Calcio 2000 n.235

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diretto da Fabrizio Ponciroli

AGO

Bimestrale

Calcio

SETT

2OOO prima immissione 01/07/2018

3,90€

BE €8,00 | F €11,50 | PTE CONT €7,50 | E €7,50 | CHCT fch 8,50

235

TROPPI STRANIERI IN SERIE A? Giganti del Calcio ESCLUSIVA intervista ESCLUSIVAesclusiva

Grandi allenatori ESCLUSIVA

MirCo Antenucci

Arsène Wenger

“Capitano? Una responsabilità”

BEPPE BERGOMI

“Nessuno come Ronaldo”

22 anni, 22 momenti top

ALFABETO DEI BIDONI

Marcio Santos e Sharon Stone

Speciale Grecia ESCLUSIVA

GARE DA NON DIMENTICARE ESCLUSIVA

Il calcio ad Atene Juventus vs Argentinos Juniors

ADDIO AL CALCIO PIRLO L’ultima del Maestro

Capolavoro bianconero

FOCUS ON MLS

Cartoline da Boston



FP

CHE SOFFERENZA MONDIALE…

M

ai più… Guardare gli altri giocarsi il Mondiale è stata una sofferenza inaudita. Anche perché, nonostante la nostra Nazionale non sia in un periodo storico in cui eccelle in quanto a talento, ce la potevamo giocare anche noi. Le emozioni, quelle vere, le hanno vissute altri, noi ci siamo “ridotti” a semplici spettatori neutrali e, quindi, superflui. Credo di interpretare benissimo il pensiero di tutti quando chiedo, ai nostri “campioni” di non farci più uno scherzo simile. La nostra mancata presenza in Russia, ci ha portato ad un’inchiesta sugli stranieri che militano in Serie A. Niente giudizi ma una fotografia del nostro calcio, ormai sempre più esterofilo. Un focus on che ci regala spunti interessanti e riflessioni inevitabili. Sono troppi gli stranieri nel nostro calcio? Lasciamo a voi l’ardua risposta… Il numero estivo è, come da tradizione, decisamente ricco. Due chiacchiere con Antenucci, uno degli eroi della Spal, ci sembrava doveroso, così come omaggiare al meglio l’addio al calcio di un genio come Pirlo. Consigliato lo speciale su Wenger: 22 anni sulla panchi-

editoriale

Ponciroli Fabrizio

na dell’Arsenal, altrettanti “topic moments” da ricordare. Siamo stati ad Atene e Boston, passando per lo Zio Bergomi (un signore) e siamo finiti a cena con Sharon Stone… Per chi ama le grandi imprese del passato, da brividi ripensare a quella splendida avventura bianconera in Coppa Intercontinentale, anno di grazia 1985. Il resto lo lascio scoprire a voi. La speranza è che sia, per tutti voi, un’estate serena, felice e ricca di calcio. Il Mondiale ce lo siamo ormai messo alle spalle, ora è tutto davvero in discesa. Tra poco si tornerà a giocare. L’anno post World Cup è sempre strano, non lo sarà per noi. Dopo aver visto godere gli altri, l’augurio è che le nostre squadre riescano a regalarci enormi soddisfazioni. Abbiamo una gran voglia di esultare, siamo stanchi di fare da spettatori neutrali. Chiudo con le parole di un affezionato lettore che mi hanno emozionato: “Ho 73 anni, colleziono Calcio2000 dal primo numero. Ogni volta che guardo la collezione completa mi sento fortunato perché ho la stessa passione del primo numero”. Niente da aggiungere, grazie a te caro Marcello…

Non c’è uomo senza dispiaceri e se ce n’è uno, non è un uomo…

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SOMMARIO

235

Calcio2OOO

Anno 21 n. 4 AGOSTO / SETTEMBRE 2018 ISSN 1126-1056

BOCCA DEL LEONE 6 LA di Fabrizio Ponciroli D’ITALIA 8 STRANIERI FOCUS ON

notte del maestro 54 la Addio Calcio Pirlo di Fabrizio Ponciroli

di Fabrizio Ponciroli

Registrazione al Tribunale di Milano n.362 del 21/06/1997 Prima immissione: 01/07/2018 Iscritto al Registro degli Operatori di Comunicazione al n. 18246

EDITORE TC&C srl Strada Setteponti Levante 114 52028 Terranuova Bracciolini (AR) Tel +39 055 9172741 Fax +39 055 9170872 DIRETTORE RESPONSABILE Michele Criscitiello Diretto da Fabrizio Ponciroli

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MIRCO ANTENUCCI INTERVISTA ESCLUSIVA di Sergio Stanco

BERGOMI 60 BEPPE GIGANTI DEL CALCIO di Thomas Saccani

WENGER 68 Arsène GRANDI ALLENATORI di Giorgio Coluccia

AMARCORD 76 PARMA OPERAZIONE NOSTALGIA di Fabrizio Ponciroli

INTERTOTO 80 COPPA STORIE DI CALCIO CALCIO AD ATENE 26 ILREPORTAGE

di Luca Gandini

di Giorgio Coluccia

Realizzazione Grafica Francesca Crespi Fotografie Image Photo Agency, Agenzia Aldo Liverani, Federico De Luca, Mascolo/Photoview.

Contatti per la pubblicità e-mail: media@calcio2000.it

di Luca Manes

Stampa Tiber S.p.A. Via della Volta, 179 25124 Brescia (Italy) Tel. 030 3543439 - Fax. 030349805

BOSTON FOCUS ON MLS di Gianfranco Giordano

BOYS 46 SOCCER MAGLIE STORICHE di Gianfranco Giordano

Hanno collaborato Thomas Saccani, Sergio Stanco, Luca Gandini, Gianfranco Giordano, Pierfrancesco Trocchi, Stefano Borgi, Giorgio Coluccia, Luca Savarese, Luca Manes, Carletto Nicoletti

Statistiche Redazione Calcio2000

34 LEICESTER REPORTAGE 40

Redazione Marco Conterio, Luca Bargellini, Gaetano Mocciaro, Chiara Biondini, Simone Bernabei, Lorenzo Marucci, Pietro Lazzerini, Tommaso Maschio, Lorenzo Di Benedetto.

SANTOS 86 MARCIO L’ALFABETO DEI BIDONI di Stefano Borgi

90 JUVENTUS-ARGENTINOS GARE DA RICORDARE di Luca Savarese

DA 98 SCOVATE CARLETTO

Distribuzione Mepe S.p.A. Via Ettore Bugatti, 15 20142 Milano Tel +39 0289592.1 Fax +39 0289500688 Calcio2000 è parte del Network

Il prossimo numero sarà in edicola il 10 settembre 2018 Numero chiuso il 27 giugno 2018



bocca del leone

la

CIFRE ESAGERATE Buongiorno Direttore, complimenti per la rivista. La seguo anche su RMC Sport. Ho una domanda per lei: cosa ne pensa delle nuove cifre che girano nel calciomercato di oggi. Io sono della generazione dei Maradona e dei Platini. Loro erano campionissimi, oggi un giocatore normalissimo vale non meno di 30 milioni di euro. Non stiamo esagerando? Confido in una sua risposta. Massimiliano, mail firmata Buongiorno Massimiliano, la tua è una considerazione lecita e all’ordine del giorno. Il calcio è cambiato, in campo ma anche fuori dal campo. Ormai è come se il calciomercato fosse un mondo a parte. Tutto è stato ingigantito all’ennesima potenza. Dopo “l’affare Neymar”, non ci sono più limiti. Come se non bastasse, ci sono i soldi cinesi, facili e gonfiati. Personalmente credo che non sia un buon segnale per il calcio. Ho parlato recentemente con Briaschi, ex giocatore della Juventus. Gli ho chiesto, in maniera provocatoria: “Quando varrebbe oggi uno come Platini?”. La sua risposta è stata: “Non meno di 500 milioni di euro”. E, accidenti, è vero. Forse dobbiamo solo abituarci a queste cifre mostruose ma, onestamente, cercherei di mettere un limite, magari pensando al salary cup che tanto va di moda nell’NBA…

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SARRI è IL MIGLIORE Direttore, sono sorpreso dalle sue parole. Come può dire che Sarri non è un allenatore top. Ma ha visto come ha giocato il Napoli quest’anno? Nessuno in Europa ha giocato meglio, tutti hanno fatto i complimenti al Napoli e lei dice che Sarri è scarso. Mi aspettavo più competenza da uno come lui che scrive e guarda calcio da una vita. Cordialità Sergio, mail firmata Caro Sergio, innanzitutto non ho mai detto che Sarri è scarso. Confermo quello che invece hai scritto, ossia che non lo considero un top allenatore. Sai perché? Semplicemente perché non ha ancora vinto nulla. Nel momento in cui alzerà un trofeo, pronto a cambiare il mio giudizio. Il calcio è un gioco in cui, l’obiettivo finale, è vincere. Sarri ha regalato un calcio bellissimo ma nessun trofeo. Saresti felice di trascorrere 10 anni con un gioco entusiasmante ma veder sempre vincere gli altri? Non credo… CRISTANTE VALE LA ROMA? Caro Ponciroli, sono un tifoso della Roma. Abbiamo preso Cristante e l’abbiamo pagato pure tanto. Nella sua intervista su Calcio2000 dice che è un grandissimo giocatore e un ragazzo con la testa sulle spalle ma questo vale la Roma? Complimenti per la rivista ma deve parlare più della Roma. Ennio, mail firmata

Caro Ennio, Cristante è un giocatore importante. In un calcio, come quello di oggi, dove i milioni si contano a decine, direi che la Roma ha fatto un buon affare. Di Francesco saprà valorizzarlo al meglio e ritengo il ragazzo pronto alla sfida in una piazza importante come quella giallorossa. Poi è italiano, ne gioverà anche la Nazionale di Mancini. Insomma, io in Cristante ci voglio credere… NOMI PER IL FANTACALCIO Buongiorno Direttore Ponciroli, so che è ancora presto ma io sono un malato di fantacalcio. Sto già pensando alla formazione per la prossima stagione. Vorrei da lei un paio di nomi, di quelli che non costano tanti soldi, su cui puntare che potreb-


di Fabrizio Ponciroli

BALON MUNDIAL 2018 Siamo alla 12esima edizione. Con un partner d’eccezione come il Museo Egizio, è in corso di svolgimento, a Torino, il Balon Mundial 2018! Il consolidamento delle associazioni migranti attraverso il calcio, la creazione di nuove comunità, l’inclusione sociale di rifugiati e richiedenti asilo, questi i punti cardine della manifestazione. Riservato a rifugiati e richiedenti asilo residenti nei C.A.S. E negli S.P.R.A.R. di Torino e dintorni, Balon Mundial è l’occasione per vedere il calcio da una prospettiva diversa. La finale è in programma il prossimo 29 luglio. Per maggiori informazioni: www.balonmundial.it

bero farmi fare un grande campionato. Lo so, è una richiesta strana ma lei sa tutto di calcio. Grazie in anticipo Paolo, mail firmata Paolo, che io sappia tutto di calcio è clamorosamente errato. Pensa che ho partecipato a svariate edizioni del Fanta e ne ho vinte forse un paio. Se sapessi tutto del calcio, avrei dovuto vincere sempre, no? Battute a

parte, due nomi su cui punterei? Se Caputo resta all’Empoli e fa la Serie A, lo prenderei al volo: costo basso e possibile sorpresa. Mi piace tantissimo anche Barrow dell’Atalanta. Sperando che resti in Serie A e possa giocare con continuità, altro profilo interessante a prezzo modico. Invece, aggiungo, prenderei a qualsiasi cifra Douglas Costa. Credo che il prossimo anno farà ancora meglio…

JUVE, GIUSTO ALLEGRI? Egregio Ponciroli, sono un affezionato lettore e un bianconero di lunga data. Sono un grande appassionato di calcio e sono felice che Allegri sia rimasto alla Juventus. Sento che tanti tifosi della Juventus non la pensano come me. Mi chiedo dove pensano di poter trovare uno come Allegri. Non ne vedo tanti in giro che hanno vinto come Allegri e che sanno gestire un gruppo come ha fatto lui, soprattutto l’ultimo anno. Complimenti per Calcio2000. Fabio, mail firmata Fabio, io sono un super estimatore di Allegri. Lo considero uno dei cinque migliori allenatori in circolazione. Credo che la Juventus abbia fatto benissimo a trattenerlo (o, forse, è lui che ha chiesto di restare). Dovesse riuscire anche nell’impresa di vincere la Champions League, diventerebbe davvero leggendario. E ha tutte le carte in regola per farcela. Grazie per i complimenti.

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FOCUS ON

Stranieri d’Italia di Fabrizio Ponciroli

STRANIERI DEL

BEL PAESE 8


Nella stagione 1981 erano 11, nel 2018 ben 295…

I

l nostro viaggio parte da lontano. Estate 1980. Si decide per la riapertura delle frontiere, calcisticamente parlando. La Serie A decide di riabbracciare i calciatori stranieri. Ogni squadra della massima serie può tesserare un giocatore “non italiano” per la stagione 1980/81. Al termine del mercato, con una spesa attorno agli 11 miliardi di vecchie lire, sono 11 gli stranieri che sbarcano nel massimo campionato italiano: Juary (Avellino), Eneas (Bologna), Bertoni (Fiorentina), Prohaska (Inter), Brady (Juventus), Krol (Napoli), Fortunato (Perugia), Luis Silvio (Pistoiese), Falcao (Roma), Van de Korput (Torino) e Neumann (Udinese). Chi mastica di calcio anni ’80 ricorda

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FOCUS ON

Stranieri d’Italia perfettamente ognuno di questi, ormai mitici, eroi provenienti dall’estero. Bene, conoscete anche tutti gli stranieri che hanno preso parte all’ultima annata calcistica? Sareste da Guinness dei Primati, visto che sono ben 295!!! Di questi, per essere precisi, abbiamo 15 portieri, 108 difensori, 116 centrocampisti e 56 attaccanti. Su 533 giocatori che sono scesi in campo durante la stagione 2017/18, in Serie A, 295 non sono di nazionalità italiana. Per chi adora la percentuale, significa che il 55,3% dei calciatori che hanno disputato l’ultimo campionato sono stranieri. Un numero che non dovrebbe sorprenderci più di tanto. Negli ultimi anni, l’incidenza degli stranieri nelle rose delle nostre squadre è aumentata in maniera importante. Infatti, per trovare una percentuale di stranieri in Serie A minore del 40% bisogna risalire fino alla stagione 2008/09. La ormai nota Legge Bosman ha sdoganato lo straniero, rendendolo da esotico, unico e

raro ad imprescindibile, vantaggioso (economicamente) e facile. Le nostre società pescano ovunque, pur di “beccare” il grande colpo a prezzi modici. L’Udinese, anche lo scorso anno, si è dimostrata la squadra più esterofila. Ben 21 gli stranieri scesi in campo, almeno una volta, con la casacca dei friulani. A seguire Roma e Benevento, con 20 “non italiani” che hanno indossato la casacca delle rispettive squadre. Pensate, solo due società hanno impiegato, nell’ultimo campionato, meno di 10 stranieri, ossia il Sassuolo (solo sei) e, sorpresa, il Milan, con nove stranieri totali mandati sul terreno di gioco. Se ci focalizziamo sui precedenti 10 anni, è sicuramente l’Inter la società che si è affidata maggiormente a giocatori provenienti dall’estero. Sia nel 2012/13 che nel 2014/15, i nerazzurri ne hanno fatti giocare 27, un record per il calcio italiano. Altro dato interessante. Sempre prendendo in esame le stagioni che vanno dall’annata 2007/08

Il 60% dei gol dell’ultimo campionato sono stati segnati da stranieri, con Icardi capocannoniere

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al 2017/18 compresi, non c’è stata nessuna società che si è affidata solo a calciatori italiani. Le società più attente al Made in Italy sono state l’Empoli del 2007/08 (un solo straniero), il Sassuolo del 2015/16 e il Torino del 2008/09 (entrambe con tre stranieri

GIOCATORI STRANIERI PER RUOLO ANNO RUOLO GIOCATORI TOTALI 2008 POR 15 2008 DIF 56 2008 CEN 73 2008 ATT 46 190 2009 POR 17 2009 DIF 61 2009 CEN 86 2009 ATT 48 212 2010 POR 16 2010 DIF 62 2010 CEN 94 2010 ATT 58 230 2011 POR 13 2011 DIF 78 2011 CEN 104 2011 ATT 60 255 2012 POR 17 2012 DIF 81 2012 CEN 105 2012 ATT 67 270 2013 POR 19 2013 DIF 91 2013 CEN 126 2013 ATT 74 310 2014 POR 22 2014 DIF 99 2014 CEN 126 2014 ATT 61 308 2015 POR 18 2015 DIF 100 2015 CEN 125 2015 ATT 71 314 2016 POR 20 2016 DIF 102 2016 CEN 125 2016 ATT 59 306 2017 POR 20 2017 DIF 98 2017 CEN 132 2017 ATT 71 321 2018 POR 15 2018 DIF 108 2018 CEN 116 2018 ATT 56 295

utilizzati). Insomma, ormai avere una rosa “multietnica” è considerato normale. Vale per tutti i tornei top europei ma c’è qualcuno che non gradisce molto l’invasione straniera nel proprio credo calcistico. Un esempio? In Europa, tra i tornei minimamente qualitativi, da evidenziare il campionato ucraino, quello con meno stranieri in assoluto (22,4% del totale). Curioso anche il dato relativo al Brasile. Il Paese che esporta più calciatori è uno di quelli che ne importa un numero davvero esiguo: 53 giocatori su 677 sono di nazionalità non brasiliana, ovvero solo il 7,8%. Viene da pensare che l’Italia, o forse i presidenti delle società italiane, sia fissata con i giocatori esteri. Lo conferma lo studio del Centre International d’E-

Negli ultimi 11 anni, il Brasile è il Paese da cui sono stati acquistati più giocatori

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FOCUS ON

Stranieri d’Italia tude du Sport. Analizzando ben 142 tornei, il Cies ha registrato la presenza di 12.425 giocatori stranieri nei campionati osservati, appartenenti a 178 nazionalità diverse. La media mondiale ci racconta che il 21,2% dei giocatori proviene dall’estero. Noi siamo decisamente oltre come percentuale... Da anni si sta discutendo se sia possibile “frenare” l’invasione degli stranieri o, attraverso delle regole, provare a dare più spazio a giocatori italiani. L’incremento del numero di calciatori provenienti dall’estero è stato decisamente rilevante nel corso degli ultimi anni. Anche a livello di reti, lo straniero ha superato

l’italiano. Nella stagione 2017/18, su 981 gol siglati in Serie A, ben 596 sono state di fattura estera. Oltre il 60% delle segnature non è stata a firma italiana. Un dato significativo se si considera che, nella stagione 2007/08, i gol stranieri sono stati “solo” 338 (su 951), pari al 35,5% del totale. Più stranieri, meno italiani, la tendenza è lineare e continuativa. La Nazionale ne sta pagando le conseguenze, così come i tanti giovani italiani che fanno sempre più fatica a trovare spazio nei rispettivi club di appartenenza. Complicato trovare una soluzione che possa accontentare tutti, forse impossibile…

SERIE A: IL PIù GIOVANE E IL PIù VECCHIO STRANIERO DAL 2008 AL 2018 STAGIONE GIOCATORE Squadra Età Data di Nascita 2007/2008 Prijovic Aleksandar Parma 18 21/04/90 Fernando Couto Manuel Silva Parma 38 02/08/69 2008/2009 Stoian Adrian Marius Roma 18 11/02/91 Nedved Pavel Juventus 36 30/08/72 2009/2010 Babacar Khouma Fiorentina 17 17/03/93 Zanetti Javier Aldemar Inter 36 10/08/73 2010/2011 Nana Welbeck Maseko Addo Brescia 16 24/11/94 Zanetti Javier Aldemar Inter 37 10/08/73 2011/2012 Livaja Marko Cesena 18 26/08/93 Zanetti Javier Aldemar Inter 38 10/08/73 2012/2013 Da Silva Victor Matheus Chievo 18 04/01/95 Zanetti Javier Aldemar Inter 39 10/08/73 2013/2014 Minala Joseph Mari Lazio 17 24/08/96 Zanetti Javier Aldemar Inter 40 10/08/73 2014/2015 Gnoukouri Assane De Moya Inter 18 28/09/96 Bizzarri Albano Benjamin Chievo 37 09/11/77 2015/2016 Diawara Amadou Bologna 18 17/07/97 Bizzarri Albano Benjamin Chievo 38 09/11/77 2016/2017 Coulibaly Mamadou Pescara 18 03/02/99 Bizzarri Albano Benjamin Pescara 39 09/11/77 2017/2018 Sanogo Siriki Benevento 16 21/12/01 Bizzarri Albano Benjamin Udinese 40 09/11/77

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SERIE A 2017-18 STRANIERI PER SINGOLA SQUADRA ANNO SQUADRA

NUMERO ETà

2018 ATALANTA 2018 BENEVENTO 2018 BOLOGNA 2018 CAGLIARI 2018 CHIEVO 2018 CROTONE 2018 FIORENTINA 2018 GENOA 2018 HELLAS VERONA 2018 INTER 2018 JUVENTUS 2018 LAZIO 2018 MILAN 2018 NAPOLI 2018 ROMA 2018 SAMPDORIA 2018 SASSUOLO 2018 SPAL 2018 TORINO 2018 UDINESE

14 20 19 11 11 15 19 18 16 15 15 19 9 17 20 16 6 10 15 21

26,44 26,79 26,59 26,82 28,12 26,32 25,69 28,37 26,2 27,28 28,84 26,66 25,81 27,62 27,34 26,45 22,7 28,37 27,47 27

SERIE A: ETà MEDIA STRANIERI DAL 2008 AL 2018 ANNO MEDIA 2008 26,58 2009 26,17 2010 26,3 2011 25,95 2012 26,34 2013 25,84 2014 26,17 2015 26,41 2016 26,36 2017 26,09 2018 26,36

* Alcuni stranieri hanno giocato in due squadre nella stagione 2017/18

GUARDANDO LA PREMIER La Premier League è considerata, da anni, il miglior torneo calcistico del mondo. Ebbene, in Inghilterra gli stranieri non mancano affatto. Analizzando le informazioni legate alla stagione 2017/18 è lampante l’incidenza dei calciatori non inglesi. Partiamo da un dato inequivocabile. Nel corso dell’ultima annata, sono stati 371 gli stranieri che hanno fatto parte del grande circo della Premier League (su un totale di 574), ossia il 64,6%. Ai presidenti dei club inglesi piace avere giocatori stranieri già maturi, visto che l’età media è pari a 27,3 anni (in Italia è pari a 26,3 anni). Curiosamente, la Spagna è la Nazione più presente nelle rose inglesi con ben 30 giocatori iberici nella massima serie. A seguire, francesi (26), olandesi (25), irlandesi (21), argentini e belgi (17). Curiosamente, in Inghilterra, nell’ultima stagione, sono stati presenti “solo” 14 giocatori brasiliani. Un numero esiguo paragonato agli altri campionati dove il Brasile è padrone incontrastato.

