Morandi 1890-1964

Page 1



Sommario

19 Giorgio Morandi: la ricerca dell’essenza Maria Cristina Bandera 53

Un altro sguardo su Morandi Catherine Monbeig Goguel

59

Opera grafica di Morandi Roberto Longhi

65

La donazione delle matrici di Giorgio Morandi alla Calcografia Nazionale Fabio Fiorani

69

A Giorgio Morandi Giulio Paolini

71

Appunti su Giorgio Morandi Ferzan Ă–zpetek

75 Opere Schede di Stella Seitun Apparati 268

Giorgio Morandi. Note biografiche a cura di Maria Cristina Bandera

Bibliografia delle schede

270



Maria Cristina Bandera

Giorgio Morandi: la ricerca dell’essenza

Della modernità di Morandi, di come la sua arte “abiti il Tempo”, con la massima estensione, anche il nostro, scrive qui in catalogo con la cultura, la sottigliezza, la sensibilità da anticipatore che gli sono proprie, un grande artista che “vive il Tempo” dell’oggi, Giulio Paolini. Di questa acuta lettura dell’arte di Morandi va notata l’affinità percettiva con altri artisti, in questo caso un grande regista e un grande scrittore, al centro del tempo presente, Paul Auster e Bernardo Bertolucci, anch’essi catturati dall’arte di Morandi. Di più, quest’ultimo afferma che “Morandi è qualcuno per cui si può prendere una cotta”. Auster usa l’acutezza e l’incisività della sua scrittura per descrivere il “territorio sublime e austero un giorno abitato da Morandi”, i suoi quadri evocanti “la muta meraviglia di una pura cosalità […] una traduzione dell’esistenza umana nella resa minuta di tutto ciò che è là fuori oltre a noi […]”1. Bertolucci, abituato a “spiare” il mondo dietro una camera da presa, si spinge più in là, dice che in Morandi, nei suoi quadri “apparentemente semplici, così rigorosi, c’è sempre un luogo in cui spiare l’infinito”, un punto da cui si vedono “tantissime altre cose del mondo, contemporaneamente”, come in un “racconto di Borges, […] l’Aleph”2. Eppure la vicenda artistica di Morandi insegna che si può attraversare il tempo, si può essere una finestra aperta sul futuro, si può essere un artista che, oggi, altri artisti non cessano di interrogare, si può “tramandare la propria vita come esempio per le generazioni” a venire, senza rincorrere le mode, senza proclami, senza soprattutto “abbandonare se stessi”. È sufficiente, e non è poco, “credere profondamente in ciò che si possiede”3, come ha recentemente sottolineato Lawrence Carroll, affascinato dal magnetismo della sua arte e dalla sua esemplare condotta di vita e anch’egli convinto che una natura morta di Morandi è soprattutto qualcosa che conquista, “come una calamita che ti cattura dalla tua solitudine e ti porta nell’universo”.

A noi da storici, ma prima ancora da riguardanti, in quella accezione indicata da Duchamp – ce sont les regardeurs qui font les tableaux – spetta ripercorrerne il cammino. Spetta soprattutto, grazie a questa esposizione, anche a noi con l’occhio dell’oggi, entrare in un dialogo ravvicinato con la sua arte, guardando e riguardando i suoi quadri da vicino, dal vero, superando il filtro delle riproduzioni fotografiche. Morandi condusse una vita solo apparentemente stanziale, a Bologna, dove nacque nel 1890 e dove rimase sino alla sua morte avvenuta nel 1964, con la sola eccezione dei mesi estivi trascorsi nell’Appennino limitrofo alla città. Sceglie di lavorare costantemente nelle sue piccole stanze di via Fondazza, una delle tante vie porticate di Bologna, e di Grizzana, un borgo posto sui pendii emiliani. Spende un’esistenza concentrato sul suo lavoro, in un’apparente solitudine che tuttavia non gli impedisce di avere molti sguardi variamente orientati, di entrare in contatto con altri artisti e di misurarsi con la loro esperienza. Dimostra “fin da ragazzo […] grande passione per la pittura”, una passione che divenne “sempre più forte”, e, come racconta in prima persona, si dedica “interamente” ad essa. Si forma all’Accademia di Belle Arti di Bologna, dove si iscrive nel 1907, dapprima con buoni risultati, ma ben presto con la distanza e l’insofferenza dettata dall’avere preso consapevolezza dell’arretratezza culturale in cui questa stagnava. Con poche ma puntuali parole, nella prima delle sue scarne dichiarazioni, la brevissima Autobiografia, scritta nel 1928, a questo proposito dichiara: “Ben poco di ciò che ora serva alla mia arte vi appresi”4. Ancora durante i corsi all’Accademia, rinunciando ad affondare le radici della propria formazione nel simbolismo o nello storicismo ottocentesco come i pittori del suo tempo e avvertendo la necessità di un cambiamento, di svecchiamento soprattutto, 19


