni con i giocatori? “L’importante per me è sempre stato il gruppo e la salvaguardia della salute dello spogliatoio in quanto ogni giocatore è di sua madre e di suo padre (espressione tipica spagnola). L’attitudine dell’allenatore è importante così come il suo carattere, la personalità e l’esperienza cercando di non fare ingiustizie, trattando tutti allo stesso modo. Anch’io mi sono trovato ad affrontare situazioni complicate ma l’importante è sempre stato il rispetto reciproco”. Cosa ne pensa di Achraf Hakimi e del fatto che molti giocatori della Cantera del Real Madrid

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ENA GRANDI ALL Del Bosque

non riescono poi ad emergere? “Il Real Madrid ha sempre avuto un settore giovanile molto fiorente e produttivo, io stesso mi sono formato lì. Evidentemente alcuni giovani avanzano ed altri si perdono. In una partita contro l’Eibar, Carvajal era l’unico spagnolo in campo. Ai miei tempi sarebbe stato impensabile comprare un giocatore per 50 MM. Oggigiorno le frontiere sono aperte per cui ti viene permesso di guardarti attorno a livello europeo e mondiale”. Come mai Marcos Llorente non ha avuto fortuna nel Real Madrid? “È un giocatore che è in forma e che costituisce un valore aggiunto nell’Atletico, nel Real Madrid non è stata colpa degli allenatori non averlo valorizzato ma già si sa che da quelle parti la concorrenza è acerrima. I biancorossi lo comprarono per il centrocampo ma poi ultimamente si è rivelato un’alternativa assai valida come seconda punta, posizione in campo che neppure nell’Alavés aveva mai occupato non essendo stata per lui molto abituale”. È vero che essere allenatore del Real Madrid è stressante? Se Florentino Pérez la chiamasse lei cosa risponderebbe? “Io ormai mi considero un ex e voglio essere ricordato positivamente. La mia epoca è passata, non ho nostalgia inoltre parliamo di una professione adatta a chi attualmente ha più energia di me. Non tornerei non solo al Real Madrid ma in nessun altro club”. Cosa ne pensa di Piqué e soprattutto del fatto di avere in Nazionale giocatori tanto legati al catalanismo? “La rivalità fra Real Madrid e Barcellona, ma anche il forte campanilismo, anche per ragioni politiche, hanno spesso fatto nascere discussioni attorno alla Roja. Un allenatore della Nazionale cerca di scegliere i propri giocatori non per la loro origine e neppure secondo le squadre di appartenenza, ma solo selezionando i migliori. Piqué è sempre stato un ragazzo corretto che ha dato tutto per la Spagna”. Che evoluzione ha avuto la Spagna a livello

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di gioco? “Nella mia tappa del Mondiale avevamo scelto una forma di giocare molto corta e che ben si adattava ai giocatori che avevo a disposizione, concedendo pochi spazi agli avversari, scelta che a mio avviso è stata una azzeccata. Ora c’è un’eccessiva ricerca della pressione anche se bisogna cercare di avere un maggior equilibrio giocando al calcio”. Un giudizio su Jurgen Klopp... “È stato certamente l’artefice della crescita della squadra inglese anche se noi spagnoli non dobbiamo guardare nessuno con invidia in quanto proprio l’Atletico Madrid è stato capace di eliminare l’attuale Campione d’Europa e degno vincitore della Premiership quest’anno”. Pensa che la Spagna stia ancora pensando alla vittoria del Mondiale? “Non credo proprio in quanto a livello di club abbiamo dimostrato di avere una visione chiara del futuro con le nostre squadre che ben si sono comportate a livello europeo. Alcuni giocatori attuali ricordano il Mondiale come fanno i bambini in quanto non sono stati protagonisti di quella spedizione”. Cosa ne pensa della Nazionale giapponese e dei suoi giocatori? “Io ho sempre avuto una grande ammirazione per i nipponici e soprattutto dopo quella partita del Mondiale contro il Belgio nella quale rischiarono la qualificazione (da 2-0 furono poi sconfitti per 3-2) soprattutto per l’atteggiamento che ebbero i giocatori dopo la sconfitta, senza sceneggiate inutili, addirittura riassettando e pulendo lo spogliatoio prima del ritorno a casa”. Un ricordo di Laurie Cunningham? “È stato un giocatore e mio compagno di squadra sul quale il Real Madrid aveva scommesso molto realizzando un importante investimento per quei tempi di austerità estrema. Penso che il suo rendimento fu certamente inferiore alle attese. Era un ragazzo che si era adattato perfettamente alla Spagna, era ben voluto da tutti ma che terminò la sua vita in quel tragico incidente”.


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l’inchiesta Gavillucci di Sergio Stanco

Credit foto: Liverani

L’uomo nero fa ancora paura 54


Intervista a Claudio Gavillucci, ex fischietto di Serie A che ha ingaggiato una battaglia personale per la trasparenza del mondo arbitrale.

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mmaginate di essere stati letteralmente travolti da una storia d’amore durata venticinque anni. Già, un quarto di secolo. E, poi, inaspettatamente, di essere scaricati con un laconico sms. Come vi sentireste? Quanto meno delusi, amareggiati, traditi. Questo è quello che è successo a Claudio Gavillucci, arbitro da sempre, sul campo e nell’anima, con oltre 200 gare tra i professionisti, 50 di queste in Serie A. Dismesso, termine che già dà il senso di “scaricato”, per presunte “motivate valutazioni tecniche”. Bocciato, insomma. Una tesi che non ha mai convinto lo stesso Gavil-

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l’inchiesta Gavillucci

lucci: “Mi chiedo semplicemente come faccia un arbitro scarso, perché questa è la cruda sintesi di quelle tre parole, ad essere il quarto più impiegato in stagione. E, poi, se è così scarso, l’ultima giornata lo mandi a dirigere una partita decisiva per la retrocessione? Mi è sembrato tutto un po’ strano da subito e, pian piano, ho ricostruito i pezzi di questa storia”. Una storia che l’ex fischietto ha deciso di mettere nero su bianco e rendere pubblica, per “amor di trasparenza”. E visto che non capita spesso di sentir parlare arbitri, vale la pena ascoltare con attenzione… Buongiorno Claudio, partiamo dal titolo: chi è l’uomo nero? “L’uomo nero è l’arbitro ovviamente, ma anche l’uomo che da sempre fa paura, fin da piccoli, quando le nonne ci terrorizzavano. Ma l’uomo nero è anche l’uomo di colore, il razzismo, l’i-

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gnoranza. Il titolo l’ho scelto io, perché secondo me sintetizzava perfettamente quanto mi è accaduto”. Allora ripercorriamo la tua storia… “Ho fatto l’arbitro per venticinque anni, dai campetti di periferia a quelli della Serie A, sempre con grandissima professionalità e passione. Fino a quando, un giorno, mi arriva quel laconico sms. È stata una coltellata. Non me l’aspettavo proprio. Ripeto, essendo stato il quarto arbitro più utilizzato in stagione, ed avendomi assegnato all’ultima giornata una gara decisiva per la retrocessione, tutto mi sarei aspettato tranne di essere dismesso. Il problema è che tutti i direttori di gara sono soggetti a giudizi durante l’anno, ad una sorta di “pagella” che – però - ai tempi non era pubblica, dunque tu non sapevi cosa pensassero di te i dirigenti arbitrali. Ti basavi su altri pa-


La verità di Gavillucci “L’arbitro Gavillucci, come pochi altri visionari, si era fatto l’idea che la legge in Italia fosse uguale per tutti. Ovviamente ne ha pagato le conseguenze. Peggio per lui, ma soprattutto per noi”, questa la “presentazione” del libro da parte di Marco Travaglio. “Per la prima volta un arbitro di serie A racconta la sua verità sul mondo del calcio. Per far riflettere tutti, ma soprattutto gli arbitri”, gli ha fatto eco Mario Sconcerti. Quello di Claudio Gavillucci non è un libro pieno di rancore, tutt’altro. Non è neanche uno scritto di denuncia, o quanto meno non solo. È il racconto di fatti vissuti in prima persona. È uno squarcio in un mondo quasi “omertoso”. Nel calcio parlano tutti, tranne gli arbitri. A loro non è concesso raccontarsi e nemmeno spiegare. E questo, ovviamente, aggiunge mistero, ma alimenta anche sospetti e ipotesi complottistiche. Gavillucci, nell’Uomo Nero (edito da Chiarelettere) ha rotto questo silenzio, ma non l’ha fatto per tradire qualcuno, l’ha fatto per difendere se stesso e i suoi colleghi, per spirito di solidarietà e per far progredire un sistema fin troppo “politico” e “stantio”. Lo ha scritto semplicemente per passione. Quella che da 25 anni lo trascina sui campi di tutta Italia (e adesso d’Inghilterra) per consentire agli altri di divertirsi. Perché, inutile girarci intorno, senza l’Uomo Nero, a calcio non si gioca.

