Renoir. Dalle collezioni del Musée d’Orsay e dell’Oragerie

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Renoir

Dalle collezioni del Musée d’Orsay e dell’Orangerie

a cura di Guy Cogeval Sylvie Patry Riccardo Passoni



Sommario

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Renoir, viaggio a Torino Sylvie Patry

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Renoir, Venezia e i Veneziani Augustin de Butler

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L’Italia e Renoir. 1910 e dintorni Riccardo Passoni

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Catalogo delle opere a cura di Sylvie Patry, Ophélie Ferlier

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Biografia Isabelle Gaëtan

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Riferimenti bibliografici Isabelle Gaëtan



Sylvie Patry

Renoir, viaggio a Torino

Pierre-Auguste Renoir Ritratto detto di Margot, 1876 (particolare fig. 5)

“Si torna sempre ai primi amori, ma con una nota in più”1 “Il problema dell’Italia […] è che è troppo bella”, dichiarava Renoir al tramonto della sua vita2, non senza un certo gusto per il paradosso. In realtà l’artista, che nel 1909 rinunciò a un ultimo viaggio, visitò l’Italia solo due volte, nell’inverno 1881-1882 e, per qualche giorno, nel dicembre 1883 con Monet. In questo senso il suo soggiorno più lungo, quello del 1881-1882, all’età di quarant’anni e nel pieno della sua carriera artistica, si discosta dal tradizionale viaggio intrapreso dagli artisti dell’epoca come coronamento degli anni di formazione. Quando studiava all’Ecole des Beaux-Arts, Renoir non concorse al Prix de Rome, che premiava il vincitore con un soggiorno a Villa Medici. Per mancanza di mezzi, non intraprese neanche il viaggio a sue spese come fecero invece Manet e Degas. Per Renoir l’Italia fu il paese della maturità: “Ora potrei dipingere in Italia […]. Ne so abbastanza”3. Nel 1881-1882 l’artista quindi “fece una scorpacciata della sua Italia”4, rimanendovi circa tre mesi e visitando Venezia, forse Firenze, Roma, Napoli, la Calabria, Capri e Palermo5. Da questo viaggio tardivo e non molto lungo, Renoir portò indietro una ventina di dipinti in cui catturò i riflessi nella laguna di Venezia (al soggiorno veneziano è dedicato il saggio di Augustin de Butler nel presente catalogo); esaltò la sensualità della compagna Aline a Capri e, secondo quanto afferma il regista Jean Renoir, figlio e biografo dell’artista, eseguì in Calabria degli affreschi di cui nessuno ha ancora trovato una traccia certa6. Lo stesso Renoir confessò che il viaggio del 1881 – “una grande

data nella mia evoluzione”7 – fu l’occasione di molte scoperte estetiche che consolidarono passioni artistiche e intuizioni del passato, influenzando e alimentando a lungo la sua arte. In una lettera scritta da Napoli, l’artista riassume l’esperienza con questa bella frase: “Si torna sempre ai primi amori, ma con una nota in più”. Quindi l’analisi delle opere – ad esempio Maternità (cat. 34) – che risalgono a questo “punto di svolta” dei primi anni ottanta dell’Ottocento, a questa “cesura”8, per usare il termine spesso citato da Renoir, confermerà i mutamenti già in corso prima del viaggio in Italia: un ritorno al disegno, un’attenzione alla plasticità e un gusto per l’affresco in cui i modelli ammirati in Italia – a cominciare dal Raffaello della Galatea di Villa Farnesina – e gli antichi dipinti murali di Napoli, si intrecciano con l’osservazione dell’Italia contemporanea. Opponendosi al luogo comune secondo cui l’Italia era un paese in declino, Renoir ammirò i suoi contemporanei d’oltralpe vedendo in loro il riflesso e la continuità dei gloriosi anni dal Trecento al Rinascimento: “Gli italiani non hanno alcun merito nell’aver creato grandi opere di pittura. Gli bastava guardarsi intorno. Le strade italiane sono gremite di dei pagani e personaggi biblici. Ogni donna che allatta un bambino è una Madonna di Raffaello!”9. Probabilmente anche Renoir cede all’irriducibile propensione dei viaggiatori a trasformare l’Italia in una serie di tableaux vivants; ciò nonostante ne ricava la formula di un ideale che gli sta a cuore e che a suo parere è stato portato a compimento innanzi tutto nell’antica Grecia, nell’Italia del Rinascimento e nella Francia del XVI e del XVIII se21