Maria Cristina Bandera

ascolta “con entusiasmo e interesse il verbo demolitore dei futuristi”. Si avvicina tangenzialmente al movimento e con i coetanei antiaccademici Osvaldo Licini, Severo Pozzati, Giacomo Vespignani e Mario Bacchelli partecipa alla mostra, avventurosa e di una sola notte, tenutasi nella hall dell’Hotel Baglioni a Bologna il 21 e 22 marzo 1914, e alla “Prima Esposizione libera futurista” alla Galleria Sprovieri a Roma, ricevendone parole elogiative da Marinetti5. Ben presto, accorgendosi “che ancor meno delle vecchie, le nuove idee estetiche rispondevano” alle sue “esigenze”, ha lo scatto per prenderne le distanze. Dotato di una straordinaria capacità di orientamento e di una forte consapevolezza del proprio lavoro, comprende di potere intraprendere un cammino personale. Contemporaneamente riflette sui benefici che gli potevano derivare dalla conoscenza dei “vecchi maestri che costantemente alla realtà s’ispirarono” e dalla “sincerità e semplicità” del loro operare: “Sentii – annota – che solo la comprensione di ciò che la pittura aveva prodotto di più vitale nei secoli passati avrebbe potuto essermi di guida a trovare la mia via”, “Giotto e Masaccio sopra tutti”6. Ventenne, ancora studente, ne vede gli originali per la prima volta a Firenze nel 1910, rimanendone fortemente colpito. Accanto alle loro opere scopre quelle di Paolo Uccello e di Piero della Francesca. Il Ritratto dei duchi di Montefeltro di questi dovette spingerlo a ritrovarne le opere dapprima a Rimini e in un tempo successivo in San Francesco ad Arezzo, incunabolo del pittore toscano. Ben presto, subendone una forte fascinazione, avrebbe avuto la visione diretta di Giotto ad Assisi e a Padova, dove certamente, nella Cappella degli Scrovegni, dovette tra l’altro rimanere colpito dal particolare degli otri allineati – una vera “natura morta” – dell’affresco con le Nozze di Cana, 1303-1305 (fig. 1). Il suo sguardo di pittore moderno, anche sulla spinta degli scritti di Carlo Carrà, La parlata di Giotto e Paolo Uccello costruttore, pubblicati nel 1916 su “La Voce”7, dovette indirizzarlo a guardare a Giotto come a colui che ha reinventato lo spazio in pittura e a Paolo Uccello per la trama geometrica sottesa ai suoi dipinti. Di Giotto, della sua “costruzione di valori puri”, in 20

1. Giotto, Nozze di Cana, 1303-1305, particolare, Padova, Cappella degli Scrovegni

particolare del Santo Stefano, 1330-1335 (Firenze, Museo Horne, fig. 2), Morandi si ricorda nell’Autoritratto, 1919, V. 33, in collezione privata (fig. 3), com’è evidente negli invii riconoscibili: nella tonalità ocra che ricorda l’oro dello sfondo, nell’impostazione di tre quarti del volto, nella dichiarata ricerca di semplificazione e di potenza icastica e persino in alcuni tratti fisionomici, la massa quasi scolpita dei capelli, l’ovale degli occhi, i sopraccigli arcuati, il naso regolare. Un’opera da cui in seguito prenderà le distanze, non condividendo più la velleità di arcaismo moderno, ma soprattutto per non avere fatto sufficiente filtro con la propria mente nel rappresentarsi e forse anche per una eccessiva riconoscibilità delle proprie sembianze, tanto da distruggerlo, come egli stesso aveva lasciato credere e come è stato sempre riportato. In realtà, come personalmente abbiamo potuto ricostruire, l’Autoritratto era celato, ma non distrutto, dietro la rintelatura, voluta a tale scopo dal pittore, di un’altra delle sua opere, il Cactus, V. 34, dipinto in controparte sull’altro verso della tela8. Parallelamente con la sicurezza che ne improntava le scelte, Morandi scopre la moderna pittura francese sfogliando le numerose illustrazioni in bianco e nero del volume Gl’impressionisti francesi di Vittorio Pica, edito a Bergamo nel 1908, ma soprattutto leggendo gli articoli che Ardengo Soffici, il pittore rientrato da Parigi dopo sette anni di permanenza, pubblicava sulle pagine de “La Voce”9, dando risonanza in Italia all’impressionismo,