rametri, come appunto l’utilizzo, l’importanza delle partite che ti assegnavano e altri indicatori di questo tipo. La spiegazione di “motivate valutazioni tecniche” non stava in piedi. E infatti quando ho chiesto una graduatoria ufficiale, mi è stato mandato un foglio excel, non timbrato né protocollato…”. E quindi che spiegazione ti sei dato di questo allontanamento? “Sarà stato un caso, ma dopo l’episodio di Sampdoria-Napoli (maggio 2018, ndr), quando ho interrotto la gara per “buuu” razzisti nei confronti di Koulibaly e cori di discriminazione territoriale ai danni dei tifosi napoletani, qualcosa è cambiato. In quell’occasione ci fu un silenzio assordante da parte delle istituzioni. Solo successivamente, quando in un’altra occasione un mio collega decise di non interrompere un’altra partita per lo stesso motivo, il capo dell’Associazione Italiana Arbitri Marcello Nicchi disse che non spettava al direttore di gara una decisione di quel tipo. Lì ha iniziato a ronzarmi in testa l’ipotesi che forse la mia scelta non era stata gradita. Eppure, non rimpiango nulla di quello che ho fatto. Anzi, ne sono orgoglioso. Innanzitutto, perché situazioni del genere nel 2000 non devono più esiste-

re in generale, tanto meno nello Sport. E, poi, perché da quell’episodio si scatenò il dibattito politico e sportivo fu il propellente per un cambio di atteggiamento epocale nei confronti di questo problema in Italia, con un’attenzione maggiore da parte delle istituzioni.”. Le motivazioni ufficiali ti hanno convinto talmente poco che hai addirittura deciso di portare in tribunale l’AIA… “Sì, l’ho fatto perché ritenevo giusto avere delle spiegazioni, ma l’ho fatto anche per i miei colleghi, per dare un po’ di trasparenza ad un sistema che, sinceramente, ne aveva poca. E infatti devo dire che le cose nel frattempo sono migliorate molto: ad esempio, ora gli arbitri conoscono i giudizi e la loro posizione in classifica, data dalla somma dei voti degli osservatori e dei responsabili, che è già una grossa conquista e un enorme passo in avanti in fatto di trasparenza. La realtà, però, è che c’è ancora tanto da fare ed è anche per questo che continuo questa “avventura”, come la chiamo io…”. Ma quale sono state le reazioni del mondo del calcio? Mai pensato chi me lo ha fatto fare? “Ci penso ogni momento, anche ora che sto rilasciando questa intervista. Però lo dovevo

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l’inchiesta Gavillucci

a me, alla mia famiglia, ai miei colleghi, alla mia passione e all’amore che ho per questo Sport. Non potevo accettare supinamente, anche perché la ritenevo, e la ritengo tuttora, una decisione ingiusta, sulla quale hanno pesato gli episodi che raccontavo prima, ma anche logiche di geopolitica arbitrale. Di certo, come detto, le motivazioni tecniche non sono plausibili. Per quanto riguarda le reazioni del mondo del calcio, ce ne sono state di due tipi: quelle istituzionali, che hanno risposto con una chiusura netta, arrivando addirittura a ritirarmi la tessera, ma certamente non mi aspettavo nulla di diverso; dall’altra parte, però, ho ricevuto tanta solidarietà dalle altre componenti, come calciatori, allenatori, dirigenti di società e soprattutto colleghi arbitri e semplici appassionati. Il solo fatto di poter raccontare ancora la mia storia, di poter continuare questa battaglia e contribuire al miglioramento di alcune dinamiche del “mio” mondo, la considero una vittoria”. Già, perché tu, alla fine, nonostante tutto, arbitri ancora… “Sì, perché come dico sempre, non esistono tribunali o classifiche in grado di spegnere la passione. Devo dire che è stato tutto un po’ casuale. Per motivi di lavoro mi sono trasferito in Inghilterra e in palestra ho incontrato un arbitro di Premier. Ci siamo capiti subito, perché alla fine, non so come, ma tra di noi ci riconosciamo (ride, ndr). E così, parlando, è venuta fuori la possibilità di arbitrare in Inghilterra. È stato come rinascere professionalmente, ma

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non solo. Sì, perché qui ho riscoperto davvero che si può arbitrare con la passione di una volta. La partita è una festa, magari in campo se le danno di santa ragione, ma poi finita la gara si festeggia tutti insieme. Si va a fare il “terzo tempo”, si scherza e si beve una pinta insieme. Pensa che la prima volta che mi hanno assegnato una partita, il dirigente della squadra di casa mi ha chiamato per chiedermi come fossi organizzato per la trasferta, se volessi mangiare dopo la partita e se avessi o meno allergie alimentari. L’ho liquidato e ho chiamato subito il mio supervisore per avvertirlo. E lui mi fa: “E rispondigli, no? Qual è il problema?”. In Italia un comportamento del genere sarebbe stato da denuncia alla Procura Federale, da loro invece è la normalità. Si chiama ospitalità. Lo fanno con l’arbitro ma anche con la squadra avversaria, dalle serie inferiori fino alla Premier. Davvero un altro mondo. È per tutto questo che la Premier oggi è il campionato più spettacolare e seguito in assoluto. Altro che “buuu”. Qui il razzismo è una cosa seria. Ero arrivato da poco qui e durante una partita tra Inghilterra e Bulgaria, sette - dico sette - tifosi bulgari hanno urlato offese razziste a Sterling. Il Primo Ministro inglese ha immediatamente chiesto le dimissioni del collega bulgaro. Quei sette tifosi bulgari sono stati arrestati. In Italia, invece, ci si chiede ancora se sia giusto interrompere le partite. Si inizia minimizzando, si finisce con i motorini che vengono scaraventati sugli spalti”.


Cos’altro importeresti in Italia del “modello inglese”? “Sicuramente il professionismo arbitrale. Non esiste che nel calcio l’unico dilettante sia l’arbitro. I protagonisti sono e resteranno i calciatori, ma l’impegno richiesto per una professione come questa, è massimo, non si può considerarlo semplicemente un hobby. In Inghilterra, come in Italia, gli arbitri si preparano alla partita, si allenano e studiano tutta la settimana, solo che qui sono professionisti, in Italia no. L’altra norma che ho trovato interessante, è il “doppio tesseramento”, cioè avere la possibilità di essere al contempo sia calciatore che arbitro, cosa che in Italia non è consentita. Ogni squadra ha al suo interno almeno un arbitro. Questo aumenta il livello di comprensione e di rispetto tra le parti, perché da una parte il calciatore capisce l’arbitro, dall’altro il direttore di gara sa cosa significhi stare nei panni del giocatore e capisce meglio certe dinamiche, atteggiamenti o reazioni. E, poi, non capisco la restrizione: perché un calciatore non può essere anche arbitro?”. Guardando indietro, tutto il tuo percorso, cosa ti ha ferito di più e cosa ti ha reso veramente orgoglioso? “Sono rimasto davvero deluso da alcuni rapporti personali, questa situazione mi ha fatto capire che gli amici veri sono pochi e che c’è tanta falsità. Volendo vedere il bicchiere mezzo pieno, però, anche questa è stata un’esperienza positiva, perché ho fatto un po’ di selezione (sorride, ndr). Sono particolarmente orgoglioso di aver smosso le acque e di essere stato utile al dibattito, alla crescita e alla trasparenza del movimento arbitrale. Possono togliermi la tessera, ma questo no. E, poi, lo ribadisco, sono felice di aver portato l’attenzione sul tema del razzismo negli stadi. Al di là di come sia andata e delle conseguenze che alcune mie decisioni hanno avuto, non mi pento di nulla. Anzi”. Male non fare, paura non avere, dice il vecchio adagio. E non sempre il cattivo è l’uomo nero…