Catalogo delle opere


Frédéric Bazille (1841-1870) 2. Ritratto di Renoir 1867 Olio su tela, 61,2 x 51 cm Deposito del Musée des Beaux-Arts di Algeri, DL 1970-3 Renoir posa in rue Visconti a Parigi, nello studio di Bazille, il quale ospita per qualche tempo l’amico, in difficoltà economiche. In questo ritratto rapidamente schizzato Bazille, che ritiene il collega un “grande lavoratore”1, immortala tuttavia un momento di riposo: Renoir, con estrema disinvoltura, siede posando i piedi su una poltrona di vimini. Lo sguardo assorto, il giovane sogna forse qualche futura composizione. L’abbigliamento ordinario ma curato – giacca nera, pantaloni chiari senza risvolti, camicia bianca, cravatta blu e stivaletti neri – contribuisce alla naturalezza e all’efficace semplicità della composizione. Rappresentativo del pensiero di questo gruppo di pittori, che combinano eleganza e spontaneità, e rigettano il tradizionale armamentario del ritratto d’artista (tavolozza, pennello, blusa, copricapo floscio, espressione ispirata), il dipinto in esame mette invece in risalto la comune ambizione di dipingere “l’epoca moderna perché – scrive Bazille – è quella che comprendo meglio, che trovo più viva e adatta a persone colme di vita […] Le qualità della mia pittura sarebbero certamente apprezzate in un’ambientazione anticheggiante o in un tepidarium, ma temo che la rappresentazione di un mio abito in satin in un salotto verrebbe rifiutata”2. 1 Lettera di Bazille ai genitori [gennaio 1867], in M. Schulman, Frédéric Bazille (1841-1870). Catalogue raisonné. Peintures – Dessins, pastels, aquarelles. Sa vie, son œuvre, sa correspondance, Éditions de l’Amateur – Éditions des Catalogues, Paris 1995, p. 354, lettera 156. 2 Lettera di Bazille alla madre (?) [intorno al 15 marzo 1866], ivi, p. 349, lettera 132.

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Claude Monet (1840-1926) 3. Il calesse. Strada di Honfleur sotto la neve con la fattoria Saint-Siméon 1867 circa Olio su tela, 65 x 92,5 cm Lascito di Isaac de Camondo, 1911, RF 2011 Il calesse – come il paesaggio innevato che si scorge alle spalle di Bazille nel ritratto eseguito da Renoir (cat. 1) – figura tra la decina di paesaggi innevati dipinti da Monet tra il 1867 e il 1869. Il tema costituisce un terreno di sperimentazione irrinunciabile per Monet, ma anche per Sisley, Pissarro e Renoir. Dipingere gli “effetti di neve” consente infatti di studiare il gioco dei riflessi, del colore e della luce sul bianco, abbandonando il tradizionale chiaroscuro. Il bianco (come il nero, contrariamente a quanto si tende a ritenere) è al centro delle ricerche impressioniste rivolte alla cattura e restituzione non del colore in sé, definitivo e

assoluto, ma di un colore composto da altri colori, per natura contingente e transitorio (variabile a seconda dell’ora, dei riflessi, degli elementi circostanti eccetera). Renoir dava il seguente consiglio: “Il bianco non esiste in natura. Il cielo sovrasta la neve. Il cielo è azzurro. Questo azzurro si deve distinguere nella neve. Al mattino c’è del verde e del giallo nel cielo. Se si dipinge un quadro al mattino, sulla tela tali colori devono percepirsi”1. E aggiungeva: “dobbiamo donare intensità al bianco lavorando sul valore tonale di ciò che lo circonda e non semplicemente stendere del bianco sulla tela”2. 1 Intervista a Renoir del 1910 a Monaco, citata da J. Rewald, Histoire de l’impressionnisme, Albin Michel, Paris 1986, pp. 143-144. 2 Citato da J. Manet, Journal. 1893-1899, Scala, Paris 1987, p. 145.