Giorgio Morandi: la ricerca dell’essenza

2. Giotto, Santo Stefano, 1330-1335, particolare, Firenze, Museo Horne 3. Giorgio Morandi, Autoritratto, 1919, V. 33, collezione privata

visto nell’autonomia dell’espressione creativa come antidoto alla pittura ufficiale. Nel 1910 Morandi rimane folgorato da quella che, in sintonia con il coetaneo Roberto Longhi che ne ricorda la parallela esperienza, sarebbe stata per loro “la prima rivelazione della pittura moderna”10, l’impatto diretto con la pittura di Renoir nella sala dedicatagli alla Biennale di Venezia. È da credere che sia stato da subito attratto dall’amalgama dei suoi colori dei quali si ricorderà, trasferendoli, in un’accezione personale, nei suoi dipinti di fiori. Certamente non dovette sfuggirgli la mostra, nella sala adiacente, di un altro grande moderno, Gustave Courbet con i suoi strepitosi paesaggi, un genere pittorico cui Morandi dedica la sua ricerca a partire dagli esordi. Anzi, la prima delle sue opere pervenuteci (si sa, di molte tele giovanili fece un’autodistruzione critica), quella da cui prende avvio il catalogo generale dei suoi dipinti, redatto da Lamberto Vitali nel 197711, è proprio un Paesaggio del 1910, V. 1 (Bologna, Museo Morandi, fig. 4), È il cartone telato rimasto a lungo in un cassetto, donato nel 1991 dalla sorella del pittore, Maria Teresa, al museo che gli sarebbe stato intitolato. Un dipinto

raffigurante la periferia bolognese, in cui Morandi si confronta con la pittura francese. Un’opera non ancora completamente autonoma, ma che contiene in nuce soluzioni future: quella del tema, la strada, del taglio in diagonale della composizione, e la scelta di rappresentare un “paese” disabitato, privo di presenze umane. Morandi guarda anche ad altri pittori francesi, quelli di un passato prossimo: Corot, ancora una volta grazie a Soffici12, ricordandosene in alcuni paesaggi e negli autoritratti, in particolare in quello del 1924, V. 93 (Firenze, Galleria degli Uffizi), ora in mostra (cat. 13), e Chardin che funge da linfa per alcune sue nature morte degli anni venti. Sopra a tutti, l’attenzione precocissima di Morandi è per Cézanne, subito eletto come maestro ideale su cui modellarsi. Ancora una volta per spinta iniziale di uno scritto di Soffici13, corroborata poco dopo dalle illustrazioni, com’è superfluo ricordare in bianco e nero, del primo degli album di riproduzioni di “Maestri Moderni” della Libreria della Voce dedicato nel 1914 a Sedici opere di Cezanne [sic]14. In vero, se per noi oggi parlare di riproduzioni in bianco e nero pare una sottrazione visiva, per con21


Maria Cristina Bandera

tro, a Morandi, che con quel tipo di illustrazioni aveva consuetudine, quelle stesse immagini dovevano piuttosto apparire spogliate dalla distrazione del colore, così da permettergli da subito di cogliere l’essenza della pittura di Cézanne, le partizioni geometriche in particolare. Ma non vi è dubbio che, a conclusione di un decennio formativo in cui tout se tient, l’attenzione di Morandi per Cézanne, destinata a durare nel tempo15, avrà il suo approdo fondamentale nella sala dedicata al francese alla Biennale del 1920 dove ne può studiare direttamente le opere. In un percorso che all’epoca doveva apparire controcorrente, tanto una cortina di incomprensione ostacolava l’apprezzamento del francese, così da permettere che ne fossero dispersi i dipinti delle collezioni italiane di Egisto Fabbri e di Charles Loeser, con l’orgoglio delle proprie scelte, Morandi, parlando a ritroso del proprio cammino, dichiara a Edouard Roditi allo scadere degli anni cinquanta: “Se c’era in Italia un giovane pittore della mia generazione che seguiva con passione i nuovi sviluppi dell’arte francese, quello ero io. Nei primi vent’anni di questo secolo, pochissimi italiani erano interessati quanto me all’opera di Cézanne, Monet e Seurat”16. Un’asserzione rafforzata poche battute dopo: “il mio artista preferito quando ho iniziato a dipingere” era “Cézanne”. Una tensione verso il pittore francese esplicitata con forza, per le rispondenze formali, nel Paesaggio, 1914, V. 16 (collezione di Gianni Mattioli, in deposito alla Collezione Peggy Guggenheim, fig. 5). La pluralità degli sguardi variamente rivolti in questi anni da Morandi verso altri artisti permette di comprenderne il travaglio intellettuale, ma altresì la coerenza delle scelte, dal momento che anche i nomi dei pittori “antichi” cui guardò e che abbiamo già menzionato sono da intendersi in una accezione di modernità e di “connotazione in anticipo”. Basti rileggere, tutta in sequenza, la dichiarazione con cui si presenta nell’Autobiografia del 1928: “Fra i pittori antichi, i toscani sono quelli che più mi interessano: Giotto e Masaccio sopra tutti. Dei moderni ritengo Corot, Courbet, Fattori e Cézanne gli eredi più legittimi della gloriosa tradizione italiana”. Un collegamento per la cui comprensione viene in 22