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FOCUS ON

Stranieri d’Italia

Bizzarri dell’Udinese è lo straniero più anziano dell’ultimo campionato

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AI MIEI TEMPI Luis Airton Oliveira Barroso, semplicemente noto come Lulù Oliveira, ha giocato in Italia dal 1992 al 2010. Una vita, calcisticamente parlando, nel Bel Paese. “Ormai mi sento un po’ italiano, visto che sono in Italia da così tanti anni”. Uno straniero che, soprattutto con le casacche di Cagliari e Fiorentina, ha lasciato il segno: “Quando sono arrivato io in Serie A, c’erano solo giocatori stranieri fortissimi. Penso a Gullit, Van Basten, Zidane, Ronaldo… Giocava chi sapeva giocare a pallone a livelli alti. Oggi è tutto diverso. Ci sono ancora tanti stranieri forti ma anche altri che, probabilmente, ai miei tempi non avrebbero giocato in Serie A. L’ex bomber pensa anche agli azzurri: “Se ci sono troppi stranieri? Il problema è che ci sono pochi italiani che giocano. I giovani faticano a trovare spazio nelle squadre. Magari sono nelle rose ma poi scendono in campo una volta ogni due mesi e questo non li aiuta e non aiuta neppure la Nazionale che, infatti, sta faticando enormemente”. Oliveira spera nell’intervento della Federazione: “Bisognerebbe fare qualcosa. La Federazione dovrebbe tutelare i giocatori italiani e, soprattutto, la Nazionale. Le seconde squadre sono sicuramente un aiuto ma non possono essere la soluzione al problema. Credo che gli allenatori dovrebbero avere più fiducia nei giovani italiani, rischiarli di più in campo. Il Milan ha tanti italiani in rosa, è una società che ci sta provando anche se, ad essere sinceri, quando affronta squadre top, fa fatica”. E si arriva a parlare della Juventus: “è l’unica squadra che non è mai cambiata rispetto ai miei tempi. Loro scelgono sempre gli stranieri giusti e puntano a vincere ogni partita. La Juventus è diversa da tutte le altre squadre in Italia, per questo vince quasi sempre”. L’attaccante brasiliano naturalizzato belga è comunque ottimista per il futuro: “Credo che si possa ancora trovare la maniera di migliorare il calcio italiano e farlo tornare ai

Ben 135 i giocatori che hanno militato in campionati stranieri fino allo scorso maggio

fasti del passato. I campioni del passato volevano venire a giocare in Italia a tutti i costi, oggi scelgono altri campionati ma, se si avrà fiducia nel movimento e nei giovani, l’Italia potrà tornare grandi. I talenti non mancano. Penso ad uno come Chiesa. Ecco, lui è un esempio di campione che deve giocare in qualsiasi squadra. è forte, non conta l’età o quanti stranieri ci sono in rosa, lui deve giocare comunque. E questa regola dovrebbe essere applicata anche a tanti altri”. GIOVANI E VECCHI Dai 16 anni di Sanogo, visto con la casacca del Benevento, ai 40 dell’esperto portiere dell’Udinese Bizzarri. Che età media hanno i giocatori stranieri della nostra Serie A? Innanzitutto, sfatiamo il mito che vorrebbe le società italiane, soprattutto negli ultimi anni, puntare su calciatori stranieri giovanissimi. Non è affatto così. I dati di Tetractis confermano la ricerca di giocatori mediamente esperti. L’età media dei 21 stranieri impiegati dall’Udinese nell’ultimo campionato è di 27 anni. Non proprio un’età media bassissima. Ancor più significativo il dato

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FOCUS ON

Stranieri d’Italia della Juventus Campione d’Italia. I suoi 15 stranieri hanno, complessivamente, un’età media più vicina ai 30 che ai 25 anni (28,84 per la precisione). Sotto ai 26 anni di media ci sono poche realtà italiane, ossia la Fiorentina, il Milan e il Sassuolo, quest’ultimo con un’età media pari a 22,7, la più bassa dell’intera massima serie italiana. ITALIANI ALL’ESTERO La Serie A va pazza per i giocatori stranieri ma gli italiani piacciono all’estero? La domanda è pertinente. In un calcio sempre più globalizzato, anche gli italiani, una volta restii a lasciare il Bel Paese, prendono sempre più in considerazione le opportunità estere. Secondo quanto riportato dai dati analitici del Cies, i calciatori italiani che, al mese di maggio del 2018, hanno giocato all’estero sono stati 135. Nella classifica generale, siamo al 26esimo posto tra i Paesi che esportano più giocatori (classifica guidata dal Brasile con oltre 1200 giocatori che hanno lasciato la loro patria per mostrare il proprio talento calcistico altrove). La Nazione che adora più i nostri connazionali è Malta. Sono ben 27 i giocatori italiani che hanno messo piede nella prima divisione maltese. A seguire ci piace viaggiare in Spagna e Inghilterra, con sette italiani per ognuno dei due massimi tornei.

L’età media degli stranieri della Juventus è la più alta dell’intera Serie A

Serie A: Gli stranieri in Italia dal 2008 al 2018 ANNO

GIOCATORI SCHIERATI TOTALI

GIOCATORI STRANIERI TOTALI

2007/2008 527 2008/2009 545 2009/2010 552 2010/2011 538 2011/2012 558 2012/2013 583 2013/2014 570 2014/2015 574 2015/2016 551 2016/2017 560 2017/2018 533

16

190 212 230 255 270 310 308 314 306 321 295

% STRANIERI 36 38,8 41,6 47,3 48,3 53,1 54 54,7 55,5 57,3 55,3


IL CALCIO è BRASILIANO Si sa, il calcio è di casa in Brasile. La maggior parte dei calciatori stranieri che approdano in Italia è verdeoro. Si pensi che, dal 2007 al 2018, in Italia sono sbarcati ben 236 giocatori brasiliani (seguiti dall’Argentina che, nello stesso periodo, ci ha “regalato” 214 giocatori). Non siamo un’eccezione, anzi… Secondo la classifica diramata da Cies, il Brasile è il Paese che esporta più “talenti calcistici”. Attualmente, su un totale di 142 campionati, si contano ben 1236 calciatori brasiliani, dei quali 824 calciano il pallone su campi del Vecchio Continente. Curiosamente, al secondo posto, troviamo, tra i Paesi più rappresentati all’estero, la Francia (821 giocatori partiti per trovare fortuna fuori dai propri confini nazionali). Sul gradino più basso del podio, appare l’Argentina con 760 calciatori. A seguire, Serbia (465), Inghilterra (413), Spagna (361), Croazia (346, esattamente come la Germania), Colombia (327) e Uruguay (324).

Serie A: Numero gol stranieri dal 2008 al 2018 ANNO Gol Totali Gol Stranieri 2008 951 338 2009 972 394 2010 980 439 2011 929 443 2012 948 492 2013 981 503 2014 1008 546 2015 990 573 2016 951 534 2017 1096 679 2018 981 596

SERIE A: CLASSIFICA STRANIERI PER NAZIONE PER SQUADRA DAL 2008 AL 2018 Nazione Squadra Giocatori Argentina GENOA 23 Brasile ROMA 23 Argentina CATANIA 22 Brasile INTER 20 Argentina INTER 19 Brasile UDINESE 19 Brasile MILAN 17 Argentina FIORENTINA 13 Argentina NAPOLI 13 Argentina SAMPDORIA 13 Brasile GENOA 13 Brasile HELLAS VERONA 12 Brasile CAGLIARI 11 Uruguay BOLOGNA 11 Argentina ATALANTA 10 Argentina CHIEVO 10 Argentina PALERMO 10 Argentina ROMA 10 Brasile LAZIO 10 Brasile JUVENTUS 9 Francia ROMA 9 Argentina LAZIO 8 Argentina TORINO 8 Brasile BOLOGNA 8 Brasile FIORENTINA 8 Brasile SIENA 8 Francia FIORENTINA 8 Francia JUVENTUS 8

DATI TABELLE FORNITI DA TETR4CTIS www.tetr4ctis.it * Nota: tutti i dati si riferiscono ai giocatori scesi in campo.

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VA

I s U L C S E A T INTERVIS Mirco Antenucci di Sergio Stanco

Intervista Esclusiva a Mirco Antenucci, capitano, bomber e assoluto protagonista della salvezza della Spal. Un’altra favola che diventa realtà…

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Un Lupo a Ferrara C

hiamarlo “miracolo” – sportivo, s’intende – potrebbe anche essere riduttivo, forse pure offensivo. Perché non c’è niente di sovrannaturale nella salvezza della Spal, ma tanta programmazione e fatica. Da una parte un club ambizioso al punto giusto e decisamente organizzato, dall’altra una squadra senza nomi altisonanti ma ben allenata e altrettanto organizzata. Un gruppo solido, che ha lottato pallone su pallone per raggiungere il traguardo, che ha sofferto, ha temuto il peggio, ma ogni volta che è caduto, si è rialzato con ancor più forza e decisione. Capace di subire cinque reti in casa dalla Lazio e quattro dal Milan, ma anche di fermare una Juve lanciatissima sul proprio campo in una serata epica. Di finire a -4 dalla salvezza, ma anche di vincere lo scontro diretto e probabilmente decisivo sul campo del Crotone e rimettersi in carreggiata. In pochi avrebbero scommesso su questa Spal ad inizio stagione (e tanto meno sulla promozione dello scorso anno), il capitano Antenucci lo ha fatto e ha vinto. Lui che per anni è stato etichettato come un giocatore di categoria - la B per intenderci, dove spesso faceva sfracelli senza poi però riuscire a capitalizzare in A – si è tolto la soddisfazione di trascinare i compagni in una stagione che resterà per sempre nella storia della società emiliana. Il rinnovo di contratto per altri due anni, poi, è come se

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ESC INTERVISTA Mirco Antenucci

fosse il lieto fine della favola. Una favola in cui, per una volta, il “Lupo” è il personaggio buono. Partiamo dalla fine: che emozione è stata la salvezza? “È stata una grande emozione, probabilmente una delle più grandi della mia carriera. Perché anche le promozioni in A sono state indimenticabili, ma è diverso perché misurarti con la Serie A è un’altra cosa. Poi la promozione dello scorso anno l’avevamo metabolizzata, perché durante l’anno avevamo accumulato vantaggio e dimostrato di essere i più forti, in questo caso è stata una conquista passo dopo passo e fino all’ultimo c’è sempre stato un po’ di timore. Alla fine l’emozione era davvero tanta”. Il momento in cui hai detto: ce la facciamo? E quello in cui, invece, hai temuto di non farcela? “Devo dire che sono sempre stato ottimista. Non ci sono stati momenti in cui ho pensa-

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to di non farcela, neanche quando eravamo finiti a -4 dalla quartultima. Siamo sempre stati sereni, concentrati, abbiamo sempre continuato a lavorare duro, convinti dei nostri mezzi. Certo, come dicevo prima, il timore di non farcela fino alla fine c’è stato, perché il calcio è imprevedibile, però sono sempre stato estremamente fiducioso, perché vedevo tutti lavorare concerto con un grande spirito di squadra”. Cosa ha avuto in più la Spal? “Non ci sono segreti, il successo o l’insuccesso di una squadra parte sempre da molto lontano. Appena sono arrivato ho percepito subito la volontà di crescere e la serietà di tutta la società. Poi la forza di questa squadra, secondo me, è il connubio perfetto che c’è tra il club e i suoi tifosi, la città. C’è uno spirito di unione indescrivibile, che ti porta a dare sempre quel qualcosa in più per non deludere i nostri splendidi tifosi, per rispettare la loro passione”.


Da Roccavivara a Ferrara (passando per l’Inghilterra) Mirco Antenucci nasce a Termoli l’8 settembre del 1984, ma in realtà cresce a Roccavivara, un paesino di meno di mille anime sulle colline molisane. Il suo sogno, fin da ragazzino, è quello di diventare calciatore ma in zona non ci sono strutture adeguate per consentirgli di coronarlo. Così, a 13 anni si trasferisce in Abruzzo, in particolare a Giulianova ed è nelle file della squadra locale che fa tutta la trafila delle giovanili, fino ad esordire nella stagione 2002-2003 in prima squadra, che al tempo disputava la Serie C. Da quel momento il Lupo di Roccavivara comincia a farsi conoscere e a girovagare l’Italia, passando da Ancona, Venezia, Catania, Torino. Spesso disputa ottimi campionati in Serie B, il migliore ad Ascoli nella stagione 2009-2010 nella quale mette a segno ben 24 reti e si laurea capocannoniere del campionato in ottima compagnia (Rolando Bianchi del Torino, Andrea Caracciolo del Brescia, Mauricio Pinilla del Grosseto). Sfiora la Serie A senza lasciare il segno prima a Catania nel 2008 e poi nel 2012 con il Torino, squadra che con i suoi gol contribuisce a riportare nella massima serie. In realtà, non è destino perché alle buste (era in compartecipazione tra Torino e Catania) se lo aggiudicano i siciliani. Riparte da un altro prestito in B, allo Spezia, e poi ancora a Terni, dove per la prima volta in carriera indossa la fascia da capitano. La Ternana lo acquista definitivamente a fine stagione dopo 19 reti all’attivo (siamo nel 2014) per poi cederlo successivamente al Leeds: in Inghilterra disputa due campionati di Championship in un Leeds molto italiano, che poteva contare anche su Bellusci in difesa e Silvestri in porta (oltre a Cellino proprietario). Due stagioni splendide in campo e fuori, un’esperienza di vita e professionale davvero importanti, ma il richiamo dell’Italia è troppo forte e, nonostante le offerte pervenute da diverse squadre inglesi, nell’estate del 2016 torna a casa. Anzi, nella sua seconda casa. A Ferrara, di fatto, contribuisce a fare la storia: promozione in Serie A alla prima stagione (contribuendo con ben 18 reti) e salvezza nella massima serie in quella successiva (11 le marcature a referto, miglior realizzatore della Spal). Ma chi crede che la favola sia finita, sbaglia di grosso, perché il Lupo ha ancora fame…

Se due anni fa quando sei arrivato ti avessero detto: a maggio 2018 festeggerai la salvezza in A, cosa avresti pensato? “Ovvio che non ci avrei mai creduto, era inimmaginabile. Però appena sono arrivato ho respirato un’aria buona, una sana ambizione: era difficile credere di poter ottenere la promozione in A al primo anno, ma ho sentito che c’erano le condizioni giuste per fare qualcosa di importante. E non mi sono affatto sbagliato. Non mi sarei mai aspettato potesse succedere tutto così veloce, quello no”. Lo storico pareggio contro la Juve in casa è stata la svolta della stagione? “A livello emozionale sì, perché devo dire

che fermare la corsa di una squadra come la Juve, che per di più veniva da dodici vittorie consecutive, è stata davvero una scarica di adrenalina. Una serata davvero eccezionale e che resterà nella storia. Il momento più importante per noi, però, è stato quello della vittoria di Crotone (2-3 con un gol di Antenucci, partita del 25 febbraio 2018, ndr), perché in quel momento eravamo a quattro punti di distacco e se avessimo perso sarebbe stata dura rimontare. Quella vittoria, invece, ci ha consentito di accorciare le distanze, ma soprattutto ci ha fatto capire che potevamo farcela. E la cosa che mi è piaciuta di più della squadra è stato che l’abbiamo affrontata con

“Il mio unico obiettivo questa stagione era la salvezza della Spal”

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coraggio, senza paura. È stato un bel segnale”. Finalmente di Antenucci non si dirà che è un ottimo attaccante… per la Serie B. “Non la consideravo certamente un’offesa, era ciò che dicevano la mia carriera e le mie statistiche, un dato di fatto. E questa è stata la principale sfida quest’anno, dimostrare innanzitutto a me stesso, e poi agli altri, che in Serie A potevo starci e potevo anche fare bene”. Scommessa vinta: con l’ultima doppietta alla Samp sei arrivato anche in doppia cifra, che obiettivo ti eri posto ad inizio stagione? “Guarda, non mi son posto un obiettivo realizzativo neanche in Serie B, figuriamoci in A che le difficoltà aumentano in maniera esponenziale. Il mio unico obiettivo questa stagione era la salvezza della Spal, fosse anche arrivata senza nemmeno un mio gol, sarebbe andata bene uguale (ride, ndr)”.

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Prima di arrivare alla Spal hai giocato due anni in Inghilterra, al Leeds: cosa ti ha convinto a rientrare? “Prima di tutto mi era scaduto il contratto, poi avevo voglia di tornare, volevo stare vicino alle mie bambine e mi piaceva l’idea che crescessero in Italia. Ho ricevuto altre offerte da squadre inglesi, ma la mia voglia di mettermi nuovamente alla prova qui ha avuto la meglio. Quando, poi, è arrivata l’offerta della Spal, non ho avuto dubbi”. Cosa ti ha convinto del progetto Spal? “Non saprei dirtelo, ma fin dal primo momento che mi è stata proposta questa possibilità, ho avuto sensazioni positive. Pensavo di venire a giocare qui ed ero felice, per cui mi son detto che sarebbe stata la scelta giusta. È stata una decisione di pancia, come spesso ne ho fatte nella mia carriera. Questa probabilmente è stata la migliore di tutte”. Cosa hai trovato a Ferrara che ti ha fatto esprimere al meglio?


“Innanzitutto una società seria e poi una città che fin dal primo momento mi ha accolto benissimo. Ricordo ancora la presentazione al Castello Estense, un’emozione indescrivibile. Un qualcosa a pelle, difficile da spiegare, un rapporto che col tempo si è consolidato ed è diventato qualcosa di più. Arrivo a dire che la Spal e Ferrara sono una cosa unica e per me, qui, è come stare in famiglia. Ferrara ormai è la mia seconda casa”. La fascia da capitano un evento inatteso? Che effetto ti fa e come interpreti il ruolo? “Per me non è una novità relativa, perché sono stato capitano anche nella Ternana (stagione 2013-2014, ndr), però è vero che non me l’aspettavo. Il nostro capitano Luca Mora ha deciso di trasferirsi allo Spezia a gennaio e io ho ereditato la fascia. Vivo questa situazione serenamente ma anche seriamente, perché comunque è un ruolo di responsabilità. Non è solo una fascia, è un simbolo, rappresenti la squadra, la società, la città stessa e quindi devi essere ineccepibile. Io cerco di guidare i compagni con l’esempio sul campo, non sono uno che parla molto, non mi piace apparire, ma do sempre il massimo, mi impegno tanto e se posso essere d’aiuto per un compagno dentro e fuori del campo, cerco di farlo”. Il rinnovo è una dichiarazione d’amore a vita per la Spal e per Ferrara? “Per me sì. È stato quasi naturale rinnovare il contratto, mi ha chiamato il Direttore e non ha fatto neanche in tempo a propormelo che lo avevo già accettato (ride, ndr). A Ferrara ho trovato la mia dimensione, sia io che la mia famiglia viviamo benissimo e dipendesse da me starei qui per sempre. Questo è certamente il mio desiderio”. Parliamo un po’ di te e dei tuoi inizi: è stato difficile diventare calciatore partendo dal Molise? “Un po’ sì, devo essere sincero. Devo ringraziare innanzitutto mio padre che ha fatto tanti sacrifici per permettermi di inseguire

il mio sogno, non so neanche quanti chilometri abbia fatto per accompagnarmi agli allenamenti e alle partite. Poi a tredici anni ho lasciato casa per trasferirmi a Giulianova e cercare di diventare calciatore “vero”. Purtroppo in Molise non ci sono tante strutture per chi sogna di fare questo mestiere, chiamiamolo così. Basta vedere il numero dei calciatori professionistici di origine molisana per rendersi conto di quanto sia difficile emergere”. Una curiosità: come nasce il soprannome “Lupo”? Ti piace? “È stato il nostro ex capitano Luca Mora ad affibbiarmelo. Sì, mi piace, mi diverte e mi ritrovo un po’ caratterialmente. Quando ha saputo che venivo da un paesino del Moli-

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Fausto Pari: “La Spal può diventare una realtà della Serie A” Da capitano a capitano. Sono passati 21 anni da quando Fausto Pari ha vestito la maglia della Spal, eppure è come se fosse ieri: “Ho mantenuto un rapporto unico con tutto l’ambiente di Ferrara, sono ancora molto legato e sono molto felice che la squadra si sia salvata quest’anno. Se lo sono meritati”. L’ex campione d’Italia con la Sampdoria nello storico scudetto blucerchiato del ‘90-91 è arrivato a Ferrara nel 1997, praticamente a fine carriera (35 anni all’anagrafe). Dalla Serie A dell’anno prima col Piacenza alla Serie C2 nella stagione successiva a Ferrara, ma la grinta e la voglia non è mai venuta meno, tanto che a fine anno, con la fascia al braccio, si è festeggiata anche la promozione in C1: “È stata un’annata fantastica – ricorda Pari – all’inizio nei miei riguardi c’era un po’ di scetticismo, di diffidenza: sai, uno che arrivava dalla Serie A, che aveva vinto tanto, forse si aspettavano uno che faceva il fenomeno. Invece, alla fine, li ho fatti ricredere. Della Spal e di Ferrara conservo ricordi più che positivi, così tanta passione da parte della tifoseria l’ho riscontrata poche volte in giro, anche altrove in piazze magari con bacini d’utenza più ampi. Pensa che quell’anno abbiamo fatto quasi 7mila spettatori di media al Paolo Mazza. E, vale la pena ricordarlo, si giocava in C2. È vero che c’è un legame speciale tra la città, i tifosi e la squadra. Andiamo alla Spal è il loro motto e quando c’è la partita vedi davvero tutta la città che si mobilita”. E proprio la tifoseria potrebbe avere avuto un ruolo determinante nella salvezza di quest’anno: “Sono stato allo stadio diverse volte, era quasi sempre tutto esaurito. Non solo contro la Juve, ma anche contro Bologna, Atalanta e molte altre partite con meno appeal. La passione e il sostegno di una tifoseria così, che nei momenti bui ti sostiene invece di contestarti, non ho dubbi che faccia la differenza. Secondo me questo è stato il valore aggiunto della Spal quest’anno e potrebbe esserlo anche in futuro. C’è una società sana, organizzata, che programma e che guarda lontano: basta vedere come hanno affrontato la Serie A, con giocatori anche in prestito ma con obbligo di riscatto in caso di salvezza. Significa che ci credevano e che hanno lavorato – bene – per raggiungere l’obiettivo”. E potrebbe non essere finita qui. Infatti, con l’occhio da Direttore Sportivo, ormai suo nuovo mestiere, ecco la previsione dell’ex Fausto Pari per questa Spal: “Ci sono tutte le condizioni per costruire un progetto che duri in Serie A, perché Ferrara è una bellissima piazza e la società mi sembra abbia tutta l’intenzione di fare sul serio. Io me lo auguro, perché la tifoseria se lo merita davvero”.

se, ha cominciato a chiamarmi così. Poi la barba ha fatto il resto. Ora per tutti sono il “Lupo di Roccavivara” (sorride, ndr)”. Come sei messo a Fantacalcio? Sai che chi ti ha scelto ha fatto bingo quest’anno? “Conosco perché in passato anche io mi divertivo a giocarci, ma devo dire che solo quest’anno ho realizzato quanto sia diffuso. E soprattutto quanto sia diventato una malattia per chi ci gioca. Ricevo messaggi di ogni tipo, chi ti fa i complimenti perché hai fatto gol, chi ti chiede come hai fatto a sbagliarlo, chi vuole sapere se giocherai

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o meno per schierarti… Incredibile. Sono comunque contento di essere stato utile ai fantallenatori che hanno creduto in me”. A 33 anni quali sono i sogni ancora da realizzare prima di fine carriera? Come ti immagini da qui 3-4 anni? “Il sogno è di finire bene, tutto qui. Per adesso mi sento ancora alla grande fisicamente e mentalmente, fra 3-4 anni mi vedo ancora su un campo da calcio a rincorrere il pallone: poi bisognerà vedere se ce la faccio (ride, ndr)”. A giudicare dall’ultima stagione, ci sono pochi dubbi in merito…


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reportage atene di Giorgio Coluccia

“E

pómeni stási, Ambelokipi”. Atene, la voce registrata della linea 3 annuncia che la prossima fermata metro sarà quella di Ambelokipi. Siamo nell’omonimo distretto situato a est della capitale ellenica. Questa è la roccaforte del Panathinaikos, il quartiere Gyzi ospita il più vecchio stadio greco ancora in funzione, l’Apostolos Nikolaidis, sin dal 1922 casa del club. L’impianto è noto anche come “il viale” perché sorge sulla trafficatissima Leoforos Alexandras e l’uscita dalla metropolitana rende bene l’idea di cosa ti aspetti. Quattro corsie tra clacson, auto, filobus, gli immancabili taxi gialli e una moltitudine di motorini, per i quali in Grecia non è obbligatorio il casco. I graffiti ad opera dei tifosi di casa sono ovunque, difficile non trovare un edificio o una qualsiasi altra struttura a tinte verdi, con un trifoglio, la scritta Pao o la firma Gate 13, temuto gruppo della tifoseria organizzata locale. Prima della partita si radunano tutti all’ingresso, vietato

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I tumulti di Atene Un viaggio per scoprire dove portano le strade del calcio‌

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reportage atene riprendere o fare foto perché alcune sentinelle sorvegliano chi si avvicina e gli ospiti non sono proprio graditi. Sul viale c’è un semaforo ogni cento metri, alternato ai periptera, questi piccoli chioschi comuni in tutto il Paese, ricolmi all’inverosimile, che vendono qualsiasi cosa a bordo strada. L’incuria nei pressi dello stadio è notevole, qualsiasi spazio anche qui è marchiato da una bomboletta spray e se non fosse per il Pana, che vi disputa le sue gare interne, penseresti che sia in stato di abbandono. Di fronte c’è un edificio a due piani parzialmente diroccato, in condizioni pessime, che è occupato da anni da famiglie di rifugiati (prosfygika), noti come i profughi di Ambelokipi. All’ora di pranzo un anziano signore approfitta della tettoia in plexigas che sporge dalla tribuna per ripararsi dal sole e far funzionare la sua brace. Cuoce al momento i saporiti souvlaki, tipici spiedini locali, mentre sulla piastra scalda la pita, il pane tondo e piatto, approfittando del via vai in zona per ingolosire i passanti. In Grecia è stata l’annata del ribaltone, l’ultima Souper Ligka Ellada vinta dall’Aek Atene ha siglato la fine del duopolio di Olympiakos e Panathinaikos: non accadeva dal 1994, anno in cui il campionato andò proprio ai gialloneri. Mentre per un torneo finito fuori dalla capitale bisogna tornare alla stagione 1987/1988, con il titolo vinto dal Larissa, compagine della Tessaglia. Una svolta che ha spinto in molti a paragonare l’attuale situazione calcistica a quella politica, in quanto l’avvento del Primo Ministro Alexi Tsipras nel 2015 ha portato al potere il partito di Syriza, spezzando l’alternarsi tra i socialisti del Pasok e i conservatori di Nea Demokratia, perdurante dalla fine della dittatura dei colonnelli. Nonostante la scarsa competitività del campionato ellenico, Atene è una città che respira calcio di continuo. L’incredibile cavalcata all’Europeo del 2004 resta ancora nell’immaginario di tutti e, in un pomeriggio qualsiasi, passeggiando nel quartiere di Thissio, i riverberi del tramonto irraggiano il Partenone

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mentre alcuni ragazzi inseguono un pallone. Proprio lì, alle pendici dell’Acropoli. La Grecia è una nazione con oltre dieci milioni di abitanti, ma poco meno della metà vive ad Atene, la cui area metropolitana offre casa a ben sei squadre di massima serie, ossia le tre big incontrastate (Panathinaikos, Olympiakos e Aek), più l’Atromitos, il Panionios e l’Apollon Smyrnis, club più antico di tutti, essendo nato nel 1891. Dietro alla fine del duopolio in campionato c’è la rinascita dell’aquila bicipite dell’Aek, tornata a volare alto dopo il dramma della primavera 2013, in cui il club retrocesse due volte, una sul campo e una d’ufficio, ritrovandosi tra i semiprofessionisti di terza serie per bancarotta. Le vicissitudini societarie ormai messe alle spalle attribuiscono ancor più valore all’annata dei gialloneri, rilanciati anche in Europa con l’avvento alla presidenza del magnate (per spedizioni marittime e petrolio) Dimitris Melissanidis, che cinque anni fa si ritrovò tra le mani un club al verde, con quasi 150 milioni di euro di tasse non pagate. Proprio nel bel mezzo di quella crisi che ha fatto vacillare l’intero Paese sull’orlo del default, zavorrandolo ancora oggi per i debiti contratti con l’Europa, nonostante dall’economia arrivino timidi segnali di ripresa.


L’aquila torna a volare L’ultimo campionato ha consacrato il ritorno al successo in campionato dell’Aek Atene dopo 24 anni di astinenza. I gialloneri riapriranno la stagione con i preliminari di Champions League, così come il Paok, che ha gettato al vento le possibilità di vincere il titolo a causa delle intemperanze tra le mura amiche. Prima lo 0-3 a tavolino contro l’Olympiakos (il tecnico dei biancorossi era stato colpito da un rotolo di carta igienica), poi la messinscena in occasione dello scontro diretto con l’Aek, quando Varela ha segnato il gol vittoria per il team di Salonicco al 90’, ma l’arbitro ha annullato per fuorigioco dopo le proteste ospiti. Si è scatenato un parapiglia, il match venne sospeso e addirittura il presidente del Paok, Savvidis, scese in campo con una pistola nella fondina: altro match perso a tavolino, in più la Federcalcio greca e il Governo decidono che non si giocherà per due settimane e ai bianconeri vengono inflitti tre punti di penalizzazione (più due per il torneo successivo). Ripartiranno invece dall’Europa League Olympiakos (vincitore degli ultimi 19 campionati su 21), Atromitos e Asteras Tripolis. Le retrocesse Platanias e Kerkyra lasciano spazio alle neopromosse Ofi Creta e Aris Salonicco. Il capocannoniere del massimo campionato (19 reti) è stato Aleksandar Prijovic, attaccante classe ‘90, svizzero, ma naturalizzato serbo, giramondo del pallone tanto da debuttare anche in serie A con il Parma. Giocando una sola partita nella stagione 2007/2008.

Per andare alle origini dell’Aek bisogna prendere la linea 1 della metro, quella che porta a nord di Atene, tenendo presente che l’attuale sistemazione dei gialloneri è del tutto temporanea. Dopo la demolizione del vecchio Nikos Goumas sono stati dirottati sullo stadio Olimpico Spyros Louis, rimesso a nuovo per le Olimpiadi del 2004 e intitolato all’atleta che vinse la prima maratona dei Giochi Olimpici moderni, nel 1896, entrando trionfante allo Stadio Panatenaico. Una bellezza interamente

in marmo, da ammirare ancora oggi in pieno centro, nei pressi della collina dell’Ardetto. Quanto prima il club di Melissanidis tornerà a tutti gli effetti alle origini. Per 65 milioni di euro è già in costruzione l’Agia Sophia Stadium nel quartiere di Nea Filadelfia, a poca distanza dal complesso olimpico, dove nel 1924 la squadra venne fondata da un gruppo di immigrati ellenici in fuga da Costantinopoli, l’odierna Istanbul, per via del conflitto con la Turchia. La K nel nome societario è un tributo alle radici

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reportage atene (Kōnstantinoupoleōs), da condividere con il Paok Salonicco, anch’esso fondato da rifugiati nell’antica Tessalonica. Il nuovo impianto ateniese, il cui progettista architetto è Massimo Majowiecki, lo stesso dello Juventus Stadium, non a caso sarà intitolato a Santa Sofia, oggi uno dei principali monumenti di Istanbul, ma a suo tempo cattedrale greco-ortodossa e sede del Patriarcato di Costantinopoli. In questo sobborgo ateniese tutto rimanda a quelle origini, il giallo e il nero dell’aquila a due teste portano il messaggio di voler dominare da est a ovest, ricordano la dinastia dei Paleologi, l’ultima capace di governare l’impero bizantino. E in generale il logo del club ricalca quello della Chiesa greco-ortodossa perché in fondo “pure il calcio” - come affermò lo scrittore spagnolo Montalbán - “è una religione in cerca di Dio”. Nel quartiere ci sono anche tanti riferimenti di lotta politica, storicamente i tifosi gialloneri sono di estrema sinistra, spesso viene fatta propaganda durante le partite di calcio, e hanno un forte legame con il quartiere Exarchia, non lontano dal centro, zona franca dei centri sociali e una delle realtà anarchiche più longeve in Europa. Qui in tanti si sono adoperati in prima persona per accogliere i migranti, in campionato hanno esposto uno striscione eloquente “Aek madre di tutti i rifugiati” (“Aek mana olon ton prosfugon”) e da tempo il clima di tensione è alto per

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Il miracolo degli dei Un poema epico probabilmente irripetibile. È la Grecia guidata dal tedesco Otto Rehhagel che si aggiudica gli Europei del 2004 disputati in Portogallo. Contro ogni pronostico, da sorpresa indiscussa, guidata dal capitano Zagorakis, dalla solidità di Dellas, dai gol di Charisteas, dalla grinta di Karagounis e Katsouranis. La nazionale ellenica supera un girone piuttosto ostico con Portogallo, Spagna e Russia. Poi arriva fino in fondo con tre 1-0 di fila nella fase a eliminazione diretta: in sequenza cadono Francia, Repubblica Ceca e ancora i lusitani padroni di casa, piegati nella finalissima di Lisbona dall’inzuccata vincente di Charisteas, all’epoca punta del Werder Brema, cresciuto nell’Aris Salonicco. Prima di quel giugno del 2004 la Grecia aveva disputato un Europeo e due Mondiali, ottenendo scarsi risultati, poi - di diritto - è arrivato l’ingresso eterno nella storia del calcio. Grazie agli dei dell’età contemporanea.

via dell’ascesa politica di Alba Dorata, partito di estrema destra e nazionalista. Dalla stagione 2010/2011 era stato solo e soltanto l’Olympiakos ad aggiudicarsi la Super League greca, instaurando una dittatura che lo ha visto abdicare proprio in favore dell’Aek sia per quanto riguarda il titolo sia


per la coppa nazionale, con l’eliminazione ai quarti. Data l’ovvia rivalità, le due formazioni condividono unicamente la metropolitana, visto che la linea 1 attraversa molti distretti cittadini e fa capolinea proprio al Pireo, baluardo della compagine biancorossa, per antonomasia simbolo dei portuali, dai quali nacque nel 1925. L’ideale originario, come si evince dal nome, ricalcava quello dei Giochi Olimpici antichi e l’effigie della squadra reca il volto di un atleta coronato d’alloro, che sintetizza i valori di moralità, sportività e splendore indicati nell’ideale a cinque cerchi dell’Ellade. Un giro al Pireo, in un qualunque giorno della settimana, racchiude il senso di “porto di mare”, tra navi pronte a salpare, traffico impazzito, pita gyros da portar via, il limitrofo mercato del pesce e un disordine perenne tra viaggiatori che arrivano da ogni dove. Proprio perché il Piraes è il maggiore porto d’Europa per passeggeri, il più grande del Mediterraneo e viene citato già ne “La Repubblica”, opera filosofica di Platone risalente al 390 a.C. circa, dove il dialogo inizia con Socrate: “Ieri scesi al Pireo con Glaucone, figlio di Aristone…”. Poco distante dalla zona degli imbarchi, di fronte a piazza Themistokleous, si trova la Cattedrale ortodossa del Pireo, della Santissima Trinità, ri-

costruita dopo la seconda guerra mondiale. Per trovare gli erithrolefki (i rossobianchi) non bisogna invece scendere al capolinea del metrò, bensì una fermata prima, a Faliro, uno dei quartieri portuali che originariamente dava il nome all’odierno Geōrgios Karaiskakīs, nato come velodromo per il ciclismo nel 1895, a ridosso delle prime Olimpiadi della storia moderna. Già dall’esterno è facile notare come sia diventato uno degli impianti più attrezzati d’Europa, non a caso insignito con quattro stelle da parte dell’Uefa. Il Karaiskakis rispecchia molto la “grandeur” del club più titolato di Grecia (44 scudetti) e anche le ambizioni del suo discusso patron, Evangelos Marinakis, approdato sulla scena nel 2010 per inaugurare l’ennesima epoca d’oro di questo club, ma anche attirando ombre e parecchi dubbi sulla liceità delle sue operazioni. L’armatore natìo proprio del Pireo, eletto anche consigliere comunale locale con una lista civica, vanta un patrimonio netto di circa 650 milioni di dollari, si è ritrovato a fare i conti con l’accusa di corruzione, di associazione a delinquere per aver tentato di alterare i risultati sul campo, di intimidazioni agli arbitri e perfino con un iter avviato dalla Procura locale dopo che su una delle sue novanta navi a disposizione è stato compiuto un mega sequestro di cocaina. Ultimamente però l’attenzione dell’intera capitale si è spostata sulle

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reportage atene sorti del Panathinaikos, alle prese con una profonda crisi di risultati derivante da notevoli difficoltà economiche: sul campo la squadra ha evitato la retrocessione facendo siglare il record negativo di punti nella sua storia, dal punto di vista societario è sommerso di debiti tanto che per questioni di fair play finanziario l’Uefa l’ha escluso dalle competizioni europee per i prossimi tre anni. Un colpo durissimo per un club che rischia un tracollo simile a quello vissuto dall’Aek e che ha portato la Super League a imporre restrizioni sui trasferimenti, ma anche a votare una mozione che scongiurasse una retrocessione d’ufficio per inadempienze finanziarie, come accaduto con l’Iraklis di Salonicco un anno fa. L’azionista di maggioranza del Pana, Giannis Alafouzos, proprietario di Skai Tv e del quotidiano conservatore Kathimerini, sarà costretto a passare la mano, così come per adesso è stato accantonato il progetto di costruire un nuovo stadio nel distretto di Votanikos. Per il calcio greco è l’ennesimo travaglio. È un mondo che fatica a trovare pace, con un campionato sospeso quattro volte in altrettante stagioni, con problemi di ordine pubblico e dubbie regolarità delle competizioni che si ripresentano ogni anno. E perfino un presidente, Ivan Savvidis del Paok, sceso in campo con una pistola. Eppure le origini lasciavano presagire un destino diverso, quando gli dei dell’Olimpo decisero che quella città fondata da Crecope avrebbe preso il nome dalla divinità che avesse donato agli uomini il bene più prezioso. Toccò ad Atena e fece nascere un ulivo, simbolo di pace e prosperità per tutti. Ma qualcuno sembra essersene dimenticato.

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reportage LEICESTER di Luca Manes Foto di Luca Manes

PASSEGGIANDO PER LEICESTER… Il titolo della Premier League inglese vinto nel 2015-16, vive sui muri della città…

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l volto di Claudio Ranieri, novello Giulio Cesare, con sotto la fatidica frase “veni, vidi, vici”. I giocatori e il loro manager ritratti con maestria caravaggesca. E ancora il calcio come collante di una città dove convivono tante razze e religioni diverse. Ma soprattutto una giusta celebrazione del “dodicesimo uomo”, la pacifica ed entusiasta Blue Army nella quale si sono arruolati migliaia e migliaia di tifosi e che quando urla a squarciagola fa tremare la terra. Una delle più incredibili imprese sportive degli ultimi decenni, il titolo della Premier League inglese vinto nel 2015-16, vive sui muri di Leicester, città delle Midlands Orientali e famosa fino a tre anni fa principalmente perché nei suoi paraggi perì in battaglia il controverso Re Riccardo Terzo. I resti dell’ultimo re della dinastia dei Plantageneti sono stati ritrovati in un parcheggio nel 2012 e poi reinterrati nella cattedrale tre anni dopo. Pochi mesi prima che iniziasse la “stagione perfetta” delle Foxes del quale i murales che punteggiano Leicester sembra vogliano prolungare ad oltranza l’incontestabile epicità. E così in giro per il pianeta Riccardo Terzo è stato scalzato da Ranieri e Vary. A quasi due anni dal “miracolo”, da queste

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reportage LEICESTER

parti hanno metabolizzato la pazza euforia del maggio 2016. Forse perché gli inglesi sono maestri nel gestire il post-sbornia, forse perché il senso pratico e il realismo sono ben radicati nel dna delle persone, Leicester si è scrollata di dosso il chiassoso e un po’ ipocrita circo mediatico che ha fatto da contorno al trionfo di Ranieri e compagni ed è passata oltre. Chiacchierando con i tifosi in un freddo e piovoso sabato invernale si percepisce che in pochi si illudevano che le Foxes potessero veramente entrare stabilmente nell’élite del calcio inglese e competere ogni anno con le due di Manchester, le super-potenze londinesi e il Liverpool. Qui si sono goduti alla grande ogni singolo istante, anche della travagliata stagione 2016-17, quella della storica partecipazione

alla Champions League ma pure di un campionato mediocre, con corollario dell’allontanamento dell’“imperatore” Ranieri. “Imperatore” che qui amano in maniera incondizionata, nonostante sia stato detronizzato. Le bancarelle fuori allo stadio vendono ancora le spillette con il faccione sorridente dell’allenatore testaccino e quando sul maxi-schermo dell’arena prima della partita scorrono le immagini proprio di Ranieri che solleva la coppa della Premier è un florilegio di applausi e occhi lucidi. Non potrebbe essere altrimenti; possiamo solo provare a immaginare che piacevole cascata di emozioni abbia investito i supporter delle Foxes in quei 10 mesi infarciti da una sequela di miracoli calcistici. Difficilissimo però che quel trionfo si possa

FILBERT STREET/KING POWER STADIUM La capienza ufficiale del King Power Stadium – già Walkers Stadium sempre per questioni di sponsor – è di 32.500 spettatori. Quasi 10mila unità in più rispetto alle ultime annate di servizio dell’ormai defunto Filbert Street, che però quando c’era modo di stipare le gradinate fino all’inverosimile in un’occasione ospitò addirittura 47.298 tifosi. Era il febbraio del 1928 e in tanti si accalcarono nell’impianto per assistere a un match di quinto turno di Coppa d’Inghilterra contro il Tottenham Hotspur. Tutte le End – South, Popular, Main e Filbert Street – avevano i classici piloni piantati tra le tribune allo scopo di sorreggere la copertura che impedivano una visuale perfetta del campo. Un inconveniente che le arene di nuova generazione, quale il King Power Stadium, non hanno. A proposito di nomi, in realtà da queste parti parecchi preferiscono chiamare la “casa moderna” delle Foxes Filbert Way, vista la vicinanza con la storica sede del club. L’addio allo stadio di tante battaglie, dopo 111 anni di onorato servizio, arrivò nel 2002, con l’ultimo match della di quella stagione, vinto 2-1 contro il Tottenham.

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ripetere a breve. Certo, il club è solido, la proprietà thailandese non lesina investimenti e il sistema Premier, con una più equa divisione dei ricchissimi proventi dei diritti televisivi, assicura almeno una parvenza di equilibrio. Parvenza, perché riuscire a stare al passo del Manchester City con alle spalle il fondo sovrano degli Emirati Arabi, il Manchester United miliardario brand globale o il Chelsea dei petro-rubli di Roman Abramovich è ben altro discorso. Così, in un calcio sempre più polarizzato e nonostante il Leicester nel 2016-17 si sia piazzato 15esimo nella classifica dei team con i ricavi più alti d’Europa con incassi oltre i 260 milioni di euro, è stato costretto a cedere qualche pezzo pregiato della squadra del 2015-16 (Kantè, Drinkwater), e chissà quanto potrà resistere alle sontuose offerte delle grandi inglesi ed europee per gente del calibro di Mahrez e Vardy. Già Jamier Vardy, l’ex operaio diventato professionista molto tardi, incarna alla perfezione lo spirito dell’underdog, che è pure il titolo di una amatissima canzone dei Kasabian. Piccolo excursus musicale: i Kasabian stanno al Leicester City come gli Oasis al Manchester City – e non a caso i brani della band locale sono un must per l’intrattenimento pre-partita e nel club shop c’è una loro linea di abbigliamento a tema Foxes. Tornando a Vardy, lui non si smentisce mai. Anche durante il match contro il Watford che abbiamo seguito dal vivo si batte come un leone, ricevendo il giusto tributo di lodi dai supporter locali, dei quali è l’idolo

assoluto. È senza dubbio il degno erede di Gary Lineker, grande bomber degli anni Ottanta e Novanta, ora commentatore televisivo dello storico programma della BBC Match of the Day. Quello che fece la promessa – poi mantenuta – di rimanere in boxer qualora le Foxes avessero vinto il campionato e che al suo arrivo bollò Ranieri come un mediocre. A Lineker, enfant du pays, è dedicata una delle strade prospicienti allo stadio, dove prima c’era il vecchio impianto. Il glorioso Filbert Street, 111 anni di onorata carriera e una tribuna iconica del calcio inglese ante Premier, la South Stand, denominata Double Decker per la sua forma molto simile a un tipico bus londinese, fu buttato giù nel 2003 per far spazio a una speculazione edilizia poco riuscita. Ora al suo posto c’è solo un ostello studentesco e un enorme spiazzo pieno di erbacce e lattine di birra accartocciate, che però torna utile come parcheggio per le partite. Sì, perché uno dei punti di forza della nuova arena, nonostante pecchi di personalità e somigli fin troppo ad altre spuntate in giro per l’Inghilterra negli ultimi decenni, è che si trova a pochi passi dal centro della città proprio come il defunto Filbert Street. Quindi i luoghi del pre-partita sono gli stessi di prima. Un fattore di fondamentale importanza per un Paese dove la match-day experience (pinta di birra al pub con gli amici e tortino salato o hamburger allo stadio) è una religione. E poi al King Power Stadium, il quale deve il suo nome al gruppo thailandese che gestisce i duty free degli aeroporti, l’atmosfera è piacevolmente d’altri tempi, con cori spontanei per buona parte dei 90 minuti di gioco. Qui vale e sempre varrà il principio molto inglese del “Support Your Local Team”, fai il tifo per la squadra della tua città, come ci conferma Henry, abbonato da 30 anni alle Foxes. Lui c’era nel 2008-09, quando il Leicester finì addirittura in terza serie, ovviamente in quell’incredibile 2015-16 e c’è ancora adesso. “Tutto sommato per una realtà come la nostra an-

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reportage LEICESTER LA STORIA DEL LEICESTER Le Foxes sono nate nel 1884, grazie all’intuizione di alcuni studenti della Wyggeston School, un college tutt’ora in attività. Fino al 1919 la denominazione è stata in realtà Leicester Fosse, dal nome della strada vicino la quale si trovava il primo campo di gioco. Filbert Street fu il sesto degli impianti occupati dalla compagine che già nel 1890 era entrata a far parte della Football Association e nel 1894 era tra le iscritte alla Second Division (l’attuale Championship). La prima promozione è arrivata nel 1908. Da allora il club ha fatto lo yo-yo tra la massima serie e quella cadetta, con il tonfo in terza divisione nel 2008-09, nadir della sua storia, poco dopo controbilanciato dall’incredibile successo in Premier. Le uniche altre affermazioni sono state le tre vittorie in Coppa di Lega nel 1964, nel 1997 e nel 2000, mentre in FA Cup le quattro finali raggiunte fra il 1949 e il 1969 hanno riservato sempre e solo delusioni – il Leicester è l’unica squadra ad aver raggiunto così tanti atti conclusivi della Coppa d’Inghilterra senza mai vincerla.

che un settimo posto è un grande risultato! Tranquillo, siamo tornati con i piedi per terra, per noi quel che conta è sostenere i nostri ragazzi. Poi se si ripetesse qualche miracolo...”, chiosa in maniera allusiva Henry. Non sarà più però un miracolo quotato 5000 a 1 (che fruttò 25mila sterline a un fan preveggente), come rammenta una delle pezze appiccicate sul muro alle spalle della singing section dei tifosi biancoblu. Si badi bene, quell’ampio settore dello stadio prevede che il match si segua rigorosamente in piedi, come ai vecchi tempi delle terraces (le gradinate presenti in tutte le arene del Regno Unito). Come abbiamo notato negli ultimi anni durante le nostre frequenti puntate in Inghilterra, ormai pressoché ovunque gli steward si sono arresi e permettono alla fetta più calda della tifoseria (il che equivale spesso a intere tribune) di non stare

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seduta, come invece imporrebbero le regole – tanto che in Premier e in Championship le terraces non sono state “vietate”. Una buona notizia per chi auspica il ritorno alla passione e al coinvolgimento emotivo e canoro – al netto delle intemperanze degli hooligan – che c’era negli stadi britannici nei decenni fra i Sessanta e gli Ottanta. Last but not least, a proposito dei supporter del Leicester, due ore prima dell’inizio delle partite casalinghe un gruppetto si ritrova davanti al King Power Stadium per raccogliere donazioni per le food bank, le banche del cibo che in Inghilterra sono sempre più indispensabili per sopperire a un welfare state ormai messo in ginocchio da anni di governi non propriamente amici della classe dei lavoratori. Perché, come recita uno dei murales, Leicester è “Football United”.



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L M n o s u c o F Boston

di Gianfranco Giordano

LA RIVOLUZIONE

DEL SOCCER

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Un viaggio alla scoperta del calcio a stelle e strisce…

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l New England è quella parte degli Stati Uniti che comprende i sei stati dell’estremo nord est, qui arrivarono i Padri Pellegrini nel 1620 (il giorno del ringraziamento, una delle feste più sentite del paese, risale ad una cerimonia avvenuta a Playmouth nel 1621), qui ci fu la rivolta del tè e qui venne fondata la prima squadra di calcio degli Stati Uniti. Il calcio ha una lunga tradizione negli Stati Uniti, soprattutto nel New England, anche se solo a partire dagli anni ‘90 si è raggiunto un livello apprezzabile di gioco e di organizzazione mentre la Nazionale ha cominciato a partecipare in modo continuativo ai campionati mondiali. Il primo club a cimentarsi nel football fu l’Oneida Foot Ball Club, fondato a Boston il 21 novembre 1862 si esibiva al Boston Common, il parco più grande della città situato in zona centrale, ed era formato da ragazzi della classe agiata provenienti dalle scuole più esclusive. L’Oneida rimase in attività fino al 1865 senza mai perdere una partita e senza mai concedere gol agli avversari, i giocatori non avevano una divisa, ma si distinguevano perché indossavano un fazzoletto rosso al polso. Nel decennio successivo nelle università si diffuse il rugby, successivamente il gioco con la palla ovale verrà chiamato american football e rimarrà lo sport delle classi elevate, mentre il calcio divenne sport ad appannaggio della working class. A Boston c’è Harvard, la più antica e forse la più prestigiosa università degli Stati Uniti, la scelta di Harvard di giocare a football (gli Harvard Crimson hanno cominciato l’attività agonistica nel 1873) ha in pratica bloccato la diffusione del soccer in città per molti anni. Mentre basket, football e baseball co-

minciavano a far parte della vita sportiva del paese, il soccer, così viene chiamato il calcio negli States, rimaneva ai margini, giocato prevalentemente dagli immigrati, anche se molti di questi preferivano passare al baseball perché aiutava il loro inserimento nel tessuto sociale. Per tutti gli anni Venti il soccer visse una prima età dorata, finita poi a causa della depressione economica e di lotte di potere tra le varie associazioni che gestivano il soccer al tempo. Bisogna aspettare la seconda metà degli anni ‘60 quando, a seguito del successo dell’Inghilterra nei mondiali del 1966, nel 1968 venne fondata la North American Soccer League e nel Nord America ci fu un rinnovato interesse verso il calcio. A Boston in questi anni si alternarono diverse squadre, a differenza che nel resto del mondo negli Stati Uniti non esisteva il fenomeno della squadra radicata sul territorio a contatto con i tifosi, così i club venivano gestiti in maniera esclusivamente aziendale e nascevano e morivano rapidamente in base a motivi economici. Le squadre che difesero l’onore calcistico di Boston furono Metro, Rovers, Beacon, Astros, Minutemen (nel 1975 Eusebio giocò 7 partite con la maglia di questa squadra) e Tea Men, senza comunque mai riuscire a vincere il titolo. La seconda età dell’oro per il soccer arriva negli anni ‘90 a seguito dell’organizzazione degli Stati Uniti dei mondiali di calcio del 1994, due anni più tardi parte anche il progetto della Major League Soccer,

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espressamente richiesto dalla FIFA per l’assegnazione della Coppa del Mondo. Il mondiale statunitense raggiunse vette di interesse e presenze negli stadi da record e lanciò il soccer in grande stile. Nel 1995 viene fondato il New England Revolution, su ispirazione dei Patriots: l’idea è quella di rappresentare tutta la regione e non solo la città di Boston, colori e stemma richiamano la bandiera degli Stati Uniti (il rosso rappresenta il valore e la forza, il blu rappresenta la perseveranza e la giustizia mentre il bianco rappresenta l’innocenza e la purezza) e il nome richiama l’identità rivoluzionaria della città di Boston. Il proprietario della squadra di soccer è lo stesso della squadra di football, questo spiega la similarità dei nomi e la comunanza dei colori sociali. La seconda divisa solitamente è rossa e bianca, prende spunto dalla bandiera del New England. L’esordio del Revolution avviene il 13

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aprile 1996 a Tampa Bay con una sconfitta per 2-3, il 27 aprile esordio casalingo con una vittoria per 2-1 sul DC United. L’impossibilità di trovare uno stadio abbastanza capiente per le esigenze delle squadre, è stato per molti anni il principale ostacolo per lo sviluppo del soccer e per l’espansione del football a Boston, in città non c’era posto per costruire un nuovo stadio e gli impianti disponibili non erano adeguati per diversi motivi. L’ostacolo venne superato con la costruzione del Foxboro Stadium, inaugurato nel 1971. Il Gillette Stadium è l’impianto che ospita le partite di New England Revolution e New England Patriots, entrambi i club sono di proprietà dell’uomo d’affari Robert K. Kraft nato nelle vicinanze di Boston. La realizzazione del nuovo stadio venne fortemente voluta da Kraft, il progetto fu approvato il 6 dicembre 1999 mentre i lavori cominciarono il 4 marzo 2000. Lo stadio sorge a Foxborough, 35 chilometri a sud-ovest di Boston, in prossimità della statale US Route 1 e a poche centinaia di metri del Foxboro Stadium che ospitava in precedenza le partite di football e soccer. Il proprietario aveva chiesto di ispirarsi allo stadio di Baltimora e di avere un ingresso stile Disneyland nella parte aperta dello stadio, questo spiega la presenza di un faro e di un ponte modellato sul Longfellow Bridge di Boston. La prima partita ufficiale nel nuovo stadio fu giocata l’11 marzo del 2002 dal Revolution, l’inaugurazione ufficiale avvenne il 9 settembre dello stesso anno quando i Patriots affrontarono i Pittsburgh Steelers. I diritti di sponsorizzazione vennero acquisiti dalla Gillette, multinazionale con sede a Boston, la capienza ufficiale è di 68.756 posti tutti a sedere. Lo stadio sorge in mezzo al nulla, un vasto complesso che comprende l’impianto sportivo, un grande albero, ristoranti assortiti ed un enorme centro commerciale, oltre naturalmente al parcheggio. L’ingresso allo stadio è molto più fluido che in Europa, si arriva all’entrata dello stadio dove si esibisce il biglietto e si fanno controllare borse e zaini, niente tornelli e niente strettoie. Entro


dall’ingresso sud e mi trovo in un grande corridoio largo circa quindici metri che gira intorno allo stadio, sul quale si affacciano uffici informazioni, negozi, punti ristoro e bagni, il tutto mostra efficienza e pulizia. Mi avvicino a un chiosco alla ricerca di una birra ma visto il costo, 12 dollari per una Bud, decido che è meglio un caffè. L’impatto visivo è bello, i seggiolini sono blu con due spicchi rossi a richiamare i colori delle due squadre che giocano nello stadio, terreno perfetto, due schermi giganti, pubblico numeroso, quasi tutti i presenti con sciarpa o cappellino del club. Purtroppo manca quel pathos, quella carica di emozioni che si sente negli stadi europei, è tutto troppo perfetto e ordinato per sembrare vero. Quando arrivo al mio posto mi sembra di essere a teatro, il seggiolino è comodo e spazioso, ci sono i braccioli e i posti dove mettere i bicchieri (gli americani hanno sempre in mano un bicchiere) e lo smartphone, ovviamente tutto lo stadio è coperto da una rete wi-fi gratuita e perfettamente funzionante, si possono allungare le gambe e si sta veramente comodi. Con il passare del tempo il pubblico arriva numeroso, alla fine ci saranno 42.947 spettatori, record stagionale, compreso uno sparuto gruppo di tifosi ospiti che si ispirano al tifo europeo. Nella curva nord, chiamata The Fort, ci sono i tifosi più accesi del Revolution, due gruppi indipendenti denominati The Rebellion e The

Midnight Raiders. Nonostante la bella giornata la serata è raffreddata da un’aria gelida che invita a coprirsi, molti spettatori tirano fuori dallo zaino una coperta, neanche fossero nel salotto di casa davanti al televisore. Quando entrano le squadre tutti sono in piedi con le sciarpe in alto e le bandiere, poche, al vento, i giocatori sono accompagnati da un drappello composto da quattro Marines che portano le bandiere degli Stati Uniti e del Corpo. Una volta schierati a centrocampo un sottufficiale dell’US Air Force, anche lui in mezzo al campo, canta l’inno nazionale, tutti in piedi, una mano sul cuore e via il cappello dalla testa. Anche se sei straniero non puoi fare a meno di alzarti in piedi. Comincia la partita, il drappello di tifosi ospiti si fa sentire, così come i tifosi di casa, ma continua a mancare qualcosa per sentirsi davvero in uno stadio di calcio. La partita è piacevole, vinceranno gli ospiti per 1-0, alla fine tutti si alzano e si avviano veloci verso le uscite, il pur numeroso pubblico defluisce rapidamente senza intasamenti. Il mezzo più comodo per raggiungere lo stadio è prendere un treno della MBTA, l’azienda dei trasporti pubblici di Boston, che collega la città allo stadio, il problema è che il servizio è attivo solo in occasione delle partite dei Patriots. Quando gioca il Revolution bisogna necessariamente arrivare allo stadio in macchina, da Boston si viaggia verso sud con US Route 1 oppure con

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la Interstate 95. Questo è l’unico grande intoppo di un’organizzazione fino a quel punto perfetta, causa la mancanza di mezzi pubblici si crea un mega ingorgo intorno allo stadio, gli accessi per la US1 e la IS-95 sono bloccati e ci vuole un’ora buona prima di riuscire ad allontanarsi dallo stadio. La popolarità del soccer si vede anche in giro per la città, tutti i negozi di articoli sportivi vendono abbigliamento e gadget del Revolution insieme al materiale di Patriots, Celtics, Bruins e Red Socks. Visto che sono a Boston ne approfitto anche per andare a vedere una partita dei Celtics al TD Garden, palazzo dello sport che ospita anche le partite dei Bruins, impegnati nella NHL. Al piano terra c’è la North Station, treni e metropolitana, mentre ai piani superiori si trova il palazzo dello sport. Sicuramente l’atmosfera è più calda rispetto al soccer, anche perché prima della partita e durante i tre intervalli del match ci sono diversi intrattenimenti per il pubblico che partecipa molto attivamente, cose molto americane. Il pezzo forte degli impianti sportivi cittadini è sicuramente Fenway Park, la casa dei Red Sox dal 1912, un impianto che trasuda storia ed emozioni alla sola vista. La popolarità delle squadre si nota anche dai negozi ufficiali, mentre Patriots e Red Sox hanno dei supermercati nei pressi dei rispettivi stadi, moderno e scintillante il primo più datato l’altro, Celtics e Bruins dividono un bel negozio all’interno del palazzetto infine il Revolution ha dei chioschi lungo i corridoi interni dello stadio. PERCHÉ IL CALCIO È CHIAMATO SOCCER Nell’America del Nord, in Oceania e in Sud Africa il calcio viene chiamato soccer, soprattutto in America del Nord e in Australia quando si parla di football si parla di due sport con la palla ovale simili al rugby. Nella seconda metà del 1800 in Inghilterra si giocavano il football con le regole di Rugby e il football con le regole dell’Association, nello slang del tempo le due discipline venivano chiamate

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“rugger” e “assoc”. Con il passare del tempo la parola assoc è diventata soccer, nel Regno Unito le parole football e soccer sono state usate fino agli anni 60, quando il termine soccer ha cominciato a essere usato con meno frequenza. Ancora adesso viene pubblicata la rivista World Soccer. Quando il calcio cominciò a diffondersi negli Stati Uniti il football si era già radicato nella versione con la palla ovale, per non creare confusione lo sport con la palla tonda venne chiamato soccer. CONTROFIGURE IN CAMPO Nel 1966 un gruppo di imprenditori sportivi formò un consorzio chiamato North American Soccer League, con l’intenzione di costituire un campionato di calcio professionistico in Nord America. Quasi subito la FIFA e la Federazione statunitense riconobbero il consorzio, accreditandogli lo status di campionato di Prima Divisione da disputare nel 1968. Poco dopo nacque un altro consorzio denominato National Professional Soccer League, a questo punto, per evitare confusione tra i due campionati, il primo consorzio venne rinominato American Soccer Association. La ASA, forte del riconoscimento avuto dalle istituzioni calcistiche, cominciò ad attivarsi, concludendo contratti con gli sponsor e con i proprietari degli impianti sportivi e costituendo le franchigie che avrebbero partecipato al campionato. Contemporaneamente la


NPSL concluse un accordo per i diritti televisivi con la CSB, questo accordo determinò la migrazione dei calciatori dalle franchigie della ASA alle squadre della NPSL, attirati da ingaggi migliori. Messi alle strette i dirigenti della ASA ebbero un colpo di genio, decisero di anticipare il campionato di un anno per spiazzare la concorrenza importando in blocco squadre da Europa e Sud America. Arrivarono nel Nord America i brasiliani del Bangu, gli uruguaiani del Cerro, gli olandesi dell’ADO Den Haag, gli italiani del Cagliari, i nord irlandesi del Glentoran, gli irlandesi dello Shamrock Rovers, tre compagini scozzesi, Aberdeen, Dundee United ed Hibernian e tre inglesi, Stoke City, Sunderland e Wolverhampton Wanderers. Le squadre ospiti giocarono con i nomi e le divise delle squadre della ASA e vennero distribuite, per la maggior parte, tenendo conto della distribuzione degli immigrati nel territorio. Quindi le squadre irlandesi a Boston e Detroit, gli italiani a Chicago, gli uruguaiani a New York, gli scozzesi a Washington e gli inglesi a Cleveland. Curiosa la destinazione del Wolverhampton a Los Angeles, Wolves che giocano al posto dei Wolves. Il torneo cominciò il 27 maggio con la partita tra Houston Stars e Los Angeles Wolves davanti ad una folla record di 34.965 spettatori. Il torneo durò due mesi e si concluse al Coliseum di Los Angeles con la vittoria dei Los Angeles Wolves. Partita spettacolare, giocata

davanti a 17.842 spettatori, conclusasi al golden goal dopo i supplementari, con due triplette, tre rigori, di cui uno sbagliato ed uno segnato all’ultimo minuto dei tempi supplementari, e quattro reti segnate in quattro minuti nel secondo tempo regolamentare. Partita dura, con molti falli e qualche accenno di rissa. Capocannoniere del torneo Roberto Boninsegna con 21 punti, 10 reti ed un assist. Secondo la tradizione del calcio nordamericano vennero assegnati due punti per ogni rete segnata ed un punto per ogni assist. Alla fine del 1967 la CBS, in considerazione dello scarso interesse mostrato dal pubblico per le partite, decise di non rinnovare l’accordo con la NPSL, le due leghe si resero conto dell’impossibilità di andare avanti e decisero di fondersi dando vita alla North American Soccer League che cominciò l’attività nella primavera del 1968. PELÉ, CHINAGLIA E LA NASL Grazie all’ingresso di gruppi industriali importanti, negli anni ‘70 e ‘80 il soccer raggiunse livelli di gioco e interesse mai visti prima. I più famosi calciatori di Europa e Sud America, attratti da ingaggi faraonici e da richieste di prestazioni limitate, affluirono in massa nelle squadre della NASL. Si trattava perlopiù di giocatori a fine carriera alla ricerca di un ultimo ingaggio ma non mancarono giocatori ancora in auge che fecero una scelta professionale diversa, molti decisero anche di giocare in estate negli States mentre i campionati europei erano fermi. Tra i tanti ricordiamo Pelè, Chinaglia, Cruyff, Beckembauer, Best, Eusebio, Banks ma anche Prati e Bettega. Oltre ai giocatori la lega si fece notare per le divise, molto accattivanti in puro stile americano. Il fenomeno NASL crebbe rapidamente e altrettanto rapidamente crollò su se stesso, nel 1985 la lega dichiarò il fallimento, il monte ingaggi eccessivo e la mancanza di introiti televisivi decretarono la condanna alla chiusura.

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Nuova tappa del nostro giro delle maglie… Siamo in Svizzera!

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vizzera e Danimarca sono i primi paesi dell’Europa continentale in cui si diffonde il football, nella Confederazione il calcio viene importato da inglesi che studiavano nei prestigiosi istituti tecnici elvetici e da ragazzi svizzeri che ritornavano a casa dopo un soggiorno di studio in

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Inghilterra. La prima società sportiva svizzera ad introdurre il calcio tra le sue attività dovrebbe essere il Lausanne Football and Cricket Club, fondata nel 1860 da studenti inglesi, il condizionale è d’obbligo per la mancanza di documentazione scritta. La prima partita di calcio si sarebbe svolta nel


cortile di una scuola privata nel periodo compreso tra il 1860 e il 1870, anche in questo caso non esistono documenti ufficiali ma solo leggende. Il 19 aprile 1879 viene fondato il San Gallo, la squadra elvetica più vecchia tra quelle ancora in attività, questa volta esistono documenti a certificare l’evento. Nel 1897 quattro studenti dell’Univertità di Berna, i fratelli Max e Oscar Schwab insieme a Hermann Bauer e Franz Kehrli, giocarono una partita con la squadra degli Old Boys Basel contro l’FC Bern, sodalizio presente in città dal 1894 con colori rosso e nero. L’esperienza entusiasmò i quattro ragazzi che decisero di fondare una squadra di calcio, il 14 marzo 1898 nacque l’FC Young Boys Bern, al tempo andava di moda in svizzera usare denominazioni in lingua inglese per i club sportivi (tra gli altri ricordiamo il Grasshopper e lo Young Fellows), colori il giallo e il nero del club basilese. Lo Young Boys gioca la sua prima partita il 17 giugno 1898 contro i bianconeri dell’FC Viktoria, una vittoria di cui non si conosce il risultato. Non avendo un campo di gioco lo Young Boys si appoggiò all’FC Bern che propose al nuovo sodalizio di svolgere l’attività calcistica come sezione studentesca del club più importante. Presto i rapporti tra i due gruppi si guastarono, il 14 dicembre l’FC Bern impose un ultimatum allo Young Boys, o entravano a tutti gli effetti nell’FC Bern, abbandonando le velleità di avere una loro struttura autonoma oppure dovevano andare per la loro strada senza poter usufruire delle strutture del club rossonero. Il 30 dicembre i Gialloneri decisero per la completa autonomia, nacque così un’aspra rivalità tra i due club. Lo Young Boys in questi primi anni di attività indossava una maglia giallonera a righe orizzontali con pantaloncini e calzettoni neri, e si esibiva sul campo di Schwellenmätteli, un prato in una zona centrale della città sotto il Kirchenfeldbrücke, questo favoriva l’affluenza del pubblico, ma vicino all’Aar il fiume che

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bagna Berna e che spesso allagava il campo da gioco. Il 17 agosto 1900 lo Young Boys venne ammesso alla federcalcio elvetica e nove giorni dopo giocò il primo derby con l’FC Bern davanti a 3000 spettatori, 1-1 il risultato. Per la stagione 1900/01 lo Young Boys, che indossava una camicia nera e giallo oro divisa a quarti venne inserito nel Girone Ovest della Serie B, vinto il girone i Bernesi vennero sconfitti in finale dal Fortuna Basilea per 3-2 ottenendo comunque la promozione. La stagione seguente i Gialloneri giocarono la loro prima stagione in Serie A vincendo il Girone Centro, nel triangolare per il titolo si classificarono secondi dietro allo Zurigo ma davanti all’FC Bern. Nella stagione 1902/03 maglia nera e giallo oro a strisce verticali con collo a camicia chiuso da bottoni, pantaloncini neri e calzettoni neri con bordi giallo oro, i Bernesi giocano da questa stagione sul terreno di Spitalacker Platz e diventano campioni nazionali per la prima volta battendo nel gironcino finale Zurigo e Neuchâtel. Nel 1905, 1906 e 1908 lo Young Boys superò la prima fase senza però riuscire a vincere il titolo, ma negli anni 1909, 1910 e 1911 riuscì a vincere il titolo per tre anni di fila, sequenza fino ad allora mai riuscita a nessuna squadra. Dalla stagione 1911/12 lieve cambio stilistico, la divisa è pressoché uguale ma la maglia presenta un collo a girocollo chiuso da laccetti. La Sviz-

zera è neutrale e durante la Prima Guerra Mondiale il calcio non subisce interruzioni, i Bernesi ottengono un secondo e un terzo posto. Va bene la neutralità ma il conflitto incide anche sulla Svizzera, nel 1918 il campo di Spitalacker Platz viene requisito dalle autorità per farne un terreno destinato alla coltivazione di patate, lo Young Boys sarà ospite dell’FC Bern a Kirchenfeld per un anno e successivamente otterrà di giocare sul prato della caserma di Papiermühlestrasse. Qui i Gialloneri diventano campioni nazionali per la quinta volta nel 1920, nella stagione successiva ritorneranno a giocare a Spitalacker Platz. Nel 1925 il club cambia denominazione in Berner Sport Club Young Boys, nell’ottobre dello stesso anno abbandona Spitalacker Platz, il cui terreno era diventato impraticabile, a favore del Wankdorf stadion, un impianto moderno con una capienza di 22.000 spettatori, viene anche stipulato un trattato di amicizia con l’FC Bern per porre fine ad un lungo periodo di rivalità. Nel 1935/36 piccoli cambiamenti nella divisa, la maglia ha le strisce verticali più sottili, sempre collo a camicia chiuso da laccetti e i calzettoni sono neri con un risvolto giallo scuro, dopo due anni si torna ad una maglia con le strisce più larghe. La Svizzera rimane neutrale anche nel secondo conflitto mondiale e l’attività agonistica prosegue senza soste, nella stagione


1940/41 lo Young Boys scende in campo con una curiosa divisa composta da maglia gialla con bordi neri e fascia orizzontale nera, al centro della quale c’è un vistoso stemma con le iniziali del club, pantaloncini neri e calzettoni gialloneri a righe orizzontali. La stagione seguente si torna ad una divisa classica con la maglia a strisce orizzontali e calzettoni neri con vistoso bordo giallo nero. Al termine della stagione 1946/47 lo Young Boys è retrocesso per la prima volta in Divisione Nazionale B, ritornerà in massima divisione nel 1950/51. Nel 1949/50 netto cambio di stile, vengono abbandonate le strisce a favore di una camicia giallo oro con collo a camicia nero e polsi dello stesso colore, pantaloncini neri e calzettoni gialloneri a righe, sul petto compare il monogramma YB ricamato, la divisa rimane invariata fino alla stagione 1956/57 quando i calzettoni diventano neri con risvolto giallo. Nella stagione successiva compare una divisa decisamente più moderna, maglia gialla con collo a girocollo nero, pantaloncini gialli e calzettoni gialli con risvolto nero, divisa semplice, elegante e bellissima che rimarrà invariata per parecchie stagioni. Con questa divisa i Bernesi arrivarono fino alla semi finale della Coppa dei Campioni nel 1959, eliminati dai francesi del Reims e al decimo campionato nazionale vinto nel 1960. Nella stagione 1970/71 compare per la prima volta il logo dello sponsor tecnico, la francese Le Coq Sportif che propone una maglia gialla con collo a V con doppio bordino nero, pantaloncini nuovamente neri e calzettoni gialli con doppio bordo nero, dopo due anni si passa alla Adidas che veste i Bernesi con una maglia gialla con collo a girocollo nero e le classiche tre strisce sulle maniche, pantaloncini neri e calzettoni gialli con bordi neri. Nel 1975/76 arriva la Puma che ripropone il collo a V nero e strisce più importanti sulle maniche, nelle due stagioni seguenti ritorna la divisa degli anni sessanta composta da

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maglia gialla con collo nero a girocollo, pantaloncini gialli e calzettoni gialli con bordi neri, sulle maniche e sui pantaloncini ci sono le strisce della Puma. Nella stagione 1978/79 il collo è nero a camicia chiuso davanti da un triangolo nero, compare sulla maglia per la prima volta il logo di uno sponsor commerciale, il quotidiano locale Berner Zeitun (curiosa la scelta del concorrente Der Bund di pubblicare fotografie delle partite con lo sponsor cancellato), nella stagione 1979/80 la divisa è invariata, mentre la stagione seguente tornano i pantaloncini neri. Nella stagione 1981/82 e seguente una maglia in due tonalità di giallo divisa in orizzontale con collo a camicia nero chiuso a V sul davanti, i pantaloncini sono gialli ed i calzettoni gialli con bordi neri. Per la stagione 1983/84 la Puma propone una maglia molto elegante, gialla con righine nere molto sotti-

li, il collo è nero a camicia chiuso a V sul davanti e sulle spalle ci sono le strisce nere dello sponsor tecnico, pantaloncini e calzettoni rimangono invariati. La stagione seguente si alterna la divisa precedente con una nuova divisa composta da maglia gialla, il busto offre un gradevole effetto lucido e opaco a strisce orizzontali, con maniche nere e collo è nero a camicia chiuso a V sul davanti, pantaloncini neri e calzettoni gialli con risvolto nero, questa seconda divisa, molto amata dai tifosi bernesi, verrà indossata anche nella stagione seguente. Per le stagioni 1986/87 e seguente una maglia simile ma con maniche gialle e collo a V nero. Nel 1988/89 viene proposta una maglia bizzarra, la parte anteriore è divisa in quattro parti, due a strisce verticali giallo nere e due a strisce orizzontali mentre la parte posteriore e le maniche sono completamente


gialle. Per le stagioni 1990/91 e seguente maglia giallonera a strisce verticali con ampia fascia gialla diagonale per ospitare lo sponsor commerciale e i numeri. Le stagioni 1992/93 e seguente lo Young Boys indossa una divisa completamente gialla con motivi a scacchiera sulla maglia e sui pantaloncini. La Puma chiuderà la sua sponsorizzazione nella stagione 1994/95 con una maglia gialla con collo a V ed inserti sulla parte destra e sulle maniche di colore bianconero. Nella stagione 1995/96 la fornitura delle divise passa alla Reusch, ditta di Bolzano specializzata prevalentemente nella fabbrica di guanti per portieri e alpinisti, che propone una divisa molto sobria composta da maglia gialla con collo a camicia nero con bordino giallo, pantaloncini neri e calzettoni gialli con inserti neri. La stagione seguente ritorna la Adidas che propone una maglia giallonera a quarti nella parte anteriore mentre la schiena è completamente gialla e una seconda divisa interamente gialla con il logo in formato XL sulla spalla destra in nero, in entrambi i casi i pantaloncini sono neri e i calzettoni giallo neri a righe. Nelle stagioni 1998/99 e 1999/2000 maglia gialla con collo a V nero e fianchi neri, pantaloncini neri e calzettoni gialli con bordini neri. Dal 2000 le divise cambiano cadenza annuale, dopo un alternarsi di Adidas, Umbro e Gems, dalla stagione 2007/08 il fornitore tecnico è nuovamente la Puma che ha riproposto delle divise in stile classico. Alla fine della stagione 2000/01 venne demolito lo Stadion Wankdorf, qui si era giocata la finale della Coppa del Mondo del 1954, al suo posto venne costruito lo Stade de Suisse, con una capienza di 31.120 è il secondo impianto della Svizzera per capienza. Durante la costruzione del nuovo impianto lo Young Boys ha giocato allo Stadion Neufeld, campo dove giocano regolarmente la squadra giovanile e l’FC Bern. Lo Young Boys non ha avuto bisogno di una maglia da trasferta vera e propria fino agli

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anni ‘70 quando, con il diffondersi delle trasmissioni delle partite in televisione, venne usata una maglia rossa, negli ultimi anni si sono vista maglie azzurre, bianche, grigie e nere. La maglia dei portieri dello Young Boys tradizionalmente è verde o nera, negli ultimi decenni il rosso è stato indossato con una certa regolarità. Fino alla Prima Guerra Mondiale sulle maglie dello Young Boys compare lo stemma cittadino, uno scudo giallorosso con un orso al centro, successivamente dal 1959 compare sul petto il monogramma del club YB, dal 1978 il monogramma è completo BSCYB. A partire dal 2002 il monogramma è racchiuso al centro di uno scudetto, prima ovale e poi rotondo con l’introduzione di una stella a simboleggiare gli undici campionati vinti. L’11 marzo di quest’anno, partita contro il Grasshoppers, sulle maglie è comparso un logo speciale per festeggiare i 120 anni del club. Dopo il campionato del 1986 e la coppa del 1987, i Gialloneri hanno avuto un lungo periodo in cui non hanno vinto nessun titolo, tre finali di coppa perse (1991, 2006 e 2009 sempre con il Sion e sempre con il minimo scarto o ai rigori) e un campionato perso all’ultima giornata nello scontro diretto contro il Basilea nel 2010. Questa serie di occasioni mancate ha portato a creare il termine “Veryoungboysen”, che significa perdere un’occasione. In questa stagione lo Young Boys è tornato ad assaporare il trionfo vincendo il campionato davanti al Basilea, i Bernesi sono arrivati anche in finale di coppa nazionale venendo sconfitti dallo Zurigo. Nel catalogo HW del Subbuteo non compare lo Young Boys ma la ref 7, classica maglia gialla con bordi neri accompagnata da pantaloncini neri e calzettoni gialli con risvolto nero rappresenta al meglio il club di Berna. Un ringraziamento a Corsin del sito footballmatchshirts.ch.

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Addio al calcio di Fabrizio Ponciroli

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TUTTI COL MAESTRO L’ultima serata del geniale Pirlo è una festa del calcio… Foto di Daniele Mascolo

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l 19 maggio 1979 nasce Andrea Pirlo, destinato a diventare uno dei fantasisti più strabilianti mai visti sui campi verdi di calcio. Il 21 maggio 2018, allo Stadio San Siro, il Campione del Mondo 2006 si è regalato una serata speciale, l’ultima da giocatore. “Volevo un addio così, con tante famiglie, bambini. Ringrazio i compagni e tutta la gente che è venuta”, le parole del Maestro. In effetti, sono accorsi in moltissimi a tributare l’ultimo saluto all’ex stella di Brescia, Inter, Reggina, Milan, Juventus e New York City. Oltre 40.000 spettatori di fede mista. “Siamo venuti a omaggiare un grande campione. In famiglia siamo milanisti e interisti ma Pirlo va oltre alle maglie che ha indossato”, ci racconta Pietro, presente al Meazza con moglie (interista) e due figli. Hanno risposto all’invito anche (quasi) tutti quei campioni e gregari che lo hanno accompagnato nella sua lunga carriera. La lista dei partecipanti a La Notte del Maestro è da premio Oscar. Snoc-

cioliamoli. Portieri: Christian Abbiati, Gianluigi Buffon, Nelson Dida e Marco Storari. Difensori: Daniele Adani, Andrea Barzagli, Daniele Bonera, Leonardo Bonucci, Marcos Cafu, Giorgio Chiellini, Billy Costacurta, Giuseppe Favalli, Ciro Ferrara, Fabio Grosso, Marek Jankulovski, Kahka Kaladze, Stephan Lichtsteiner, Paolo Maldini, Marco Materazzi, Alessandro Nesta, Massimo Oddo, Serginho, Dario Simic, Gianluca Zambrotta e Javier Zanetti. Centrocampisti: Demetrio Albertini, Massimo Ambrosini, Roberto Baronio, Cristian Brocchi, Mauro German Camoranesi, Daniele De Rossi, Alessandro Diamanti, Aimo Diana, Gennaro Gattuso, Frank Lampard, Leonardo, Claudio Marchisio, Simone Pepe, Simone Perrotta, Manuel Rui Costa, Clarence Seedorf e Marco Verratti. Attaccanti: Marco Borriello, Antonio Cassano, Hernan Crespo, Alessandro Del Piero, Alberto Gilardino, Vincenzo Iaquinta, Filippo Inzaghi, Alessandro Matri, Antonio Di Natale,

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ANDREA PIR

Addio al calcio Alexandre Pato, Fabio Quagliarella, Ronaldo “il Fenomeno”, Andriy Shevchenko, Luca Toni, Francesco Totti, Nicola Ventola, Carlitos Tevez e Christian Vieri. Allenatori: Massimiliano Allegri, Carlo Ancelotti, Antonio Conte, Roberto Donadoni e Mauro Tassotti. Ci sarebbero dovuti essere anche Kakà e Fabio Cannavaro, “fermati” da impegni personali” e Ronaldinho (aereo perso, in linea con il personaggio). Dopo mille selfie e qualche siparietto divertente (Zanetti, leggendario capitano dell’Inter, “costretto” a cambiarsi nello spogliatoio del Milan), spazio alle emozioni. Pirlo scende in campo, inizialmente, in bianco, con le White Stars. Un 11 titolare decisamente intrigante, composto da Dida in porta, difesa con Zanetti, Costacurta, Favalli e Zambrotta. A centrocampo Rui Costa, Pirlo e Lampard. In avanti il tridente PatoVieri-Del Piero. Non male. Dall’altra parte le Blue Stars con Storari tra i pali, difesa a quattro con Cafu, Bonera, Materazzi e Ser-

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ginho. A centrocampo Ambrosini, Albertini e Seedorf. Attacco faraonico con Shevchenko, Quagliarella e Cassano. Lo show in campo è garantito dall’incredibile quantità di talento presente. Il primo a strappare applausi al divertito pubblico è Shevchenko. Il mitico “7” rossonero apre le marcature alla sua maniera. Si susseguono i gol, alcuni di pregevole fattura, come il pallonetto di Quagliarella o il tiro a giro di Pato. Poi, mentre Del Piero invoca l’intervento del VAR per un fallo di mano dubbioso, si scatena Vieri. Dopo aver mancato qualche controllo di troppo, l’ex bomber nerazzurro, su assist di Pirlo, fredda Storari. L’esultanza per il gol è da cineteca. Vieri si toglie la maglietta e, facendola svolazzare, si cimenta in una sorta di danza in stile Tarzan per la felicità degli spettatori. Al termine dei primi 45’, le Blue Stars conducono 5-3. E Pirlo? Ci prova su calcio di punizione un paio di volte ma poi si deve arrendere ad un infortunio: “Mi sono stirato il polpaccio e non


ho potuto godermela fino in fondo in campo ma non è importante. È stata una serata fantastica”, spiega nel post match. Intanto, nella ripresa, sulla partita si abbatte l’uragano Pippo. Inzaghi non ci sta a perdere neanche a scala 40. Con maglia bianca, comincia a cercare, con ostinazione, il gol. Ne trova ben tre e, curiosità rimarchevole, a fine partita si fa anche consegnare il pallone (come da tradizione impone a chi segna una tripletta). Incredibile Pippo, così come l’emozione di vedere Niccolò Pirlo subentrare al padre Andrea: “L’importante è che si diverta. Mi somiglia: tecnica e poco aggressivo”, rivela l’orgoglioso papà. In effetti, il ragazzino ha

UNA CARRIERA PREZIOSA Ha svernato a New York, al ritmo del calcio americano. “È stata una bella esperienza”, racconta ora che è tornato in Italia, il suo Paese. In MLS ha giochicchiato, regalando qualche sprazzo della sua immensa classe. Ma il grosso del lavoro l’aveva già fatto prima. La sua carriera è simile a quella di un film Disney. La dea bendata gli ha elargito talento in abbondanza e lui, superando diversi ostacoli, ha saputo farne buon uso, diventando il Mozart del calcio, amato per la sua musica, mai banale e sempre vincente. Il 21 maggio 1995, a 16 anni, fa il suo esordio nel Brescia, la sua città natale. Due anni più tardi conquista la sua prima soddisfazione, vincendo, con le Rondinelle, il campionato di Serie B. Nella stagione 1997/98, in Serie A, tutti si accorgono di lui. Ha personalità e piedi da pianista. L’Inter beffa la concorrenza, Pirlo diventa nerazzurro (per la gioia del padre interista). È giovane, all’Inter fatica ad imporsi. Va a farsi le ossa alla Reggina dove raggiunge un’insperata salvezza. Torna così all’Inter ma, ancora una volta, il talento non basta. Altro prestito, questa volta al suo amato Brescia. Gioca sei mesi con Roby Baggio con Carlo Mazzone allenatore. È proprio Don Carletto a “consigliargli” di arretrare la sua posizione in campo. Diventa un regista arretrato. Sarà la sua fortuna. Nell’estate del 2001 arriva la chiamata del Milan che mette sul piatto ben 35 miliardi di lire per fargli indossare la casacca rossonera. A molti esperti di mercato, sembra una cifra esagerata. Il ragazzo ha classe da vendere ma non ha ancora convinto al 100%. Gli esperti di mercato si sbagliano. Il Diavolo è perfetto per il Maestro. Trascorre 10 anni in rossonero, vincendo tutto ciò che c’è da vincere. Sono gli anni dell’assoluto dominio, quelli in cui Mozart compone sinfonie celestiali. Nel 2006 si regala anche il Mondiale, “la vittoria più importante della carriera” (parole sue). Nel 2011, a 32 anni, Pirlo accetta una nuova, intrigante, sfida: fare la differenza con la casacca della Juventus. Arriva come parametro zero ingombrante, si rivela un acquisto azzeccato. Alla sua prima stagione in bianconero, è inarrestabile: scudetto e titolo di Miglior giocatore della Serie A secondo l’AIC. Trascorre quattro stagioni a Torino, vincendo quattro Scudetti, una Supercoppa Italiana e una Coppa Italia. Gli manca solo la gioia della Champions League. Il Barcellona gli porta via la ciliegina sulla torta ma tutti i blaugrana gli tributano un’ovazione degna di un Maestro. Proprio come è accaduto a San Siro nella sua ultima partita da calciatore…

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ANDREA PIR

Addio al calcio movenze interessanti e le fa vedere, con personalità, proprio come fatto, tantissimi anni fa, il padre Andrea con la casacca del Brescia: “Ci siamo divertiti a giocare insieme. Aveva una grande voglia di imparare e molta umiltà”, il ricordo di Roby Baggio, ex compagno di Pirlo ai tempi delle Rondinelle. La gara termina con un perfetto 7-7. Tutti contenti, tutti felici. Un addio al calcio in grande stile, degno di un Maestro: “È un soprannome che gli si addice molto”, confida Inzaghi, uno dei più acclamati della serata insieme a Gattuso, dirompente come sempre. Arriva anche l’augurio di Conte: “Un genio, farebbe bene come allenatore”. Appunto, ora che accadrà? Pirlo, con grande serenità, qualità che lo contraddistingue da sempre, non ha fretta: “Ho appena smesso di giocare, ho tutto il tempo di pensare a quello che vorrò fare in futuro”. Intanto si è preso l’ultimo, caloroso, applauso della gente. Milanisti, juventini, interisti, tutti innamorati di un genio del calcio, dell’unico, inimitabile, Maestro…

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CACCIA ALL’EREDE Andrea Pirlo, con le sue giocate, ha segnato un ventennio. Nel suo ruolo è stato, per tantissimo tempo, il migliore. “Sapeva trovarti in qualsiasi momento. Incredibile come riusciva a fare andare la palla dove voleva”, il ricordo di Shevchenko, uno che si è divertito, alla grande, con Pirlo. In effetti, complicato trovare un regista con simili doti. Ma l’era Pirlo si è, purtroppo, chiusa. In attesa di capire se il figlio Niccolò saprà farsi valere, è caccia all’erede: “Onestamente non vedo nel calcio di oggi un giocatore con le mie caratteristiche. Ci sono tanti giocatori ma con attitudini diverse dalle mie”. Questa la sentenza del Maestro. Difficile non dargli ragione. Chiaramente il calcio si è evoluto. Il ruolo del regista puro si è modificato. Ora serve un fisico importante e saper difendere come ossessi. Doti che Pirlo non ha mai avuto, eppure, con la palla tra i piedi, lui vedeva e disegnava calcio come nessun altro.



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i c l a c l e d i i gigant Beppe Bergomi di Thomas Saccani

LA NORMALE ECCEZIONALITÃ DELLO ZIO

Credit Foto - Liverani

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Bergomi, una vita da illuminato calciatore e saggio uomo. E poteva essere rossonero…

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ncontrare Giuseppe Bergomi è un vero piacere. Difficile trovare una persona tanto equilibrata quanto competente in materia calcistica. Nonostante un palmares notevole e le luci della ribalta televisiva, lo Zio è rimasto quello di sempre, ossia un ragazzo innamorato del calcio e con i piedi ben piantati a terra. In occasione della presentazione del libro Bella Zio (titolo geniale), ci ha concesso un po’ del suo tempo. Ed ecco che Beppe finisce in un libro… Che effetto fa essere il protagonista di un romanzo sulla propria vita? “Ti dico, è una bella sensazione. Non ho mai voluto scrivere la mia autobiografia. C’è stato un tempo che mi ci ero messo ed ero ar-

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lc i giganti de Beppe Bergomi

rivato anche a metà, insieme a Valberto Miliani, ex ufficio stampa dell’Inter. Poi, però, mi sono fermato. Mi sembrava inutile raccontare la mia storia, tanto la conoscevano già tutti o, almeno, quelli a cui interessava. Ho pensato che servisse qualcosa di diverso. Quando ho conosciuto Andrea e lui mi ha spiegato come avrebbe voluto realizzarlo, ossia come un vero e proprio romanzo, raccontando le storie del mio paese, mi sono convinto immediatamente. E’ stata una bellissima esperienza, mi ha permesso di tornare ai quei tempi, quando si scavalcava per entrare all’oratorio per giocare a pallone”. Un romanzo che racconta un calcio che non c’è più… “Sicuramente quello di oggi è un calcio completamente diverso ma ti racconto questo: sono stato ad inaugurare un oratorio a Lainate e ho visto quell’entusiasmo che si respirava ai miei tempi. Credo che in alcune

La coppia Bergomi-Caressa è collaudata, lavorano insieme da anni

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realtà, quel calcio, diciamo così, nostrano sia ancora presente. Pensa all’Atalanta. Io ci sono stato due anni. E’ una società forte, sana, con principi veri perché cerca proprio di attingere da quelle realtà ancora legate ad un calcio ‘da oratorio’. Quello spirito c’è ancora, va solo cercato”. Bergomi, a 18 anni, alzava la Coppa del Mondo. Perché non c’è più stato nessun altro come te in Nazionale? “Perché, come dicevamo, è un altro calcio. Credo non sia più possibile. Se l’Italia si fosse qualificata al Mondiale, poteva essere Donnarumma l’eccezione ma, in generale, non credo sia più possibile. Ai miei tempi era molto più semplice. Maldini ha esordito a 16 anni, penso a Baresi, Vialli, Mancini, tutta gente che ha esordito presto ed è arrivata velocemente in Nazionale. Adesso è complicato. Quando giocavo io, c’era un solo straniero, quindi la rosa era di 15/16 giocatori.


BELLA ZIO Non è una semplice autobiografia. Parliamo di un romanzo sportivo. Tutti sanno chi è Beppe Bergomi, il giovane eroe sportivo che alza la Coppa del Mondo, ma la vera sfida si vince e si vive nel quotidiano dell’allenamento dove l’eroe lascia spazio all’uomo che ogni giorno si impegna, convivendo con sudore e sorriso, per raggiungere un obiettivo... Forse il segreto sta tutto qui, non abbiamo bisogno di eroi ma di esempi! Mondadori Electa pubblica Bella Zio, romanzo biografico in cui il campione Beppe Bergomi affida alla penna di un grande scrittore il racconto della sua parabola ascendente. E Andrea Vitali trasforma la vita di Beppe in un romanzo della commedia umana di cui è il maestro insuperato nella narrativa italiana. Nulla gli sfugge nel dare voce alla semplicità e intelligenza di un grande personaggio del calcio italiano: tra ironia e paradosso, aneddoti di costume, successi e dolori. Un viaggio nella vita di un ragazzo destinato a lasciare il segno. Tutto da gustare, tutto da vivere. Approvato!

Bastava un infortunio e potevi essere gettato nella mischia. Se poi eri bravo a farti trovare pronto, avevi diverse opportunità di giocare. Nel calcio odierno, sono situazioni che difficilmente capitano”. Forse la colpa è anche di questo calcio drogato, dove tutto è ingigantito. I giovani non sono più avvicinabili, tu sei sempre stato, come dice Andrea Vitali, normale… “Non è proprio così. Sicuramente i giovani, parlando di quelli al top, sono già delle aziende in tenera età ma, se conosciuti, re-

stano sempre dei ragazzi. Le società li tutelano, forse li proteggono troppo, ma ognuno di loro ha una chiave di lettura. Non tutti hanno dei valori importanti ma anche in passato non tutti erano i classici ‘bravi ragazzi’. Zanetti, Cordoba, Del Piero, Chiellini… gli esempi ci sono sempre stati. Certo, ce ne vorrebbero di più ma non ci sono ancora. Non sono tutti macchina e velina. Aggiungo anche che i giovani di oggi sono molto più svegli di noi alla loro età. Ti faccio un esempio: alleno i 2003 e i 2001. I primi mi danno del tu, i secondi del lei”. Sei un grande commentatore, alleni i giovani, come mai non hai mai pensato di fare l’allenatore vero, da Prima squadra? “Non c’è mai stata l’opportunità giusta o forse non l’ho mai cercata. Ho avuto delle proposte, penso a Cosenza o Ancona, ma non mi convincevano, così ho deciso di fare altro”. Eppure, l’allenatore lo fai comunque, allenando i giovani… “Non ho mai messo la mia ambizione personale prima di loro. A me interessa crescerli al meglio, è questo quello che conta. Infatti

Bergomi, uno dei commentatori SKY più rispettati e stimati

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Bergomi mentre festeggia la Coppa Uefa vinta contro la Roma. Credit Foto - Liverani


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mi diverto, perché penso solo al loro futuro, non a mettermi in mostra. Non mi serve, ho fatto altre scelte lavorative nella mia vita. Ho scelto la TV. Allenare i giovani lo considero un privilegio. Metto a disposizione tutto quello che so del calcio e la mia persona, credo che possa essere d’aiuto, almeno lo spero”. Come è il rapporto con la TV? “Ora direi alla grande ma, all’inizio, quando sono venuti a cercarmi, non ero molto convinto. Ero una persona piuttosto timida, non ero così sciolto nel parlare. Devo dire che sono migliorato negli anni (Ride, ndr). Ancora oggi, soprattutto quando devo apparire in TV, sono sempre un po’ teso. Diverso il discorso delle telecronache. Quella è la mia materia, è calcio, è differente. Se devo fare una telecronaca, so cosa mi aspetta, il calcio fa parte di me da sempre”.

Grande professionalità e competenza, Bergomi è un volto noto a tutti

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Si ringrazia Panini per la gentile concessione delle immagini

Parliamo un po’ dell’Inter. Tre giocatori con cui hai giocato che vorresti nella tua squadra ideale? “Bella domanda, solo tre? Allora, sicuramente Zenga e Ferri, entrambi per questioni affettive. Poi dico Matthaus, lo straniero che ha inciso di più. Lothar è stato un vero campione. E’ arrivato e ha fatto la differenza. Poi ci sarebbe la questione Ronaldo…”. Ossia? “Quello che ho visto fare a Ronaldo, io non l’ho visto fare a nessun altro con cui ho giocato. Faceva delle cose incredibili, sembrava diverso da tutti noi”. Ma quando varrebbe, nel calcio di oggi, uno come Ronaldo al meglio della condizione fisica? “Non avrebbe prezzo. Inestimabile. Lui era unico. La percezione che fosse diverso l’avevi quando gli amici, tipo Costacurta, mi confidavano che speravano di non doverlo incontrare sul campo. Davvero speciale e, quindi, senza prezzo”. Cosa ne pensi dell’Inter di Spalletti, pronta per tornare in Champions… “C’è una bella atmosfera. Penso che ci sia tutto per consolidare quello che è stato fatto nel corso dell’ultima stagione. La società è ben presente, l’allenatore è carismatico e ha un eccellente gruppo di lavoro. La rosa è importante. Direi che l’Inter è sulla strada giusta”. E, finalmente, è tornata la Champions League… “L’Inter deve giocare sempre la Champions League. Questo è un calcio in cui il fatturato conta moltissimo. E l’Inter, per continuare il


ANDREA E BEPPE, MENTI IN SINTONIA Si sono incontrati grazie a Samuele Robbioni, consulente di psicologia sportiva, ed è nato, immediatamente, un gran feeling. Beppe Bergomi e Andrea Vitali hanno dato vita ad un romanzo sportivo di estrema classe. Tutto ruota attorno allo Zio ma non solo, come ci spiega lo scrittore Andrea Vitali: “Il nostro rapporto è nato casualmente poi si è trasformato in qualcosa di costruttivo e divertente, tanto da diventare materia scritta. Beppe viene da un mondo molto simile a quello da cui vengo io e dal quale, spesso, uso, come contorno, per le mie storie. Così non ho avuto difficoltà a capire il suo viaggio”. Un viaggio che racconta Beppe bambino fino alla conquista della Coppa del Mondo a 18 anni: “Avrei avuto molte più difficoltà, se avessi dovuto raccontare la sua storia da campione di calcio affermato. Abbiamo preferito ideare un racconto, infarcito un po’ di fantasia, dall’anno zero ai 18 anni di Beppe. Ci siamo soffermati molto sui personaggi che l’hanno accompagnato in quegli anni. Tant’è vero che Beppe non è, forse, neanche il protagonista assoluto. C’è la mamma, ad esempio, che ha un’importanza notevole”. Un libro che propone un calcio nostalgico: “Sicuramente. Parliamo di un calcio che durava il pomeriggio della domenica e lasciava lo spazio, nei restanti giorni, alle chiacchiere da bar. Oggi non è più così. Si gioca ogni giorno e, appena finita la partita, si pensa alla prossima e a quella dopo ancora. Non c’è quasi il tempo di discutere della partita. Oggi il calcio è diventato industriale, allora era molto più artigianale. Si percepisce, nel racconto, come il calcio stia cambiando e verso quale direzione stia andando”. Un libro per tutti, non solo per i fan calcistici: “Credo che sia un libro davvero per chiunque. Chi ha una certa età, ritroverà antiche emozioni. Chi è giovane, lo potrebbe vivere come un documentario che parla di un’era diversa in tutto. Per intenderci, Beppe andava agli allenamenti accompagnato da macellaio o dal gelataio perché non aveva la macchina, oggi è impossibile pensare ad una situazione simile a certi livelli”. Ma che Beppe traspare dal libro? “Ne esce come appare. Ne esce normale. Utilizzare questo termine sembra strambo ma è davvero così. Beppe, nonostante abbia raggiunto determinati e prestigiosi obiettivi, è rimasto quello di sempre, una persona che sa tenere, ben saldi, i piedi a terra”, chiosa Andrea Vitali.

Il Direttore Ponciroli con Bergomi alla presentazione di Bella Zio

suo percorso di crescita, deve avere la massima ribalta europea. La Champions League è vitale per il progetto Inter”. Fiducia nell’Inter e pensare che potevi essere del Milan… “Vero, mi hanno scartato non una ma due volte (Ride, ndr). Credo che fosse destino che giocassi nell’Inter”. Tempo scaduto. Dopo una foto ricordo, Beppe Bergomi si prepara per la conferenza stampa di presentazione del libro Bella Zio. Si parlava di esempi. Lo Zio, con i suoi baffi (“Tutti si ricordano di quei baffi, anche se io li ho tagliati subito dopo il Mondiale), è nell’immaginario collettivo. Gli anni passano ma lo Zio resta un esempio vero, reale, eccezionalmente normale.

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I R O T A N E L L GRANDI A Arsène Wenger di Giorgio Coluccia

Arsène Wenger, dica 22 S

Le 22 tappe più importanti che hanno segnato la rivoluzione francese nel nord di Londra

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i ricomincia, senza Arsène Wenger. La Premier League 2018/2019, che prenderà il via l’11 agosto prossimo, sarà la prima orfana del tecnico alsaziano, alla guida dell’Arsenal per ventidue stagioni di fila. Era il 1° ottobre 1996, aveva 49 anni, ma anche l’aria da prof occhialuto, con i capelli scompigliati. Era tutta un’altra epoca. Braveheart sfondava con l’interpretazione di Mel Gibson, Dolly si annunciava al mondo come primo mammifero clonato, Bill Clinton incassava il secondo mandato alla guida della Casa Bianca e la Germania si era da poco laureata campione agli Europei disputati proprio in Inghilterra. Wenger avrebbe cambiato per sempre il calcio inglese e la storia di uno dei più importanti club londinesi. Con lui l’Arsenal è diventato un brand a tutti gli effetti, ha introdotto una concezione di calcio diversa dal prototipo britannico, corredandola con l’uso delle statistiche per


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ENA GRANDI ALL Arsène Wenger

valutare i calciatori. Ha imposto abitudini alimentari ferree, smantellando fagioli stufati e fizzy drinks, e ha puntato forte sullo scouting per varcare la Manica. Allargati i confini, è arrivata a Londra gente del calibro di Henry, Ljungberg, Suker, Vieira, Overmars e Van Persie. Prima ancora ha fiutato con anticipo l’exploit della neonata Premier League (destinato a diventare il torneo più ricco e televisto del pianeta), tanto da condurre i Gunners a separarsi dall’amato Highbury per traslocare all’Emirates Stadium, massimizzando i ricavi nel lungo periodo e calamitando fior di sponsor. Il salto di qualità mai avvenuto in Champions e un logorante finale di avventura, senza riuscire a essere competitivi per il titolo, ha rischiato di minare l’idillio, ma l’ultima apparizione davanti al suo pubblico nello scorso maggio è stato un finale degno e commovente. In cui semplicemente gli è stato reso grazie. Per tutti i motivi appena elencati c’è stato un prima e un dopo Arsène Wenger. Senza che sia una semplice frase fatta. Con l’arrivo del

Tantissimi i campionissimi allenati da Wenger, come Van Persie

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manager francese i Gunners entrano a tutti gli effetti in una nuova dimensione, mettendosi alle spalle il sistema della “palla lunga e pedalare” e dell’attenzione cronica alla trappola del fuorigioco. Nei primi mesi del 1995

“Dal 16 agosto 2003 al 15 maggio 2004 i Gunners non perdono un match, vincendo il titolo con quattro turni d’anticipo” Wenger è già in cima alla lista della dirigenza del suo futuro club, il presidente dell’epoca David Dein lo mette nel mirino subito dopo lo scandalo di George Graham, che sul campo riporta il club al successo, ma finisce stritolato da una serie di pagamenti illegali legati alla compravendita di calciatori. Già all’epoca l’Arsenal è una squadra che vince su più fronti, però è il “boring, boring Arsenal”. Il “one-nil to the Arsenal” porta successi, ma non esalta, come del resto sperimenterà sulla propria pelle anche il Parma di Nevio Scala, battuto in finale di Coppa delle Coppe nel ‘94. Ovviamente, per 1-0. Da una squadra inglese composta da soli inglesi. E lo stesso “Arsenio” sarà il primo non britannico di sempre a guidare un club di Premier League, aprendo una frontiera che oggi è ormai una moda visto che l’ultimo massimo campionato inglese è stato concluso da soli quattro tecnici inglesi su venti team partecipanti. La rivoluzione francese iniziò praticamente subito, con i primi decisi interventi sul mercato e alcuni aggiustamenti nel modo di giocare. Eppure lo scetticismo regnava sovrano, furono in tanti a chiedersi “Arsène, who?”. Finché non arrivarono i primi risultati, dai quali non si può prescindere ripercorrendo le ventidue date principali di ciò che


Tanti titoli con i Gunners, gli è mancato il colpo Champions League

all’inizio sembrava un progetto visionario: › 12 ottobre 1996. Undici giorni dopo aver preso il posto dell’esonerato Bruce Rioch, Wenger debutta sulla panchina dei cannonieri e centra subito il primo successo. In trasferta l’Arsenal batte 2-0 il Blackburn Rovers, con una doppietta di Ian Wright, che chiuderà quel campionato con 23 reti (due in meno del capocannoniere Shearer). La prima stagione dell’alsaziano porta in dote precoci eliminazioni nelle coppe, ma soprattutto il terzo posto in campionato, che vale la Coppa Uefa, per via di una differenza reti sfavorevole con il Newcastle, destinato così ai preliminari di Champions. › La seconda annata è quella dell’exploit iniziale e Wenger diventa il primo manager non britannico a condurre in porto il double. Al club del nord di Londra regala campionato e Fa Cup: la coppa arriva il 16 maggio 1998 battendo 2-0 il Newcastle in finale, mentre la cavalcata verso il titolo è ancora più entusiasmante visto che i Gunners nel finale

di stagione recuperano ben dodici punti di distacco dalla vetta e trionfano con due giornate d’anticipo, il 3 maggio 1998, chiudendo con un punto in più del Manchester United. › Dopo l’arrivo di Kanu e la partenza di Anelka, il manager dell’Arsenal decide di rinvigorire ancora l’attacco, con gli innesti di Suker e soprattutto Thierry Henry, il 3 agosto 1999. L’arrivo della punta francese, dopo il flop alla Juventus, segnerà un punto di svolta nella storia del club, diventando uno dei calciatori più importanti, al quale viene reso onore con una statua presente all’esterno dell’Emirates. Henry diventerà infatti la punta più prolifica di sempre con il record ancora imbattuto di gol segnati con la maglia dei Gunners: 226 tra il 1999 e il 2007. › 17 maggio 2000. Le prime stagioni dell’era Wenger sono caratterizzate da ripetuti fallimenti fuori dai confini nazionali, ci vuole diverso tempo per attrezzare la squadra e renderla competitiva anche all’estero. Bisogna aspettare fino alla primavera del 2000,

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quando i londinesi (retrocessi dalla Champions) arrivano sino alla finale di Coppa Uefa giocata a Copenaghen contro il Galatasaray. Il prepartita è condizionato dai violenti scontri tra le tifoserie, in campo finisce senza reti e i rigori assegnano il trofeo ai turchi (4-1) di Fatih Terim. › Nella stagione 2001/2002 per i Gunners arriva il secondo double in quattro stagioni, il terzo di sempre nella storia del club. Il 4 maggio 2002, in finale di Fa Cup, il Chelsea viene battuto 2-0 al Millennium Stadium di Cardiff, mentre in campionato il titolo arriva (quattro giorni dopo, l’8 maggio 2002) con sette punti di vantaggio, da imbattuti nelle gare in trasferta e segnando almeno una volta in ogni singola partita. Il bottino finale parlerà infatti di ben 79 reti segnate. La partita clou è il successo (1-0) in casa dei diretti rivali del Manchester United, a una giornata dal termine e dopo averne già vinte undici di fila. › In patria la squadra del tecnico francese è insaziabile. Gli Invincibili, non a caso così ribattezzati, scrivono la storia e l’imbattibilità dura una stagione intera. È record, dal 16 agosto 2003 al 15 maggio 2004 i Gunners non perdono un match, vincendo il titolo con quattro turni d’anticipo, a quota 90 punti, con 26 vittorie e 12 pareggi, 73 gol fatti e solo 26 subiti. In realtà la serie utile arrivò a 49 incontri consecutivi senza ko, in quanto al filotto vanno aggiunte le ultime due gare della stagione precedente e le prime nove del campionato successivo. A spezzare la striscia positiva fu il Manchester United (2-0 all’Old Trafford il 24 ottobre 2004). In Inghilterra l’ultima volta che una squadra aveva vinto un titolo da imbattuta risaliva al 1899, ossia al Preston North End, immacolato nelle 22 gare previste all’epoca. › 9 aprile 2004. Una delle più esaltanti partite disputate dall’Arsenal di Wenger, non soltanto perché legata al periodo d’oro degli Invincibili. Nella rincorsa al titolo lo scontro con

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il Liverpool diventa fondamentale, fa seguito all’eliminazione in semifinale di Fa Cup (per mano dello United) e all’eliminazione dalla Champions (ad opera del Chelsea). I Reds all’intervallo sono avanti 2-1, ma il secondo tempo finisce dritto nella storia, con Henry attore protagonista e autore di una tripletta. Inclusa una serpentina memorabile, prima di fare centro. Per tanti tifosi dei Gunners, e anche a detta di Wenger, resta una delle migliori partite di sempre della sua gestione. Il titolo vinto dagli Invincibili è coronato dalla certezza matematica che arriva il 25 aprile 2004, proprio contro gli odiati rivali del Tottenham. Con tanto di festeggiamenti a White Hart Lane.

Il gioco di Wenger è diventato famoso in tutto il mondo


› 17 maggio 2006. È la notte della prima finale di Champions League nella storia dell’Arsenal e per un club londinese in assoluto. Una sorta di consacrazione per il tecnico venuto dall’Alsazia. La sua formazione vince il girone e poi in sequenza elimina Real Madrid, Juventus e Villareal, presentandosi al cospetto del Barcellona campione di Spagna nella finale al Saint-Denis di Parigi. Si mette subito in salita per il rosso rimediato dal portiere Lehmann dopo 18’, Campbell segna il gol dell’illusione al 37’, Henry manca il colpo del kappaò, poi i catalani guidati da Rijkaard vincono in cinque minuti. Segnano Eto’o (76’) e Belletti (81’). Per l’Arsenal era già iniziato il lungo periodo senza trofei, un’astinenza durata quasi dieci anni, dalla Fa Cup del 2005 a quella del 2014. Nel libro scritto con Amy Lawrence, The Wenger Revolution, il tecnico ha dichiarato: “La finale di Champions League del 2006 rimane il mio più grande rimpianto. Ci ho pensato cento volte, cosa avrei

potuto fare di diverso? Avrei dovuto cambiare Fàbregas o no? Inserire Flamini o no?”. › Le Professeur era stato uno dei fautori principali per quanto riguarda la necessità di costruire uno stadio moderno, più grande e avveniristico, adeguato alla nuova epoca dorata del calcio inglese. Mandato in pensione Highbury dopo 93 anni, il debutto in campionato nella nuova casa avviene all’alba della stagione 2006/2007, il 19 agosto 2006, pareggiando 1-1 contro l’Aston Villa. “Il trasferimento era vitale - affermerà Wenger - il calcio sta entrando in una nuova dimensione, bisognerà attrarre nuovi campioni. Saper leggere il futuro in anticipo è fondamentale”. › 10 maggio 2012. In occasione dell’ultimo turno di campionato Wenger perde una granitica certezza. Dopo 44 anni di vita spesi per l’Arsenal, lascia Pat Rice, ex giocatore, ex tecnico e infine vice allenatore. Rice era legato al club di Londra dal 1964, quando arrivò da calciatore dell’Academy per poi di-

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ventare il terzino destro campione nel 1971 e capitano nella vittoria della FA Cup del 1979, con un totale di 528 presenze in 14 stagioni. Dopo una parentesi in prestito al Watford tra il 1980 ed il 1984, Rice era tornato all’Arsenal come allenatore delle giovanili, con cui ha vinto due FA Cup nel 1988 e nel 1994. Era nello staff tecnico di Wenger sin dal suo arrivo e hanno lavorato assieme per sedici stagioni. › Il 22 marzo 2014 Arsène Wenger raggiunge quota 1000 partite sulla panchina dell’Arsenal, affrontando la trasferta in casa del Chelsea. Un pomeriggio da incubo e un traguardo rovinato, visto il rotondo 6-0 in favore dei Blues e l’uscita dal campo anzitempo di Mourinho, che poi in modo sarcastico commenterà: “Sono rientrato negli spogliatoi prima del dovuto per telefonare a mia moglie. Non riuscivo ad aspettare, dovevo co-

Ben 22 gli anni trascorsi da Wenger sulla panchina dell’Arsenal

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municarle questo risultato grandioso”. Alla fine del regno durato ventidue anni, il tecnico dei Gunners ha collezionato in totale 1235 partite, con 707 vittorie, 280 pareggi e 248 sconfitte. Il 31 dicembre 2017 ha fatto suo anche il record di partite in Premier League, superando le 810 di Ferguson e chiudendo a 828.

“9 aprile 2004, lo scontro con il Liverpool a detta di Wenger, resta una delle migliori partite di sempre della sua gestione” › 5 ottobre 2014. È ancora Wenger contro Mourinho, ancora Chelsea-Arsenal per uno degli episodi più significativi in occasione di una partita di Premier. A Stamford Bridge, dopo una serie di frecciate e punturine in conferenza, tra i due a bordo campo volano spintoni e parole grosse, con il video in poco tempo diventato virale, esacerbando ancora di più gli animi. Un nervosismo eccessivo da parte del transalpino, stuzzicato dallo scontroso portoghese, che tempo prima lo aveva definito un “guardone”: “Wenger ha un problema con noi, è un voyeur, è uno a cui piace guardare gli altri, è una malattia”. Decisa la risposta del francese: “Mourinho è fuori controllo. Quando dai il successo a gente stupida, diventa solo più stupida, non più intelligente”. Sul campo Wenger ha spesso dovuto fronteggiare lo strapotere dello United di Ferguson, ma a livello dialettico la sfida principale è sempre stata con il lusitano. Anche perché Wenger è riuscito a batterlo in campionato solo il 7 maggio 2017, dopo ben tredici anni e dodici tentativi. › 21 maggio 2017. L’Arsenal batte l’Everton 3-1, chiude quinto in campionato e manca la Champions League dopo diciannove qua-


lificazioni consecutive. Con Wenger non era mai accaduto che i cannonieri finissero fuori dalle prime quattro, infatti l’ultima volta risaliva alla stagione 1995/1996. Un bis negativo concretizzatosi pure nell’ultimo campionato, concluso dall’Arsenal al sesto posto e incassando una nuova partecipazione alla successiva Europa League. Anche questa ennesima stroncatura europea favorisce la separazione da Wenger, eliminato per sette anni di fila agli ottavi di Champions: l’ultima volta per mano del Bayern Monaco, subendo un 10-2 totale tra andata e ritorno. Ossia il peggior on aggregate di sempre per un team inglese nella coppa dalle grandi orecchie. › 6 agosto 2017. Nel tempio di Wembley l’Arsenal sfida il Chelsea di Antonio Conte e vince il Community Shield ai calci di rigore (4-1 dopo l’1-1 dell’andata). Per Wenger è la settima “Supercoppa”, ma soprattutto l’ultimo trofeo vinto alla guida dei Gunners. In tutto sono stati 17, tra cui 3 Premier League (1997/98, 2001/02, 2003/04), 7 FA Cup (1997–98, 2001–02, 2002–03, 2004–05, 2013– 14, 2014–15, 2016–17) e 7 Community Shield (1998, 1999, 2002, 2004, 2014, 2015, 2017). › L’annuncio arriva a stagione in corso e nel comunicato ufficiale emesso dal club. Il 20 aprile 2018 Arsène Wenger annuncia che al termine del campionato lascerà la panchina. “Dopo un’attenta riflessione e dopo aver parlato con il club, sento che è il momento giusto per dimettermi alla fine della stagione. Sono grato per aver avuto il privilegio di servire il club per tanti anni memorabili. Ho gestito il club con il massimo impegno e serietà. Voglio ringraziare lo staff, i giocatori ed i tifosi che rendono questa squadra così speciale. Ai tifosi dico di sostenere sempre questi colori per portarli in alto. Amerò e sosterrò per sempre l’Arsenal”. › 14 maggio 2018. Se il Blackburn aveva tenuto a battesimo un regno lungo ventidue stagioni, tocca all’Huddersfield far calare il sipario in modo definitivo. Le Professeur

guida per l’ultima volta i Gunners al John Smith’s Stadium e la sua partita numero 1235 finisce con un successo per 1-0, firmato Aubameyang (38’). Al minuto 22 tutto lo stadio concede un’ovazione. Tutti in piedi, applausi a scena aperta. In cielo volano anche due aeroplani, con la scritta “Merci Arsène”. Altri momenti toccanti erano stati vissuti una settimana prima, in occasione dell’ultima partita all’Emirates Stadium, conclusa con l’alsaziano al centro del campo per il toccante discorso d’addio: “È stata un’avventura speciale per me e invito tutti voi a continuare a sostenere un gruppo di giocatori e uno staff che ha valori unici non sono sul campo, ma anche fuori. Meritano il vostro splendido sostegno. Vorrei chiudere con una semplice parola: mi mancherete, grazie per essere stati una parte importante della mia vita”.

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A I G L A T S O N ERAZIONE

OP

Parma-Amarcord

di Fabrizio Ponciroli

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W IL CALCIO NOSTALGIA Migliaia di magliette vintage per una giornata all’insegna del calcio vero…

C’

è stata un’era storica in cui il calcio italiano eccelleva. In Serie A, dominavano le Sette Sorelle (Juventus, Inter, Milan, Roma, Lazio, Fiorentina e Parma), sette società in grado di competere, ad altissimi livelli, sia nel Bel Paese che in Europa. Il Parma di Tanzi è stato, per anni, una grande realtà del nostro calcio. Bene, per ricordare quegli anni magici, con i ducali a fare incetta di trofei (Coppa delle Coppe, due Coppa Uefa, Supercoppa Europea, Supercoppa Italiana e tre edizioni della Coppa Italia), tutti al Tardini per Parma: Operazione Nostalgia. In campo le Parma Legends contro la formazione allestita dalla pagina Facebook Serie A – Operazione Nostalgia. Ben 8.000 persone hanno risposto all’invito, sfoggiando una serie di maglie vintage da scroscianti applausi. Oltre alle casacche del Parma dell’epopea dell’oro, con omaggi soprattutto a Crespo, Veron e Asprilla, tantissimi “divise degli anni ’90 e duemila”. Da Shevchenko a Ocampos, passando per Gullo a Batistuta. Un mix di colori che ha reso il Tardini un party all’aria aperta. Tutti estasiati dai vecchi idoli. Ovazione per le stelle Veron, Crespo e Asprilla,

i simboli del Parma più forte di sempre. Se il colombiano, sempre divertente e pronto allo scherzo, non si è presentato in eccellenti condizioni fisiche, da evidenziare l’eccezionale stato di forma di Veron e Crespo, quest’ultimo capitano delle Parma Legends. Straordinario riabbracciare grandi nomi gialloblù, come il Sindaco Osio, uno tra i più emozionati per il “nostalgico raduno”: “Sono rimasto piacevolmente sorpreso da questa iniziativa. Onestamente non credevo che potesse riscuotere un così grande successo. E’ bellissimo rivedere tanti amici e colleghi. Soprattutto fantastico guardare le tribune e vedere tifosi di squadre diverse mischiati tra di loro, senza sfottò o altro, ma per il solo piacere di stare insieme. Complimenti a tanti miei ex compagni che si sono tenuti alla grande. Penso a Veron o Crespo che, a differenza mia, si sono tenuti in gran spolvero fisico”, spiega l’ex gialloblu, noto per la sua fantasia. Inevitabile tornare a parlare del grande Parma in cui Osio è stato protagonista (dal 1987 al 1993, con 185 presenze e 29 reti): “E’ stata un’esperienza in crescendo. Io sono arrivato a Parma quando la squadra militava in Serie B. Era una società che fa-

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STALGIA

E NO OPERAZION Parma-Amarcord

ceva crescere i giovani, per poi rivenderli a grandi club. Poi, con l’avvento di Tanzi, tutto è cambiato e siamo diventati una grande squadra. Ricordo tutti i trofei vinti con grande soddisfazione”, prosegue il Sindaco che ci svela un retroscena: “Guardate, tra tutti i giocatori con cui ho giocato, nessuno mi ha impressionato più di Asprilla. Al top della sua condizione, era tra i primi cinque giocatori al mondo, non ho dubbi”. Nel frattempo, in campo, l’asse Veron-Crespo esalta i presenti con giocate sopraffine. Il vantaggio, tuttavia, è degli “ospiti” con l’eterno Schwoch. Il Tardini alza la voce e arrivano due gol di fila dei ducali con Fuser e Crespo, quest’ultimo “arrabbiato” per una rete annullata alle Parma Legends per fuorigioco (viene invocato il VAR). La festa è colorata e vissuta con lo spirito giusto, come ci conferma Bucci, portiere che ha scritto la storia del Parma di Tanzi: “Una sensazione incredibile vedere così tanti tifosi qui per vedere questa partita. Il modo migliore per ripensare a momenti fantastici. Credo che abbiamo dato tanto al Parma e, infatti, i tifosi sono qui a salutarci con grande affetto”. L’ex numero uno dei ducali punta molto sul Parma di oggi: “Credo che l’Atalanta sia il modello da seguire per

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tutte quelle società che non hanno le potenzialità economiche per poter allestire rose di altissimo livello. L’Atalanta, con una politica vincente sui giovani, sa sempre farsi trovare pronta. Vende i suoi pezzi migliori ma ha già dei degni sostituti da far crescere. Ecco, il

L’immenso veron “Per come si muove in campo, potrebbe ancora giocare ad altissimi livelli”. Parola di Asprilla, uno che sa riconoscere il vero talento. L’argentino è stato illuminante in campo. E, fuori dal campo, la sua disponibilità è stata contagiosa. Lo è stato anche con noi: “Tornare qui è bellissimo. Si respira una bella atmosfera. Mi sono divertito e voglio ringraziare tutti. Spero ci saranno altre occasioni per divertirsi insieme”, ci confida mentre firma una quantità incredibile di maglie vintage con il suo nome. A proposito di maglie, da collezione anche quella indossata dai giocatori dalla formazione Serie A – Operazione Nostalgia. Griffata Star Casinò, è già oggetto di culto. Calcio2000 ha avuto la fortuna di riceverne una in omaggio, con la firma di diversi campioni visti in campo, tra cui Asprilla, Veron e Zé Maria… Star Casinò che è stato partner anche per le diverse iniziative all’esterno del Tardini, tutte con una finalità: rendere la giornata un vero successo. Missione compiuta.


IL TABELLINO DELLA PARTITA* PARMA LEGENDS – SERIA A-OPERAZIONE NOSTALGIA 5-2 (2-1) Reti: Scwoch (S), Fuser (P), Crespo (P), S.Asprilla (P), Morfeo (P), Ballotta (P), Valtolina (S) Portieri: Luca Bucci, Sebastian Frey, Marco Ballotta Difensori: Gigi Apolloni, André Cruz, Roberto Mussi, Antonio Benarrivo, Zé Maria, Pasquale Bruno, William Viali, Christian Terlizzi, Giuseppe Cardone, Alberto Di Chiara, Gianluca Colonnello Centrocampisti: Juan Sebastian Veron, Benny Carbone, Mimmo Morfeo, Lamberto Zauli, Mauro Bressan, Carlo Nervo, Dino Baggio, Diego Fuser, Gigi Orlandini, Fausto Pizzi, Gabriele Pin, Stefano Fiore, Mario Stanic, Gigi Lentini, Fabian Natale Valtolina, Luca Altomare, Guillermo Giacomazzi, Pietro Strada. Attaccanti: Faustino Asprilla, Hernan Crespo, Dario Hubner, Paolo Poggi, Marco Osio, Santiago Asprilla, Stefan Schwoch, Filippo Maniero. *Tutti i giocatori presenti all’evento

Parma credo che dovrebbe seguire lo stesso progetto, sicuramente vincente, adottato dall’Atalanta. Quando non ci sono i soldi, è necessario puntare sulle idee”. Intanto le squadre tornano in campo per il secondo tempo. Le Parma Legends dilagano. Il 3-1 lo segna il figlio di Asprilla: “Beh, io non ho segnato, ma ci ha pensato lui”, ci confida, sorridendo, Tino. Il colombiano si sente a casa: “Appena posso, torno sempre qui. Mancavo da tre anni ma, ogni volta che rimetto piede a Parma, è bellissimo”. Il suo pensiero va a quando faceva sognare i tifosi ducali:

“Ricordo il gol al Milan degli Invincibili. Non perdevano mai ma contro di noi hanno perso. E’ stato un gol che è entrato nella storia, ne vado fiero, così come di tutte le vittorie che ho conquistato qui”. In rete anche Morfeo e Ballotta (portiere ma, negli ultimi anni della sua carriera, anche attaccante). Valtolina, della squadra Serie A- Operazione Nostalgia, rende il passivo meno pesante ma, in fin dei conti, non interessa a nessuno il risultato. La gioia del Tardini avvolge i propri campioni, l’operazione nostalgia è riuscita alla grande…

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IO C L A C I D E I STOR Speciale Intertoto di Luca Gandini

1° parte

INTERTOTO, LA COPPA DEI SENZA-COPPA 80

Credit Foto: WUSEUM – Werder Bremen Club Museum


Nell’estate di dieci anni fa si disputò l’ultima edizione della Coppa Intertoto UEFA, la competizione europea meno prestigiosa, ma che vide la partecipazione e la vittoria di squadre famose e formidabili campioni.

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edizioni disputate dal 1995 al 2008, 446 club partecipanti in rappresentanza di 51 Paesi, 1560 partite giocate, 35 titoli assegnati, 31 squadre campioni provenienti da 7 Nazioni diverse. Vincerla non significava solo conquistare un posto nella vecchia Coppa UEFA, ma anche arricchire il proprio palmarès internazionale con un trofeo ufficiale a tutti gli effetti. Per alcuni club rappresentò l’apice della propria storia a livello europeo; per altri, invece, un fastidioso impegno da espletare controvoglia sotto il solleone estivo; per altri ancora un piccolo premio di consolazione da esibire in bacheca senza vantarsene eccessivamente. Vi parteciparono molte grandi squadre e alcuni tra i più famosi campioni del panorama mondiale, e proprio adesso che ricorre il decimo anniversario della sua ultima edizione se ne incomincia a sentire anche un po’ la mancanza. Parliamo della Coppa Intertoto UEFA, forse la meno rinomata tra tutte le competizioni europee, ma non per questo meritevole di essere dimenticata. Benché passato sotto

l’egida della UEFA solamente nell’estate del 1995, il torneo traeva origine dalla Coppa Piano Karl Rappan, una manifestazione ideata nel 1961 dal celebre allenatore austriaco Karl Rappan e dal direttore generale dell’Agenzia Svizzera delle Scommesse Sportive, Ernst Thommen, al fine di garantire introiti ai vari enti organizzatori di lotterie e concorsi pronostici in un periodo tradizionalmente povero di impegni come quello estivo. Tale competizione, aperta a quei club che avevano concluso la stagione senza aver vinto alcun trofeo e dunque esclusi dalle successive Coppe europee, dopo un inizio piuttosto incoraggiante, con l’andare degli anni si era persa nel disinteresse generale, soffocata dal prestigio sempre più crescente delle altre manifestazioni internazionali. Neppure i vari cambi di denominazione, da Coppa dell’Estate a Coppa Intertoto, sarebbero riusciti a salvarla dall’anonimato, fino a quando la UEFA non decise di occuparsene direttamente rilevandone l’organizzazione allo scopo di assegnare alle vincitrici la qualificazione alla Coppa UEFA. Alla nuova Coppa Intertoto ufficialmente amministrata dalla confederazione europea venivano ammessi i club che nei rispettivi campionati nazionali appena conclusi si erano piazzati immediatamente alle spalle delle formazioni qualificate alla Coppa UEFA. Così come avveniva in ogni competizione europea, il numero delle squadre che un Paese poteva iscrivere variava in base al ranking UEFA: le Nazioni con il coefficiente più alto avevano diritto a più posti rispetto a quelle peggio piazzate. L’altra variabile riguardava le rinunce: furono molte le società che nel corso degli anni non vollero prendere parte al torneo estivo, vuoi perché anticipando considerevolmente la partenza della stagione c’era poi il rischio concreto di arrivare alla primavera successiva in riserva di energie, vuoi per via dei ritorni economici non certo stellari che convinsero più di un presidente a dare forfait.

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ALCIO

STORIE DI C

Speciale Intertoto 1995: STRASBURGO E BORDEAUX Dopo la Coppa dei Campioni/Champions League (la cui prima edizione risale al lontano 1955/56), la Coppa Intercontinentale (organizzata insieme alla consorella sudamericana CONMEBOL tra il 1960 e il 2004), la Coppa delle Coppe (disputatasi dal 1960/61 al 1998/99), la Coppa UEFA (nata nel 1971/72 e ribattezzata Europa League a partire dal 2009/10) e la Supercoppa Europea (scattata ufficialmente nel gennaio del 1974 con il netto successo dell’Ajax sul Milan), nel giugno del 1995 la UEFA inaugura dunque la sua sesta e, al momento, ultima competizione internazionale riservata ai club: la Coppa Intertoto. Ai nastri di partenza di questa prima edizione, 60 squadre provenienti da 34 Paesi. Subito entusiastica la risposta di Francia e Germania, che inviano 4 club a testa, e dell’Inghilterra (3 iscritte), meno quella di Italia e Spagna, che preferiscono rinunciare. Piuttosto insolita la formula: le partecipanti sono suddivise in 12 gironi all’italiana da 5 club. In ciascun raggruppamento tutte le squadre si affrontano una sola volta e ognuna gioca due partite in casa e due in trasferta. Le 12 prime più le 4 migliori seconde classificate si qualificano per gli ottavi di finale, da disputarsi in gara unica sul campo della prima estratta al sorteggio. Le 8 promosse si sfidano poi per i quarti di finale, anch’essi in partita secca, da cui scaturiranno le 4 compagini che daranno vita alle semifinali, ovvero due accoppiamenti con gare di andata e ritorno che eleggeranno le due vincitrici, le quali, oltre a ricevere il trofeo, si aggiudicheranno di diritto due posti nel primo turno della Coppa UEFA 1995/96. È un’edizione di alto livello, perché impreziosita da tanti campioni. Il Bordeaux schiera tra gli altri Christophe Dugarry, Zinédine Zidane e Bixente Lizarazu, tre futuri pilastri della Nazionale francese campione del mondo e d’Europa; il Bayer Leverkusen ha tra le sue fila gli anziani ma

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Ranieri ha vinto l’Intertoto nel 1998, alla guida del Valencia

ancor validi Bernd Schuster e Rudi Völler; nel Karlsruhe gioca il minuscolo fantasista Thomas Hässler, già campione del mondo con la Germania Ovest a Italia ‘90. Nel Cannes inizia a mettersi in luce Patrick Vieira, uno tra i centrocampisti più ammirati nel decennio successivo, mentre Robert Pirès e Patrick Mboma sono le stelle del Metz. Prestigiosa anche la rosa del Colonia, con in porta il campione del mondo Bodo Illgner, in difesa Henrik Andersen, trionfatore a Euro ‘92 con la Danimarca, e poi in attacco il cecchino austriaco Toni Polster. La fase a gironi si risolve con il clamoroso fallimento delle tre inglesi, Wimbledon, Sheffield Wednesday e Tottenham, tutte eliminate. Si prospetta dunque una sfida franco-tedesca per la vittoria finale, ed in effetti Bordeaux, Karlsruhe e Strasburgo raggiungono le semifinali, programmate per l’8 ed il 22 agosto. Il quarto incomodo è il Tirol Innsbruck, club austria-


co che agli ottavi ha eliminato il Colonia e ai quarti il Bayer Leverkusen. L’epilogo premia il Bordeaux, bravo a liquidare il Karlsruhe nonostante l’espulsione di Zidane nella sfida di ritorno, e lo Strasburgo, bloccato sull’11 a Innsbruck all’andata, ma poi giustiziere del Tirol con un netto 6-1 al ritorno in Francia. Mattatori il russo Aleksandr Mostovoj e l’ex atalantino Franck Sauzée. Memorabile sarà poi l’avventura in Coppa UEFA 1995/96 del Bordeaux, che approderà fino alla finale (persa contro il Bayern Monaco) dopo aver superato il favorito Milan ai quarti. Meno fortunato il cammino dello Strasburgo, che cederà proprio ai rossoneri di Fabio Capello al secondo turno.

1996: GUINGAMP, SILKEBORG E KARLSRUHE Interessante anche questa seconda edizione della Coppa Intertoto UEFA. Non sono più 2 ma 3 i posti disponibili per la vittoria e la conseguente qualificazione al primo turno

La Coppa Intertoto vinta dal Bologna nell’anno 1998

di Coppa UEFA. Dopo la figuraccia dell’anno prima, mancano le inglesi; le spagnole e le italiane continuano nel loro “gran rifiuto” e così ancora una volta a fare la parte del leone saranno le francesi e le tedesche, con una sorpresa finale. Ma andiamo per ordine: le partecipanti rimangono 60 suddivise in 12 gironi, ma a passare il turno questa volta sono solo le prime di ogni raggruppamento. Le “magnifiche 12” approdano direttamente alle semifinali, che consistono in 6 accoppiamenti con gare di andata e ritorno. Le 6 squadre promosse disputano poi le 3 finali, anch’esse strutturate in gare di andata e ritorno. Tra le squadre da tenere d’occhio, il Karlsruhe di Thomas Hässler, fresco campione d’Europa con la Germania; lo Stoccarda del campione del mondo Thomas Berthold e dell’attaccante brasiliano Giovane Élber; ma anche il Werder Brema del fantasista austriaco Andreas Herzog ed il Nantes, che nella stagione appena conclusa è stato semifinalista in Champions League. In pochi considerano il Guingamp dell’interessante laterale sinistro Vincent Candela o il Silkeborg allenato dall’ex eroe dello Scudetto del Verona, Preben Elkjær. Saranno proprio loro, francesi e danesi, la vera sorpresa di quest’edizione. Il Guingamp sfrutta un sorteggio favorevole ed arriva a giocarsi la finale con i russi del Rotor Volgograd. Perde 2-1 l’andata nella ex Stalingrado, ma nel ritorno in Francia basta l’1-0 firmato da Stéphane Carnot per la sospirata vittoria. Anche il Silkeborg approfitta di un calendario agevole, tanto che in finale se la deve vedere con gli sconosciuti croati del Segesta Sisak. Successo danese per 2-1 in Croazia, affermazione del Segesta in Danimarca, ma l’1-0 non è sufficiente: in Coppa UEFA ci va il Silkeborg, e per la Danimarca rimane questo l’unico trofeo a livello di club nelle competizioni UEFA. Il terzo vincitore è il Karlsruhe. I tedeschi in semifinale eliminano il Lierse, squadra belga che nel 1996/97 conquisterà

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ALCIO

STORIE DI C

Speciale Intertoto il titolo nazionale, ed in finale gli altri belgi dello Standard Liegi. A differenza del Bordeaux l’anno prima, il cammino delle 3 vincitrici in Coppa UEFA 1996/97 non sarà esaltante: Guingamp e Silkeborg fuori al primo turno (i francesi a opera dell’Inter), Karlsruhe eliminato agli ottavi dal Brøndby.

1997: LIONE, AUXERRE E BASTIA Anno nuovo e formula vecchia per la terza edizione dell’Intertoto. A contendersi i 3 posti disponibili per la qualificazione in Coppa UEFA sono 60 partecipanti provenienti da 33 Paesi. Ancora assenti inglesi, italiane e spagnole, sono le francesi a dominare in lungo e in largo conquistando il titolo con Lione, Auxerre e Bastia. La delusione è rappresentata dall’Amburgo, club già vincitore di una Coppa dei Campioni che in semifinale cede ai supplementari al Bastia. La formazione corsa avrà poi la meglio in finale, ancora ai supplementari, sugli svedesi dell’Halmstad, la cui stella è l’emergente Fredrik Ljungberg. L’altra vincitrice, il Lione, dopo aver preceduto nella fase a gironi il Rapid Bucarest allenato da Mircea Lucescu, rischia qualcosa in semifinale con i turchi dell’Istanbulspor. Poi, in finale, due successi contro i connazionali del Montpellier regalano al club l’unico titolo UEFA della sua storia. Si mettono in luce in particolare due ragazzi usciti dal vivaio, Frédéric Kanouté e Ludovic Giuly, entrambi attesi da un radioso futuro specialmente in Spagna, con le maglie di Siviglia e Barcellona rispettivamente. La terza regina dell’Intertoto è l’Auxerre, squadra allenata dal santone Guy Roux, in panchina dal lontano 1961, e sospinta in attacco da quello Stéphane Guivarc’h che sarà titolare della Nazionale francese campione del mondo l’anno dopo. Sarà proprio l’Auxerre a fare più strada nella Coppa UEFA 1997/98, venendo eliminato dalla Lazio ai quarti di finale. Fuori al secondo turno invece il Lione, per mano dell’Inter di Ronaldo, e il Bastia, estromesso dalla Steaua Bucarest.

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1998: BOLOGNA, VALENCIA E WERDER BREMA Nell’estate in cui la Nazionale francese conquista il titolo mondiale, per la prima volta nessuna squadra transalpina riesce a vincere la Coppa Intertoto UEFA. Il motivo, forse, risiede nel debutto nella manifestazione dei club italiani e spagnoli, fino ad ora assenti. Novità anche nella formula, totalmente rivoluzionata. Saranno 5 i turni deputati ad eleggere le 3 squadre campioni, e tutti secondo il sistema dell’eliminazione diretta con gare di andata e ritorno. 60 le partecipanti da 44 Paesi; l’Italia è rappresentata dalla Sampdoria e dal Bologna. I genovesi, noni in classifica nella Serie A 1997/98, partono dal secondo turno in programma a inizio luglio, dove piegano con fatica gli slovacchi del Rimavská Sobota. Gli emiliani, ottavi nell’ultimo campionato, esordiscono a fine luglio nel terzo turno, superando con qualche affanno di troppo i rumeni del Național Bucarest. Anche la Samp di Luciano Spalletti, trascinata sul campo da Vincenzo Montella e dal terzino campione d’Italia nel 1990/91, Moreno Mannini, archivia la pratica terzo turno con due vittorie in scioltezza sui belgi dell’Harelbeke, e così un sorteggio beffardo oppone in semifinale le nostre portabandiera. Ne nascono due sfide vibranti, che vedono i rossoblù di Carlo Mazzone vincere 3-1 l’andata al “Dall’Ara” (con tanto di spettacolare gol in rovesciata del terzino Michele Paramatti) e la Samp superare 1-0 i rivali al “Ferraris”, risultati che qualificano per la finale il Bologna, bravo poi a domare i modesti polacchi del Ruch Chorzów anche grazie al neo-acquisto Beppe Signori. Conquistano il trofeo anche il Werder Brema e il Valencia. Gli spagnoli schierano una delle migliori squadre nella storia della manifestazione. Claudio Ranieri ha infatti a disposizione assi come Claudio López, Jocelyn Angloma, Amedeo Carboni, Gaizka Mendieta e il giovane Cristiano Lucarelli. Sarà proprio il bomber livornese uno dei marcatori nella finale contro l’Austria Salisburgo. Sia il Werder Brema che il


Juventus-Rennes, finale Intertoto 1999 con Zidane bianconero - Foto Liverani

Bologna verranno poi eliminati in Coppa UEFA 1998/99 dall’Olympique Marsiglia: i tedeschi al secondo turno, i rossoblù addirittura in semifinale. Toccherà invece al Liverpool fermare la corsa del Valencia già al secondo turno.

1999: JUVENTUS, WEST HAM E MONTPELLIER Dopo il mediocre 7° posto conseguito nella stagione 1998/99, la Juventus deve suo malgrado cercare la qualificazione alla Coppa UEFA passando per il purgatorio dell’Intertoto. Quella agli ordini di Carlo Ancelotti, sia per livello tecnico che per palmarès, è forse la più prestigiosa compagine ad aver partecipato al torneo estivo in 14 edizioni. Ci sono Zinédine Zidane, Pippo Inzaghi, Edgar Davids e Gianluca Zambrotta; c’è Alessandro Del Piero, pronto al rientro dopo il grave infortunio del novembre 1998; c’è un portiere tra i migliori al mondo come Edwin van der Sar, e poi c’è la vecchia guardia rappresentata dai vari Antonio Conte, Ciro Ferrara, Paolo Montero e Gianluca Pessotto. Non può sfuggire il titolo a questa Ju-

ventus, anche se il debutto contro il Ceahlăul, squadra piazzatasi nona nell’ultimo campionato rumeno, è più duro del previsto e viene risolto solo da un gol in trasferta di Alessio Tacchinardi. Le semifinali con il Rostselmash Rostov, 6° classificato nel campionato russo 1998, sono un festival del gol a cui partecipa anche un ritrovato Del Piero, mentre più insidiose sono le finali con il Rennes, 5° nel passato campionato francese e forte di un paio di attaccanti giovani e temibili come il senegalese El-Hadji Diouf e il congolese Shabani Nonda. All’andata a Cesena, sede di tutte e tre le gare casalinghe della Juve in quest’edizione, Madama si impone 2-0 grazie alla doppietta di Inzaghi, mentre a Rennes i padroni di casa strappano uno spettacolare 2-2 che apre comunque alla Juventus le porte della Coppa UEFA. Per i bianconeri anche la soddisfazione di conquistare l’unico titolo UEFA che ancora mancava al proprio palmarès, un grande slam mai riuscito a nessun altro club in campo europeo. Negativa, invece, l’avventura dell’altra italiana in gara, il Perugia di Carletto Mazzone, fuori al terzo turno con i turchi del Trabzonspor con tanto di gravi intemperanze dei tifosi umbri nella gara di ritorno al “Renato Curi”. Vincono quest’edizione anche il West Ham di Frank Lampard, Rio Ferdinand e Paolo Di Canio e il Montpellier di Patrice Loko, che in finale ha la meglio sul più quotato Amburgo. Per inglesi e francesi l’esperienza nella Coppa UEFA 1999/2000 sarà però di breve durata; deludente pure quella della Juventus, travolta dal Celta Vigo agli ottavi di finale. Secondo la maggioranza dei tifosi, le fatiche supplementari pretese dalla partecipazione all’Intertoto saranno poi fatali ai bianconeri nel duello Scudetto con la Lazio, risoltosi a favore dei biancocelesti dopo un clamoroso crollo finale degli uomini di Ancelotti, in testa per quasi tutto il campionato 1999/2000 e definitivamente naufragati all’ultima giornata nel diluvio di Perugia. - Fine prima parte

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n o d i b i e d o Alfabet Marcio Santos

di Stefano Borgi

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Credit foto - Liverani


A CENA CON SHARON STONE Vittorio Cecchi Gori gli fece la promessa a patto che segnasse sette gol. Il brasiliano ne fece quattro, due di questi nella propria porta...

E

rano già passati due anni, e ancora Marcio Roberto Dos Santos (più semplicemente Marcio Santos) non si dava per vinto. Basic Instinct, film campione d’incassi del 1992, lo aveva colpito. Quasi folgorato. Soprattutto l’attrice protagonista, Sharon Stone (in arte Catherine Tramell) gli era rimasta dentro. Eppure, nel mezzo, il brasiliano non era stato con le mani in mano: l’addio al Botafogo, due stagioni in Francia (al Bordeaux), il trasferimento in Italia alla Fiorentina... Ma niente, per lui ciò che contava veramente era conoscere Sharon Stone. L’occasione gliela offrì Vittorio Cecchi Gori, produttore cinematografico, nonché presidente della Fiorentina. Vittorio, al momento della firma sul contratto, promise all’interessatissimo calciatore brasiliano una cena proprio con l’attrice americana. Praticamente il sogno di una vita. E del resto cosa vuoi che sia, a confronto, una brillante carriera calcistica, un mondiale appena conquistato, un ingaggio principesco in quello che (al tempo) era il campionato più bello del mondo? Quisquilie. E poi come si dice? Al cuor non si comanda... Non ce ne voglia il buon Marcio Santos, ma questa cena (lo diciamo senza cattiveria) non c’è mai stata. E neppure un aperitivo, una

stretta di mano, uno sguardo furtivo tra i due. Niente di niente. Anche perché l’obiettivo non era così facile da raggiungere. “Se fai 7 reti, ti faccio conoscere Sharon Stone!”, così aveva tuonato Vittorio Cecchi Gori. Dimenticando, forse, che Marcio Santos faceva lo stopper e non il centravanti. Addirittura sul tavolo fu calato il carico da undici: la possibilità, per il ragazzo, di una (piccola) parte nel sequel “Basic Istinct 2”, che Cecchi Gori avrebbe prodotto. Si sa che le parole le porta via il vento, e anche in quel caso fu così. Il brasiliano ce la mise tutta, certo, volontà e predisposizione non gli mancavano. Anche se l’inizio fu tutt’altro che facile: problemi con la lingua, con l’alimentazione, l’intesa da trovare dentro e fuori dal campo, un compagno di reparto (Alberto Malusci) troppo simile a lui. E gli attaccanti del campionato italiano? Ne vogliamo parlare? Mica come quelli di oggi. Lo abbiamo detto, al tempo il campionato italiano era il migliore sulla piazza: Gullit, Boksic, Casiraghi. E ancora Baggio, Vialli, Ravanelli, insomma... un battesimo (a dir poco) del fuoco. Alla 26° giornata poi, sfortuna delle sfortune, arriva il primo timbro sul tabellino dei marcatori: Bari-Fiorentina 2-2, gol di Carnasciali, Protti, Carbone e... Marcio Santos. Peccato fosse un’autorete. Andrà bene lo

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doni

ei bi Alfabeto d Marcio Santos

stesso? Cecchi Gori la conteggerà tra le sette necessarie? Eppure, la rete si è gonfiata, l’arbitro ha convalidato. E poi stai a guardare il capello, avrà pensato. Sei giorni dopo altro gol (stavolta nella porta giusta) col Napoli. E siamo a due. Il 21 maggio 1995, alla 32° giornata, il brasiliano serra i tempi e col Torino realizza in un colpo solo gol e autogol. In tutto fanno quattro segnature, buone o cattive che siano. Ahimè, il campionato però finisce, le reti restano 4, fatto sta che la promessa del

presidente non era più valida. La Fiorentina quell’anno arriva decima, e per la stagione dopo si cambia: spazio a difensori italiani, più complementari. Dal Bari arriva Lorenzo Amoruso, dal Foggia Pasquale Padalino, viene riconfermato Malusci... E allora a chi tocca andar via? C’è un’offerta dell’Ajax di 7 miliardi che non si può rifiutare, ed in punta di piedi (così come era arrivato) Marcio Santos se ne va. Lui ed il fratello procuratore. Lo score finale recita 32 presenze col giglio sul petto,

IL RICORDO DI CICCIO BAIANO Ai tempi del Napoli, Maradona lo chiamava “baianito”: per la tecnica sopraffina, per il controllo di palla, e perché era capace di palleggiare per ore senza stancarsi mai. Proprio come piaceva fare al “pibe de oro”. E succedeva che, a fine allenamento, i due funamboli dessero spettacolo sul campo di Soccavo, esaltando migliaia di napoletani accorsi apposta ad applaudire. E allora chi meglio di un brasiliano acquisito può giudicare un brasiliano vero? “Marcio Santos arrivò tra lo scetticismo generale – racconta Ciccio Baiano – nonostante poche settimane prima avesse vinto il mondiale col Brasile. Ricordo che fin dai primi allenamenti si vedeva che era forte: non aveva paura di uscire palla al piede, magari rischiare un dribbling, mostrava grande tecnica e grande sicurezza. Per assurdo quello si trasformò nel suo limite più grande, perché in Italia un centrale deve giocare semplice. A volte buttando via il pallone. Lui veniva dal Bordeaux, ed il campionato francese è diverso da quello italiano. Lui proprio non riusciva a cambiare le proprie abitudini, era nel suo DNA, e soprattutto all’inizio fece diversi errori che lo condizionarono. Poi si riprese, e a mio parere doveva essere riconfermato”. E invece fu ceduto all’Ajax di Van Gaal per 7 miliardi di lire. Perché secondo lei? “Non lo so, andrebbe chiesto a lui. Credo fu fatta una scelta, diciamo così... “filosofica”. Dal Bari, al suo posto arrivò Lorenzo Amoruso: difensore giovane, italiano, aggressivo in marcatura, completamente diverso da Marcio Santos. Con lui un altro italiano, Pasquale Padalino, e fu riconfermato Malusci. Non c’era posto per un quarto centrale”. Caratterialmente com’era Marcio Santos? “Era allegro, si era ambientato bene. Qualche problema con la lingua all’inizio, ma noi lo aiutammo molto. C’è da dire che in quegli anni la Fiorentina era un grande gruppo, fatto da professionisti e uomini veri”. Baiano, da attaccante ci dica... In allenamento riusciva a saltarlo? “Non era per niente facile saltarlo. Era forte fisicamente, non era veloce ma rapido nei movimenti, e poi era fortissimo di testa. Ripeto: per me la sua annata, alla fine, fu positiva”.

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2 gol (più due autogol), e la ciliegina della citazione nei “Fenomeni Parastatali”. Mai Dire Gol, programma cult degli anni ‘90, gli ha riservato un posto d’onore nella rubrica forse più famosa. Per qualcuno è considerata come una medaglia, per Marcio Santos chissà... Fin qui il gossip, la parte ludica, buona per i rotocalchi, quella che (ci spiace dirlo) è emersa più prepotentemente nell’anno in viola di Marcio Santos. Poi c’è quella tecnica, che, vi diciamo subito, lascia parecchio a desiderare. Però, vivaddio, siamo sempre di fronte ad un campione del mondo, un calciatore proveniente dalla terra della samba, del Futbol Bailado, uno che in quel pomeriggio di Pasadena alzò la coppa... Anche se fu l’unico brasiliano a sbagliare un rigore nella lotteria decisiva. Tecnicamente Marcio Santos era un brasiliano a tutti gli effetti: ottimo controllo di palla, falcata elegante, testa alta nell’uscire palla al piede dall’area di rigore. E poi era fortissimo nel gioco aereo. Controindicazioni? Quelle tipiche dei verdeoro: poco cattivo, lento quanto basta, morbido e disattento in marcatura. E poi (lo abbiamo già detto) l’abbinamento con Malusci che per caratteristiche era la sua copia carbone. Risultato, una difesa che in 34 partite prese 57 gol, attaccanti rapidi che con lui andavano a nozze, una quantità di palle perse nella propria metà campo. Nel girone di ritorno Marcio Santos migliorò, sensibilmente, come era prevedibile. Sono stati dati sei mesi d’ambientamento ad un mito come Passarella, vuoi non darli ad un ragazzone

Marcio Santos è stato portato in Italia dal presidente viola Vittorio Cecchi Gori

diventato (quasi per caso) campione del mondo? Va bene che andò ad Usa ‘94 solo perché, in un colpo solo, si erano infortunati Mozer, Ricardo Rocha e Ricardo Gomes, ma qualcosa doveva pur valere. Oramai, però, dalle parti di viale Fanti il vento soffiava contrario. Lui manteneva quell’allegria e disincanto tipica dei brasiliani, ma in società la decisione era stata presa. Marcio Santos a giugno se ne va, lo fa senza salutare, ed approda all’Ajax di Louis Van Gaal. Dalla padella nella brace: avversari più scarsi e campionato più abbordabile, certo... Di contro, allenatore a dir poco complesso. Insomma, due stagioni da dimenticare. E sullo sfondo il declino inarrestabile. Oggi Marcio Santos fa il commentatore per la TV brasiliana, non ha perso il sorriso, anche se la bilancia (per il peso) piange... piange parecchio! Di lui resta il rimpianto per non aver sfondato, l’immagine tenebrosa (quasi enigmatica) dell’uomo che non deve chiedere mai, ed il sogno irrealizzato di cenare con Sharon Stone. Chissà se Marcio Santos avrebbe fatto a cambio...

Si ringrazia Panni per la gentile concessione delle immagini

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SCOVATE

da carletto Carlo CARLETTO Nicoletti (Direttore Artistico MATCH MUSIC) seguirà i profili Instagram e Twitter dei giocatori più importanti del pianeta Calcio e ci segnalerà le foto e i tweet più divertenti e particolari. Segnalate quelle che magari potrebbero sfuggirgli scrivendogli al suo profilo Twitter e Instagram @carlettoweb

RISPOLI

Il giocatore del Palermo reduce dallo spareggio play off con il Frosinone per salire in Serie A.

IAGO FALQUE

Esente da impegni mondiali il giocatore del Torino non si risparmia nemmeno in questi primi giorni di vacanza.

BLASZCZYKOWSKY

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In aereo direzione Russia per il mondiale con la compagine polacca.

Bel collage fotograficio per il “muro di Berlino” del 2006.

ZAPATA

Bella foto di squadra per la Colombia sull’aereo direzione Russia.

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Il centrocampista dell’Udinese pronto ad una nuova sfida mondiale con la Svizzera.

Anche il neo allenatore del Napoli in Russia per la partita inaugurale del Mondiale.

DAVID VILLA

Foto ricordo per il mondiale vinto in Sud Africa nel 2010 per l’attaccante spagnolo.


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