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speciale

Premio MPV di Veronica Lisotti

Ecco come viene scelto il miglior calciatore del mese in Serie A…

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LE REGOLE DELL’MVP L

a Lega Serie A ha istituito, a partire dalla stagione sportiva 2019/20, il riconoscimento per il miglior calciatore del mese della Serie A TIM. La classifica finale viene redatta secondo le rilevazioni statistiche di Stats Perform (sistema brevettato nel 2010, basato sugli algoritmi sviluppati dall’azienda italiana K-Sport), con l’ausilio dei dati di tracking registrati da Netco Sports. Oggi la matematica applicata al calcio fa parte del quotidiano. Termini come intelligenza artificiale, big data, machine learning, fanno parte del linguaggio comune tra i professionisti del settore. Cosa c’è dietro all’algoritmo? Come vengono effettuate le valutazioni? Ne parliamo direttamente con l’inventore, Mirko Marcolini, fondatore e CEO di K-Sport. “Ricordo che 10 anni fa – esordisce Marcolini – quando K-Sport era una giovane Start-Up, proprio sulle pagine di questa rivista ci era stata concessa l’opportunità di presentare quello che allora era un progetto pionieristico, innovativo e rivoluzionario”. Eh già, in realtà ancora oggi tanti analisti valutano la prestazione tecnica sulla base di semplici statistiche…. “Il limite sta nei dati che vengono dati in pasto al sistema. Si parla di GIGO (acronimo di Garbage In Garbage Out, ndr). Se i dati che inseriamo in input sono spazzatura, lo sarà anche il risultato”. Un esempio? “Pensiamo ai passaggi. Normalmente si va a contare il numero di passaggi tentati e di quelli riusciti, calcolando poi il rapporto riusciti/tentati

per esprimere una percentuale di efficienza. La matematica e la logica ci dicono che il giocatore più bravo è quello che ha la percentuale più alta. Conoscendo il trucco, il calciatore può impegnarsi ad effettuare tanti passaggi semplici ed inutili (tutti riusciti però, proprio perché privi di difficoltà) e chiudere la gara con una valutazione altissima, che ovviamente non ha alcuna influenza positiva sul risultato”. E da qui il luogo comune secondo cui il calcio non è una scienza esatta… “Ora, a parte il fatto che di esatto nella stessa scienza c’è ben poco, nel ragionamento che abbiamo appena descritto il problema non è la scienza né il calcio, bensì il metodo stabilito per valutare i passaggi”. Per quanto riguarda la prestazione atletica l’approccio standard è più efficace? “Le rispondo con un aneddoto. Qualche anno fa un mio amico, superati i 30 anni, decise di terminare l’attività di calciatore. Continuò però ad allenarsi quasi tutti i giorni correndo per circa 10 km a media andatura. Dopo qualche anno decise di tornare a giocare, pensando “tanto ho continuato ad allenarmi tutti i giorni”. Alla prima partita chiese il cambio dopo 20 minuti”. È così difficile immaginare che nel calcio siano più significative le accelerazioni delle velocità? “In realtà il punto è un altro. Tutti i valori che riscontriamo ormai da anni evidenziano in modo disarmante come i comuni parametri fisici non siano adeguati per valutare in modo efficace la performance”.

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SPECIALE

Premio MPV In che senso? “Da 6 anni a questa parte, grazie ad una visione lungimirante di Lega Serie A, abbiamo avuto per la prima volta la possibilità di monitorare i dati fisici di tutte le partite con i sistemi di tracking video, i più precisi ed affidabili per il tracciamento dei calciatori. Questo ci ha consentito di raccogliere una mole di dati consistente e di guardare le cose dal giusto punto di vista. Dirò di più. I dati di una sola squadra o di una sola lega non possono essere esaurienti nel valutare il valore dei dati stessi. Nel corso degli anni ci siamo accorti che a fare la differenza è proprio l’opportunità di poter disporre di una copertura totale non solo di più leghe, ma anche di leghe di diverso livello. La variabilità del campione in esame è imprescindibile in qualunque ricerca scientifica. D’altronde, senza una consistenza del genere, non sarebbe nemmeno possibile mettere in moto la machine learning o parlare di big data. Sarebbe come provare a studiare gli effetti del colesterolo nel sangue basandosi sullo studio di un campione di pazienti molto ridotto”. Cosa è emerso da tutte queste analisi? “Se analizziamo con un cronometro la prestazione di un centometrista, ci accorgiamo che il cronometro mostra risultati ben diversi tra un professionista ed un dilettante. Se invece analizziamo una partita di calcio, misurando i parametri atletici allo stato dell’arte, scopriamo che non sono rari i casi in cui i dilettanti fanno registrare valori simili, talvolta più alti, rispetto ai professionisti. Proprio per ragioni scientifiche abbiamo sviluppato il progetto della K-Sport Academy, una squadra di calcio dilettan-

tistica in cui i calciatori vengono monitorati quotidianamente con le stesse tecnologie che usiamo nel mondo PRO. Ebbene, se dovessimo basarci su parametri come distanza totale, velocità, potenza metabolica, l’attaccante Nicola Mancini potrebbe giocare in Serie A”. E invece? “E invece, se provasse a giocare davvero ai ritmi di A, non solo andrebbe rapidamente in sovraccarico, ma perderebbe la lucidità nei gesti tecnici e nelle scelte tattiche, riducendo drasticamente il suo Indice di Efficienza Tecnica”. L’Indice di Efficienza Tecnica è proprio il parametro su cui si basa l’assegnazione del premio MVP. “La letteratura scientifica ha mostrato come IET sia il parametro più correlato alla probabilità di vincere la partita. Se vuoi aumentare la probabilità di vincere, non devi correre di più, non devi fare più passaggi, non devi necessariamente aumentare il possesso palla. Devi aumentare l’Indice di Efficienza Tecnica”. In cosa consiste? “Partiamo dall’inizio. La vera rivoluzione consiste nella completa matematizzazione della raccolta dati. Non più un conteggio “ad occhio” degli eventi, con un operatore che guarda la partita annotandosi le statistiche. Un sistema di computer vision registra la partita e ricostruisce le posizioni X,Y e dunque tutti i movimenti di calciatori, arbitri e palla”. In pratica la partita viene riprodotta come fosse un videogame… “Esatto. E la matematica entra in gioco analizzando direttamente le coordinate delle posizioni,

L’MVP Assoluto 2019/2020

Al termine della stagione è stato assegnato l’MPV assoluto. L’ha vinto Paulo Dybala con le seguenti motivazioni “ufficiali”: • una performance di efficienza tecnica del 95,5% e fisica del 93%; •una percentuale di riuscita del 50% nei passaggi ad altissima difficoltà; • punta l’avversario nel 90% delle occasioni di 1vs1 offensivo, saltandolo nell’80% dei casi; • nelle scelte di gioco (passaggi e movimenti ottimali) e nella capacità di accelerare la manovra (aggressività offensiva) l’efficienza raggiunge il 97%; • contribuisce anche alla fase difensiva con un indice su movimenti senza palla e pressing del 95% (record tra gli attaccanti).

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senza interferenze legate alla soggettività dell’interpretazione di un operatore. E col vantaggio, decisivo, di un’analisi sicuramente più precisa senza la quale sarebbe impossibile, ad esempio, valutare oggettivamente la difficoltà di un passaggio e, di conseguenza, doti tecniche come la proprietà di palleggio”. Effettivamente, sbirciando tra le statistiche fornite da Lega Serie A, analizzando il numero totale di passaggi riusciti nell’ultima giornata di campionato, in testa alla classifica troviamo Ferrari, Peluso, Muratore, Danilo e Dimarco. “Se introduciamo il coefficiente di difficoltà del passaggio, scopriamo invece che il giocatore ad avere la percentuale di riuscita più alta nei passaggi ad altissima difficoltà (70%) è l’atalantino Gomez”. Un bell’assist per chi si occupa di scouting. “Certamente un talento non può essere rilevato guardando semplicemente qualche video né, tantomeno, da un GPS – e qui mi riferisco alle mode del momento – che ha una funzione ben diversa”. Mi sembra di capire che, più che conoscere i numeri, è importante conoscere i metodi che li producono. “Se la tattica è il movimento coordinato di più giocatori finalizzato al raggiungimento di un obiettivo comune, non esiste altro modo di analizzare l’efficacia dei movimenti se non quello di studiare gli spostamenti reali. È innanzitutto questo il vantaggio portato dalla computer vision rispetto ai tradizionali sistemi di rilevamento eventi”. Un modo nuovo di operare, se si pensa che, fino a poco tempo fa, le applicazioni della scienza sono state rivolte più che altro a preparazione atletica, cura dei traumi, doping. “Una visione parziale e negativa dovuta sicuramente ad una censurabile superficialità. Ed a chi ha spacciato per scientifiche inadeguate, inconcludenti ed inservibili indagini statistiche, che nostro malgrado talvolta trovano ancora spazio sia in letteratura che nei media. La scienza può fare molto di più e molto di meglio per lo sport. È chiaro che chi lo capirà per primo e meglio avrà grandi vantaggi competitivi”.