4. Giorgio Morandi, Paesaggio, 1910, V. 1, Bologna, Museo Morandi 5. Giorgio Morandi, Paesaggio, 1914, V. 16, Collezione Gianni Mattioli, deposito a lungo termine presso la Collezione Peggy Guggenheim, Venezia


Giorgio Morandi: la ricerca dell’essenza

6. Giorgio Morandi, Fiori, 1916, V. 26, Milano, Pinacoteca di Brera, Collezione Jesi

soccorso Roberto Longhi, lo storico dell’arte il cui nome era noto agli artisti più aggiornati, a partire dalla sua iniziale decisione di schierarsi dalla loro parte pubblicando nel 1913, su “La Voce”, I pittori futuristi17, un articolo che ebbe tra loro un immediato riscontro e consenso. Longhi nelle dispense per le lezioni tenute nei licei romani nel 1914 e pubblicate postume, ma annunciate per “La Voce” e circolanti tra i lettori della rivista, in una lettura critica ricca di equivalenze e analogie fra antico e moderno che in un flashback si estende fino a Piero della Francesca, così spiega ai suoi allievi: “Paul Cézanne finalmente – il più grande artista dell’età moderna – compone i tentativi formali di Courbet, coloristici di Manet, spaziali di Degas in un nuovo assoluto monumentale. Il suo testamento pittorico è ‘traiter la nature par le cylindre, la sphère, le cône, le tout mis en prospective, soit que chaque objet, au côté d’un objet, d’un plan se dirige vers un point central’; testamento voi vedete che potrebbe essere quello di Piero dei Franceschi o di Antonello da Messina”18. Un concetto ripreso da Longhi nella monografia su Piero della Francesca edita nel 1927

dalle edizioni romane di “Valori Plastici”, volume che rimase per il maestro bolognese un costante livre de chevet cui rifarsi. D’altronde è noto come anche negli scritti di Soffici, Cézanne, per lo spirito di geometria e la sintesi formale, e Seurat, un altro importante riferimento per Morandi, per la partitura spaziale e le leggi architettoniche che ne regolano le composizioni, fossero visti in una catena ideale che li legava a Piero della Francesca. Morandi non andò mai a Parigi, inizialmente impedito da ristrettezze economiche in cui versò a seguito della morte del padre, eppure dimostra di conoscere, soprattutto tramite gli scritti di Soffici e gli album della Libreria della Voce, che si susseguirono fino al 1914, le opere di artisti viciniori, quelle del Doganiere Rousseau – il cui ricordo ricompare in modo eclatante nei Fiori, 1916, V. 26, (Milano, Pinacoteca di Brera, fig. 6), e di cui rimane memoria in un rarissimo acquerello in mostra, Fiori 1918, P. 1918/5 di collezione privata (cat. 11), nelle forme scomposte ed espressionistiche dei fiori che si allargano sul foglio fuoriuscendo da un vasetto esile e centralizzato, anch’esso come i petali definito nei contorni – ma anche quelle di Picasso, di Braque, dei cubisti19. Opere che rappresentano innegabili fonti figurative per la sua arte20 e che, soprattutto, ebbero la funzione di spinta propulsiva per un ulteriore scatto in avanti compiuto nel suo cammino di modernità. Conoscenza che lo avrebbe corroborato nella scelta del tema della natura morta in accezione moderna, anche sulla spinta degli scritti di Henri des Pruraux, pittore e collezionista che viveva tra Parigi e Firenze21, e che si riflette nelle scelte stilistiche di alcuni suoi primi dipinti, come si può vedere nella Natura morta, 1914, V. 18 (Parigi, Centre Pompidou Musée national d’art moderne / Centre de création industrielle, cat. 1), una tela eccezionale, a partire dal formato fortemente verticale e dalle misure di grandi dimensioni del telaio. Una rara opera di ispirazione cubista in cui gli oggetti – quelli che diverranno usuali in Morandi, una brocca, una scatola e una bottiglia (qui ancora trasparente) e la base quadrata – si incastrano gli uni dentro gli altri in una nuova sintesi spaziale che tuttavia non ne impedisce la riconoscibilità. La tavolozza è limitata e austera, quasi monocroma, 23


