Calcio 2000 n.244

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diretto da Fabrizio Ponciroli

Bimestrale

Calcio

gen

244 feb

BE €8,00 | F €11,50 | PTE CONT €7,50 | E €7,50 | CHCT fch 8,50

prima immissione 01/01/2020

3,90€

intervista esclusiva ESCLUSIVA

LUCA PELLEGRINI

“A Cagliari per completare la missione” giganti del calcio ESCLUSIVA

INTERVISTA ESCLUSIVA

PATRICK VIEIRA

Gli amici Riccardo Ferri e Andrea Mandorlini gare da non dimenticare ESCLUSIVA

“VORREI ALLENARE

IN ITALIA”

Verona-Atalanta, la partita Scudetto del 1985

ALFABETO DEI BIDONI Digao, il fratello di Kakà

Edizione speciale con L’album Calciatori 2019/20

LEGGENDE DEL CALCIO Il monumento Rinat Dasaev

EROI PER UN GIORNO

Jocelyn Angloma e il Derby della Mole

Grandi ARBITRi

A scuola con Pierluigi Collina


LONG LIVE THE BAT

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FP

SAPORE DI CALCIO VINTAGE

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è una convinzione diffusa secondo la quale, con il trascorrere degli anni, si apprezza sempre di più gli anni passati. Sarà l’effetto nostalgia o un pizzico di magia nel saper ridisegnare ciò che è stato, resta il fatto che il “calio vintage” acquisisce sempre più fascino… Chi ha una certa età, vorrebbe tornare ai favolosi anni ’80, quando il calcio italiano era, parole di Andrea Mandorlini, “… più semplice, vero e puro”. Chiaramente è una sensazione ma, onestamente, quei personaggi mancano tremendamente… In questo numero, il primo del 2020, vi consiglio, caramente, di gustarvi la doppia intervista realizzata con Ricky e Andrea, ossia Riccardo Ferri e Andrea Mandorlini. Un tuffo nel calcio anni Ottanta, zuppo di aneddoti e campioni. Mi hanno inondato di ricordi, curiosità e una sana nostalgia per un calcio che ha poco a che fare con quello di oggi, sempre più globale e social. Nostalgia canaglia che ho provato, sulla mia pelle, anche al Golden Foot. Quando ti soffermi a disquisire di pallone con gente del calibro di Falcao e Altafini, la lacrimuccia è sacrosanta. Ovviamente non si può vivere solo di ricordi

ma non si può neppure far finta che nulla ci sia stato prima del calcio moderno… Vi invito a leggere l’incredibile storia di Rinat Dasaev. Un mito assoluto, uno che ha scritto pagine indelebili nella storia dell’ex URSS e che, non fosse per i nostalgici, sarebbe stato dimenticato. Il calcio dei Millenial è il risultato di un’evoluzione del gioco che non conosce pause. Prendo, in prestito, le parole del “jolly” della Juventus Cuccureddu: “Ai miei tempi si viveva di sogni, oggi è tutto diverso. Eppure, il pallone è sempre rotondo e rotola come rotolava ai miei tempi”. Lo sa bene Luca Pellegrini, giovane stella, di proprietà della Juventus, in prestito al Cagliari. Un ragazzo con valori forti e con l’umiltà che serve in questo mondo in cui basta un gol per diventare delle star mediatiche. È un numero ricco quello che avete scelto di acquistare (sempre grazie per la fiducia, non la darò mai per scontata). C’è materiale inedito che, anche a spulciare bene, non si trova su internet. Ci tengo ad un prodotto che abbia un senso anche nell’era dei social e del “cerchiamo tutto su google”!!! Buona lettura a tutti e, soprattutto, che sia un 2020 pieno di soddisfazioni. Ne abbiamo bisogno tutti quanti…

editoriale

Ponciroli Fabrizio

Quando mi guardo indietro, solitamente sono più dispiaciuto per le cose che non ho fatto che per quelle che non avrei dovuto fare.

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SOMMARIO

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Calcio2OOO

Anno 23 n. 1 gennaio/febbraio 2020 ISSN 1126-1056

BOCCA DEL LEONE 6 LA di Fabrizio Ponciroli VIEIRA 8 PATRICK INTERVISTA ESCLUSIVA di Fabrizio Ponciroli

DORTMUND 48 BORUSSIA MAGLIE STORICHE di Gianfranco Giordano

ALL’ESTERO 56 ITALIANI SPECIALE di Segio Stanco

E MANDORLINI 64 FERRI GIGANTI DEL CALCIO di Fabrizio Ponciroli

di Fabrizio Ponciroli

di Fabrizio Ponciroli

PESAOLA 24 BRUNO GRANDI ALLENATORI di Stefano Borgi

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ANGLOMA 72 JOCELYN EROI PER UN GIORNO di Patrick Iannarelli

MARCHETTI 76 ALBERTO DOVE SONO FINITI? di Fabrizio Ponciroli

PIERLUIGI COLLINA GRANDI ARBITRI di Luca Gandini

nel sociale 80 Arsenal SPECIALE di Stefano D’Errico

86 DIGAO L’ALFABETO DEI BIDONI di Thomas Saccani

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ATALANTA-VERONA GARE DA RICORDARE di Alessandro Guerrieri

di Ivan Costa

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di Gianfranco Giordano

DIRETTORE RESPONSABILE Michele Criscitiello Diretto da Fabrizio Ponciroli

Hanno collaborato Sergio Stanco, Alessandro Guerrieri,Luca Gandini, Gianfranco Giordano, Stefano D’Errico, Patrick Iannarelli, Thomas Saccani, Alessandro Guerrieri, Stefano Borgi, Ivan Costa, Carletto Nicoletti Realizzazione Grafica Francesca Crespi Fotografie Image Photo Agency, Agenzia Aldo Liverani, Federico De Luca, Mascolo/Photoview. Statistiche Redazione Calcio2000 Contatti per la pubblicità e-mail: media@calcio2000.it Stampa Tiber S.p.A. Via della Volta, 179 25124 Brescia (Italy) Tel. 030 3543439 - Fax. 030349805 Distribuzione Mepe S.p.A. Via Ettore Bugatti, 15 20142 Milano Tel +39 0289592.1 Fax +39 0289500688

36 MILLENNIAL FOCUS ON RINAT DASAEV LEGGENDE DEL CALCIO

EDITORE TC&C srl Strada Setteponti Levante 114 52028 Terranuova Bracciolini (AR) Tel +39 055 9172741 Fax +39 055 9170872

Redazione Marco Conterio, Luca Bargellini, Gaetano Mocciaro, Chiara Biondini, Simone Bernabei, Lorenzo Marucci, Pietro Lazzerini, Tommaso Maschio, Lorenzo Di Benedetto.

16 CAGLIARI SPECIALE

PELLEGRINI 18 LUCA INTERVISTA ESCLUSIVA

Registrazione al Tribunale di Milano n.362 del 21/06/1997 Prima immissione: 01/01/2020 Iscritto al Registro degli Operatori di Comunicazione al n. 18246

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DA 98 SCOVATE CARLETTO

Il prossimo numero sarà in edicola il 10 marzo 2020 Numero chiuso il 27 dicembre 2019



bocca del leone

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CR7 È FINITO? Direttore Ponciroli, la leggo sempre con attenzione e mi piace perché sempre diretto e non si nasconde mai dietro ad un dito. Le faccio una domanda: Cristiano Ronaldo è finito? A me sembra che non sia più lui e credo che potrebbe diventare un problema per la nostra Juventus. La prego, mi risponda. Danilo, mail firmata

MA DOVE LI TROVA? Caro Ponciroli, lei mi sorprende sempre. Ho letto l’intervista ad Alejnikov, non sapevo neanche che fosse in Italia. Ho 44 anni e mi ricordo quando è arrivato alla Juventus. Sembrava scarsissimo e vecchissimo, invece ha fatto bene e mi è dispiaciuto che ha fatto un solo anno. Ma dove li scova questi nomi così dimenticati nel tempo? Spero ne troverà altri perché sono belle queste storie per chi ama il calcio del passato. Carmelo, mail firmata Caro Carmelo, Alejnikov l’ho inseguito a lungo. L’ho pressato a tal punto che, alla fine, mi ha concesso di intervistarlo a Novara. è stata una rincorsa lunga ma ne è valsa la pena. Concordo con lei, onestamente avrebbe potuto fare molto di più, soprattutto alla Juventus. L’ar-

Caro Danilo, grazie per i complimenti!!! CR7 non è finito! Credo che sia normale che, ad un certo punto della carriera, un fuoriclasse possa e debba cambiare il proprio modo di giocare. Io mi aspetto che Cristiano Ronaldo evolva. Che abbandoni l’amata fascia e che ci sposti più al centro... Faccio un esempio: Michael Jordan, quando ha perso un po’ della sua esplosività fisica, ha comunque dominato l’NBA diventando più tiratore…

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rivo di Maifredi gli ha impedito di proseguire in bianconero ma si è divertito comunque. Ama l’Italia ed è un tipo davvero molto spiritoso. Ha dovuto sacrificarsi tanto per coronare il sogno di giocare a calcio. Tranquillo, ce ne saranno altre di sorprese!!! QUANTO VALE LAUTARO? Direttore, sono un tifoso nerazzurro e mi chiedo come sia possibile che Spalletti non abbia capito di avere un campione come Lautaro Martinez in rosa. Per me è assurdo. Poteva già essere titolare fisso lo scorso anno e invece ci siamo complicati tutto. Per me è fortissimo ed è già un top player. Per fortuna è arrivato Conte, uno che di calcio ci capisce. Ma quanto vale ora uno come Lautaro? Non ce lo portano via, vero?

Graziano, mail firmata


di Fabrizio Ponciroli

» consigli per la lettura

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LA GRANDE STORIA DEL CALCIO ITALIANO STAGIONE 1990/91 Anno Pubblicazione 2019 - Pagine 360 Nell’opera troverete la storia della stagione 1990/91, vinta dalla Sampdoria, con i tabellini di tutte le partite di Serie A e B, le tabelle riepilogative di tutte le protagoniste, i tabellini delle Coppe Europee e della Coppa Italia. In più le carriere di tutti i protagonisti di A e cadetteria che hanno messo piede in campo anche per un solo minuto. Ad arricchire il volume le foto di tutte le squadre e di tanti protagonisti, rigorosamente a colori. Prefazione di Stefano Olivari. Il volume, scritto da Alessandro Guerrieri, giornalista de il “Tirreno” e conduttore Tv presso l’emittente regionale “Telecentro” di Livorno, è disponibile anche su Amazon, digitando La Grande Storia del Calcio Italiano – Stagione 1990/91 nella barra delle ricerche.

BASKETBALL JOURNEY Anno di pubblicazione 2019 – Pagine 352 Basketball Journey è un tributo al Doc, James Naismith. Tutti coloro che sono stati travolti dalla sua invenzione dovrebbero almeno una volta nella vita andare a trovarlo, laggiù nel Kansas. Un gesto di riconoscenza dovuto per un beneficio ricevuto. Un dono inestimabile: la Pallacanestro. Mamoli e Pettenesi sono lanciati insieme in un lungo viaggio on the road costellato di luoghi leggendari e protagonisti unici, con un semplice filo conduttore. L’amore per il basket, uno degli sport più spettacolari e seguiti al mondo, nato in una grande nazione che a fine Ottocento stava ancora cercando di costruirsi un’identità, una Storia collettiva, degli eroi in cui credere.

Graziano, stai sereno: Lautaro Martinez è il presente e il futuro dell’Inter. Credo che la maturazione del Toro sia stata costante. Lo scorso anno ha iniziato a mostrare il suo talento e, in questa stagione, sta solo confermando di essere degno di una maglia da titolare. Credo che ne sentiremo parlare a lungo. Per fortuna è stato scovato quando non era ancora notissimo al grande pubblico. Bel colpo!! GARE DA NON DIMENTICARE Direttore,

mi piace sempre di più Calcio2000 anche se è sempre più difficile trovarlo in edicola. Mi piacciono le gare da non dimenticare. Quando parlerete dell’Hellas? A Verona nessuno si è scordato l’anno dello Scudetto. Non ci sono solo Inter, Juventus e Milan. Complimenti per la rivista. Mauro, mail firmata Beh, sembra fatto apposta!!! In questo numero parliamo di Hellas Verona-Atalanta, la par-

tita che ha consegnato lo Scudetto alla meravigliosa squadra allenata da Bagnoli. Come vedi, caro Mauro, siamo sul pezzo… DOMANDA SECCA Redazione, ho un messaggio per il Direttore Ponciroli. Chi vince la Champions League quest’anno? Sto raccogliendo pareri autorevoli per il mio blog. Luigi, mail firmata Il cuore mi dice Juventus, la testa mi fa pensare al Liverpool…

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I S U L C S E A T INTERVIS Patrick Vieira di Fabrizio Ponciroli

Un Campione del Mondo che ha dominato il centrocampo per tanti, tantissimi anni…

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el 2004, la FIFA e un certo Pelé l’hanno inserito nei FIFA 100, un’esclusiva e ristretta lista di campioni. Basterebbe il suo palmarès per capire che stiamo parlando di un giocatore che ha lasciato un segno indelebile nel gioco del calcio. Oggi si diverte ad allenare e pare sia portato anche nei panni del complicato ruolo di “insegnante”. Stiamo parlando di Patrick Vieira, Campione del Mondo e Campione d’Europa con la Francia e sontuoso centrocampista ammirato, in Italia, con le casacche di Milan, Juventus e Inter. Lo abbiamo incontrato al Golden Foot, dove ha lasciato la sua impronta, nel senso letterale del termine, insieme ad altre Legends del calibro di Falcao, Altafini e, a rappresentare il gentil sesso, la nostra Morace. Partiamo da questo ennesimo riconoscimento. Ora sei nelle Legends del prestigioso Golden Foot… “È un onore essere qui ed essere una delle Legends del Golden Foot. Quando ero un bambino, in Senegal, il mio sogno era giocare a calcio e ci sono riuscito. Essere qui, al fianco di grandi giocatori, è fantastico”. Sei molto legato all’Italia. Da giovanissimo, a 19 anni, sei arrivato al Milan… “L’Italia è un posto speciale per me, mi ha insegnato tanto. Quando avevo 19 anni, sono arrivato a Milano, nelle fila di una società importante come il Milan. Ho imparato tan-

to. Ho capito come bisognava comportarsi per diventare un giocatore professionista. L’educazione che ho ricevuto al Milan mi ha aiutato molto nella mia carriera”. Prima il Milan, poi la Juventus… “Era uno dei top club in quel periodo. Quando sono arrivato alla Juventus, dopo tanti anni all’Arsenal, ho trovato tanti giocatori francesi che giocavano in bianconero. C’era Trezeguet, Thuram e ci aveva giocato Zidane… È stata una grande avventura, un onore giocare con campioni come Camoranesi, Nedved e tanti altri”. Hai citato Zidane, tuo compagno in nazionale… “Il più forte giocatore con cui abbia mai giocato, non c’è discussione. In generale, giocare con la maglia della Francia è stato il massimo per me. La nostra, è stata una

Il Direttore Ponciroli mentre intervista Vieira al Golden Foot

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esclusiva

Patrick Vieira Vieira insieme a Zidane, simboli di una Francia vincente Credit Foto: Liverani

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una carriera spAventosa Nato a Dakar, in Senegal, Patrick Vieira si trasferisce in Francia quando è un bambino. Ha solo otto anni ma ha già le idee chiare. Vuole diventare un calciatore professionista, ha troppa passione per il calcio: “Ho sempre amato il pallone, ho sempre e Stagione Squadra Totale solo voluto fare il calciatore professionista” - ci con Pres Reti fida. Inizia nelle giovanili del Trappes ma la svolta 1993-1994 Cannes 6 0 arriva a 17 anni. Grazie ad un fisico importante e 1994-1995 Cannes 38 4 a qualità tecniche non indifferenti, si prende una maglia da titolare del Cannes (diventa anche capilug.-nov. 1995 Cannes 17 0 nov. 1995-1996 Milan 5 0 tano della squadra, nonostante sia giovanissimo). 1996-1997 Arsenal 38 2 Nel dicembre del 1995, per una cifra importante, 1997-1998 Arsenal 46 2 pari a sette miliardi di lire, viene acquistato dal Mi1998-1999 Arsenal 43 4 lan. Con i rossoneri, vince lo Scudetto, anche se da 1999-2000 Arsenal 47 2 comprimario (due presenze in stagione). Tuttavia, 2000-2001 Arsenal 48 7 nell’anno con Capello da allenatore, impara tanto, 2001-2002 Arsenal 54 3 tantissimo. Wenger, allenatore dell’Arsenal, riesce 2002-2003 Arsenal 42 4 a strapparlo al Milan. Il feeling con i Gunners è fan2003-2004 Arsenal 44 3 tastico. Insieme a Petit, diventa una delle colonne 2004-2005 Arsenal 44 7 del centrocampo dell’Arsenal e fa incetta di titoli. 2005-2006 Juventus 42 5 Tra i tanti momenti da incorniciare con la casacca 2006-2007 Inter 28 4 dei biancorossi, c’è il rigore, decisivo, segnato nella finale di FA Cup contro i rivali storici del Manchester 2007-2008 Inter 23 3 2008-2009 Inter 24 1 United. Dopo nove stagioni con i Gunners, nell’esta2009-gen. 2010 Inter 16 1 te del 2005, fa ritorno in Italia. Questa volta si trasfegen.-giu. 2010 Manchester City 14 1 risce a Torino, sponda bianconera. A volerlo, a tutti i 2010-2011 Manchester City 32 5 costi, è proprio Capello, suo allenatore al Milan. La Juventus domina e Vieira è il frangiflutti del centrocampo bianconero. Si esalta, collezionando cinque reti in 42 gare. Vince lo Scudetto (poi revocato) ma, al termine della stagione, con la Juventus “cacciata” in cadetteria, fa le valigie e si trasferisce all’Inter. Si presenta ai tifosi nerazzurri al meglio: due gol nella finale di Supercoppa Italiana vinta ai danni della Roma. Qualche infortunio di troppo, ne condiziona il rendimento anche se, quando è in campo, la sua presenza si fa sentire. Si porta a casa altri tre Scudetti e due Supercoppe Italiane, collezionando, in tre stagioni e mezza, 91 presenze totali (con nove reti). Durante la finestra invernale del 2010, a quasi 34 anni, torna in Premier League. Viene ingaggiato dal Manchester City, squadra con cui vince la sua quinta FA Cup. Il 14 luglio 2011 annuncia il suo ritiro dal calcio giocato…

Carriera da giocatore di Vieira

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Patrick Vieira

esclusiva Si ringrazia Panini per la gentile concessione delle immagini

generazione di grandi talenti e i risultati sono sotto gli occhi di tutti”. Tornando al tuo periodo bianconero, parlaci di Capello, tuo allenatore alla Juventus e pure al Milan… “Il meglio che mi potesse capitare. Un grandissimo allenatore. Quando sono arrivato al Milan, lui mi ha aiutato tantissimo. Mi ha cresciuto, mi ha dato consigli che poi mi sono tornati molto utili durante la mia carriera. Gli devo molto”. Nel 2006 passi all’Inter dove resti per quasi quattro stagioni e vinci anche lì… “Sono arrivato nel posto giusto al momento giusto. Il nostro leader era Ibrahimovic. Era una squadra molto competitiva, con grande individualità. Sono stati anni molto belli”. Hai detto che Zidane è il più forte con cui hai giocato, invece chi è stato l’avversario più difficile da affrontare? “Ne ho avuti tanti di avversari forti. Se devo sceglierne un paio, ti dico Edgar Davids e Roy Keane. Il primo era davvero durissimo da affrontare, il secondo, quando giocava al Manchester United, era un osso duro per tutti”. A distanza di tanti anni, segui ancora il calcio italiano? “Sì, mi piace ancora tanto seguire le partite del calcio italiano. Ho ancora tanti amici in Italia e, inoltre, penso che la Serie A sia uno dei campionati più competitivi e forti al mondo”.

Oggi sei un allenatore, anche molto stimato. Ti piacerebbe, un giorno, allenare in Italia? “Perché no? Mi piace molto il calcio italiano e adoro la cultura italiana. Nel calcio non si sa mai… Sarebbe bello per me, che ho giocato con Milan, Juventus e Inter, allenare, un giorno, una di queste squadre. Un ex giocatore ha sempre il sogno di tornare ad allenare dove ha giocato”. Al Nizza hai avuto un certo Balotelli… “Mi è spiaciuto non riuscire a tirar fuori il meglio da lui. È un grande talento ma deve imparare a mettersi al servizio degli altri, a capire il concetto di squadra. Ha ancora tempo per maturare e imparare come comportarsi da leader”. Perché, secondo te, la Juventus continua a dominare in Italia? “Penso che la Juventus abbia la società più organizzata in Italia. Quindi non sono sorpreso che siano sempre al top. La sua forza sono i dirigenti. Hanno un modo di lavorare grandioso che permette ai giocatori di pensare solo a giocare e a nient’altro. Questa è la forza della Juventus”. Il sogno della Juventus è vincere la Champions League… Può essere l’anno buono? “Non si sa mai, ci sono avversarie fortissime. La Champions League si gioca sui dettagli. Sicuramente la Juventus ha la qualità collettiva e individuale per arrivare fino in fondo”. Il tempo a nostra disposizione si conclude.

“È un onore essere qui ed essere una delle Legends del Golden Foot. Quando ero un bambino, in Senegal, il mio sogno era giocare a calcio e ci sono riuscito”

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VIEIRA, l’allenatore Appese le scarpette al chiodo, Vieira ha deciso di iniziare una nuova carriera, quella da allenatore: “La mia passione per il calcio è intatta, quindi è stato naturale dedicarmi al ruolo di allenatore” spiega. Il suo primo ruolo è quello di allenatore delle giovanili del Manchester City, l’ultima squadra in cui ha militato da giocatore. Nel corso degli anni, svolge il ruolo di allenatore delle riserve dei Citizens e pure quello di tecnico dell’Under 19 del club inglese. La sua prima, vera, chance arriva dall’MLS. A partire dal gennaio del 2016, diventa il capo allenatore della franchigia New York City FC: “Questo è un club nuovo ma credo ci siano le possibilità di vincere qualcosa e scrivere il nostro nome sui libri di storia di questo sport. Sono convinto che siamo preparati e pronti... e vogliamo riuscirvi” - dichiara nel giorno della sua presentazione alla stampa come nuovo allenatore del club newyorkese. I risultati sono tutt’altro che negativi. Resta sulla panchina del New York City FC fino al giugno del 2018, conquistando, per due volte, l’acceso alla post season. Tra i tanti campioni in rosa, spiccano i nomi di fuoriclasse del calibro di Pirlo, Villa e Lampard. Decide poi di tornare in Francia, per allenare il Nizza. Un ritorno in patria a distanza di 23 anni dalla sua esperienza al Cannes. Il sogno? Fare sempre meglio e mettersi in gioco su panchine ancor più prestigiose, magari in Italia. La mentalità? Racchiusa in questa frase: “Bisogna sempre essere propositivi e cercare di anticipare quello che accade sul campo. Così si riesce ad imporsi”. Firmato Patrick Vieira.

L’ultima esperienza da calciatore è ancora in Inghilterra, al Manchester City...

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esclusiva

Patrick Vieira Patrick Vieira deve lasciare le sue impronte ed entrare nel gotha del calcio. Il sorriso è smagliante, ha bella presenza e un carisma naturale. Non è cambiato dai tempi in cui, il mezzo al campo, faceva la differenza, dominando con la sua fisicità e la sua ineguagliabile qualità. Sarebbe davvero intrigante vederlo allenare in Serie A.

“Giocare con la maglia della Francia è stato il massimo per me. La nostra, è stata una generazione di grandi talenti ” L’AMORE PER I GALLETTI Il lungo, ed appassionato, rapporto tra Vieira e la nazionale francese inizia il 26 febbraio 1997. A soli 20 anni, il forte centrocampista francese, allora all’Arsenal, fa il suo debutto con i Galletti nell’amichevole tra Francia e Olanda (vinta dai francesi per 2-1). Sarà la prima di ben 107 presenze con la Francia (infarcite anche da sei reti). Il top lo raggiunge nel 1998 quando vince, in patria, la Coppa del Mondo. Gioca nella fase a gironi contro la Danimarca e scende in campo anche nella finalissima contro il Brasile, fornendo l’assist per il definitivo 3-0 transalpino all’amico Petit. Due anni più tardi, dà un grande dispiacere alla Nazionale, aggiudicandosi anche Euro 2020. Questa volta è uno dei perni della Francia Campione d’Europa. Partecipa ad altre due edizioni dei Mondiali (2002 e 2006), confermandosi, ad alti livelli, per ben 12 anni. La sua ultima apparizione con la casacca dei Galletti risale al 2 giugno 2009: Francia-Nigeria 0-1. Tra i momenti topici, la rete siglata nella finale di Confederation Cup del 2001 vinta ai danni del Giappone (1-0 il finale, proprio grazie al gol del forte centrocampista).

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Ben tre gli Scudetti vinti con la maglia dell’Inter Arrivato alla Juventus, con Capello in panchina, ha fatto subito grandi cose


IL DIETRO LE QUINTE DEL GOLDEN FOOT… Ho sempre accostato la parola “Montecarlo” al Gran Premio di Formula 1. Quando mi hanno confermato che Calcio2000 sarebbe stato partner dell’edizione 2019 del prestigioso Golden Foot mi sono esaltato. Il motivo? Dal 2003, anno di nascita del premio internazionale ideato da Antonio Caliendo, il Golden Foot viene assegnato proprio sul terreno monegasco, in particolare nella città di Montecarlo dove risiede il Principe… Esaltazione raddoppiata alla notizia che Calcio2000 avrebbe soggiornato al famoso Fairmont. Avete presente la “curva più lenta del GP di Monaco”? Bene, è proprio di fronte al Fairmont Hotel. Appena varchi le porte di Montecarlo, capisci di essere “sbarcato” in una città in cui l’aria è speciale, dai riflessi dorati. Lo capisci dai dettagli. Dal caffè a 12 euro (seduti) alla macchinetta che offre, gratuitamente, la carta per raccogliere i bisogni del cane. Se solo ti avvicini alle strisce pedonali, le auto (solitamente Ferrari, Porsche o Bentley) frenano d’impulso e ti lasciano attraversare in totale comodità. Tutto è portato all’eccellenza. Ti diverti a sognare di poterci vivere, anche se sei consapevole che è pura utopia. Lo comprendi nell’inevitabile capatina al Casinò di Monte Carlo (rigorosamente staccato, come dovrebbe essere). Tu sei un visitatore, gli altri giocano e pure pesantemente… Gli altri ci vivono a Montecarlo, tu sei ospite… Un appartamento di 100 mq viaggia sugli otto milioni di euro, si sale a 20 se si cerca il top… Per fortuna la magia del Golden Foot è senza restrizioni e non guarda al conto in banca. Il primo che incontro è José Altafini. Gli mostro una maglia della Juventus, anni ’70, dell’amico Alessandro di RetroFootballClub: “Mannaggia, hai ragione… Devo dare la mia per l’asta di beneficenza. Ora vado a prenderla, mi aspetti per l’intervista?”. José, nonostante le 81 primavere, è inesauribile. Uno showman nato: “In Brasile ero famoso come Mazzola, perché assomiglia-

Speciale Golden Foot di Fabrizio Ponciroli

vo al campione italiano. Sono arrivato qui e mi hanno cambiato il nome. Sono diventato Altafini e ho dovuto ricominciare tutto da zero. è come se a Pelé, una volta famoso, gli avessero dato il nome di Edson Arantes do Nascimento…”. Mi racconta del “suo calcio”, di quel Mondiale vinto nel 1958 e di come, per le regole della federazione brasiliana di allora, non abbia potuto vincerne altri con il Brasile… Uno spasso. Passare da Altafini a Falcao è come passare da una donna dalle forme esplosive, in stile Pamela Anderson, ad una bellezza giunonica come Carol Alt (nomi per gente navigata come il sottoscritto). L’Ottavo Re di Roma è elegante, proprio come lo era in campo. Non rifiuta un’intervista, anche alla radio più sconosciuta del pianeta. Firma autografi e fa foto con chiunque. E poi ti lascia senza parole: “La vanità non deve venire mai prima dell’intelligenza”. Adoro Falcao… Vieira è, invece, figlio di un calcio più moderno. “Intervista per la cover di Calcio2000? Ma no, vieni a farla a Nizza che la facciamo con calma”. Da grande campione, prova a smarcarsi dalla mia asfissiante presenza ma, alla fine, cede (per fortuna). Enorme (fisicamente parlando) e molto concentrato sul suo nuovo mestiere di allenatore. Resto sorpreso da Carolina Morace (preparatissima, cordialissima e attentissima) e da lui, il vincitore dell’edizione 2019, ossia Modric. Alla cena di Galà appare Roberto Carlos. Non può parlare (sotto contratto con il Real Madrid) ma una battuta me la regala: “Mi piace parlare con gli italiani, perché capisco quello che mi dicono e non devo rispondere a caso”. Un brindisi finale ed è ora di archiviare questa esperienza. Mentre lascio il Fairmont, un signore di bell’aspetto dall’accento russo elargisce mance da 50 euro a tutti. Sono tentato di fingermi un parcheggiatore del Fairmont… No, meglio tornare alla vita di tutti i giorni…

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SPECIALE Cagliari

di Fabrizio Ponciroli

L’ORGOGLIO DELL’ISOLA 16


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a stagione 2019/20 sarà indimenticabile per il popolo sardo. Il Cagliari si è attrezzato per festeggiare, alla grande, due eventi cardine della sua storia. In questo 2020, ci sarà da divertirsi. Da un lato, la gioia per aver compiuto 100 anni. Diventare Centenari non è da tutti. D’altro canto, l’enorme soddisfazione per poter brindare ai 50 anni di uno Scudetto, quello della magica annata 1969/70, che rappresenta l’apice della società rossoblù. Il Cagliari è un’istituzione. È la squadra nella quale si identifica l’intero popolo sardo, almeno al di fuori dall’isola. L’attuale presidente Tommaso Giulini ha deciso di fare le cose in grande per “accompagnare” i tifosi in un’annata che resterà indimenticabile per sempre. Investimenti importanti sia a livello di rosa che di strutture. Il tutto per offrire un Cagliari pimpante e che non sfiguri al cospetto della magica squadra di Gigi Riva. Ne è passato di tempo da quel lontano 30 maggio 1920, giorno della nascita, ufficiale, del Cagliari Football Club, per mano del Professor Fichera. Scorrendo, velocemente, la cronistoria del club, ci sono tanti momenti degni di essere menzionati. Nel 1963/64, conquistando la seconda posizione nel torneo cadetto, arriva la prima, storica, avventura in Serie A. Esattamente sei anni più tardi, il Cagliari conquista lo Scudetto, entrando, di diritto, nel gotha del calcio italiano. L’anno successivo assapora anche le emozioni che solo la Coppa dei Campioni regala (ottavi di finale). Il ciclo si conclude nella stagione 1975/76 con la retrocessione in Serie B. Trascorrono solo tre anni e il Cagliari torna nella massima serie. Gli anni ’80 non sono facili mentre, ad inizio anni ‘90, esattamente nel campionato di Serie A 1992/93, arriva un eccellente sesto posto finale. Il popolo rossoblù vive anche drammi sportivi pesanti da dimenticare, come lo spareggio salvezza perso contro il Piacenza nella stagione 1996/97. Dal 2004/05 al 2014/15, il Cagliari è sempre protagonista in Serie A. Nel 2015/16 l’ultima avventura in serie cadetta. Poi il via ad una nuova era con il pa-

Tommaso Giulini, il patron del Cagliari

tron Tommaso Giulini (subentrato a Massimo Cellino nel 2014) voglioso di fare qualcosa di grande per un club che è l’orgoglio della Sardegna. Tantissimi i campioni che hanno indossato la casacca rossoblù. Oltre all’inarrivabile mito Gigi Riva (dal 1963 al 1975), come non citare nomi come quelli di Enzo Francescoli (1990/93), Gianfranco Zola (2003/05), Nené (1964/76), Gianfranco Matteoli (1990/94), David Suazo (1999/2007), Daniele Conti (1999/2015) e la lista potrebbe andare avanti all’infinito… Un nutrito gruppo di campioni che si è arricchito quest’anno grazie al ritorno di un certo Radja Nainggolan, un altro destinato ad entrare nella Hall of Fame del Centenario Cagliari… IL PENSIERO DI LUCA Il Cagliari ha cominciato la stagione della “doppia festa” come meglio non poteva. Il modo migliore per celebrare il Centenario e 50 anni dallo storico Scudetto. Luca Pellegrini è parte integrante della famiglia rossoblù: “Vivere a Cagliari è meraviglioso. Ti senti parte di qualcosa di grande. C’è tantissima gente che ti spinge a far bene, senza però mai metterti troppa pressione addosso. A Cagliari mi trovo benissimo, è come stare in una grande famiglia. Tutti noi giocatori ci teniamo a fare del nostro meglio affinché l’intera tifoseria sia soddisfatta e felice di quanto facciamo in campo. Il percorso è ancora lungo ma ci sono tutte le condizioni per un’annata importante”.

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VA

I S U L C S E A T INTERVIS Luca Pellegrini

di Fabrizio Ponciroli

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Luca Pellegrini è tornato in Sardegna per completare un lavoro e sognare in grande…


IN MISSIONE A CAGLIARI

I

l calcio è un mondo spietato. Nessuno ti regala nulla, devi conquistarti tutto sul campo, un centimetro alla volta. Luca Pellegrini è l’esempio lampante di come, impegnandosi allenamento dopo allenamento, si possano raggiungere traguardi davvero prestigiosi. Figlio di un calciatore, ha sempre avuto un rapporto speciale con il pallone. Oggi è un professionista con un futuro roseo dinanzi a sé eppure non dimentica le sue origini e, soprattutto, ricorda che il calcio non potrà essere, per uno come lui, un mestiere. Il pallone è sempre stato il suo grande amico e lo sarà per sempre… Come nasce la tua passione per il calcio? “Sono sincero, neppure mi ricordo la prima volta che ho avuto un pallone tra i piedi, quindi immagina tu quando dovevo essere piccolo. Sicuramente è stato mio padre a trasmettermi la passione per il calcio. Lui è stato calciatore…”. Quando eri un ragazzino, a quali idoli ti ispiravi? “Inizialmente a Ronaldinho ma, dopo aver compreso di avere caratteristiche diverse, ho iniziato a seguire quello che faceva Bale. Mi è sempre piaciuto, volevo fare le stesse cose in campo. Anche Marcelo, per una questione di ruolo, è stato uno che osservavo con attenzione. Restavo ore e ore a guardare quello

che combinavano con il pallone su internet”. Nato a Roma e preso dalla Roma… il massimo, no? “Beh, in famiglia l’hanno presa tutti molto bene (ride, n.d.r.). Sai, quando c’è uno come Bruno Conti, è chiaro che la scelta è quella giusta. Basta pensare a quanti talenti sono emersi dal settore giovanile giallorosso. Anche se avrei potuto essere laziale…”. Raccontaci bene… “Questo è un aneddoto che non credo sappia nessuno. Dopo che ho fatto il provino con la Roma, sono stato contattato dalla Lazio. Sembrava poter nascere qualcosa di importante ma, al momento di concludere, la Lazio mi ha posticipato l’incontro di tre giorni. Bene, proprio in quei giorni di attesa, mi ha richiamato la Roma e ho firmato con i giallorossi. Direi sliding doors, no?”. Indubbiamente… “Pensa che cosa sarebbe successo se la Lazio non avesse posticipato l’incontro…”. Hai detto che hai fatto un provino con la Roma? Che ricordi hai di quel provino? “È stato l’unico provino che ho fatto nella mia carriera. Sicuramente un po’ di agitazione c’era ma direi che è andato bene (ride, n.d.r.)”. Quando il calcio è diventato un mestiere? “Mai. Ho sempre giocato a calcio per divertimento e continuo a farlo ancora oggi. Mio

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intervista

esclusiva

Luca Pellegrini zio Andrea, quando tornavo dagli allenamenti, non mi ha mai chiesto se avevo fatto bene o male ma mi chiedeva: “ti sei divertito?” … Ecco, il senso è questo. Il calcio è passione, divertimento, per me non sarà mai un lavoro. È il gioco più bello del mondo”. Alla Roma, con Di Francesco, hai esordito in Serie A… “Indimenticabile. Ringrazierò per sempre Di Francesco. Sia per avermi fatto esordire in Serie A, sia per aver scelto una partita speciale. Sono entrato al posto di De Rossi, nella sua partita numero 600 con la casacca della Roma. Il massimo, fantastico. Ero emozionatissimo ma lui mi ha tranquillizzato. Non lo dimenticherò mai, anche perché l’aspettavo da più di un anno, visto che arrivavo da un infortunio pesante. Un momento incredibile”. Nello stesso anno, hai anche giocato in Champions League… “La Champions League è qualcosa di unico, diverso da tutto il resto. Tutti sognano di giocare in Champions League e, magari, un giorno, di essere in campo in una finale di Champions. La prima volta che senti quella musichetta non ti sembra vero. È troppo… Devo ammettere che l’urlo del pubblico alla parola ‘Champions’ è qualcosa che ti resta dentro per sempre. Mi auguro di riprovare quelle sensazioni”. Nel gennaio del 2019 passi al Cagliari e trovi Maran… “Maran, per me, è stato importantissimo. Non tutti avrebbero avuto il coraggio che ha avuto lui. Mi ha schierato, nonostante fossi molto giovane e, come detto, arrivassi da un infortunio complicato. È una persona con cui vado d’accordo. Con me, è sempre stato corretto. Parla in maniera diretta, senza fare giri di parole. Sa caricarti ma senza farti sentire troppo la pressione. Mi ha aiutato tantissimo e lo sta facendo ancora oggi”. Prima del “Cagliari Bis” c’è stata la preparazione estiva con la Juventus… “Un’esperienza fantastica. Onestamente

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Con la Roma ha vinto tutto a livello di Primavera

Luca Pellegrini è cresciuto, calcisticamente parlando, alla Roma

avrei voluto cominciare la preparazione a luglio, invece sono arrivato alla Juventus ai primi di agosto. Allenarti con campionissimi come quelli che ha la Juventus è qualcosa di magico. Inizialmente mi sembrava un sogno”. Chi ti ha impressionato maggiormente alla


Juventus? “Dire CR7 è scontato… Devo ammettere che Douglas Costa è pazzesco. Fa delle cose…”. E allenarti con Cristiano Ronaldo come è stato? “La prima volta che me lo sono trovato davanti, non ci credevo. Vederlo nello spogliatoio ed essere lì con lui, insomma una sensazione strana. Anche perché io ero abituato a vederlo in televisione. Mi chiedevo se fosse reale o meno. Una sensazione davvero particolare”. Ti prepari con la Juventus ma poi scegli di tornare in Sardegna… “Era la scelta giusta da fare. Ho sempre pensato di aver lasciato qualcosa di incompiuto al Cagliari. Non mi sono mai sentito di passaggio qui in Sardegna. Certamente è stata una scelta figlia anche della voglia di crescere e giocare con continuità ma, ripeto, sentivo che dovevo dare ancora tanto a questa squadra”. Una squadra che il presidente Giulini ha modellato alla grande. Che ne pensi? “Il presidente ha investito tantissimo quest’anno. Si pensi al centro di allenamento, oltre alla rosa. È l’anno del Centenario e ricorrono i 50 anni dallo Scudetto. Non c’era un momento migliore per fare le cose in grande come ha fatto il presidente”. Come ti trovo a Cagliari? “Alla grande. L’intera regione ti spinge ma nessuno ti mette quella pressione negativa che può mandarti in crisi. C’è tanta passione positiva”. Se ne sta accorgendo anche Nainggolan che è tornato protagonista… “Radja l’ho ritrovato come l’avevo conosciuto a Roma. Per me è stato importantissimo. Mi è stato vicino durante il periodo dell’infortunio. Mi ha dato consigli utilissimi, mi è stato vicino e mi ha fatto riflettere. Si sta confermando a Cagliari. È una persona speciale”. E a te cosa manca per diventare speciale? In cosa devi migliorare? “In tutto… Credo che ci siano tanti aspetti del mio gioco in cui mi devo impegnare. Ascol-

to lo staff tecnico, loro sanno cosa devo fare. Personalmente mi farebbe piacere riuscire a segnare qualche gol in più”. Magari per farti convocare dal CT Mancini per i prossimi Europei? “Ogni calciatore sogna di giocare un Europeo o un Mondiale, quindi ci spero anch’io. Sicuramente ci proverò e cercherò di dare il massimo. Poi, alla fine, è sempre l’allenatore che decide, come è giusto che sia”. Ultimamente ci sono sempre più azzurri protagonisti, come mai? “Secondo me, rispetto al recente passato, tanti club hanno iniziato a pensare sia al presente ma anche al futuro. C’è più voglia di investire sui giovani. Si rischia di più, mettendoli in campo con più continuità. Direi che ci stiamo avvicinando a campionati come la Bundesliga o la Liga dove non si fanno problemi a far giocare i giovani”.

L’allenatore Maran lo stima moltissimo, si conoscono da tanto tempo

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intervista

esclusiva

Luca Pellegrini A chi vorresti dire grazie a questo punto della tua carriera? “A mio padre e alla mia famiglia. Direi che un bel grazie se lo meritano. Ho già avuto occasione di ringraziarli ma forse lo faccio troppe poche volte. Colgo l’occasione per farlo ora”. Nella tua squadra ideale virtuale, chi vorre-

Forza fisica e tanto talento, Luca Pellegrini è in rampa di lancio

sti? Scegli un difensore, un centrocampista e un attaccante. Hai budget illimitato… “Prendo Maldini per la difesa, De Rossi a centrocampo e i due Ronaldo in avanti”. Ronaldo il Fenomeno e CR7? “Esattamente, direi che con loro sto tranquillo (ride, n.d.r.)”. Hai citato nuovamente De Rossi. Non ti fa effetto pensarlo alla Bombonera… “Parliamo di uno stadio leggendario. Fare un’esperienza del genere, credo porti tanti benefici e faccia crescere molto. Poi in Argentina il calcio è molto passionale. Grande De Rossi”. Che altri sport segui oltre al calcio? “Pochi, mi piace l’NBA”. Sei un fan di Lebron James? “Sì, assolutamente. Quello che sta facendo quest’anno ai LA Lakers è incredibile. A 35 anni, fa cose fuori dal mondo. È come il vino. Più invecchia e più diventa buono…”.

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Un film o una serie TV in cui ti sarebbe piaciuto recitare? “Direi Prison Break. Probabilmente il ruolo di Wentworth Miller, interpretato da Michael J. Scofield”. Luca, un piatto al quale non riesci a resistere? “La carbonara ma come la fanno a Roma. Qui in Sardegna, invece, sono impazzito per i culurgiones ai carciofi e bottarga. Sai, venendo da Roma, sei magari prevenuto ma poi scopri questi piatti e impazzisci”. Un Paese che ti piacerebbe visitare? “Direi l’Oriente. Vorrei comprendere la loro cultura e usanze. Sono una persona curiosa, quindi mi attira molto quella fetta di mondo. Magari in Thailandia…”. Ultima domanda. A fine stagione sarà soddisfatto se… “Se raggiungerò i miei obiettivi”. Non puoi cavartela così… Quali obiettivi? “(Ride, n.d.r.) … Fare bene con il Cagliari e con l’Under 21”. E, magari, fare qualche gol in più… “Speriamo, sarebbe bello”. Tempo esaurito. La sensazione di aver conosciuto un ragazzo di grandi qualità umane e forte. Si parla tanto di quei giovani scapestrati che tanto piacciono per i loro atteggiamenti da ribelle. Bene, Luca Pellegrini è un ragazzo posato, equilibrato e con valori famigliari importanti. Certi che farà cose egregie nel mondo del calcio. La sua passione, sincera, per il gioco lo aiuterà ad imporsi… Un ragazzo umile e con tanta voglia di divertirsi. Per Luca Pellegrini, il calcio non sarà mai un lavoro…


LA CARRIERA DI LUCA Nato a Roma il 7 marzo 1999, entra a far parte delle giovanili della Roma in tenera età. Da possibile giocatore d’attacco, si trasforma, in breve tempo, in un esterno di difesa. Con la Primavera giallorossa conquista il titolo nella stagione 2015/16. Vince anche Coppa Italia Primavera e Supercoppa Primavera (2016). Un brutto infortunio (rottura del legamento crociato) lo obbliga ai box per lungo tempo. All’inizio dell’annata 2018/19, entra a far parte della Prima squadra della Roma, allora allenata da Di Francesco (nonostante il tentativo, di tanti club, di strapparlo ai capitolini). Il 26 settembre 2018, nella gara contro il Frosinone, fa il suo esordio nella massima serie italiana, prendendo il posto di De Rossi (alla sua 600esima gara con la Roma). A distanza di qualche giorno, arriva anche la “prima” in Champions League (contro il Viktoria Plzen). A gennaio, dopo sei presenze in giallorosso, passa al Cagliari per giocare con più continuità. Trova il tecnico Maran che gli dà fiducia. Colleziona ben 12 presenze. Nell’estate del 2019, arriva la chiamata della Juventus. Svolge buona parte del ritiro con i bianconeri. Poi torna in Sardegna per completare una missione iniziata a gennaio. Con i sardi, si sta divertendo moltissimo. Convocato dal CT Mancini per le sfide contro Armenia e Finlandia, valide per le qualificazioni ad Euro 2020, è in attesa del suo esordio in azzurro. Un altro sogno da realizzare…

Il grande sogno è conquistarsi, con il Cagliari, un posto in Nazionale

Stagione Squadra Totale Pres Reti 2018-gen. 2019 Roma 6 0 gen.-giu. 2019 Cagliari 12 0 ago.2019-2020 Cagliari 10 0 * Dati aggiornati al 03/12/2019

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i r o t a n e l l grandi a Bruno Pesaola di Stefano Borgi

Piccolo di statura, ironico, disincantato, dava a tutti del ‘lei’. Bruno Pesaola era più napoletano che argentino, anche se poi vinse lo scudetto a Firenze...

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Credit Foto: Liverani


“EL PETISSO...”

TRA SIGARETTE, SCARAMANZIA, E UN PO’ DI FILOSOFIA

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apete perché Pesaola faceva Bruno di nome? Per lo stesso motivo per il quale suo fratello (più grande di sette anni) faceva Giordano. Bruno Giordano. O meglio... Giordano Bruno. No, nessun riferimento al futuro centravanti di Lazio e Napoli. Più semplicemente il padre Gaetano, ciabattino di origine italiana (Montelupone nel maceratese) emigrato in Argentina, aveva così voluto rendere omaggio al filosofo napoletano. Già, la filosofia... Non sappiamo se Bruno l’abbia incrociata qualche volta, a scuola o per strada, ma ne fece ben presto una sua peculiarità. Un tratto distintivo. Quell’aria disincantata, giocosa, ad un tratto burbera e severa, lo rendeva un personaggio enigmatico, ammaliatore. Per alcuni una macchietta, per altri un guru da seguire. Di certo la filosofia, la sua filosofia, gli servì per confrontarsi con un altro filosofo... Manlio Scopigno, allenatore di quel Cagliari che con la Fiorentina di Pesaola si spartì gli ultimi campionati dei “favolosi anni ‘60”: Albertosi, Cera, Domenghini, Gigi Riva

contro Superchi, Merlo, De Sisti e Chiarugi. Altro calcio, altri tempi, quando il pallone si poteva prendere (appunto) con filosofia. PICCOLO, FURBO E... AMBIDESTRO. Come spesso capita, è l’altro fratello a giocare meglio al calcio. Quello che non farà fortuna. Anche perché a vent’anni, militare a Cordoba, il rinculo di un cannone gli rovina una gamba. Giordano, però, non si perde d’animo e si mette in testa di insegnare la tecnica al fratellino minore. Bruno, lo abbiamo detto, era minuto, ma molto svelto e furbo. Si dava da fare, da piccolo scaricava pacchi di giornali davanti alle edicole. Soprattutto era veloce nell’apprendere. Il problema è che era destro, mentre Giordano era sinistro. E per lui, il vero calciatore doveva saper giocare con entrambi i piedi. “Se vuoi sorprendere gli avversari, comincia a sorprendere te stesso” lo ammoniva, e con questa frase allenava Bruno ad usare il mancino. Fu così che nacque l’ala sinistra Bruno Pesaola, soprannominato “el petisso”... il

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ena grandi all Bruno Pesaola

Si ringrazia Panini per la gentile concessione delle immagini

piccoletto. Siamo a Buenos Aires, a 14 anni Bruno fa un provino per il River Plate, incontra gente importante (lo allenerà Renato Cesarini, quello della zona...) incrocia i tacchetti con Alfredo di Stefano. Fino a quando un emissario della Roma gli propone di andare in Italia. E Bruno accetta. Nei tre anni nella Capitale gioca 90 partite, segna 20 gol, disputa la prima partita il 14 settembre 1947, guarda caso contro la Fiorentina. Una squadra che segnerà la sua seconda vita da allenatore. Però, c’è un però... in giallorosso quel ragazzino piccolo e fragile viene tartassato dagli infortuni, continui e ripetuti, che lo portano a pensare di tornare in Argentina. La sua salvezza si chiama Silvio Piola (a proposito di gente importante) che lo chiama al Novara. Da Roma a Novara, sembrerebbe una sorta di retrocessione. E invece quella cittadina piemontese, così diversa dalla Roma tentacolare, sarà il suo trampolino di lancio verso Napoli, il suo vero, grande amore. Nel frattempo, a Novara, Bruno si sposa con Ornella Olivieri, i due avranno un figlio di nome Diego Roberto, oggi noto ai più col nome di Zap Mangusta. Autore teatrale, conduttore radiotelevisivo, giornalista e scrittore... laureato in filosofia. Della serie, la filosofia come un vizio (oppure un pregio) di famiglia.

“Trattava tutti allo stesso modo, giovani ed anziani”. Giuseppe Bruscolotti VEDI NAPOLI E POI... Andiamo coi numeri: sotto il Vesuvio il petisso resterà la bellezza di 8 stagioni, totalizzando 240 presenze (quasi tutte al vecchio “Vomero”, solo 9 al nuovo San Paolo) e 27 gol. Gioca con campioni del calibro di Jepp-

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son, Monzeglio, Amadei e Vinicio, e per questo deve fare il gregario riciclandosi mezzala. E poi il presidentissimo Achille Lauro, col quale fraternizza giocando a carte. Si narra che Lauro gli prestò dei soldi per aprire un’attività commerciale a Sanremo, dove stavano i parenti della moglie e dove era nato suo figlio Diego Roberto. Insomma... calcio ok, ma anche grandi rapporti umani. Intanto la carriera del “petisso” volge al termine: nel 1960 proprio Amadei (ex-compagno di squadra, ora allenatore) pretese il suo allontanamento da Napoli, Bruno allora si accasa al Genoa e poi alla Scafatese dove... appende le scarpette al chiodo. Fa a tempo a disputare, come oriundo, anche una partita in Nazionale: Portogallo-Italia 3-0, per le qualificazioni mondiali di Svezia ‘58, dove (ahimè) non andammo. Tranquillo Bruno, se pensavi di essere stato un caso isolato, ci hanno pensato altri a fare di più e di peggio. Dalla Scafatese al ritorno a Napoli (stavolta in panchina) il passo è breve: i partenopei languono in Serie B, a metà stagione Bruno viene chiamato al capezzale e... rovescia la situazione. La squadra conquista la Serie A, vince addirittura la Coppa Italia, unico caso nella storia che una squadra cadetta si aggiudichi il trofeo nazionale. Come avevamo titolato? Vedi Napoli e poi muori? Macché! Proprio sotto il Vesuvio Bruno Pesaola si prende le sue rivincite e da quel momento completa la sua trasformazione: da argentino a napoletano. Per di più si guadagna la stima degli addetti ai lavori che imparano a conoscere un Pesaola vincente... anche senza usare il sinistro. 40 SIGARETTE AL GIORNO E LO SCUDETTO. Gli ultimi anni di Napoli sono difficili ed esaltanti al tempo stesso. Anche per questo Bruno comincia a fumare come una ciminiera: 40 sigarette al giorno di media, più o meno


come Scopigno (l’altro filosofo di cui sopra) al quale sembra somigliare ogni giorno di più. I risultati arrivano, l’ultima stagione (196768) vedrà il Napoli conquistare il secondo posto (seppur a 9 punti dal Milan campione d’Italia), ma nonostante questo l’aria si è fatta pesante, le fazioni dividono il capoluogo campano e ci va di mezzo la famiglia del petisso che, a più riprese, viene minacciata. Bruno decide di abbandonare, anche perché la Juve di Boniperti gli ha offerto 60 milioni l’anno. La Fiorentina ne offrirà 120, e fatti due conti... La stagione ‘68-’69 sarà quella della consacrazione definitiva. La squadra

Giancarlo De Sisti è diventato Campione d’Italia grazie a Bruno Pesaola

DICONO DI LUI Giuseppe Bruscolotti ha giocato due stagioni con Bruno Pesaola: ‘76-’77 ed ‘82-’83. Sentiamo il celebre “palo ‘e fierro” come ricorda il Petisso: “Di lui ho due ricordi indelebili: il primo la semifinale di Coppa delle Coppe Napoli-Anderlecht, del 6 aprile 1977. Quella sera c’erano 80.000 napoletani allo stadio, contro avevamo Haan, Rensenbrink, Ludo Coeck, Vanderelst, Thissen... Vincemmo con un mio gol ad 8 minuti dalla fine. Pesaola ci aveva caricati in un modo incredibile, e quella sera non ci avrebbe fermati nessuno. Peccato che al ritorno, a Bruxelles, perdemmo 2-0 e mancammo la finale. Tutta colpa dell’arbitro inglese Matthewson che annullò un gol regolare a Speggiorin. Ricordo Pesaola aveva le lacrime agli occhi”. Manca l’altro ricordo... “Fu a Genova contro il Genoa. Eravamo alla terza di campionato, nell’ottobre del ‘76. Io giovanissimo fui portato con la prima squadra, ma non dovevo giocare. Poi, all’improvviso Pesaola mi disse: ‘non è che lei mi giocherebbe mezzora’? Dava a tutti del lei, grandi e piccini, e questo ci responsabilizzava, ci faceva dare qualcosa in più. Fatto sta che giocai 90 minuti, e vincemmo pure 3-2... Fu una dimostrazione di fiducia che non scorderò mai”. Com’era il Pesaola fuori dal campo? “Una persona eccezionale, grande allenatore anche tatticamente, anche se da molti veniva considerato una macchietta. E poi era un napoletano nato per caso in Argentina. Con l’andare degli anni aveva preso tutto di Napoli, a cominciare dal dialetto...” Franco Colomba deve molto a Bruno Pesaola. Quantomeno l’esordio in Serie A. “Di Pesaola non posso che parlarne bene, anche solo perché mi ha buttato nella mischia così... senza preavviso. Giocavamo a Torino contro la Juventus, mancava Marino Perani, e Pesaola mi fece esordire. Devo dire che non me l’aspettavo, e per questo gli sono ancora più grato. Tra l’altro, quel giorno, esordì anche Eraldo Pecci. Una coppia non male...” Ricorda qualche aneddoto in particolare? “Certo, uno su tutti è il modo col quale furono scelti i rigoristi nella finale di Coppa Italia del 1974, vinta contro il Palermo. C’era grande indecisione, soprattutto su chi avrebbe battuto il primo. Quando all’improvviso Bulgarelli disse... mister, lo batto io? Pesaola se ne uscì: e allora se vuol fare tutto lei, io me ne vado a casa. Ovviamente ridendo. Secondo me vincemmo anche per quello...“. Lo ha rincontrato prima della scomparsa? “Una TV di Napoli, un anno prima della sua morte, gli fece una festa a sorpresa invitando tanti amici. Tra i quali io ed Eraldo Pecci, due dei ragazzi che aveva fatto esordire in serie A. Ricordo che fu molto felice, e noi con lui”.

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ena grandi all Bruno Pesaola

viola non sembra granché, se ne sono andati Albertosi e Brugnera al Cagliari (in cambio di Rizzo), Mario Bertini all’Inter. Addirittura qualcuno pensa di mettere un premio retrocessione, e la sconfitta interna per 3-1 col Bologna (siamo alla quinta giornata) sembra suffragare il tutto. E invece, meraviglie delle meraviglie, quella resterà l’unica sconfitta di tutto il campionato. Superchi non fa rimpiangere Albertosi, Rogora e Mancin sono terzini tosti ed affidabili, Ferrante-Brizi una coppia di centrali imbattibile. Dalla cintola in su arrivano le notizie migliori: “Ciccio” Esposito corre per tre, per sé stesso, per Merlo e per De Sisti. Chiarugi è la variabile impazzita, il brasiliano Amarildo un fuoriclasse che risolve le situazioni complicate. Davanti Mario Maraschi finalizza il gran lavoro del centrocampo e degli esterni, insomma... la Fiorentina ye-ye, che fu di Beppe Chiappella, è cresciuta, maturata, e per la seconda volta diventa campione d’Italia. Nota di colore: oltre alla compattezza del gruppo ed i colpi dei suoi fuoriclasse, il Petisso dispone di un’altra arma segreta: la musica di Peppino Gagliardi. La canzone “Settembre” diverrà la colonna sonora di ogni trasferta, di ogni trasferimento al “Comunale”, elemento imprescindibile senza il quale non si parte

Tuttosport e Gazzetta celebrano lo Scudetto della Viola di Pesaola

nemmeno. Leggende metropolitane? Può darsi. Una cosa è sicura: Bruno Pesaola era diventato napoletano in tutto e per tutto, dai riti propiziatori alla scaramanzia sotto forma di musica. L’importante è che arrivino i risultati, e meglio di così...

I RAGAZZI DELLO SCUDETTO LO RICORDANO COSì... “Una persona calma, tranquilla, allegra... Faceva battute a non finire. Ora, per esempio, la formazione agli arbitri va data molto in anticipo. Lui, invece, la voleva dare 5 minuti prima dell’inizio della partita: Pesaola andava in ufficio, parlava con Montanari (allora D.S.), fumava una sigaretta e solo a quel punto mandava i giocatori in campo. E se qualcuno gli diceva: scusi mister, ma è sicuro che De Sisti oggi giochi col numero 8? Poteva succedere, magari Merlo (oppure qualcun altro) era squalificato... La risposta era sempre la stessa: e allora faccia come vuole, tanto ha sempre ragione lei... Insomma, ridendo e scherzando, non era mai colpa sua”. Parole e musica di Raffaele Righetti, storico Segretario Generale della Fiorentina, oggi presidente onorario del Museo Fiorentina. Gli fa eco Claudio Merlo, che tra tutti è il più convinto a tessere le lodi del petisso. “Il problema è che Beppe (Chiappella, colui che aveva costruito la Fiorentina ye-ye n.d.r.) era un ottimo tecnico, ma troppo amico. Ci perdonava tutto, per noi era come un padre. Rischiavamo di appiattirci. Invece Pesaola arrivò, ci dette la carica giusta, l’entusiasmo che serviva. Senza il petisso, ne sono convinto, non avremmo mai vinto lo scudetto”. Sulla stessa linea

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BOLOGNA, ULTIMA FERMATA. Oltre che per Vivaldi, e per la pizza già che siamo in tema, anche nella vita di Pesaola le stagioni fondamentali sono quattro: due a Napoli (da calciatore e da allenatore), una a Firenze (storico scudetto) e l’ultima a Bologna. Sotto le due torri Bruno rimase appena due anni, sufficienti per entrare nei cuori dei tifosi rossoblù. Innanzitutto, la vittoria in coppa Italia nel 1974, poi l’ottima gestione di Savoldi e Bulgarelli, quindi il lancio in prima squadra di Franco Colomba ed Eraldo Pecci. Magari piccole cose rispetto ai fasti del passato, ma ormai il personaggio Pesaola

“Ho un grande ricordo di lui, mi fece esordire in Serie A” Franco Colomba aveva conquistato tutti... in maniera trasversale. Gli ultimi fuochi furono in Grecia (al Panathinaikos), al Siracusa, ancora al Napoli (‘82-’83), per terminare al Campania nel 1985. Bruno Pesaola, per gli anni della pensione, sceglierà proprio Napoli come “buen ritiro”, partecipa come opinionista in varie trasmissioni televisive, nel 2009 riceve la cit-

Franco Colomba deve moltissimo al grande Pesaola

tadinanza onoraria. Si spegne 6 anni dopo, nel quartiere del Vomero, quasi a chiudere un cerchio iniziato 33 anni prima. Qualcuno, in quei giorni, gli ha visto fumare l’ultima sigaretta... e nessuno ha osato provare a togliergliela.

Bernardo Rogora: “Chiappella ricercava il gioco, il bel calcio. Se anche non vincevamo, andava bene lo stesso. Pesaola invece era tassativo: giocate male ma vincete. Va bene anche l’1-0. E poi ci dava del lei: mi chiamava Signor Rogora, anche questo contribuiva. Era un distacco che ci spronava, che non ci faceva adagiare sugli allori”. Una voce fuori dal coro è Mario Maraschi, che non è affatto tenero con Pesaola: “Scusate se cito me stesso, ma se non fossi intervenuto io, lo scudetto non l’avremmo vinto. Fui io a convincere Pesaola a mettere Chiarugi al posto di Rizzo (il cambio avvenne alla 21esima, in un Fiorentina-Vicenza 3-0, guarda caso gol di Maraschi e doppietta di Chiarugi n.d.r.) Luciano è più tecnico, sa fare gli assist, vedrai quanti gol mi fa fare, gli dissi. E infatti, da quel momento abbiamo spiccato il volo...” Chiudiamo con Giancarlo De Sisti, l’uomo di maggior carisma, l’uomo della mediazione, già Campione d’Europa nel ‘68 e futuro vice-campione del mondo a Mexico ‘70: “Pesaola fu determinante per la conquista dello scudetto – sostiene Picchio. Diciamo che fu uno scudetto a quattro mani, tra Chiappella e Pesaola. Ma senza il petisso non lo avremmo mai vinto”. E se lo dice lui, c’è da credergli...

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I B R a i d n a r g

Pierluigi Collina di Luca Gandini

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LA LEGGE DI COLLINA Non bastano solo le prodezze dei campioni o il carisma degli allenatori. Una scuola calcistica per essere prestigiosa ha bisogno anche di grandissimi arbitri. Come Pierluigi Collina.

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alla finale dei Giochi Olimpici del 1996 tra Argentina e Nigeria a quella della Coppa UEFA del 2004 tra Valencia e Olympique Marsiglia. Dall’avvincente ultimo atto della Champions League 1999 tra Manchester United e Bayern Monaco all’apoteosi di Yokohama 2002, migliore in campo insieme a Ronaldo nella finalissima mondiale tra Brasile e Germania, passando per un’infinità di sfide più o meno di cartello in Serie A e sui campi di mezzo mondo. Preparazione tecnica di prim’ordine, personalità svettante, ma anche buona propensione al dialogo con il campione o l’allenatore di turno. Qualche volta magari anche la tendenza a strafare, volendo vedere a tutti i costi il fallo sfuggito alla telecamera che poi neanche fallo era. Sì, insomma: la tendenza a “fare il fenomeno”, come spesso

sottolineato più o meno bonariamente da qualche addetto ai lavori. Robe che solo un grande arbitro poteva concedersi, intendiamoci, e a un fuoriclasse del fischietto come lui questo lo si poteva benissimo perdonare. Perché poteva piacere o non piacere, ma era comunque una garanzia. Pierluigi Collina ispirava credibilità. Con lui in campo in una sfida di cartello si aveva la certezza che tra i tanti top player pronti a sfoderare la prestazione vincente vi fosse proprio il direttore di gara bolognese. TALENTO E CORAGGIO Nato proprio nel capoluogo emiliano il 13 febbraio 1960, Pierluigi Collina iniziò ad arbitrare quasi per gioco, a 17 anni, convinto da un compagno di liceo a frequentare un corso per arbitri. Le qualità c’erano, la voglia di migliorarsi

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ITRI

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Pierluigi Collina pure, osservando in TV le più celebri giacchette nere del periodo, Tullio Lanese, Luigi Agnolin e Paolo Casarin. Il destino volle che molti anni dopo, proprio con Casarin designatore arbitrale per la Serie A e B, dopo tanta gavetta Collina avesse finalmente la grande occasione, con la promozione a direttore di gara per la Serie A e B nella stagione 1991/92. L’esordio nel campionato cadetto avvenne l’8 settembre 1991 in Avellino-Padova, gara terminata 1-0 per i padroni di casa. Pochi mesi dopo, il 15 dicembre, arrivò anche il debutto in massima divisione in un Verona-Ascoli, 1-0 per i veneti con gol di Celeste Pin e con Collina costretto ad espellere il bianconero Massimo Piscedda per fallo da ultimo uomo su Florin Răducioiu. Una direzione impeccabile, tanto che a fine partita arrivarono anche i complimenti di Casarin, presente a Verona per assistere all’esordio del suo erede. Sarebbero state 8, in totale, le presenze in Serie A quell’anno, con un bilancio di 2 vittorie per le squadre di casa, un pareggio e ben 5 successi esterni. La promozione ad arbitro internazionale arrivò invece nel 1995. Un esordio soft, l’8 marzo, ad Ankara, per una sfida tra le Nazionali militari di Turchia e Francia, poi le prime direzioni in Coppa UEFA e nelle amichevoli tra Nazionali maggiori, tra cui la prestigiosa Olanda-Germania 0-1 del 24 aprile 1996. A catapultarlo tra i big mondiali fu però la partecipazione ai Giochi Olimpici di Atlanta. A lui venne infatti assegnata la finale, uno spettacolare duello tra Nigeria ed Argentina vinto per 3-2 dagli africani. La popolarità dell’arbitro italiano era in continua crescita. Le sue qualità naturali abbinate al coraggio emergevano tanto negli scontri di cartello quanto nelle sfide tra compagini divise da un’acerrima rivalità. Famosissimo, a tal proposito, l’episodio avvenuto il 9 marzo 1997, durante Inter-Juventus 0-0. Un gol del nerazzurro Maurizio Ganz viziato da un fuorigioco era stato in un primo tempo avallato dal guardalinee, ma Collina, accortosi dell’errore, ne decretò l’annullamento con tanto di spiegazioni date in sala stampa al termi-

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ne della partita. Una decisione tecnicamente ineccepibile, ma che fece discutere molto poiché gli arbitri in quel periodo non erano autorizzati a parlare. Collina infranse anche questo tabù. Sempre nel 1997, ma l’8 giugno, durante un infuocato Foggia-Bari 1-1 in Serie B, decise di fare invertire i campi alle due squadre dopo aver constatato una situazione di potenziale pericolo per i rispettivi portieri. GARANZIA MUNDIAL Altra tappa fondamentale della sua carriera fu ovviamente la finale di Champions League 1998/99 al “Camp Nou” di Barcellona tra Manchester United e Bayern Monaco. Ennesimo esame superato a pieni voti, con in più la nota di merito per essersi fermato a consolare i giocatori del Bayern affranti dopo aver perso la partita negli ultimi secondi di gioco. Nel 2000 al nome di Collina venne associata la celebre

Il calcio italiano è ancora alla ricerca del vero erede di Collina


domenica del diluvio di Perugia. Al termine di un campionato caratterizzato da roventi polemiche arbitrali, la Juventus capolista era infatti chiamata a difendere il vantaggio di 2 punti sulla Lazio proprio al “Renato Curi”, mentre i biancocelesti dovevano vedersela all’“Olimpico” con la Reggina. Il diluvio che cadde su Perugia mise in dubbio fino all’ultimo la disputa della partita. Collina decise di dare ugualmente inizio alle ostilità su un campo al limite della praticabilità. A Roma, intanto, la Lazio superava agevolmente la Reggina e appaiava la Juventus al comando. Dopo l’intervallo, Collina decretò una lunga interruzione in attesa di una cessazione della pioggia e di un miglioramento delle condizioni del terreno di gioco. Dopo ben 71 minuti, la gara riprese. Il perugino Alessandro Calori trovò il gol che tagliò le gambe alla Juve e che diede il Tricolore alla Lazio. Ci furono polemiche infinite, ma la figura di Collina ne uscì comunque alla grande. Se la Juventus aveva perso, la colpa non era certo stata dell’arbitro. Sempre più in ascesa, il fischietto italiano venne chiamato a dirigere anche la finale mondiale del 2002. Era stato un torneo in cui la credibilità di una parte delle giacchette nere era uscita a pezzi, dopo gli scandalosi arbitraggi in favore soprattutto dei padroni di casa della Corea del Sud. Collina si dimostrò ancora una volta il numero uno sia per qualità tecniche che per tenuta caratteriale. Per la prima volta nella storia della Coppa del Mondo si affrontarono Brasile e Germania. I sudamericani si imposero meritatamente per 2-0 con doppietta di Ronaldo, ma alla fine tutti concordi nel giudicare ottima anche la prestazione di Collina. “La Gazzetta dello Sport” del giorno dopo gli diede 8 con la seguente motivazione: «Direzione di grande classe. In un certo senso ha dato spettacolo anche lui. E se un guardalinee sbaglia ha la bravura e l’autorità per riparare». La sua reputazione in quel periodo era tale che nel gennaio del 2003 venne perfino chiamato a dirigere un big match del campionato francese, Olympique Lione-

In campo, in pochi hanno avuto la personalità e il carisma di Collina

Olympique Marsiglia, gara vinta 1-0 dai padroni di casa. L’anno dopo si tolse la soddisfazione di arbitrare (egregiamente) la finale di Coppa UEFA proprio tra il Marsiglia ed il Valencia, ma non quella del Campionato Europeo, l’unica a mancare nel suo curriculum. In Portogallo vide infatti sorgere la stella di Cristiano Ronaldo nella gara di apertura tra i lusitani e la Grecia; diresse poi Inghilterra-Croazia con protagonista un giovanissimo Wayne Rooney e infine la semifinale vinta dalla Grecia sulla Repubblica Ceca grazie al Silver Goal di Traianos Dellas. Per la finale fu però designato il tedesco Markus Merk, autore peraltro di una prestazione in chiaroscuro. Nel 2005 Collina tornò protagonista dirigendo le due sfide forse più importanti del campionato. Quella che l’8 maggio vide la Juventus battere il Milan a “San Siro” e volare verso il titolo poi revocatole causa Calciopoli e lo spareggio-salvezza vinto dal Parma sul Bologna il 18 giugno al “Dall’Ara”.

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Pierluigi Collina IN CERCA DELL’EREDE Quella fu un’estate cruciale nella vita e nella carriera di Pierluigi Collina. Il raggiungimento del 45° anno d’età l’avrebbe obbligato a smettere, ma la deroga concessagli dalla FIGC gli consentì di continuare ad arbitrare fino al 30 giugno 2006. A far cambiare idea al fischietto italiano furono le polemiche su un contratto di sponsorizzazione firmato con una nota casa automobilistica tedesca all’epoca sponsor del Milan. Essendo il nostro il Paese della dietrologia e dei sospetti, non se la sentì di proseguire, prevedendo che al primo errore si sarebbe parlato subito di “condizionamenti dello sponsor” e di “conflitti di interesse”. Così preferì ritirarsi. La sua ultima partita fu il 24 agosto 2005, Villarreal-Everton 2-1, ritorno del preliminare di Champions League, una direzione molto contestata dagli inglesi per un gol inspiegabilmente annullato a Duncan Ferguson. Il calcio italiano, intanto, era alla vigilia di Calciopoli, una bufera che sfiorò in parte anche Collina: il suo nome comparve nelle carte per via di una certa confidenza con l’allora addetto agli arbitri del Milan, Leonardo Meani. Uscitone indenne, tornò nei ranghi federali come designatore arbitrale per la Serie A e B dal 2007 al 2010, anno in cui andò a ricoprire lo stesso incarico alla UEFA. Un’esperienza, quest’ultima, non sempre facile, perché caratterizzata da arbitraggi troppo spesso non all’altezza del prestigio di una Champions o di un’Europa League. Oggi, l’ex fischietto bolognese è presidente della Commissione Arbitri della FIFA. Ha accolto con favore la diffusione del VAR nel calcio, ma ha anche ribadito che ciò non porterà mai alla totale eliminazione dell’errore umano. Di certo c’è il fatto che a quasi 15 anni dal ritiro, il calcio sia riuscito ad esprimere diversi grandi arbitri, ma che sia ancora alla ricerca del vero, autentico erede di Pierluigi Collina.

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Collina ha diretto la finale della Coppa del Mondo 2002 tra Brasile e Germania - Liverani


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FOCUS ON Millennial

di Ivan Costa

Panoramica sui migliori talenti in erba del nostro campionato: condizione per essere presenti, essere nati dal 2000 in avanti...

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quelli del 2000... “L

a crisi economica potrebbe essere un bene per i nostri giovani, le società saranno “costrette” a far di necessità virtù e speriamo che trovino maggior spazio”. Questo si diceva qualche anno fa. Non sappiamo se sia stata la crisi, o magari il coraggio di tecnici all’avanguardia come il nostro Commissario Tecnico Roberto Mancini, o anche semplicemente un innalzamento del livello qualitativo del “prodotto” dei vivai, o ancora un miglioramento dello scouting dei settori giovanili: probabilmente, come spesso capita, è semplicemente il risultato di un mix di fattori positivi concomitanti. Tant’è, il cocktail che ne esce è decisamente gustoso e in prospettiva devastante. Tornando ai tecnici coraggiosi, che dire di Antonio Conte che butta

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FOCUS ON Millennial

nella mischia di Champions League addirittura un 2002? O Corini e Grosso che “rischiano” le loro possibilità di salvezza affidando il loro centrocampo ad un classe 2000 (inducendo per altro da Mancini a fare altrettanto in Nazionale)? Anche Juric punta sulla freschezza di un 2001, al quale chiede addirittura i gol fondamentali per la permanenza in Serie A del suo Verona. E questo nonostante in rosa ci siano vecchie conoscenze e vecchi mestieranti delle aree di rigore come Pazzini o Di Carmine, con un Stepinski arrivato con grandi aspettative, ma “parcheggiato” in panchina dal ragazzino. Ma procediamo con ordine...

Conte stravede per il giovane gioiello nerazzurro Esposito

L’Inter domina Il settore giovanile nerazzurro negli ultimi anni sta davvero facendo grandi cose. Fin dai tempi della Next Gen Series (la Champions dei gio-

vani, come è stata volgarmente ribattezzata) vinta dalla Primavera di Mister Stramaccioni nel 2012. Purtroppo, nessun ragazzo di quella rosa è riuscito ad arrivare in Prima Squa-

Marco Zanchi: “Che personalità Kulusevski”

L’allenatore dell’Under 16 dell’Atalanta ci guida alla scoperta dei calciatori “millennial”. “All’estero è da anni che danno fiducia ai giovani e che non guardano la carta di d’identità per farli giocare, prima o poi ci dovevamo arrivare anche noi. Poi, a volte ti va bene perché il ragazzo reagisce alla grande, altre volte sei sicuro che possa esplodere e invece… Guarda Kulusevski”. Già, proprio Kulusevski, forse la principale rivelazione di questo campionato, uno che Marco Zanchi, ex difensore tra le altre di Juve e Udinese, oggi allenatore dell’Under 16 dell’Atalanta, conosce molto bene: “Non avevo alcun dubbio che potesse diventare un grande calciatore, ma forse non mi aspettavo così velocemente. L’anno scorso ha patito il salto dalla Primavera alla Prima Squadra dell’Atalanta, ma il livello era davvero altissimo. A Parma probabilmente ha trovato l’ambiente ideale”. Per Zanchi è proprio lo svedese il “millennial” più forte in circolazione, almeno alle nostre latitudini, e non solo perché lo ha allenato: “Mi ha impressionato la personalità e come sia cresciuto velocemente: ha sempre giocato con naturalezza e si era visto che aveva qualità straordinarie, ma un conto è fare la differenza nelle giovanili, un altro è farla in Serie A. Si vede che ha guadagnato considerazione e stima anche nei compagni: all’inizio faticava a ricevere palloni, ora la squadra si appoggia molto su di lui. Non è un dettaglio per un ragazzo della sua età”. Ma per sfondare veramente le qualità tecniche non bastano: “Il calcio di oggi esige un giovane che abbini qualità a doti fisiche eccezionali, ma quello che dico sempre ai miei ragazzi è che ci vuole anche testa. Ai miei tempi era difficilissimo arrivare in prima squadra, ma se dimostravi di essere all’altezza era difficile uscire dal giro. Oggi è diverso: è probabilmente più facile arrivare, ma più difficile restarci. Oggi gestire i nostri ragazzi è semplice come lo era tempo fa, è tutto quello che gli gira attorno che fa la differenza. All’Atalanta puntiamo molto su educazione, rispetto, sul confronto con le famiglie, perché sappiamo che i maggiori rischi si corrono fuori dal campo”.

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dra, ma questa è un’altra storia (e magari il prossimo step da fare per completare l’opera). Prima e dopo quello storico successo, però, l’Inter ha dimostrato di essere all’avanguardia per quanto riguarda il vivaio e lo scouting delle promesse in erba. E proprio quel centravanti eletto da Juric come ariete del suo attacco ne è la dimostrazione. Parliamo di Eddie Salcedo, classe 2001, da anni considerato un potenziale crack del calcio italiano. Nato a Genova da genitori colombiani, l’attaccante di proprietà nerazzurra ha esordito in A con la maglia del Genoa addirittura a 15 anni. Già, a proposito della lungimiranza dello scouting della società di Suning (una proprietà che punta tantissimo sui giovani). All’Inter Salcedo è costato 8 milioni quando ancora il centravanti non era maggiorenne. Oggi gioca con continuità nel Verona (al quale è stato ceduto solo in prestito secco, a testimonianza della fiducia che la dirigenza

Classe 2002, l’atalantino Traorè ha esordito e pure segnato in Serie A

nerazzurra ripone in questo talento italo-colombiano). Un gol decisivo nella vittoria contro il Brescia, una buona prestazione a San Siro contro la sua Inter. Una prestazione che non è servita a strappare punti, ma che comunque non è passata inosservata agli occhi attenti dei dirigenti e dei tifosi nerazzurri che sognano di rivedere le sue gesta al Meazza. Così come è sempre uno scroscio di applausi quando Conte lancia (letteralmente) sul terreno di gioco Sebastiano Esposito, attaccante classe 2002. Anche in questo caso si tratta di un ragazzo proveniente da un altro settore giovanile (quello del Brescia) e dimostra le capacità degli scout nerazzurri. Il ragazzo di Castellammare di Stabia ha bruciato le tappe, esordendo addirittura in Champions League (procurandosi per altro un rigore contro il Borussia Dortmund, poi fallito da Lautaro Martinez) a soli diciassette anni (più precoce esordiente di Champions League o Coppa Campioni della storia dell’Inter, scalzata la leggenda nerazzurra Beppe Bergomi). Un anno prima, però, fu Spalletti ad avere il merito di farlo esordire in Europa League (Ottavi di Finale contro l’Eintracht Francoforte). Quest’anno il giovane Sebastiano è stabilmente in prima squadra, la prima scelta di Conte dopo Lukaku e Lautaro (e non solo per l’infortunio di Sanchez) e nel giro della Nazionale Under 19 (ampiamente sotto età). Insomma, come si fa a non lasciarsi prendere dall’entusiasmo e parlare di un predestinato? La Dea non sta a guardare Chi in Serie A da 2002 non solo ha esordito, ma anche segnato, è Adan Traorè, centrocampista offensivo in forza all’Atalanta. Quest’anno doveva essere la consacrazione di Hamed, classe 2000 centrocampista del Sassuolo, esploso all’Empoli l’anno scorso e di proprietà della Juventus che lo ha prestato in Emilia per farsi le ossa, come si diceva una volta. Invece il fratellino ha bruciato le tappe: sotto l’occhio attento di uno tra i mister più coraggiosi e competenti in quanto a giovani come Gaspe-

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rini, il talento di origini ivoriane ha esordito in A nel campionato in corso contro l’Udinese e trovando addirittura subito il gol (quello del 7-1) contro i friulani. E se il buongiorno si vede dal mattino... Seppur con un’altra maglia, c’è comunque un altro classe 2000 di proprietà dell’Atalanta che sta facendo faville in questo campionato di Serie A: ceduto quest’estate in prestito (anche in questo caso “secco”), Dejan Kulusevki ha già attirato attenzioni importanti. Il giovane svedese di origini macedoni è partito alla grande, dimostrando qualità e personalità ben maggiori della sua tenera età ed esperienza calcistica. E l’Inter, guarda caso, gli ha già messo gli occhi addosso. Anche in questo caso Gasperini ci aveva visto lungo, facendolo esordire in A nello scorso campionato, quando il lungimirante mister gli ha fatto assaggiare il grande calcio. Protagonista nella vittoria dei nerazzurri nel campionato Primavera 20182019, lo svedese è ormai uno dei giovani più interessanti dell’attuale campionato. Merito ancora una volta degli scout dell’Atalanta che lo hanno pescato nelle giovanili del Brommapojkarna. Il tecnico D’Aversa ormai gli ha affidato le chiavi della fantasia del suo Parma e lo svedese sta mantenendo tutte le attese (e forse sta anche andando oltre le più rosee aspettative). Tanto che la sua teorica quotazione è già schizzata ad oltre 30 milioni di euro, una cifra che comunque non ha spaventato le “Big” pronte a scommettere su di lui, convinte di poter passare presto all’incasso. Il Derby della Mole Anche il Torino storicamente è una delle società più attente è più prolifiche in tema di settore giovanile. Dunque, non sorprende che nelle file granata rientri un classe 2000 di grande prospettiva: Vincenzo Millico, attaccante nato proprio sotto la Mole, e che ha cominciato nel vivaio della Juve, ha fatto il grande salto e oggi è l’orgoglio della dirigenza granata. Nel suo palmarès già un la Coppa Italia è una Supercoppa Primavera, ma anche l’esordio in A

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Tutti pazzi per Tonali, stella del Brescia di Cellino

ed in Europa League (seppur solo nei preliminari, nei quali però ha già un gol all’attivo). Mazzarri ha deciso di aggregarlo alla prima squadra, dove può imparare da esempi come Belotti e Zaza, due che in quanto ad esperienza e determinazione hanno solo da insegnare. Nei suoi derby a livello giovanile Vincenzo ha incrociato la sua strada con un altro 2000 di grandissima prospettiva che, ironia della sorte, ha fatto il salto della barricata inverso, passando dal vivaio granata a quello bianconero. Moise Kean, ex Juventus che quest’estate lo ha ceduto all’Everton registrando una generosa plusvalenza (27,5 milioni più bonus). Anche per il talento di origini ivoriane un esordio precoce (non aveva ancora 17 anni) e le stigmate del predestinato confermate nello scorso campionato (13 presenze e 6 gol, concentrati nella seconda parte del torneo, alcuni dei quali decisivi come quello vincente nel 2-1 contro il Milan allo Stadium). Prestazioni che non pas-


sano inosservate neanche agli occhi di Roberto Mancini che lo fa esordire in Nazionale a 18 anni, fiducia che il giocatore ripaga segnando il primo gol in maglia azzurra appena compiuti 19. Qualche bizza comportamentale e le difficoltà di ambientamento in Premiership ne hanno temporaneamente oscurato la stella, ma non c’è dubbio che la sua classe e la sua potenza tornerà a risplendere. Di Ahmed Traorè, centrocampista acquistato dall’Empoli quest’estate è prestato al Sassuolo, abbiamo già detto, ma l’attenzione della Juve ai giovani è testimoniata dai risultati recenti delle sue squadre giovanili, ma anche dall’iniziativa della Juventus U23, unico club italiano a schierare una sua squadra nel campionato di Lega Pro per dare ai suoi ragazzi la possibilità di testarsi ad alti livelli e in un torneo professionistico. E da questa esperienza il club bianconero si aspetta di trarre enormi benefici, ritrovandosi presto giocatori già pronti per la prima squadra. Tra questi anche quel Lucas Rosa, terzino brasiliano classe 2000 cui abbiamo dedicato un ampio approfondimento sul numero scorso. Sognando, ovviamente, di ripercorrere le orme del connazionale Alex Sandro. Chi ha già coronato il suo sogno, invece, è Paolo Gozzi,

Millico, l’orgoglio della dirigenza del Torino

centrale classe 2001 che l’anno scorso Allegri ha fatto esordire in Serie A. In questo caso l’esempio sono Chiellini e Bonucci, ma poco cambia. Predestinati anche a Brescia, Firenze e Verona Il campionato in corso ha messo in mostra altri fulgidi talenti dal futuro assicurato. Che dire ad esempio del “nuovo Pirlo” Sandro Tonali? L’accostamento non piacerà all’interessato stesso, che invece di recente ha confidato di sentirsi un “Gattuso più tecnico” (che comunque non è certamente un “downgrade”), ma il paragone è inevitabile, vuoi per la chioma, vuoi per le movenze o per il ruolo che lo avvicinano al grande Maestro. Classe 2000, il talento nato e cresciuto a Brescia e nelle giovanili delle Rondinelle, da anni è considerato uno dei migliori mediani in prospettiva per il calcio italiano. E non a caso, la FIFA lo ha indicato tra i 50 giovani più promettenti del 2019-2020 e Roberto Mancini lo sta affiancando ai “vecchi” Barella e Sensi per rinverdire il centrocampo Azzurro. I paragoni sono inevitabili anche per un altro giovane che quest’anno si sta facendo notare e che, per sua stessa ammissione, si ispira ad attaccanti come Toni e Ibrahimovic. Accostamenti impegnativi, e forse anche rischiosi, ma l’impatto di Dusan Vlahovic, classe 2000 della Fiorentina, non può passare sotto silenzio. Esordio con doppietta in Coppa Italia e altra doppietta in campionato quest’anno nel pur deficitario 5-2 subito dai viola sul campo del Cagliari. Due gol, però, di grande fattura che hanno acceso i riflettori sul talento serbo. È italo-albanese, invece, Marash Kumbulla, nato nel febbraio del 2000 a Peschiera del Garda ed esploso quest’anno con la maglia del Verona, società nella quale è cresciuto fin dalla tenera età di 8 anni. Giovane ma già smaliziato e a suo modo “esperto”, il colosso gialloblù è già finito sul taccuino delle grandi. Si dice che la Juve si sia già fatta avanti. La Vecchia Signora è pronta a coccolare e far maturare il suo talento…

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di Gianfranco Giordano

del

LEGGENDE calcio Dasaev

Rinat Dasaev l’ultimo portiere marchiato cccp

LA CORTINA D’ACCIAIO 42


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ari, 9 giugno 1990, l’Unione Sovietica, per la prima volta senza la scritta CCCP sulla maglia, fa il suo esordio al Mondiale italiano e viene sconfitta dalla Romania. Durante la conferenza stampa post-partita l’allenatore sovietico, il mitico colonnello Lobanovskyi, indica come uno dei colpevoli della sconfitta il portiere e capitano Rinat Dasaev, uno dei più forti e ammirati portieri della storia del calcio. Rinat Fayzrakhmanovich Dasaev nasce il 13 giugno del 1957 ad Astrakhan, Russia meridionale, a pochi chilo-

del portiere. Nel 1977 Dasaev diventa il titolare indiscusso del Volgar e nel 1978 passa allo Spartak Mosca, su suggerimento di Novikov che nel frattempo era diventato vice allenatore della squadra della capitale. Il salto dalla terza alla prima serie è difficile per Dasaev, allenatore e compagni lo vedono come un ragazzo lento, impacciato e goffo in campo. L’esordio con lo Spartak avviene il 23 maggio 1978, pareggio a reti bianche sul campo dello Zorya Voroshilovgrad. A Mosca il portiere titolare è Prokhorov, ma dopo un anno in panchina Da-

metri dal Mar Caspio. Il giovane Rinat eccelle nel nuoto e nel calcio ma alla fine sceglie il pallone, gli piace giocare in attacco e sogna di segnare tante reti. Entra nelle giovanili del Volgar, la squadra della sua città. Hanno bisogno di un portiere e quando vedono questo ragazzo alto decidono che non si divertirà a fare l’attaccante, ma si impegnerà a fermare gli attaccanti avversari. Dasaev esordisce in prima squadra il 3 agosto 1975 in trasferta contro il Terek Grozny, sconfitta per 0-2. Quattro giorni dopo si rompe il menisco e chiude la stagione. L’anno successivo l’allenatore del Volgar Fedor Novikov decide di dare spazio a Dasaev, che gioca 26 partite su 40. Il lancio in prima squadra provoca alcuni problemi al “collega” Novikov. L’altro portiere è il genero di un importante personaggio politico del posto, il quale fa notevoli pressioni sulla scelta

saev diventa il titolare dello Spartak, grazie ai preziosi insegnamenti di Konstantin Beskov che tra le altre cose gli insegnerà a rinviare il pallone con le mani per impostare l’azione offensiva della squadra più velocemente. Le prestazioni del portiere di Astrakhan non passano inosservate, il 5 settembre 1979 a Mosca esordisce in Nazionale contro la Germania Est. Da quel momento Dasaev diventerà un punto fermo dell’Unione Sovietica. Nel 1980 i giochi olimpici vengono assegnati a Mosca, vetrina perfetta per la squadra di casa che ovviamente schiera Dasaev tra i pali. L’URSS viene sconfitta in semifinale dalla Germania Est e successivamente vincerà la finalina per il terzo posto. In breve, Dasaev diventa una delle colonne dello Spartak insieme a Fëdor Čerenkov. Sono loro gli uomini di fiducia di Beskov, quelli a cui l’allenatore perdona tutto, sono anche i

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LEGGENDE calcio Dasaev

Cambio 16 lo inserisce nella squadra dei belli, due che raccolgono le richieste della squadra “Ha qualcosa di tenebroso, ma ispira fiducia. e le trasmettono all’allenatore. In quegli anni Se è vero che gli uomini sovietici sono i più afc’era un ottimo rapporto tra i giocatori dello fidabili, lui ne è l’esempio. È un perfetto paSpartak, venne istituita la regola del “non bere dre di famiglia”. Questo il giudizio sul portiere mai da solo”. Quel patto di sangue ha validità sovietico. Dopo i mondiali spagnoli Dasaev è ancora oggi. La popolarità di Dasaev cresce e ormai uno dei portieri più famosi del mondo quando va in giro non passa inosservato. Un e arriva al sesto posto nella classifica del Palgiorno viene convocato alla Lubjanka, palazzo lone d’Oro, posizione che confermerà l’anno di Mosca famoso per essere la sede del KGB. seguente e per alcuni anni sarà una presenLo accoglie un membro del comitato che gli fa za costante nella classifica finale. Nonostante notare che è stato visto in una moschea in Proquesto, in patria lo Spartak vive all’ombra della spekt Mira. “Rinat, capisco tutto, ma non devi Dynamo Kiev guidata dal Colonnello che domifarti vedere nella moschea. Sei una persona na in casa e vince anche in Europa. Fallita la troppo famosa, i corrispondenti occidentali qualificazione agli europei del 1984, l’Unione potrebbero vederti e scrivere”. Queste le paSovietica si presenta in grande role che Dasaev si sente dire. In miglior spolvero ai mondiali messicani. ogni caso la punizione è molto Lobanowskyi ritorna in sella ad lieve, la consegna dell’onorifiportiere al mondo un mese dalla rassegna iridata cenza dell’Ordine del distintivo e porta in maglia rossa tutta la d’onore viene ritardata di sei presenze mesi. Ovviamente Dasaev connelle competizioni Dynamo. Ben 12 giocatori su 22 provengono da Kiev. Tra gli tinuò a frequentare le moschee. europee “stranieri” c’era naturalmente Famosa la sua abitudine di deDasaev. Dopo aver dominato il positare all’interno della porta Medaglia girone di qualificazione, l’Uniouna borsa contenente un paio di bronzo alle ne Sovietica affronta negli ottadi guanti di riserva e una copia Olimpiadi vi il Belgio. Il 15 giugno 1986, del Corano. Arrivano i Mondiali in un pomeriggio torrido nello di Spagna nel 1982, è l’occasioVice stadio di León, Lobanovskyi si ne per Dasaev di imporsi all’atcampione europeo trova davanti un altro santone tenzione del mondo. L’Unione del calcio europeo, Guy Thys, Sovietica esordisce contro il partite in Dasaev invece ha come conBrasile. I verdeoro vincono con nazionale, reti troparte Jean-Marie Pfaff, un due prodezze negli ultimi 15 subite altro portiere del calcio contiminuti, ma Dasaev impressiona nentale. I sovietici partono alla tutti per le sue parate e la sua grande, sprecano molto ma finiscono il primo sicurezza. tempo in vantaggio, nella ripresa subito una Dopo una facile vittoria con la Nuova Zelanda, clamorosa occasione sbagliata per i compagni Dasaev è di nuovo decisivo nella partita contro di Dasaev, poi arriva il pareggio belga, prima la Scozia, la sua squadra pareggia e passa al della fine ancora vantaggio sovietico e seconturno successivo. Nella seconda fase a gironi do pareggio, con un’ombra di fuorigioco, per Dasaev non subisce reti ma l’Unione Sovietica i belgi. Nei supplementari gli uomini di Thys viene eliminata dalla Polonia (decisivo il magprendono il sopravvento e vincono la partita. gior numero di reti segnate dei polacchi). Nei Rinat è all’apice della carriera, nel 1987 vince il giorni del mondiale spagnolo Dasaev riceve secondo campionato con lo Spartak e nel 1988 anche un riconoscimento particolare, la rivista

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Un’immagine recente di Rinat Dasaev - Credit Ekogradmoscow

si presenta ancora sul grande palcoscenico internazionale con la nazionale sovietica. Fase finale dei campionati europei in Germania, per Dasaev e l’Unione Sovietica è l’ultimo ballo. La nazionale sovietica vince il proprio girone, battendo anche l’Olanda, poi supera in semifinale l’Italia, i rossi giocano un calcio più pragmatico e meno spettacolare rispetto al Mondiale del 1986 e sembrano determinati a portare a casa la coppa, Dasaev è il solito muro invalicabile. Il 25 giugno a Monaco si gioca la finale, Dasaev è bravissimo a deviare una punizione di Gullit, il quale pochi minuti dopo approfitta di un errore di piazzamento della difesa sovietica per portare in vantaggio l’Olanda. Al decimo del secondo tempo succede l’incredibile, Van Basten arriva a fondo campo e lascia partire un tiro con una parabola straordinaria, Dasaev può solo stare a guardare la palla che lo scavalca e finisce in rete accarezzando la traversa, infine fa una giravolta su sé stesso come ubriacato dalla magia dell’olandese. Nonostante la beffa di Monaco il portiere sovietico viene nominato portiere dell’anno per il 1988. I tempi cambiano, in Unione Sovietica è al potere Gorbaciov e soffia il vento della perestrojka, il regime decide di riformare il calcio nazionale, i club diventano professionistici e i giocatori sono liberi di andare a giocare all’estero. I primi ad emigrare sono Dasaev al Siviglia e Kidjatullin al Tolosa, entrambi giocano nello Spartak. In realtà i giocatori vengono svenduti per una manciata i

soldi e loro, privi di procuratori e di conoscenza sul mondo del professionismo sportivo, firmano contratti molto poveri. Il Siviglia versa al governo sovietico una cifra di circa due miliardi di lire, mentre al portiere viene accordato uno stipendio di un milione e mezzo di lire, uno stipendio che non gli consente di portare la moglie e la figlia con sé. Dopo una prima stagione positiva, comincia il declino di Dasaev causato anche dalla vodka con cui cura la solitudine. Bari, 9 giugno 1990, mancano pochi minuti alle cinque della sera, Dasaev entra in campo per la partita d’esordio di Italia 1990. Fa una buona partita e para con sicurezza i palloni indirizzati verso la sua porta. Incassa una rete nel primo tempo senza colpe, errore della difesa che lascia libero un giocatore avversario, e un gol nella ripresa, rigore inventato dall’arbitro per un fallo di mano nettamente fuori area. Dopo la partita Lobanovskyi, che mal sopporta i suoi giocatori che militano in club esteri, approfitta della situazione per estromettere il suo portie-

IL PENSIERO DI ALEJNIKOV

Sia sulle palle alte, grazie alla sua altezza, che sui palloni rasoterra Dasaev era il padrone assoluto dell’aerea piccola, quando il pallone passava dalle sue parti era facile preda. Rapido nei lunghi rinvii con le mani, il suo marchio di fabbrica, faceva ripartire subito la squadra con rapidi capovolgimenti di fronte. Ottimo senso della posizione, era sempre attento sui tiri da lontano e pronto ad uscire sull’avversario nella distanza ravvicinata. Mai portato all’esagerazione, si faceva notare più per il colore giallo della sua maglia che per la spettacolarità degli interventi. Lo sa bene Sergej Alejnikov, suo compagno di nazionale per tanti anni: “Con Dasaev alle spalle stavi tranquillo. Se sbagliavi, sapevi che lui ti toglieva dai guai. Non era un grande chiacchierone ma sapeva fare il suo mestiere al meglio. Se avessimo vinto gli Europei, anche la sua carriera sarebbe cambiata…”.

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del

LEGGENDE calcio Dasaev

re dalla squadra. Bari, 9 giugno 1990, sono da poco passate le sette della sera e la carriera di Rinat Dasaev è finita. Alla ripresa dell’attività dopo Italia 1990 si fa male a una mano in un incidente d’auto causato dall’alcol e perde il posto in squadra. Successivamente rifiuta un trasferimento all’estero e viene definitivamente estromesso dalla rosa. Rimasto senza contratto apre un negozio, subito gli affari

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vanno bene ma poi l’attività fallisce. Intanto al Siviglia arriva Luis Aragones che lo chiama nel suo staff tecnico come allenatore dei portieri, quando Aragones lascia il club Dasaev è di nuovo senza contratto. Sopraffatto da depressione e alcol, lasciato dalla moglie, sparisce e di lui nessuno sa più nulla. Nel 1998 Sergey Emelyanov, giornalista della Komsomolskaya Pravda, decide di chiedere aiuto al cestista


La finale di Euro 1988 persa con l’Olanda è un grande rammarico per Dasaev Credit Foto Liverani

Jose Biryukov (nato in Russia da padre russo e madre spagnola, ha giocato prima nella Dynamo Mosca e poi nel Real Madrid) che aveva rilasciato un’intervista al giornale poco tempo prima. Biryukov si mette all’opera e riesce finalmente a creare un contatto con Dasaev. Dopo lunghe trattative telefoniche Emelyanov vola a Malaga, dove l’ormai ex portiere vive in condizioni alquanto misere, con lui ci sono il fratello e il cugino di Dasaev oltre al presidente del Volgar. Rinat, che all’inizio non voleva tornare a casa, viene persuaso a prendere l’aereo con loro e tornare ad Astrakhan. Una volta tornato in patria, con l’aiuto di vecchi amici, Dasaev riesce a ricominciare una vita normale,

riprendendo l’attività di allenatore dei portieri con Spartak e nazionale russa. Tra una sessione di allenamento e una partita di vecchie glorie a cui non si sottrae mai, Dasaev è stato anche protagonista di uno spot pubblicitario. Rinat è seduto in salotto e guarda in televisione una vecchia partita nella quale è protagonista con parate strepitose. La maglia indossata in quella partita è conservata in un quadro, ancora sporca “di campo”. Dasaev prende il cimelio sporco, lo lava e infine lo esibisce pulito e immacolato grazie alle magie del detersivo Ariel. Un piccolo aneddoto che evidenzia quanto Dasaev sia ancora popolare ancora in Russia.

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Alla scoperta dei segreti della casacca del Borussia Dortmund…

NATI A BORSIGPLATZ

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l calcio arriva nella regione della Ruhr alla fine del XIX secolo, quando alcuni studenti di un liceo della città di Witten fondano il Wittener Fußballclub 1892 e.V. Tre anni più tardi nasce il Dortmunder SC 95, primo club della città di Dortmund, che si scioglie dopo soli due anni di attività e viene rifondato nel 1899, i membri del club provengono dalla

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zona meridionale della città e sono di estrazione borghese. Nel novembre del 1901, nella zona nord est della città, la comunità della Chiesa della Trinità fondò un’organizzazione giovanile, al fine di integrare i giovani immigrati polacchi nel tessuto sociale protestante. I membri dell’organizzazione erano principalmente operai e minatori che, oltre a parteci-


pare alle attività della chiesa, si cimentavano nella ginnastica e nell’atletica, gli sport allora più praticati in Germania. A partire dal 1906, sul campo di Weißen Wiesen, nella zona della Borsigplatz, si cominciò a giocare regolarmente a calcio la domenica pomeriggio. Il parroco Hubert Dewald non aveva però simpatia per questo nuovo gioco duro e selvaggio e istituì una funzione religiosa supplementare la domenica pomeriggio, con lo scopo di boicottare le partite di calcio. Il 19 dicembre 1909 una quarantina di membri ribelli della chiesa si riuniscono presso il ristorante Zum Wildschutz in Oesterholzstraße 60, al fine di fondare una squadra di calcio indipendente, Hubert Dewald si precipita sul posto per impedire la riunione ma viene scacciato, ottenendo il solo risultato di sfoltire il numero di partecipanti. Rimangono 18 calciatori che fondano il loro club, al momento di decidere il nome della squadra l’attenzione dei soci viene attratta da una vecchia pubblicità della birra Borussia, quello sarà negli anni a venire il nome ufficiale. Borussia è la denominazione latina della Prussia e il Dortmunder Borussia-Brauerei era un birrificio attivo in città, in Steiger Straße, tra il 1885 e il 1901, la birra era ovviamente molto popolare tra minatori e operai. Il Ballspielverein Borussia (BVB) era ufficialmente nato, il nuovo club aveva un campo regolare e anche una sezione di atletica, i giocatori del Borussia continuarono a riunirsi ogni domenica al Weißen Wiesen per giocare tra di loro oppure contro altre squadre amatoriali. In quegli anni tumultuosi per il calcio, quasi ogni giorno venivano formate delle nuove squadre, la Federazione Calcio della Germania Occidentale (WSB), nulla a che vedere con la Germania Ovest post bellica, si vide costretta a bloccare le nuove iscrizioni per motivi logistici e organizzativi. Il BVB aggirò l’ostacolo iscrivendosi con la sezione di atletica, 19 giugno 1910, e il 3 dicembre 1910 venne associata anche la sezione calcio. Il Borussia giocò la sua prima partita ufficiale il

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15 gennaio 1911, roboante vittoria 9-3 contro il Vfl Stuttgart, la divisa era composta da maglia a strisce verticali biancoblù con collo bianco a girocollo chiuso da laccetti (al tempo ogni giocatore provvedeva alla propria divisa e alcuni giocatori avevano la maglia con il collo blu), pantaloncini e calzettoni neri, sulla maglia una vistosa sciarpa rossa in diagonale a significare che i giocatori erano tutti dei lavoratori. Dopo un periodo di sole amichevoli, ili Biancoblù iniziano la stagione 1911/12 nella CKlasse, il livello più basso del tempo, partita inaugurale il 10 settembre 1911 a Rauxel contro il Turnerbundes, vittoria per 1-0. Il Borussia vince il campionato e viene promosso in BKlasse e la stagione successive chiude al terzo posto. Alla fine della stagione tre club di Dortmund che non avevano l’iscrizione alla federazione si sciolsero, si trattava di Dortmunder Vereine Rhenania, Britannia e Deutsche Flagge der Borussia, e vennero assorbiti dal Borussia. Da questa fusione il BVB vede un notevole aumento di soci, da 13 a 40, e soprattutto l’adozione dei colori giallo e nero del Britannia. Questi erano i colori cittadini, aquila nera su sfondo oro, lo stemma imperiale, ai tifosi piace sottolineare che il giallo e il nero sono i colori dei due principali prodotti locali, ovvero la birra e il carbone. Nella stagione 1913/14 il Borussia, con la nuova divisa composta da maglia giallo scuro con collo a camicia chiuso da laccetti abbinata a pantaloni e calzettoni neri, vince il campionato e viene promosso. Nella stagione 1914/15 i Giallo-

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neri giocano in A-Klasse, il massimo livello di calcio regionale, prima che la guerra fermi l’attività agonistica. Dopo il conflitto riprendono i campionati, il Borussia è ancora impantanato nei livelli regionali. Nel 1924 il club dovette rimodernare il campo di Weißen Wiesen costruendo nuovi spogliatoi, la biglietteria, un muro di recinzione e nuove tribune, alla fine dei lavori in agosto la capienza era di diecimila spettatori. Nella stagione 1926/27 il BVB arriva nella 1 Bezirksklasse, massimo livello del calcio regionale, ma viene subito retrocesso, i giocatori negli anni 20 indossano maglia giallo ambra con collo a camicia chiuso da laccetti, pantaloncini neri e calzettoni neri con bordini gialli. Il Borussia approda nuovamente in 1 Bezirksklasse nella stagione 1930/31, negli anni 30 i calzettoni diventano gialloneri a righe orizzontali sottili. Nel 1933 il calcio tedesco viene riorganizzato con la creazione della Gauliga, un sistema di sedici campionati regionali che promuovono i rispettivi vincitori alla fase finale per il titolo nazionale. I Gialloneri approdano alla Gauliga nella stagione 1936/37, in questa stagione la maglia è gialla con collo a V impreziosita dallo stemma sociale sul petto, pantaloncini e calzettoni rimangono invariati. Nel 1937 l’azienda mineraria Hoesch AG si ampliò in vista dell’imminente conflitto bellico, le autorità obbligarono il Dortmund a lasciare Weißen Wiesen all’azienda e il club si trasferì nello stadio di Rote Erde, un impianto da 30.000 posti nella zona meridionale della città, utilizza-


to anche da altre squadre. Il trasloco non ebbe un buon influsso sul club che, tolto dalla sua zona originaria, si vide privato dei campi di allenamento delle squadre giovanili e inoltre dovette adattarsi a versare l’8% degli incassi alla proprietà dello stadio. Dopo i primi tempi problematici, alla fine il club trasse giovamento dal nuovo impianto e dalla notevole capienza delle tribune. Fino alla stagione 1943/44, il Borussia venne inserito nella Gauliga Westfalen ma non arrivò mai alla fase finale pur ottenendo piazzamenti di rilievo, subendo la supremazia dei rivali dello Schalke 04 nella fase regionale. La stagione 1944/45 venne interrotta a causa del tracollo della Germania nazista e delle fasi finali del conflitto mondiale, il calcio riprese l’attività nella stagione 1945/46 e il BVB venne inserito nella LandesLiga Westfalen, nuova denominazione del campionato regionale. I Gialloneri indossano una maglia gialla con collo a camicia chiuso da laccetti, pantaloncini neri e calzettoni neri con risvolto giallo. La stagione successiva il Borussia è campione di Westfalia, battendo in finale lo Schalke 04, ma non si qualifica per le finali nazionali. Per la stagione 1947/48 i Gialloneri vengono inseriti nella Oberliga West, altra nuova denominazione dei gironi, vince il gruppo ma non si qualifica per le finali regionali, la stagione successiva il Dortmund vince nuovamente il girone e si qualifica finalmente per il girone nazionale dove arriva fino alla finale, perdendo per 3-2 contro il Mannheim ai supplementari, in questa stagione la divisa è composta da maglia gialla con collo a camicia nero chiuso da laccetti, pantaloncini neri e calzettoni neri con doppio bordino giallo. Nelle stagioni 1951/52 e seguente maglia gialla con collo nero a girocollo chiuso da laccetti, due versioni di maglia una con elegante V nera sul petto e una senza. Nella stagione 1953/54 compare una maglia più moderna sempre giallo intenso ma con un collo a V nero, i pantaloncini sono neri e i calzettoni gialloneri a righe, con questa di-

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visa il Borussia vince il titolo nazionale per la prima volta nella stagione 1955/56 e si conferma nella stagione seguente. Ormai il BVB è una presenza stabile ai piani alti del calcio tedesco, nel 1962/63 arriva il terzo titolo di campione nazionale e una finale di coppa persa contro l’Amburgo, la stagione seguente i Gialloneri saranno protagonisti di una brillante campagna europea, chiusa in semifinale contro i futuri campioni europei dell’Inter. La gloria europea arriva il 5 maggio 1966 a Glasgow dove il Dortmund, prima squadra tedesca a trionfare in una coppa europea, batte il Liverpool 2-1 dopo i supplementari, per l’occasione i tedeschi indossano una maglia completamente gialla con collo a V, pantaloncini neri e calzettoni gialli. Per tutto il decennio la divisa è composta da maglia gialla con collo nero, a girocollo oppure a V, nel 1968/69 per la prima volta compare il logo del fornitore, la tedesca Erima al tempo una delle aziende leader nell’abbigliamento sportivo in Germania, il logo è molto piccolo e discreto e si vede appena sulle maglie. Alla fine della stagione 1971/72 il Borussia viene retrocesso e comincia una crisi finanziaria che porta il club ad un passo dal fallimento, sarà la città di Dortmund a salvare la squadra. Negli anni 60 il terreno di Rote Erde cominciò a diventare troppo piccolo per il Borussia e i suoi successi, ma sia il club sia la municipalità di Dortmund non avevano i soldi necessari alla costruzione di un nuovo stadio. Dortmund divenne città sede delle partite del mondiale del 1974, al posto di Colonia, e venne costruito un nuovo stadio i cui lavori cominciarono nel

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1971. Il 2 aprile 1974 venne ufficialmente inaugurato il Westfalenstadion, unico impianto destinato ai mondiali che vedeva impegnata una squadra di 2Bundesliga. A partire dalla stagione 1974/75 il Borussia venne vestito dalla Adidas, che nel frattempo aveva acquisito la Erima, sulle divise rimaste nel classico stile comparvero le tre strisce del fornitore, la stagione seguente per ringraziare la città il club decise di inserire la scritta DO, la sigla automobilistica di Dortmund, sulle maglie, in questa stagione i Gialloneri si classificarono al secondo posto e ottennero la promozione in Bundesliga. Nonostante il nuovo stadio e il ritorno in massima serie i problemi finanziari rimanevano, il Borussia accettò un contratto biennale di sponsorizzazione con la fabbrica di tabacco olandese Samson, il contratto prevedeva oltre alla comparsa del nome dello sponsor sulla maglia, primo vero sponsor commerciale del club, anche l’inserimento di un leone nello stemma sociale. I tifosi non accettarono di buon grado il cambiamento dello stemma sociale e divenne popolare il coro “Otto, lascia andare i leoni”, si faceva riferimento all’allenatore Otto Rehhagel, allenatore molto vincente e popolare in Germania e successivamente campione d’Europa con la nazionale greca. In queste prime due stagioni in Bundesliga le maglie sono fornite dalla Adidas, marchiate Adidas o Erima, con un disegno molto semplice in linea con gli anni passati. Finita la sponsorizzazione tanto criticata con la Samson, nel biennio 1978/79 e seguente lo sponsor è la ditta di vernici Prestolith, il logo dello sponsor è in rosso su fondo giallo, un


ottimo colpo d’occhio. Le divise sono fornite sempre dal colosso tedesco con alternarsi dei due marchi, maglia gialla con collo a camicia nero chiuso davanti da un triangolo sempre nero, pantaloncini neri e calzettoni gialli con bordini neri. La prima metà degli anni 80 vede i Gialloneri languire nella seconda metà del tabellone, il fornitore propone delle maglie in stile gessato con colletto a camicia. Dal 1985/86 la fornitura avrà solo il marchio Adidas e ci sarà un solo tipo di divisa per tutta la stagione, in precedenza il fornitore dava al club diversi tipi di maglie durante la stagione, in base al clima e alla produzione. In questa stagione il BVB sfoggia una bellissima maglia di un giallo intenso con due sfumature di colore, purtroppo i risultati sportivi non sono all’altezza della divisa, la squadra termina il campionato al sedicesimo posto in classifica e si salva dalla retrocessione solo agli spareggi con la terza classificata in 2 Bundesliga, il Fortuna Köln. Nella stagione 1990/91 il Borussia si lega alla statunitense Nike per la fornitura dei kit, la casa di Portland propone una divisa innovativa composta da maglia giallo fluo con maniche nere e bianche, pantaloncini neri con inserti giallo fluo e calzettoni gialli, inutile dire che la scelta del giallo fluo provoca critiche e malumori tra i tifosi. La Nike fornisce il club della Ruhr per tutti gli anni 90, in questo decennio arrivano una finale di Coppa UEFA, persa contro la Juventus nel 1993, una vittoria in Champions League nel 1997, finale nuovamente contro la Juventus, e una Coppa Intercontinentale sempre nel 1997 contro il Cruzeiro. Con il nuovo millennio il Borussia decide di produrre in proprio le divise e il materiale d’allenamento lanciando il marchio Gool.de, primo esempio di club a fondare un proprio marchio. Le divise autoprodotte vestiranno la squadra dal primo luglio 2000 al 30 giugno 2004, si trattava di maglie più tradizionali rispetto al recente passato. Il marchio Gool.de non ebbe il successo sperato e il progetto venne accantona-

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to, dalla stagione 2004/05 si ritornò alla Nike fino al 2009 e successivamente alla torinese Kappa e dal 2012 alla Puma. In questi anni si vedono alcune maglie dal disegno a dir poco stravagante. Per i primi decenni il Borussia non ha avuto bisogno di una maglia riserva, la sua maglia gialla non aveva emuli. A partire dagli anni ‘70 è stata introdotta una maglia rossa con bordi bianchi, resa necessaria soprattutto per le partite di coppe europee. A partire dagli anni ‘90 c’è stata una varietà di colori, ma la magia rossa periodicamente ritorna. I portieri del Borussia hanno indossato quasi sempre maglia nere fino agli anni ‘80, molto belle le maglie degli anni 60/70 con i bordi gialli. Successivamente secondo le mode dettate dagli sponsor commerciali non c’è più stato un colore di riferimento. Negli anni a ridosso della prima guerra mondiale compaiono le maglie gialle impreziosite da una B nera sul petto, primo esempio di logo per il club. Nel 1936 compare sulle maglie uno stemma rotondo giallo con bordo nero che racchiude il monogramma BVB 09, questo stemma resterà sulle maglie fino al 1950 e, con diversi ritocchi stilistici, sarà lo stemma che arriverà ai giorni nostri. Lo stemma sociale riappare nella stagione 1976/77, è il controverso leone dello sponsor commerciale Samson, dopo due stagioni la sponsorizzazione termina e il logo sulla maglia viene accantonato. Dalla stagione 1982/83 lo stemma ritorna sulle maglie in maniera definitiva. Nel catalogo HW del Subbuteo il Borussia Dortmund compare con tre diverse numerazioni: numero 6, la divisa classica con maglia gialla con bordi neri accompagnata da pantaloncini neri e calzettoni gialli con bordo nero; la numero 211 a proporre un disegno più moderno con le strisce contrapposte su maniche e pantaloncini; nel mezzo la numero 134, un’inspiegabile divisa composta da maglia gialla e pantaloncini verdi, chissà cosa avevano visto nel Kent.

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SPECIALE

Italiani all’estero di Sergio Stanco

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Un calcio di-Vino

Incontriamo Fabio Cordella, ex promessa del calcio italiano e Direttore Sportivo, tra le altre, di Lanciano e Honved Budapest, che ha dato vita ad una curiosa iniziativa che sta riscuotendo grande successo.

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uello che ci riconoscono all’estero è una grande inventiva, una creatività fuori dall’ordinario e un’altrettanta straordinaria capacità di trarre il massimo dalle situazioni più complicate. L’arte di arrangiarci, ci verrebbe da dire. Ma in senso positivo. Cioè quella forza e determinazione nel tirarci fuori dai guai, nel non arrenderci mai, nel rinascere sempre. E la storia che vi stiamo raccontando, di fatto ne è l’emblema: perché se nasci promessa del calcio, e da un giorno all’altro ti ritrovi “zoppo” quando stai per affacciarti al professionismo, rialzarsi è dura. E quando ce la fai e ti rilanci sotto altra veste, come quella di Direttore Sportivo, portando a casa risultati eccezionali, ma venendo ancora una volta tradito, reinventarsi rischia di essere una “mission impossible”. E invece è proprio quando il gioco si fa duro che i duri cominciano a giocare. Questa è la storia di Fabio Cordella, un predestinato del calcio prima, un Direttore Sportivo apprezzato poi e oggi un imprenditore che fa parlare di sé in

tutto il mondo. Se non fosse che lo stanno già facendo, ci sarebbe da scriverci un libro. E allora ecco a voi una personalissima anticipazione: “Sono nato in Puglia - ci racconta Fabio – a Bari, ma sono cresciuto in Salento. Da piccolo il calcio non mi entusiasmava, giocavo soprattutto per strada, anche perché già allora vedevo situazioni che non mi piacevano, tipo che giocava sempre il figlio di tizio, che sponsorizzava la squadra. Sono finito a giocare a calcio solo per-

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Speciale

Italiani all’estero ché ci giocava già mio fratello, ma facevo più panchina che altro. La strada però mi aveva insegnato tanto ed ero uno sveglio. Così, prima di una partita avevo saputo che c’erano osservatori del Galatina, che allora disputava il campionato di C2 ed era una società molto ambiziosa. Erano venuti a vedere il nostro portiere Mimmo Conte. Sono entrato gli ultimi 10’ e ho segnato due gol, ribaltando il risultato. Due gol da fenomeno. I dirigenti del Galatina dissero al nostro dirigente Mario Guida che chiudevano l’affare solo se oltre al portiere avesse inserito anche me nel pacchetto. Finisco al Galatina, avevo solo 11 anni, ma mi aggregano ai giovanissimi regionali, gente più grande di me di due o tre anni; d’altronde nella mia pur breve carriera ho sempre giocato sotto età. Al Galatina vengo notato dagli osservatori della Reggiana, che decidono di acquistarmi. Il Presidente era Dal Cin, figura che poi si è rivelata fondamentale per me. Gioco bene, finisco nelle nazionali giovanili e tutti cominciano a parlare di me. Mi mandano a Palazzolo in prestito, ma prima di iniziare la stagione in un controllo di routine mi trovano

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una ciste nella parte posteriore del ginocchio. Mi opero. Doveva essere una cosa di routine, mi rovinano la vita. Perdo la sensibilità del piede. Cerco comunque di rientrare, ma giocavo solo grazie agli antidolorifici. Prima di finire la stagione il dottore scopre tutto e addio idoneità medica. La carriera professionistica finisce ancor prima di iniziare. A 17 anni, posso giocare solo in Interregionale, ma anche se facevo la differenza pure con un piede solo, i dolori non mi danno tregua. Son costretto a cambiare vita”. Una botta per chiunque: dall’essere un predestinato, il possibile campione del futuro, a doversi reinventare. Fabio, però, non si perde d’animo: “Mi metto a studiare, vado a Miami e faccio corsi di Sport Management. Mi dicevo: “Se non posso fare la differenza in campo, la farò dietro una scrivania”. E così ci do dentro come un forsennato. In realtà, col passare degli anni il calcio rimane sullo sfondo, come passione. Intanto mi costruisco una carriera in multinazionali che con il calcio non hanno nulla a che vedere. Poi, come spesso capita, ci si mette il destino. Checco Moriero, cui mi lega un’amici-


zia di vecchia data, prende il patentino da allenatore, viene da me e mi fa: “Ora mi manca solo la squadra. Trovamela”. Io pensavo che scherzasse, invece era serissimo. Checco vuole una nazionale di medio livello per cominciare, così mi metto a contattare tutte le federazioni del Centro e Sudamerica. Il problema era che Moriero era conosciuto da calciatore, ma il curriculum da mister era praticamente nullo. Mi rispondono comunque Honduras, Portorico e Panama. Valutiamo e scegliamo Panama, perché era già un movimento in crescita, come poi ha dimostrato la qualificazione ai Mondiali di Russia. Noi, però, parliamo del 2006, quando ancora la situazione era molto diversa. Tuttavia, la Federazione ha intenzioni serie e ci fa una buona offerta. Accettiamo. Partenza prevista da Brindisi. Moriero non si presenta. Introvabile. Mi suona a casa cinque giorni dopo e mi confessa la sua fobia di volare: “Tredici ore di volo, Fabio, sarei morto su quell’aereo”, mi dice. Rifacciamo tutto da capo, ma accorciamo le distanze. Puntiamo sulle nazionali africane. Massimo cinque ore di volo. Ci risponde la Costa d’Avorio.

Andiamo a Nizza a fare un colloquio con il Presidente della Federazione, siamo in lizza con Stielike, campione della Germania degli Anni ‘80. Il colloquio dell’allenatore tedesco dura dieci minuti, noi parliamo due ore. Pensavo fosse fatta ma alla fine della riunione il Presidente ci fa: “Mi dispiace ma abbiamo già offerto un contratto a Stielike”. Pensavo di essere su scherzi a parte, ma poi continua: “Però mi avete convinto. Che ne dite di venire ad allenare comunque in Costa d’Avorio? Ci offre la panchina dell’Africa Sports. È il club più noto della Costa d’Avorio, nonché quella del Primo Ministro”. Faccio un sopralluogo e vedo strutture da Serie A italiana. Strappo un contratto bomba e chiamo Moriero in piena notte. Creo lo staff e tutto. Poi il Presidente mi chiama: “Vogliamo te come Direttore Generale”. Come facevo a dirgli che in realtà io mi occupavo di tutt’altro? Sto per rifiutare, quando quella che oggi è mia moglie, Titti, mi guarda e dice: “Ti hanno tolto il calcio quando eri ragazzino e ora che ti offrono un’altra possibilità che fai, rinunci?”. Partiamo tutti per la Costa d’Avorio e riportiamo il club al titolo dopo 15

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Speciale

Italiani all’estero anni. A Moriero offrono la panchina del Lanciano e io lo seguo. Facciamo i miracoli nonostante una situazione societaria a dir poco precaria. Arriviamo quinti, ma l’anno dopo la situazione precipita e do le dimissioni. Mi ritrovo senza squadra e senza lavoro. Vengo convocato a Treviso dall’allora Presidente Setten, ma proprio a Treviso, per puro caso, incontro il Direttore Dal Cin. Mi dice che stanno pensando di acquistare un club in Belgio. Il primo tentativo non va a buon fine, ma poi riescono a chiudere per il Royale Union Saint-Gilloise, un club storico. Il Direttore mi offre l’incarico e riparto per il Belgio. Facciamo bene, creiamo un buon network con le società italiane, scoviamo talenti sconosciuti e li rivendiamo con ottime plusvalenze. Vengo contattato di nuovo da Setten, mi dice che pensano di comprare un club in Ungheria. Mi chiedono di andare a fare una due diligence al Vasas, ma sconsiglio l’acquisto. Torno in Belgio e un giorno ricevo una mail. È il Presidente dell’Honved che, proprio su consiglio della dirigenza del Vasas, vorrebbe affidarmi il club. Chiamo Dal Cin e praticamente è lui a mettermi sull’aereo. Vado in Ungheria e in cinque minuti troviamo l’accordo. Il primo anno, nel 2012, con un allenatore ungherese arriviamo quarti, riportando la squadra in Europa League dopo anni. Il Presidente, un magnate americano che non aveva voglia di perdere tempo, mi dice di trovare un allenatore italiano. Propongo Moriero, ma Checco non parlava inglese. Ricevo una telefonata da Marco Rossi, l’attuale tecnico della Nazionale ungherese. Scocca l’intesa e lo porto a Budapest insieme ad un sacco di giocatori più o meno sconosciuti che fanno la fortuna di club e allenatore. Mi riempiono di critiche perché Rossi ha fatto solo Lega Pro in Italia e i giocatori che arrivano li conosco solo io. Con il budget che avevo, però, non potevo fare miracoli. Nel 2016/2017 l’Honved rivince il campionato dopo 24 anni di astinenza: in panchina c’era ancora Marco Rossi e in campo ancora tutti giocatori che avevo portato io, tra i quali anche Davide Lanzafame, che si rivelò fondamentale per il

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Buffon, Zamorano, Ronaldinho e non solo Fabio Cordella ha davvero intenzione di creare una vera squadra di calcio. Ormai sono tanti i calciatori che hanno deciso di seguirlo in questa sua “pazza” avventura. Di Buffon, Zamorano, Sneijder e Ronaldinho, storici compagni di avventura, abbiamo già detto, così del recente nuovo acquisto Roberto Carlos. Ma una squadra di calcio è composta da almeno undici giocatori più mister e Fabio annuncia presto grandi novità: “Non posso dire nulla, ma puntiamo a grandi acquisti”. Per ora la formazione è a trazione anteriore, perché davanti ci sono Zamorano, Ronaldinho e Sneijder, ma anche Fabrizio Miccoli. Dietro, Fabio ha pensato di affidare le fasce a Candela e Roberto Carlos. Insomma, manca un po’ di filtro, ma quando in porta hai uno come Gigi Buffon puoi stare più che sereno. E fuori dal campo la sicurezza è affidata a Clemente Russo, ex campione di pugilato che ci ha regalato grandi soddisfazioni alle Olimpiadi di Pechino e Londra. Ma come detto, il calciomercato è tuttora aperto. E presto ci saranno grandi novità, ne siamo certi. “Sin da ragazzino partecipavo con curiosità alle attività di vinificazione di mio nonno Totò (cui ho dedicato una delle mie bottiglie di vino rosso) e di mio padre, che mi hanno tramandato passione ed insegnamenti. Ho sempre “respirato in casa” la passione per il vino (e anche per l’olio) prodotto in modo artigianale e nel rispetto della qualità, esattamente come si faceva un tempo. Certo, la collocazione geografica della mia terra è di grande aiuto: il Salento (brand in continua ascesa) possiede una varietà notevole di cultivar vitivinicole autoctone (tra cui spicca il Negroamaro, il Primitivo, la Malvasia Nera e Bianca, la Verdeca) ma anche Chardonnay, Merlot, Montepulciano d’Abruzzo ed altri ancora. Questo territorio ed il comparto vitivinicolo, posseggono un grande potenziale di quantità, qualità e varietà di produzioni che rappresentano un unicum nel panorama europeo”. E per fare una grande squadra, c’è bisogno di grandi vini.


titolo”. E pensate che Fabio va ad un passo da far rivestire la 10 che fu di un certo Puskas ad un altro grandissimo campione: “Per Del Piero è mancato davvero poco, ma non abbiamo fatto in tempo a garantire le fideiussioni e così è andato in India. L’investimento si sarebbe ripagato solo con il merchandising. Ho provato anche con Ronaldinho, ma poi gli è arrivata un’offerta dal Messico che non potevamo pareggiare”. Contatti, però, che sono tornati utili successivamente, come vedremo. La facciamo breve: il nome del Direttore Cordella torna a circolare in Italia e arriva un’offerta. Non diremo la società che gli chiese di dimettersi dall’Honved salvo poi sparire al momento di mettere nero su bianco. Di fatto, però, ancora una volta Fabio è costretto a ricominciare da capo: “Un giorno ero sul divano e mi sono detto: “Se non me la fanno costruire una squadra, me la faccio da solo”. Da qualche anno avevo riavviato l’attività di mio nonno, che aveva dei vigneti e produceva vino in Salento. Fondo la Cantina Fabio Cordella. Chiamo Silvano Martina, procuratore di Buffon, e gli spiego la mia idea. Ricordo ancora la sua risposta: “Tu sei pazzo,

ma Gigi più di te, potrebbe piacergli”. Il giorno dopo siamo a Torino e Gigi non solo accetta, ma ne è entusiasta. Così produciamo il primo vino Buffon. Da allora abbiamo cominciato a comporre la nostra squadra. Dopo il portiere, abbiamo pensato al centravanti. Per me il 9 è uno solo: Ivan Zamorano. Poi Snejider. L’ultimo acquisto? Un certo Roberto Carlos”. Una pazzia di cui ora parla tutto il Mondo, anche perché Fabio ha trovato un testimonial d’eccezione: “Produciamo tantissime etichette e l’attenzione dei media è incredibile. Abbiamo ricevuto qui da noi la CNN e il Sun. Abbiamo trovato l’accordo per commercializzare i nostri vini in tutti i duty free americani. Quando Ronaldinho è venuto in Salento avevamo cinquemila persone fuori dalla cantina”. Già, proprio Ronaldinho, il numero 10 per eccellenza. Che, forse, però, presto avrà concorrenza in casa. “Recentemente ti abbiamo visto in una foto abbracciato a Diego, non è che...”, gli chiediamo: “Magari, sarebbe un sogno”, ci risponde con un sorriso sornione Fabio. Più di un indizio se arriva da uno che i sogni li realizza per davvero...

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INtervista

Federico Buffa

di Fabrizio Ponciroli

Un affresco, bellissimo e toccante, di Riva, il più grande bomber della storia del calcio italiano…

Federico Buffa racconta Gigi Riva

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igi Riva è un monumento del calcio italiano. Le sue gesta, principalmente con la maglia del Cagliari, sono incastonate nella mente di ogni tifoso del calcio, quello vero e puro. Federico Buffa, narratore di elevatissima cultura, ha confezionato una mini serie, in due puntate, dedicate a Rombo di Tuono. Alla presentazione ufficiale alla stampa, nel suggestivo Cinemino di Milano, era presente anche Calcio2000. L’occasione giusta per farci raccontare l’inarrivabile Gigi Riva direttamente da Federico Buffa… Federico, l’emozione di aver raccontato una leggenda come Gigi Riva… “Innanzitutto è stato un privilegio… Io racconto solo storie che vorrei ascoltare. Non mi chiedono di narrare storie che non mi piacciono. In

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Credit Foto: Liverani

questo caso, c’è anche una forte componente personale, considerato che parliamo di un uomo che ha segnato buona parte della mia infanzia e adolescenza”. Immediato scatta il ricordo, assolutamente personale, di Federico Buffa: “Io facevo impazzire i miei genitori per andare a vederlo, ovunque fosse. Eravamo vicini di casa. Io andavo sempre a San Primo, sotto casa sua, soltanto per poterlo vedere. Lui si affacciava sulla terrazza per fumare e a me bastava quel singolo momento. Non avrei mai pensato di raccontare la sua storia 50 anni fa…”. Evidente la “partecipazione emotiva” di Federico Buffa al documentario “L’uomo che nacque due volte”. Durante la messa in onda del primo episodio, Federico lascia la stanza del cinema. Poi, al momento


“Gigi Riva: l’uomo che nacque due volte” è una produzione originale di Sky Sport ed è disponibile On Demand su Sky di parlare con i giornalisti, chiede informazioni: “L’hanno tenuta la parte su Amsicora? Quella era potente…”. Rassicurato sulla bontà del lavoro svolto, si torna a parlare di Gigi Riva… Che difficoltà hai incontrato a trattare un personaggio così enorme ma anche tanto spigoloso? “La più grande difficoltà è stata pensare che, nel pubblico che ascolta queste storie, ci sono dei 15enni. Addirittura, anche più piccoli d’età. Cosa dici a ragazzini così giovani di un giocatore di 50 anni fa? Quali sono le leve che possono interessare ad un pubblico così giovane? Ritengo che ci siano delle componenti importanti come il saper reagire al destino avverso e la storia di Gigi Riva è emblematica di tutto questo. Lui ha saputo reagire alle contrarietà”. Gigi Riva è uno di quegli sportivi che ha lasciato un segno… “Io credo che gli sportivi non si rendano conto di quanto possano essere di esempio. Io non credo alle maglie con i numeri dietro, io credo a cosa uno sportivo ispira, soprattutto nei luoghi diseredati del mondo. Sapere che su una spiaggia di Mogadiscio c’è un uomo che ha perso la gamba destra e gioca a calcio solo con la sinistra e che non potrebbe giocare se non avesse la maglietta contraffatta di Messi sulle spalle, questo mi interessa”. Ci sono stati altri progetti così coinvolgenti? “Tutte le storie che racconto sono impegnative e coinvolgenti. A volte vorresti essere più distaccato. Onestamente, ci sono state due o tre storie, come Grande Torino, dove ti commuovi sul set… Non credo che non ci siano storie simili nell’oggi. Riva e Scirea sono due persone silenziose. La loro storia non è quello che dicono ma quello che fanno… È così raro nel mondo contemporaneo dove, se mangi in un grande ristorante, lo devi far sapere a tutti”. La voce di Gigi Riva si sente nella miniserie ma tu non ci hai parlato, giusto? “Vero e io sono contento di non aver avuto la possibilità di parlare con lui, perché sarei stato in imbarazzo. Mentre sono felice del contributo

di Fausta (sorella di Gigi, n.d.r.) e dei suoi figli che sono stati eccezionali. Se spero che veda il documentario Gigi? No, spero che non lo veda. Sai, ogni cosa che si fa, si potrebbe fare meglio”. Alla presentazione ci sono anche dei ragazzi universitari della Bocconi e dello IULM: “Ci piace come spiega lo sport. Le sue storie ti appassionano, anche se non hai vissuto quel campione in quel determinato periodo storico. Ogni storia che racconta ti insegna qualcosa”. Federico Buffa, informato della partecipazione di questi ragazzi alla “prima”, si ferma a parlare con loro e ci confida: “Bellissimo ma è anche una responsabilità. L’Italia sottovaluta, storicamente, il valore educativo dello sport. Per primis, la scuola. Non c’è un’idea educativa dello sport. Questi ragazzi sono degli autodidatti che vogliono sapere come era il mondo prima del loro arrivo”. Con Federico Buffa è impossibile annoiarsi. Si spazia dal calcio alla boxe: “Non fatemi ridere, è impossibile paragonare un match di MMA con un incontro tra Muhammad Ali e Frazer. Non sono neanche paragonabili”. C’è spazio per i ringraziamenti anche a Don Fabio Capello, visibilmente emozionato al termine della prima parte di “L’uomo che nacque due volte”: “Ricordo che, quando eravamo insieme in Nazionale, al termine degli allenamenti, tutti si fermavano a vedere calciare Gigi Riva. C’erano davvero tutti, da Mazzola a Facchetti. Si guardava questo grandissimo giocatore, unico, calciare la palla al volo”. Un aneddoto che contribuisce a rendere ancor più lucente la carriera di Gigi Riva e che anticipa il “regalo” dell’attuale presidente del Cagliari Tommaso Giulini: “Abbiamo deciso di dare la carica di presidente onorario del Cagliari a Gigi Riva”. Giusto, doveroso, corretto, soprattutto nell’anno del Centenario e 50 anni dopo lo Scudetto vinto da tutti i sardi, guidati da Rombo di Tuono… Il consiglio è gustarsi il documentario su Gigi Riva griffato Federico Buffa. Nessuno resterà deluso, probabilmente anche il diretto interessato…

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C L A C L E D I T GIGAN Ferri e Mandorlini di Fabrizio Ponciroli

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Servizio fotografico di Valeria Abis


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quilla il cellulare. È l’amico Dario Zanotto: “Senti, ho una location spaziale. Che ne dici di intervistare, insieme, Andrea Mandorlini e Riccardo Ferri?”. Ci penso un attimo e poi rispondo: “Mi sembra un’ottima idea per la rubrica Giganti del Calcio”. Trascorrono un paio di settimane e mi trovo a Caronno Pertusella dove conosco Giovanni Robbiati, titolare di una concessionaria di auto ma, soprattutto, tifoso doc dell’Inter. Per onorare al meglio la sua amata Inter (“La vittoria di Madrid il più bel ricordo della mia vita in nerazzurro, sono stati i tre giorni più belli di sempre”), Giovanni ha addobbato una dependance di ricordi nerazzurri. Fotografie e firme di volti noti che hanno fatto la storia della Beneamata. Una Champion in formato gigantografica con gli autografi di chi ha reso possibile l’impresa a Madrid nel 2010, mobili nerazzurri e un video che immortala il figlio Massimo mentre entra in campo, ironia della sorte, al posto di Andrea Mandorlini in una sfida di Coppa Italia. Il padre Giovanni conserva tutto e ha mille aneddoti legati alla “sua” Inter ma siamo qui per intervistare Ricky e Andrea, amici da sempre… Il rischio di un’intervista doppia è sempre elevato, soprattutto se si chiacchiera con due ra-

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CA GIGANTI DEL

Ferri e Mandorlini gazzi cresciuti come Riccardo Ferri e Andrea Mandorlini. Dopo aver disquisito, a suon di battute, su capelli e invecchiamento precoce, è tempo di ricordi… Parliamo del primo ricordo legato al calcio… Andrea: “Io ho cominciato con il nuoto che piaceva a mio padre ma io ero innamorato del calcio. Quindi ho mollato il nuoto e mi sono dato, anima e corpo, al pallone”. Riccardo: “No, io sono nato subito con la passione per il calcio. A 7 anni facevo già parte di una squadra che si chiamava Atalantina. Poi sono passato al Crema e, di seguito, alla Capralbatese. Lì poi sono stato notato da Buzzi, osservatore dell’Inter. A 12 anni e mezzo ero già all’Inter”. Tutti sognano di fare gli attaccanti, come siete finiti a giocare in difesa? Andrea: “Forse perché eravamo scarsi… A dire il vero, io ho giocato anche davanti. All’Inter ho avuto anche la maglia numero 10, nonostante avessi detto, più volte, al Trap che non mi sembrava la scelta giusta. Poi sono finito a fare il libero che, onestamente, è il ruolo in cui ho fatto meglio”. Riccardo: “Io ho iniziato da ala destra poi, appena sono arrivato all’Inter, mi hanno messo a fare il mediano per insegnarmi la fase difensiva. Da lì sono arretrato ulteriormente fino a diventare un difensore. Poi, con l’arrivo del Trap, mi sono ritrovato centrale”. Parliamo di idoli, non solo nello sport… Andrea: “A me piaceva Sandro Mazzola. Sono sempre stato interista, quindi l’ho sempre adorato. Nella musica sono stato sempre un fan dei Led Zeppelin. Li ascolto ancora adesso…”. Interviene Ricky: “Pensavo ti piacesse Orietta Berti…”. Riccardo: “Non ho mai avuto un

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Il Direttore Ponciroli mentre intervista, insieme, Ferri e Mandorlini

vero idolo, mi piacevano quei giocatori che, a fine partita, avevano la maglia sudata, da strizzare”. Interviene Andrea: “Che facevano? Lavoravano in lavanderia?”. Torna a parlare Riccardo dopo le risate dei presenti: “Intendevo giocatori che avevano un grande senso di appartenenza… A livello musicale, mi è sempre piaciuto Sting”. Altra battuta di Andrea: “Ascoltavi Sting, Stang e chi altro?”. Le difficoltà dell’intervista aumentano… Ai vostri tempi, andare sull’album Calciatori Panini significava avercela fatta, corretto? Andrea: “Per Riccardo hanno formato un nuovo formato per fare spazio alla sua testa… No, scherzi a parte, quando ti vedi sulla figurina Calciatori Panini è una grande soddisfazione”. Riccardo: “Ho un ricordo bellissimo di quel momento. Ho sempre giocato con le figurine. Mi ricordo ancora del periodo in cui non si trovava Pizzaballa. Valeva tantissimo, poteva scambiarla con anche 50 figurine buone. Quando ti trovi su quell’album è incredibile. Quando ho realizzato che ero una figurina come quella di Tardelli, Zoff, Cabrini è stato fantastico.

Si ringrazia Panini per la gentile concessione delle immagini


Solo qualche anno prima, ci giocavo con le loro figurine, ora ero una figurina come loro. Bellissimo”. Come vi siete conosciuti e come è nata la vostra amicizia? Andrea: “C’è stato un feeling immediato tra noi due. Siamo diventati subito amici. Ci siamo frequentati con le famiglie e, ancora oggi, quando ci incontriamo è sempre una burla, uno scherzo”. Riccardo: “Anche per me è stato così. Con Andrea ho parlato subito la stessa lingua. Non mi è capitato con tantissimi altri compagni. Trascorrevamo insieme anche tanto tempo libero, a conferma della nostra amicizia. Andrea è un buono, ha valori importanti. Mi pesa un po’ dirlo (ride, n.d.r.)”. Un pregio e un difetto del vostro amico? Riccardo: “Andrea dava l’anima per la squadra. Si è sempre sacrificato per il compagno. È sempre stato molto duttile, sapeva fare tutto, anche gol. Difetto? Non ne trovo, a parte le tinte ai capelli che faceva a 27/28 anni. Solo che lo sgamavamo sempre perché, quando pioveva, la tinta nera si scioglieva…”. Andrea

si inserisce con un gran tackle: “Riccardo mi ha sempre massacrato su questa cosa, maledetto lui”. Andrea: “Mi è sempre piaciuto perché non aveva paura di niente. Era uno di poche parole ma tanti fatti. Era sempre tosto, anche tecnico, anche se non sembrava. Ovviamente non era tecnico come me, questo è chiaro (ride, n.d.r.). Difetti? Non ne posso dire… Forse era un po’ permaloso”. Che impatto è stato quello di Trapattoni sull’Inter di allora? Riccardo: “Sapevamo che era arrivata una persona con un trascorso importante e con una mentalità vincente. C’è stato subito grande rispetto nei suoi confronti. Era convincente e sapeva vivere ogni tipo di pressione. Lui ha lasciato un segno importante come persona all’interno della squadra. Ricordo che aveva sempre una parola per tutti i parenti dei calciatori. Chiedeva se i figli dormivano, come stavano i genitori. Insomma, era presente sempre”. Andrea: “Io sono rimasto legatissimo con Giovanni. Quando è andato in Germania e io ero a Ravenna, gli ho prestato il mio preparatore

Compagni in campo, si sono sfidati a calcio balilla

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Ferri e Mandorlini Basten, facevo finta di dormire e allora toccava atletico. Per lui, ho giocato in condizioni pesallo Zio, con cui ero in camera, sorbirsi tutte le sime, con ferite, cerotti, botte ovunque. Ho indicazioni tattiche di serata”. anche sofferto per colpa sua. Quando stavo Perché l’Inter è un club così speciale? bene, a volte non mi prendeva in considerazioAndrea: “Forse perché si soffre tanto… Non ne e io ci stavo male. Infatti, quando facevamo so, è difficile darsi le partitelle e lui giouna spiegazione. Ho cava con noi, qualche tanti amici che sono volta sono intervenulegatissimi all’Inter, to in maniera dura. soprattutto si aiutano Ricordo ancora che, tantissimo nei moquando se ne andò menti di difficoltà. Io dall’Inter, mi lasciò un sono sempre stato tibigliettino con scritto: foso dell’Inter e quan‘Ti puoi essere sentito do sono arrivato ad un po’ trascurato ma indossare quella malo capirai quando faglia ho coronato il mio rai l’allenatore’. Aveva sogno”. ragione… È stato un Riccardo: “Io ci ho secondo padre per giocato sin da bambinoi. Forse abbiamo no, per me è diverso. vinto meno di quanto Sono cresciuto con avremmo meritato”. l’Inter. Grazie all’Inter, Siamo all’Inter dei ho raggiunto la NazioRecord… Un aneddonale. Mi sono legato a to curioso… vita a questo club. Ci Andrea: “Io ricordo siamo sacrificati tutti quello che è accaduto per il bene dell’Inter. quando, ad inizio staNon mi meraviglia gione, abbiamo perso Gli amici Ferri e Mandorlini mostrano le maglie dell’Inter che il pubblico sia così in Coppa Italia con la di RetroFootballClub presente alle gare dei Fiorentina. Si parlanerazzurri. C’è un amore fortissimo per questi va già di possibile esonero del Trap. Abbiamo colori”. fatto una riunione. C’eravamo io, Ricky, Walter Attaccante più rognoso da affrontare e com(Zenga), lo Zio (Bergomi) e Beppe (Baresi). Anpagno con più talento… dammo dal Trap e gli dicemmo che eravamo Andrea: “Avversari forti ce ne sono stati tantutti con lui. Si emozionò tantissimo. Credo che ti. Lo Zio e Ferri erano quelli che marcavano, in quel momento sia nata l’Inter dei Record”. io ero quello intelligente che giocava la palla Riccardo: “E aggiungo che poi disse, a tutti noi, (risata di Riccardo Ferri). Sai, abbiamo giocache quell’anno avremmo vinto lo Scudetto e to contro Maradona, Platini, Zico, Van Basten, così è stato… Io, invece, non dimenticherò mai Careca, la lista è lunghissima. Se devo dire i ritiri con il Trap. Lui, verso le 11 di sera, faceva un giocatore, dico Van Basten. Compagno più il giro delle stanze e, se eri sveglio, ti parlava forte? Potrei dire Riccardo…”. Riccardo interdella partita e dell’avversario che avresti dovuviene: “Uno, uno c’è…”. Andrea ribatte: “Uno? to affrontare. Ti spiegava cosa fare, come diUno chi? Dillo allora tu”. “No, io lo dico dopo”, fendere. Io, per evitare che mi parlasse di Van

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continua Riccardo. A chiudere il divertente siparietto è proprio Riccardo: “Matthäus …”. Andrea concorda: “Beh, sì, onestamente sì. Ecco, forse è durato un po’ poco”. Riccardo: “Ora che posso parlare io, ricordo ad Andrea che Matthäus era l’unico che sapeva cambiare le partite. Recuperava palla e sapeva ripartire alla grande. Era forte fisicamente, nonostante non fosse altissimo. Sapeva calciare di destro e sinistro. Era determinante. Per gli avversari, oltre a quelli citati, ricordo che ai nostri tempi, anche le provinciali, avevano il proprio fenomeno. Penso a Caniggia,

Bergomi, Ferri e Mandorlini con la Coppa Uefa conquistata nel 1991 - Liverani

Casagrande, Barbadillo e così via”. A chi dovete dire grazie? Andrea: “Sicuramente ai miei genitori e al mio cane (risata generale). Oltre alla famiglia, per la mia crescita direi Mazzone, che ho avuto ad Ascoli, e Trapattoni che mi ha fatto crescere tantissimo. Un grazie anche a tutti i compagni che ho avuto”. Riccardo: “Io devo ringraziare l’Inter che, quando ero nelle giovanili, mi ha messo a disposizione degli istruttori molto qualificati che mi hanno aiutato a crescere e ad affrontare i problemi che poteva avere un ragazzo di 12

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Ferri e Mandorlini

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LA carriera di ricky

LA carriera di andrea

Nato a Crema il 20 agosto 1963, ha mosso i primi passi da calciatore nell’Atalantina. A 12 anni e mezzo, grazie all’osservatore Buzzi, lo stesso scopritore di Bergomi, va all’Inter. Fa il suo esordio nella massima serie nella stagione 1981/82, esattamente l’11 ottobre 1981, contro il Cesena. Difensore di notevole fisicità, ha sempre eccelso nella marcatura a uomo. In nerazzurro si toglie tante soddisfazioni. La prima proprio al termine della stagione 1981/82, quando conquista la Coppa Italia. Nel giro di breve tempo, conquista una maglia da titolare. E’ uno dei perni della squadra che, nella stagione 1988/89, conquista, con Trapattoni in panchina, lo Scudetto dei Record. Alza al cielo anche una Supercoppa Italiana (1989) e vince, in due occasioni, la Coppa Uefa (1990/91 e 1993/94). Nell’estate del 1994, dopo 13 anni e 418 presenze in nerazzurro (con otto gol) si trasferisce alla Sampdoria, insieme a Zenga. Due stagioni e poi si ritira. Ha indossato per ben 45 volte la maglia della Nazionale, partecipando da protagonista a Italia 1990. Oggi è un super apprezzatissimo opinionista televisivo.

Nato a Ravenna il 17 luglio 1960, cresce calcisticamente nella squadra della città. A 18 anni va al Torino dove esordisce nella massima serie italiana (il 4 febbraio 1979). Ai granata resta due stagioni, prima di trasferirsi all’Atalanta, nel torneo cadetto. Torna a respirare l’atmosfera della Serie A con l’Ascoli e grazie a Mazzone che lo fa maturare notevolmente. Nell’estate del 1984. Tifoso dell’Inter, raggiunge l’apice della sua carriera vincendo lo Scudetto dei Record (26 presenze e tre gol in quell’indimenticabile cavalcata). Aggiunge al suo palmares anche la Supercoppa Italiana (1989) e la Coppa Uefa del 1990/91. Dopo sette stagioni a Milano, accetta la proposta dell’Udinese nell’estate del 1994. Riporta i friulani nella massima serie e si regala un’ultima stagione tra i grandi del calcio italiano. Smette a 33 anni e si dedica, immediatamente, al ruolo di allenatore. Dopo diverse esperienze in Serie C, viene scelto dal Vicenza in Serie B (2002/03). Dopo aver sperimento la Serie A con Atalanta e Siena, si diverte molto sulla panchina del Cluj in Romania dove fa incetta di trofei. Brilla a Verona dove resta per sei anni. L’ultima esperienza alla Cremonese…


Ferri e Mandorlini con il super tifoso Robbiati e l’amico Zanotto

anni. L’Inter mi ha sempre fatto sentire importante e per questo la ringrazierò sempre”. Ultima domanda: un momento da conservare per sempre e uno che vorreste cancellare… Andrea: “Da cancellare ce ne sarebbero tanti…” Interviene Riccardo: “Posso dire la mia? Vorrei tenere tutto il mio trascorso come giocatore di calcio, i 13 anni all’Inter e i due alla Sampdoria, oltre al periodo in azzurro. Certo, sarebbe bello cancellare alcuni errori o atteggiamenti ma credo che, anche quelli, siano serviti per arrivare dove siamo oggi. L’importante è guardarsi indietro con il sorriso. Cancellare qualcosa sarebbe sbagliato…”. Andrea, quasi commosso: “Bellissimo, si vede che lavora in televisione, è un uomo di spettacolo… Mi sento di dire che, tutto quello che abbiamo conqui-

stato, ce lo siamo sudato”. La chiacchierata potrebbe andare avanti all’infinito. Ascoltare due amici che parlano di calcio, del loro calcio, è una gioia. Gli sfottò sono continui: “Riccardo è stato fortunato ad avermi al fianco. Lui faceva gli autogol ma la colpa era sempre mia. Quando sbagliava, fischiavano me”. Riccardo non ci sta e risponde colpo su colpo: “Come vedi, per me non è stato facile convivere con uno che soffre di vittimismo” … Sani, divertenti, veri, reali. Ricky e Andrea sono stati due eccellenti giocatori, hanno vinto, da protagonisti, lo Scudetto dei Record ma, soprattutto, sono due grandi amici che continuano a scherzare, anche nella tana di Giovanni. Il luogo ideale per dare sfogo all’amore, incondizionato, per la Beneamata…

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O N R O I G N U EROI PER Jocelyn Angloma di Patrick Iannarelli

L’ATTIMO DI JOCELYN Nella carriera di un giocatore, può accadere qualcosa di magico. Lo sa bene Angloma…

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Credit foto Liverani


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l termine è preso in prestito da altre competizioni, come spesso accade nel mondo del calcio. La parola derby, però, ha assunto un significato totalmente differente durante il corso degli anni. Quando è il momento di giocarsi una stracittadina c’è un’aria totalmente differente, si respira anche un bel po’ di tensione in più. Normale, tutti vogliono vincere ed un pareggio viene visto anche con un pizzico di delusione. In alcune parti d’Italia la situazione è ancor più particolare: prendi Torino ad esempio, in cui le carte si mescolano e vincere un derby diventa qualcosa di diverso rispetto a Roma, Milano, Genova. Il filo conduttore che accomuna queste città è lo stesso, ma cambia qualcosina. Da una parte il Toro, squadra da un passato assurdo ancor oggi e con una tradizione popolare difficilmente descrivibile. Dall’altra la Juventus, una delle società più vincenti della storia del calcio. Inutile aggiungere altro. La supremazia dei bianconeri, come siamo abituati a vederla oggi, non era così schiacciante nei confronti dei granata e le partite che ne uscivano fuori erano di quelle storiche, memorabili. Nei primi anni ‘90 le sfide erano equilibrate e più volte il Torino riuscì ad imporsi sui rivali bianconeri. Come nel gennaio 1995, quando i granata trionfarono 3-2 dopo tre anni senza successi nel derby della Mole. Una vittoria che porta la firma di un francese arrivato dalla Guadalupa, Jocelyn Angloma. Il nostro eroe per un giorno che siglò un gol storico per due motivi: quello fu il primo dei due derby vinti consecutivamente, ma anche il penultimo successo prima della lunga crisi che accompagnò il Toro per vent’anni. Ma questa è tutta un’altra storia. La nostra storia, invece, parte da un movimento calcistico e socio-politico che si stava sviluppando altrove, nella vicina Francia. Il calcio, come spesso accade, diventa veicolo dell’umanità, in questo caso anche del no-

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GIO EROI PER UN Jocelyn Angloma

Si ringrazia Panini per la gentile concessione delle immagini

stro racconto. Partiamo da Les Abymes, comune francese facente parte della Guadalupa. Nel 1965 nasce Jocelyn Angloma, che all’età di vent’anni fa il suo esordio nel calcio professionistico con la maglia del Rennes. Non ci soffermeremo molto sulla storia delle colonie francesi, ma possiamo dire che senza di loro la nazionale transalpina avrebbe avuto qualche difficoltà in più soprattutto a salire sul gradino più alto del podio nel 1998. Terzino destro molto duttile, in carriera ha ricoperto tutti i ruoli della difesa, all’occorrenza anche quelli del centrocampo. Dopo 37 presenze in Bretagna si trasferisce prima al Lille, poi al Marsiglia. Insieme a Desailly, Deschamps e Boksic scenderà in campo nella finale di Monaco contro il Milan e alzerà la prima Coppa dei Campioni per il club francese. Angloma è stato un numero 2 un pochino atipico, spesso lo si vedeva anche in area per fare gol. A fine carriera le reti messe a segno saranno 23, tante per un terzino impegnato in quelle annate. Nel 1994, al termine di una stagione da incorniciare, arriva al Torino. L’inizio non fu dei migliori, ci fu anche qualche esclusione dagli undici titolari. Pian piano il francese iniziò a farsi strada e il gol al Napoli aprì un pochino le porte per la sua titolarità nel derby di gennaio. Nella storia del calcio ci sono momenti in cui cambia tutto, quel match in cui non devi scendere in campo ma poi vieni buttato nella mischia. Il derby in generale, poi, sembra avere una particolare propensione per queste storie. Per quello è una partita strana, sentita. La puoi decidere da un momento all’altro anche se non sei stato il protagonista, puoi trovare l’episodio per via di un pallone vacante che ti arriva sui piedi al momento giusto, mentre sei nel posto giusto.

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Come fu per Angloma, che in quel giorno arrivò con un tempismo perfetto dalle parti di Peruzzi. In area di rigore, come un vero attaccante. È vero, il francese era un difensore. Ma quando il destino ha deciso di farti diventare eroe per un giorno, non ci sono ruoli che tengano. Già, a gennaio. La stracittadina non si giocò a novembre come da calendario per un motivo ben particolare che colpì il Piemonte. Il 5 novembre 1994, infatti, ci fu l’alluvione del fiume Tanaro che causò ben 70 vittime. Impossibile giocare, tutto il Paese stava vivendo una tragedia incredibile. Il campo era impraticabile, ma siamo sicuri che la scelta di non giocare fu presa per tanti altri motivi, come giusto che sia. In simili contesti il calcio diventa una cosa meno importante, c’era un Paese in ginocchio che doveva essere aiutato a risollevarsi. A volte il calcio può però aiutarti ad avere un attimo di leggerezza anche nei momenti più difficili. Una gara, una giocata, un po’ di passione che per un attimo ti fa dimenticare anche le situazioni più complesse. Ad ogni modo mercoledì 25 gennaio, due mesi dopo il disastro, si torna in campo. Mercoledì 25 gennaio, ore 20.30. Il teatro è quello dello stadio Delle Alpi, il Torino gioca in casa. La Juventus di Marcello Lippi inizia a risalire la classifica dopo una fase di rodaggio, anche se la domenica precedente il Cagliari batte i bianconeri con un netto 3-0. Il Torino, invece, non vive un buon momento di forma: due stop consecutivi e una posizione di classifica che inizia a farsi scomoda, visto che la zona retrocessione dista soltanto tre punti. Due obiettivi diversi, la stessa necessità di vincere. Siamo davanti alla classica partita in cui il pareggio non serve a nessuno. Proprio per questo motivo siamo davanti ad un derby


IL TABELLINO DELLA PARTITA TORINO – JUVENTUS 3-2 (3-2) Torino: Pastine, Angloma, Sogliano (all’83’ Sinigaglia), Falcone, Pellegrini, Maltagliati, Rizzitelli (al 75’ Lorenzini), Pessotto, Silenzi, Abedì Pelé, Cristallini. A disposizione: Simoni, Osio, Marcao. Allenatore: Sonetti. Juventus: Peruzzi, Ferrara, Torricelli, Fusi (al 63’ Jarni), Kohler, Paulo Sousa, Di Livio (al 79’ Marocchi), Conte, Vialli, Del Piero, Ravanelli. A disposizione: Rampulla, Porrini, Tacchinardi. Allenatore: Lippi. Arbitro: Amendolia di Messina. Marcatori: Rizzitelli 7’, 30’ (T), Vialli 9’, 32’ (J), Angloma 39’ (T) Spettatori: 41.201, tutti paganti, non erano validi gli abbonamenti, per un incasso di 1.460.260.000 lire. Note: Ammoniti Conte, Rizitelli, Kohler. Al 70’ Pastine para un calcio di rigore a Ravanelli. Si tratta del recupero della partita rinviata lo scorso 6 novembre a causa dell’alluvione che ha flagellato il Piemonte.

particolare, difficile anche da interpretare: la voglia di far bene in campo viene alimentata da fattori extra, inutile dire altro. Di solito ci sono due tipi di derby, quelli che si sbloccano subito e quelli che possono trovare la giocata nel finale, al termine di una gara ruvida e giocata male da entrambe le parti. In questa situazione ci troviamo davanti ad un match che viene subito improntato sullo spettacolo: Torricelli, su un lancio lungo, sbaglia il disimpegno e spalanca la porta a Rizzitelli, il diagonale è praticamente imprendibile per Peruzzi. I bianconeri non si buttano giù e rispondono presente con Vialli, il numero 9 si infila in area piccola e supera Pastine da due passi. Si torna in parità e fino alla mezz’ora nessuno riesce a sbloccare il match. Ci pensa ancora Rizzitelli a sfruttare una sponda in area sull’ennesimo lancio

lungo, Torricelli mette il punto esclamativo sulla sua serata da incubo e concede il 2-1. Passano due minuti e Vialli non se lo fa ripetere due volte, il numero 9 si infila tra le maglie granata e scarta Pastine, 2-2 praticamente a porta vuota. A pochi minuti dal termine del primo tempo succede l’imponderabile: un colpo di tacco libera il numero 2 Angloma, che dopo un rimpallo favorevole, batte Peruzzi per la terza volta. Inutili gli assalti nel finale da parte dei bianconeri, Pastine si trasforma nel secondo eroe di serata parando il rigore del possibile 3-3. Esulta il Torino, piange ancora la Juventus. Il gol nel derby consacrerà il francese, il terzo sigillo arriverà contro il Foggia. Poi la rete alla Lazio a chiudere una buonissima stagione. Il francese rimarrà a Torino per un altro anno, ad agosto 1996 scelse l’Inter che abbandonò dopo una sola stagione per il Valencia, dove chiuderà la carriera in Europa. Eroe per un giorno in Italia, ma non in nazionale. La sua avventura con la compagine transalpina iniziò nel 1990 e terminò nel 1996, con la semifinale persa contro la Repubblica Ceca a Manchester. Per pochissimo non arrivò nella squadra che vinse prima il Mondiale e poi l’Europeo. Per assurdo il suo miglior risultato in nazionale fu quello del 2007, questa volta con la maglia della Guadalupa, con cui conquistò la medaglia di bronzo nella Gold Cup 2007. Un percorso particolare, come il suo modo di stare in campo. Probabilmente fu uno dei primi a dare il via al ruolo di terzino di spinta, un’ala aggiunta in grado di poter gestire tutta la fascia. Gianni Mura, in un articolo in cui raccontò la vittoria dell’Inter sullo Schalke 04 nella Coppa Uefa 1997 (in cui mancava proprio Angloma), utilizzò un titolo calzante per chi decide un derby all’improvviso: “Tante assenze, ma basta un gol”. A volte basta soltanto una rete per rimanere nella memoria di tutti gli sportivi, soprattutto se arriva in una partita simile.

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TI I N I F O N O S DOVE Alberto Marchetti

di Fabrizio Ponciroli

Due Scudetti e una Coppa Uefa con la Juventus e ha giocato con Zico: Alberto Marchetti…

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Credit Foto: Liverani


IL RAGAZZO DI MONTEVARCHI

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lberto Marchetti ha giocato, nel calcio professionistico, per 15 anni. Ha cominciato nelle giovanili della Juventus, ha esordito, nel calcio che conta con i bianconeri, vincendo due Scudetti e una Coppa Uefa. Poi ha girovagato per l’Italia, togliendosi tante soddisfazioni, come quella di giocare con Zico all’Udinese e con Dirceu all’Ascoli… Alberto, come è nata la passione per il calcio?

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DOVE SONO

FINITI?

ALberto Marchetti “Ho iniziato come tutti i bambini di allora, per le vie del paese e all’oratorio. Poi un osservatore mi ha segnalato alla Juventus ed è cominciato tutto”. Immagino non sia stato facile il provino con i bianconeri… “Certo, ero teso. Ero stato scartato già dalla Fiorentina che, allora, cercava ragazzi con una stazza importante. Alla Juventus ho fatto due provini. Dopo il primo, mi hanno voluto rivedere. Per fortuna è andata bene…”. Ci racconti la tua esperienza alla Vecchia Signora… “Alla Juventus ho vinto subito il campionato Primavera che, allora, aveva un peso importante. Avevo tanti compagni di squadra forti. Mi ricordo di Chiarenza ad esempio… Come era solito fare allora, mi hanno mandato a farmi le ossa all’Arezzo. All’inizio non giocavo ma, nel girone di ritorno, ho fatto diverse presenze. Forse perché avevo telefonato al Dottor Giuliano, alla Juventus, per lamentarmi”. Al termine della stagione 1974/75, hai vinto lo Scudetto… “Sì, nel 1974 sono entrato a far parte della Prima squadra bianconera ma avevo il militare. Non ho fatto presenze ma ero comunque in panchina in quella stagione dove si è vinto

lo Scudetto”. Sei legato alla Juventus anche per l’esordio in Serie A… “Vero, dopo un anno al Novara, dove ero andato su segnalazione dell’allenatore Parola, sono tornato alla Juventus e, finalmente, ho giocato con la casacca bianconera. Non dimenticherò mai il 10 ottobre 1976, il giorno del mio esordio in Serie A contro il Genoa. È stata un’emozione fortissima. Il Comunale era pieno e ho giocato anche una buona partita”.

“Non dimenticherò mai il 10 ottobre 1976, il giorno del mio esordio in Serie A, È stata un’emozione fortissima e ho giocato anche una buona partita”. Come allenatore, hai avuto un Trapattoni di “primo pelo”? “Trapattoni era già un martello, nonostante fosse giovanissimo. Boninsegna e Bonetti

LO STILE JUVENTUS Alberto Marchetti ha indossato la casacca della Juventus in poche occasioni ma, di fatto, è cresciuto nell’ambiente bianconero. Due provini per entrare a far parte della famiglia della Vecchia Signora. Con la maglia bianconera, vince, nella stagione 1971/72, il campionato Primavera. Un vanto, un riconoscimento importante: “All’ora il campionato Primavera era quotato, non come adesso. C’erano giovani importanti. Se arrivavi a grandi livelli lì, eri già certo di poter giocare in Serie B. Infatti, dopo aver vinto il titolo Primavera con la Juventus, sono andato all’Arezzo. La conferma che eri già ad un livello importante”. Un livello “garantito” dalla Juventus: “Quando arrivi alla Juventus, tutto cambia. Capisci che ce l’hai fatta, che sei in un ristretto gruppo. La Juventus ti cambia e cambia la prospettiva che gli altri hanno di te. Era così ai miei tempi e lo è anche adesso. Sono felice di aver fatto parte della Juventus, anche se avrei voluto restarci molto più a lungo. Purtroppo, quando c’ero io, la Juventus aveva un centrocampo con Tardelli, spostato da Trapattoni da terzino a centrocampista, Furino e Benetti. Il play non era previsto. C’erano nove nazionali, era impossibile pensare di avere spazio”. Insomma, la Juventus è il top (da sempre).

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restare e ci ha riportato subito in gli davano del tu, lo chiamavano A. Un grande…”. Giuan… Tuttavia, quando c’eDa Zico a Dirceu… ra da giocare per davvero, nes“Dirceu era un giocatore di gransuno si tirava indietro e, infatti, dissima qualità ma era arrivato abbiamo vinto Scudetto e Coppa ad un punto della carriera in cui Uefa”. cercava di piacere. Faceva tanto Come mai il tuo rapporto con la per sé, voleva un bel contratto Juventus è terminato così fretma, ve lo assicuro, aveva mezzi tolosamente? tecnici incredibili. In pochi col“Io avrei voluto restare alla Jupivano la palla come faceva lui. ventus per qualche anno ma, Organizzava grandi pranzi a casa allora, non decidevi tu il tuo desua. Aveva fatto togliere le piante stino. Così sono finito al Cagliari dal giardino e ci aveva messo due dove sono rimasto per sei staporticine. I bambini di tutti gli ingioni. È stata un’esperienza covitati ci giocavano sempre”. munque positiva, anche se, ripeCosa hai fatto quando hai smesto, mi sarebbe piaciuto giocare so di giocare? nella Juventus per più tempo”. “Ho provato a fare l’allenatore Sei stato a Cagliari e poi a Udine ma non avevo gli appoggi giusti. dove hai giocato con un 10 fanHo allenato in diverse categotastico… rie, a Brindisi ho fatto di tutto “Giocare con Zico è stato fantaSi ringrazia Panini per la gentile ma non sono riuscito ad avere stico. Un grande giocatore ma concessione delle immagini l’occasione giusta ma va bene anche un grande uomo. Mi è ugualmente”. spiaciuto per i problemi econoChe rapporto hai, oggi, con il calcio? miche che l’hanno condizionato in Italia. Non “Il calcio mi piace ancora. Guardo le partite e è stata colpa sua ma della società ma, sicupenso che sarei dovuto nascere in questa era. ramente, è stato il più forte con il quale abbia Oggi, un calciatore ha tutto a disposizione per mai giocato. Era incredibile, aveva una classe migliorare atleticamente. Noi ci allenavamo unica ma, ne sono sicuro, avrebbe potuto fare sui gradoni dello stadio, ora ci sono personal molto di più. Lui puntava ad un grande club e trainer e programmi personalizzati. Credo si è ritrovato all’Udinese che era una squadra che, se fossi nato in quest’era calcistica, una interessante ma non di prima fascia. Dal cenpresenza in nazionale l’avrei conquistata pure trocampo in su eravamo buoni, c’era gente io. Ai nostri tempi c’era tanta tecnica, oggi si come Causio, Virdis, Mauro ma, in difesa, il corre tantissimo ma perché c’è una prepanostro punto di riferimento era Edinho che, razione fisica diversa. Avremmo corso anche in realtà, era un centrocampista. Insomma, noi, se avessimo avuto tutto quello che hanno dietro si ballava tanto…”. i calciatori di oggi”. Poi sei andato all’Ascoli… A 65 anni, Alberto Marchetti può dirsi fortu“Ad Ascoli ho trascorso tre anni molto belli. nato. Ha militato nella Juventus, dove ha vinto Ho avuto la fortuna di avere, come allenatotrofei importanti. Ha giocato al fianco di tari, Mazzone e Boskov. Due grandi allenatori. lenti purissimi come Zico e Dirceu, tanto per Mi ricordo di Boskov che faceva delle battucitarne un paio. Avrebbe potuto fare molto di te davvero divertenti. Mi ha sorpreso perché, più ma, quello che ha fatto, è già tantissimo… quando siamo retrocessi, è voluto comunque

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SPECIALE

Arsenal nel sociale di Stefano D’Errico

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FOOTBALL IN THE COMMUNITY Il “caso” dell’Arsenal, un club molto impegnato nel sociale. Un esempio da seguire…

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ostenibilità e sociale. Alzi la mano chi non ha sentito menzionare queste due parole solo nell’ultima settimana. No, Greta Thunberg e il movimento Friday for Future non c’entrano questa volta. Almeno in questa occasione cerchiamo di rimanere sintonizzati sui ‘nostri’ canali, quelli del pallone. Questi due argomenti sono infatti sempre più presenti anche nel mondo del calcio. Le società si stanno attrezzando per adeguarsi agli standard moderni, dove ogni azienda ha il dovere (anzi, forse la necessità) di investire sul proprio territorio e curarne i rapporti. Viene definita appunto responsabilità sociale: cercare di impegnarsi per migliorare la comunità di appartenenza, dalla quale storicamente ogni club nasce, ma con azioni concrete. Positivo per chi le guarda dall’esterno, certamente. Ma soprat-

tutto per le società stesse, il cui obiettivo numero uno è il profitto. E il tornaconto di questo impegno sociale è realmente tangibile: senso di appartenenza da parte della gente, introiti commerciali, creazione di partnership e network e molto altro. Purtroppo, la nostra Serie A è ancora spettatrice in questo campo, passiva o comunque poco concreta. Dobbiamo quindi volgere lo sguardo altrove, in Inghilterra, dove i Club di Premier League sono riusciti a creare un mondo parallelo al campionato prestigioso ed emozionante che tutti ammiriamo. Una realtà che probabilmente vale quanto i successi di Klopp e Guardiola o gli stadi ultra moderni. Dalle loro parti lo chiamano Football in the Community (FitC), ed è il miglior esempio di responsabilità sociale e sostenibilità applicata al calcio che il mondo conosca.

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Speciale

Arsenal nel sociale UN FENOMENO QUASI CENTENARIO La realtà FitC è radicata nella cultura popolare inglese da quasi un secolo. Dalla nascita delle squadre stesse sul finire dell‘800 oserei dire, quando le compagini calcistiche erano nient’altro che le comunità che rappresentavano: organizzazioni parrocchiali, o gruppi dopo-lavoro. Una distrazione necessaria dallo stile di vita che molti lavoratori dovevano sopportare, quello delle fabbriche simbolo della rivoluzione industriale. Il calcio quindi, del tutto spontaneamente, stava assumendo il ruolo di promotore del benessere sociale. È però intorno agli anni ’80 che si assiste ad un primo iniziale tentativo di uso più strutturato del football, più vicino alla realtà che stiamo raccontando. È nell’universo pallonaro che infatti il governo del tempo ha cercato la soluzione ad alcuni dei principali problemi dell’allora british society (divario sociale, disoccupazione e molto altro) e del suo calcio, tra cui il flagello degli Hooligans. Nel 1986 viene così lanciato il progetto pilota Football in the Community. Il suo obiettivo principale era quello di combattere i problemi sopra citati avvicinando i Club alle loro comunità di appartenenza attraverso progetti di vario genere. Una bella iniziativa sulla carta, che però non ha inizialmente centrato gli obiettivi fissati. Le attività si limitavano ad offrire sessioni di allenamento ai bambini delle scuole. Eppure, in maniera quasi paradossale, l’eco del programma si stava spargendo in tutto il Paese, con sempre più Club aderenti. A dare la spinta decisiva, verso fine secolo, ci ha pensato ancora il governo che, ispirato da nuove ideologie, trovò un compromesso decisivo: libertà economiche senza precedenti ai Club in cambio di impegno nel restituire parte degli enormi introiti alle comunità, facendo leva su un nuovo senso di responsabilità civile e sociale (caposaldo della nuova corrente politica). Ed eccoci arrivati ai giorni nostri, in cui praticamente tutti i Club professionistici inglesi godono di programmi e/o dipartimenti dedi-

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non solo gunnERs Dopo un percorso di specializzazione in community football coaching e una laurea in Scienze Motorie all’Università degli Studi di Milano, dal 2017 Stefano D’Errico collabora con l’Arsenal FC. Si occupa di promozione calcistica a 360°, portando e utilizzando il calcio in tanti ambiti: dall’educazione fisica e l’attività nelle scuole, alla formazione calcistica vera e propria, fino alla creazione di esperienze che sfruttino il gioco come veicolo per trasmettere messaggi positivi e rilevanti per lo sport, tra i quali il rispetto e il fair play. In collaborazione con Valentino Cristofalo, Communication Sport Manager e Amministratore della PSM Sport, Agenzia specializzata in Comunicazione per Società ed Organizzazioni Sportive, ha deciso di diffondere la tematica della Responsabilità Sociale dei club di calcio. Diversi studi hanno dimostrato che l’applicazione di processi di responsabilità sociale possono portare benefici in termini di organizzazione interna, creando un clima etico all’interno dell’organizzazione che stimoli senso di appartenenza e produttività. L’applicazione degli strumenti di responsabilità sociale migliora le basi di relazione tra i dipendenti e anche con gli stakeholder, riducendo i rischi di gestione, i conflitti interni, stimolando i vertici ad una comunicazione trasparente e quindi alla valorizzazione del proprio marchio sia all’interno che all’esterno. Il calcio diviene strumento di educazione e sviluppo. Sono moltissime le Società che stanno sviluppando un’area completamente dedicata a progetti socialmente utili. Il caso Arsenal è solo il primo di una lunga serie: in Italia, ad esempio, Milan, Juventus, Inter, solo per citarne alcuni, hanno da anni strutturato progetti in ambito nazionale ed internazionale. Il Real Madrid, il Barcellona, ma anche lo United attraverso le loro Fondazioni operano con un impatto locale e contestualmente globale.


cati unicamente alla relazione con il territorio. Organizzazioni articolate che si occupano dei temi più disparati, da quelli prettamente sportivi e calcistici a quelli maggiormente focalizzati sul sociale. Una realtà davvero incredibile, che vale la pena di essere approfondita… IT IS NOT JUST A GAME Partecipazione ed engagement sono oggi i capisaldi di ogni intervento, in cui l’appeal del Club di appartenenza viene sfruttato per coinvolgere la comunità. Un effetto calamita potentissimo con le giovani generazioni, ma che può facilmente essere esteso ad una più ampia fetta di popolazione che vede nella propria squadra un punto di riferimento. In questa nuova visione, il calcio diventa un vero e proprio veicolo sociale, sfruttabile per qualsiasi scopo. Decisamente più di un gioco, come lo hanno definito Heledd Jenkins e Laura James in un interessante report (It’s not just a game: Community work in the UK football industry and approaches to corporate social responsibility, 2013). Nel loro lavoro, le due autrici hanno raccolto e catalogato i vari programmi FitC oggi in circolazione, arrivando a definire alcune aree di intervento chiave (descritte sotto) che accomunano il lavoro e l’organizzazione dei Club. In particolare: • Beneficienza: forma di sostegno alla comunità più classica e tradizionalmente riconosciuta. Sono tipici gli esempi di raccolta fondi o di donazioni ad organizzazioni che si occupano di varie cause. • Coesione, inclusione e pari opportunità: inclusione sociale e sviluppo della comunità. Uno dei progetti più riusciti a riguardo è Kicks, promosso dalla Premier League. In questo, i Club intervengono attivamente cercando di coinvolgere quei gruppi di giovani delle zone definite ‘a rischio’, in cui criminalità o comportamenti anti-sociali sono spesso le uniche possibilità, ma nelle quali il calcio può essere la via d’uscita alternativa. • Disabilità: settore, specialmente in relazione

allo sport, in rapidissima espansione. Ragion per cui quasi tutte le società hanno un gruppo di lavoro dedicato. I programmi spaziano: dalle più classiche attività sportive, a corsi di formazione per gli operatori del settore, fino alla creazione di network dedicati. • Educazione e formazione: l’area dal maggiore potenziale, quella che riguarda il lavoro sulle nuove generazioni. Una serie di programmi di vario genere dedicati ai giovani di ogni età: scuole primarie, secondarie, ma anche adolescenti alla ricerca del proprio percorso professionale. • Ambiente e rinnovamento: tema quanto mai attuale, nel quale le società stanno investendo moltissimo. In riqualificazione urbana ad esempio, con interventi che riguardano, tra i tanti, il rinnovamento dei campetti per aumentare il numero potenziale di praticanti. • Promozione sport e calcio: impossibile non trovare programmi dedicati allo sviluppo della partecipazione sportiva, calcio in primis. Dalle scuole calcio e centri di formazioni, ai corsi

Wenger, ex tecnico dei Gunners, ha sempre sostenuto la Community

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Speciale

Arsenal nel sociale

La casa dell’Arsenal non è mai vuota quando giocano i Gunners

durante le vacanze, fino a tutti quegli eventi in cui si veicolano messaggi positivi legati al fair play, al rispetto del gioco e altri temi legati alla sportività. • Community ‘mondiale’: progetti dei Club al di fuori dei confini nazionali. Bella, ad esempio, la partnership tra l’Arsenal e Save the Children per un intervento in Giordania. • Salute e benessere: infine, programmi che puntano al connubio calcio e benessere. Giocare per migliorare il proprio stato di salute, come per gli anziani con il Walking Football. Ma anche come veicolo capace di sensibilizzare i partecipanti su tematiche quali fumo, sana alimentazione, abuso di alcol. IL CASO DELL’ARSENAL FC Ci facciamo guidare da colui che ha rappresentato i Gunners per oltre vent’anni, Arsène Wenger: “La Community è sempre stata il cuore dell’Arsenal FC. È quello che permette ad un Club di sopravvivere nel tempo. Sono le nostre basi, le radici che abbiamo bisogno di estendere, assicurandoci che crescano e si di-

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stribuiscano nella comunità. È una parte fondamentale di quello che facciamo, e quello ci rappresenta come Club”. Come accennato dal tecnico alsaziano, la community rappresenta per la società del nord di Londra una componente davvero fondamentale. Lo si vede ad ogni partita allo stadio Emirates, casa dell’Arsenal, occasione in cui è difficile trovare posti a sedere vuoti. Viene definito senso di appartenenza, quando ci si riconosce e ci identifica in qualcosa. Un sentimento forte, che richiede ovviamente tempo per far crescere solide radici. Ma questa semina i Gunners l’hanno iniziata anni fa, quando già agli inizi del ‘900 il Club organizzava raccolte fondi e donazioni a supporto di ospedali o associazioni del territorio. Un rapporto di aiuto reciproco crescente culminato nel 1985 con il lancio del programma Arsenal in the Community. Da quelle prime iniziative destinate a contrastare il disagio sociale e il non-attivismo fisico diffuso nelle aree urbane, i progetti e le attività sono aumentati esponenzialmente negli anni, per arrivare alla complessa organizzazione attuale. Oggi l’atti-


vità della Community ha addirittura una sua casa, l’Arsenal Hub, struttura inaugurata nel 2015 proprio accanto allo stadio sede degli uffici, delle sessioni calcistiche vere e proprie in un campo artificiale al coperto, ma in cui vengono anche organizzati numerosi corsi di formazione, workshop, convegni e semplici incontri. Ci sono poi alcuni progetti e attività che rappresentano vere e proprie best practice, e che quindi vale la pena condividere. Partiamo dal Double Club. Ispirato all’indimenticabile stagione 1997-1998 (in cui i Gunners conquistarono la prestigiosa doppietta campionatocoppa), questo innovativo programma combina il calcio all’apprendimento scolastico. Si tratta di sessioni di 90 minuti nelle scuole primarie, indirizzate a quei gruppi di studenti poco stimolati dai tradizionali metodi scolastici, ma sui cui il calcio ha un appeal particolare. Di quest’ora e mezza, 45 minuti sono di lezione teorica (utilizzando risorse e materiale che rimandano continuamente alla squadra ed ai suoi campioni), mentre l’altra metà è di allenamento vero e proprio, con eventuali ri-

ferimenti a quanto affrontato in classe. Oggi questo programma viene applicato ad una vasta gamma di materie. Di queste, menzione particolare merita il percorso legato alle lingue straniere, vera e propria “chicca” che facilmente si sposa con la spiccata connotazione internazionale dei giocatori. Rimanendo sempre tra i programmi educativi, particolarmente interessante è anche il cosiddetto ‘Gap Programme’: si tratta di un percorso annuale di formazione professionale per i giovani dai 18 anni in su a tema community coaching. Quindi tecniche, metodologie e strategie per imparare a gestire attività calcistiche destinate alla comunità. Questo, attraverso un programma teorico e pratico vero e proprio, ma anche tanto lavoro sul campo e la possibilità di passare parte del viaggio in uno dei progetti Arsenal nel mondo (Filippine e Bolivia tra le mete più gettonate). Un investimento sul capitale umano importante e sostenibile, visto che molti dei ragazzi finiscono per continuare la propria carriera nello stesso settore (alcuni dei quali proprio all’interno dello stesso dipartimento del Club). Infine, impossibile non citare l’impegno costante in termini di riqualificazione urbana. Dalla costruzione dello stadio Emirates, l’Arsenal si è dedicata in maniera profonda al miglioramento dell’immagine e della qualità del proprio territorio. Il vecchio stadio Highbury, ad esempio, è stato riconvertito in un complesso residenziale. La nuova casa del Club ha invece preso il posto di un centro smistamento rifiuti, spostato di qualche centinaia di metri e che rappresenta oggi una struttura operativa davvero indispensabile per tutta la zona. Infine, importante l’impegno nel rinnovare o addirittura costruire ex-novo campetti da calcio (sia nei parchi che nelle scuole). Strutture che vengono usate dal dipartimento community per le sue attività, ma anche impianti accessibili a tutti. Un tentativo evidente (e ben riuscito) di mantenere vivo il fuoco della passione per quello che non può, a questo punto, essere definito solo come un gioco.

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n o d i b i e d o Alfabet Digao

di Thomas Saccani

Quando hai in famiglia un Pallone d’Oro, tutto si complica…

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IL FRATELLO DI KAKÁ

Credit Foto: Liverani


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i chiama Rodrigo Izecson dos Santos Leite, in arte Digao. Brasiliano, di ruolo difensore centrale. Buona tecnica, fisico importante (195 cm) ma un limite insuperabile: il fratello maggiore. Digao è, infatti, il fratello minore di Ricardo Izecson dos Santos Leite, in arte Kaká. L’ingombrante fama del fratellone, Pallone d’Oro 2007, deve aver condizionato molto il buon Digao. Come ci si rapporta con un “brother” che ha lasciato un segno indelebile nel calcio? Di tre anni più giovane, Digao ha amato moltissimo il pallone ma la natura è stata meno benevola nei suoi confronti. Forse è per questo che, a differenza del fratellone, ha deciso di abbracciare il meno impegnativo ruolo del difensore. Pensare di frequentare la stessa zona di competenza del ben noto Kaká non avrebbe avuto senso. La carriera calcistica di Digao è, inevitabilmente, legata alle

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doni

ei bi Alfabeto d Digao

fortune del fratello. È infatti Kaká a chiamarlo in Italia nell’estate del 2004. A 19 anni, Digao lascia San Paolo e diventa rossonero. Il Diavolo, complice la legge sugli extracomunitari, lo parcheggia alla Sampdoria. Genova non dista tanti chilometri da Milano, è una soluzione congeniale per tutta la famiglia. Dopo un anno in blucerchiato, Digao viene spedito a Rimini per farsi le ossa. Gioca un buon numero di partite. Il fisico lo aiuta. I difetti sono soprattutto legati a questioni tattiche. Spesso si smarrisce in campo. Poco importa. Nel 2007, l’anno in cui il fratellone conquista il Pallone d’Oro, fa parte della rosa del Milan. Esordisce contro il Catania, in Coppa Italia. La prestazione è decisamente negativa (suo l’errore sul vantaggio ospite con Spinesi), tanto che gli etnei si portano a casa la partita (1-2 il finale). Disputa anche la gara di ritorno contro i catanesi e il Milan viene eliminato (1-1). Si rivede, in maglia rossonera, a marzo, contro la Lazio. Sarà la sua unica presenza con la casacca del Diavolo. Sempre sotto contratto con il club del fratellone, a 23 anni prova a ribellarsi all’etichetta di “il fratello di Kaká”. Vola in Belgio e indossa la maglia dello Standard Liegi. La fortuna non è proprio dalla sua parte: si rompe i legamenti del ginocchio e, di fatto, i tifosi dello Standard Liegi non lo vedono mai in campo (una presenza, pochissimi minuti). Fa uno stage con il Friburgo. Dopo 10 giorni, il club tedesco risponde al Milan: “No,

Il fratello Kakà è stato una delle stelle del calcio mondiale

grazie”. Proprio mentre il fratellone firma un contratto multimilionario con il Real Madrid. Altro biglietto aereo per l’Italia, questa volta si trasferisce a Lecce. Non incanta, anzi… A febbraio 2010 straccia l’accordo con il club giallorosso e accetta la corte del Crotone. Altro flop. Il Milan, detentore del cartellino, non sa più che fare. Il Penafiel, club portoghese, si fa avanti. “Il Penafiel sarà il mio San Siro”,

la carriera di digao Stagione Squadra Squadra Presenze Reti 2005-2006 Rimini B 7 0 2006-2007 Rimini B 18 0 2007-2008 Milan A 3 0 2008-2009 Standard Liegi PL 1 0 2009-feb. 2010 Lecce B 2 0 feb.-giu. 2010 Crotone B 0 0 2010-2011 Penafiel LDH 13 1 2012-2013 New York Red Bulls MLS 1 0

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afferma, felice, durante un’intervisbagliato fratello e stesse parlando sta a Maisfutebol. Incredibile ma di Kaká? L’MLS non fa per lui. Una vero, segna anche un gol, contro il presenza e nient’altro. Che fare? Vitoria Setubal in Coppa del PorSemplice, ritirarsi dal calcio. A 27 togallo. Nient’altro da segnalare. anni, dopo aver tentato ogni possiResta fermo per un anno. Nessuno bile strada per dimostrare di non lo vuole, nessuno crede in lui. Nel essere solo “il fratello di Kaká”, Di2012, a 27 anni, decide di fare un gao appende gli scarpini al chiodo. altro “salto nel buio”. Va negli StaCome dargli torto… Ma qualcosa Si ringrazia Panini tes. Viene messo sotto contratto di buono, il buon Digao l’ha fatta. per la gentile concessione delle con i New York Red Bulls. Almeno Sapete perché Ricardo Izecson immagini in questo, anticipa il fratellone (che dos Santos Leite è noto con il noandrà ad Orlando tre anni più tardi). mignolo di Kaká. La risposta arriva Erik Soler, l’allora dg del club newyorkese, lo direttamente dalla bocca del fratellino: “Da presenta in maniera entusiastica: “Digao ha piccolo non ero capace di dire correttamenimpressionato positivamente il nostro staff te il suo nome. Non riuscivo a dire Ricardo. tecnico in questa settimana di prova e vogliaLo chiamavo Kaká. Kaká di qua, Kaká di là e, mo continuare a valutarlo per il resto della alla fine, è diventato Kaká”, racconterà, a più stagione. Ha una buona esperienza maturata riprese, durante le innumerevoli interviste in grazie alle molte partite con diverse squadre cui gli hanno chiesto del fratellone. Ecco, ben europee disputate in questi anni e siamo liefatto Digao… Il nome, al fratellone buono a ti di aggiungerlo al nostro roster”. Che abbia giocare a calcio, l’hai dato tu…

fratelli scarsi Essere il fratello scarso è un peso enorme da portare. Tutti ti paragonano “a quello forte”. Pensate a Hugo Maradona. Con un cognome così, dove puoi andare? La lista di fratelli che non sono riusciti a togliersi dalle spalle il peso di essere “Il fratello di…” è infinita. Chi si ricorda di Chedric Seedorf, fratello di Clarence? Alzi la mano chi non ha dimenticato Micha Djorkaeff, fratello di Youri o, ancora, dell’ex leccese Kwame Ayew, noto per essere il fratello di Abedì Pelé. Pensate a quando deve essere stato strano essere stato Eddy Baggio, il fratello del Divin Codino. Digao è stato sovrastato, come tanti altri prima di lui, dal successo e dal talento del fratellone Kaká. In un’intervista rilasciata a TMW nel 2009, durante la sua avventura (o disavventura) al Lecce, Digao ha parlato di cosa significa essere il fratello di Kaká: “Se è difficile essere suo fratello? Per alcune cose sì, ma per altre sei facilitato. Quando conquisto una cosa devo fare sempre il doppio perché la gente pensa che sia stato facilitato essendo il fratello di Kaká e non vedono il mio merito. Ormai, però, sono abituato a questa situazione e so quali sono i miei meriti. Per quanto riguarda certe opportunità, invece, magari è più facile che ti si presentino essendo fratello di Kaká”. Digao è sempre stato sincero. Il suo sogno era giocare con il fratellone, proprio come faceva da piccolo. In realtà, ci è riuscito. In un’occasione, i due, ormai grandi, hanno giocato fianco a fianco: “Sembra impossibile, ma fino ad oggi abbiamo giocato solo una partita insieme. Eravamo a Dubai, per una partita amichevole tra il Milan e la squadra degli Emirati Arabi Uniti. Quando ho ricevuto la prima palla, mi è venuta, in maniera istintiva, la voglia di passarla a mio fratello Kaká ma poi mi sono ricordato che non eravamo più bambini”, ha raccontato, qualche anno, fa Digao. Dura essere il fratello scarso…

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e r a d r o c i r Gare da Atalanta - Verona di Alessandro Guerrieri

L’impresa del Verona di Osvaldo Bagnoli, capace di vincere uno storico Scudetto mettendo in fila tutte le big.

Il giorno del miracolo gialloblù 90 Credit Foto: Liverani


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maggio 1985, il cielo su Bergamo è plumbeo, ma nel cuore dei tifosi del Verona splende un sole equatoriale. È il giorno che mai i tifosi scaligeri avrebbero sognato che arrivasse, quello che può rendere un sogno realtà, una speranza difficile anche da pensare in cronaca. Il palcoscenico non è quello che tutti avrebbero sperato, il vetusto “Bentegodi”, ma si sposta 120 km più a ovest, nelle brume della provincia lombarda. È uno stadio antico, quello di Bergamo, costruito nel 1928 ed intitolato originariamente a Mario Brumana, un milite fascista caduto durante i moti che precedettero l’avvento del regime. Nel 1985 si chiama più semplicemente “Comunale”, è lì che guarda tutta l’Italia pallonara. Già, perché su quel verde manto erboso è ad un passo dal realizzarsi un miracolo calcistico, lo scudetto di una poco blasonata squadra di provincia, il Verona. È la fine di un percorso iniziato con la promozione nella massima serie. Gli scaligeri da tre anni stanno crescendo, neanche tanto piano piano; prima, grazie all’arrivo in panchina del “Mago della Bovisa”, al secolo Osvaldo Ba-

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corda GARE DA ri Atalanta - Verona

Si ringrazia Panini per la gentile concessione delle immagini

gnoli, un milanese tanto taciturno quanto capace di entrare nei cuori e nella testa dei suoi giocatori, il ritorno in Serie A, poi un quarto ed un sesto posto, con il gustoso corredo di due finali, perse, di Coppa Italia. Sembrano risultati irripetibili, sono il trampolino verso quella che rimarrà una storia indimenticabile del nostro calcio. È la stagione nella quale, dopo anni di polemiche arbitrali, per la prima volta viene sperimentato il sorteggio arbitrale, sarà un caso che sia quella in cui a guardare tutti dall’alto in basso, in barba alla Juve di Michel Platini, con 18 centri capocannoniere del torneo, al Napoli del “Pibe de Oro” Maradona ed alle milanesi dei bomber Altobelli e Virdis, c’è una bella, irriverente, Giulietta veronese: un manipolo di lottatori forgiati nell’acciaio, che a Verona si sono rilanciati dopo alterne esperienze ad altre latitudini. In primis il portiere Garella, passato dalle paperelle in serie dei tempi della Lazio, alle prodezze a ripetizione con la maglia del Verona, ma anche Di Gennaro e Sacchetti, bocciati dalla Fiorentina, ed il bomber tascabile “Nanu” Galderisi, che nella città di Giulietta e Romeo si riprende quella gloria che sembra definitivamente persa dopo la bocciatura juventina, stesso percorso fatto dall’aletta tutto pepe Pierino Fanna, forse il vero valore aggiunto di Bagnoli. Se aggiungete la grande comunione di intenti e due turbocompressori di vaglia come il tedesco Briegel ed il possente Elkjaer, memorabile una sua rete alla Vecchia Signora a piede scalzo, ecco che il mix diventa esplosivo. Un manipolo di irriverenti

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“tagliagole” che da qualche mese guida la classifica e con la sua sfrontatezza respinge gli assalti di tutti i pretendenti. Per entrare di dritto nella storia, basta un punto nelle ultime due di campionato, a Bergamo ed in casa contro l’Avellino. Ma siccome i lupi irpini sono da sempre bestia nera per i veneti, al “Partenio” nella gara di andata è arrivata una delle due sole sconfitte del torneo, è bene archiviare la querelle scudetto già al “Comunale”. Al “Comunale” Del resto, Osvaldo Bagnoli è stato chiaro, vuol chiuderla fin da subito nell’uggiosa trasferta in terra bergamasca. È il secondo assalto al mitico triangolino tricolore, dopo quello fallito la settimana precedente davanti al pubblico amico, nella sfida contro il Como: di fronte ai lariani, Galderisi e compagni sparano a vuoto, al “Bentegodi” ne esce uno squallido nulla di fatto. Potrebbe essere un passo falso iniziale per Volpati e compagni, buon per gli scaligeri che anche il Toro, secondo in classifica, si inceppi: i granata non sono più quelli di Pulici, Graziani e Claudio Sala, ma in panchina c’è sempre lui, il “conducator” dello scudetto di qualche anno prima, Gigi Radice. I granata, anziché sfruttare il turno per prendere la scia dei gialloblù, si fanno imporre il pareggio casalingo dall’ormai tranquilla Atalanta ed a 180’ dalla fine la classifica dice: Verona 40, Torino 36, e la vittoria vale ancora due punti. Non serve essere dei mostri in matematica per capire che ai veneti basta un punto per scolpire, a caratteri cubitali, il proprio nome


nell’albo d’oro del nostro campionato. Ironia della sorte l’avversario è proprio quello che sette giorni prima ha fatto un grande regalo, l’Atalanta. I nerazzurri Una squadra scolpita nella roccia, come il suo allenatore, il “caciarone” toscano Nedo Sonetti, da Piombino, uno che non ha mai avuto la chance di allenare una grande squadra, e l’avrebbe pure meritata, ma che quando c’è da lottare per la salvezza non

delude mai. Ha per le mani una squadra neopromossa in A, campionato dal quale mancava da un lustro, seguitissima dal proprio pubblico (quasi 18.000 abbonati) e con l’unico obiettivo della salvezza, conquistata a suon di pareggi, allora una mezza vittoria. Alla fine, saranno addirittura 18, in 30 partite. Una squadra di onesti mestieranti, con qualche eccellenza: lo svedese Glenn Stromberg, un biondo cavallone scandinavo che unisce qualità a quantità, il portierone Ottorino Piotti, il giovane Donadoni,

Galderisi in azione nella partita contro l’Atalanta che varrà lo Scudetto - Credit Foto Liverani

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debuttante a queste latitudini, ed il trequartista Magrin, al quale la Juventus pochi anni dopo penserà per il dopo Platini, salvo riceverne prestazioni inguardabili. Insomma, un avversario tosto. Il Verona Gli scaligeri però poco se ne curano; la città è elettrizzata, l’attesa è spasmodica, lo scudetto è lì, pronto ad essere afferrato: i tifosi preparano un vero e proprio esodo verso il “Comunale”, nel capoluogo veneto non si parla che dei 90’ in terra bergamasca. La tensione si affetta con il coltello, l’obiettivo è così vicino ma altrettanto lontano. Le notti dei tifosi scaligeri vengono turbate da fantasmi di nerazzurro vestiti. Serve un esorcista, e chi meglio di Osvaldo Bagnoli? Il tecnico scaligero sparge calma e tranquillità, non cede alla tensione, ma pensa soltanto a far risultato. Del resto, se in tutto il campionato i suoi hanno perso solo due partite, nella Torino granata e ad Avellino, c’è da essere fiduciosi. O no? Le Formazioni La settimana scorre lentamente, i minuti sembrano ore, le ore giorni, i giorni settimane. Ma la domenica arriva, con il suo carico di speranze e tensioni. Quelle che attanagliano non soltanto i giocatori scaligeri, ma ancor più i loro 10.000 tifosi accorsi a Bergamo, per non parlare di quelli che a Verona sono attaccati alle radioline. Nei padroni di casa Sonetti sceglie una sola punta, il lungo perticone Marco Pacione, bravo di testa, meno con i piedi, che anni dopo si brucerà in uno scia-

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gurato Juventus–Barcellona nel quale si divorerà occasioni da gol in quantità industriale, coadiuvato dagli inserimenti di Marino Magrin, letale anche con le sue punizioni. A centrocampo la fantasia di Roberto Donadoni e del veterano Agostinelli, in difesa i vecchi bucanieri delle aree di rigore Gentile e Perico. Ultimo sbarramento il portiere volante, Ottorino Piotti. In casa dei prossimi Campioni d’Italia, Osvaldo Bagnoli ha l’intera rosa a disposizione, osserva con attenzione gli allenamenti e decide di schierare una formazione più di lotta che di governo, per conquistare quel benedetto punto indispensabile per scrivere la parola “fine” ad un romanzo appassionante, ben sapendo che l’Atalanta le proverà tutte per mettersi alla cintura il prezioso scalpo scaligero. Ed allora il “Mago della Bovisa” sposta il factotum Volpati a centrocampo, sacrificando il più tecnico Sacchetti; in difesa c’è il mastino implacabile Ferroni. Scelte chiare, il tecnico del Verona si aspetta una battaglia, più che una passeggiata di salute verso l’obiettivo. La Partita Sono le 14:30 quando l’arbitro Boschi, della sezione arbitrale di Parma, chiama le due squadre a centrocampo. Non è uno dei fischietti più celebrati, chiuderà la sua carriera con appena 42 partite dirette nella massima serie, ad accoppiarlo alla sfida del “Comunale” la grande novità del sorteggio arbitrale, sia pure attraverso la divisione in gruppi di merito, legati all’importanza delle partite. Lo stadio ribolle di entusiasmo, si gioca a Bergamo


ma l’ex “Brumana” sembra più una succursale del “Bentegodi” che lo stadio della Dea orobica. Nella curva loro riservata, ci sono 10.000 tifosi entusiasti, per loro non è un viaggio della speranza, ma quello verso l’imperitura gloria, ormai lontana un solo punticino. L’Atalanta è nella canonica divisa nerazzurra, il Verona, per obblighi di ospitalità, si presenta con la tenuta gialla; per gli orobici è l’ultima apparizione davanti al pubblico amico, ed allora quale miglior occasione di congedarsi con una bella vittoria sulla capolista? Sonetti non ha problemi di classifica e spinge i suoi all’assalto; dopo pochi secondi arriva già la prima insidia per Garella, Stromberg si invola sulla corsia mancina, mette in mezzo, ne nasce una mischia, conclusa da una staffilata di Magrin che si perde di poco sopra la traversa. Brividi di paura quelli gialloblù, di entusiasmo

Un monumento del calcio italiano, il grande Osvaldo Bagnoli, l’uomo dell’impresa

quelli nerazzurri. Ma il Verona è scolpito nella roccia, e risponde immediatamente: lo fa con una punizione di Pierino Fanna, il suo destro dal limite costringe Piotti ad una difficile deviazione in corner. L’Atalanta si fa vedere ancora dalle parti dell’area scaligera con una legnata di Perico dalla lunga distanza, agevolmente controllata da Garella e poi con una incursione del terzino Rossi sulla fascia destra: sul suo cross Vella manca l’inzuccata vincente. Il momento è tutto per la Dea orobica, i nerazzurri sembrano stare meglio fisicamente e cercano il colpaccio con qualche conclusione dalla distanza, peraltro imprecisa. Il Verona si scuote alla mezzora, prima il panzer Briegel si divora il centrocampo, assiste il libero Tricella, sul cui cross Galderisi arriva con un attimo di ritardo. Poi Elkjaer mette fuori da ottima posizione. Seguono minuti di calma, le due squadre sembrano aspettare il fischio di chiusura della prima frazione quando ecco la sorpresona. Tanto attesa, dai bergamaschi, e anche dal Torino, impegnato a Firenze, tanto inattesa dai 10.000 tifosi Hellas. Il cronometro scandisce il minuto 43: Donadoni, uno che si farà, si beve la difesa scaligera, dalla sinistra si incunea fino alla linea di fondo, con il piede mancino mette al centro, armando la testa di quel grintoso difensore che è Eugenio Perico, uno deputato ad evitarli i gol, non a realizzarli. Il cross è un autentico dolcetto, il difensore nerazzurro è lasciato colpevolmente solo ai limiti dell’area piccola e, di testa, scuote la rete di Garella facendo sprofondare nello sconforto la curva del Verona. Il gol subito fa ai gialloblù lo stesso effetto del rosso ad un Toro: spronati da Bagnoli e senza più nulla da difendere, il Verona si lancia verso Piotti a pieno organico: dopo pochi secondi ne esce una mischia dantesca in area avversaria, con Briegel, Elkjaer, Marangon e Fontolan, nell’ordine, che non inquadrano lo specchio nerazzurro. Si va

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negli spogliatoi con l’Atalanta in vantaggio, un risultato che dispensa ansia alla squadra e ai tifosi, nonostante il Torino non vada oltre il pari a Firenze. Secondo Tempo Negli spogliatoi Bagnoli si fa sentire, non alzando la voce, non lo faceva mai, ma diffondendo buon senso e tranquillità. L’avvio è soporifero, il Verona mantiene una netta supremazia territoriale ma sembra inebetito dallo schiaffo di Perico. Sembra, perché dopo un rigore reclamato a giusta ragione per un intervento del baffuto Magnocavallo su Galderisi, ecco la perla: è il sesto minuto della seconda frazione, sugli sviluppi di un calcio d’angolo, mal gestito dalla difesa orobica, Briegel serve Galderisi, il piccolo attaccante è bravissimo, nel cuore dell’area di rigore, a difendere la palla, assistendo alla perfezione Elkjaer. Il danese è a 7-8 metri da Piotti, vede il “cadeau” del compagno di reparto e scaraventa il suo sinistro alle spalle dell’incolpevole estremo nerazzurro. Il gol arriva proprio sotto la curva del popolo gialloblù, ebbro di gioia e che non crede ai propri occhi. Al triplice fischio di chiusura manca ancora tanto, ma il Verona

IL TABELLINO DELLA PARTITA Bergamo – 12/05/1985 – 29.a giornata Serie A

ATALANTA-HELLAS VERONA 1-1 (1-0) ATALANTA; Piotti; Osti, Gentile, Perico (82’ Codogno), Rossi; Magnocavallo, Donadoni (72’ Soldà), Vella, Agostinelli; Magrin, Pacione. All: Sonetti. HELLAS VERONA: Garella; Ferroni (62’ Sacchetti), L. Marangon (75’ Bruni), Tricella, Fontolan; Briegel, Volpati, Di Gennaro, Fanna; Galderisi, Elkjaer. All: Bagnoli. Reti: 16’ Perico (A), 51’ Elkjaer (V) Arbitro: Boschi di Parma Spettatori: 21.308

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è tornato quella macchina da guerra che ha dominato il campionato: freddo, determinato, cinico nel menare le danze. E stavolta la danza è un valzer dalla bellezza abbacinante, un valzer che fa esultare non solo i supporters scaligeri ma anche quelli di tutte le altre squadre d’Italia, a parte quelli granata che in cuor loro una speranzella nel titolo l’avevano. Al fischio finale si scatena una bolgia: c’è “Bisteccone” Galeazzi che rincorre Bagnoli per strappargli le prime impressioni da Campione d’Italia ed i tifosi che fanno festa con i loro beniamini. Il verde prato erboso del “Comunale” si dipinge dei colori gialli e blu, giovani e meno giovani piangono per la commozione, Bagnoli viene alzato in trionfo dai suoi ragazzi, quelli che ha condotto, passo dopo passo, dalla serie cadetta allo scrivere un romanzo chiamato scudetto, l’ultimo romanzo romantico del nostro calcio, una sorte di Leicester “antelitteram”. Un trionfo che trae le sue origini da lontano: il Verona non è, tecnicamente, la squadra più forte del lotto, ma ha dalla sua uno spirito di gruppo incredibile, quello che ha permesso agli scaligeri di reagire alla grande alle, poche, avversità capitate durante il torneo, come accaduto dopo la sconfitta ad Avellino, da sempre campo tabù per la squadra veneta. Un trionfo nato dalla quotidianità, dal sudore di tutti i giorni, dalla voglia che tutti i protagonisti avevano di aiutarsi l’un con l’altro; un valore aggiunto ben raccontato dalle parole di uno dei principali attori di quella stupenda cavalcata, il panzer Hans-Peter Briegel: “La vera forza del Verona sono il rispetto, l’amicizia, il dialogo anche e soprattutto fuori dal campo. Il nostro vero intenderci ha inizio dopo gli allenamenti e le partite. Volete un esempio? Dopo sei mesi di vita in comune, dal ritiro estivo alla fine dell’anno solare, ben dieci giocatori hanno voluto trascorrere insieme la notte di San Silvestro e brindare assieme al nuovo anno ed alla difesa del primato”.


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