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Alla scoperta della storia della maglia del Ferencvaros, squadra emblema dell’Ungheria…

DANUBIO VERDE


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primi passi del calcio in Ungheria non sono molto chiari, siamo alla fine del XIX secolo, gli sport popolari sono la ginnastica, la lotta e la scherma e i giornali non dedicano molto spazio ai passatempi sportivi. Secondo le cronache sbiadite del tempo sono ben tre i personaggi che avrebbero avuto l’onore di introdurre nella capitale magiare il primo pallone da football. Dopo una lunga carriera diplomatica passata a Berlino, Parigi, Londra e Washington Miksa Esterházy ritornò in Ungheria nel 1875. Nel corso della sua lunga carriera diplomatica si appassionò, soprattutto in Inghilterra e Stati Uniti, agli sport all’aria aperta, in particolare atletica leggera, boxe e calcio. L’8 aprile 1875 fondò il MAC (Magyar Atlétikai Club), il primo sodalizio sportivo ungherese. Secondo alcune fonti, il primo vero pallone da calcio è entrato nel paese nel dicembre del 1895, portato da Harry Perry, l’allenatore inglese di atletica leggera del MAC. Il secondo personaggio è Károly Löwenrosen un carpentiere che, dopo aver vissuto a lungo in Germania, Inghilterra e Stati Uniti, ritorna in patria nel 1896. Lavora nel cantiere per la Mostra del Millennio insieme ad alcuni inglesi e, quando questi tornano a casa, chiede loro di mandargli un pallone. Infine, Ray Ferenc che studiò in Svizzera e qui conobbe il football, importato in terra elvetica dagli inglesi, tornato a casa portò con sé un vero pallone inglese ed entrò nel Budapesti Torna Club. Fondato nel 1885, il Budapesti TC (Club Ginnico di Budapest) aprì le porte al calcio l’8 febbraio 1897, quando due squadre di atleti del club (biancorossi contro biancoblù) giocarono una partita al Millenáris Sporttelep. Il seme è gettato e presto altri club vengono fondati a Budapest e dintorni, nel giro di pochi anni nascono altri club che daranno vita ai primi tornei, si tratta di: Magyar Úszó Egylet, Műegyetemi Atlétikai és Football Club, Budapesti Atlétikai Klub, Budapesti SC, MTK e Ujpest. Il nuovo sport attirò l’attenzione di un

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gruppo di ragazzi di Ferencváros, il quartiere IX di Budapest, i quali non avendo mezzi per fondare una squadra si rivolsero al fornaio József Gráf che a sua volta interessò al progetto Ferenc Spronger, un notabile del distretto. Il 15 aprile 1899 si tenne una prima riunione nei locali del ristorante Gutges in Üllői út, nel centro di Ferencváros, quella sera si decise la fondazione del club e una successiva riunione venne programmata per il 3 maggio alle sei della sera. In questa seconda riunione venne deciso il nome del sodalizio, ovvero Ferencváros Torna Club, venne eletto presidente Ferenc Spronger e si decisero i colori sociali. I soci volevano adottare i colori rosso, bianco e verde della bandiera nazionale. Dato che il rosso e il bianco erano i colori del Budapesti TC, si optò per il verde e il bianco per non aver nessun contrasto cromatico. La sezione calcio venne ufficialmente istituita il 3 dicembre 1900. Il IX distretto cittadino venne chiamato Ferencváros, ovvero città di Francesco, dopo l’incoronazione di Francesco II a imperatore del Sacro Romano Impero nel 1792, in seguito fu imperatore di Austria e di Ungheria con il titolo di Francesco I. In lingua tedesca Ferencváros diventa Franzstadt, da qui il diminutivo Fradi con cui è conosciuto il club. Il 10 febbraio il Ferencváros gioca la sua prima partita amichevole contro il Budapesti TC, non si conosce il risultato, indossando una camicia a strisce verticali biancoverdi abbinata a pantaloni e calzettoni neri. Nel 1901 la neonata Associazione Calcio

Ungherese organizzò il primo campionato di calcio a cui parteciparono cinque squadre di Budapest, tra queste il Ferencváros che gioca la sua prima partita ufficiale il 21 aprile perdendo 5-3 contro il Műegyetemi AFC, il primo gol venne segnato da Gáspár Borbás. Sempre in questo anno il club gioca le sue prime partite internazionali contro Cricketer Vienna e Servette Ginevra. Nel 1903 il Fradi vince il suo primo campionato, primo di una serie di otto titoli in dieci anni, a partire da questa stagione i pantaloni saranno bianchi. Dalla stagione 1908/09 la maglia cambierà stile, collo bianco a girocollo chiuso da laccetti. Nell’autunno del 1910 cominciano i lavori del primo vero stadio del club, l’Üllői úti stadion dal nome della grande arteria che attraversava Ferencváros. L’impianto fu inaugurato il 12 febbraio 1911 con una vittoria contro l’MTK. Nella stagione 1910/11 viene indossata la prima maglia completamente verde con un vistoso collo a girocollo bianco chiuso da laccetti, la stagione successiva maglia verde con collo a camicia verde con bordino bianco chiuso da bottoni. Nella stagione 1912/13 il Fradi vince il campionato e la coppa nazionale, la stagione successiva i giocatori indossano una strana maglia verde simile a un cardigan con collo a camicia, polsi e abbotonatura centrale bianca. All’inizio degli anni 20 il Ferencváros si presenta nuovamente con una maglia a strisce verticali con collo bianco a girocollo chiuso da laccetti, nella stagione 1922/23 e seguente maglia bianca


con maniche verdi, vistoso collo biancoverde a girocollo chiuso da laccetti e pantaloncini neri. Nella seconda metà degli anni 20 il Fradi torna a dominare il calcio ungherese vincendo tre volte il campionato e due volte la coppa nazionale, entrambe le volte facendo la doppietta, e nel 1928/29 la prima Mitropa Cup battendo in finale il Rapid Vienna con i parziali di 7-1 e 3-5. In questi anni la divisa era composta da maglia verde con sottili righe orizzontali bianche e colletto a girocollo chiuso da laccetti, pantaloncini bianchi con bordino verde e calzettoni neri. Dall’inizio degli anni 30, e fino alla Seconda Guerra Mondiale, il Ferencváros ritorna a una maglia a strisce verticali biancoverdi piuttosto larghe con collo a girocollo chiuso da laccetti, i pantaloncini sono bianchi o verdi e i calzettoni neri con risvolto verde, dal 1937 il collo diventa bianco a girocollo e i calzettoni verdi. In questa stagione i budapestini vincono per la seconda volta la Mitropa Cup, battendo in finale la Lazio con un complessivo 9-6. Dopo la guerra i Biancoverdi riprendono a giocare con la maglia verde a righe bianche orizzontali, nell’estate del 1947 il Ferencváros effettua una tourneè in Messico disputando otto partite e sfoggiando divise assolutamente innovative e mai più indossate. Una biancoverde divisa a metà con maniche contrapposte e una a scacchi grossi, sempre accompagnate da pantaloncini bianchi e calzettoni bianchi con ampio risvolto verde. Nel 1949 il club, in seguito a una riorganizzazione che interessa tutto lo sport ungherese, entra a far parte del Sindacato dei lavoratori alimentari e cambia denominazione in ÉDOSZ SE, nel gennaio 1951 le squadre del sindacato adottarono la denominazione Kinizsi e i colori bianco e rosso. Pál Kinizsi è un eroe della storia ungherese della seconda metà del XV secolo, un leggendario condottiero che non ha perso neanche una battaglia nella sua lunga carriera di soldato. In questo periodo nasce la grande riva-