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Frédéric Bazille (1841-1870) 4. L’atelier di rue de la Condamine 1870 Olio su tela, 98 x 128,5 cm Donato da Marc Bazille, fratello dell’autore, 1924, RF 2449 Bazille raffigura l’atelier, allora condiviso con Renoir, situato nel quartiere parigino di Batignolles, quello che diede il nome al nostro gruppo di artisti (“la scuola di Batignolles”). A volte si identifica Renoir nell’uomo seduto in fondo alle scale verso il quale si sporge il romanziere Émile Zola (a meno che non si tratti dello scrittore, critico e artista Zacharie Astruc). Manet – raffigurato dinanzi al cavalletto mentre chiacchiera con Bazille (da lui ritratto, come rivela la fattura differente) – si riconosce

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con minor incertezza grazie al bastone da passeggio. Le opere appese alle pareti sono di Bazille e Renoir: il grande quadro incorniciato a destra della finestra è probabilmente quello che Renoir si era visto rifiutare al Salon del 1866. L’autore, indispettito, lo distrusse, e quindi questa veduta d’atelier resta l’unica testimonianza di una composizione giovanile che deve molto a Courbet. Questa tela, dipinta per divertimento, secondo Bazille, ma certo anche per conservare il ricordo di un luogo che stava per lasciare, riflette bene l’atmosfera di cameratismo e di scambio in cui viene elaborata quella che diventerà la “Nuova pittura”. In questo senso la tela ha il valore di un manifesto. La vasta stanza

dalle pareti chiare, sgombra dal tipico bric-à-brac degli atelier ottocenteschi, ha forse ospitato, come l’adiacente Café Guerbois, alcune delle vivaci discussioni ricordate da Monet: “Nulla era più interessante di quelle chiacchierate, di quel perpetuo scontro di opinioni. Tenevamo la mente in attività, ci incitavamo a vicenda alla ricerca disinteressata e sincera, facevamo provviste di entusiasmo che ci sostenevano per settimane e settimane, fino alla definitiva articolazione dell’idea. Ne uscivamo temprati, la volontà più salda, il pensiero più netto e chiaro”1. 1 C. Monet, Mon histoire recueillie par Thiébault-Sisson, L’Echoppe, Paris 1998, pp. 22-23.


5. Il ragazzo con il gatto 1868 Olio su tela, 167 x 129 cm Acquisito con il contributo di Philippe Meyer nel 1992, RF 1992-409 Ignoriamo l’identità del modello in posa in uno dei pochissimi nudi maschili di Renoir. Il rifiuto di idealizzare l’anatomia dell’adolescente, l’illuminazione livida del corpo e la mancanza di pretesto mitologico inseriscono questo nudo nella linea di quelli prodotti da Manet – dal Déjeuner sur l’herbe (1863, Musée d’Orsay) a Olympia (1863, Salon del 1865, Musée d’Orsay) –, veri e propri oggetti di scandalo ammirati da Renoir. Il ragazzo con il gatto è appartenuto a Edmond Maître, amico intimo di Renoir. Tra i primi sostenitori dei futuri Impressionisti, Maître era anche un wagneriano della prima ora e un valente musicista dilettante; lo si riconosce, seduto al piano, nell’Atelier di rue de la Condamine di Bazille (cat. 4).


“Noi adoriamo le donne di Renoir”1

Con questa dichiarazione Marcel Proust pone l’accento su uno dei temi preferiti di Renoir e sottolinea come il pittore abbia rinnovato lo sguardo: “il pittore originale, l’artista originale, procedono alla maniera degli oculisti. […] Ed ecco che il mondo (che non è stato creato una volta per tutte, ma si rinnova ogni volta che vede la luce un artista autentico) ci appare completamente diverso dal vecchio, ma assolutamente chiaro. Per la strada passeggiano donne diverse da quelle del passato, diverse perché sono opera di Renoir, lo stesso Renoir sulle cui tele un tempo ci rifiutavamo di vedere delle donne […] È questo il nuovo e fragile universo che è appena stato creato”2. Negli anni intorno al 1865 la figura femminile è al centro dei pensieri di Renoir: i suoi ritratti obbediscono certo all’imperativo della somiglianza, ma sono anche quadri di genere le cui protagoniste – fidanzate, amiche, sartine o commesse di Montmartre che l’artista convince a posare – sembrano intercambiabili. In aperto contrasto con i canoni accademici, Renoir inventa un nuovo tipo femminile e contribuisce alla creazione del mito della

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Parigina moderna che affascina tanto i contemporanei. Sul giornale con cui collabora, “La vie moderne”, il pittore proclama: “Sì, voglio dipingere […] la vera regina della vita moderna, la Parigina”3. Renoir ridefinisce il “femminino”, come hanno auspicato i romanzieri naturalisti quali Zola e i sostenitori della “Nuova pittura”. Mentre raffigura la “donna francese vivente” celebrata dal critico e romanziere Edmond Duranty, Renoir crea un tipo fisico che gli è proprio, riconoscibile tra tutti, anche se si evolve nel corso del tempo, e che ispira al figlio Jean questo paradosso: “Aveva già dipinto il nostro ritratto prima che nascessimo, prima della nostra concezione fisica; per centinaia di volte aveva già ritratto tutti i bambini, tutte le fanciulle di cui avrebbe inconsciamente popolato l’universo che sarebbe divenuto il suo”4. 1

M. Proust, Pour un ami, in Écrits sur l’art, Flammarion, Paris 1999, p. 340. 2 Idem, Du côté de chez Guermantes, Robert Laffont, coll. “Bouquins”, Paris 1988, p. 276. 3 “La vie moderne”, giovedì 5 giugno 1879, p. 139, n. 9. 4 J. Renoir 1981, p. 205.



9. Madame Darras 1868 circa Olio su tela, 47,5 x 39 cm Donazione della baronessa Eva Gebhard-Gourgaud, 1965, RF 1965-11 10. Giovane donna con la veletta 1875-1876 circa Olio su tela, 61 x 51 cm Lascito di Raymond Kœchlin e signora, 1931, RF 3668 Solo una di queste due donne con la veletta è stata identificata. La modella del quadro del 1868 è Delphine Oudiette (1837-1910), moglie del capitano Paul Darras, pittore-topografo che fu tra i primi sostenitori di Renoir. Charles Le Cœur (cat. 17) mise probabilmente in contatto i due uomini e possedette a lungo questo quadro di cui Renoir aveva, a quanto pare, dimenticato l’esistenza nei suoi ultimi anni di vita. Il ritratto è uno studio per l’opera più grande mai dipinta da Renoir, Cavalcata mattutina al Bois de Boulogne, rifiutata al Salon del 1873 (Amburgo, Kunsthalle), in cui Madame Darras, abbigliata di nero, monta all’amazzone e indossa un cappello a cilindro. Il tema dell’amazzone era all’epoca assai in voga, si pensi al mondano Carolus-Duran o a Manet. Come numerosi suoi contemporanei, tra i quali Manet e Degas, Renoir si diverte a giocare sull’impalpabile tessuto nero della veletta, affermando così l’importanza della moda nella definizione della “Nuova pittura”. L’autore non aveva forse progettato di illustrare una rubrica settimanale di moda sulla rivista “La vie moderne”1? Concepita per proteggere il viso dalla polvere ma anche dagli sguardi, la veletta picchiettata di nero dona un carattere paradossale al ritratto, rivelando e nascondendo a un tempo l’attraente volto della modella.

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Tale ambiguità culmina in Giovane donna con la veletta e accresce il mistero di questa “figura di fantasia” o tela di genere, piuttosto che vero ritratto, la cui protagonista resta ignota. Il profilo sfuggente della misteriosa giovane donna rivela qualche affinità con l’elegante dama rinvenuta nel corso dell’esame radiografico della Passeggiata (1875-1876, New York, The Frick Collection)2, ma anche – nell’abito – con le briose fanciulle dell’Uscita dal conservatorio (1876-1877, Philadelphia, The Barnes Foundation), due composizioni ambiziose scaturite dall’osservazione della vita urbana. Perché è proprio di una scena eminentemente urbana che si tratta, colta al volo, tanto che oggi ci è difficile descrivere con precisione il momento e il gesto scelti dall’artista. La giovane donna, che indossa un dolman a quadretti, sembra dare le spalle a una parete: si appresta a infilare i guanti che ogni donna deve indossare prima di uscire, proprio come la veletta, o armeggia con il borsellino prima di lasciarlo scivolare in una tasca del vestito? Il restauro intrapreso in occasione di questa mostra ha rivelato il raffinato gioco di brevi pennellate giustapposte e incrociate, i filamenti di colore che animano i blu e i verdi scuri, i neri e i grigi che dominano questa composizione chiusa sul primo piano della fugace e misteriosa apparizione femminile. 1 Si veda S. Patry, in L’Impressionnisme et la Mode, catalogo della mostra (Parigi, New York e Chicago), a cura di G. Groom, Skira-Flammarion, Paris 2012, scheda pp. 99-105, in part. pp. 103-104. 2 C. Bailey, Renoir. Impressionism and Full-Lenght Painting, catalogo della mostra (New York), Yale University Press, New Haven 2012, pp. 98-99.

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11. La lettrice 1874-1876 Olio su tela, 46,5 x 38,5 cm Lascito di Gustave Caillebotte, 1894, RF 3757 Nel 1876 Edmond Duranty attribuisce a Degas queste parole: “Scultori e pittori hanno per mogli, per amanti, donne con il naso all’insù, gli occhi piccoli, minute, leggere, vive […] Questo tipo di donna che per il loro cuore e la loro mente rappresenta l’ideale […] è assolutamente l’opposto del femminino che si ostinano a riprodurre nelle proprie tele e sculture. Opere per le quali si rivolgono a una Grecia dalle donne scure, severe, robuste come cavalli. Forse un giorno la donna francese reale, con il suo naso all’insù, sfratterà la donna greca in marmo dal naso dritto e il mento massiccio”1. La lettrice di Renoir, assorta nella propria occupazione, il mento sprofondato in uno jabot rosa, è un buon esempio di questa “donna francese reale” e moderna. Renoir non rivela nulla della psicologia della modella o dell’ambiente che la circonda (forse un café). Inquadra la fanciulla da vicino per concentrarsi sul volto illuminato, accentuando così il contrasto tra la chioma bionda, il nero onnipresente e il rosa-rosso delle guance e della bocca. 1 E. Duranty, La Nouvelle Peinture – A propos du groupe d’artistes qui expose dans les galeries Durand-Ruel, Dentu, Paris 1876, ripreso in Les Ecrivains devant l’impressionnisme, testi riuniti e presentati da D. Riout, Macula, Paris 1989, pp. 114-115.

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18. L’altalena 1876; esposto alla terza mostra impressionista nel 1877 Olio su tela, 92 x 73 cm Lascito di Gustave Caillebotte, 1894, RF 2738 Questo celebre dipinto di Renoir è stato spesso paragonato a un passaggio del romanzo Una pagina d’amore di Zola pubblicato nel 1879: “In alto [Jeanne] entrava nel sole, in quel biondo sole di febbraio che pioveva come polvere di oro. I suoi capelli castani, dai riflessi d’ambra, si illuminavano; sembrava che stesse ardendo tutta intera, mentre i fiocchi di seta malva, simili a fiori di fuoco, brillavano sull’abito candido. Intorno a lei nasceva la primavera, i boccioli violacei spiccavano con tonalità di lacca sull’azzurro del cielo”1. Ma, al tragico destino della piccola Jeanne – che dondola freneticamente prima di cadere e morire, sorta di vittima espiatoria dell’adulterio commesso dalla madre –, Renoir oppone il paradiso del giardino di rue Cortot a Montmartre, adiacente allo studio che il pittore ha affittato da qualche mese. Lo svago dell’altalena convive in grande armonia con quello della conversazione tra una bella fanciulla – Jeanne, una vicina dell’artista che ritroviamo nel Ballo al Moulin de la Galette – e due giovanotti in abito estivo. “Che pace, che serenità in questa tela! Ecco persone che non hanno nulla da fare […] Vi si avverte l’assenza di ogni angoscia; questi giovani si godono la vita, il bel tempo, il sole del mattino che filtra attraverso il fogliame; che cosa importa loro del resto dell’umanità! Sono felici, ecco le parole che vengono in mente a chiunque ammiri questo quadro affascinante. Nessuna tela mi è mai piaciuta di più”, si entusiasma Georges Rivière, giornalista e amico di Renoir, che ha assistito alla genesi del quadro2. Nel 1877 L’altalena e Ballo al Moulin de la Galette (Musée d’Orsay) non passano certo inosservati in occasione della terza mostra impressionista. Il 21 aprile 1877 la tela figura sulla copertina de “L’Impressionniste”. D’altronde il quadro è in qualche modo una delle più pure espressioni del

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movimento. Come rivelano gli abiti dei personaggi, l’autore ha scelto un soggetto ispirato alla vita moderna per lanciarsi in audaci esperimenti sul colore che all’epoca gli valgono critiche piuttosto severe. I contrasti tra colori complementari e l’alternarsi tra zone d’ombra e chiazze di luce in cui sfumano i contorni sconcertano la critica: “I giochi di luce sono combinati in modo talmente bizzarro che producono proprio l’effetto di macchie di grasso sui vestiti dei personaggi”3. Louis Leroy, il critico divenuto celebre per aver coniato ironicamente il termine “Impressionismo” nel 1874, deride il blu che domina la composizione e pone l’accento sulla questione delle ombre colorate, al centro della rivoluzione impressionista. Il programma del movimento è riassunto da Georges Lecomte, uno dei primi storici dell’Impressionismo, proprio a partire da un esame dell’Altalena: “dipingere l’umanità moderna nella luce esatta in cui […] essa svolge le proprie attività quotidiane”4. Al di là dell’innegabile dolcezza e gioia di vivere che emana, la tela è anche una composizione meditata fin nei dettagli più minuti e una riproposizione di modelli anteriori. Renoir, in conformità con le proprie ambizioni, combina soggetto moderno e rimandi ad artisti settecenteschi che ammira profondamente, come Fragonard (L’altalena, 1767, Londra, The Wallace Collection) e Goya. Piuttosto che una restituzione documentaria dei rituali sociali dei propri contemporanei, L’altalena è un invito a un nuovo viaggio a Citera. 1 É. Zola, Une page d’amour, a cura di H. Mittérand, Gallimard, coll. “Folio”, Paris 1989, p. 80. 2 L’exposition des impressionnistes, in “L’Impressionniste”, 1, 6 aprile 1877. 3 L’exposition des impressionnistes, in “L’Evénement”, 6 aprile 1877. 4 G. Lecomte, L’Œuvre de Renoir, in “L’Art et les artistes”, gennaio 1920, p. 246.





25. La Senna ad Argenteuil 1873 circa Olio su tela, 46,5 x 65 cm Dono di Albert Charpentier e sua moglie, 1951, RF 1951-14 26. La Senna a Champrosay 1876; esposto alla terza mostra impressionista nel 1877 Olio su tela, 55 x 66 cm Lascito di Gustave Caillebotte, 1894, RF 2737 I due paesaggi esposti sono stati dipinti sulla riva della Senna, uno nei pressi di Argenteuil, luogo chiave dell’Impressionismo. Questo braccio di fiume a poca distanza da Parigi è stato raffigurato anche da Monet e da Sisley. Ugualmente accessibile in treno, Champrosay è un’altra località vicina alla capitale, dove Renoir si reca su invito dello

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scrittore Alphonse Daudet. “Non ho alcun bisogno delle cascate del Niagara”1 poiché “la bellezza è ovunque”2, avrebbe affermato, esprimendo così la sua predilezione per i motivi familiari e ordinari. Renoir non ricerca dunque né il pittoresco né il sublime. Malgrado le differenze nella gamma cromatica (tenue per Argenteuil, più intensa negli azzurri e nei verdi per Champrosay), questi due paesaggi dalla composizione asimmetrica e per certi versi audace sono accomunati da un senso del plein air e da un’esecuzione vigorosa. 1 Citato da J. Renoir 1981, pp. 141-142. 2 Riportato da H. Kessler, Das Tagebuch, vol. 4 (1906-1914), Cotta, Stuttgart 2005, citato in P.-A. Renoir 2009, p. 241.


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27. Il pero d’Inghilterra 1873 circa Olio su tela, 66,5 x 81,5 cm Acquisito per dazione nel 2011, RF 2012-5 Ultimo dipinto di Renoir entrato nelle collezioni del Musée d’Orsay, questo paesaggio è anche una vera e propria riscoperta, poiché non veniva esposto dal 1939 ed era conosciuto solo attraverso un’antica riproduzione in bianco e nero. Sebbene Renoir non lasci alcun indizio per identificare il luogo rappresentato, un titolo utilizzato in passato fa ipotizzare che la tela sia stata eseguita a Louveciennes, o nei dintorni, verso il 1873. I genitori del pittore avevano lasciato Parigi per

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stabilirsi a pochi chilometri dalla capitale, in quello che era ancora un angolo di campagna con vigne, orti e frutteti. Qui si trovava allora questa varietà di peri detti “d’Inghilterra”, abbastanza comune. Renoir visitava spesso la regione per dipingere dal vero non solo paesaggi, ma anche scene della vita moderna, come i celebri bagni della Grenouillère, che raffigura con Monet nel 1869, o il ristorante Fournaise e i suoi canottieri a Chatou, che ritrae dalla metà degli anni settanta dell’Ottocento. Introducendo un motivo piuttosto insolito nella sua opera e richiamandosi probabilmente a Corot, da lui considerato il più grande dei paesaggisti, qui Renoir si concentra sul lavoro dei campi:

le figure, che punteggiano la composizione come note colorate, trasportano fieno o raccolgono i frutti dell’imponente pero. L’artista rivela a questo riguardo la propria affinità con Pissarro, ma anche con Sisley. Louveciennes e la sua regione, in effetti, sono teatro di scambi propizi fra i tre pittori. Qui Pissarro e Sisley si stabiliscono e lavorano intensamente nei primi anni settanta. Non di rado i tre piantano il cavalletto negli stessi luoghi e dipingono fianco a fianco, come Renoir aveva fatto con Sisley durante l’estate del 1873. Scegliendo deliberatamente un sito ordinario privo di elementi pittoreschi per concentrare meglio l’attenzione

sugli effetti della luce e sui giochi di colori tra le foglie, Renoir contribuisce con quest’opera alla creazione di una nuova grammatica del paesaggio elaborata in comune dagli Impressionisti durante tutti gli anni settanta.


28. Sentiero nell’erba alta 1876-1877 Olio su tela, 60 x 74 cm Dono di Charles Comiot, 1926, RF 2581 “Quando si tratta di un paesaggio, io amo quei quadri che mi fanno venir voglia di entrarci dentro per andarci a spasso”1, affermava Renoir: Sentiero nell’erba alta sembra appunto esaudire il suo desiderio, tanto ha l’aria di invitare l’osservatore a unirsi a questa passeggiata fatta in una bella giornata estiva. Il sentiero che sbocca verso di noi e l’interruzione deliberatamente brusca del primo piano, come pure la linea prospettica alta che lascia tutto lo spazio ai poggi dalla vegetazione incolta,

contribuiscono a includerci nello spazio del dipinto. Nel presente paesaggio tutto rimanda all’idea di deambulazione, a cominciare dalle figure che animano la composizione, una donna con il parasole e un bambino con un cappello di paglia in testa: queste notazioni della vita moderna ci ricordano che nella seconda metà dell’Ottocento la passeggiata in campagna diventa un passatempo sempre più diffuso, facilitato dallo sviluppo dei trasporti ferroviari che collegano Parigi alla sua periferia, rimasta in parte rurale. Renoir era un grande camminatore. Sul camminare si fondava anche il metodo del paesaggista da lui formulato: spostarsi a piedi rivela al pittore dei motivi, introducendo così una

parte di casualità nel processo creativo, ma offre anche l’opportunità di un’osservazione feconda: “Tornando da una passeggiata solitaria, avrete fatto più progressi, se avete esercitato l’occhio a notare le finezze della natura, che copiando un qualsiasi oggetto trasportato in un atelier […]”2. Girovagare equivale a osservare: “Uno dei suoi principi era che bisognava girare senza meta: guardare la natura, impregnarsene, senza cercare di riprodurla […]; perciò certi giorni andavamo a fare grandi camminate. Le riflessioni di Renoir mi aprivano gli occhi”3. Lo spirito del flâneur (colui che passeggia senza uno scopo preciso) – “uno degli attori principali della vita quotidiana urbana” nell’Ottocento,

come ricorda Robert Herbert4 sulla scia di Walter Benjamin – è dunque fecondo per il paesaggista, poiché gli permette di cogliere gli effetti della natura. Come attesta Sentiero nell’erba alta, tuttavia, Renoir associava il “naturale” all’arte del passato, e in questa tela rende omaggio al Settecento francese, in particolare a Watteau. Infine, al pari del quadro di Monet Papaveri esposto alla prima mostra impressionista del 1874 (Musée d’Orsay) con cui dialoga o rivaleggia, Sentiero nell’erba alta appartiene forse alla fase eroica dell’Impressionismo, poiché nel 1875 figurava all’asta organizzata da Monet, Sisley, Morisot e Renoir. La vendita si rivelò un terribile insuccesso, ma un Paesaggio estivo di Renoir,

probabilmente analogo al nostro Sentiero, fu acquistato in quell’occasione per la modestissima cifra di 105 franchi5. 1

P.-A. Renoir 2009, p. 43. Ivi, p. 297. 3 J. Baudot, Renoir, ses amis, ses modèles, Editions littéraires de France, Paris 1949, p. 44, citato in P.-A. Renoir 2009, pp. 173-174. 4 R.L. Herbert, L’Impressionnisme, Flammarion, Paris 1988, p. 33. 5 C. Bailey, in Les Paysages de Renoir 1865-1883 (trad. francese del catalogo della mostra Renoir Landscapes 1865-1883), 5 Continents Editions, Milano 2007, p. 127, nota 13. 2

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29. Ponte ferroviario a Chatou, anche detto I castagni rosa 1881 Olio su tela, 54 x 65,5 cm Lascito di Gustave Caillebotte, 1894, RF 3758 Di ritorno dall’Algeria, dalla primavera al luglio del 1881 Renoir lavora a Chatou, nei pressi di Parigi, dedicandosi a una serie di dipinti importanti quali La colazione dei canottieri (Washington, The Phillips Collection), ma anche ad alcuni paesaggi. Dall’Île du Chiard, il pittore raffigura il ponte della linea ferroviaria che parte dalla Gare Saint-Lazare di Parigi e arriva fino a Saint-Germain-en-Laye. Aperta nel 1837, questa tratta permetteva ai parigini di praticare il canottaggio e la pesca, passeggiare e fare picnic in campagna in luoghi che distavano meno di un’ora da Parigi. Il ponte che vediamo in questa tela è costruito nel 1848. Come gli amici Impressionisti, in particolare Monet, Renoir include nelle sue opere alcuni degli elementi industriali che dalla metà dell’Ottocento trasformano il paesaggio francese. Qui, tuttavia, lo sguardo dell’artista, che in diverse occasioni leva il dito contro la meccanizzazione e l’industrializzazione del suo secolo, non esprime un sentimento di riprovazione. Il ponte, ancorché rappresentato con precisione, si fonde con la vegetazione circostante senza turbarne l’armonia.

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“Bello come un dipinto di fiori”1

Renoir non dà alla natura morta la stessa rilevanza che le attribuiscono Manet, Cézanne o Monet, e nell’ambito di questo genere si interessa soprattutto alla pittura di fiori. Questi ultimi appaiono di rado nei lavori degli esordi, ma nel tempo diventano per il pittore una fonte di ispirazione sempre più frequente, soprattutto a partire dagli anni ottanta, quando queste composizioni dalle tonalità delicate diventano apprezzate dai collezionisti. Alcune di esse risentono inoltre dell’influenza di Cézanne, col quale Renoir lavora fianco a fianco quattro volte negli anni ottanta. I suoi soggetti floreali si distinguono dunque per la sobrietà e l’attenzione con cui sono costruiti, come ad esempio nei Gladioli (cat. 47). “Meno compromettenti”2 delle figure e dei ritratti – come affermerà lo stesso Renoir – i fiori

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sono un motivo che sua moglie Aline ha cura di mettere quotidianamente a disposizione dell’artista nei vasi sparsi per la casa e nell’atelier, affinché egli possa sperimentare liberamente colori e forme: “Dipingere fiori mi riposa il cervello. Non ci metto la stessa tensione che ho quando sto di fronte a un modello. Quando dipingo fiori, cerco tonalità, testo colori audaci, senza preoccuparmi di perdere una tela. Con una figura non oserei farlo per timore di rovinare tutto. E l’esperienza che traggo da queste prove la applico poi ai miei dipinti”3. 1

P.-A. Renoir 2009, p. 171. G.-P. e M. Dauberville, con la collaborazione di C. FremontierMurphy, Renoir: catalogue raisonné des tableaux, pastels, dessins et aquarelles, t. I (1858-1881), Bernheim-Jeune, Paris 2007, p. 26. 3 Citato da P.-A. Renoir 2009, p. 119. 2


46. Mazzo di fiori su una sedia 1880 circa Olio su tela, 40 x 51 cm Parigi, Musée de l’Orangerie, Collezione Jean Walter e Paul Guillaume, acquistato dallo Stato con il contributo della Société des Amis du Louvre nel 1959, RF 1960-20 Come Manet e Monet, Renoir rinnova la pittura di fiori già a metà degli anni sessanta, dipingendo per esempio composizioni floreali in vasi da esterno. Il presente dipinto trasforma il motivo in una scena della vita moderna, una sorta di sineddoche delle giovani donne a

teatro che Renoir tanto ammira. Il mazzo sembra essere stato posato sul velluto della sedia di un palco dalle ragazze de Al concerto (1880, Williamstown, The Sterling and Francine Clark Art Institute). Esso fa pensare anche allo splendido ma scandaloso bouquet offerto alla cortigiana Olympia, che Renoir aveva già scelto nel 1871 come emblema del suo omaggio al dipinto di Manet (Natura morta con bouquet, 1871, Houston, Museum of Fine Arts). Con Mazzo di fiori su una sedia il pittore isola il motivo trasformandolo in un vero e proprio esempio di virtuosismo pittorico.

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47. Gladioli 1885 Olio su tela, 75 x 54,5 cm Donazione di Max e Rosy Kaganovitch, 1973, RF 1973-21 48. Rose 1890 circa Olio su tela, 35,5 x 27 cm Lascito di Paul Jamot, 1939, RF 1941-25

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