Julian Schnabel. 1976-2007

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SUMMER JULIAN SCHNABEL Dipinti 1976 –2007

a cura di Gian Enzo Sperone Marco Voena con il contributo di Julian Schnabel


Questo libro è pubblicato in occasione della mostra “Julian Schnabel. Paintings 1978-2006” Roma, Palazzo Venezia, 3 maggio - 17 giugno 2007 Milano, Rotonda della Besana, 26 giugno - 30 settembre 2007 Il libro è a cura di Gian Enzo Sperone e Marco Voena ed è stato coordinato da Francesca Martinoli e Daniel Parker

In copertina Untitled, 2007 In IV di copertina I Don’t Want to Be King, I Want to Be Pope, 1977 Risguardi Palm Beach, 1990 A pagina 2 La scultura Clytemnestra and Agamemnon e il dipinto Artaud nello studio di Julian Schnabel a Brooklyn, New York, 2006 A pagina 6 Julian Schnabel davanti alla Lotta di Giacobbe con l’angelo di Eugène Delacroix nella chiesa di Saint Sulpice a Parigi, 19 aprile 2007 Design Marcello Francone Redazione Fabrizio Begossi Impaginazione Sara Salvi Traduzione Enza Sicuri (dall’inglese in italiano) Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti e dell’editore © 2007 Julian Schnabel Studio © 2007 Gli Autori per i loro testi © 2007 Skira editore, Milano Tutti i diritti riservati Finito di stampare nel mese di aprile 2007 a cura di Skira, Ginevra-Milano Printed in Italy www.skira.net


SUMMER Summer. I make most of my paintings in the summer. I always have since I was a little kid. I can still smell the roses in my uncle Jack’s backyard. I like to paint outside. My studio doesn’t have a roof on it. I can see better, get further away from the paintings, see them in radically different light at different times of day. The weather affects the paintings too, stains, rain, mildew, bleached by the sun, accidents, blown by the wind, nature, at first a distraction interfering then helping. It is an activated system. Freedom of materials set in water and daylight, every summer. Estate. Da quando sono bambino dipingo la maggior parte delle mie opere in estate. Sento ancora il profumo delle rose nel cortile di mio zio Jack. Mi piace dipingere all’aperto. Il mio studio è senza tetto. Vedo meglio, mi posso allontanare di più dai dipinti e vederli sotto varie luci nelle diverse ore del giorno. Il tempo altera anche i dipinti. Macchie, pioggia, muffa, scolorati dal sole, accidentati, trascinati dal vento, la natura, all’inizio qualche cosa che interferisce negativamente poi che aiuta. È un sistema in attivo. La libertà dei materiali è posta nell’acqua e nella luce del giorno, ogni estate.



L’amico americano Marco Voena

Julian Schnabel l’ho conosciuto nel gennaio 2005 nell’enorme studio annesso alla sua casa nel Greenwich Village a New York City, grazie al comune amico Gian Enzo Sperone. Lo studio mi è sembrato subito una specie di immensa cattedrale gotica, uno spazio favoloso e denso di suggestione, di vita, di chiaroscuro drammatico e perfino di mistero. Gian Enzo per me è sempre stato una sorta di padre putativo, una figura di riferimento cui mi legano molteplici ragioni, dal suo forte percorso nel contemporaneo al suo sofisticato gusto di collezionista di old masters, una linea di pensiero in qualche modo estremamente torinese e “tazzoliana”, intessuta di crossing, di ricerca e assonanze atemporali che ci accomuna. Mi affascina il suo humor distaccato, la sua versatilità mobile, imprendibile. Un torinese a New York… Spesso dietro il tessuto delle avanguardie si nasconde un mondo tracciato di segni antichi e inattesi. Mi viene in mente innanzitutto il provocatorio Andy Warhol, che nel suo privato accumulava arredi settecenteschi americani Baltimore Chippendale, librerie neogotiche, marmi archeologici e iconici ritratti secenteschi di Peter Lely. Proprio quello che uno si sarebbe aspettato da Bill Blass, non certo dal sulfureo genio di Pittsburgh. Pur essendo un mercante di quadri antichi, negli anni ho molto frequentato l’arte contemporanea come collezionista e ho conosciuto tanti dei suoi protagonisti delle ultime generazioni. Ma quello che più mi colpisce, riguardo a Julian Schnabel, è che lui è un vero pittore. L’ho potuto capire nel maggio dell’anno scorso quando, in sole tre ore di lavoro forsennato, davanti ai miei occhi, Julian ha dipinto su una tela quadrata, due metri per due, il ritratto del mio amico Mario. Il procedimento, dalla tela vergine, attraverso il disegno e il comporsi della trama cromatica, mi ha fatto immediatamente pensare a un’ideale galleria di grandi ritrattisti del passato, da Tiziano a El Greco, da Caravaggio a Velázquez, fino a Goya. Non c’è nessuna ostinata volontà antiaccademica dentro il fare di artista di Julian Schnabel. La sua è una passione totale, un abbandono felice, una specie di transfert nel mezzo pittorico. Ripete sempre che non può fare a meno di dipingere, che è un’esigenza basica del suo stesso esistere. Se non lo fa gli rimane dentro come un malessere, un’irresolutezza inquieta, un senso di inutilità. Dipingere per Schnabel è una grande dichiarazione di libertà. Il suo figurativismo opulento ed eroico si sfalda nell’impeto di pennellate larghe, vaste e insistite, infine spezzate e astratte. Un filo che lo ricollega all’espressionismo sintetico e nebuloso dell’ultimo Tiziano, alla deflagrazione tonale e di segno del Goya francese. È quella la sua strada.

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Note da Clarkson Gian Enzo Sperone

Qui a Downtown Manhattan dove sto, a quattro passi dal fiume che confluisce nel mare, il vento si da parecchio da fare e gli odori cambiano di frequente. Quello dolciastro di fiume è appena percettibile, ma non sfugge a uno come me che ha vissuto da sempre a un tiro di sputo da un fiume: il Po, il Tevere e, appunto, l’Hudson. Non ci avevo mai pensato prima, ma, in effetti, vicino a un corso d’acqua che non si ferma mai ho passato la maggior parte della mia vita (il resto più prosaicamente sugli aerei di Alitalia, anche loro sempre in movimento). Adesso ho in mente le montagne, dove potrei allenarmi a stare un po’ fermo. Con Julian Schnabel, che ho conosciuto parecchio tempo fa in un ascensore di West Broadway che portava da Leo Castelli, ho incominciato un discorso che non si è ancora esaurito. Strano parecchio, perché la gran parte degli artisti che ho esposto, amato e sostenuto, non li vedo proprio più. Sarà che il mondo dell’arte assomiglia sempre più a un canile che a un giardino all’italiana e ci si azzuffa per eccessiva contiguità; sarà che i pittori, come i poeti o i musicisti, sono presissimi più dalla loro musica interna che non da quella degli altri. Sta di fatto che i rapporti personali si logorano più del necessario. La storia infinita della pittura è penetrata nella mia vita di soppiatto, giacché, pur predisposto alle ansie snervanti dell’estetica, pensavo di più all’arte delle parole: quella scritta, che una volta scaturiva incredibilmente dal tremolio di un pennino. L’incontro con i pittori è risultato a tal punto impegnativo che sono ormai più di quarant’anni che respiro aria di galleria (oltre che di fiume) per cercare di capire e tirare qualche somma. A proposito di Julian Schnabel, dove sta l’anomalia, vista la continuità dei nostri rapporti che sfiora il terzo di un secolo? Riguarda più la persona o l’artista? La persona è debordante per energia e stazza, non si sottrae al dialogo, anzi lo esige, non elude e richiede molta attenzione. Bernardo Bertolucci, di cui Schnabel è grande ammiratore, ha ricordato recentemente che quando incontrò Julian senza sapere chi fosse, lo sentì sentito zufolare nemmeno tanto discretamente una parte della musica di Novecento, che pretendeva di conoscere meglio di chiunque altro; si sarebbe anche sentito dire altre cose un po’ esagerate, tanto che non poté non pensare di avere incontrato qualcuno il cui ego era più monumentale del suo (il che pare non accada spesso). Altri esempi: alla presentazione, anni fa, della mostra di Cy Twombly al MOMA di New York, invece di starsene buono e seduto come la maggior parte di noi, ha inter-

Julian Schnabel, New York City, 1979

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rotto Kirk Varnedoe per dire che, in quella stanza dove si celebrava un rito di pittura, forse tre o quattro persone al massimo si intendevano veramente di pittura e potevano quindi capire il problema. E allora? Quando Jack, suo padre, ebreo cecoslovacco emigrato in Texas, debordante come lui e che gli aveva trasmesso il dono della naturalezza, incontrava qualche divo dell’arte o del cinema, Julian, che gli faceva da spalla, si compiaceva a tal punto che Jack non faceva più parlare nessun’altro. Quando, venticinque anni fa a Zurigo, al ristorante Kronenhalle, era convinto che, da un tavolo poco lontano, Joan Miró lo guardasse con interesse e curiosità, aveva fatto il diavolo a quattro perché un cameriere gli portasse il suo catalogo fresco di stampa, con calorosa dedica a Mirò; salvo poi scoprire, ma senza scomporsi più di tanto, che quello che assomigliava assai a Mirò, era un dentista di Zollikon, che nel frattempo se ne era andato senza nemmeno capire il perché di tanta attenzione. Come pittore, Julian ha una capacità d’intonazione fuori dal normale, con slanci e finezze talvolta in controcanto con il resto, magari cupo, del quadro: mai retorico. Per certi aspetti, ravviso qualche nota di similarità con la poesia di Walt Whitman, capace di mantenere un tono epico o elegiaco o quant’altro, senza ricorrere alle cadenze e alle lusinghe della rima e del versificare secondo metrica, insomma musicale per natura e capace di assonanze sempre inventive. Il quadro, alla fine, incombente o sbilenco che sia, funziona sempre e mantiene negli anni il forte slancio che ne ha caratterizzato la genesi: una freschezza impressionante. Sarà molto? Sarà poco? Non spetta a un partigiano tirare le somme. La sua pittura picchia duro, su telacce d’accatto, formati vertiginosi, colore non steso ma spalmato con le mani. Scritte insolenti, a volte ovvie a volte fulminanti, mai tremolanti. È anche singolare il fatto che, come artista, insieme a recensioni entusiastiche, abbia ricevuto critiche talvolta così ostili e brutali da sembrare attacchi personali. Ma non l’ho mai visto spiazzato o sconvolto per i picchi di cattiveria o bontà che può raggiungere la critica d’arte. Dimenticavo: nell’edificio qui a New York, a Clarkson Street, dove per caso siamo finiti dirimpettai, quando cambia il tempo o soffia verso terra, spesso il ventilatore della casa si confonde, s’inceppa e io posso sentire in camera da letto l’odore del bacon che Julian si cucina per la colazione. Sì, perché Julian, che è stato agli inizi sguattero e cuoco in vari ristoranti, dice di sapere anche cucinare benissimo! Mah!

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Portrait of Gian Enzo, 1988, olio, piatti, bondo su legno, 152,4 x 121,9 cm / 60 x 48 in.

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Untitled (Aunque Sepa los Caminos Yo), 1993

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Untitled (Monjas al Ajillo), 1993

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Untitled (View of Dawn in the Tropics), 1993

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The Conversion of St. Paolo Malfi, 1995

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Malfi, 2000

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Untitled (Treatise on Melancholia), 1989

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Untitled (Treatise on Melancholia), 1989

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Untitled (Treatise on Melancholia), 1989

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El Espontaneo, 1990

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Anno Domini, 1990

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Catherine Marie Ange, 1990

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Untitled (Dentro Dite), 1988

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Untitled (E.T.S.), 1988

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Bolgia, 1988

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Untitled, 1989

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Untitled, 1989

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Untitled (Zeus), 1992

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Untitled (Zeus Duende), 1992

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Untitled (Olatz), 1991

Untitled (Los Patos del Buen Retiro), 1991

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Untitled (Nil), 1991

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Untitled (Duende), 1992

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Untitled (Mi Vida es una Cumbre de Mentiras), 1993

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Jane Birkin #4, 1990

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Untitled, 2004

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Untitled, 2004

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Untitled, 2004

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Untitled, 2004

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