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lità tra Ferencváros e Újpest. Fino ai primi anni 40 le due squadre dominatrici del calcio magiaro erano Fradi e MTK, squadra di origini ebraiche e rappresentante della borghesia budapestina che non attirò le simpatie del nuovo regime dopo la guerra. A seguito della riforma la Honvéd entra nell’orbita del Ministero della Difesa e diventa leader del movimento calcistico anni 50, il Vasas diventa la squadra del Partito Comunista, l’Újpest attira le attenzioni del Ministero dell’Interno. Il Ferencváros, ora Kinizsi, è la squadra di un sindacato di lavoratori e ha il sostegno della classe media e in genere degli oppositori al regime. In netto contrasto con l’Újpest che rappresenta la squadra del regime. Il Kinizsi indossa una divisa completamente bianca, la maglia ha un collo a camicia chiuso da laccetti e la scritta Kinizsi in rosso sul petto. Nel 1954, dal 1950 si gioca durante l’anno solare, la maglia è bianca con collo a V rosso, è scomparsa la scritta sul petto, i calzoncini bianchi e i calzettoni bianchi con bordini rossi. Il 21 ottobre 1956 si giocò la ventiduesima giornata del campionato, teoricamente ultima giornata ma bisognava recuperare alcune partite, il Kinizsi giocò in casa contro lo Csepel pareggiando 1-1. Questa è l’ultima partita con la denominazione imposta dal regime, già dal mese precedente erano in corso trattative per ritornare al vecchio nome e ai colori biancoverdi. Il 23 ottobre iniziò la Rivoluzione ungherese, ovviamente il campionato venne definitivamente interrotto senza un vincitore. Il 10 dicembre a Diósgyőr, partita amichevole, tornò ufficialmente in campo il Ferencváros. Nel 1957 il Fradi gioca con maglia verde con collo a V bianco e fascia bianca orizzontale al centro della quale c’era l’acronimo FTC. Si torna a un campionato da autunno a prima-

vera nella stagione 1957/58, la divisa è composta da maglia con sette strisce verticali con collo a camicia bianco chiuso da laccetti, pantaloncini verdi e calzettoni biancoverdi a righe. Il nuovo decennio comincia con una maglia bianca con doppia riga orizzontale verde e collo a V verde, pantaloncini bianchi e calzettoni bianchi con bordini verdi, nella stagione 1962/63 il Fradi torna a vincere il campionato e raggiunge anche la semifinale di Coppa delle Fiere, sconfitto dalla Dinamo Zagabria, in questi anni non c’è una divisa ben definita e nell’arco della stessa stagione si alternano diverse maglie a seconda del clima e della disponibilità dei fornitori, la divisa più usata e composta da maglia a nove strisce con collo a V biancoverde, pantaloncini bianchi e calzettoni a righe sottili. Il 23 giugno 1965 il Ferencváros, per l’occasione in tenuta completamente bianca, raggiunge la gloria europea battendo la Juventus al Comunale per 1-0, gol di Fenyvesi a un quarto d’ora dalla fine, conquistando la Coppa delle Fiere, unica squadra ungherese capace di imporsi in una coppa europea. Nel 1968 i budapestini raggiungono ancora una volta la finale di Coppa delle Fiere ma vengono sconfitti dal Leeds United (1-0 e 0-0 le due partite). Negli ultimi anni del decennio alla maglia a strisce verticali viene abbinata un’originale maglia verde con fascia diagonale bianca e collo a V bianco abbinata a pantaloncini bianchi e calzettoni bianchi con bordini verdi e un altrettanto originale maglia verde con due strisce bianche laterali sempre con collo bianco a V. A partire dal 1971 le varie parti dello stadio vengono demolite e ricostruite in un impianto moderno inaugurato il 19 maggio 1974, un’ulteriore ristrutturazione è avvenuta negli anni 90. A partire


dal 21 dicembre 2007 lo stadio è stato intitolato a Flórián Albert, leggenda bancoverde dal 1958 al 1974 e vincitore del Pallone d’Oro nel 1967. Dal 10 agosto 2014 il Fradi gioca nella moderna Groupama Arena. La prima metà degli anni 70 vede il Ferencváros indossare una serie di maglie diverse tra loro, tinta unita verde, a strisce verticali, bianca, verde con maniche bianche, difficile stabilire qual’era la divisa ufficiale. Nella stagione 1974/75 compare la prima divisa con il logo del fornitore, la tedesca Adidas fornisce una maglia verde con collo a girocollo bianco, pantaloncini bianchi e calzettoni verdi, il tutto guarnito dalle famose tre strisce. Con questa divisa i Biancoverdi si presentano al loro ultimo lampo di gloria europea, il 14 maggio 1975 vengono sconfitti dalla Dynamo Kiev a Basilea nella finale di Coppa delle Coppe, 3-0 il risultato. Questa divisa rimane praticamente inalterata fino a metà anni 80 anche se, come da abitudine del marchio tedesco in quegli anni si sono alternate divise Adidas ed Erima. Nel 1984 compare il logo del primo sponsor commerciale, la fabbrica di bevande Márka. Nella stagione 1985/86 ritornano le strisce verticali, con collo a V verde, abbinate a pantaloncini e calzettoni verdi, nella seconda metà del decennio si ritorna al tutto verde ma la Adidas propone maglie più moderne e dal disegno accattivante. Dopo quasi vent’anni di fornitura con la Adidas, nel 1992/93 subentra la Umbro che ripropone le strisce orizzontali con collo a camicia bianco, abbinate a pantaloncini bianchi e calzettoni verdi. Dopo tre stagioni si ritorna al fornitore tedesco che propone una maglia a strisce verticali con collo a camicia bianco ormai siamo alla fine del millennio e i fornitori cominciano a sfornare nuovi modelli a cadenza biennale. Le maglie continuano comunque a mantenere un disegno tradizionale a strisce verticali oppure verdi a tinta unita. A partire dalla stagione 2003/04 subentra la Nike, anche il fornitore america-

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no cerca di mantenere la tradizione. I primi anni del nuovo millennio sono anni bui per il club, in preda a grossi problemi economici, come tutti i club ungheresi al tempo. Nella stagione 2005/06 i Biancoverdi si classificano al sesto posto ma la federazione decreta la retrocessione del club in seconda divisione per i ripetuti problemi finanziari. Nono-

stante un ricorso vinto in tribunale ordinario il Ferencváros dovrà restare all’inferno per tre stagioni prima di ottenere la promozione in Nemzeti Bajnokság I. Tornando alle divise, unica eccezione alla tradizione nella stagione 2012/13 con una maglia a strisce verticali asimmetriche di dubbio gusto e nella stagione 2019/20 con una maglia a strisce


orizzontali di due misure diverse. La seconda maglia del Ferencváros tradizionalmente è bianca oppure verde, a seconda del disegno della prima divisa. Negli ultimi anni si sono viste maglie arancioni e nere. Il 25 marzo 2008, in occasione di un’amichevole con lo Sheffield United, ha esordito nel Ferencváros Gyula Grosics, un promettente portiere di soli 82 anni. Da sempre tifoso del Fradi, portiere della nazionale a partire dal 1947, il regime gli aveva imposto di passare nel 1950 dal MATEOSZ SE alla Honved senza poter coronare il sogno di giocare con la squadra per cui tifava. Il sogno si avvera nel 2008 quando Grosics entra in campo, batte il calcio d’inizio della partita ed esce dal campo dopo 40 secondo tra gli applausi del pubblico. La maglia dei portieri del Fradi tradizionalmente era nera, ma guardano le foto del passato si vedono anche maglie da gioco di vecchie forniture a righe o a maniche contrapposte, negli anni 70 e 80 il giallo era colore preferito poi c’è stata alternanza di colori secondo le mode del periodo. Uno stemma compare per la prima volta sulle maglie a saltuariamente a metà anni 70e dalla fine degli anni 80 è una presenza fissa sulla casacca biancoverde. Lo stemma sociale riporta i colori del club in nove strisce verticali a simboleggiare Ferencváros, il IX distretto della città di Budapest, le tre lettere E nella parte bassa del logo si riferiscono al motto del club: Moralità, Forza, Consenso (in ungherese Erkölcs, Erő, Egyetértés). A partire dalla stagione 2008/09 vengono aggiunte due stelle a ricordare i 20 titoli nazionali vinti e dalla stagione 2019/20 le stelle diventano tre con la conquista del trentesimo campionato. Nel catalogo HW del Subbuteo il Ferencváros è rappresentato dal il numero 36, classica maglia biancoverde a strisce verticali con pantaloncini e calzettoni bianchi, oppure dalla numero 320 con la divisa completamente verde con bordi bianchi.

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di Gianfranco Giordano

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n Scozia è una leggenda del calcio, In Inghilterra è stato un ottimo centravanti, in Italia è, semplicemente, “Lo Squalo”. Joe Jordan è stato un personaggio di riferimento del calcio britannico per quasi cinquant’anni, prima in campo e poi in panchina. Ovunque ha giocato, è sempre stato apprezzato per la combattività e la serietà. Ora è a nostra disposizione. Contatto Joe via mail. Gli propongo una chiacchierata. Mi risponde con il suo numero di telefono e un limpido: “Chiamami quando vuoi”. Grazie dell’opportunità… “Grazie a voi”. Ha cominciato la sua carriera in Scozia con il Greenock Morton… “Sono arrivato al Greenock a 16 anni, è stata la mia prima esperienza con i grandi”. Poi sono passato al Leeds United con Don Revie come allenatore. Era una squadra molto buona con alle spalle un grande club. Revie era un grande manager, ha costruito una squadra davvero forte a Leeds, inserendo sempre ottimi giocatori in organico. Era talmente bravo che, poi, ha guidato la nazionale inglese”. Due finali europee perse contro Milan e Bayern Monaco… “In entrambe le occasioni siamo stati sfortunati, abbiamo avuto molte occasioni ma non siamo riusciti a concretizzarle”. Quella squadra era nota come Dirty Leeds. Soprannome problematico?

Joe Jordan è un nome che evoca bei ricordi, soprattutto nei tifosi di Milan e Hellas Verona

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“No, non era un problema per noi giocatori e nemmeno per il club. Giocavamo in maniera concreta e vincevamo molto in Inghilterra. Questo ovviamente non ci rendeva simpatici”. Dopo Don Revie arriva Brian Clough, cosa è successo? “Il nuovo manager è durato circa 40 giorni. Fin dai primi giorni si creò una strana situazione, era un ottimo manager ma era al posto sbagliato. Come se Trapattoni fosse andato ad allenare il Torino. Purtroppo, non ha funzionato”. Nel 1978 passa al Manchester United. Tanti buoni giocatori ma solo un secondo posto e una finale di FA Cup persa clamorosamente… “Il Manchester United era stata fino a pochi anni prima la squadra più forte d’Inghilterra e una della più forti d’Europa. Dopo essere retrocessi in Seconda Divisione, stavano cercando di ritornare ai vertici e lottare contro il Liverpool. Al tempo la squadra che aveva soppiantato il Leeds in vetta al calcio inglese. Il primo anno per me è stato difficile, ma le due stagioni seguenti ho raggiunto l’apice della mia carriera da giocatore”.

E siamo al 1981, con il passaggio al Milan… Subito idolo dei tifosi… “Nel 1975 avevo avuto un’opportunità di giocare all’estero. Dopo la finale di Coppa Campioni a Parigi, il Bayern cercò di ingaggiarmi. Al tempo le norme sui contratti dei giocatori erano molto rigide, ci furono molte trattative tra il club tedesco e il Leeds ma, nonostante le insistenze dei tedeschi, rimasi in Inghilterra. Quando il Milan mi cercò chiesi al Manchester United di lasciarmi andare e accettarono la mia richiesta. Ero certo che era una grande occasione per me. Segnai subito contro l’Inter. Ricordo bene quella partita, Il Milan era stato promosso in Serie A e c’erano molte aspettative da parte dei tifosi. Ho segnato con l’Inter e i tifosi sono impazziti”. Un buon Milan ma siete finiti in B. Come mai? “è difficile dire cosa non ha funzionato. In estate era arrivato un nuovo allenatore (Radice, ndr) con nuove idee, poi a gennaio c’è stato un nuovo cambio di allenatore (Galbiati, n.d.r.). La squadra non è riuscita a esprimersi al meglio. è stato un disastro per tutti coloro che ne facevano parte. Facevamo parte di un grande club e non

LA CARRIERA Joseph Jordan nasce il 15 dicembre 1951 a Cleland in Scozia. Giovanili al Blantyre Victoria. Nella stagione 1968/69 viene ingaggiato dal Greenock Morton, squadra che al tempo militava nella massima serie scozzese. Dopo due stazioni a Morton, viene notato dal Leeds United che lo mette sotto contratto per l’annata 1970/71. E’ il Dirty Leeds di Don Revie. Nella prima stagione è aggregato alla squadra giovanile ma riesce a conquistare due presenze nella vittoriosa campagna in Coppa delle Fiere. Con il Leeds vincerà anche un campionato e una FA Cup. Dalla stagione successiva trova sempre più spazio in squadra e partecipa a due finali in Coppa Campioni e Coppa delle Coppe, entrambe perse. Nel 1978/79 approda al Manchester United, gioca da titolare inamovibile per tre stagioni. Niente trofei, si accontenta di un secondo posto in campionato e un’incredibile finale di FA Cup persa contro l’Arsenal. Sbarca in Italia al Milan nella stagione 1981/82. Resta con i rossoneri due stagioni poi trascorre un anno a Verona. Dopo il triennio italiano, torna in Inghilterra al Southampton dove resta per tre anni. Chiude la carriera da giocatore al Bristol City nel 1989/90 come player-manager. Appese le scarpe al chiodo, comincia una lunga carriera come manager e assistente. Hearts, Celtic, Stoke City, Bristol City, Irlanda del Nord, Huddersfield Town, Portsmouth, Tottenham, QPR e Middlesbrough le squadre per cui ha lavorato. Ha indossato 51 volte la maglia della Nazionale scozzese, andando a segno 11 volte. Ha giocate in tre edizioni dei Mondiali (1974, 1978 e 1982) segnando almeno una rete in tutte le edizioni. Semplicemente Joe Jordan, Lo Squalo…

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Stranieri a Jordan

Si ringrazia Panini per la gentile concessione delle immagini

siamo riusciti a soddisfare le aspettative dei tifosi”. Per quanto la riguarda, tanti infortuni… “In realtà non ho avuto un grave infortunio ma una serie incredibile di piccoli infortuni, uno dopo l’altro, e ho perso tante partite. Non sono riuscito a giocare con continuità e questo è stato un grosso problema per me”. Meglio la seconda stagione rossonera, no? “Nella seconda stagione ci sono stati tanti cambiamenti, a cominciare dalla serie diversa. Un nuovo allenatore e tanti giocatori nuovi, soprattutto giovani, io ero uno dei pochi vecchi in squadra. Oltre a Baresi e Collovati, che facevano già parte della squadra, si sono affermati altri giocatori giovani come Battistini, Evani, Romano, Icardi e Tassotti. Tanti bravi giovani che hanno gettato le basi per le future vittorie del Milan. Mi ricordo in particolare Romano. Era molto bravo e negli anni successivi ha vinto il campionato con il Napoli di Maradona”. Lasciato al Milan, sbarca all’Hellas Verona di Bagnoli… “Bagnoli era un ottimo manager ma soprattutto una grandissima persona. Mi piaceva molto. Era molto bravo dal punto di vista organizzativo ma soprattutto riusciva ad avere un rapporto molto bello con i giocatori”. Lei ha giocato tantissimo anche nella nazionale scozzese… “Ho giocato 10 anni in nazionale e segnare in tre edizioni dei Mondiali è un record. Eravamo forti e credo che avremmo potuto fare meglio ma siamo stati sfortunati”. Ha segnato tanti gol, quale è il più significativo? “Per me il gol più importante l’ho segnato nel 1973 alla Cecoslovacchia. Era il gol della vittoria ma soprattutto il gol che ci qualificava per i

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Mondiali di Germania. Era un gol importante perché permetteva alla Scozia di qualificarsi ai Mondiali dopo 16 anni di attesa”. In Italia lei è noto come Lo Squalo. Colpa di quegli incisivi persi all’inizio della sua carriera… “è successo durante una partita nelle giovanili del Leeds. Avevo 18 anni, giocavamo a Coventry. Mi sono tuffato di testa per colpire un pallone abbastanza basso e contemporaneamente un difensore è intervenuto con il piede. Ho perso conoscenza, davvero un brutto momento. E ho perso gli incisivi superiori…”. Dopo il calcio giocato, si è divertito ad allenare e a fare da manager. Nel 2005 ha iniziato a lavorare con Harry Redknapp… “Con Redknapp ho lavorato per 10 anni. Mi sono divertito. Era un manager di successo, un vincente e sapeva creare un ottimo rapporto con i giocatori”. Tutti ricordano il suo scontro con Gattuso… “In realtà non è successo niente di particolare. Gattuso era nervoso per l’andamento della partita e perché era stato ammonito e sapeva che avrebbe saltato la partita di ritorno, aveva perso un po’ di concentrazione. La tensione per la partita era tanta, sono cose che succedono”. Ultima esperienza lavorativa al Middlesbrough, adesso cosa fa? “Adesso faccio il nonno (risponde in italiano, n.d.r.). Ogni tanto torno a Milano dove vive mia figlia e a Verona. In Italia ho degli amici che rivedo volentieri. Poi sono un uomo di calcio e cerco di andare a vedere le partite allo stadio il più possibile. Domanda ovvia per uno scozzese, Celtic o Rangers? “Da ragazzino tifavo Celtic”.


STAGIONE SUPER CON LA “DAZN SQUAD” Il campionato è ricominciato. Per raccontare al meglio le competizioni dei grandi campioni e lo spirito sportivo che accomuna le tifoserie, è confermata la “DAZN Squad”. Un team giovane di professionisti dallo stile unico, che per ogni giornata di Serie A TIM racconterà tre match e tutte le sfide della Serie BKT, facendo immedesimare i tifosi nei protagonisti sul campo e accompagnandoli nel cuore dell’azione. Con lo stile che contraddistingue la piattaforma fin dal suo esordio, anche durante questa stagione DAZN metterà in scena le competizioni sportive di massimo livello nella loro versione più autentica. Diletta Leotta continuerà a essere il volto di DAZN in diretta dagli stadi italiani per la conduzione dei pre e post partita dei principali match della Serie A TIM a cui si affiancheranno al commento giornalisti ed inviati. Per la Serie A TIM: Davide Bernardi, Stefano Borghi, Giulia Mizzoni, Marco Russo, Tommaso Turci, Federica Zille. Per la Serie BKT: Giovanni Barsotti, Ricky Buscaglia, Gabriele Giustiniani, Riccardo Mancini, Dario Mastroian-

ni, Edoardo Testoni. Mentre Alessandro Iori continuerà ad essere protagonista di Zona Goal, l’appuntamento più atteso dai tifosi della serie BKT. Questa la “DAZN Squad”, voci e volti del racconto del grande calcio italiano e internazionale di DAZN. Una squadra di giornalisti giovani e entusiasti, capaci di portare la loro freschezza e passione all’interno della narrazione sportiva, a cui DAZN affida anche questa nuova stagione rimanendo fedele allo stile inaugurato tre anni fa e diventato la cifra stilistica del marchio riconosciuto ed apprezzato da tifosi, atleti, grandi campioni. E oltre al calcio giocato, trovano sempre maggiore spazio nella programmazione DAZN, i contenuti originali on demand che raccontano lo sport da punti di vista diversi e inediti. Al ritorno di Linea Diletta, con Diletta impegnata a raccontare i campioni, non solo del calcio, in contesti perfetti per permettere ai fan di conoscere anche il lato meno famoso dei loro idoli, si affiancano nuove puntate di Obiettivo, dove sono le immagini a raccontare l’evento e i suoi protagonisti, e gli approfondimenti curati da Federico Balzaretti, Stefano Borghi e Pierluigi Pardo.


io c l a c i d e i Stor Italpiacenza di Sergio Stanco

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L’ingegnere Garilli costruì un Piacenza che è entrato nella storia del calcio, non solo per la prima storica promozione in A del club emiliano.


ci piace Formazione Piacenza 1997-98

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Storie di c Italpiacenza

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er anni si è parlato di ItalJuve: era la squadra che riforniva la Nazionale di uno zoccolo duro al quale appoggiarsi. Dai tempi del ritornello Zoff, Gentile, Cabrini (etc. etc.) ai Campioni del 2006, tra i quali Buffon, Del Piero, Barzagli, Cannavaro, Camoranesi che, in piena crisi Calciopoli, contribuirono a portare sul tetto del Mondo una squadra che resterà indelebile nei ricordi e nel cuore di tutti gli italiani. Oggi, invece, la stessa Juve parla straniero, come d’altronde la gran parte delle squadre del nostro campionato. E non solo, perché ormai anche nei settori giovanili si fa scouting e finanche nelle categorie inferiori i direttori sportivi guardano spesso al di là dei confini nazionali. Il perché? Tutti lo sanno, pochi hanno il coraggio di dirlo apertamente. Tra il 1992 e il 2002 c’è stata un club che è andato controcorrente e, a modo suo, ha fatto storia. Parliamo del Piacenza del Presidente Garilli (anzi l’Ingegnere, come preferiva farsi chiamare), un proprietario illuminato che per amore della sua città, salvò la squadra e la trascinò dalla Serie C alla Serie A. E anche quando arrivò una retrocessione indigesta, non arretrò di un millimetro. Quel Piacenza non fu una comparsa nella massima seria, ma una protagonista assoluta, con una caratteristica unica: per diktat del Presidente, ma anche del Direttore Sportivo, era composta solo ed esclusivamente da italiani. Una scelta imposta dall’alto, ma anche condivisa dal basso, che ha unito tutte le componenti del club, contribuendo all’orgoglio collettivo e cementando il gruppo. Un gruppo che, oggi, a quasi 30 anni di distanza si dà ancora il buongiorno via chat tutte le mattine, come se si fosse ancora nello spogliatoio: “Quella squadra ha fatto la storia della città, ma anche del calcio italiano – ci racconta Settimio Lucci, per anni Capitano di quel Piacenza – un esempio che non sarà più replicabile. Purtroppo, mi verrebbe da dire. Giocavamo con una carica incredibile, perché affrontavamo

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avversari blasonati e pieni di campioni, spesso stranieri, e noi volevamo dimostrare a tutti che anche in Italia c’erano buoni giocatori, in grado di giocarsela contro chiunque. Anche contro i Gullit, i Van Basten, i Maradona, tanto per fare qualche esempio. E l’abbiamo dimostrato alla grande”. Da dove nasce l’idea ce lo racconta Gigi Cagni, il mister che portò quella squadra dalla C alla A: “Ero praticamente all’inizio della mia carriera, mi contattò il DS Marchetti per propormi la panchina. Mi disse subito che il progetto era importante. Io avevo di fatto già accettato, perché per me era una dimostrazione di stima importante. Già il fatto che avessero deciso di puntare su di me era motivo d’orgoglio. Poi ho conosciuto una persona davvero speciale, come il Presidente Garilli, uomo d’altri tempi e dirigente illuminato. Come il DS Marchetti, d’altronde. Siamo riusciti ad andare subito in B, e poi immediatamente in A. A quel punto il club prese una posizione molto netta: per quelli che erano i nostri budget, non esistevano giocatori stranieri migliori di calciatori italiani. Noi non potevamo permetterci un Rijkaard, tanto per fare un esempio. E italiani buoni sul mercato ce n’erano. Così abbiamo tenuto la squadra che si era guadagnata la promozione e abbiamo aggiunto qualche pedina per puntellare la rosa”. Il campionato in A (1993-1994), non finì bene, ma a Piacenza ancora recriminano. La Reggiana espugnò San Siro battendo il grande Milan di Fabio Capello all’ultima giornata e toccò agli emiliani retrocedere in B. Nessuno si perse d’animo, né abbandonò la barca: “Sono arrivato a Piacenza in Serie B e ci venivano a vedere 2-300 persone a partita – ci racconta l’ex difensore di quel Piacenza Stefano Maccoppi - La prima volta che sono uscito a riscaldarmi non c’era nessuno nello stadio. Abbiamo fatto bene le prime partite, arrivando in vetta alla classifica, ma non cambiava nulla. Piano piano però siamo riusciti a ridare entusiasmo all’ambiente. Ricordo che nell’ultima gara abbiamo


Tanti gli attuali allenatori che hanno giocato nell’ItalPiacenza. Anche Di Francesco

Mister Cagni è stato uno degli artefici dei successi del Piacenza tutto italiano

conquistato la promozione in A vincendo a Cosenza. Ci avevano seguito un centinaio di tifosi. Arrivati all’aeroporto di Parma, prima di scendere dall’aereo, ci dissero di stare compatti che c’era tanta gente. Quando hanno aperto il portellone, non ci credevo. Una distesa umana. Incredibile, mi vengono ancora i brividi. Poi siamo andati tutti insieme al solito ristorante e finito di mangiare, quando ormai era quasi l’una di notte, il Presidente ci fa: “Dai, sbrighiamoci che ci aspettano”. Io non capivo. Siamo andati allo stadio e siamo entrati in campo con le luci dei riflettori spente. Quando le hanno accese ci siamo resi conto che lo stadio era pieno. Un’emozione indescrivibile. Il merito di questa storia è tutto del Presidente Garilli, che non ci trattava come giocatori ma come una famiglia. E noi ci sentivamo proprio così. Pensa che dopo quella

retrocessione in B, che ancora brucia, nessuno se ne andò. Ci siamo riuniti e abbiamo deciso che saremmo tornati in A tutti insieme. E c’era gente con offerte importanti, ricordo che Turrini poteva andare all’Inter. Siamo rimasti tutti e la stagione successiva abbiamo rivinto il campionato di B a mani basse. Avevamo una rabbia in corpo… E poi quella era una squadra dalle qualità tecniche e caratteriali eccezionali. Non ho mai vissuto uno spogliatoio simile”. Un mix di giovani ed esperti, in cui tutti facevano parte della famiglia, nessuno escluso: “Sono arrivato al Piacenza nel 1992 in Serie B – ci racconta Gigi Erbaggio, ex ala e oggi allenatore – ho giocato fino a febbraio, poi mi sono rotto il ginocchio. L’operazione non è andata bene e sono stato praticamente fuori una stagione e mezza. Eppure, calcisticamente e dal punto di vista umano ho

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I tifosi del Piacenza hanno sempre sostenuto la loro squadra del cuore

vissuto l’esperienza più bella della mia carriera. Andavo negli spogliatoi e in ritiro solo per stare in gruppo. Quando si allenavano, io li guardava dalla vasca in cui facevo rieducazione e poi li aspettavo in spogliatoio. Avevo solo vent’anni ed ero tra i più giovani, ma i più esperti mi hanno preso sotto la loro ala e mi facevano sentire importante anche se non giocavo. Ragazzi splendidi. E il fatto che ancora oggi ci sentiamo e ci vediamo regolarmente a quasi trent’anni di distanza, dimostra quanto fossimo uniti”. E gli aneddoti si sprecano: “Ricordo che andavamo in ritiro il giorno prima della partita. La sera, Cagni passava nelle stanze per essere sicuro che andasse tutto bene e per parlare della partita. Appena usciva, ci ritrovavamo tutti nella stanza di Iacobelli. Ma tutti eh, nessuno escluso. E stavamo lì a parlare. Poi, un giorno, scherzando, qualcuno strappò il pigiama di Iacobelli. Da allora ad ogni vigilia, ormai era un rito. Ho perso il conto di quanti pigiami di Iacobelli abbiamo buttato (ride, ndr)”. Un calcio d’altri tempi, che forse non esiste e non esisterà più: “Impossibile replicare quanto fatto dal Presidente Garilli – ci conferma Capitan Lucci, che oggi si occupa di settori giovanili dopo una prima parte di carriera da allenatore – perché i giovani d’oggi sono diversi e il mondo è globalizzato. Poi ci sono troppi interessi, girano troppi soldi e forse acquistare un calciatore straniero conviene di più a tutti. Eppure, giovani italiani bravi ci sono, basta aver voglia di cercarli e dedicargli tempo”. Maccoppi ha addirittura un figlio calciatore che è stato costretto ad emigrare in Svizzera pur di trovare spazio. Gioca nel Servette, Serie A, quando in Italia non gli offrivano una maglia nemmeno in C: “Purtroppo è così, lo abbiamo vissuto sulla nostra pelle. Andrebbe rivisto un po’ tutto, a partire dai settori giovanili”. “Ha ragione Bobo (soprannome di Maccoppi) – conferma Erbaggio – Io che alleno nei settori giovanili (ultima esperienza al Chievo, ndr) vedo che c’è una grande atten-

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zione allo scouting. Le società puntano su giovani stranieri perché li considerano più pronti. Forse è vero, ma alla lunga non è detto che siano più forti dei nostri ragazzi”. E, attenzione, non è una questione di discriminazione, ma di prospettiva, anche in chiave Nazionale: “Ho apprezzato il coraggio di Mancini – continua Maccoppi – Perché ha puntato con decisione su ragazzi che in alcuni casi non erano neanche in prima squadra. Però, mi chiedo: e se Mancio non li avesse chiamati, che fine avrebbero fatto?”. “Una possibile soluzione potrebbe essere anche quella delle squadre B – ci dice Erbaggio – Anche in questo caso la Juve ha tracciato la strada. L’esperienza dell’U23 bianconera mi sembra si stia rivelando utile per tutti i giovani e credo che prima o poi anche altri club finiranno per seguirne le orme”. “Con i ragazzi devi avere pazienza – conferma Cagni – E spesso non basta. Noi avevamo Daniele Moretti, tecnicamente un fenomeno, però un lazzarone. Ho provato in tutti i modi a fargli capire che se mi avesse seguito sarebbe potuto arrivare in alto, ma non c’è stato niente da fare. Oggi non c’è più pazienza. Ci sono talmente tanti ragazzi in Italia, ma soprattutto all’estero, pronti a qualsiasi cosa per emergere, che la società ha solo l’imbarazzo della scelta”. “Non c’è più voglia di sacrificarsi – aggiunge Lucci – e ci sono interessi troppo grandi. E, poi, persone come l’ingegnere Garilli nascono ogni cent’anni”. In ogni caso, negli Anni ’90 la Serie A era piena di stranieri, alcuni dei quali campioni unici, eppure quel Piacenza ha fatto soffrire tutti: “Ho allenato a Piacenza solo un anno – racconta Bortolo Mutti – ma in rosa avevo gente come Taibi, Piovani, Maccoppi, Lucci, Scienza, Di Francesco, Luiso, e molti altri, che oggi giocherebbero in qualunque squadra di Serie A. E non esagero. A ripensare alla rovesciata di Luiso che segnò il 3-2 al Milan mi vengono ancora i brividi. Ma quelli erano calciatori forti. Ed erano tutti italiani. Il Piacenza aveva

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una filosofia precisa e tutti noi l’avevamo sposata. Negli anni si è rivelata vincente”. Un esempio che andrebbe copiato, ma Capitan Lucci non è molto ottimista: “Sento che il presidente Berlusconi vorrebbe fare un Monza italiano, con giocatori senza tatuaggi. Me lo auguro, ma la vedo dura, sono cambiati i tempi. Troppo. Io so solo che noi giocavamo con una marcia in più, una carica eccezionale, anche per dimostrare che i giocatori italiani non avevano nulla da invidiare a nessuno. Quel Piacenza non era solo l’orgoglio di una città, ma di una nazione intera. Ovunque andassimo la gente ci accoglieva con gli applausi. Quella squadra ha fatto la storia del calcio italiano. E tutti noi ne siamo orgogliosi”. Ed anche per questo ogni mattina, nella chat Piace, ci sono ancora trenta persone che si salutano come fossero ancora in quello spogliatoio…

Rosa Piacenza 1992/93 Ruolo

Giocatore Nazionalità

Portiere

Rino Gandini

Italia

Portiere

Massimo Taibi

Italia

Difensore

Vincenzo Attrice

Italia

Difensore

Massimo Brioschi

Italia

Difensore

Antonio Carannante

Italia

Difensore

Roberto Chiti

Italia

Difensore

Andrea Di Cintio

Italia

Difensore

Settimio Lucci

Italia

Difensore

Stefano Maccoppi

Italia

Centrocampista

Luigi Erbaggio

Italia

Centrocampista

Giuseppe Ferazzoli

Italia

Centrocampista

Fabrizio Fioretti

Italia

Centrocampista

Agostino Iacobelli

Italia

Centrocampista

Daniele Moretti

Italia

Centrocampista

Giorgio Papais

Italia

Centrocampista

Pasquale Suppa

Italia

Centrocampista

Francesco Turrini

Italia

Attaccante

Antonio De Vitis

Italia

Attaccante

Gianpietro Piovani

Italia

Attaccante

Fulvio Simonini

Italia

Allenatore

Luigi Cagni

Italia


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