Strane storie

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StorieSkira


Carlo Lucarelli

Strane storie


Collana diretta da Eileen Romano Design Marcello Francone

Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico o altro, senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti e dell’editore © 2013 by Carlo Lucarelli Published by arrangement with Agenzia Letteraria Roberto Santachiara © 2013 Skira editore


Introduzione

A me piace raccontare storie. Sono uno di quelli che quando sente o vede qualcosa di interessante subito pensa a come metterla in fila per raccontarla a qualcuno, scegliere le parole, trovare le immagini, fermarsi a un certo punto per riprendere il filo più avanti, e a volte è così intensa, l’operazione, che smetto di guardare e di sentire quello che sto vivendo in diretta. Non sono il solo, naturalmente, come me c’è tanta gente a cui brillano gli occhi e la voce quando si accorge che c’è qualcuno che ascolta non importa se attraverso un libro, un film, la voce stessa o qualunque cosa. Siamo quelli che se un giorno incontrassero un mago o una fata che gli dicesse: “Posso spedirti in un’isola remota dove vivrai cento anni di una vita felicissima con tutte le persone che ami”, risponderebbero: “Si può fare novantanove? Così torno indietro per raccontarlo”. Siamo narratori, ci piace raccontare storie e quando lo facciamo bene siamo una buona cosa mentre quando lo facciamo male, lo so, siamo un flagello di Dio, i peggiori scocciatori del mondo. Però ci piace lo stesso. E non sappiamo resistere. Le storie contenute in questo libro le ho raccontate in gran parte in un programma radiofonico che si chiama Deegiallo, su Radio Deejay, ispirato da Linus, il suo geniale direttore, e musicato da Fabio B. e Dario Usuelli. Lo spirito era e resta proprio quello, raccontare una storia che mi abbia colpito tanto da farmi venire il desiderio di ri-rac7


contarla subito a qualcuno. Strane, misteriose, incredibili storie che confermano in modo stupefacente il dato di fatto che la realtà supera di gran lunga la fantasia. Qui le abbiamo riviste e sistemate per blocchi, libere associazioni di idee narrative, in una specie di viaggio guidato soltanto dal piacere di narrare. Molte sono storie poco conosciute – o almeno, non le conoscevo io – altre sono più note e tutte sono state sicuramente raccontate da qualcun altro e probabilmente meglio di me. Ma non importa. Avevo una gran voglia di raccontarle anch’io. C.L.

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Hiroo Onoda L’uomo che non si arrendeva mai

Lubang è un’isoletta al largo della costa sud delle Filippine. Fuori dalla baia di Manila, la capitale, c’è un’isola grande che si chiama Mindoro, una piccola che si chiama Ambil, e una un po’ più estesa che si chiama, appunto, Lubang. È un bel posto, anche se non è una di quelle isole da vacanza, tipo le Bahamas o le Seychelles, spiagge bianche, palme e dune. Lubang è un isolotto tropicale, montagnoso e ricoperto da una fitta vegetazione, e ha un suo fascino selvaggio. Ma c’è un problema. C’è qualcosa che terrorizza gli isolani che vivono nei paesini sulla costa. Qualcosa che arriva all’improvviso, distrugge e sconvolge, come un uragano, e poi scompare. Gli abitanti di Lubang coltivano il riso. Lo raccolgono ai piedi delle colline sotto stuoie di paglia ed è sempre un buon raccolto, perché l’isola è molto fertile. Ce n’è abbastanza per gli isolani e lo si può vendere a Mindoro, farci un po’ di soldi e far crescere l’isola e le famiglie che la abitano. Ma no, all’improvviso, durante la notte, ecco le fiamme che si alzano dai campi, qualcuno ha dato fuoco al raccolto gettando stracci imbevuti d’olio sui mucchi di riso. Raccolto in fumo, niente riso, niente soldi, i proprietari dei campi alzano gli occhi al cielo, pronunciano una maledizione in tagalog, la lingua locale, e aggiungono un nome: Hiroo Onoda. Un villaggio sulla costa ha bisogno di un pontile nuovo per le imbarcazioni che vanno a pescare. È quella che si chiama un’infrastruttura di sviluppo, la flotta da pesca di Lubang può muoversi meglio e quindi fare più soldi e far crescere l’isola e i suoi abitanti, ma no. Il pontile è appena fatto che bum! Una not9