74


Opere


1. Natura morta, 1914 V. 18 Olio su tela, 102 x 40 cm Firmato e datato in basso a sinistra: “Morandi / 914” Parigi, Centre Pompidou Musée national d’art moderne / Centre de création industrielle

76

Con la natura morta, Morandi aspira a “toccare il fondo, l’essenza delle cose”, confrontandosi tanto con i suoi contemporanei quanto con i maestri del passato (Bargellini 1937). Le sue prime nature morte, negli anni cruciali tra il 1914 e il 1916, sono l’esito di una sperimentazione su suggestioni e richiami diversi del linguaggio dell’avanguardia internazionale, dalla matrice cézanniana e cubista, al neogoticismo, all’innesto di elementi dinamici futuristi. Il biennio 1912-1914 segna la breve e autonoma stagione futurista di Morandi che, tra l’aprile e il maggio 1914, partecipò alla Prima esposizione libera futurista alla Galleria Sprovieri di Roma con quelle “composizioni di vetrerie” di cui è pervenuta un’unica opera, prima natura morta del suo catalogo generale (V. 4). Breve stagione, perché già nell’estate 1914 il pittore ventiquattrenne ricerca un rapporto più stringente con il linguaggio cubista, che lo impegnerà anche nel corso dell’anno seguente (catt. 134 e 135). Ne sono prova la Natura morta del Centre Pompidou, qui esposta (cat. 1), e quella che ne forma una sorta di pendant (primo caso di variazione sullo stesso soggetto), datata sul retro 14 luglio 1914, oggi di Collezione Giovanardi e in deposito al Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto,

già di proprietà Longanesi e Rollino (V. 13). Entrambe sono impostate sull’idea di uno spazio antinaturalistico ma riconoscibile: varie forme di oggetti sono disposte su un piano ribaltato dalle fughe prospettiche divergenti, apparentemente instabili e affastellate ma in realtà regolate da un severo criterio di ordine gravitazionale e geometrico e di corrispondenze tra linee e angoli. Al centro della tela, in un’ardita visuale rialzata, emerge un gruppo ravvicinato di oggetti composto dalla scatola rettangolare sopra cui è posizionato un libro, dalla brocca e dalla bottiglia di vetro (più tardi Morandi le sostituirà con bottiglie da lui dipinte e rese opache). In secondo piano parte lo stretto filare in diagonale di oggetti piani, “terre gialle, grigi e argenti di vecchi piatti” (Raimondi 1948, p. 149). L’assemblage di questi oggetti – che comporranno il lessico morandiano per i successivi cinquant’anni –, dal cromatismo scuro ridotto ai grigi e ai bruni, rimanda ai lavori degli artisti cubisti di Parigi (Fergonzi 2003a, pp. 283287, n. 16), in particolare quelli analitici di Braque e di Picasso, noti a Morandi tramite riproduzioni in bianco e nero, edite ne “La Voce” sin dal tardo 1911 e nel più ampio saggio sul Cubismo e futurismo di Ardengo Soffici uscito nel maggio 1914 sulla “Libreria della Voce”. Rispetto alla tela Giovanardi, di formato

quasi quadrato, la composizione ascensionale dell’opera in esame, impostata su un telaio accentuatamente verticale che supera l’altezza di un metro (in assoluto il quadro di dimensione maggiore), rimanda ancora una volta alle suggestioni del Derain gotique e arcaicizzante che, a partire dallo stesso anno, interessò Morandi per le sue Bagnanti (catt. 4 e 5). Nella tela Pompidou prevale inoltre l’aspirazione a una compenetrazione dei piani plastici piuttosto che a una loro scomposizione, con una maggiore aggregazione dei volumi, a cui contribuisce anche la composita stesura pittorica liquida e trasparente, “frutto d’una sola seduta”, come ricorda lo stesso Morandi (Arcangeli [1964] 2007, p. 149). I caratteri anticipatori dell’opera in esame preannunciano i successivi e del tutto personali traguardi di sintesi geometrica e spaziale (catt. 3, 134 e 135). