Calcio2000 n.247

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Calcio 2OOO

Bimestrale

diretto da Fabrizio Ponciroli

LUG

247 AGO

BE €8,00 | F €11,50 | PTE CONT €7,50 | E €7,50 | CHCT fch 8,50

prima immissione 01/07/2020

3,90€

intervista esclusiva ESCLUSIVA

Romulo

“Mi diverto ma studio già da allenatore” esclusiva parma ESCLUSIVA

SPECIALE CAMPIONISSIMI zinedine zidane

STORIA DI UN PRINCIPE Numero Speciale

con le figurine calciatori 2019-20

Dalla Serie D alla A “Che incredibile impresa” giganti del calcio ESCLUSIVA

CastÁn, capitano del Vasco “Roma mi è rimasta nel cuore”

LEGGENDE DEL CALCIO Romario, il “piccolo” asso

Ribelli del Calcio O Animal Edmundo

Eroi per un giorno Calori e il gol del 2000

Alfabeto dei Bidoni

Ogasawara, chi lo ricorda?


FIGURINE 2019•2020

OCCASIONE IMPERDIBILE!

Multipack 7 BUSTINE (42 FIGURINE) E 6 PUNTI CALCIOREGALI*

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FP

IL PALLONE ROTOLA, I SOGNI TORNANO…

H

o temuto a lungo di non poter rivedere un pallone rotolare… È stata una paura tangibile, improvvisa, fredda. Il mondo è stato messo in stand-by da un maledetto virus ma, poco alla volta, la voglia di vivere ha sbriciolato le certezze del Covid-19. Il calcio, a fatica, è tornato protagonista. Siamo ancora lontani da ciò che eravamo soliti ammirare e amare ma, onestamente, qualcosa è meglio di nulla… Il calcio di oggi è diverso da quello visto prima della pandemia. Sembra un altro sport e, per certi versi, lo è. Ci si muove con i guanti, in tutti i sensi. Forse eravamo troppo sfrenati prima o, semplicemente, davamo per scontate alcune gioie che ora ci mancano tremendamente. Il passato ha un fascino indiscutibile. Con il trascorrere del tempo, tutto quello che è stato acquista di brillantezza, diventando ancor più affascinante di quanto realmente era. Poi c’è la classica eccezione che conferma la regola: Zinedine Zidane. È lui l’uomo copertina del numero. Una scelta ponderata e con una precisa motivazione. In attesa di tornare a godere del calcio “vero”, doveroso ricordarsi dell’epopea del Principe in grado di fare magie in campo. Uno speciale su Zizou, giocatore sublime come l’era che ha

dominato. Un omaggio ad un fuoriclasse unico che, ancora oggi, fa la differenza in panchina. Forse, quando calcava i campi da gioco della Serie A, non l’abbiamo valutato come sarebbe stato giusto fare perché, uno come Zidane, andava idolatrato come i Grandissimi della storia del calcio. Pensate se fosse contemporaneo di Messi e CR7… Meglio non fare paragoni, come mi ha detto lo stimato Buffa “… non puoi paragonare campioni di ere diverse tra loro”. Però possiamo tornare con la memoria all’era del Principe Zizou. Una storia ricca di aneddoti con un finale amaro che ha segnato la sua eredità calcistica per sempre… Numero ricco quello che avete tra le mani. Dalle confessioni del jolly Romulo alla nuova vita calcistica dell’ex giallorosso Leandro Castan, passando per uno splendido speciale dedicato a coloro che c’erano quando il Parma era in Serie C e ci sono ancora oggi nel Parma protagonista in Serie A. Bellissimo l’affresco di due brasiliani molto diversi tra loro ma con in comune il talento, ossia Romario e O Animal Edmundo. Spazio anche all’incredibile epilogo dei Campionati Europei del 1992 e tanto ma tanto altro… Buona lettura amici miei e grazie per il vostro affetto!!!

editoriale

Ponciroli Fabrizio

Le scene della nostra vita sono come rozzi mosaici. Guardati da vicino non producono nessun effetto, non ci si può vedere niente di bello, finché non si guardano da lontano

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SOMMARIO

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Calcio2OOO

Anno 23 n. 3 luglio/agosto 2020 ISSN 1126-1056

BOCCA DEL LEONE 6 LA di Fabrizio Ponciroli ZIDANE 8 ZINEDINE SPECIALE di Mirko Di Natale

RANGERS 44 GLASGOW MAGLIE STORICHE di Gianfranco Giordano

52 EDMUNDO RIBELLI DEL CALCIO di Stefano Borgi

TABAREZ 58 OSCAR GRANDI ALLENATORI di Luca Gandini

Registrazione al Tribunale di Milano n.362 del 21/06/1997 Prima immissione: 01/05/2020 Iscritto al Registro degli Operatori di Comunicazione al n. 18246

EDITORE TC&C srl Strada Setteponti Levante 114 52028 Terranuova Bracciolini (AR) Tel +39 055 0132544 DIRETTORE RESPONSABILE Michele Criscitiello Diretto da Fabrizio Ponciroli Redazione Marco Conterio, Luca Bargellini, Gaetano Mocciaro, Chiara Biondini, Simone Bernabei, Lorenzo Marucci, Pietro Lazzerini, Tommaso Maschio, Lorenzo Di Benedetto.

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leandro CASTAN GIGANTI DEL CALCIO di Fabrizio Ponciroli

16 PARMA SPECIALE di Sergio Stanco

24 ROMULO INTERVISTA ESCLUSIVA di Fabrizio Ponciroli

FOSSATI 30 NATALINO VECCHIE GLORIE di Gianfranco Giordano

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CALORI 72 ALESSANDRO EROI PER UN GIORNO di Antonello Schiavello

ORLANDINI 76 PIERLUIGI DOVE SONO FINITI? di Sergio Stanco

BORDIN 80 ROBERTO FRATELLI D’ITALIA di Sergio Stanco

Hanno collaborato Sergio Stanco, Gianfranco Giordano, Patrick Iannarelli, Antonello Schiavello, Mirko Di Natale, Stefano Borgi, Carletto Nicoletti, Luca Gandini e Thomas Saccani Realizzazione Grafica Francesca Crespi Fotografie Image Photo Agency, Agenzia Aldo Liverani, Federico De Luca, Mascolo/Photoview. Statistiche Redazione Calcio2000 Contatti per la pubblicità e-mail: media@calcio2000.it

ROMARIO LEGGENDE DEL CALCIO

Stampa Tiber S.p.A. Via della Volta, 179 25124 Brescia (Italy) Tel. 030 3543439 - Fax. 030349805

di Patrick Iannarelli

OGASAWARA 86 MITSUO ALFABETO DEI BIDONI di Thomas Saccani

90 DANIMARCA-GERMANIA GARE DA RICORDARE

Distribuzione Mepe S.p.A. Via Ettore Bugatti, 15 20142 Milano Tel +39 0289592.1 Fax +39 0289500688 Calcio2000 è parte del Network

di Stefano Borgi

DA 98 SCOVATE CARLETTO

Il prossimo numero sarà in edicola il 10 settembre 2020 Numero chiuso il 23 giugno 2020



bocca del leone

la

Ciao Andrea, ho notato dalla mail (scusa l’abbiamo tagliata per questioni di spazio) che hai, beato te, 16 anni. Quindi, credo che qualche nome magari ti suonerà strano o “fuori luogo” ma questa è la mia Juventus di sempre: Buffon; Gentile, Scirea, Chiellini, Cabrini; Boniperti, Tardelli; Zidane, Sivori, Platini; Cri-

stiano Ronaldo. Un 4-2-3-1 decisamente a trazione anteriore, non credi? QUANDO UN GIOCATORE DELLA LAZIO? Redazione, sono Mauro e volevo sapere perché non si parla mai della Lazio su Calcio2000. Mai un giocatore nella storia di Calcio2000. Per caso è perché si vende più con Juventus, Inter e Milan? Non penso visto che ci sono anche tanti tifosi della Lazio e di tante altre squadre. E poi quest’anno si vince lo Scudetto e quindi sarebbe giusto far conoscere il passato della Lazio e della sua gloriosa storia. Perché non ne parlate mai? E poi vi dico che dovete parlare più anche di grandi campioni del passato. Ce ne sono tanti che la gente non conosce come Chinaglia che era fortissimo e

» RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO

avrebbe vinto tanto oggi con gli attaccanti scarsi che ci sono. Rispondetemi grazie Mauro, mail firmata Mauro, ho notato che sei andato dritto al punto… Guarda, non siamo affatto “nordisti”, te lo posso assicurare (il nostro editore è di Firenze)… A volte, con alcuni club, non è facile avere interviste in esclusiva con i propri tesserati. Non è sempre una nostra scelta. Inoltre, ultimamente, avrai notato che spingiamo molto su aneddoti e curiosità storiche. La Lazio l’abbiamo trattata. Ricordo lo speciale, davvero bellissimo, sulla Lazio di Maestrelli, un’intervista al capitano Mauri di qualche anno fa e pure di Chinaglia abbiamo già parlato… Ma, hai la mia parola, il club biancoceleste è nei nostri pensieri e avrà il suo spazio, a prescindere dalla vittoria o meno dello Scudetto.

»

L’UNDICI BIANCONERO DI SEMPRE Cara Redazione, ho una richiesta/messaggio per Fabrizio Ponciroli. Sto raccogliendo per la mia pagina Facebook l’undici più forte della storia della Juventus e vorrei avere anche quello di Ponciroli o qualcuno che rappresenti Calcio2000. La formazione ideale verrà pubblicata sulla mia pagina personale e poi condivisa sui gruppi bianconeri ai quali partecipo. Andrea, mail firmata

Riccardo Ercolini, nato a Pescia (Pt) il 24 gennaio 1964 (56 anni), laureato in Scienze Politiche e in Storia, giornalista pubblicista (già collaboratore sportivo di alcuni periodici e dei quotidiani “La Nazione” e “Il Tirreno” ) e da sempre nostro appassionato lettore, colleziona da circa 40 anni materiale sportivo, dai libri sulla storia delle società, agli album di figurine calciatori (oltre 1000 quelli posseduti) fino a tutto ciò che riguarda singole tematiche, come i mondiali di Spagna 1982. In particolare Ercolini colleziona distintivi di calcio e di altri sport; ne possiede oltre 30 mila, tutti ordinatamente catalogati, divisi per disciplina, nazionalità e, riguardo a quelli italiani, per regione e in ordine alfabetico. Le tipologie dei distintivi (altrimenti conosciuti anche come spille o pin) sono in estrema sintesi quattro: a “piedino” (di solito i più vecchi e pregiati), ovvero quelli da applicare al risvolto della giacca. A seguire quelli a spilla da balia, un tempo la versione femminile del distintivo (le donne non indossavano la giacca). Poi ci sono quelli a spillone, diffusi soprattutto in Germania, Austria, Svizzera e nord Europa. Infine i distintivi a clip, con la “farfallina” che si stacca sul retro, solitamente i più recenti, dagli anni ‘80 in poi.

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di Fabrizio Ponciroli

NON UNA PAROLA SUL CORONAVIRUS… Direttore Ponciroli, mi sembra una persona posata e intelligente. Come mai non c’è una sola parola sul Coronavirus su Calcio2000? C’è tanta gente che ha sofferto e che merita rispetto. Sono deluso dal suo atteggiamento. Carlo, mail firmata Caro Carlo, come vede sono stato di parola e le rispondo direttamente nella Bocca del Leone, così da dimostrarle che non ho segreti. La nostra/ vostra rivista è dedicata al calcio. Racconta di grandi eroi del pallone e delle loro gesta. In che modo avrei dovuto “portare rispetto” a chi ha sofferto a causa del Covid-19? Credo che il continuare a lavorare e permettere ai lettori di trovare Calcio2000 in edicola sia stato un gesto coraggioso. Siamo mossi dalla passione per il calcio. Il Covid-19 è stato l’argomento più trattato per mesi. Che senso avrebbe avuto parlarne anche qui? Ho preferito raccontare

di calcio, cercando di distrarre, almeno per qualche minuto, la gente dalle quotidiane difficoltà. Tutto qui… NON è CALCIO SENZA TIFOSI Ponciroli, lei continua a dire che il calcio deve tornare e che non si può aspettare il vaccino. Non la penso come lei e le dico che non è calcio senza tifosi. Io vado a San Siro da 12 anni e so cosa vuol dire guardare una partita dallo stadio e non dalla poltrona come fate voi giornalisti e poi giudicate senza capire che è diverso. Senza tifosi non c’è il calcio. Va chiuso tutto e aspettato il vaccino per tornare allo stadio. Roberto, mail firmata Roberto, mi spiace ma non sono affatto d’accordo con la tua visione del calcio. Un paio di appunti (spero non te la prenderai). Primo: d’accordissimo sul fatto che i tifosi siano l’anima del calcio. Sia quelli che riempiono gli stadi ma anche tutti quelli che seguono il calcio “dalla poltrona”.

Senza tifosi allo stadio, è un altro calcio. Non ci sono dubbi. Ma ritengo che sia stato giusto riprendere a giocare. Se tutti restassimo fermi ad aspettare il vaccino cosa accadrebbe alle nostre vite? Immagina tutto un popolo immobile ad aspettare, senza far nulla… No, il calcio è un’azienda e andava rimessa in gioco anche se parzialmente (almeno per ora ma sono certo che i tifosi torneranno ad animare gli stadi molto presto). Seconda osservazione: non so a quali giornalisti ti stai riferendo. Posso garantirti che, per quanto mi riguarda, ho visto, dal vivo, più di 500 partite di calcio e di ognuna conservo pure l’accredito. Io adoro il calcio “live” e, se devo fare un servizio, faccio di tutto per essere “sul posto”. Tuttavia, adoro anche rilassarmi sul divano (non ho la poltrona) e guardarmi partite di ogni Paese. Mi piace il calcio, sempre e comunque… Magari non ne capisco molto ma mi piace il calcio in tutte le sue forme, anche senza tifosi e dal divano di casa mia.

CONSIGLI PER GLI ACQUISTI LO STADIO di Marco Fedele 11 maggio 2003, Codegono (LO). È l’ultima giornata di campionato di Serie D e la locale squadra di calcio, la Codegonese, sta per scendere in campo. Se batterà il Fiorenzuola, verrà promossa in Serie C2. Il terzino Andrea Foppa Pedretti, però, decide di fare un patto con Carlo, il direttore sportivo, di cui ha scoperto i maneggi contro la società: una bustarella in cambio di un goal regalato agli avversari e del suo silenzio sulle attività illecite del dirigente. Quest’ultimo ha solo novanta minuti di tempo per decidere se accettare la proposta e scoprire le prove in mano al difensore. Mentre le due compagini sono in campo e gli spalti sono gremiti, si farà aiutare nell’impresa dai suoi scagnozzi, Mario e Chicco, e si renderà conto che nel mondo del pallone di provincia non è il solo ad essere marcio.

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SPECIALE

Zinedine Zidane di Mirko Di Natale

LE PRINCE ZIZOU: LA SEMPLICITÀ DEL N.1 8


c’

è una domanda ricorrente a cui ognuno di noi darà inevitabilmente una risposta diversa: quale è il ricordo che possiedi di Zinedine Zidane? Si potrà rispondere parlando della celebre testata a Marco Materazzi nella finale mondiale oppure citando quello che è stato il ruolo da protagonista avuto nel conquistare vittorie durante il suo percorso dal calciatore. I più romantici, invece, narreranno le gesta e le sue giocate imparate a memoria come le poesie del Manzoni e del Leopardi recitate a scuola, specialmente a chi non ha avuto la possibilità di conoscerlo e di apprezzarlo con indosso le maglie di Cannes, Bordeaux, Juventus, Real Madrid e Francia. Ma c’è anche chi, innamorato follemente di quel giovanotto nato sotto il segno del cancro che dispensava magie ed effetti speciali ad una platea non totalmente elitaria, ha provato ad imitarne le gesta sui campetti di periferia e ancor oggi, a distanza di molti anni dal suo

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SPECIALE

Zinedine Zidane

Si ringrazia Panini per la gentile concessione delle immagini

ritiro, lo fa indossando le sue storiche maglie numero 5, 7, 10, 21. La trasmissione di quel segnale non ha bisogno di apparecchi sofisticati per funzionare, poiché l’emozione e il sentimento sono ragioni valide ed autentiche che permettono di celebrare colui che è senza ombra di dubbio nella top ten dei giocatori e degli allenatori di sempre. In pochi, pochissimi, pochissimissimi sono riusciti in questa ardua impresa. CANNES Era talmente complicato pronunciare il suo nome di battesimo tutte le mattine durante l’allenamento che il suo ex allenatore ai tempi del Bordeaux, Rolland Courbis, lo battezzò “Zizou”. Quello che anni dopo sarà un retroscena gustoso svelato a RTL, farà invece pensare a quel

nomignolo che doveva rimanere tra le mura amiche è invece oggi è un marchio riconosciuto globalmente. Perché lo puoi pronunciare Zi-zo-u, Zi-zu oppure Si-su (alla Paolo Montero n.d.r.), sta di fatto che la mente lo assocerà subito a lui proiettando una sua immagine mentre è lì a dispensare le rouleta a centrocampo. Già. Non è un aspetto da trascurare questo, perché Zidane ad inizio carriera veniva schierato come terzino sinistro e sarebbero state grandi le possibilità di non vedere lì in mezzo al campo l’esteta del pallone. Anzi. Oggi sicuramente ne discuteremo come per Maldini e Roberto Carlos. L’adolescente Zinedine – il cui nome significa “bellezza della religione” – iniziò ad affacciarsi con insistenza alla prima squadra del Cannes all’età di 16 anni e nelle due presenze raccolte gettò le basi per il fuoriclasse

Anche da allenatore, Zidane ha dimostrato di essere un fuoriclasse assoluto

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LO SCHERZO A ZIZOU Vi immaginereste mai, al giorno d’oggi, delle burle combinate a Lionel Messi o a Cristiano Ronaldo da parte dei loro compagni di squadra? Un giorno forse verranno fuori, ma francamente ad oggi pare molto difficile davvero poterle soltanto immaginare. Ma in un periodo dove il gioco del calcio era preso con più leggerezza anche dagli stessi tifosi, Zinedine Zidane ha raccontato di esser stato vittima di diversi scherzi. E Alessandro Birindelli, nel ripercorrerne i momenti vissuti insieme, non ha risparmiato questo ricordo: “Nello spogliatoio, molto spesso, usavamo prenderci in giro e far scherzi di qualsiasi natura in maniera bonaria. Chiunque poteva esser la vittima, ovviamente Zizou non era escluso da questo discorso – ha ricordato -. Di lui, in particolare, ricordo che indossava dei particolari calzini che gli furono tagliati”. Il racconto coincide con quanto raccontato dallo stesso attuale tecnico del Real Madrid alla rivista francese “So foot” qualche tempo fa: “Nello spogliatoio della Juve c’era un po’ di nonnismo. All’epoca portavo i calzini marca Achile, corti e appariscenti. Ho poi scoperto che in Italia con i calzini non funziona così. Alla fine di un allenamento li ho trovati tagliati a strisce ed incollati sul mio armadietto. Mi hanno poi detto che i calzini, rigorosamente a tinta unita, andavano indossati ad altezza polpaccio. Da allora niente più Achile”. Uno spogliatoio quello, come sottolineato più volte dai vari protagonisti nel corso del tempo, che non si divertiva soltanto vincendo.

che sarebbe poi diventato. In quel periodo viveva a Pégomas, villaggio che gli dedicherà per rispetto e riconoscenza una piazza a suo nome. Fu decisivo il lavoro dell’allora osservatore Jean Varraud, che fece di tutto per portarlo con sé nella città che non sarebbe stata più conosciuta soltanto per il festival del film e la sua passeggiata della croisettes. E come nella normalità dei casi e senza voler strafare troppo, impiegherà il giusto tempo per prendersi la meritata luce dei riflettori e quando vi riesce, nella stagione 1991/92, nessuno più avrà il coraggio di staccar la spina. Prima però c’è da raccontare l’episodio datato 10 febbraio 1991: i primi scorci di talento già narrati si evidenziarono nel match con il Nantes dove Zidane risulterà essere il match winner dell’incontro. Il giorno dopo il presidente Alan Pedretti decise di regalargli una macchina. Il dono, sicuramente apprezzato, sarà soltanto uno dei suoi successi lavorativi. L’anno dopo, infatti, riuscì a trascinare i dragoni rossi alla conquista di un quarto posto che ha il significato di Europa. Per la società è ancor oggi il mi-

glior risultato di sempre tra i confini nazionali. Mica male. BORDEAUX Il ventenne nativo di Marsiglia scatena l’interesse di molti club e diversi allenatori vorrebbero allenarlo. A spuntarla, per una cifra che ad oggi è da considerarsi vicina ai 450mila €, è il Bordeaux del già citato Courbis, neopromosso in Division 1 e ambizioso di poter battagliare per un posto tra le grandi di Francia. Sul campo è il genio e la sregolatezza a contraddistinguerlo dai suoi colleghi, perché riesce ad attestarsi come beniamino indiscusso della folla nonostante a volte si renda protagonista in negativo come nel match con il Marsiglia del 1993 in cui tira un pugno al connazionale Marcel Desailly. Un ragazzo che stava diventando uomo, con un carattere mite e tranquillo dove spiccava maggiormente l’etica e il senso della famiglia. Grazie a lui il Girondins vola. Eccome se vola. I due quarti posti ottenuti consecutivamente e un anno di transizione lo fanno arrivare a disputare la stagione 1995/96 che sarà quella

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SPECIALE

Zinedine Zidane

I suoi anni alla Juventus sono rimasti indelebili nella mente dei tifosi bianconeri

che probabilmente gli cambierà la carriera. Non c’è soltanto il passaggio da ragazzo a uomo, bensì anche quella da uomo a campione. Il 1994 verrà visto come l’anno della definita svolta con la parola chiave da ricercare in “responsabilità”. Sì, perché in quei dodici mesi che possono sembrare uguali a tutti in realtà si riveleranno essere decisivi per la sua definitiva ascesa: si sposerà con Veronique, continuerà a far benissimo con la maglia del Bordeaux e dulcis in fundo sarà chiamato a ricostruire una nazionale francese che ha toppato incredibilmente la qualificazione ad USA 94. È da qui che c’è il punto di partenza della storia chiamata “Le Prince Zidane”. JUVENTUS “Prima di acquistarlo, l’ho osservato molto bene nel doppio confronto con il Milan del

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1996”, ci rivela Luciano Moggi interrogato sull’argomento: “Mentre i rossoneri ingaggiavano Dugarry per 18 miliardi, io lo presi a 5 e feci un grande affare – ha aggiunto -. Però lo stavo seguendo da tempo, prima di avanzare un’offerta per lui mi ero informato sul chi fosse e sul come fosse. E tutte le risposte avute lo descrivevano come un giocatore all’altezza della Juventus, perché Zidane era raccontato come una persona eccezionale e un professionista che non era discutibile. Fuori da tutti i gossip, arrivava sempre prima al campo d’allenamento. I risultati ad anni di distanza parlano ancora per lui”. Nel ripercorrere le prime parole dell’ex direttore generale bianconero, Zidane trascinò alla vittoria i suoi rimontando lo svantaggio maturato a San Siro per 2-0 e contribuendo al passaggio del turno con i due assist allo stesso Dugarry che invece non lasciò una grande impronta nel club meneghino. La stagione terminerà con il grande dispiacere della finale di Coppa Uefa persa contro il Bayern Monaco, ma per Zidane fu il lasciapassare per unirsi alla Juve campione d’Europa che era stata decenni prima la squadra di “Le Roi” Michel Platinì. “Siamo arrivati lo stesso anno e l’impressione è stata fin da subito super positiva”, sottolinea Mark Iuliano che nell’estate del 1996 arrivò alla Juve dalla Salernitana: “Impose subito la sua grande umiltà, cercò di imparare la lingua per comunicare al meglio con noi e in allenamento ci stupiva continuamente per le sue grandi qualità”. Sulla stessa falsariga un altro suo ex compagno di squadra, Alessandro Birindelli: “Mi ritengo molto fortunato, semplicemente perché ho vissuto il suo momento migliore. Era il contrario di ciò che poteva apparire agli occhi della gente – ha affermato -, ad esempio il grande attaccamento con Paolo Montero. Nessuno lo poteva immaginare. Potevano sembrare due caratteri diversi, invece erano molto amalgamati”. A confermare le sue parole, fu proprio lo stesso Paolo Montero:


“Una persona silenziosa, altruista, estremamente umile. Avevamo un grande rapporto, ma non solo con me. Il gruppo era molto unito e nel tempo libero spesso andavamo a mangiare insieme. Bastava difendere bene e poi dare la palla a lui, era sempre smarcato pronto a raccogliere il pallone. Non parlava mai in io, ma sempre in noi. Lui e Ronaldo a mio parere erano i migliori di quel tempo”. Ma come Michel, anche Zinedine non si adattò subito alla Serie A. Un calcio diverso decisamente più improntato alla tattica, che in quel momento era il locomotore trainante della “belle époque” europea. A ricordarci quel periodo è proprio lo stesso Iuliano: “Lui arrivava dall’Europeo del 1996 disputato in maniera non molto esaltante, poi c’è anche da dire che il cambio di preparazione atletica lo penalizzò almeno inizialmente sotto questo aspetto perché Ventrone lavorava molto sulla forza – ha ricordato -. Ma in realtà questa era una difficoltà di tutti noi arrivati alla Juve, una volta acquisito il ritmo Zizou iniziò a crescere sempre più mostrandosi per quel che realmente valeva. Ad esempio, era uno di quelli che macinava più chilometri durante la partita”. Le difficoltà iniziali, ma quella voglia di non mollare mai che lo spinsero a far continuamente meglio. Inevitabilmente quel numero 21, che giocava in campo da 10 e attaccava lo spazio come un 11, era sempre più imprescindibile nello schema tattico di mister Marcello Lippi. Quella Juventus, però, si fermò incredibilmente a Monaco di Baviera perdendo da favorita la finale di coppa contro il Borussia Dortmund. Il secondo dei tre insuccessi consecutivi di Zinedine, la stampa tra l’altro coniò lo strampalato nomignolo di “le chat noir” (il gatto nero n.d.r.) perché alla debacle tedesca già accennata si aggiunse anche quella di Amsterdam dell’anno successivo con il Real Madrid. Lo stesso club che invece gli regalerà quella gioia che sembrava inarrivabile. Ma non c’era tempo per fermarsi e piangere, c’era

La vittoria del Mondiale da protagonista nel 1998, un momento top

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SPECIALE

Zinedine Zidane

Amato e rispettato da tutti, una leggenda del calcio assoluta

un mondiale da giocare in casa come pronto riscatto. La ricostruzione francese, in termini calcistici paragonabile alla rivoluzione di fine ‘700, portò alla ribalta nuovi talenti in erba tra cui l’estro stellare di Zizou. Non solo: c’era il triangolo di Bordeaux formato con Dugarry e Lizarazu, la gioventù ventenne formata da Henry, Trezeguet e Vieira, l’esperienza italica di Djorkaeff e Blanc. Quella Francia, a seguito di un cammino costellato da successi, terminerà la propria Coppa del Mondo sconfiggendo in finale i più blasonati e campioni in carica brasiliani con un rotondo 3-0, conquistando per la prima volta la coppa Rimet. Un successo storico bissato a vent’anni di distanza nella campagna di Russia del 2018. REAL MADRID Il trionfo in casa e la vittoria del pallone d’oro elevarono Zinedine Zidane come uno dei migliori interpreti di fine anni ’90 di questo sport.