te salta per aria come il ponte sul fiume Kwai. Chi è stato? Lo sanno tutti, lo gridano, quel nome, accidenti a te, Hiroo Onoda. Chi uccide le pecore e azzoppa le mucche, chi sabota le strade e fa saltare i cantieri, chi mantiene nel medioevo un’intera isola delle Filippine? Sempre lui, Hiroo Onoda. Va bene, ma chi è Hiroo Onoda? Hiroo Onoda è un soldato, un tenente dell’esercito imperiale giapponese. Prima di entrare nell’esercito, appena finito il liceo, aveva lavorato come contabile in una ditta di import export con la Cina, bravo, zelante e preciso, un impiegato modello. Poi era scoppiata la guerra, la Seconda Guerra Mondiale, e Hiroo Onoda era stato richiamato per combattere gli americani. E siccome è sempre così bravo, zelante e preciso, un soldato modello, lo iscrivono al corso ufficiali e in breve tempo diventa tenente di seconda classe. Il giovane tenente di seconda classe Hiroo Onoda viene assegnato a un battaglione particolare. Sono più o meno dei commandos, truppe speciali addestrate alla guerriglia, esploratori da mandare dietro le linee per raccogliere informazioni o sabotare le retrovie nemiche. Il giovane Onoda è molto umile e anche un po’ timido, lo dice ai superiori, lui non è adatto per certe cose, non è un buon osservatore, non si ritiene neanche abbastanza intelligente per fare la spia, non vorrebbe fare una brutta figura e disonorare così l’imperatore, la sua famiglia e se stesso, in ordine di importanza, naturalmente. Ma i superiori hanno deciso, Onoda diventerà un commando e zitto, obbedire e basta, come un bravo soldato giapponese. E Onoda, infatti, obbedisce, frequenta la scuola e impara tutto quello che c’è da imparare. Il primo incarico che gli danno è quello di andare a presidiare una piccola isola delle Filippine. Un isolotto al largo del golfo di Manila che si chiama Lubang. Gli assegnano un gruppo di soldati e il suo superiore, il maggiore Taniguchi, gli dà una serie di ordini precisi. Aspettare lo sbarco degli americani e poi condurre 10


una guerriglia spietata. Non arrendersi mai, per nessun motivo. Continuare la guerriglia finché non sarà lui stesso, il maggiore Taniguchi, a ordinargli di smettere. E così fa Onoda. Arrivano gli americani e lui li combatte, combatte tutto quello che non è giapponese, distrugge tutto, spacca tutto, e anche se i suoi uomini si arrendono o muoiono, uno dopo l’altro, fino a lasciarlo solo, lui continua. Lui non si arrende. Come adesso, nascosto nella giungla, pronto a uscire per far saltare un pontile o bruciare un raccolto, sfuggendo ai soldati che lo cercano per catturarlo. Il problema è che è il 1974. Il Giappone si arreso nel 1945. La guerra è finita. Da quasi trent’anni. Ecco, è qui che la storia del tenente Onoda diventa veramente incredibile. Perché uno può essere così bravo da sfuggire a tutte le ricerche, un samurai, un ninja, un rambo, che nessuno riesce a prendere. Onoda impara a sopravvivere mangiando quello che trova e quello che ruba, anche le radici o gli insetti. Si abitua a dormire con un occhio solo, mezzo sepolto su un pendio in discesa ai margini della foresta, in modo da saltare fuori e schizzare via al primo segnale di pericolo. Conosce tutta l’isola, palmo a palmo, ogni buco, ogni anfratto, vive come un animale, con tutti i sensi all’erta, pronto a volare via come un uccello. Vive di notte come un vampiro e caccia come un lupo mannaro. E dopo ogni azione la polizia e l’esercito filippino – ma anche gruppi di isolani inferociti perché quel pazzo gli sta distruggendo tutto – battono l’isola ma non riescono mai a trovarlo. Va bene, uno può essere anche così bravo da nascondersi tutta la vita. Va bene. Ma un latitante, un criminale, un uomo braccato dalla legge o dalla malavita. Onoda invece è un soldato che fa la guerra. 11


E come si fa a fare la guerra, da solo, per trent’anni? Come si fa a credere che la guerra ci sia ancora, che non sia finita? Perché di motivi per credere che sia tutto finito il tenente di seconda classe Onoda ne ha tanti. Intanto glielo dicono. Gli americani riempiono l’isola di volantini, li buttano dagli aerei, la guerra è finita, c’è scritto, arrendetevi, e sono anche firmati dal generale giapponese che comanda la regione, ma Onoda e i suoi non ci credono. E in effetti sarebbe stato il primo dei trucchi, abbastanza banale, la guerra è finita e poi non è vero e li fanno tutti prigionieri. E la stessa cosa vale anche per un volantino scritto da uno degli ultimi uomini di Onoda catturato dai filippini. La scrittura, la calligrafia, è proprio la sua, ma che vuol dire, lo avranno costretto. Così vanno avanti. Però poi Onoda ruba una radio da una casa dell’isola e capta le trasmissioni di una stazione giapponese. C’è musica, scherzi, chiacchiere, pubblicità, nessuno parla di guerra, anzi. Strano, però, chissà, vuol dire che il Giappone la sta prendendo bene. Allora gli americani gli buttano da un aereo una lettera di suo fratello Tishro, e insieme ci sono anche delle foto della sua famiglia, e Onoda pensa, accidenti, gli yankee hanno superato loro stessi. Come hanno fatto a procurarsi le foto? Allora mandano proprio Tishro, suo fratello maggiore, che se ne va in giro per l’isola con un altoparlante, cantando le canzoni di quando erano bambini e Onoda pensa che quello è un attore che imita la voce di suo fratello, e lo fa benissimo, diabolici americani. Ma non lo prenderanno mai. Lui non si arrende. C’è una canzone di Bruce Springsteen che s’intitola No surrender. Il tenente Onoda non la conosce, deve ancora uscire, ma lui è così che fa, non si arrende. Tecnicamente, dal punto di vista psichiatrico, Hiroo Onoda, è un delirante. Si è costruito un mondo tutto suo, completa12


mente scollegato dalla realtà. Una visione in grado di prendere tutto quello che la contrasta e di modificarlo, manipolarlo, digerirlo e farne addirittura uno dei puntelli del suo mondo fantastico. Per esempio, americani e filippini buttano dal cielo pacchi di riviste illustrate, o le lasciano nella foresta. È un tentativo di ricollegare Onoda e i suoi alla realtà, perché sulle copertine di quelle riviste e nei servizi all’interno ci sono foto che mostrano un paese in pace, un Giappone moderno e ricostruito. Ecco, pensa Onoda, questa è la dimostrazione che la guerra continua. Perché se la guerra fosse finita e l’avessimo persa noi il Giappone sarebbe stato distrutto. E se invece l’avessimo vinta noi allora sarebbero venuti a prendermi. Ma la cosa più incredibile che Onoda riesce a pensare è la teoria della pace economica e della guerra militare. In quelle riviste si vedono gli Stati Uniti e il Giappone fare affari insieme. Operai giapponesi nelle fabbriche di auto americane e viceversa. Giapponesi vestiti all’occidentale. I film di Hollywood a Tokio. Il rock and roll. È naturale, pensa Onoda. Una guerra come quella non può durare trent’anni, altrimenti le nazioni finiscono in bancarotta. Non è mica scemo da credere una cosa del genere. Vuol dire che per continuare la guerra, le nazioni fanno la pace economica, fanno affari assieme, così possono trovare le risorse per armare gli eserciti e continuare a combattere. Il fatto è che il tenente di seconda classe Onoda, come molti deliranti, non può ammettere che esista una realtà alternativa a quella che ha creato. Vorrebbe dire che tutto quel tempo, tutte quelle energie sarebbero state spese per niente. Che i suoi soldati rimasti a combattere con lui sarebbero morti per niente. Che avrebbe continuato a combattere per una vita una guerra che era finita trent’anni prima, perché trent’anni sono una vita. Spesa così, per niente. No, no. La guerra c’è ancora, la guerra continua. E il tenente di seconda classe Hiroo Onoda non si arrende. 13