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Dopo aver raggiunto la vetta e aver issato in alto la propria bandiera, con la “Vecchia Signora” iniziò ad esserci qualche difficoltà legata anche alla fine di un ciclo che l’aveva vista in un lustro vincere tanto sia in campo nazionale che in quello europeo. La squadra si stava rinnovando pian piano, i senatori sostituiti da nuove leve e l’infortunio di Del Piero complicarono e non poco la stagione 1998/99 che terminò con uno scialbo settimo posto e le due successive annate videro la Juve perdere il duello scudetto con Lazio e Roma. Le voci di una possibile cessione di Zidane si susseguono sempre più: “Avevo intravisto il possibile affare perché Perez aveva annunciato di volerlo portare al Real Madrid. Mi sono cautelato prendendo Nedved per una cifra inferiore – ha confessato Moggi -, così poi con il sostituto già in casa ho trattato molto l’importo e dagli iniziali 70 sono arrivato a 150 miliardi”. La Juve con quei soldi prese anche Buffon e


Thuram, vinse ugualmente e passò quasi tutto in cavalleria. Ma Iuliano manifesta in realtà come fu vissuto dai compagni il suo addio: “Eravamo Zidane dipendenti, nello spogliatoio eravamo tutti pazzi di lui e abbiamo fatto molta fatica ad abituarci. Ma al contempo siamo stati molto contenti, stava andando in una squadra incredibile come quella del Madrid”. Dalla delusione alla gioia, perché i suoi nuovi compagni come Ivan Campo erano entusiasti di avere un nuovo “Galacticos” tra loro: “Arrivava da una squadra incredibile, fin da subito si è dimostrato calmo e gentile – ha ammesso -. Il suo arrivo migliorò ancor più un blocco già forte di suo. Gli mancava solo vincer la Champions e ci riuscì a suo modo: fu decisivo a Glasgow con uno dei più bei gol nella storia della competizione”. E nemmeno un paio d’anni

dopo, il destino lo vuole nuovamente contro la sua Vieille Dame: “Ci fece un effetto strano vederlo dall’altra parte – ci spiega Birindelli -, il problema più grande per chi lo affrontava era trovargli la giusta contromisura. Ti mandava in confusione perché pensava prima degli altri. Era impossibile fischiarlo, il pubblico di Torino si comportò davvero molto bene”. Con quindici trofei di squadra conquistati, “Zizou” appese gli scarpini al chiodo nel 2006 a seguito del controverso episodio con Materazzi che, di fatto, ha concluso la sua carriera nel peggiore dei modi. Quel cartellino di colore rosso che, già qualche anno prima, avevano minato la vittoria del secondo pallone d’oro. Una macchia indelebile a cui è riuscito a rispondere nel migliore dei modi. Come? Diventar ancora più grande dietro la scrivania. PRESENTE Il grande lavoro svolto al Castiglia e l’affiancamento ad un grande maestro di calcio come Carlo Ancelotti sono stati il lasciapassare perfetto per esser il miglior allenatore possibile del Real Madrid, con cui ha vinto tre Champions di fila tra il 2016 e il 2018. Prima di andare in scena di fronte al grande pubblico, è stato in grado di plasmare il ruolo di gestore che oggi tutti gli riconoscono. Uno psicologo capace di far rendere al meglio ogni singolo calciatore allo scopo di ottenere un grande risultato. La forza di rendere tutti uguali, il talento è importante ma tutti nel gruppo devono essere convinti e motivati per vincere. Il suo segreto? Lo spiega lo stesso Montero, attuale tecnico della Sambenedettese: “Alle parole ha sempre preferito i fatti. Come da calciatore, anche da allenatore rende facile tutto ciò che è difficile. Il suo segreto è la semplicità”. La semplicità, la stessa con cui un bambino prende in mano un pallone e lo calcia. La stessa che ci fa appassionare ad una squadra e ci rende tifosi, la stessa che ci permette di scrivere una storia fantastica come quella di Zinedine Zidane.

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SPECIALE

Parma Calcio

di Sergio Stanco

Riviviamo la splendida cavalcata del Parma, artefice di una pagina di storia unica del calcio italiano: dalla Serie D alla A in sole quattro stagioni. E dopo la salvezza dello scorso anno, e l’ottimo campionato in corso, gli emiliani possono tornare a sognare in grande…

La Fenice Gialloblù

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uella del 19 marzo 2015 è una data che a Parma difficilmente dimenticheranno: in quel giorno, infatti, falliva il Parma FC. Oggi, a cinque anni di distanza, i tifosi gialloblù possono guardarsi indietro con grandissimo orgoglio. Il Parma Calcio 1913, ora, è un esempio di gestione, attaccamento alla maglia, di comunità d’intenti. E la parola comunità non è utilizzata a caso. E’, di fatto, storia nella storia. A salvare il calcio a Parma, infatti, ci hanno pensato sette imprenditori locali, che si sono fatti portavoce della passione popolare e hanno ricostruito il tutto dal nulla. Insieme a loro, città, istituzioni e tifosi, hanno partecipato non solo moralmente, ma anche economicamente, alla rifondazione. Dalla D alla A in sole quattro stagioni. Oggi la bandiera gialloblù sventola con orgoglio in tutti gli stadi della massima serie. Il vessillo, l’esempio, il simbolo di questa traversata è stato senza dubbio Alessandro Lucarelli, che ai tempi del fallimento ha fatto quello che il ruolo gli imponeva, ma anche molto di più. Capitano di tante battaglie in campo, è diventato faro per tutti i compagni e la gente di Parma, ha guidato il club fuori dalla tempesta, l’ha preso per mano in Serie D e l’ha trascinato nuovamente in A, per poi chiudere la carriera calcistica all’apice di un sogno realizzato, di una promessa mantenuta. Il 18 maggio 2018, sul campo dello Spezia, forse si è celebrata una delle favole più belle del calcio moderno italico: il Parma vince 0-2 in trasferta, ma deve aspettare che finisca la partita di Frosinone. L’atmosfera al Picco è surreale, profuma di vecchi tempi: tutti attaccati ad una radiolina aspettando il triplice fischio. Pregando. I ciociari non riescono ad abbattere il muro foggiano e il Parma, dopo sole tre

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stagioni, torna in Serie A. Adesso, più del 19 marzo 2015, a Parma ricordano il 18 maggio 2018. A testa alta, con grande orgoglio e altrettanta fierezza. A cinque anni di distanza, Alessandro Lucarelli è ancora lì, in società e in mezzo ai suoi tifosi, fotografia vivente di questa rinascita. Per come lo vediamo in forma, tirato come ai vecchi tempi, probabilmente potrebbe fare ancora la sua parte in campo, ma la carta d’identità è implacabile. E, poi, come ci racconterà lui stesso, meglio lasciare al top. E il miglior Capitano della storia del Parma (così è considerato in città e da tutti i tifosi gialloblù) lo ha fatto proprio nella serata del Picco perché, come nei miglior film a lieto fine, probabilmente non c’era momento migliore: “è stata sicuramente una scelta sofferta – ci racconta - avevo lo stimolo di fare un altro anno ma penso anche che un momento migliore per smettere non potesse esserci. Aver raggiunto la Serie A è come se avessi saldato il mio debito con la gente di Parma. Giocare un anno in più, anche se volendo avrei potuto farlo anche

“Un’avventura vissuta talmente in simbiosi che, a sentire i protagonisti, sembra che anche le emozioni vissute, per quanto personali per definizione, siano state esattamente le stesse” part-time o da “panchinaro”, non mi avrebbe fatto smettere così in alto come in quel momento. Non mi mancavano dieci presenze in A o raggiungere una salvezza in più. Mi ero dato un obiettivo quando siamo falliti, quest’obiettivo l’ho raggiunto ed è andata bene così. Il Parma in Serie A che lo sento

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mio perché è come se lo avessi consegnato ai giocatori che ci sono adesso. Ripartire dalla Serie D per arrivare alla Serie A è come se avessi seminato per loro per poi poter dire “Bene, adesso andate avanti voi”. Più che per i calciatori era un senso di dovere che avevo nei confronti della città: volevo riportare il Parma in Serie A, ci sono riuscito e sono contento di questo.”. Ed è per questo che ancora oggi, quando cammina per i vicoli di Parma, l’affetto della gente lo travolge: “Essere la bandiera, essere colui che ha fatto la storia del Parma, mi riempie d’orgoglio. Allo stesso tempo mi fa piacere il fatto che sia stato apprezzato l’uomo, oltre che il calciatore. Questo è il complimento più bello che potessi ricevere. Essere fermato per strada e sentirmi dire che son stato il più grande capitano della storia del Parma mi emoziona ancora oggi perché, pensando anche ai calciatori che sono passati da qui nel corso degli anni, non posso non esserne onorato. Sono consapevole che principalmente venga detto per l’uomo e per ciò che ho fatto al di fuori dal campo. Tutte cose importanti tanto quanto quelle fatto in campo”. Già, quanto fatto fuori dal campo, è stato for-


se più importante. La decisione di rimanere anche in Serie D, l’esporsi in prima persona e il rappresentare lo stato d’animo dei tifosi contro i soprusi di mercanti senza scrupoli, il difendere ancora oggi l’interesse di Parma calcio e dei suoi tifosi, lo legherà per sempre ad un popolo che lo ha eletto suo condottiero: “Non ho mai avuto nessun tentennamento. Già a febbraio avevo dichiarato che, se fossimo falliti, sarei rimasto. Anche in Serie D. E così ho fatto. Sono sempre stato convinto della mia scelta. Rifarei tutto senza ombra di dubbio. Mi sono sentito in dovere di farlo, di difendere in tutti i modi i diritti di una tifoseria e di una società che, in quel momento, era stata bistrattata da chi la gestiva. Lo rifarei senza alcun dubbio anche se poi il finale non è stato quello che speravo. Ho combattuto fino alla fine per provare a salvarla quella società, ma purtroppo non ce l’ho fatta. In quel momento mi sono sentito il garante dei tifosi. Dovevano sapere che, con me lì dentro, si sarebbe fatto di tutto affinché le cose potessero andare nella direzione giusta. Ho svestito i panni di calciatore e ho messo quelli di un innamorato del Parma, come un tifoso che avrebbe fatto di tutto per cercare di salvarlo”. La Serie D, però, è solo il primo capitolo di una meravigliosa saga. Alessandro ne è stato, e ancora ne è, l’artefice, ma dalla Lega Pro in poi ci saranno altri co-protagonisti. Nella stagione 2016/2017, Credit Foto: Parma Calcio 1913

CAPITANO MIO CAPITANO Alessandro Lucarelli era il Capitano di quel Parma che a fine della stagione 2014/2015 è finito in Serie D a causa del fallimento. E lo stesso Lucarelli aveva ancora la fascia al braccio il 18 maggio 2018 quando a Spezia è scoppiata la festa per la promozione in A. Pagato il debito di riconoscenza, ha appeso le scarpette al chiodo. Ma non ha mai smesso di difendere i suoi colori. E’ passata alla storia la sua lettera aperta contro il suo ex Presidente Ghirardi (considerato come il reale colpevole del fallimento del club) nel settembre 2017, alla viglia di un Parma-Brescia, con la quale lo invitava al Tardini per rendergli “omaggio”. E la “sfida” non è ancora finita: qualche tempo fa, proprio Alessandro Lucarelli, in qualità di Presidente del Comitato di creditori della vecchia società, ha rifiutato l’offerta di transazione di Ghirardi. L’unico a rigettarla. Perché ci sono cose, persone e bandiere, che non si possono comprare.

infatti, a Parma arrivano anche il Direttore Sportivo Faggiano, che a sua volta sceglie il tecnico D’Aversa e, tra i tanti acquisti per rinforzare la squadra, anche il difensore Iacoponi e il centrocampista Scozzarella. Oggi queste quattro figure, insieme ovviamente a quella del Capitano Lucarelli (attualmente Club Manager nell’organigramma societario), sono la dimostrazione che il calcio realizza sogni meravigliosi: “Conoscevo già la città – ci racconta il DS Faggiano, deus ex machina di questo Parma - c’ero stato da ragazzo e mi è sempre piaciuta, ma il fattore principale della mia scelta è stata la storia del Parma e il mio obiettivo era quello di riportare questo club dove meritava di stare. Era una sfida con me stesso e me ne sono reso conto, nella mia incoscienza, quando abbiamo vinto a Firenze contro l’Alessandria nella finale di Lega Pro. Lì mi sono reso con-

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to che, se non fosse andata bene, sarei potuto rimanere nel limbo tra Lega Pro e Serie B. Invece da lì è partito tutto”. Un’avventura vissuta talmente in simbiosi che, a sentire i protagonisti, sembra che anche le emozioni vissute, per quanto personali per definizione, siano state esattamente le stesse. Forse anche perché le storie e le motivazioni erano esattamente identiche. Parma come trampolino di lancio, come occasione da sfruttare per capire se veramente nel calcio ci si potesse stare ad alti livelli. E non era così importante

ripartire dalla Lega Pro, perché il Parma in quelle categorie c’era solo di passaggio. Almeno così era scritto sulla carta. Perché invece, la storia, sebbene finita bene, è stata molto diversa: “La promozione dalla Lega Pro alla Serie B – ci racconta Lucarelli – è stato il momento clou della nostra rinascita. Quello è stato il campionato più duro e logorante che ci potesse essere dei tre disputati”. E con lui, non a caso, è d’accordo anche Scozzarella: “Ovviamente era difficile immaginare un cammino del genere, non lo nego. Specialmente

“Dopo sole tre stagioni il Parma torna in Serie A. Adesso, più del 19 marzo 2015, a Parma ricordano il 18 maggio 2018. A cinque anni di distanza, Alessandro Lucarelli è ancora lì, fotografia vivente di questa rinascita”

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Il Parma è dei suoi tifosi Spesso si dice che un club di calcio non è del suo proprietario, ma bensì dei tifosi che lo sostengono. Il Parma Calcio 1913 ne è la dimostrazione concreta. Dopo il fallimento del marzo del 2015, infatti, è la società “Nuovo Inizio” a far risorgere il Parma dalle proprie ceneri. Sette imprenditori (e tifosi) locali, Barilla, Dallara, Del Rio, Ferrari, Gandolfi, Malmesi e Pizzarotti, più un nugolo di supporters gialloblù che, riuniti sotto l’effige della Parma Partecipazioni Calcistiche, ha sostenuto il club sottoscrivendo il 10% delle azioni societarie. Dopo una breve parentesi cinese, durata dal giugno 2017 alla fine del 2018, il consorzio di “Nuovo Inizio” ha ripreso in mano le redini del club, acquisendo nuovamente la maggioranza (il 60% del capitale, per la precisione). Dal febbraio 2020, infine, “Nuovo Inizio” ha rilevato il restante 39% in mano al gruppo cinese Desport. Quell’1% che manca, è ancora in mano a quei tifosi che il Parma lo amano alla follia, tanto da comprarselo pur di salvarlo. A volte, un 1% vale molto di più di quanto non sembri.

ne dei sette soci, gente parmigiana che tiene a questa squadra, ha fatto sì che insieme al lavoro di tutti quanti si potessero raggiungere questo tipo di risultati”. Poi, superate le prime difficoltà, si è avuta immediata percezione che l’obiettivo fosse a portata di mano: “Se qualcuno mi avesse detto che in tre anni sarei arrivato in A, gli avrei dato del pazzo – ci risponde sorridendo Iacoponi – ma era evidente che il progetto fosse serio fin dall’inizio, sono sincero. Ci ho creduto sempre di più vedendo come ha lavorato - e continua a lavorare - la società. E con il clima che si è creato con i miei compagni: era diventata la seconda famiglia. Questi due fattori sono stati fondamentali”. E ogni impresa ha il suo

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con le difficoltà avute in Lega Pro. Una scalata del genere non capita a tutti, anzi. Solo con il passare del tempo ho sempre pensato però che potesse accadere, ma per assurdo la più complicata e stressante è stata la promozione dalla Lega Pro alla Serie B. Sentivo il peso di dover fare subito quel passo per poter avere abbastanza tempo per concentrarmi sull’obiettivo per il quale ero arrivato a Parma: tornare in serie A”. Ognuno ha il suo momento critico, quello della svolta. Il Direttore ce l’ha chiaro in mente: “Oltre alle due promozioni ottenute, alla salvezza dello scorso anno e al lavoro svolto fino ad ora, c’è da raccontare tutto quel ‘’dietro le quinte’’ che è fondamentale: risistemare e cercare di dare quel qualcosa in più rispetto alla stagione precedente, in campo ma anche fuori. Ricordo, che in B avevamo vinto una sola partita nell’arco di 10-11 gare e facevamo un po’ di fatica: lì è stato un momento critico ma che ha fortificato me, Mister D’Aversa e la società. Tutti per uno e uno per tutti. Senza buttare fango sugli altri. Quello secondo me è l’emblema di tutte queste stagioni. Non mi aspettavo di riuscire a tornare in Serie A così velocemente, ma non è stato semplice raggiungere questo traguardo, un percorso iniziato ancor prima del mio arrivo, di quello di Mister D’Aversa e del suo staff. La passio-

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piccolo (o grande, dipende dai punti di vista) segreto. Ce lo svela Scozzarella: “A prescindere dai grandi investimenti fatti dalla società, il segreto è sempre stato quello di cercare di far capire, a chi si inseriva nel nostro gruppo, l’importanza di far parte del Parma. Abbiamo superato momenti che senza questa senso di appartenenza non avremmo mai superato”. Quello che lega indissolubilmente questi “eroi” alla città ed ai tifosi. E ora il Tardini rivive i brividi di una volta. Come il boato di Parma-Fiorentina, 19 maggio 2019, momento dell’aritmetica salvezza in A. Perché come molti dicono, arrivare in alto non è così difficile come rimanerci. E’ questo il momento più bello, emozionante e rappresentativo per Scozzarella: “La soddisfazione più grande è stata senz’altro la salvezza in

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“E ora il Tardini rivive i brividi di una volta. Come il boato di Parma-Fiorentina, 19 maggio 2019, momento dell’aritmetica salvezza in A. Perché come molti dicono, arrivare in alto non è così difficile come rimanerci” Serie A. Con la vittoria sulla Fiorentina si è chiuso un cerchio. In casa, la penultima giornata, ho ripagato scelte e sacrifici fatti negli anni precedenti. Ho un ricordo fantastico di quella partita: vittoria per 1-0 che ci ha regalato la salvezza. È stato bello entrare nell’azione del gol calciando la punizione e vedere la felicità negli occhi di ogni singola persona allo stadio”. Ognuno, però, ha le sue memorie estremamente personali. Iacoponi ne ha una molto intima: “Fare il capitano a Firenze è stato un momento emozionante e particolare. Rappresentavo questa società e questa squadra in uno stadio importante, vicino casa mia, con mio papà e mia sorella che tifano Fiorentina e che quel giorno – almeno spero (ride, ndr) – tifavano Parma. E’ stato un momento unico, con la vittoria come

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ciliegina sulla torta. Una giornata indimenticabile, anche se la promozione in A è stata fantastica, perché inaspettata in quel momento. Avevo il sogno di poter giocare nella massima serie e questo sogno, alla fine, si è concretizzato. La promozione in B, invece, credo sia stata la più importante”. Ci sono le emozioni, e poi c’è la saggezza, la razionalità e la concretezza del DS Faggiano: “Abbiamo vissuto tanti momenti importanti in questi anni. E’ normale che la finale con l’Alessandria in Lega Pro, e la partita sul campo dello Spezia che ci ha regalato la promozione in B, siano state gare ricche di emozioni. Gioie che non si dimenticheranno mai. Così come non dimentico la gara con la Fiorentina dello scorso anno che ha sancito l’aritmetica salvezza. Anche se, come dico


possono ambire a tornare una delle prime squadra in Italia - il pensiero del difensore -. Qui non manca niente. E’ normale che i passi fatti in questi anni sono stati giganteschi, non ci deve essere fretta perché altrimenti si rischia di rovinare quanto di buono è stato fatto”. “La società è in costante crescita – gli fa eco Scozzarella - anno dopo anno. La proprietà ha molto a cuore il successo del Parma e si sta impegnando per creare i presupposti per crescere sempre di più. Abbiamo dimostrato negli anni che non esistono limiti se ognuno di noi è focalizzato sull’obiettivo: il nostro è migliorarci ogni anno. Quanto manca lo potrà dire solo il tempo, ma la strada è quella giusta”. Una strada cominciata cinque anni fa in Serie D, ad Arzignano, che ha fatto tappa prima a Firenze e poi Spezia. Prossima fermata: Europa. Questo lo aggiungiamo noi…

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sempre, la partita più importante è sempre la prossima”. E in tanti a Parma, oggi, guardano al futuro. Con orgoglio, come detto, ma anche con estrema fiducia. Perché oggi il Parma è una società sana, amministrata divinamente e con ambizioni importanti. Anche se il Direttore Faggiano ci tiene a che tutti tengano i piedi ben saldi a terra: “Fare il passo più lungo della gamba può essere controproducente e deleterio, bisogna stare attenti, come sempre abbiamo fatto in questi anni. L’obiettivo è quello di cercare di investire nel vivaio e provare a crescere, gradino dopo gradino e anno dopo anno, con la prima squadra e con il nostro settore giovanile. Uniti e compatti”. Insomma, con prudenza, ma anche coraggio: come quello di Iacoponi e Scozzarella, che hanno sposato il progetto Parma in Lega Pro e ora possono sognare in grande: “Questa società e questa squadra

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I S U L C S E A T INTERVIS Romulo

di Fabrizio Ponciroli

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i narra che i calciatori pensino solo al presente. Quando arrivano al top, si godono la notorietà e ogni privilegio che ne consegue. Romulo è una gradita eccezione. Nato in una famiglia povera economicamente ma di grandi valori umani, il nativo di Pelotas è un vero e proprio studioso del calcio. Ha sempre anticipato i tempi il buon Romulo. Sapeva che, per arrivare dove è giunto, era necessario essere sempre un passo avanti a tutti gli altri. La grande fede in Dio, il sostegno della moglie Pamela e dei suoi cari gli hanno permesso di coronare tanti sogni. E il cammino è ancora molto lungo e, ne siamo certi, ricco di soddisfazioni per un uomo che ha sempre visto il bicchiere mezzo pieno… Qual è il tuo primo ricordo legato al pallone? “Ricordo che mio papà mi ha regalato dei palloni a Natale. Ho cominciato a giocarci all’età di tre o quattro anni e non ho più smesso. Giocavo

sempre a pallone con i miei amici a Pelotas, la mia città natale e poi, me lo portavo anche a letto e ci dormivo insieme”. Chi erano i tuoi idoli da piccolo? “Quando ero un bambino, mi ricordo che avevo una venerazione per Denilson. Te lo ricordi?” Certamente, quello del doppio passo… “Esatto, era fenomenale nel dribbling. Era bravissimo nelle finte. È stato un grande in Brasile e ha fatto benissimo anche in Europa, al Betis Siviglia. Mi piaceva tantissimo il modo in cui giocava, con allegria”. Mi racconti delle giovani al Caxias… “Sono andato via di casa a 13 anni. Mi ricordo benissimo la scena. I miei genitori piangevano. A quei tempi non c’era internet e il telefono era un lusso costoso. Io andavo a Caxias, a 200 km da casa mia. Soffrivo all’idea di andarmene ma volevo e dovevo inseguire il mio grande sogno. Ma il peggio è stato quando sono arrivato

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ES INTERVISTA Romulo

al Caxias. Mi aspettavo di trovare una società organizzata ma non è stato così. Dormivo per terra e avevo una sola coperta per ripararmi dal freddo. Faceva davvero freddo, la temperatura andava anche sottozero e, inoltre, non c’era da mangiare. Io soffrivo ma non potevo dirlo ai miei genitori. Sarebbe stata troppo dura per loro. Per fortuna i dirigenti e gli allenatori si impegnavano tanto per darci una mano ma non è stato per niente facile, anche nascondere la verità ai miei genitori”. Immagino che la tua fede ti abbia aiutato molto… “Io sono cristiano. Molte religioni dividono le persone ma la fede in Dio ci avvicina gli uni con gli altri. Cerco sempre di leggere la Parola di Dio. Mi ha sempre dato tanta forza, anche nei momenti più difficili”. Hai giocato in tanti club brasiliani. Ricordi di qualche tuo compagno di allora che è diventato professionista? “È vero, ho giocato in tante squadre in Brasile. Avrò avuto 300 o 400 compagni in tutti quegli

Un gol di Romulo con la casacca dell’Hellas Verona contro l’Inter.

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anni ma non ricordo di nessuno che ce l’ha fatta ed è diventato professionista. Questo conferma quanto sia difficile raggiungere il proprio sogno e quanto bisogna impegnarsi per farcela”. Tu ci sei riuscito arrivando alla Fiorentina nel 2011… “È stato bellissimo. Io, in quel periodo, giocavo nell’Athletico Paranaense. Onestamente era già da un anno che Corvino mi stava seguendo. Un giorno mi avvisano che ci sarebbe stato proprio Corvino a vedermi allo stadio. Era in programma la gara Atletico Mineiro-Athletico Paranaense. Giocavamo a Belo Horizonte. Per fortuna, ho giocato davvero bene quella partita. Il mio agente mi ha detto che era andato tutto bene e ho firmato. Ricordo che ero emozionatissimo. Andavo a Firenze, una città splendida, ricca di musei e cultura. Avrei giocato nella Fiorentina, una squadra famosissima in Brasile. La stessa squadra di Socrates, Dunga o Edmundo. Ero felice. La prima persona a cui l’ho detto è stata mia moglie Pamela. Ci siamo abbracciati. I miei genitori hanno pianto dalla gioia. Ero riuscito a


RUMULO E LA NAZIONALE Il 2 giugno 2014 Romulo, inserito nella lista dei 23 del CT Prandelli per il Mondiale in Brasile, decide di rinunciare alla convocazione per problemi fisici: “Sono stato sincero, avrei potuto nascondere il dolore per quattro o cinque giorni, ma ho preferito dire la verità e avere la coscienza pulita”, dichiara lo stesso Romulo in quel nefasto giorno. Una scelta dolorosa che, comunque, non ha scalfito la positività che regna nell’anima dell’attuale giocatore del Genoa (in prestito al Brescia): “Io non ho perso il Mondiale, ho guadagnato 30 giorni splendidi insieme ai miei compagni di Nazionale”, ci racconta oggi, a distanza di sei anni da quel momento che avrebbe potuto disintegrare i sogni di ogni calciatore professionista. Eppure, Romulo, ancora si emoziona pensando al giorno in cui Prandelli l’ha avvisato che l’avrebbe convocato per indossare la maglia dell’Italia: “Ero in tribuna, squalificato. Stavo assistendo a VeronaGenoa. Mi dicono che c’è il CT Prandelli che vuole parlarmi. Penso ad uno scherzo ed invece è così. Mi si avvicina e mi chiede se possiamo parlare: ‘Romulo ti voglio in Nazionale ma devo sapere se per te sarebbe un altro club della tua carriera o motivo di orgoglio’’, mi dice… Io avevo la pelle d’oca. Non potevo crederci. Gli ho risposto che giocare con la Nazionale era un altro mio grandissimo sogno. Mi ha risposto che mi avrebbe chiamato e così è stato. Ricordo che, appena se ne è andato, ho ringraziato Dio. Ho pianto”.

coronare un altro mio sogno. Dopo essere diventato un giocatore professionista, ora andavo a giocare in Europa e, in particolare, in un luogo spettacolare come Firenze”. Come è stato l’impatto con il calcio italiano? “I primi sei mesi non sono stati facili, soprattutto per le differenze, a livello di interpretazione del calcio, tra Brasile e Italia. In Brasile c’è più improvvisazione, più fantasia. In Italia c’è tanta attenzione alla tattica, alla posizione da tenere in campo. In Italia, se fai una giocata ‘alla brasiliana’ ti riprendono. Non è stato semplice adattarsi al calcio italiano, come per tanti altri brasiliani. Io, per accelerare il mio inserimento a Firenze, studiavo tanto l’italiano e mi guardavo un sacco di partite. Volevo capire in fretta, non avevo tempo da perdere. C’era in gioco il mio futuro”. Ricordi il tuo primo gol in Serie A? “Certamente, a San Siro. Perdevamo 2-0 contro l’Inter e io ho accorciato le distanze con un bel gol, su assist di Pizarro. È stata un’emozione fortissima. Poi ho segnato di testa, credo sia stato il mio primo gol di testa in tutta la carriera”. Nel 2013 passi all’Hellas Verona e fai scintille…

“Stavo cercando un club dove poter giocare nel ruolo di mezzala destra e l’Hellas mi offriva questa opportunità. Mi ha chiamato Sogliano e poi l’allenatore Mandorlini. Mi hanno spiegato che avrei giocato come mezzala destra e io non ci ho pensato due volte. Andavo a giocare in una città bellissima e una piazza caldissima. Poi ho avuto la fortuna di avere al fianco Toni. Eravamo insieme a Firenze e lui mi diceva che stava pensando di smettere. Per fortuna ha accettato l’offerta dell’Hellas Verona. Grazie a lui ho fatto bella figura. Mi bastava mettere la palla alta e ci pensava poi lui. Grazie a Toni ho fatto tantissimi assist. Un giocatore grandioso, davvero fortissimo”. Fai talmente bene che ti chiama la Juventus… “A dire il vero la Juventus mi seguiva già da mesi. Potevo andarci durante il mercato invernale ma l’Hellas, giustamente, non mi ha lasciato andare. Era giusto che finissi la stagione a Verona. Volevamo, da neopromossa in Serie A, conquistare un posto in Europa e ci siamo andati anche molto vicini. Comunque della Juventus io lo sapevo già a gennaio, ho aspettato solo la fine della stagione per firmare il contratto”.

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Ed eccoti a Vinovo in mezzo a tantissimi camvedono. Anche Simone Inzaghi conosce tutto pioni… dell’ambiente e dei giocatori. Anche nella Ju“Una sensazione incredibile, anche se io, alloventus vincente ci sono sempre stati Buffon, ra, ero molto preoccupato. La pubalgia non mi Barzagli, Chiellini e Bonucci…”. lasciava in pace. Volevo guarire. Sapevo di non Parliamo di campioni. I tre più forti con cui hai essere a posto ed, infatti, non ho potuto dare giocato… il mio contributo alla Juventus. Comunque, è “Bella domanda… Ce ne sono stati tantissimi stato fantastico poter essere al fianco di camma se devo sceglierne tre ti dico Buffon per il pionissimi come Buffon, ruolo di portiere. FortissiPirlo, Chiellini, Bonucci, mo, non solo come calciaBarzagli, Tevez, Pogba, tore ma come uomo. Una Evra e tanti altri. Purtroppersona diversa da tutti gli po ho perso l’intero anno altri. Forse il più forte porper i miei guai fisici”. tiere della storia. Poi ti dico Un momento difficile nelPirlo. Un’intelligenza calcila tua carriera… stica fuori dal comune. Ve“Ho subito cinque interdeva la giocata tre o quatventi e i medici mi avevano tro secondi prima di tutti. detto che rischiavo di non Mai visto uno così. Restavo giocare più a calcio se mi a guardarlo allenarsi, davfossi operato ancora. Ho vero impressionante. E poi perso due anni ma non ho chiudo con Pogba. Un femai perso la voglia di tornomeno con una forza nelnare a giocare”. le gambe pazzesca. Sa far E ci sei riuscito, ancora tutto in campo, attaccare e all’Hellas Verona… difendere. Favoloso”. “Sì, quando sono tornato E l’avversario più ostico da a giocare con continuità affrontare? l’Hellas Verona era in Se“Ancora Pogba. Quando rie B. Avevo ricevuto un’ofgiocavo nell’Hellas Veroferta dall’Olympique Marna, io ero mezzala destra siglia ma dovevo troppo e lui mezzala sinistra alla all’Hellas per andarmene. Juventus. Le due volte che Sono rimasto e abbiamo l’ho incontrato mi ha fatto conquistato subito la Serie ammattire. Anche quando A. È stata una grande stalo superavo, lui recuperagione… va sempre e, con il fisico, ti Hai giocato anche alla Labuttava via. Un incubo”. zio. Si vedeva che era una Chiudiamo con l’allenatosquadra in missione? re che ti ha insegnato di “La forza di Lotito è stata più e quello più simpatiquella di trattenere i gioco… catori più forti. Giocano “Ce ne sono stati tanti e insieme da tanti anni, si Breve ma indimenticabile l’avventura a Torino con tutti importanti. Mihajlovic conoscono e i risultati si la Juventus è stato fondamentale per

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me. Un grande allenatore e un grande uomo, come ha dimostrato nella sua lotta alla malattia. Un esempio per tutti noi. L’ho avuto quando sono arrivato a Firenze. Mi ha dato tanta fiducia, ha avuto molta pazienza con me. Mi aiutava a capire il calcio italiano. Restava anche 40’ dopo l’allenamento con me per insegnarmi. Poi devo fare il nome di Mandorlini. Mi ha fatto crescere tantissimo, mi ha trattato come fossi un figlio grande. Il più simpatico? Beh Allegri sicuramente ma anche Diego Lopez è uno molto spiritoso”. Ormai hai l’Italia nel cuore. Il tuo piatto preferito? “Allora, innanzitutto devo dire che a me piace cucinare e faccio un risotto spettacolare con zucca e zafferano. Cucinare insieme a Pamela mi diverte molto. Poi, abitando a Verona, c’è un piatto che amo. Vado spesso in un ristorante

L’ATTIVITA’ EXPORT DI ROMULO Romulo è davvero uno che non ama perdere tempo. Oltre a studiare per diventare un grande allenatore, ha già avviato un’attività extra calcio legata al mondo dell’export. Si tratta di una società, avviata insieme al fratello, che si occupa dell’importazione, soprattutto in Europa, di prodotti brasiliani: “In Brasile produciamo grandi quantità di soia, riso, fagioli. Insieme a mio fratello, abbiamo creato la Caldeira Esport Solutions che si occupa proprio di favorire l’importazione di questi beni primari. Stiamo andando alla grande, non solo in Europa. Sono sicuro che andrà bene”.

vicino casa dove fanno il risotto all’amarone. Buonissimo”. Sei appassionato di cinema e serie TV? “No, non ho il tempo. Le poche volte che guardo la TV è per seguire partite di calcio. Diciamo che è il 99% di quello che vedo… Non ho tempo. Devo pensare a studiare italiano, inglese e spagnolo. Ho già conseguito il patentito Uefa B perché, nella mia testa, tra sei o sette anni, voglio allenare. Non ho tempo per guardare film o serie TV, devo aggiornarmi”. Giochi a calcio ma pensi già a fare l’allenatore? “Vengo da una famiglia povera, ho capito che bisogna darsi da fare e non aspettare che le cose capitino. Ho imparato che devo partire prima di tutti gli altri. Voglio allenare e farmi trovare pronto quando accadrà. Già adesso, quando mi alleno, conservo gli esercizi che ritengo più giusti per il mio protocollo da allenatore e scarto tutto il resto”. Hai già dei modelli che vorresti seguire? “Certamente, in particolare adoro la scuola italiana. Mi piacciono, nello specifico, due allenatori: Sarri e Conte. Jorginho mi ha confidato che non ha mai avuto un tecnico così preparato. Il migliore che abbia mai visto. Io adoro Conte e il suo modo di allenare. Pensa che, quando sono andato alla Juventus, è stato lui a chiamarmi a gennaio. Purtroppo, quando sono arrivato a Torino, lui era già andato via. Non sarebbe male mischiare Sarri con Conte. Li studio molto”. Romulo, è chiaro che sei uno studioso del calcio. Ma ti diverti ancora a fare il calciatore? “Tantissimo. Infatti, voglio giocare ancora per sei o sette anni. Voglio togliermi ancora tante soddisfazioni. Sto benissimo fisicamente e non è male per uno che ha rischiato di non giocare più a calcio”. Dopo quasi un’ora di chiacchierata è tempo di salutare Romulo con la consapevolezza di aver conosciuto una persona vera, con grandi valori e tanta voglia di fare. Uno studioso del calcio e, prima di tutto, della vita.

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Natalino Fossati di Gianfranco Giordano

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L’

appuntamento con Natalino Fossati, bandiera granata degli anni ‘60/’70 anni in cui il calcio non si era ancora venduto a televisioni, sponsor e procuratori, è nel centro storico di Moncalieri. Si presenta in abbigliamento sportivo con la sciarpa granata al collo, la indossa sempre non solo oggi per l’intervista. Natalino, come hai iniziato a giocare a calcio? “Sono nato a Mandrogne, provincia di Alessandria e ho cominciato a giocare all’oratorio Don Bosco di Alessandria, quando la mia famiglia si è trasferita ad Asti io sono passato al Don Bosco di Asti. Dopo un po’ il Torino si è interessato a me e mi ha chiamato per un provino, nel mentre ho ricevuto una chiamata anche dalla Juventus, ma mio papà ha detto che non potevo andare da loro (ride n.d.r.). Fatto il provino con il Torino sono stato aggregato alle giovanili. Nel 1962, nel corso di una partita a Padova con la squadra ragazzi c’è stato un parapiglia, c’erano anche persone in campo che ci picchiavano con gli ombrelli. Alla fine, l’arbitro ha scritto nel referto che io gli avevo dato una gomitata, ad essere sincero non mi ricordo e può essere che nella confusione sia successo. A maggio di quell’anno sono stato aggregato alla prima squadra per le partite contro Lione e Lens, Coppa dell’Amicizia, giocando in una partita. Per la stagione 1962/63 dovevo far parte della prima squadra, sono stato convocato in sede insieme agli altri giocatori e mentre arrivavo ho visto il dottor Cozzolino ed Ellena che da lontano mi guardavano male, mi sono avvicinato e quando sono arrivato vicino Ellena mi ha mollato una sberla e mi ha detto:

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VECCHIE GLORIE Natalino Fossati

Si ringrazia Panini per la gentile concessione delle immagini

“Vergognati, hai preso nove mesi di squalifica”. La società ha fatto ricorso ma senza ottenere sconti, io sono tornato ad allenarmi con la primavera e ho scontato la squalifica dal primo agosto al 30 aprile. Alla prima partita di maggio dovevo finalmente giocare, purtroppo pochi giorni prima della partita mi sono rotto un dito di un piede in allenamento e la stagione per me è finita”. Il primo passo ufficiale con i grandi avviene al Genoa con Meroni… “A fine campionato Beniamino Santos, allenatore del Torino, passa al Genoa e si porta dietro Locatelli e Piaceri. Santos stravedeva per me e chiede di avermi al Genoa, nonostante le pressioni dei liguri il Torino mi cede solo in prestito. A Genova trovo un ambiente splendido, sembrava di essere al Toro, ed esordisco alla prima giornata a Bologna come terzino destro marcando Pascutti. Posso dire che devo tutto a Santos, una persona splendida che ha davvero creduto in me. A Genova conosco Meroni che sarà il mio compagno di camera e che la stagione seguente sarà comprato dal Torino. All’ultima partita di campionato battiamo la Juventus, e nei minuti finali segno il mio primo go in Serie A, proprio sotto la Nord. A fine partita arrivano anche i complimenti di Sivori, che avevo marcato durante la partita”. Quali erano le tue caratteristiche di gioco? “Io sono nato come punta, giocavo in attacco e segnavo. Durante un torneo con la squadra giovanile del Toro a Sanremo ho mangiato del pesce avariato, ho preso il paratifo e sono rimasto fermo dei mesi. Una volta guarito da mancino sono diventato destro e ho cambiato completamente modo di giocare. Per questo, pur essendo destro, giocavo spesso a sinistra e segnavo dei gol. Ero un terzino

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fluidificante, al tempo dicevano che ero il Facchetti dei Pove Dopo Genova torni finalmente al Toro, qui trovi grandi allenatori, ovvero Rocco, Fabbri e Giagnoni… “Per me, di famiglia granata, arrivare a giocare in Serie A nel Toro era un sogno. Rocco è stato un maestro di vita, tutti quelli che hanno avuto lui allenatore hanno giocato almeno dieci anni in Serie A, ti insegnava come comporti in campo e fuori. Sembrava un burbero ma era davvero una bravissima persona. Una domenica, giocavamo con la Sampdoria, tutti i difensori erano fuori causa, l’unico titolare a disposizione ero io, che tra l’altro avevo qualche linea di febbre. Rocco mi chiede di giocare stopper, cosa che non avevo mai fatto, mi sono trovato a marcare Cristin, è stata la peggior partita della mia vita. Cristin quel giorno per me era imprendibile, gli ho fatto non so quanti falli. I tifosi ovviamente mi hanno fischiato e alla fine negli spogliatoi Rocco ha dichiarato che ero stato il migliore in campo. Un altro allenatore per me importante è stato GB Fabbri, che mia ha allenato nelle giovanili granata. Anche Mondino Fabbri era un grande allenatore, purtroppo bruciato dalla Corea”. Hai giocato con tanti giocatori importanti, tra questi alcuni sono diventati allenatori… “Lippi è stato mio compagno di squadra alla Sampdoria e non avrei mai detto che facesse l’allenatore. Mondonico da giocatore viveva il calcio come un hobby, pensava alla musica, alle uscite serali, pensava a tutto meno che al calcio, poi da allenatore è diventato un altro. Era molto tecnico con qualità eccezionali, avesse avuto da calciatore la stessa testa che aveva da calciatore avrebbe fatto una grande carriera anche in campo”. Hai vinto due volte la Coppa Italia ma ti


manca lo scudetto… “Siamo andati vicino a vincere nel 1972, anno in cui la Juventus ha vinto il campionato in maniera un po’ strana. Quel campionato ci è rimasto sullo stomaco. Dopo la malattia di Bettega, la Juventus era in caduta libera, noi e il Milan abbiamo recuperato tanti punti ma poi sono successe cose strane ai danni di Toro soprattutto e Milan. Avrei dato qualunque cosa per vincere quello scudetto, anche Ferrini e Agroppi ci sono rimasti molto male”. Eri un difensore, qual è stato il giocatore più difficile da marcare? “Io ho marcato un po’ tutti i giocatori più forti del periodo, compresi Eusebio, Cruijff e Sivori. Ma quello che ho patito più di tutti è stato Vendrame del Vicenza, era uno che aveva l’abitudine di salire con i piedi sul pallone e prendeva in giro i difensori. Quando era in giornata non lo prendevi”. A un certo punto stavi per passare all’Inter. Vero? “Era l’autunno 1970, un giorno vado al Filadelfia per l’allenamento, a piedi perché abitavo vicino, e fuori trovo una folla che mi insulta e mi sputa addosso. Entrato nello stadio scopro che Ferrini e io eravamo stati ceduti all’Inter. I Nerazzurri avevano da poco cambiato allenatore e stava assestando la rosa, quell’anno avrebbero vinto lo scudetto. Alla fine la pressione dei tifosi ha convinto Pianelli a tenere sia Ferrini che me”.

Fossati è spesso protagonista di tante trasmissioni TV

la carriera di fossati Nato a Mandrogne (AL) il 23 giugno 1944, muove i primi passi al Don Bosco. Viene scoperto dagli osservatori del Torino ed entra nelle giovanili del club granata. Nella stagione 1963/64 è in prestito al Genoa. Fa l’esordio nella massima serie italiana il 15 settembre 1963 (1-1 contro il Bologna). A fine stagione, contro la Juventus, arriva anche la sua prima rete in Serie A. Difensore eclettico, bravo in marcatura ma con licenza di segnare, dopo una stagione torna al Torino dove comincia una lunga carriera che lo porta ad essere uno dei giocatori con più presenze in maglia granata (247). Vince due volte la Coppa Italia nel 1968 e nel 1971, la stagione successiva manca lo Scudetto per un solo punto. Nell’estate del 1974 si trasferisce a Genova, sponda blucerchiata. Dopo due stagioni abbandona la Serie A per concludere la carriera nelle serie minori (Biellese e Alessandria). Dopo aver dismesso i panni del calciatore, si diletta nella carriera da allenatore per circa 20 anni e sempre alla guida di squadre che disputano campionati minori (allena, tra le altre, anche Pro Vercelli e Pistoiese). Oggi è un apprezzato opinionista televisivo.

Dopo il Torino vai alla Sampdoria e vieni scambiato con Santin… “Per me è stata una pugnala al cuore, ero reduce da uno dei campionati più belli fatti con il Torino, l’allenatore era Fabbri. Sui giornali circolava la notizia della possibile cessione di Agroppi e Fossati. Io avevo un buon rapporto con Pianelli, era stato mio testimone di nozze, e gli ho chiesto cosa c’era di vero, lui mi ha tranquillizzato dicendo che sarei rimasto al Toro ma non mi aveva convinto del tutto. Parto per le vacanze in Sardegna, arrivo alla sera e il mattino dopo vado in spiaggia e trovo Lippi che mi fa vedere un giornale con la notizia della mia cessione alla Sampdoria.

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Mi è crollato il mondo addosso, avevo delle richieste di squadre di Serie A, Giagnoni era passato al Milan portandosi Bui e Zecchini e mi avrebbe voluto volentieri, il Bologna mi voleva e invece mi sono ritrovato in Serie B. Non volevo accettare il trasferimento a Genova ma al ritorno dalle vacanze arriva la notizia del ripescaggio della Sampdoria in Serie A, la prima telefonata è stata proprio di Lippi. Ho accettato il trasferimento ma con la Sampdoria non mi sono mai trovato bene, sarà stato per i miei trascorsi genoani, sarà stato per quella partita del 1972 durante la quale non ci hanno convalidato una rete clamorosa, non so perché ma mi sono trovato male”. Finito il rapporto con la Sampdoria giochi le ultime stagioni in Serie C… “Dopo due anni, sofferti, a Genova mi volevano vendere al Foggia, ho rifiutato e sono finito alla Biellese, potevo giocare in Serie A e mi sono ritrovato in Serie C. A Biella ho trovato come allenatore il mio ex compagno del Toro Giorgio Puia e mi sono trovato bene, unico problema indossare una maglia con i colori della Juventus (ride n.d.r.). Ho giocato ancora due stagioni ad Alessandria e poi ho appeso le scarpe al chiodo”. Dopo il calcio giocato ti siedi in panchina… “Finito di giocare ho cominciato ad allenare, ogni anno una squadra diversa, anche perché non accettavo nessuna intromissione da parte di presidenti o dirigenti, nessun compromesso e nello spogliatoio comandavo io. A fine stagione mi mandavano via, poi spesso mi rimpiangevano. Ho chiuso la carriera a Robbio, stranamente sono stato tre stagioni, forse perché giocavano con la maglia granata, lì mi sono trovato molto bene. Non ho fatto una gran carriera da allenatore ma io mi sono divertito e sono contento di quello che ho fatto. Avevo anche ricevuto un’offerta dal Watford, giocava nelle serie minori, e ho il rimpianto di non aver accettato”. Nazionale, nonostante una brillante car-

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Ai tempi della Sampdoria, ha giocato insieme ad un certo Marcello Lippi

riera non hai avuto un feeling con la maglia azzurra… “Sono stato convocato una volta da Valcareggi nella Nazionale di Lega, si giocava contro il Belgio a Charleroi. Dovevo giocare titolare insieme a Claudio Sala, mentre eravamo in albergo prima di salire sul pullman Valcareggi ha comunicato la formazione e io non c’ero, a quel punto ho perso la testa, ho scagliato la borsa contro Valcareggi e gli ho detto di non chiamarmi mai più. Mi ha fatto entrare nel secondo tempo per fare il terzino ma io sono andato a fare l’ala destra, la mia carriera azzurra è finita a Charleroi”. Cosa fai adesso? “Adesso faccio il nonno, vivo a Moncalieri vicino a mio figlio e seguo due splendidi nipoti. Partecipo anche a trasmissioni televisive, mi piace perché parlo di calcio e mantengo il contatto con i tifosi”.



di P. Iannarelli

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La splendida carriera dell’unico, inimitabile e straordinario ‘o Baixinho’’…

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l calcio in Brasile ti campione del mondo non puoi scherzare o umiliare qualcuno. Il può salvare la vita. col Brasile quartiere è uno di quelAnzi, ti salva la vita. li che ti mette i briviSempre se decivolte capocannoniere di, l’indice di violenza di di fartela salvare. La dell’Eredivise è elevato e la voglia di povertà, purtroppo, è sorridere manca, come diventata quasi una catitoli della Liga con i soldi e tante volte la diratteristica, a volte un il Barcellona gnità. Non manca però vanto. I turisti vengono la speranza, quella che spesso portati a visitare presenze in nazionale, ti dà una palla che rotole Favelas, le abitazionigol realizzati la per ore e ore lontano baracca, per far vedere dai guai. La nostra stocome vive la maggior reti con la maglia ria inizia proprio da uno parte del popolo verdedei quartieri più poveri oro. In qualche modo del Vasco da Gama del paese, probabilmensi riesce anche a trote nel periodo peggiore: vare qualche anima pia 29 gennaio 1966, il Brache può dare qualcosa, sile è sotto un regime magari per arrivare a militare, il mondo è in fine giornata. Succede piena guerra fredda e anche questo nella nain una Favelas vicino la zione con una bandiera Ferrovia nasce Romário affascinante e con una de Souza Faria. Per tutti, scritta che significa tutRomario. to, ma che allo stesso Romario vive per il paltempo non ha nessun lone, lo si vede sin dai 10 riscontro pratico. Oranni. A questa età inizia dem e progresso, ordine a sgusciare via grazie e progresso: due termianche alle sue caratterini purtroppo sconosciuti stiche fisiche che gli valanche a distanza di anni gono il soprannome che e anni. Una struttura si porterà dietro tutta la non può esserci, si vede vita ‘o Baixinho’, il piccoletto. La sua prima anche nella storia della nazionale di calcio. società è l’Estrelinha di Vila de Penha, una Per capire bene che cosa è il Futbol in Brasquadra fondata dal papà: molto probabilsile, esiste un’espressione che calza a penmente Romario senior sapeva già a cosa annello: «Fazer alguem de gato e sapato», letdava incontro il figlio e tutti quei ragazzini. Il teralmente «fare di qualcuno un gatto e una pallone, come già detto, serviva come salvascarpa». Il significato? Giocare con le emogente nell’oceano di follia. zioni di qualcuno o umiliarlo. Perché questo Nel 1985 arriva la prima chiamata che conè il calcio nel paese verdeoro, quella voglia di ta: il Vasco da Gama lo nota e lo porta nel trovare quel ricamo di troppo che fa perdere massimo campionato brasiliano. Fino al la pazienza anche all’avversario meno im1988 colleziona poche presenze, ma segna e pulsivo. Ci sono però delle eccezioni, come il potenziale c’è. La svolta arriva però con la sempre. Se vivi nel Bairro di Jacarezinho,

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chiamata in Europa, precisamente in Olanda. Nel 1988 viene ingaggiato dal PSV Eindhoven, non proprio l’ideale per un brasiliano: lui, il Piccoletto, decide di cambiare volto alla sua carriera. Si innamora del gol, uno splendido egoismo che cambierà il suo rapporto con il calcio. L’intelligenza tattica c’è e si vede, anche se l’esuberanza non manca, soprattutto durante la firma del contratto: un milione di dollari al momento della firma, con un ingaggio identico per ogni anno che passa. In più auto, case e viaggi per il proprio paese: un modo per dimenticare la saudade probabilmente. In campo però mette in mostra tutto il proprio repertorio: in cinque anni il brasiliano spacca in due il calcio europeo e colleziona più gol che partite, 174 in 168. Una media realizzativa spaventosa. Le reti di Romario si tramutano in tre scudetti, due Coppe nazionali e una Supercoppa olandese. Difficilmente si era visto un giocatore sudamericano con quella fame di

gol e quella finalizzazione: la nazionale non vince il titolo da 24 anni e oltre allo spettacolo puro manca un vero numero 9 in grado di poter mettere il punto esclamativo a tutta quella mole di gioco. A quanto pare Parreira ha trovato il suo centravanti per il mondiale americano, anche se manca ancora un anno. Prima, però, c’è la chiamata del Barcellona. I catalani non si fanno scappare l’opportunità di prendere un marcatore simile, in grado di trasformare in oro qualsiasi pallone. A chiedere un giocatore simile fu proprio l’allenatore del Barcellona, Johan Cruijff. Il Mago olandese voleva puntare tutto su giocatori agili e scattanti, con un baricentro basso e in grado di essere esplosivi in un segmento di spazio ridotto. Detto fatto, la dirigenza si presenta con un giocatore che stava sorprendendo l’Europa in lungo e in largo con le sue reti. Per poter tornare a vincere il campionato serviva un calciatore che segnasse tanti gol. La consacrazione arriva Romario nella finale di Coppa del Mondo 1994 contro l’Italia

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proprio con la maglia dei catalani: il 5 settembre 1993 si presenta al Camp Nou con una tripletta alla Real Sociedad. Nelle prime 11 giornate non si smentisce, la sua mediagol è sempre più alta di un gol per partita: 11 gare, 12 reti. ‘o Baixinho’ rischia di spaccare in due il campionato spagnolo. Manca soltanto una cosa per entrare nel cuore dei tifosi, ovvero segnare al Real Madrid. Nel 1994, probabilmente uno dei migliori anni della sua carriera, decide di risolvere anche il Clasico: tripletta ai Blancos nel 5-0, la terza stagionale. Romario continua a segnare con continuità e a fine stagione conquista la sua prima e unica Liga spagnola, mettendo a segno la doppietta titolo-capocannoniere. Il brasiliano, però, non riesce a rendersi protagonista anche nella finale di Champions League contro il Milan. Una vittoria schiacciante e umiliante per tutti, il sudamericano viene spazzato via dal campo da una squadra probabilmente inarrivabile anche a distanza di anni. C’è però un mondiale da giocare e come tutti i giocatori verdeoro Romario sa che dovrà caricarsi sulle spalle il peso di una nazione intera. USA 1994 è il mondiale di Romario e del Brasile, di una delle nazionali probabilmente meno spettacolari e senza un vero trascinatore. In quell’anno però il commissario tecnico Parreira ha la possibilità di mettere insieme un bel po’ di qualità e tantissima sostanza. Il giocatore del Barcellona, con uno score simile, finisce di diritto nella lista dei 23 che si giocherà il mondiale negli States. Nella fase a gironi Romario è imbarazzante: segna i primi due gol nei match contro Russia e Camerun, senza dimenticare la rete contro la Svezia. Tre gol in tre partite e Bra-

sile primo nel girone con un solo gol subito. Contro i padroni di casa non segna - ci pensa Bebeto in quell’occasione, un altro con cui forma una coppia formidabile - ma torna al gol contro l’Olanda, nei quarti di finale. A 10’ minuti dal termine, nel “replay” contro la Svezia in semifinale: il numero 11, con i piedi da 10 e il killer istinct da 9, mette a segno probabilmente una delle reti più significative, che esprimono il suo modo di giocare a calcio. Progressione dalla sinistra, un paio di dribbling e un diagonale di punta che supera l’incolpevole Ravelli. Nell’inferno di Pasadena non segna nei 120’, ma sigla uno dei rigori che fanno piangere l’Italia e mandano sul tetto del mondo il Brasile. Quarto titolo mondiale, i verdeoro tornano a sorridere a distanza di 24 anni. Sul podio sale anche il Piccoletto che sognava di vincere la Coppa più ambita mentre scappava dai problemi, così come cercava di fare con le difese avversarie. Un punto talmente alto che probabilmente lo porta anche a pensare ad un ritiro. Col Barcellona non va per niente bene, l’Europa spaventa tutti e probabilmente la nostalgia per il Brasile è talmente forte da indurlo a fare pensieri simili: vuole ritirarsi dal calcio giocato. Romario, però, non può abbandonare quella palla che lo ha salvato e che lo ha portato sul tetto del mondo. Da quel momento in poi non lascerà mai il calcio, ma inizierà il suo girovagare per l’Europa. Dopo un anno al Flamengo, infatti, torna in Europa. Al Valencia trova Claudio Ranieri, ma non riesce in nessun modo a convincere il tecnico capitolino. L’ultima partita in Europa la gioca nel 1997, poi decide di intraprendere una carriera in patria che gli darà anche molte soddisfazioni: segna gol a raffica e non si ferma


Si ringrazia Panini per la gentile concessione delle immagini

mai, vive praticamente per la gioia di una marcatura. E un giocatore così difficilmente lo cambi. Porta a casa titoli, ma quelli più importanti - almeno per lui - sono quelli relativi alla classifica marcatori. Ben 26 volte come miglior marcatore ma l’obiettivo rimane uno soltanto, arrivare a quota 1000 gol. La sua diventa quasi un’ossessione, la ricerca della rete numero mille come se fosse l’unico traguardo possibile. Non importa il titolo di squadra, nessuna Champions League in bacheca o chissà che altro: Romario vive soltanto per quello. Tanto da sdoppiarsi in due campionati e giocando per due squadre, l’Adelaide United e il Tupi Football Club. Una in Australia, l’altra nella serie C brasiliana: il giovedì gioca nel proprio paese, la domenica cambia maglia e campionato. I mille gol arrivano, anche se la FIFA non gli riconoscerà questo primato. Romario ha messo nel conto anche le reti messe a segno in amichevole e con le giovanili: non importa quello che dice l’organo superiore del calcio, per lui ogni rete vale uguale. “Ringrazio Dio perché questo è uno dei momenti più belli della mia vita. Dedico questo record alla mia famiglia, ai miei figli, a mio padre che è lassù e all’intero Brasile”, queste le sue parole al raggiungimento del traguardo. Il tutto condito dalle lacrime, quasi a lavare via una preoccupazione. D’altronde da un personaggio che chiede di partecipare al carnevale di Rio anche nel momento clou della stagione, tanto da ingannare anche il Mago, non puoi aspettarti altro. Ebbene sì, perché Romario fece di Cruijff un gatto e una scarpa. L’allenatore gli promise un permesso speciale per tornare in Brasile, ma solo in caso di doppietta. Anche qui Romario non fece sconti e mise a segno altri due gol. Una storia confermata anche dai protagonisti, anche si avvicina più ad una favola. Ma da uno come o Baixinho puoi aspettarti di tutto.

Dopo aver raggiunto il suo scopo esistenziale, Romario decise di ritirarsi dal calcio giocato a 41 anni. La carriera, ovviamente, fu chiusa nel Vasco da Gama, squadra del cuore che decise anche di ritirare la maglia numero 11. Anche la carriera con il Brasile fu davvero incredibile: iniziò la sua avventura con la Seleção il 23 maggio 1987, il primo gol arrivò nell’amichevole contro la Finlandia qualche giorno più tardi. L’ultima volta che indossò la maglia della sua nazione fu il 27 aprile 2005, contro il Guatemala: 70 presenze e 55 gol, tanto per cambiare. Con il Brasile vinse anche quattro ori: due Copa America (1989-1997), una Confederations Cup (1997) e il mondiale del 1994. Titoli che però passano in secondo piano. Romario, probabilmente fin dalla sua nascita, aveva deciso di scappare via da un destino troppo spesso segnato. I suoi modi di correre e di far gol vengono segnati inevitabilmente da quegli anni passati in strada, dove non sappiamo cosa sia successo veramente. C’è un’immagine che a noi italiani purtroppo fa male, ma che incarna in pieno lo spirito brasiliano. Durante i festeggiamenti al Rose Bowl di Pasadena il numero 11 allarga le braccia come il Cristo Redentore sulla montagna del Corcovado. Sulle spalle ha la bandiera del Brasile e abbraccia, molto probabilmente, i suoi compagni. Anche sul tetto del mondo Romario non si dimenticherà del suo paese, anzi deciderà di scendere in politica. Il Piccoletto è e sarà per sempre figlio di quelle terre, sa benissimo cosa vuol dire vivere nelle Favelas. Conosce tutti i problemi e probabilmente dentro di sé sa benissimo che non riuscirà a cambiare le sorti di tutti. Sa però che il Futbol e un obiettivo possono salvarti la vita e regalarti quelle speranze e quei sogni che, fino a prova contraria, nessuno potrà mai rubarti.

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Romario in maglia PSV contro il Milan in Champions League - Credit Foto: Liverani

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Si vola in Scozia per parlare dei mitici Glasgow Rangers

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entre il XIX secolo volgeva al termine Glasgow era la seconda città dell’Impero Britannico, grande polo industriale famoso per i cantieri navali e le industrie ferroviarie, oltre che per il suo porto dove transitavano merci in quantità. L’aumento di ricchezza e popolazione contribuì anche all’aumento degli studenti universitari, la University of Glasgow è una delle università più antiche della Gran Bretagna, proprio gli studenti universitari hanno cominciato a giocare a calcio nella seconda metà del secolo in città. Nel marzo 1872 un gruppo di appassionati di canottaggio assistette casualmente ad una partita di calcio a Glasgow Green, un parco cittadino, e decise di fondare una

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squadra. I ragazzi in questione erano i fratelli Moses e Peter McNeil, Peter Campbell e William McBeath, nel maggio dello stesso anno la nuova squadra, denominata Glasgow Argyle, pareggiò 0-0 contro il Callander FC, squadra appena fondata e dalla vita breve. Poco dopo Moses McNeil lesse The English Football Annual scritto da Charles Alcock, uno dei pionieri del calcio britannico e fondatore della FA, la sua attenzione venne attratta dalla squadra di rugby dei lavoratori della Great Western Railway. Si trattava dello Swindon Rangers, che involontariamente fornì la denominazione al club di Glasgow. Una seconda partita venne giocata nel 1872, roboante vittoria per 11-0 contro una squadra chiamata Clyde, nulla a


che vedere con l’attuale Clyde FC, indossando per la prima volta delle maglie blu reale, abbinate a pantaloni bianchi e calzettoni biancoazzurri a righe. Nella stagione 1874/75 i Rangers partecipano alla Scottish Cup, manifestazione nata la stagione precedente, il 10 ottobre 1874 giocano la loro prima partita ufficiale sconfiggendo per 2-0 l’Oxford, squadra di Glasgow, al turno successivo incontrano il Dumbarton e dopo uno 0-0 casalingo vengono battuti ed eliminati perdendo 1-0 nel replay. La stagione successiva la squadra lascia il campo di Glasgow Green e si trasferisce a Burbank Park, campo dei Glasgow Academicals, una delle più vecchie squadre di rugby scozzesi. Nel 1876 i Rangers rilevarono il terreno di Kinning Park dal Clydesdale Cricket Clubs, al tempo il Clydesdale giocava sia a cricket che a calcio, il nuovo campo fu aperto ufficialmente il 2 settembre con un’amichevole contro il Vale of Leven vincendo clamorosamente per 2-1 davanti a 1.500 spettatori. Nel 1877 i Rangers raggiunsero la finale di coppa perdendo con il Vale of Leven, 1-1 e successivo 2-3 nella ripetizione, in questa finale la squadra dei Rangers era composta ragazzini opposti ad una squadra di uomini adulti. In virtù della loro giovane età i ragazzi vennero definiti dai cronisti “Light and speedy” (ovvero leggeri e veloci) per la loro esile figura e per la velocità nei movimenti. Da questa denominazione deriva il soprannome “Light Blues” ancora in uso. Molti pensano erroneamente che “Light Blues” derivi dalla maglia indossata in quella partita ma i Rangers non hanno mai indossato maglie di quel colore. Nel 1879 le due squadre si ritrovarono nuovamente di fronte in finale, ancora un pareggio 1-1 ma i Rangers si rifiutarono di giocare il replay per protesta riguardo una rete a loro annullata nella prima finale. A partire da questa stagione i Gers adottano una maglia a righe orizzontali bianche e azzurre con collo a girocollo

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chiuso da bottoni mentre il resto della divisa rimane invariato, la scelta si deve al segretario onorario Angus Campbell, un Highlander superstizioso che credeva di aver maggior fortuna con le nuove divise. Le maglie a cerchi non ottennero molto favore tra i soci e a partire dalla stagione 1883/84 si ritornò alla maglia blu reale a tinta unita con collo a girocollo chiuso da bottoni, i pantaloni rimanevano bianchi mentre i calzettoni erano neri. Nel frattempo, Kinning Park era diventato troppo piccolo, così il club si trasferì in Paisley Road nel primo Ibrox Park, questo impianto aveva una tribuna centrale lunga 300 piedi e un padiglione d’angolo per una capienza totale di 15.000 spettatori. Il campo venne inaugurato il 20 agosto 1887, ospiti di giornata gli Invincibili del Preston NE che dilagarono vincendo 8-1. Il 28 maggio 1888 si gioca la prima partita tra Rangers e Celtic, un’amichevole che i Biancoverdi vincono 5-2 sul proprio campo, al tempo i rapporti tra i due club erano buoni e la feroce rivalità inizierà più tardi. Nella stagione 1888/89 piccolo cambio stilistico nella maglia, il collo è a camicia sempre chiuso da bottoni. Nell’aprile del 1890 venne fondata la Scottish Football League e il 16 agosto partì il primo campionato scozzese. Il torneo terminò il 12 maggio 1891 con due squadre a pari merito in testa, Rangers e Dumbarton, il 21 maggio venne disputato lo

spareggio che terminò in parità con il risultato di 2-2. A quel punto la federazione decise di assegnare il titolo di campione nazionale ex-aequo alle due squadre. Nel 1893 si tornò ad una maglia con collo a girocollo chiuso da bottoni, sempre invariato il resto della divisa. Ben presto Ibrox Park divenne troppo piccolo per le ambizioni del club, i Rangers avevano vinto il campionato del 1899, il primo successo assoluto vincendo tutte le 18 partite del campionato, e il 30 dicembre 1899 venne disputata la prima partita nel Nuovo Ibrox. A partire dalla stagione 1904/05 i calzettoni diventano neri con risvolto rosso, sono i colori del Burgh of Govan, la municipalità che ospita lo stadio del club. Nella stagione 1909/10 compare per la prima volta il collo bianco, a girocollo fino al 1915 e poi a camicia fino alla stagione 1919/20. Da questa stagione comincia un periodo d’oro compreso tra i due conflitti mondiali, in vent’anni i Gers vinceranno 17 trofei tra campionato e coppa nazionale. Nella stagione 1920/21 collo di nuovo blu a camicia chiuso da bottoni e la stagione seguente collo a girocollo, sempre blu. A partire dalla stagione 1922/23 maglia blu reale con collo a camicia bianco chiuso da bottoni nascosti, sempre abbinata a pantaloncini bianchi e calzettoni neri con risvolto rosso, questa divisa rimarrà in auge fino alla stagione 1959/60. Nel 1920 Bill Struth


divenne manager, fino a quel momento era l’assistente di William Wilton che morì in un incidente in barca. Sotto la guida di Struth, che rimase al comando del club per ben 34 anni, i Rangers divennero una squadra molto forte arrivando a raggiungere e superare il Celtic nel ruolo di club guida del calcio scozzese. Alla ripresa dell’attività agonistica dopo la guerra, 1946/47, venne istituita la Coppa di Lega e i Rangers si aggiudicarono la prima edizione battendo in finale l’Aberdeen per 4-0. La stagione successiva i Gers si aggiudicarono il treble, trionfando in tutte e tre le competizioni nazionali. In questi anni ricchi di successi la forza della squadra era la difesa, conosciuta come “la cortina di ferro”. Nel 1954 Bill Struth lascia la panchina che viene affidata a Scot Symon, ex giocatore del club e uno dei pochi ad aver giocato con la nazionale scozzese di calcio, una sola presenza, e di cricket. I Gers si affacciano al grande palcoscenico europeo nella stagione 1959/60 quando approdano alle semifinali di Coppa dei Campioni, vengono eliminati dall’Eintracht Francoforte con un imbarazzante 12-4 complessivo. Nel 1960/61 i Rangers abbandonano la maglia in stile rugby e indossano una casacca più moderna blu reale con collo a V bianco, invariato il resto della divisa, i questa stagione i Gers arrivano all’ultimo atto della Coppa delle Coppe ma vengono sconfitti dalla Fiorentina, perdendo entrambe le partite della finale. Ancora una finale di Coppa delle Coppe nel 1967 e ancora una sconfitta, questa volta 1-0 contro il Bayern Monaco. In questo periodo giocò nei Rangers Alex Ferguson, due stagioni (1967/68 e seguente) senza particolari acuti. Alla partenza della stagione 1968/69 i Rangers si presentano con una maglia blu reale con collo a girocollo, pantaloncini bianchi e calzettoni rossi con bordi bianchi, per la prima volta compare sul petto il famoso monogramma RFC, il fornitore è la britannica Umbro. Il 2 gennaio 1971 si

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verificò il disastro di Ibrox (in realtà era il secondo evento del genere, il primo si verificò il 5 aprile 1902 durante una partita tra Scozia e Inghilterra e causò 25 morti e oltre 300 feriti per il crollo di una tribuna di legno) mentre si svolgeva la partita contro il Celtic. Durante il deflusso dallo stadio la folla si accalcò nella scala 13, un bambino cadde a terra causando una reazione a catena. Alla fine, si registrarono 66 morti e oltre 200 feriti, molte delle vittime erano bambini. I Rangers raggiungono la gloria europea il 24 maggio 1972 a Barcellona, battendo la Dynamo Mosca in una partita epica. I Rangers passano in vantaggio con Stein al 26’ e molti tifosi scozzesi si precipitano in campo per festeggiare con i loro beniamini. La partita riprende e i Gers raddoppiano con Johnston che segnerà ancora in apertura di ripresa, a quel punto gli scozzesi sentono di avere la vittoria in tasca e si rilassano ma la Dynamo ci crede ancora e segna alla mezzora e a tre minuti dalla fine. Quando manca un minuto al triplice fischio i tifosi scozzesi invadono il campo di gioco in maniera defi-

nitiva, dalla Scozia sono arrivati 16.000 tifosi che, storditi da birra, caldo ed emozione, sono ormai fuori controllo e si scontrano con la temibile polizia franchista dentro e fuori lo stadio. La partita non riprenderà più, i Rangers riceveranno la coppa negli spogliatoi e la Dynamo presenterà reclamo chiedendo la ripetizione della partita, il reclamo verrà respinto ma i Rangers verranno squalificati per due anni da tutte le competizioni europee, poi la squalifica verrà dimezzata. Negli anni ‘70 il soprannome di Teddy Bears iniziò a diffondersi per i Rangers. Detto con un forte accento di Glasgow, “Bears” è pronunciato “Berrs” somigliando molto al soprannome “Gers”. Nel 1973 ritornano i calzettoni neri con risvolto rosso e nel 1976 compare per la prima volta il logo del fornitore dei materiali, la Umbro. Nella stagione 1978/79 maglia con collo a camicia bianco con inserti rossoazzurri e chiusura azzurra a V, pantaloncini bianchi e calzettoni azzurri. Nella stagione 1982/83 e seguente la Umbro propone una maglia blu reale con sottili strisce


bianche verticali, il collo a V è bianco con inserti rossoazzurri, i calzettoni sono rossi con ampio risvolto bianco con inserti rossoazzurri. Nella stagione 1984/85 maglia blu reale a tinta unita con collo bianco a girocollo con inserti azzurri, per la prima volta compare il logo di uno sponsor commerciale, si tratta della vetreria CR Smith, i calzettoni sono di nuovo neri con risvolto rosso, dopo due stagioni i calzettoni tornano completamente rossi. La Umbro firma le ultime tre stagioni degli anni 80 con una maglia blu reale con sfondo a quadretti e collo alla coreana con inserto tricolore. Dalla stagione 1988/89 i Gers infileranno una serie di nove successi consecutivi in campionato (nine in a row), serie interrotta ovviamente dal Celtic nella stagione 1997/98. In questo periodo nei Gers ci sono giocatori del calibro di Wilkins, Souness, Hateley, Woods, Mykhaylychenko, Laudrup e Gascoigne. Per due stagioni e mezza, a partire dal giugno 1998, il capitano della squadra fu Lorenzo Amoruso, primo cattolico ad indossare la fascia. Dagli anni 90 si succederanno diversi fornitori che proporranno nuove maglie ogni biennio prima e poi ogni anno, in ogni caso sempre maglie con inserti biancorossi. In questa varietà si evidenziano due maglie particolari. La divisa della stagione 2002/03 è stata prodotta internamente dal Club e il produttore italiano Diadora ha pagato per apporre il proprio marchio sul kit. Ogni maglia (caratterizzata dal disegno di un leone rampante con un motivo di sfondo punteggiato) era unica in quanto il tessuto veniva tagliato diversamente per ogni esemplare. Nella stagione 2012/13 venne creata una maglia per celebrare i quarant’anni dalla vittoria in Coppa delle Coppe, quindi maglia blu reale a tinta unita con collo a girocollo e logo dello sponsor di piccola misura sotto il monogramma, pantaloncini bianchi e calzettoni rossi con risvolto bianco. Al termine della stagione 2011/12 i Rangers, già da

1969 1970

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qualche mese in amministrazione controllata, falliscono e ripartono dalla quarta serie del calcio scozzese, un bagno di umiltà per club e tifosi costretti a girare per i piccoli campi della periferia calcistica scozzese, il ritorno in Premiership avvenne al termine della stagione 2015/16. Fino all’inizio degli anni ‘90 le maglie di riserva dei Rangers erano bianche, biancoblu oppure rosse. Con l’avvento del merchandising si sono viste maglia dai colori e accostamenti più vari, a volte anche bizzarri. Nel 2002/03 venne proposta una maglia arancione con inserti blu reale, questa divisa suscitò molte critiche perché i colori venivano visti come un riferimento all’Orange Order protestante, il club ha però sempre affermato che si trattava di una semplice scelta commerciale. La maglia dei portieri dei Rangers fino alla metà degli anni ‘90 è sempre stata rossa o gialla, successivamente ci sono stati altri colori pur continuando a usare rosso e giallo con una certa frequenza. Sulla maglia dei Rangers non è mai comparso lo stemma sociale ma un semplice ed elegante monogramma, RFC. Sulla maglia di casa il monogramma compare per la prima volta nella stagione 1968/69, non andrà più via anche se nel corso degli anni è cambiata la grandezza e la posizione. Negli anni dal 1990 al 1994 il monogramma è stato inserito al centro della denominazione societaria, infine a partire dalla stagione 2003/04 sono state inserite 5 stelle a sormontare il monogramma a ricordare le 50 vittorie in campionato. Il monogramma è comparso sporadicamente sulle maglie da trasferta negli anni tra le due guerre mondiali. Nel catalogo HW del Subbuteo i Rangers compaiono in due versioni, il numero 2, classica divisa anni ‘70 composta da maglia blu con pantaloncini bianchi e calzettoni blu, e il numero 53, la divisa di fine anni ‘70 con la maglia blu con collo biancorosso.

1994 1995

2002 2003

2019 2020

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io

c l a c l e d i l ribel Edmundo

di Stefano Borgi

CI VUOLE UN FISICO... ANIMALE 52


Talento inespresso, incompiuto, Edmundo (in arte O Animal) ha dribblato la vita a modo suo. Tra genio e lucida follia...

N

on c’è dubbio: Edmundo Alves de Souza Neto, in arte O Animal, è stato uno dei calciatori più inversamente proporzionali della storia del calcio. Talento, fantasia, imprevedibilità, opposti a follia, incoscienza e vita spericolata. Certo non è stato l’unico: Adriano, Gascoigne, Cassano, Balotelli, chi più ne ha... e poi il brasiliano ha vinto coppe e campionati, ha giocato una finale mondiale, due di Coppa America, ha fatto gol di tutti i tipi, di tutti i generi. Ma se chiedete in giro, vi diranno: “Edmundo? Ah, se avesse avuto più testa, se si fosse allenato di più, se non si fosse messo nei guai”. Se, se, se... Edmundo come un’icona del periodo ipotetico, l’immagine più fulgida (e spesso stereotipata) del “genio e sregolatezza”. Per poi maturare quando il tempo (e la gioventù) scorrono inesorabili. Senza tornare mai più... O’ANIMAL, LA GENESI... Come nei migliori trattati di filosofia, esistono varie correnti di pensiero. La prima attiene al calcio giocato e risale al 1997, quando Edmundo con la maglia del Vasco da Gama, segna sei gol all’Uniao San Joao. Addirittura, il primo di questi sei, dopo appena 27 secondi. Letteralmente O Animal significa “atleta di una forza bestiale”, e per segnare sei gol in una sola partita ci vuole davvero un fisico... animale. Però il sostantivo Animal richiama anche dei comportamenti non proprio da lord, tipo (ai tempi del Palmeiras) non presentarsi al cam-

po d’allenamento preferendo donne ed alcool. Per questo saltò i Mondiali di Usa ‘94 (poi vinti dal Brasile). Oppure una telecamera rotta dopo aver sbagliato un rigore nella Libertadores ‘95, la sospensione rimediata lo stesso anno dopo un Flamengo-Vasco da Gama (Edmundo giocava nel Flamengo) per aver rivolto un gesto volgare ai propri tifosi. O ancora aver ingaggiato un intero circo per il compleanno del figlio, aver brindato con uno scimpanzè, ed essersene andato con lui (entrambi evidentemente alticci) mano nella mano. Ancora peggio i suoi trascorsi giudiziari, con l’incidente automobilistico (sempre nel ‘95, il suo annus horribilis) nel quale persero la vita tre persone. Edmundo, che era alla guida, fu condannato a 4 anni e mezzo di reclusione, con la pena ancora da scontare. Fino al 7 febbraio 1999, quando con Batistuta in ospedale e la Fiorentina in testa alla classifica, O Animal pensò bene di fregarsene di tutto e di tutti, e partire per il Carnevale di Rio. Sull’episodio esiste una vastissima letteratura, che fa capo ad una clausola capestro presente nel contratto. Di certo quel comportamento spaccò lo spogliatoio, divise la città, dette il colpo di grazia ad una squadra già in difficoltà e priva del suo uomo simbolo. MARE E FAVELAS L’infanzia di Edmundo è comune a tanti ragazzini brasiliani che vogliono giocare a calcio: famiglia povera, poverissima, la strada (anzi la spiaggia) come scuola di vita, il rischio concre-

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ca ribelli del Edmundo

to di perdersi, il pallone che lo toglie dalla polvere. Edmundo nasce il 2 aprile 1971 a Niteròi, 20 chilometri a nord di Rio de Janeiro, e la sua prima squadra è il Vasco da Gama. In 18 anni di carriera vestirà le maglie brasiliane più prestigiose: Botafogo, Flamengo, Santos, Fluminense, Cruzeiro, Palmeiras, oltre alle italiane Fiorentina e Napoli. Dal ‘92 al 2000 indossa la maglia del Brasile per 37 volte, realizzando 10 gol. Il più importante nel ‘97, in finale di Coppa America, a La Paz contro la Bolivia. A differenza del 1994, Edmundo prende parte ai mondiali in Francia, dove farà la riserva di Bebeto (prima), di Ronaldo poi. Per lui appena 18 minuti più recupero nella finale di Parigi, subentrato al posto proprio di Ronaldo che non si reggeva in piedi. Resta celebre una frase con la quale O Animal sunteggia l’accaduto: “Sono migliore di Ronaldo, ma peggiore di Romario”. Cioè a dire, se giocavo io contro la Francia, il Brasile avrebbe vinto la sua quinta coppa del mondo. In barba agli sponsor e alla federazione che non avrebbero mai concepito una finale senza il “fenomeno”. VIOLA DI RABBIA... Al Saint-Denis, Edmundo giocò quei venti minuti scarsi da calciatore della Fiorentina. Nel gennaio ‘98, infatti, i viola lo avevano comprato per una cifra vicino ai 13 miliardi di lire, con un ingaggio superiore ai due miliardi a stagione. Roba da fuoriclasse, quale Edmundo (potenzialmente) era. L’esordio avviene il 18 gennaio 1998, all’85’ di un Fiorentina-Lazio, con i viola reduci da tre vittorie nelle ultime quattro

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“Indossa la maglia del Brasile per 37 volte, realizzando 10 gol. Il più importante nel ‘97, in finale di Coppa America, a La Paz contro la Bolivia. A differenza del 1994, Edmundo prende parte ai mondiali in Francia, dove farà la riserva di Bebeto (prima), di Ronaldo poi. ” partite. Una squadra a dir poco in salute. Così si spiega l’iniziale ostracismo di Alberto Malesani, allenatore rampante, ma con idee già chiarissime. Edmundo fin da subito si mette di traverso, rilascia un’intervista al veleno al “Journal do Brasil”, insomma non accetta un’evidente lesa maestà. Del resto, per uno che la stagione prima in Brasile aveva vinto la classifica cannonieri ed era stato eletto miglior calciatore, nomi come Robbiati e Morfeo (solo per citare i pari ruolo) non significavano granché. Soprattutto non potevano e non dovevano spodestarlo. E invece... Edmundo rivedrà il campo solo il 22 marzo, e sette giorni dopo segnerà il suo primo gol italiano contro il Napoli. Il finale di campionato lo vedrà comunque all’altezza, prestazioni come quella di Parma e dell’Olimpico contro la Lazio lasciano intravedere lampi di classe purissima, e da quel momento Edmundo diventa uno degli idoli incontrastati della “Fiesole”.


Il pensiero di Torricelli

“Forse potevamo aiutarlo di più, ma la colpa fu di Cecchi Gori...” Moreno Torricelli, campione d’Europa con la Juventus e compagno di Edmundo alla Fiorentina, oggi vive a Lilianes, un paesino di 500 anime in Val d’Aosta. Moreno segue il progetto “Allenarsi per il futuro”, contro la disoccupazione giovanile. Con lui tanti campioni del passato, tra i quali Daniele Massaro, Claudio Chiappucci, Daniela Cacciatori e Patrizio Oliva. La domanda nasce spontanea... Un progetto come il vostro, sarebbe servito ad Edmundo? ““Probabilmente si – sorride Moreno – facciamo formazione nelle scuole e mettiamo a disposizione dei ragazzi la nostra esperienza. Devo dire però che su Edmundo sono state dette e scritte cose non del tutto vere. Come calciatore lo conosciamo tutti: classe innata, giocatore strepitoso, tecnicamente lo metto nella “top ten” dei calciatori con i quali ho avuto la fortuna di giocare (e Torricelli ne ha conosciuti tanti: Vialli, Del Piero, Baggio e Zidane su tutti... n.d.r.). Come persona, nello spogliatoio, era un bravissimo ragazzo: buono, gentile, con me si è sempre comportato bene. In campo il discorso cambiava: nervoso, irascibile, si faceva condizionare da mille cose. Soprattutto perdeva la testa se non gli passavi il pallone. Era capace di mettersi in un angolo e disinteressarsi della partita. E questo, da una parte del gruppo, non veniva accettato. Detto questo, se posso fare autocritica, forse potevamo capirlo di più, non dico giustificarlo, però aiutarlo in un’altra maniera. Quello sì...” Se Edmundo non fosse andato al Carnevale, avreste vinto lo scudetto? “No, non credo – ammette candidamente –. La squadra era già in calo, l’infortunio di Batistuta fu la botta definitiva. E poi mancava la giusta mentalità in alcuni calciatori, comunque la colpa principale non fu né nostra, né di Edmundo...” Si spieghi meglio... “La colpa fu della società, di Cecchi Gori. Io non ho mai visto firmare un contratto dove c’è una clausola che ti permette di lasciare la squadra a metà stagione. Per andare al Carnevale. Poi è vero, lui poteva anche restare, ma dal momento che glielo hai promesso...”

CI PENSA TRAPATTONI Tutt’altra musica con Giovanni Trapattoni. Al termine della stagione Malesani viene esonerato (il tecnico veronese era inviso anche a Cecchi Gori, oltre che al brasiliano) al suo posto arriva il “trap” che, dall’alto della sua esperienza, capisce (e volentieri subisce) il carattere del ragazzo. La tattica funziona, Edmundo si cala nella parte della variabile impazzita e trascina la squadra in testa alla classifica. Certo non mancano gli incidenti di percorso, per esempio la partita con la Roma... È

la quinta di campionato, vantaggio immediato di Batistuta, i viola che gestiscono la partita con un Edmundo imprendibile. Poi la mossa imprevista: Trapattoni (un po’ per congelare il gioco, un po’ per perdere tempo) ordina la sostituzione: entra Robbiati, esce il brasiliano. Apriti cielo, O Animal non gliele manda a dire, anzi... lo manda a quel paese urbi et orbi. La squadra accusa l’episodio, cede di nervi e si fa superare nel recupero: pareggio di Aleinichev, gol vittoria di Totti (imbeccati entrambi da tale Bartelt... chi era costui?). Nel dopo partita

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ca ribelli del Edmundo

polemiche a non finire, stoppate dallo stesso Trapattoni: “Se ce l’ho con Edmundo? Confessa - Macché, può capitare. A me basta che mi faccia vincere le partite”. E infatti la stagione va alla grande fino a quel 7 febbraio 1999: Fiorentina campione d’inverno che impatta col Milan, Fiorentina in debito d’ossigeno che avrebbe bisogno dei suoi campioni per resistere. E invece... Batistuta si fa male (starà fuori “solo” 4 partite, ma quando rientrerà non sarà più lui), ed Edmundo scappa al Carnevale. In tanti cercano di convincerlo, orde di tifosi invadono l’aeroporto con l’intento di fermarlo, ma la Fiorentina non può niente (ripetiamo, c’è scritto sul contratto... nero su bianco) se non farlo seguire da Romano Fogli, vice di Trapattoni, con un programma personalizzato di allenamento. Edmundo salterà la trasferta di Udine del 14 febbraio 1999 (1-0 per i friulani, gol del “pampa” Sosa a 10’ dalla fine), per rientrare il 21 in notturna contro la Roma. Risultato 0-0, mentre la Lazio batte l’Inter 1-0 e Fiorentina che per la prima volta cede la testa del campionato. Alla fine si laureerà campione d’Italia il Milan, che si aggiudica il 16esimo degli attuali 18 scudetti. E la parabola di Edmundo? Lo abbiamo detto, termina il 7 febbraio all’aeroporto Amerigo Vespucci. La Fiorentina comunque arriva terza, salva la stagione e si qualifica per la Champions League. Il brasiliano rientra in patria, fino a gennaio 2001 quando viene richiamato dal Napoli. Lo accolgono 20.000 tifosi in delirio, nella speranza di assistere ad un Maradona 2.0, ma O Animal giocherà appena 17 partite, con 4 reti. L’ultima delle quali (ironia della sorte) il 17 giugno 2001 all’Artemio Franchi di Firenze. I viola festeggiano la sesta coppa Italia appena conquistata, i partenopei si giocano la salvezza che (ahi loro) non raggiungeranno. Siamo al “sunset boulevard”, anche se Edmundo gioca ancora 7 anni, tra squadre giapponesi e brasiliane. La chiusura sarà al Vasco da Gama nel 2008, la sua prima cosa bella... che sarà anche l’ultima.

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Neppure il grande Trapattoni è riuscito a gestire al meglio O Animal

CHI ERA DAVVERO EDMUNDO? Louis Stevenson ne avrebbe fatto la versione moderna del “Dottor Jekyll e mister Hyde”. Un Giano Bifronte spavaldo, arrogante, irriverente in campo... timido, fanciullesco, infantile fuori. Tecnicamente rasentava la perfezione, il suo pezzo forte era il dribbling definito “a cespuglio”, ovvero la capacità di buttarsi tra un nugolo di avversari, uscirne (con la solita forza animale) palla al piede, ed il più delle volte concludere vincente a rete. E poi tecnica in velocità, ambidestro, freddo e cinico sotto porta, lucido e generoso negli assist. Nella vita privata invece... tutto il contrario. Fino a saper riconoscere i propri errori (lo ha fatto pochi mesi fa), scusarsi con i tifosi, capire che (senza il Carnevale) oggi Firenze potrebbe fregiarsi dell’agognato terzo scudetto. Come accennavamo all’inizio? Si cresce, si matura, quando oramai è troppo tardi. Ma tant’è, lasciamo al lettore un alone di mistero, di incertezza, di quella lucida follia (a volte più, a volte meno) propria di un talento riconosciuto, conclamato. Che non sempre sa trasformarsi in un campione...


Il pensiero di Firicano

“Io e lui eravamo amici, lo chiamavo Shrek. Era indeciso se andare al Carnevale...” “Edmundo? Avevo un buonissimo rapporto con lui. Ci siamo sentiti recentemente in video chiamata, e ci siamo salutati come vecchi amici. Quelli più vicini a lui eravamo io ed Emiliano Bigica, anzi... lo prendevamo spesso in giro. Ricordo quando se ne tornò dal Brasile con un bernoccolo vistosissimo sulla fronte (in realtà era una ciste che fu rimossa pochi giorni dopo n.d.r.) e gli mettemmo il soprannome di Shrek, come il mostriciattolo dei cartoni animati. Lui ci rideva sopra...” Chi parla è Aldo Firicano, che oggi con la sua azienda produce erba sintetica per campi da calcio, ma al tempo divideva gioie, dolori (ed anche lo spogliatoio) con O Animal. “A proposito di soprannomi – prosegue Aldo – in Brasile il nomignolo di Animal ha un’accezione positiva (come spieghiamo nell’articolo, O Animal significa letteralmente: “calciatore con una forza bestiale”), mentre in Italia se lo è portato dietro quasi come un’offesa. Comunque Edmundo era un personaggio in tutto e per tutto: calciatore fortissimo, già molto famoso quando arrivò, noi ci aspettavamo una prima donna, uno che se la tirava. Invece trovammo una persona diversa, timida, molto affabile. Il problema è che in campo si indispettiva subito, soprattutto soffriva Batistuta. Nel senso che i compagni, se dovevano scegliere uno a cui passare la palla, ovviamente sceglievano Bati. E lui si arrabbiava moltissimo. Probabilmente era abituato al contrario, e questa cosa non la accettava”. Il suo rapporto con gli allenatori? “Pessimo con Malesani, buono con Trapattoni. Malesani aveva le sue idee, teneva tantissimo al gruppo, voleva premiare chi aveva sempre giocato... e all’inizio lo mise in panchina. Apriti cielo, i due non si potevano vedere. Il Trap, invece, lo seppe prendere dal verso giusto e le cose andarono meglio. Di certo divise lo spogliatoio: c’era una parte che non lo soffriva, un’altra neutra, poi c’eravamo io e pochi altri che lo aiutavamo. Addirittura alcuni di noi, nelle partitelle del giovedì, lo marcavano a distanza, permettendogli qualche bella giocata. Così, per incoraggiarlo, per farlo sorridere...” Domanda obbligatoria: con lui sareste diventati campioni d’Italia? “Guardi, quello che in molti non sanno, è che Edmundo era combattuto se andare al Carnevale. Effettivamente saltò una sola partita (quella di Udine, persa per 1-0 n.d.r.) ma quando tornò c’erano diversi malumori, per tanti di noi quello scudetto era l’occasione della vita. La verità è che, più del Carnevale, incise l’infortunio di Batistuta. Addirittura poi finimmo terzi... Peccato, peccato davvero”.

“il 7 febbraio 1999, con Batistuta in ospedale e la Fiorentina in testa alla classifica, O Animal pensò bene di fregarsene di tutto e di tutti, e partire per il Carnevale di Rio. Quel comportamento spaccò lo spogliatoio, divise la città, dette il colpo di grazia ad una squadra già in difficoltà e priva del suo uomo simbolo.” 57


I R O T A N E L L GRANDI A Óscar Tabárez di Luca Gandini

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Un po’ incompreso in Europa, ma autentica istituzione in Sudamerica. L’intramontabile Óscar Washington Tabárez, maestro di fútbol ed esempio di coraggio.

A LEZIONE DAL MAESTRO

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antasisti del calibro di Enzo Francescoli, Roberto Baggio e Juan Román Riquelme; ministri della difesa come Hugo de León, Franco Baresi, Paolo Maldini, Billy Costacurta e Diego Godín; bomber implacabili ad ogni latitudine come Gabriel Batistuta, George Weah, Carlos Tévez, Edinson Cavani, Luis Suárez e Diego Forlán. Perfino quel mattacchione di José Luis Chilavert nelle inconfondibili vesti di portiere-goleador. Sono solo alcuni tra i più celebri personaggi allenati da Óscar Washington Tabárez. Un onore immenso, penserà sicuramente lui, dall’alto della sua umiltà. Ma un privilegio anche per questi campioni aver condiviso parte del proprio cammino calcistico al fianco del “Maestro”. Perché ci sono valori che vanno ben oltre una vittoria o una sconfitta. L’amore per lo sport e il rispetto alla base di tutto; la serenità trasmessa in ogni dialogo e il coraggio nell’affrontare la malattia. Tutti insegnamenti di cui Tabárez si è reso e continua a rendersi protagonista. Lezioni di un maestro speciale.

TRIONFI DA ÓSCAR Già mediocre difensore centrale, spese la carriera vestendo le maglie di piccoli club di Montevideo, la capitale dell’Uruguay in cui è nato il 3 marzo 1947. Ebbe anche l’occasione di tentare un paio di esperienze in Argentina e Messico, poi il rientro in patria con il Bella Vista e a soli 32 anni l’addio a causa di un infortunio. Non gli mancò mai, però, la voglia di imparare e così proprio il suo ultimo club, il Bella Vista, decise di metterlo alla prova affidandogli la guida della propria squadra giovanile. Nel 1983 realizzò il primo vero capolavoro della carriera. Erano infatti in programma i Giochi Panamericani a Caracas e Tabárez venne incaricato dalla Federazione di selezionare una Nazionale che potesse ben figurare. In quei giorni, però, la Nazionale maggiore allenata da Omar Borrás era impegnata nelle gare di avvicinamento alla Coppa America e per giunta i club più famosi del Paese non volevano cedere i giocatori a Tabárez per una competizione ritenuta di secondo piano come i Giochi Panamericani. Con pazienza e tra mille difficoltà, Óscar fece buon viso a cattiva

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TORI

ENA GRANDI ALL Óscar Tabárez

sorte e riuscì ugualmente a mettere in piedi una rosa competitiva affidandosi soprattutto a elementi giovani e a giocatori di limitata esperienza internazionale, ma tutti accomunati dal desiderio di dare lustro alla maglia celeste. Con il consueto amor patrio, l’improvvisato Uruguay di Tabárez andò a vincere a sorpresa, ma con pieno merito, la medaglia d’oro. Decisivo, in finale, il successo per 1-0 sui rivali del Brasile, anch’essi in versione sperimentale, ma forti di giovani campioni come Dunga e Jorginho, poi protagonisti anche nella Nazionale maggiore. La carriera del Maestro era ormai decollata. Dopo due esperienze alla guida del Danubio e del Wanderers, nel 1987 fu il glorioso Peñarol ad affidarsi ai suoi insegnamenti. E fu un trionfo. Arrivò infatti il successo in Coppa Libertadores, la massima rassegna sudamericana per club. Il Peñarol giunse in finale dopo aver eliminato, tra gli altri, gli argentini del River Plate e dell’Independiente, e proprio lì, all’ul-

timo atto, diede vita a tre memorabili duelli con i colombiani dell’América de Cali. Sconfitti 2-0 in trasferta, gli uruguayani si imposero a Montevideo per 2-1 e così fu la bella a Santiago del Cile a decidere le ostilità. All’ultimo minuto del secondo tempo supplementare, il Peñarol riuscì a trovare il gol della vittoria grazie all’attaccante Diego Aguirre. Nessuno poteva immaginare che quello sarebbe stato l’ultimo titolo internazionale del celebre club aurinegro. Poche settimane dopo, infatti, a Tokyo, Tabárez e i suoi uomini si sarebbero arresi al Porto e avrebbero mancato l’obiettivo Coppa Intercontinentale. Da allora il Peñarol ha imboccato il lungo viale del declino a livello internazionale. Tutt’altra storia, invece, per Tabárez, che nel 1988 assunse per la prima volta la guida della Nazionale maggiore. L’Uruguay, spesso criticato negli anni precedenti per via di una condotta di gioco aggressiva e ostruzionistica, grazie a Tabárez seppe limare alcune... spigolosità pur mantenendo

Il successo in Copa America nel 2011 è stato il suo grande capolavoro da CT dell’Uruguay

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la tradizionale disciplina tattica e confermando la propria competitività. In Coppa America nel 1989 la Celeste fece una gran bella figura, giungendo seconda alle spalle soltanto dei padroni di casa del Brasile. Bene anche l’anno dopo, al Mondiale di Italia ‘90. Pur concedendo poco allo spettacolo, l’Uruguay riuscì ugualmente a superare il primo turno e a costituire un duro ostacolo per l’Italia, poi vincitrice per 2-0 agli ottavi. Era la Celeste del fantasista Enzo Francescoli e degli emergenti attaccanti Daniel Fonseca e Rubén Sosa, nonché degli esperti difensori centrali Hugo de León e Nelson Gutiérrez. Dopo qualche mese di pausa, Tabárez rientrò nel giro del grande fútbol sudamericano con il Boca Juniors. E in occasione della Coppa Libertadores 1991 fu protagonista forse dell’unico episodio biasimevole della carriera. Approdati in semifinale contro i cileni del Colo-Colo, gli argentini vennero sconfitti per 3-1 nella sfida di ritorno a Santiago e non la presero bene. Scoppiò una rissa colossale alla quale prese parte anche il Maestro, poi addirittura arrestato al termine della gara. Nonostante questo, grazie a Tabárez poté finalmente esplodere il giovane centravanti Gabriel Batistuta, che proprio quell’anno andò a vincere la Coppa America con la Nazionale e fu ingaggiato dalla Fiorentina. Al Boca, Tabárez vinse due titoli. Il primo fu la Copa Master de Supercopa, un torneo internazionale di modesto prestigio che si svolse nel 1992 e che vide la partecipazione delle quattro squadre che avevano precedentemente vinto la Supercoppa Sudamericana, ovvero Boca Juniors, gli altri argentini del Racing Avellaneda, i paraguayani dell’Olimpia Asunción e i brasiliani del Cruzeiro. L’altro titolo, ben più importante, fu il campionato argentino di Apertura sempre nel 1992. Il Boca non si laureava campione d’Argentina dal 1981, quando la stella della squadra era Diego Armando Maradona. Anche grazie al lavoro di Tabárez l’incantesimo era stato finalmente spezzato dopo 11 lunghissimi anni.

Tantissimi i campioni allenati dal Maestro, tra cui Cavani

L’AVVENTURA EUROPEA Dopo il divorzio dal Boca (avvenuto nell’aprile del 1993), Tabárez si prese una lunga pausa interrotta dall’incontro con Massimo Cellino, che decise di affidare al Maestro la guida del Cagliari per la stagione 1994/95. Il garbo, la cultura e la serenità del tecnico uruguayano fecero subito breccia nell’ambiente rossoblu. La squadra era di buon livello, imperniata soprattutto sull’intesa tra gli attaccanti Luís Oliveira e Julio César Dely Valdés, a cui si aggiunse nel mercato autunnale Roberto Muzzi, scaricato dalla Roma. Furono proprio loro tre gli artefici di un clamoroso 3-0 rifilato ai futuri campioni d’Italia della Juventus all’ultima del girone d’andata. Il girone di ritorno fu addirittura strepitoso, con i sardi a lungo in corsa per la qualificazione alla Coppa UEFA, sfumata soltanto a causa di due sconfitte nelle ultime due giornate, una in casa con il

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TORI

ENA GRANDI ALL Óscar Tabárez

Napoli e una al “Delle Alpi” con la Juventus. Le strade del tecnico e del Cagliari si separarono dopo una sola stagione. Cellino mise a segno il colpo-Trapattoni, reduce da una deludente stagione al Bayern Monaco, mentre Tabárez si prese un anno sabbatico. Rientrò in pista nel 1996/97, e lo fece in modo trionfale, chiamato da Silvio Berlusconi alla guida del Milan campione d’Italia. Trovò una squadra da sogno, magari un po’ invecchiata in difesa, con i declinanti Mauro Tassotti, Franco Baresi e Filippo Galli, ma pur sempre competitiva per via della presenza di Paolo Maldini, Billy Costacurta, Marcel Desailly, Demetrio Albertini, Edgar Davids, Zvonimir Boban, Dejan Savićević, George Weah e Roberto Baggio. Dopo i tanti trionfi ottenuti negli anni precedenti con Arrigo Sacchi prima e Fabio Capello poi, i rossoneri faticarono a trovare nuovi stimoli con il nuovo allenatore. Si capì subito che qualcosa non andava la sera del 25 agosto 1996. A “San Siro” il Milan affrontava la Fiorentina per la Supercoppa Italiana e Tabárez ritrovava il suo vecchio pupillo Batistuta. Come finì? Che Batigol castigò il Maestro con una micidiale doppietta. Le settimane successive furono caratterizzate da risultati altalenanti e da uno scarso feeling tra lui e la squadra. E così, all’11ª giornata, dopo una dolorosa sconfitta per 3-2 a Piacenza, Berlusconi decise di esonerare il tecnico uruguayano sostituendolo con il c.t. della Nazionale Arrigo Sacchi. Scelta non felice, perché il Milan sarebbe letteralmente colato a picco nei mesi a venire. Tabárez ripartì dalla Liga spagnola nel 1997/98, una salvezza conquistata con le unghie e con i denti alla guida dell’Oviedo, dopodiché, nel 1999/00, fece ritorno in Serie A nella sua Cagliari. Stavolta, però, l’esperienza fu molto più amara. Dopo un solo punto raccolto nelle prime 4 giornate, Cellino gli diede il benservito, e da quel momento per il Maestro le porte del calcio europeo si sarebbero chiuse definitivamente.

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Nonostante la malattia, Tabarez ha continuato ad allenare

SOGNANDO IL MUNDIAL Nemmeno l’aria dell’Argentina, il Paese che l’aveva visto protagonista all’inizio degli anni ‘90, poté dargli ristoro all’alba del nuovo millennio. Provò prima con il Vélez Sarsfield, la squadra capitanata dal leggendario portiere paraguayano José Luis Chilavert, ma tutto girò nel verso sbagliato e dopo pochi mesi fu costretto alle dimissioni. Nel 2002, di nuovo alla guida del Boca Juniors. Ebbe alle sue dipendenze il raffinato Juan Román Riquelme, fantasista destinato al Barcellona, e un 18enne di cui si sarebbe molto sentito parlare, l’“Apache” Carlitos Tévez. Fu un’avventura più ricca di ombre che di luci, segnata da una prematura eliminazione in Coppa Libertadores e da due anonimi piazzamenti in campionato. Non furono in pochi a darlo per “bollito”, e lui in effetti per un po’ decise di staccare la spina in attesa di tempi migliori. La svolta arrivò nel


2006, quando la Federazione Uruguayana lo nominò commissario tecnico. Il primo segnale incoraggiante arrivò con il 4° posto in Coppa America nel 2007, ma il capolavoro fu compiuto in Sudafrica in occasione del Mondiale. Grazie al fiorire di una splendida generazione di campioni, soprattutto davanti, con un trio da fare invidia al mondo come quello formato da Edinson Cavani, Diego Forlán e Luis Suárez, la Celeste si riscoprì grande e in grado di lottare per qualsiasi traguardo. Si arrese solo in semifinale all’Olanda, ma solo perché Suárez non poté essere della partita a causa di una squalifica. Alla fine, fu 4° posto, preludio a un futuro di successi. L’anno dopo, infatti, ecco la trionfale avventura in Coppa America e la gioia per la vittoria in casa dei rivali argentini, ottenuta nonostante gli infortuni che tennero fuori per quasi tutto il torneo due pedine insostituibili come Edinson Cavani e Diego Godín.

Grande Celeste anche nel 2014 al Mundial brasiliano. Liquidò l’Inghilterra e l’Italia al primo turno, ma dovette affrontare la Colombia agli ottavi senza lo squalificato Suárez, e così i Cafeteros ebbero la meglio. Gli ultimi anni sono stati contraddistinti dalla sua lotta con un altro avversario, forse il più subdolo mai affrontato. La sindrome di Guillain-Barré, una malattia che colpisce il sistema nervoso periferico e che porta alla progressiva paralisi degli arti. Ciò non gli ha impedito di essere l’esemplare condottiero dell’Uruguay al Mondiale di Russia, manifestazione in cui Godín e compagni hanno raggiunto i quarti dopo aver eliminato agli ottavi il Portogallo di Cristiano Ronaldo. E le immagini del Maestro che esultò insieme ai suoi ragazzi gettando via le stampelle furono l’ideale omaggio a quella “garra” che da sempre contraddistingue la Celeste e più in generale l’indole del popolo uruguayano.

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C L A C L E D I T GIGAN Leandro Castán di Fabrizio Ponciroli

Due chiacchiere con l’ex difensore giallorosso, ora capitano del Vasco da Gama…

CASTÁN, CORE DE ROMA 64


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ell’estate del 2012, la Roma ufficializza l’acquisto del 25enne Leandro Castán, difensore centrale fresco vincitore della Copa Libertadores con il Corinthians. Il brasiliano si dimostra, sin dalla sua prima stagione, un giocatore di grande eleganza e incredibile efficacia. Nel suo secondo anno nella capitale, sponda giallorossa, si mette in mostra a tal punto da diventare uno dei migliori difensori della Serie A. Con Rudi Garcia in panchina, sfiora il “colpaccio”, arrendendosi solo alla Juventus. Sembra destinato a diventare una colonna della Roma per tanti anni. Purtroppo, gli viene diagnosticato un cavernoma che lo costringe ad andare sotto i ferri. L’operazione riesce perfettamente ma, quando torna in campo (troppo presto, come ci racconterà) non è lo stesso di sempre. Prova a ritrovarsi in altre piazze ma gli manca sempre qualcosa per eccellere. Nel 2018, in estate, decide di tornare in Brasile e, come per magia, ridiven-

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CA GIGANTI DEL Leandro Castán

Si ringrazia Panini per la gentile concessione delle immagini

ta un giocatore vero. Il Vasco ringrazia e lo fa capitano della squadra. Ben tornato Leandro Castán… Leandro, sei un grande difensore centrale. È sempre stato il tuo ruolo anche da piccolo? “No, nient’affatto. Sai, quando si è piccoli, soprattutto qui in Brasile, i papà vogliono vedere i propri figli giocare in attacco. Ho cominciato come attaccante di fascia. Sono stato poi spostato a centrocampo. Poi, complice un infortunio, sono finito a giocare sulla fascia ma in difesa. Infine, durante un torneo, mancando un centrale di difesa, mi hanno messo lì. Sono stato il miglior giocatore del torneo e, quindi, non mi hanno più spostato. Questa è la mia storia…” Chi erano i tuoi idoli da piccolo? “Mi piaceva Juan, difensore che ha giocato anche nella Roma. Poi avevo un debole per Materazzi. Aveva

La Juventus, la vera bestia nera di Leandro Castán e non solo

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grande grinta e sapeva come marcare l’avversario”. Chi è stato l’allenatore al quale sei più legato? “Ho avuto tanti bravi allenatori. Tite, l’attuale allenatore della nazionale brasiliana, mi ha aiutato tanto quando eravamo insieme al Corinthians. Con lui come allenatore, ho vinto la Copa Libertadores e il campionato brasiliano con la maglia del Corinthians. Poi, sicuramente, devo citare Rudi Garcia che ho avuto alla Roma. Purtroppo, a causa del problema che ho avuto (intervento neurochirurgico alla testa, n.d.r.), non sono riuscito a ripagarlo completamente della fiducia che mi ha sempre dato”. Parliamo della Roma. Come sei finito ad indossare la casacca giallorossa? “Ricordo che c’erano tanti rumors in quel periodo (estate 2012, n.d.r.). Ufficialmente, avevo due offerte sul


piatto. C’era quella della Roma e quella del Fenerbahce. Il club turco mi offriva più soldi ma io, in quel periodo, sognavo la Seleçao e quindi ho preferito andare a giocare alla Roma, in un campionato di primissimo livello e in una squadra conosciutissima in tutto il mondo”. Cosa ricordi dei tuoi primi giorni nella capitale? “Ho un ricordo bellissimo della città. La prima volta che sono stato in centro a Roma mi sembrava di essere in un set cinematografico. È stata una grandissima emozione”. Insomma, Roma ti è entrata subito nel cuore… “Certamente. È la mia seconda casa, mi manca terribilmente la Roma e tutti i tifosi giallorossi che mi hanno sempre sostenuto. Ho ancora casa a Roma, è un luogo magico”. Chi ti è stato più d’aiuto nei tuoi primi giorni alla Roma? “Marquinhos. Brasiliano come me, era arrivato qualche mese prima e mi ha aiutato tantissimo. Mi ha dato una mano a trovare casa, mi ha spiegato come comportarmi. È stato molto importante il suo aiuto per ambientarmi velocemente”. I tuoi primi due anni alla Roma sono stati fantastici… “Sì, ho fatto la scelta giusta (ride, n.d.r.). È stato un bel periodo, giocavo tanto ed eravamo anche forti. Onestamente credo che il mio secondo anno in giallorosso (stagione 2013/14, n.d.r.) sia stato il migliore di tutta la mia carriera. Credo che avremmo anche potuto vincere il campionato, avevamo davvero una bella squadra. Purtroppo, non è andata così e mi dispiace molto perché, lo ripeto, eravamo una bellissima squadra, allenata bene da Rudi Garcia. Siamo arrivati secondi dietro alla Juventus ma potevamo anche vincere…”. Juventus che continua a dominare anche oggi. Come mai vincono sempre loro? “(Ride, n.d.r.). Non lo so ma sono certo che prima o poi perderanno anche loro. Guarda,

L’EMOZIONE DELLA MAGLIA DELLA SELEÇAO “Ho scelto la Roma perché sognavo di indossare la casacca della Seleçao”. Una scelta che si è rivelata giusta. Viene convocato, per la prima volta, per due gare amichevoli in programma contro Iraq e Giappone. La felicità di Leandro Castán, fresco romanista, è totale: “Sono molto felice di essere stato chiamato per giocare con la Seleçao Brasileira”, scrive via Twitter. Il 16 ottobre 2012, a Breslavia, in Polonia, Leandro Castán fa il suo esordio ufficiale con la maglia del Brasile. I verdeoro spazzano via il Giappone, allora guidato da Zaccheroni, con un perentorio 4-0. Una gara mai in bilico, con il Brasile a segno con Kakà, Paulinho e un ragazzino di nome Neymar, uno destinato a fare grandi cose nel calcio che conta. Un match che l’ex romanista non dimenticherà mai. Il CT Menezes lo manda in campo da titolare, nell’inedito ruolo di esterno di difesa (al posto di Marcelo infortunato). Poco importa, è la “prima volta” di Leandro Castán con il Brasile. Il sogno di una vita che diventa realtà: “Non dimenticherò mai l’emozione provata a giocare per il mio Paese”, spiega, a distanza di tanti anni, lo stesso Leandro Castán.

Benatia (ex compagno di Castán alla Roma e poi giocatore della Juventus, n.d.r.) mi ha detto quando è passato alla Juventus: ‘Ora capisco perché vincono, questi sono matti. Lavorano tutti i giorni in una maniera incredibile, non smettono mai’… Forse è questa la verità ma, ripeto, sono sicuro che, prima o poi, qualcuno li batterà e spero proprio che sarà la Roma a farlo”. Dopo i primi due anni, favolosi, alla Roma, è arrivato il problema alla testa… “Il mio più grande rammarico e non essere riuscito a tornare ai miei livelli. Il mio obiettivo, dopo l’operazione, era di recuperare il tempo perduto e dare il mio contributo alla squadra.

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CA GIGANTI DEL Leandro Castán

Ci ho provato in ogni modo ma non ci sono riuscito”. Come mai non sei riuscito? “Premetto che, se tornassi indietro, rifarei le stesse scelte di allora ma, con il senno di poi, credo di aver affrettato troppo i tempi del mio rientro. Volevo tornare a giocare, volevo aiutare i miei compagni ma, probabilmente, non ero ancora pronto e questo l’ho pagato a caro prezzo, visto che il mio rendimento è stato inferiore rispetto alle mie aspettative”. Beh, al Vasco da Gama, ti sei ritrovato… “Sì, mi trovo molto bene qui al Vasco da Gama. Ho ritrovato me stesso. Mi sento bene fisicamente e mentalmente. Sono in un club molto noto in Brasile che sta cercando di tornare ai fasti di un tempo e io voglio dare il mio contributo. Sono il capitano della squadra e questo è motivo di grande orgoglio da parte mia”. Hai già pensato a cosa farai quando smetterai di giocare a calcio? “Non lo so ancora. Sicuramente dovrò fare un lungo discorso con la mia famiglia. In questi anni, tutti loro hanno vissuto il mio sogno. Mi hanno seguito ovunque mi portasse la mia professione, senza chiedere nulla in cambio. Devo capire se avranno ancora voglia di seguirmi in questa vita folle o vorranno fare altro. Personalmente mi piacerebbe restare nel mondo del calcio”. Un tuo ex compagno di squadra, ovvero De Rossi, ha già deciso: farà l’allenatore. Come lo vedi su una panchina? “Lo vedo benissimo. Ha la personalità giusta e sa leggere il calcio come pochi altri. A mio parere sarà sicuramente un grandissimo allenatore. Merita di fare una carriera importante anche da allenatore e il calcio merita un personaggio del suo calibro”. Hai giocato anche con un certo Totti… “A dire il vero, ho giocato con tantissimi campioni nel corso della mia carriera. Totti è speciale. Se posso fare tre nomi, direi Totti, Ronaldo (Il Fenomeno, n.d.r.) e Neymar. Direi che ho detto tutto”.

68 La stagione 2013-14, la migliore nella carriera di Leandro Castán


L’Italia e la Serie A sono rimaste nel cuore del difensore brasiliano

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CA GIGANTI DEL Leandro Castán

la carriera di Castán Leandro Castán da Silva nasce a Jau, nello stato di San Paolo, il 5 novembre 1986. Mancino dai piedi sopraffini, cresce nelle giovanili dell’Atletico Mineiro, squadra con cui fa il suo esordio nel massimo campionato brasiliano. Nel 2007, a soli 21 anni, si trasferisce in Svezia. Indossa la casacca dell’Helsingborg, uno dei club svedesi più noti. Ci resta per un breve periodo, togliendosi la soddisfazione di segnare, nell’allora Coppa Uefa, al PSV Eindhoven. Torna immediatamente in Brasile e riparte dal Gremio Baruen. Ci resta per due anni. Poi, nel 2010, approda al Corinthians che ha appena scelto, come tecnico, Tite. Con il Timao vince il campionato brasiliano nel 2011 e, l’anno seguente, conquista la Copa Libertadores battendo, nella doppia finale, il Boca Juniors allora guidato dalla stella Riquelme (1-1 alla Bombenera, 2-0 a San Paolo). Neanche il tempo di festeggiare la Copa Libertadores ed ecco la chiamata della Roma. Firma un contratto quadriennale con il club della capitale. Esordisce contro il Catania (26 agosto 2012, 2-2 il finale). Il suo primo e unico gol in Serie A lo segna alla Fiorentina. Chiude il suo primo anno alla Roma con 34 presenze e una rete. Va meglio la stagione seguente, con Rudi Garcia in panchina. Disputa 40 gare complessive, giocando ad altissimi livelli (la Roma si piazza seconda in campionato, alle spalle della Juventus). Alcuni problemi fisici condizionano l’inizio della stagione 2014/15. Non si riprende, anzi gli viene diagnosticato un cavernoma. Viene operato alla testa (“quei giorni in terapia intensiva sono stati i più difficili e duri della mia vita”, racconterà). Resta ai margini per lungo tempo ma la voglia di tornare a giocare è tanta. Nel luglio del 2016 accetta la corte della Sampdoria: prestito secco. Ci resta poco più di un mese. Il 18 agosto si trasferisce al Torino, sempre con la formula del prestito. Inizia alla grande poi il suo minutaggio decresce, complice anche tanti, troppi infortuni (14 presenze totali). Torna alla Roma ma per lui non c’è più spazio. Nel gennaio del 2018 prova a rilanciarsi con la casacca del Cagliari. Qualche buona prova ma poco altro. Decide così di rescindere il contratto rinnovato qualche tempo prima con la Roma e fare ritorno in Brasile. Il Vasco da Gama scommette su Leandro Castán e fa bene. A furia di giocare con continuità, ritrova il sorriso e diventa pure il capitano della squadra. Oggi è un punto cardine del Vasco.

Invece, chi è stato l’avversario più tosto che hai affrontato su un campo di calcio? “Bella domanda. Guarda, direi che Carlitos Tevez mi ha messo spesso in difficoltà. Attaccante complicato da fermare. In quel magico secondo anno alla Roma, lui era alla Juventus…”. Juventus che ora ha CR7… “Un fenomeno assoluto, basta guardare quello che ha vinto in carriera. Una fortuna enorme per il calcio italiano avere un giocatore simile ma spero che, anche con Cristiano Ronaldo, la Juventus possa non vincere tutto”. Cosa ti è rimasto della tua esperienza in Italia ora che sei tornato in Brasile? “Tanto, tantissimo. Roma ha uno spazio speciale nel mio cuore e poi c’è la carbonara”. In che senso la carbonara?

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“È diventato il mio piatto preferito, ha battuto anche pasta e fagioli che, per noi brasiliano, è il top. Pensa che, quando vado al supermercato con mia moglie, cerchiamo sempre gli ingredienti giusti per farla al meglio. Se li troviamo, la carbonara non me la toglie nessuno (ride, n.d.r.)”. Siamo ai saluti. Leandro Castán deve tornare alle sue faccende di casa. È ora di pranzo a casa sua, lo lasciamo alla sua tranquilla vita. Il calcio è la sua passione e, se la famiglia lo vorrà, lo sarà ancora a lungo. Neanche il brutto scherzo che gli ha confezionato la vita, in quel lontano 2014, l’ha frenato. Si è ripreso e ora si diverte, provando a far gioire i tifosi del Vasco, proprio come faceva all’Olimpico con il popolo giallorosso. Buona fortuna Leandro Castán da Silva.


L’ultima esperienza in Italia è stata con la casacca del Cagliari

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O N R O I G N U EROI PER Alessandro Calori di Antonello Schiavello

Appuntamento particolare con la rubrica Eroi per un Giorno. Capitan Alessandro Calori ha fatto tantissimo ma quel gol…

UN GOL PER LA STORIA

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en 592 partite ufficiali disputate, 339 nella massima serie, la maggior parte di queste, iniziate con i galloni di capitano sul braccio sinistro. 22 reti segnate (14 in serie A). Ma fare gol non è mai stata una sua attitudine anche perché, a lui, come a tutti i difensori, viene chiesto innanzitutto di proteggere la propria porta dagli attacchi avversari. Sovente però capitava di vederlo nell’area opposta a svettare di testa in occasione di un calcio d’angolo o di una punizione a favore. E nel proseguo della stessa azione magari, vederlo calciare di destro mettendo la sfera alle spalle di un portiere… decidendo di fatto le sorti di un intero campionato! È il 14 maggio 2000. Il tetto azzurro abbronzato sopra di noi si stende su quasi tutta la nostra Penisola. Non ne godono, restandone fuori, solamente pochissime regioni e città. In una di queste, Perugia, si deve disputare un’importantissima partita valevole per l’ultimo turno di campionato. Di fronte ai grifoni biancorossi è attesa la Vecchia Signora, capolista con 71 punti ma con la Lazio a soffiarle sul colo (a -2). Ormai non c’è più tempo per fare tabelle o calcoli. Entrambe devono decisamente puntare ai tre punti e poi… al 90° (!!!!!!) si saprà su quale maglia verrà cucito lo Scudetto. Dicevamo di e del Perugia. Per il secondo anno consecutivo, la squadra umbra è ancora il vero ago della bilancia del campionato. Nel 1998/99 furono i rossoneri di Zaccheroni ad essere ospiti del Perugia all’ultima giornata. Il doppio set, partita e Scudetto se lo aggiudicò il Milan. Seconda arrivò la Lazio ad un punto…. Per certi versi l’atto conclusivo del campionato 1999/00 assomiglia molto a quanto vissuto un anno prima dai sostenitori della Lazio. Vincere potrebbe anche non bastare. Alle ore 15, in perfetta sincronia si comincia. La Lazio ospita la Reggina all’Olimpico. I calabresi non hanno problemi di classifica. Il punticino preso contro il Verona, la domeni-

ca precedente, ha assicurato ai granata un altro anno nella massima serie. A meno di 200 chilometri di distanza, nel capoluogo umbro, comincia a piovere. L’intensità della pioggia dopo mezz’ora è tale da non vedere trame di gioco apprezzabili dai 22 in campo. Si va avanti per inerzia e improvvisazione. Quasi impossibile giocare la palla a terra. La Juventus sfiora il gol in più di un’occasione ma al rientro negli spogliatoi il risultato è fermo, ancorato (mai termine fu più appropriato) sullo 0-0. A Roma invece, gli uomini di Eriksson sono avanti 2-0. A 45’ dalla fine del campionato la classifica recita: Juventus e Lazio 72 punti. Clamoroso spareggio in arrivo? Lazio e Reggina sono già sul rettangolo verde per dare inizio alla ripresa mentre a Perugia…. si stanno aspettando solo i liocorni salire sull’arca! Un nubifragio mai visto. Durante l’intervallo molti inservienti provano a far defluire l’acqua e permettere lo svolgimento della ripresa. A Roma prima si attende invano la contemporaneità per ripartire, poi si gioca. Finirà 3-0. Nessuno esce dall’Olimpico. Tutti sono in attesa di notizie da Perugia. Al Curi, l’arbitro Collina assieme ai due capitani fa diversi sopraluoghi per vedere lo stato in cui si trova il manto erboso. Si gioca, non si gioca, si rinvia, non si rinvia. La palla in più punti del campo non rimbalza. Si deve prendere una decisione. In seguito ad una telefonata e dopo oltre un’ora, sono le 17.11, l’arbitro internazionale risbuca dal tunnel degli spogliatoi seguito dalle due squadre. Palla al centro. La Juventus non vorrebbe riprendere, il vulcanico presidente del Perugia, Gaucci non vuole rigiocarla. Oggi o mai più. Si ricomincia. Passano 4’ e il Perugia usufruisce di un calcio piazzato sulla trequarti. Il pallone calciato da Rapajc punta dritto l’area di rigore bianconera. Conte di testa prova a rinviarlo ma la sfera si smorza sul petto di Calori, il quale, messa palla a terra, lascia partire un tiro di destro che si infilava alle spalle di Van

In alto: tante ex stelle dell’Udinese insieme al nostro Antonello Schiavello

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GIO EROI PER UN Alessandro Calori

Der Sar. È il gol che decide le sorti del campionato 1999-2000. Un gol figlio dell’unico tiro in porta da parte del Perugia. La Juventus ci prova fino alla fine. Sfiora il pari ma l’espulsione di Zambrotta chiude i giochi, il campionato, i sogni bianconeri, regalando alla Lazio uno Scudetto agognato, insperato ma per nulla immeritato. Ancora, a distanza di vent’anni, quella partita è motivo di accese discussioni. Meglio soffermarsi sul profilo di colui che, grazie a quel gol, è diventato croce e delizia per molti tifosi di differenti fedi calcistiche: Alessandro Calori. La scalata del Capitano Alessandro Calori nasce ad Arezzo il 29 agosto del 1966. Nella provincia toscana comincia a muovere sogni e passi in seno alla società amaranto. È la stagione 1984/85, l’Arezzo milita in Serie B ma, per il giovane Alessandro non c’è posto sul terreno di gioco (solo panchina). L’anno dopo viene ceduto al Montevarchi in Serie C2, cittadina dal sapore vagamente medievale non molto distante dal capoluogo aretino. Con i rossoblù Calori trascorre quattro anni molto importanti sotto il profilo professionale, umano e caratteriale. Assapora la prima gioia da calciatore nella stagione 1987/88

IL TABELLINO DELLA PARTITA Perugia – Stadio Renato Curi – domenica 14 maggio 2000 ore 15:00 PERUGIA-JUVENTUS 1-0 MARCATORI: 5’ st Calori PERUGIA: Mazzantini, Bisoli, Calori, Materazzi, Esposito, Tedesco, Olive, Milanese, Alenitchev (18’ st Sogliano), Amoruso N. (22’ st Melli), Rapajc (43’ st Campolo). Allenatore: Mazzone JUVENTUS: Van der Sar, Ferrara C„ Montero, luliano, Conte A. (28’ st Esnaider), Tacchinardi (13’ st Kovacevic), Davids, Pessotto G. (20’ st Zambrotta), Zidane, Inzaghi, Del Piero. Allenatore: Ancelotti ARBITRO: Collina ESPULSIONI: 28’ st Zambrotta (Juventus)

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conquistando, dopo lo spareggio giocato e vinto ai calci di rigore ad Empoli contro la Massese, la promozione in C1. Chiusa la parentesi col Montevarchi (78 presenze e tre reti) per Alessandro si prospetta un ulteriore salto di categoria. Il Pisa appena retrocesso in Serie B del mai dimenticato Romeo Anconetani, lo acquista per farne il perno difensivo. Due giorni prima di festeggiare il suo 23° compleanno, Calori debutta in Serie B. L’allenatore Luca Giannini lo schiera nell’undici iniziale nella vittoriosa partita (3-0) giocata contro il Monza all’arena Garibaldi. Il Pisa è un bel gruppo. Alla fine del torneo si classifica alle spalle del Torino centrando il ritorno in serie A. La difesa nerazzurra anche grazie al contributo di Calori (37 presenze) subisce solamente 23 reti in tutto l’arco del campionato. La scalata per Alessandro prosegue: 24 presenze e 1 gol (3 febbraio 1991 Lecce-Pisa 1-1) al primo anno nella massima serie. Il battesimo vede come sfondo le torri degli asinelli. È il 9 settembre 1990: Bologna-Pisa 0-1 gol del solito Piovanelli. Gli innesti di Chamot, Padovano e Pablo Simeone non salvano il Pisa dalla cadetteria. E dalla cadetteria, seppur con altri colori addosso, riprende la scalata del capitano. Firma per l’Udinese, ci resterà otto anni. Lui c’è quando i friulani ritornarono in Serie A al termine del campionato 1991/92. Lui c’è a Bologna nel giugno del 1993 nello spareggio contro il Brescia per restare in Serie A. C’è l’ultima volta che i bianconeri disputano un campionato di Serie B nel 1994/95. E c’è quella prima volta (1996/97) che Udine sportiva e centenaria bacia l’Europa. C’è sempre stato. Sulla sua spalla, robusta e genuina, tanti compagni si sono confidati, sentiti protetti! Sotto l’aspetto umano e professionale non è mai stato secondo a nessuno. Da gran condottiero, Alessandro conduce i suoi uomini fino alle cime più alte (terzo posto nel 1997-98) scambiando gagliardetti in giro per l’Europa. E quando, al termine della sua permanenza in Friuli (257 presenze e 10 reti) ritorna nel 1999-2000 come avversario con la maglia del Perugia, TUTTO lo stadio gli riserva il giusto e doveroso attestato di affetto incondizionato. Quei otto anni con addosso la maglia dell’Udinese ri-


mangono, da professionista, i più belli di tutta la carriera per Calori. Non a caso ha scelto di viverci con tutta la famiglia una volta appesi gli scarpini al chiodo. Asciugata l’ultima lacrima, Calori approda al Perugia. 33 presenze e cinque reti. Mai aveva segnato tanto in un campionato. L’ultimo, quello decisivo per l’assegnazione dello scudetto ‘99-2000 è forse il meno bello ma sicuramente è quello che ha permesso di scrivere il suo nome per sempre sul grande libro del calcio italiano. Nel suo peregrinare c’è poi la tappa di Brescia con Sor Carletto e Roby Baggio. Un ottimo ottavo posto, la sua esperienza paga. Il secondo anno

con le Rondinelle lo passa con Guardiola come compagno. Salvezza sofferta. Ha ancora voglia di calcio. Va a Venezia (due stagioni) poi, nell’estate del 2004 decide di ritirarsi. Con la stessa forza e determinazione di chi sa ancora sognare, Calori, una volta appesi gli scarpini al chiodo, scruta gli orizzonti cercando altre nuove vette da poter scalare. Gioie e delusioni ma anche tanti ragazzi scoperti, valorizzati o fatti esordire nei professionisti (El Sharawy, El Kaddouri, Caldirola, Consigli, Cragno solo per citarne alcuni) da colui che un giorno cambiò le sorti di un campionato difendendo i propri sogni.

IL RICORDO DI CALORI “La partita Perugia-Juve è un ricordo strano perché fu una partita iniziata con il bel tempo, la Juventus sbagliò tanti gol poi ad un certo punto iniziò a piovere. Sembrava il diluvio universale. E’ venuta giù tanta di quella acqua. Addirittura, anche le automobili nei parcheggi galleggiavano, ma veramente! Era una cosa devastante, sembrava un uragano. Sarà durato un quarto d’ora e ovviamente anche il campo era zuppo. Facevamo quasi fatica a stare in piedi. Poi siamo rimasti ad aspettare negli spogliatori l’evolversi dei fatti. Mai penso che, per ricominciare il secondo tempo di una partita, si sia dovuto attendere così tanto, oltre un’ora. Una sorta di anomalia. Noi del Perugia eravamo abbastanza sereni perché non avevamo nulla da chiedere al campionato, ormai eravamo salvi, per noi era solamente una partita, l’ultima giornata, eravamo tranquilli. Anzi, vincendola andammo addirittura in Intertoto. La cosa che mi stupì fu tutto questo clamore intorno a questa partita, ma poi effettivamente quel mio gol decise il campionato. Li per lì subito dopo la rete non ci pensai, mai poi realizzai l’importanza di quel gol. Sono passati ormai venti anni ma ancora ne parliamo, per cui… questo testimonia che è stata una cosa impensabile, che ha un po’ stupito tutti perché, la cosa principale è che: o sei juventino o sei anti juventino. Quel gol ha dato gioia a tanti anti juventini e dispiacere agli juventini che sono veramente tanti. Collina nell’intervallo ha chiamato i suoi superiori per sapere come comportarsi. La decisione da prendere era troppo importante. Non so se fu presa solo da Collina. Gli dissero di aspettare, di vedere se si sarebbe potuto portare a termine l’incontro ritardando la ripresa del gioco. Noi non sapevamo nulla. Anche perché, la settimana prima, c’erano state polemiche sul successo della Juventus sul Parma con gol annullato a Cannavaro e rigore non concesso ai gialloblù. I tifosi della Lazio andarono anche in Federazione a protestare per cui non era facile gestire la situazione. Quindi ci fu un casino anche prima di quella partita. Alla fine, anche grazie all’intervento degli inservienti dello stadio, siamo riusciti a portare a termine la gara. Anche se, ripeto, un’interruzione così lunga non s’era mai vista in una partita di calcio. Almeno fino allora. Ricordo che la Juventus sbagliò minimo 15 gol e noi segnammo sull’unico tiro in porta. Ma il calcio è così: a volte puoi vincere, ma a volte puoi anche perdere. Io segnai quel gol da professionista anche se tifavo Juve ma la serietà e la consapevolezza di essere un professionista prima di tutto andava oltre ogni cosa. Grazie a quel gol, mio malgrado, sono diventato l’idolo della tifoseria laziale. Anche ora mi invitano ogni tanto a qualche manifestazione. Sono diventato un beniamino”.

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TI I N I F O N O S DOVE Pierluigi Orlandini

di Sergio Stanco

La storia dei gloriosi anni ‘90 rivissuta in compagnia di Pierluigi Orlandini, un nome entrato di diritto nella storia del calcio italiano.

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ome fa a mollare uno che ha deciso un Europeo Under 21 nei supplementari, e per di più partendo dalla panchina, scippando la copertina a gente come Vieri, Inzaghi, Figo, Rui Costa e molti altri? Infatti, non mòla mia, proprio come la sua Bergamo, messa in ginocchio dal coronavirus ma che, con il solito immenso orgoglio, si sta rialzando alla grande. I legami famigliari, infatti, hanno portato Pierluigi Orlandini nel brindisino, ma il cuore resta ancorato a Berghem, come la chiamano gli autoctoni. A tal punto che il momento indimenticabile della sua carriera, non è il famoso Golden Gol che ha regalato l’Europeo Under 21 ai ragazzi di Cesare Maldini (era il 1994), piuttosto l’esordio in maglia nerazzurra. Ma ci arriveremo. Pierluigi Orlandini oggi vive a Mesagne, provincia di Brindisi, dove ha aperto un centro calcistico di base per i ragazzini della zona. L’obiettivo non è quello di creare i campioni del domani, ma piuttosto quello di imparare divertendosi: “Voglio trasferire la mia esperienza ai giovani, insegnando loro anche un’etica educativa. Per quanto mi riguarda, nelle giovanili il risultato andrebbe abolito, perché crea soltanto stress e problemi. Tutti scendiamo in campo per vincere, ma come lo fai, e come eventualmente perdi, non è un dettaglio. E i bambini non devono avere anche la pressione del risultato, devono sapere che a volte capiterà loro di perdere, soprattutto se gli avversari sono più bravi. A quel punto, l’unica cosa da fare, è congratularsi. Quando qualcuno vuole iscriversi, io metto le cose in chiaro: questa è la mia filosofia, se siamo d’accordo bene, altrimenti amici come prima. Non voglio per forza cinquanta bambini, me ne basta venti, ma che siano convinti. E anche i loro genitori devono capire che possono interessarsi, ma non interferire in questioni tecniche, altrimenti fanno solo del male si loro figlio, non certo all’allenatore. Non tutti diventeranno campioni, ma l’obiettivo

77 Credit Foto: Liverani


DOVE SONO

FINITI?

Pierluigi Orlandini è far arrivare tutti al loro massimo: io dico sempre che se sei da Lega Pro e arrivi lì, sei un campione. Se invece sei da Serie A e finisci in Lega Pro, allora sei… Vabbè, ci siamo capiti (sorride, n.d.r)”. D’altronde, il piccolo Pierluigi è cresciuto in un settore giovanile d’eccellenza come quello dell’Atalanta. Un legame indissolubile: “All’Atalanta son cresciuto, sono diventato calciatore e poi uomo. Sono tornato altre due volte in carriera a Bergamo, quello che mi ha trasmesso quella maglia non l’ho provato da nessuna altra parte. I tifosi dell’Atalanta sono speciali, come tutto il popolo di Bergamo. Lo abbiamo dimostrato anche nelle difficoltà: il bergamasco sembra rozzo, rude, duro, ma ha un cuore d’oro e non mòla mia. Non molla mai. Sono legatissimo alle mie origini, alla squadra e al club: ancora oggi faccio il tifo per l’Atalanta. Quella di Gasperini poi mi entusiasma: vado oltre, secondo me gioca il calcio più bello del Mondo. E ti dirò di più, senza coronavirus probabilmente avrebbe vinto la Champions! Va bene, sono di parte, lo ammetto (sorride, n.d.r), ma sono orgoglioso della mia Dea”. Com’è orgoglioso di averne fatto parte: “Il ricordo più bello della mia carriera è l’esordio nel mio stadio, con la squadra della mia città, quella per cui ho sempre tifato. Semplicemente da brividi”. E sì che Orlandini di emozioni ne ha vissute. L’Inter di Bergomi, il Milan di Maldini, il Parma dei miracoli... “Spesso mi dicono che avrei potuto fare di più in carriera: forse non ho giocato quanto avrei voluto, ma ho vestito maglie importanti, giocato con grandi campioni e affrontato giocatori altrettanto eccezionali. Quando oggi vedo Zidane sulla panchina del Real Madrid, e penso che ci ho giocato contro, realizzo di essere ar-

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rivato ad altissimi livelli. Ho giocato con Roberto Baggio, un fenomeno. Ne ho affrontati tanti altri. Bergomi e Maldini sono stati esempi e capitani d’altri tempi, con il Parma abbiamo vinto Coppa Italia e Coppa UEFA e in quella squadra faceva panchina anche un certo Tino Asprilla. Buffon, Thuram, Cannavaro, Crespo, Asprilla, Veron, Fiore, Dino Baggio, Chiesa e tutti gli altri: devo aggiungere qualcosa? Io sono soddisfatto di quanto ho fatto, non ho alcun rimpianto”. E poi c’è quel gol storico in quella finale di Europeo Under 21 con un’Italia che profumava di Mondiale. Il mister era un certo Cesare Maldini: “Persona fantastica a cui non si poteva non volere bene, ma in quella squadra c’era gente come Toldo, Cannavaro, Vieri, Inzaghi. Una nazionale pazzesca”. Eppure, Orlandini non partecipa al gioco delle differenze con l’Italia di oggi: “Ora ricordiamo quell’Under 21 con così grande trasporto perché vinse e perché poi molti di quella squadra fecero molto bene nel resto della loro carriera, ma secondo me anche oggi abbiamo molti giovani interessanti. L’unica differenza, forse, è che i selezionatori di una volta avevano più scelta, anche perché molti di noi avevano già un po’ di esperienza nelle rispettive squadre. Tuttavia, mi sembra che qualcosa stia cambiando: mi piacciono molto Zaniolo, Sensi, Barella, Chiesa, ad esempio, ma ce ne sono molti altri che giocano tutti titolari in squadre importanti. Mister Mancini, poi, sta facendo un lavoro straordinario, si vede che è un grande allenatore. Secondo me non bluffa quando dice che si può vincere l’Europeo. Ci crede davvero. E fa bene”. E se a dirlo è uno che l’Europeo l’ha vinto segnando in finale il gol decisivo che resterà nella storia...


ASD Gigi Orlandini “Ho avuto tanti allenatori importanti in carriera, da ognuno ho cercato di prendere qualcosa. Maldini è stato un secondo padre per tutti noi di quell’Under 21, ma anche da Malesani, ad esempio, ho imparato tanto. Mi stupisce che non stia allenando, ma in questo calcio a volte conta più l’immagine della sostanza”. Forse è anche per questo che Pierluigi si è focalizzato sui giovani: “Non ho escluso di poter allenare i “grandi”, esperienze ne ho avute, ma oggi per strapparmi a questo lavoro che mi dà grandi soddisfazione con i miei ragazzi, ci vorrebbe un progetto davvero serio”. Come serio è il progetto che ha avviato Mister Orlandini a Mesagne, provincia di Brindisi. Ha aperto un centro calcistico di base, con una filosofia ben delineata: “Ai bambini non voglio dare il peso del risultato, voglio dare loro la responsabilità di giocare bene a calcio, perché penso che si possano raggiungere risultati solo giocando bene. Non voglio disperdere il valore della qualità di gioco pensando ad un obiettivo che poi possa pesare nell’economia della spensieratezza e del divertimento di giocare al calcio”. Chapeau Mister.

“All’Atalanta son cresciuto, sono diventato calciatore e poi uomo. Sono tornato altre due volte in carriera a Bergamo, quello che mi ha trasmesso quella maglia non l’ho provato da nessuna altra parte”. mister golden gol Pierluigi Orlandini può fregiarsi di un record molto particolare: è stato il primo marcatore della storia a decidere una competizione internazionale grazie ad un suo “golden gol”. I più giovani non sapranno nemmeno di cosa stiamo parlando. Nel 1993 la FIFA introdusse questa regola: arrivati ai supplementari, la partita si sarebbe interrotta in caso di gol. Una sorta di “chi segna vince” di quando si era ragazzini. E così andò in quel 20 aprile del 1994 a Montpellier: al 7’ del primo tempo supplementare, infatti, fu proprio Orlandini a decidere la finale dell’Europeo Under 21 contro il Portogallo di Luis Figo (eletto miglior giocatore della competizione) e Rui Costa. Quella era un’Italia eccezionale. Questa la formazione di partenza di quella gara: Toldo; Panucci, Cannavaro, Colonnese, Cherubini; Marcolin, Berretta, Scarchilli; Carbone; Inzaghi, Muzzi. Allenatore Cesare Maldini. Tra gli infortunati, Bobo Vieri, che non riuscì a giocare la finale. Orlandini fu buttato nella mischia all’84’, al posto di Pippo Inzaghi. Mai sostituzione fu più azzeccata: “Ricordo tutto come fosse ieri: rientro dalla destra e col sinistro la metto all’incrocio. Un gol stupendo. Ricordo ancora l’incredulità, perché la regola non era ancora chiarissima e infatti qualche portoghese portò il pallone a centrocampo, ma in realtà nella confusione generale l’arbitro aveva già fischiato la fine. Anche alcuni dei miei compagni non avevano capito che in realtà avevamo già vinto”. Una regola che fu poi modificata in Silver Gol (se una squadra avesse segnato nel primo tempo supplementare, senza poi subire reti, la partita sarebbe finita al 105’ anziché al 120’) e poi definitivamente cancellata nel 2004. Nel frattempo, però, nel luglio 2000 fece in tempo a farci molto male nella finale dell’Europeo d’Olanda, quando con il suo sinistro, Trezeguet al 103’ decise una delle finali più incredibili della storia, con l’Italia di Zoff in vantaggio fino al 93’, prima che Wiltord trovasse un gol tanto fortunoso quanto letale psicologicamente per gli Azzurri. Nel 2006, però, la più dolce delle vendette. Alzala alta Capitano.

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fratelli d’italia • Roberto Bordin • di Sergio Stanco

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Roberto Bordin, ex giocatore (tra le altre) di Atalanta e Napoli, è stato il classico “medianaccio” degli Anni ’90. Oggi di mestiere fa l’allenatore. E anche ad alto livello, seppur all’estero…

Panchina no limits

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erti amori non finiscono, fanno dei giri immensi e poi ritornano”, così recita “Amici mai”, stupenda canzone di Antonello Venditti. Per altro, questa è sempre stata una delle citazioni preferite di Adriano Galliani, che la usava spesso quando i giornalisti lo accusavano di legarsi troppo ai giocatori e di ricorrere troppo spesso alle “minestre riscaldate”. Che certi amori non finiscano, se lo augura anche Roberto Bordin, ex mastino di Atalanta e Napoli negli Anni ’90, che oggi sta facendo giri immensi nel tentativo di ritornare. Moldavia prima e Azerbaigian poi, esperienze che lo hanno formato e che ne hanno anche dimostrato le qualità come allenatore. E prima ancora Romania, seppur da secondo di Mandorlini. Oggi Mister Bordin spera di essersi guadagnato la tanto agognata opportunità. Ma andiamo con ordine. Un guerriero del centrocampo, dicevamo: uno di quelli che, negli anni belli, quelli pregni di fenomeni, doveva marcare il 10

avversario. Finanche il 10 con la D maiuscola: “Eh sì, erano proprio bei tempi – ci racconta Mister Bordin – mi è toccato di dover marcare anche Maradona. Cioè, marcare, diciamo che cercavo di corrergli al fianco e ammiravo le sue giocate (sorride, n.d.r.). Un fenomeno vero, ma non il solo di quegli anni: un altro che ho sempre sofferto tanto, è stato Rui Costa. Ma se devo dire quello che mi ha impressionato di più, dico Thomas Doll della Lazio: semplicemente imprendibile. Come Baggio, d’altronde, un altro che mi faceva venire il mal di testa”. Parlare con Roberto è un piacere, perché senti di avere a che fare con un uomo di calcio, uno di quelli che però non ti fanno pesare la loro carriera. Umiltà è la parolina magica: “Sono uno che ha fatto tutta la gavetta, sia da calciatore che da allenatore. Non sono nato con i piedi delicati, tutto quello che mi sono conquistato è grazie al sudore e allo spirito di sacrificio. Ho sempre dato il 100% in campo, ma soprattutto negli allena-

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fratelli d’italia • Roberto Bordin menti”. Una vita da mediano, gli ricordiamo la canzone di Ligabue. Lui sorride: “Sì, sono io”. Quel tipo di giocatore che gli allenatori amano, perché sono d’esempio e perché, quando la battaglia infiamma in mezzo al campo, è sempre meglio avere guerrieri dalla tua. Come Bordin. Non a caso, lui con i suoi allenatori ha sempre avuto rapporti speciali. E di bravi mister, non ne ha avuti pochi: Sacchi, Bigon, Lippi, Boskov, solo per citarne alcuni. Lippi, ad esempio, se lo portò da Bergamo a Napoli. Per Mandorlini, invece, è stato “vice” in campo, prima, e successivamente fidato storico secondo anche in panchina. Da “grande”, insomma, non avrebbe potuto che fare l’allenatore: “Sacchi lo ha avuto a Parma, con lui abbiamo vinto il campionato di Serie C e da lì a poco sarebbe an-

dato al Milan. Si vedeva già allora che era avanti almeno dieci anni. Facevamo la zona, per me era la prima volta. I suoi metodi erano chiaramente diversi, ogni allenamento aveva uno scopo, ogni movimento era finalizzato, allenava prima il cervello e poi le gambe. Ti chiedeva sempre di ragionare. E poi aveva una dote innata: riusciva a trasmettere i suoi principi ai calciatori. Una qualità che anni dopo ho ritrovato in Lippi, mio allenatore prima a Bergamo e poi a Napoli. Sono tecnici “diversi”, unici, non c’è niente da fare”. Così come diverso e originale era Vujadin Boskov: “Ogni volta che faccio un’intervista, mi chiedono qualche aneddoto simpatico su di lui. Era divertentissimo, è vero, ma attenzione che era anche un grandissimo allenatore. Ne sapeva davvero tanto. Oltre all’immagi-

“I metodi di Sacchi erano chiaramente diversi, ogni allenamento aveva uno scopo, ogni movimento era finalizzato, allenava prima il cervello e poi le gambe. Ti chiedeva sempre di ragionare”

IL GIRAMONDO Roberto Bordin nasce curiosamente in Libia nel 1965, dove il papà risiedeva per motivi di lavoro. All’età di 3 anni, però, rientra in Italia e in particolare a Sanremo dove di fatto cresce, anche calcisticamente. È proprio nella Sanremese che esordisce nel calcio professionistico: è la stagione 1982-83 e la categoria è quella della Serie C1. Da quel momento è un’escalation: Taranto e Parma servono da trampolino, ma è con il Cesena che comincia a scalare le gerarchie. Con i romagnoli conquista la Serie A nell’87, contribuendo alla promozione nella massima serie con ben 6 reti. Nell’89 passa all’Atalanta, con la quale disputerà 4 stagioni prima di seguire Mister Lippi a Napoli. In Campania l’apice della sua carriera che, anche per problemi fisici, successivamente scemerà nelle serie inferiori. Tuttavia, la passione è talmente forte, che dà l’addio al calcio solo a 40 anni. Nelle ultime stagioni da calciatore incrocia Mister Andrea Mandorlini, con il quale entra subito in sintonia, tanto da far parte del suo staff una volta appese le scarpette al chiodo: al suo fianco resta 10 stagioni da secondo, seguendolo dappertutto, finanche in Romania sulla panchina del Cluj. Prologo della sua carriera esterofila da primo allenatore in Moldavia e Azerbaigian, dopo una breve e unica esperienza in Italia sulla panchina della Triestina. Dopo ottimi risultati all’estero, Mister Bordin è pronto a ripartire. Magari, per una volta, non troppo lontano da casa...

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Tante le esperienze da allenatore di Roberto Bordin

ne scanzonata, c’era molto, molto di più. E anche lui era un maestro nel gestire i giocatori: ricordo che a Napoli scelse tre capitani: eravamo io, Pari e Policano e ci chiedeva di aiutarlo in campo e fuori. Parlava tantissimo con i suoi giocatori, cercava sempre di rincuorarci quando le cose non andavano bene e di spiegarci gli errori. Ci riunivamo, ci confrontavamo, ci caricavamo. Un grande”. Tuttavia, come detto, sono tanti gli allenatori che hanno segnato la carriera del calciatore Bordin e, di conseguenza, anche quella del Ro-

berto allenatore: “Il primo maestro è stato Angelo Moroni, mio tecnico nelle giovanili della Sanremese purtroppo scomparso di recente, poi ricordo con piacere anche Bruno Bolchi, ad esempio, un altro che mi ha insegnato tanto. Anche con Bigon a Cesena ho imparato molto. E poi, vabbè, Andrea Mandorlini, con cui poi ho condiviso dieci anni in panchina”. Già, perché Roberto incontra Mandorlini sul finire della sua carriera, prima a Vicenza e poi a Spezia. Infine, arrivati i 40 anni, Bordin è costretto ad arrendersi, ma Andrea ha già in testa il suo futuro: “Mi ha chiesto di fargli da assistente e per me è stato un grande onore. Si era già creato un ottimo rapporto capitano-allenatore, perché siamo due che intendiamo il calcio alla stessa maniera: diamo tutto in campo. Ci unisce un’incredibile passione, che poi si traduce nello studiare calcio tutto il giorno, cercare di applicare nuove metodologie di lavoro, sperimentare. Per me lavorare al suo fianco è stata un’esperienza eccezionale. Di lui apprezzavo in particolare il coraggio: non si faceva condizionare dalla storia o dall’età del calciatore, per lui erano tutti uguali: ricordo quando a Verona arrivò un giovanissimo Jorginho dalla C2, non si fece alcuno scrupolo, lo buttò immediatamente nella mischia non appena capito di avere a che fare con uno di qualità superiore”. E sempre per parafrasare canzoni storiche, anche un allenatore lo vedi dal coraggio. Delle sue squadre, ma anche nelle sue scelte: “Il mio calcio è offensivo, propositivo, aggressivo. Di fatto è come me da calciatore (sorride, n.d.r.). I miei giocatori devono avere personalità, devono osare, senza paura di sbagliare. Ho il mio modulo di riferimento, che è il 4-3-3 perché secondo me è quello più adatto a coprire gli spazi e ad aggredire in avanti, ma come detto amo cambiare, sperimentare”. D’altronde, il suo percorso quanto meno originale sta lì a testimoniarlo: “Dopo 10 anni da secondo di Mandorlini, ho ricevuto la telefonata di So-

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fratelli d’italia • Roberto Bordin gliano, che mi ha prospettato la possibilità di guidare la Triestina, squadra nella quale molti anni prima avevo anche giocato. Era in Serie D, ma ogni partita avevamo cinque-seimila spettatori che venivano a vederci. È stata una bellissima esperienza, molto positiva dal punto di vista personale, ma anche dal punto di vista dei risultati. La squadra non navigava in acque tranquille, ma a fine stagione siamo riusciti a salvarci ai play-out”. Questa, però, ad oggi è l’unica esperienza di Bordin allenatore in Italia, perché poi è “costretto” ad emigrare. A chiamarlo, infatti, lo Sheriff Tiraspol: “In pochi conoscono questa società, ma è una delle più importanti dell’Est Europa. È uno dei club più titolati della Moldavia e ha strutture fantastiche, all’avanguardia. Sono andato a visitarle, ho parlato con i dirigenti e ho scoperto una realtà molto professionale. Ricordo che discutevamo amabilmente di calcio, metodo, obiettivi, e in TV trasmettevano una partita dell’Atletico Madrid. I dirigenti sapevano tutto degli spagnoli. Gente preparatissima. Anche in questo caso, l’esperienza è stata davvero formativa. Siamo riusciti a vincere campionato e coppa Nazionale, abbiamo disputato i gironi di Europa League, conquistando nove punti. Purtroppo, non sono bastati per qualificarci, ma abbiamo fatto un ottimo percorso”. Buona a tal punto che il suo nome comincia a circolare tra Balcani e luoghi anche più esotici: “Quando ti apri ad un certo tipo di mercato, le offerte arrivano. Dopo l’esperienza in Moldavia ho ricevuto telefonate da Iran, Paesi dell’Est e Paesi Arabi. Quella del Neftçi Baku mi ha convinto perché si trattava di un club importante, il più titolato dell’Azerbaigian che, però,

Roberto Bordin quando giocava con la casacca dell’Atalanta - Credit Foto Liverani

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negli ultimi tempi faticava a competere contro avversari che stavano crescendo. In particolare, c’era il Qarabag, un club molto ambizioso che poteva contare su budget decisamente più elevati. Eppure, nonostante tutto, siamo riusciti a chiudere al secondo posto dopo tanti anni e a qualificarci ai preliminari di Europa League, dove per altro siamo arrivati al terzo turno. Mi sono trovato molto bene in Azerbaigian”. Il problema, però, è che tutto questo sembra quasi un’onta sul curriculum di un allenatore che cerca solo di fare esperienza: “Forse qualcuno pensa che sia facile allenare in certi campionati, ma non è affatto così. Innanzitutto, ti metti alla prova con realtà che non conosci e, poi, il livello è molto più alto di quanto non si pensi. In certi campionati ci sono club con potenzialità importanti, che possono permettersi giocatori di alto livello e poi sono realtà in grande crescita dal punto di vista organizzativo. Sono felice della mia carriera finora e non rinnego nulla. Ovviamente mi piacerebbe poter avere un’opportunità anche in Italia, ma se dovesse arrivare un’altra offerta dall’estero non la disdegnerei. Anzi”. Siamo certi che il telefono della Sportsgeneration (l’agenzia che cura gli interessi di Mi-

“Roberto incontra Mandorlini sul finire della sua carriera, prima a Vicenza e poi a Spezia. Infine, arrivati i 40 anni, Bordin è costretto ad arrendersi, ma Andrea ha già in testa il suo futuro: “Mi ha chiesto di fargli da assistente e per me è stato un grande onore”

Dieci anni da secondo di Mister Mandorlini per Bordin

ster Bordin) squillerà molto presto, ma intanto Roberto non sta certo con le mani in mano: “Continuo a studiare, mi aggiorno continuamente, mi tengo in contatto con il mio staff. In questa clausura causa Coronavirus ho seguito parecchi corsi e webinar dell’associazione allenatori: ho assistito con grande interesse, ad esempio, a quello di De Zerbi, che per altro ho allenato ai tempi del Cluj. Appena sarà possibile andrò ad approfondire assistendo ai suoi allenamenti. Tra i tecnici emergenti apprezzo molto anche il lavoro che D’Aversa sta facendo a Parma, si vede che è molto preparato. Appena possibile, poi, andrò anche a Zingonia a far visita a Gianpiero Gasperini, la sua Atalanta gioca davvero un grande calcio”. I bene informati, dicono lo stesso dello Sheriff Tiraspol e del Neftçi Baku allenati da un certo Mister Roberto Bordin…

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n o d i b i e d o Alfabet Mitsuo Ogasawara

di Thomas Saccani

MEGLIO LE ISOLE… Le isole Ogasawara, patrimonio dell’UNESCO, sono una meraviglia. Ci sarebbe anche un altro Ogasawara…

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Credit foto: Liverani


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n Giappone ci sono tanti luoghi da visitare, alcuni incredibilmente affascinanti. Tra le mete più favolose, figurano le isole Ogasawara. Parliamo di circa 8000 ettari di incomparabile bellezza bagnate dall’Oceano Pacifico. Un vero e proprio paradiso naturale, composto da circa 30 isole. Patrimonio dell’UNESCO, sono il sogno di qualsiasi amante della natura e degli animali (si possono vedere balene e delfini e, sulla terra ferma, sono tantissime le specie in libertà)… Sono note come le Galapagos dell’Asia per la ricchezza di vita che ancora le animano. Noi, tuttavia, siamo interessati ad un altro Ogasawara che ha poco a che fare con le omonime isole. Mitsuo Ogasawara è nato a Morioka, in Giappone, il 5 aprile del 1979 e, fino al 2018, ha svolto il mestiere di calciatore professionista. Nato con caratteristiche da tre-

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ei bi Alfabeto d Mitsuo Ogasawara

quartista, nel corso della sua carriera, ha arretrato la sua posizione, diventando un classico centrocampista, bravo sia a difendere che a offendere. A soli 19 anni, Ogasawara entra nella squadra dei Kashima Antlers, una delle realtà calcistiche più note in Giappone. Il suo rapporto con i Kashima Antlers durerà ben 20 anni con tantissime soddisfazioni reciproche (si pensi che, tra i tanti soprannomi che l’hanno accompagnato nella sua lunga carriera agli Antlers c’è anche quello di “maestro”). Con la casacca degli Antlers, Ogasawara ha disputato 428 partite, segnando 69 reti complessive. Soprattutto, ha alzato al cielo tanti prestigiosi trofei. Nello specifico, ben sette titoli giapponesi (l’ultimo nel 2016 a 37 anni), quattro edizioni della Coppa Imperatore (il trofeo calcistico più antico in terra nipponica), una J-League Cup (nel 2016, battendo in finale i colombiani dell’Independiente Santa Fe) e pure l’AFC Champions League nel suo ultimo anno da giocatore, ovvero stagione 2018. Come se non bastasse, Ogasawara è stato anche Miglior giocatore della Japan Pro Soccer League nel 2009. A tutto questo va aggiunta una Coppa d’Asia (2004) conquistata nella sua lunga militanza con la nazionale giapponese, ovvero 55 gettoni complessivi con sette reti totali (una, decisiva, a Manama nel successo del Giappone per 1-0 sul Bahren in una gara valida per le qualificazioni ai Mondiali del 2006). Ecco, il buon Ogasawara ha anche giocato non una ma ben due edizioni della fase finale della Coppa del Mondo (2002 e 2006). Insomma, in Giappone, principalmente nel mondo del calcio, Mitsuo Ogasawara è un nome noto e rispettato. Insomma una carriera di successo, merito dello “spirito di Zico”, suo allenatore nei primi anni a Kashima (“Zico è un eroe brasiliano e ci ha insegnato come i professionisti devono prepararsi e giocare e come vince una squadra”, le sue parole a Fifa.com) e di un’altra leggenda brasilia-

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na come Cerezo, tecnico ai Kashima Antlers per quasi sette anni e mezzo (Mi ha detto di usare la mia testa e di giocare in modo più intelligente”, sempre Ogasawara a Fifa.com). Bene, in Italia, per chi ancora lo ricorda, il suo nome non evoca grandi imprese, anzi c’è chi ha volutamente deciso di dimenticarlo. Andiamo con ordine. Siamo nell’estate del 2006. Ogasawara è stato protagonista nel Mondiale in terra teutonica. Tra i giocatori della nazionale giapponese, è uno di quelli che, numeri alla mano, dà più garanzie di rendimento, anche in virtù di un’esperienza importante alle spalle. Ha il passo giusto e sa fare più cose in campo. Il Messina dell’allora presidente Pietro Franza decide di puntare su di lui e portarlo in Italia. In realtà, il nativo di Morioka avrebbe dovuto sbarcare in Se-

Al suo arrivo al Messina, è stato allenato da Bruno Giordano


simo”. L’impegno non è in discussione, le rie A già nel 2005. Il Lecce aveva raggiunto difficoltà, purtroppo, saranno insormoncon i Kashima Antlers una sorta di accortabili. Il suo impiego in campo è ridotto al do sulla base del prestito con diritto di rilumicino. Fa il suo esordio nella massima scatto fissato a quattro milioni di euro. Lo serie italiana il 20 settembre 2006 nel Derstesso Ogasawara si era anche espresso by dello Stretto Messina-Reggina (2-0 il fipubblicamente: “Voglio solo il Lecce”. Un nale, doppietta di Riganò). Entra in campo desiderio rimasto tale, almeno sino all’eal 7’ della ripresa, prendendo il posto di state del 2006 quando, dopo il Mondiale, il Cordova. Sui maggiori giornali sportivi, si centrocampista classe 1979 sbarca a Mesprende la sufficienza. L’inizio di una bella sina. “Ho ingaggiato il più forte calciatore avventura? No, assolutamente. Scende in giapponese che c’è in giro”, tuona il presicampo, in totale, otto volte con la casacca dente del club peloritano. I tifosi non si ladei peloritani (sei volte in Sesciano andare a sfrenati balli rie A e due in Coppa Italia). di gioia, memori della preL’unica soddisfazione vera è cedente avventura dell’altro il suo unico gol nella sfida giapponese sbarcato in SiciMessina-Empoli, valida per lia due anni prima. Il nome? la settima giornata di SeAtsushi Yanagisawa, di ruolo rie A, disputata ad ottobre e attaccante (29 partite con terminata 2-2. Una rete (bel i giallorossi nella stagione sinistro al volo a conferma 2004/05, zero reti). Ogasadelle buone doti tecniche wara, per non commettere del ragazzo), per certi versi, gli stessi errori del connastorica visto che Ogasawazionale (e suo compagno di ra diventa il primo giocatosquadra agli Antlers), raccore giapponese a segnare in glie più informazioni possibiSi ringrazia Panini per la gentile Serie A dai tempi di Nakata li sul calcio italiano proprio concessione delle immagini (suo ultimo gol nell’aprile del parlando con Yanagisawa: 2004). Un barlume di gioia “Gli ho chiesto tanti consigli, in un’avventura nata male e finita peggio. per non ripetere i suoi errori e comunque Ogasawara sognava di lasciare il segno in per non soffrire troppo il trasferimento dal Europa e, in particolare, in Italia. Voleva, Giappone all’Italia”. Il suo arrivo è mediaa tutti i costi, essere rispettato e stimato ticamente frastornante. Lo accompagnano anche in Serie A, magari per approdare in diversi giornalisti e cronisti nipponici. C’è un top club e arrivare, un giorno, a sfidaanche l’immancabile interprete per perre Xavi, asso del Barcellona e suo grande mettere a Ogasawara di comprendere al idolo. Purtroppo, il suo desiderio è rimasto meglio le indicazioni dell’allenatore Bruno tale. Dopo un solo anno, ha capito che era Giordano (l’ex attaccante della Lazio duremeglio tornarsene a casa, ai Kashima Anrà poco sulla panchina giallorossa, nello tlers. Lì ha ritrovato il suo ritmo e le sue specifico fino ai primi di gennaio). L’ex cacertezze. In Italia sono in pochi a ricordarpitano dei Kashima Antlers si sente pronto si del suo passaggio ma tutti sognano, un e mostra anche una certa serenità di spigiorno, di andarci ad Ogasawara, uno dei rito: “Ho fiducia in me. Anche se incontreluoghi più celestiali che si possano visitare rò notevoli difficoltà, non dovrò abbattermi in Giappone… ma semplicemente impegnarmi al mas-

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e r a d r o c i r Gare da Danimarca-Germania di Stefano Borgi

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Ad Euro ‘92 trionfa la Danimarca, gol di Kim Vilfort e John Jansen. Peccato che non tutti possano festeggiare...

LA FAVOLA DI KIM E JOHN... Credit Foto: Liverani


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acciamo subito “outing” ed ammettiamo l’ovvietà nel ricorrere allo stereotipo delle favole. Soprattutto quando di mezzo c’è la Danimarca. Però che ci volete fare, nomi come Olsen (Lars), Jensen (John), Nilsen (Kent), Larsen (Henrik), fanno rima baciata con Andersen... Hans Christian. Se poi, il 26 giugno 1992, al posto di Sivebaek entra Claus Christiansen, a metà tra il personaggio di “Santa Claus” ed il secondo nome del fiabaro scandinavo, allora... Tra l’altro il buon Claus, col numero 17 sulle spalle, si palesa giusto giusto 12 minuti prima del rad-

doppio di Kim Wilfort, per dire che quando le favole prendono vita non c’è niente che possa fermarle. Insomma mutuando l’opera di Andersen, tra “il brutto anatroccolo” e “la piccola fiammiferaia” ritroviamo parecchio della finale di “Euro ‘92” tra Danimarca e Germania, da molti definita (insieme al Leicester di Ranieri) la favola più incredibile della storia del calcio. Anche se stavolta, non tutti vivranno felici e contenti... TRA SPORT E STORIA Il 1992, come tutti gli anni pari, è ricco di avve-

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Danimarca-Germania nimenti sportivi. A cominciare dalle Olimpiadi estive (a Barcellona, con la colonna sonora di Freddy Mercury e Montserrat Caballè) e quelle invernali (ad Albertville dove, nomen omen, trionfa Alberto Tomba). Nel calcio il Milan vince lo scudetto, mentre la Sampdoria perde la finale di Coppa dei Campioni (ancora Barcellona protagonista). Nel ciclismo lo spagnolo Indurain si aggiudica Giro e Tour, e per restare in Spagna (a Benidorm) Gianni Bugno si laurea di nuovo Campione del mondo. Non solo sport però... Il 1992 è anche l’anno delle stragi di Capaci e via D’Amelio, e per restare in tema il 1° marzo 1992 si apre il conflitto armato tra Bosnia ed Erzegovina, conseguenza della sanguinosa guerra nei Balcani. Per una sorta di nemesi, da questi eventi nasce la favola calcistica della Danimarca, che il 31 maggio 1992 viene ripescata dall’UEFA per la partecipazione al Campionato Europeo di calcio per nazioni. Il giorno prima, infatti, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU aveva deciso di vietare la partecipazione

della Jugoslavia, promuovendo di fatto la nazionale di Møller Nielsen. Merita una parentesi, oseremmo dire burlesca, il reclutamento dei vari componenti della rosa. Per cominciare risponde assente il numero uno riconosciuto, Michael Laudrup, contrario alla mentalità sparagnina del CT danese. “La mia nazionale ora è il Barcellona”, ebbe a dire l’ex juventino, e con questo salutò la compagnia. Risponde presente invece il fratellino Brian, il quale coglie l’occasione per porre termine ad un periodo sabbatico dalla nazionale. Che qualcuno gli avesse predetto il finale? E a proposito di Møller Nielsen si racconta che, nel periodo di ferie, avesse deciso di cambiare la cucina. E allora quale migliore occasione di giocarsi un Europeo, magari vincerlo, ed incassare il premio in denaro? Cronaca o fantasia, fatto sta che i 22 danesi richiamati al fronte (sportivo) erano tutti in ferie: chi al mare, chi in montagna. Tutti meno uno, ma il finale delle favole non si anticipa mai...

Parlano i protagonisti di quell’impresa...

Schmeichel: “Entusiasmo e fiducia in noi stessi le armi vincenti...” “Ho appena vinto la Coppa dei Campioni col Barcellona, figurati se interrompo le mie vacanze per giocare con la Danimarca, tanto tra 3 partite saranno già tutti a casa.” Parole di Michael Laudrup, nel 1992 uno dei migliori giocatori del mondo. A proposito... “Michael Laudrup era senz’altro uno dei migliori giocatori del mondo dell’epoca, ma il suo modo di giocare contrastava con quella squadra. Con lui avremmo perso un sacco di palloni e probabilmente non avremmo vinto l’Europeo. Una storia bizzarra, perché puoi avere il miglior giocatore al mondo, ma essere la squadra migliore senza di lui”. Firmato Richard Møller Nielsen, all’indomani del trionfo Europeo. Il senso della favola danese sta tutto in queste due dichiarazioni: quella spocchiosa, irriverente, quasi supponente del blaugrana, la risposta pratica, concreta, volutamente distante del tecnico danese. Møller Nielsen ci ha lasciati il 13 febbraio 2014, e proprio su di lui ebbe parole di elogio il portiere di quella fantastica Danimarca, Peter Schmeichel: “Møller Nielsen è indubbiamente il tecnico più vincente nella storia del calcio danese, ma non è mai stato riconosciuto come un bravo allenatore. È strano, dovremmo vergognarci di questo. Tornando all’Europeo, leggenda vuole che fossimo tutti in spiaggia quando ci hanno detto che eravamo riammessi, ma la leggenda è leggenda. In realtà, quelli che giocavano all’estero avevano appena finito il campionato, ma gli altri giocavano

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I NIPOTINI DI PIONTEK La chiamavano Danske dynamite (dal coro: “We are red, we are white, we are danish dynamite”), risale agli anni ‘80, quando la nazionale della Danimarca muove i primi passi nell’élite del calcio mondiale. Intendiamoci, non che prima quello danese fosse un calcio di Serie B, i nomi di John Hansen, Prest e Sorensen faranno sobbalzare i tifosi di Juventus e Milan. Che dire poi di Allan Simonsen, piccola ma mortifera ala destra del Borussia Monchengladbach? E poi la nidiata di Sepp Piontek, allenatore di origine tedesca, che orchestrò una delle compagini più belle e sciupone della storia del calcio: la Danimarca di Mexico ‘86. Morten Olsen, Lerby, Arnesen, Bergreen, Elkjaer, Michael Laudrup, chi più ne ha, più ne metta. Nel gironcino di Santiago de Querètaro vittorie chiare, nette, con la Scozia di Strachan, l’Uruguay di Francescoli (addirittura per 6-1), la Germania di Voeller e Rummenigge. Poi il suicidio tattico contro la Spagna di Butragueno e la clamorosa eliminazione, ma per tutti quella nazionale fu uno dei pochi raggi di sole (escluso il talento di Maradona) in un mondiale

IL TABELLINO DELLA PARTITA Gøteborg, stadio Ullevi – 26 giugno 1992

DANIMARCA-GERMANIA 2-0 Danimarca (5-3-2) : Schmeichel; Sivebaek (21’st Christiansen), Olsen, Piechnik, K. Nielsen, Christofte; Jensen, Larsen, Vilfort; B. Laudrup, Povlsen. Allenatore: R. Møller Nielsen GERMANIA (5-3-2): Illgner; Buchwald, Kohler, Helmer, Reuter, Brehme; Sammer (11’st Doll), Haessler, Effenberg (35’st Thom); Klinsmann, Riedle. Allenatore: Berti Vogts ARBITRO: Galler (Svizzera) AMMONITI: Piechnik (D), Effenberg, Haessler, Reuter, Doll, Klinsmann (G)

grigio e deludente. Dopo sei anni di latitanza, si arriva alle qualificazioni per Svezia ‘92. Danish dynamite, come al solito bella e spuntata, si piazza seconda alle spalle della Jugoslavia, ma come abbiamo visto, il destino è lì che bussa dietro l’angolo. E si sa... la vita è fatta di occasioni. Basta saperle cogliere, e non farsi trovare impreparati.

ancora. Dovevamo solo lavorare sull’aspetto mentale per farci trovare pronti in vista dell’inizio di una competizione così importante”. Nella fase a gironi i timori della vigilia sembravano confermati... “Dopo il pareggio per 0-0 con l’Inghilterra, nello spogliatoio si respirava un’aria da funerale perché meritavamo di vincere – ammette l’ex-Manchester United. Da quel momento, però, abbiamo capito di essere all’altezza delle altre squadre e che ce la potevamo giocare con tutti. Contro la Svezia nella partita successiva abbiamo perso 1-0, ma anche lì abbiamo costruito molto e avremmo meritato la vittoria. Non abbiamo mai smesso di crederci e, battendo la Francia, ci siamo qualificati”. Infine la cavalcata finale, con vittime illustri... “La semifinale con l’Olanda non è stata una casualità, semplicemente non abbiamo accettato di essere definiti una nazione minore. Avevamo esattamente le stesse possibilità di tutti gli altri, dovevamo solo crederci. Quindi è stata più una questione di mentalità, e penso sia stato proprio questo il segreto della vittoria dell’Europeo. Sulla vittoria in finale con la Germania dico (quella sì) che è stata magica e inaspettata. Eravamo sfavoriti, ovviamente, ma anche lì... ci abbiamo creduto. Il resto lo ha fatto l’entusiasmo e la fiducia in noi stessi”.

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Danimarca-Germania E L’ITALIA? Gli azzurri, tanto per cambiare, non gradiscono (diciamo così) la competizione europea. E se la guarderanno da casa. Del resto, basta sbirciare il palmares: a fronte di 4 titoli mondiali, troviamo una sola vittoria continentale su 15 edizioni, soprattutto cinque eliminazioni già nelle qualifiche. Non fa eccezione Euro ‘92: Italia inserita nel 3° gruppo con Cipro, URSS, Ungheria e Norvegia (passa solo la prima), con l’Unione Sovietica (poi dissolta in favore della CSI) che si qualifica grazie ai migliori risultati contro i norvegesi. Nella nebbia dello stadio Lenin di Mosca, per gli azzurri anche un po’ di sfortuna: palo clamoroso di Rizzitelli a poco dalla fine, che poteva rovesciare le sorti. A pagare per tutti (more solito) fu l’allenatore Azeglio Vicini, al suo posto Arrigo Sacchi il quale, per una sorta di contrappasso dantesco, sarà esonerato 5 anni dopo, anch’esso all’indomani dell’eliminazione di un europeo. Peccato perché la kermesse svedese (caratterizzata dallo slogan “small and beautiful”) fu l’ultima disputata ad 8 squadre: Svezia, Francia, Inghilterra, Olanda, Germania,

94 Göteborg, pochi istanti prima della finale di Euro 1992 - Credit Foto Liverani

Scozia, CSI e Danimarca. Nello specifico con grandi protagonisti: Desailly, Cantona, Papin (più “le roi” Michel Platini in panchina) per la Francia, Lineker, Platt e Shearer per gli inglesi. il trio Gullit-Rijkaard-Van Basten per l’Olanda, la colonia degli “italiani” per la Germania (Kholer, Sammer, Moller, Reuter, Doll, Hassler, Riedle, Klinsmann, Brehme), insomma... fu un danno mortale non esserci. Anche perchè due anni prima ad Italia ‘90, nonostante il modesto bronzo finale, l’Italia aveva dimostrato di essere la squadra più forte e spettacolare. Ancora due pillole di storia: al posto nostro giocò la compagine della CSI, che dall’8 dicembre 1991 aveva preso il posto dell’URSS. La CSI (acronimo di Comunità degli Stati Indipendenti) riuniva, infatti, 9 delle 15 repubbliche che formavano la vecchia Unione Sovietica. Seconda pillola, la più importante: fu la prima volta che in una competizione ufficiale scese in campo la Germania riunita. Il blocco principale restò quello dell’ex Germania Ovest, con gli inserimenti dei già citati Matthias Summer, Thomas Doll e l’ex Dinamo Dresda Ulf Kirsten.


Si ringrazia Panini per la gentile concessione delle immagini

ANDAMENTO LENTO Euro ‘92 si disputa in 4 città: Gøteborg, Stoccolma, Norrkoping e Malmø. Proprio al Malmø Stadion, l’11 giugno 1992, la Danimarca esordisce contro l’Inghilterra. Dentro Christiansen (quello dal nome Claus) fuori Laudrup, per il resto va in campo la squadra che giocherà la finale. Inglesi, invece, che devono rinunciare a John Burns e Gary Stevens infortunati alla vigilia. Partita equilibrata, Schmeichel salva provvidenziale su Smith e Daley, ma è la Danish Dynamite ad andare più vicina alla vittoria: traversa di un altro John (il primo protagonista della nostra favola) Jensen, che si ripeterà (con gol) nell’ultimo atto contro i tedeschi. Pari anche nell’altra partita del girone tra Svezia e Francia, cosicché l’equilibrio regna sovrano e tutto è rimandato al secondo turno: Francia-Inghilterra a Malmø, SveziaDanimarca a Stoccolma. Ancora un pareggio per 0-0 tra francesi ed inglesi, mentre si conferma l’andamento lento dei danesi (anzi, un brusco stop) contro i padroni di casa: decide un gol di Thomas Brolin al 58’. Nel finale il capitano Olsen sventa sulla linea una conclusione dello stesso Brolin, insomma... la Danimarca fa un passo indietro e sembra pagare la precaria condizione fisica. L’ultimo turno vede di fronte Svezia-Inghilterra e DanimarcaFrancia. Situazione pressoché disperata per gli uomini di Møller Nielsen: per qualificarsi devono battere a tutti i costi la favorita Francia e sperare contemporaneamente in una sconfitta dell’Inghilterra. Manco a farlo apposta: gli inglesi perdono per 2-1 con la Svezia (gol decisivo ancora di Brolin al 78’), mentre la Danimarca batte la Francia grazie alle prodezze di Larsen all’8’ ed Elstrup (guarda caso) al 78’. Come parafraserebbe qualcuno, “clamoroso a Malmø”: a 12 minuti dalla fine la Danimarca era fuori da tutto, addirittura ultima nel proprio girone, e invece... In mezzo a tante notizie, belle e brutte allo stesso tempo, ce n’è una

bruttissima: Line, la figlia di Kim Wilfort, è affetta da leucemia ed è in pericolo di vita. Il padre, complice la poca distanza, fa il pendolare tra Svezia e Danimarca e non fa parte dell’undici che ha battuto la Francia. Al suo posto Torben Frank. Line sta male già da parecchio tempo, ma nessuno lo sapeva. Il padre Kim lo aveva tenuto nascosto, ed i media lo scoprono la sera del 17 giugno 1992, leggendo la distinta della partita. Kim non c’è, Kim è a Copenaghen dalla piccola Line. E COSì IL BRUTTO ANATROCCOLO... Si trasforma in un principe azzurro. O meglio nella “Sirenetta”, altra celebre fiaba di Andersen. Quella che sembrava una squadra di improvvisati dopolavoristi, si trasforma in uno schiacciasassi, in un plotone d’esecuzione (non a caso, Danske dynamite) capace di far fuoco all’improvviso. Intanto Wilfort è tornato ed è pronto per riprendere il posto da titolare. E poi i nipotini di Piontek sono cresciuti: prendete Brian Laudrup, timido fratello d’arte, ora piroetta imprendibile tra gli avversari. Enrik Larsen, già del Pisa di Anconetani, in panchina con Svezia ed Inghilterra, diventa leader e con una doppietta decide la semifinale con l’Olanda. Dall’altra parte l’Olanda campione, con il trio milanista in testa, ma anche Ronald “Rambo” Koeman, Dennis Bergkamp e Frank De Boer. Alzi la mano, chi avrebbe scommesso su una vittoria della Danimarca? E chi non avrebbe scommesso su una finale già scritta: Germania-Olanda, rivincita di mille battaglie a cominciare della finale mondiale del 1974? Niente da fare, i tempi regolamentari finiscono 2-2, con i danesi raggiunti nel finale da un gol di Rijkaard. Pari e patta anche nei supplementari, si va ai rigori dove (tanto per non farsi mancare niente) sbaglia proprio il miglior giocatore in campo: quel Marco Van Basten, altrimenti detto il “cigno di Utrecht”, già Pallone d’Oro nell’88, ‘89, e (nonostante l’errore) anche

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iaania erm -Gan carm Itaniliam-arGe Da nel ‘92. Sbaglia solo lui, perché gli altri hanno fatto i compiti a casa e rispondono a tono. Al Rasunda di Stoccolma, intanto, le cose scorrono più regolari: vince la Germania, dopo essere stata in vantaggio 2-0 e 3-1. Finirà 3-2 per i tedeschi riuniti, con tutti gol nostrani: Brolin ed Andersson (lo stangone del Bologna) per i gialli di Svezia, Hassler e doppietta di Riedle per i bianchi di Germania. In un certo senso, all’Europeo c’è anche un po’ di Italia... FAVOLA CON LIETO FINE... ANZI NO Come spesso capita, i fuochi d’artificio si esauriscono con i turni eliminatori. Anzi, ringraziamo due semifinali pirotecniche che non hanno lasciato niente alla noia. La finale, disputata allo stadio “Ullevi” di Gøteborg davanti a 37.800 spettatori (pochi in teoria, ma lo abbiamo detto... è un europeo small), non avrà praticamente storia. È il 26 giugno 1992, e quell’aria di magia sembra aver colpito tutti. Se

Peter Schmeichel, stella di quella Danimarca, al giorno d’oggi

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Pesante sconfitta per Berti Vogts, tecnico della Germania

alla vigilia era certo che la Danimarca sarebbe uscita ai preliminari, ora (al contrario) sono tutti strasicuri che stia per succedere qualcosa di meraviglioso. Ed infatti basta aspettare 18 minuti che i danesi sono già in vantaggio: Kholer e Brehme perdono banalmente palla al limite dell’area, s’invola Povlsen che appoggia dietro per l’accorrente John Jensen, missile terra-aria alle spalle di Bodo Illgner... gol imparabile. 1-0 e l’antifona sembra chiara già dal preludio. I restanti 60 minuti sono schermaglie secondo copione. La Germania attacca, la Danimarca si difende, Schmeichel smanaccia un destro di Summer, “miracoleggia” su una testata di Klinsmann, Wilfort in contropiede si mangia il 2-0. Poi si rifà, al 78’: prende palla sulla tre quarti, “scherza” Brehme e Thomas Helmer, e di sinistro accarezza il palo interno di Illgner. 2-0, e tutti a casa. Anzi, tutti a ritirare la coppa dalle mani del presidente UEFA Lennart Johansonn (svedese, guarda un po’...) ed a festeggiare. Tutti meno uno: Kim Wilfort, che prende la prima macchina e si fionda a Copenaghen. Dopo aver vinto l’Europeo, deve vincere un’altra partita. Ahimè, stavolta il suo sinistro così preciso sul rettangolo verde, manca la porta in una corsia d’ospedale. La figlia Line non ce la farà, a conferma che le favole non sempre hanno un lieto fine.


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