Ma tutte le storie, anche le più incredibili, prima o poi finiscono. Quella di Hiroo Onoda finisce il 9 marzo 1974. Onoda sta continuando la sua guerra da soldato modello. Si tiene in salute e in esercizio, si lava i denti con le foglie, si cuce l’uniforme lui stesso e pulisce e olia il suo fucile. Poi, un giorno verso la fine di febbraio, incontra un uomo nella foresta. Sta per sparargli ma si trattiene, perché c’è qualcosa che lo colpisce. Porta i sandali con i calzini. Se fosse un soldato o un poliziotto non porterebbe i sandali e se fosse un filippino dell’isola non porterebbe i calzini. Così Onoda non gli spara e gli chiede chi è. Si chiama Norio Suzuki, è giapponese e fa il giornalista. Ecco, forse Onoda è stanco della sua guerra, forse comincia a dubitare, ma si mette a parlare con il giornalista, si lascia fotografare e si lascia fare una domanda fondamentale. Ma perché continui a combattere, gli chiede Suzuki, perché non vuoi credere che la guerra è finita? C’è qualcosa che potrebbe convincerti ad arrenderti? Ma certo che c’è. È ovvio. Il maggiore Taniguchi. Lui ha ricevuto dal maggiore l’ordine di non arrendersi mai. Se il suo diretto superiore gli comunica un ordine diverso, lui lo esegue. È così che succede. Trovano il maggiore Taniguchi, che non è più nell’esercito ma fa il libraio da qualche parte in Giappone. Gli mettono la sua vecchia uniforme da maggiore e lo mandano nella foresta al luogo dell’appuntamento fissato da Onoda con Suzuki. Onoda esce dalla foresta con il suo fucile. Ascolta sull’attenti il maggiore Taniguchi che gli legge il proclama dello stato maggiore di trenta anni prima – in conformità con l’ordine imperiale la quattordicesima regione militare ha cessato ogni attività bellica – e aspetta. È sicuro che il maggiore gli farà un cenno, gli farà capire che è tutto finto, che gli ordini sono sempre 14


gli stessi, combatti, Onoda, non ti arrendere. Ma il maggiore non fa niente. Dice soltanto “è tutto”. E così il tenente di seconda classe Hiroo Onoda si arrende. La sua guerra è finita. Per quanto incredibile questa è una storia che finisce bene. Nonostante all’inizio i filippini dell’isola siano così arrabbiati che lo vogliono ammazzare, Onoda rientra in Giappone dove diventa una specie di mito dell’onore e della lealtà giapponesi, un simbolo per l’estrema destra. Scrive un libro che racconta la sua incredibile vita, una biografia in cui spiega tutto e lo chiama, appunto Non mi arrendo.

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Carlo Lucarelli

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Lucarelli

Carlo Lucarelli è autore di numerosi romanzi e racconti tra cui Febbre gialla (1997), Laura di Rimini (2001), Il lato sinistro del cuore (2003) e le serie dei commissari De Luca, Coliandro – adattati con successo in TV – e Grazia Negro. È noto al pubblico anche per le popolari serie televisive e radiofoniche in cui ricostruisce la storia d’Italia attraverso i misteri insoluti e da cui ha tratto diversi volumi. Nel 2011 ha pubblicato, insieme ad Andrea Camilleri e Giancarlo De Cataldo, Giudici.

mare Charles Bronson; uno strano caso di suggestione collettiva nella California degli anni Sessanta... Donne avventurose, inventori derubati e geni incompresi, casi curiosi e delitti ir“Strane, misteriose, incredibili storie che confermano in modo stupefacente il dato di fatto che la realtà supera di gran lunga la fantasia. Molte sono storie poco conosciute – o almeno, non le conoscevo io – altre sono più note e tutte sono state sicuramente raccontate da qualcun altro e probabilmente me-

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glio di me. Ma non importa. Avevo una gran voglia di raccontarle anch’io.” Carlo Lucarelli

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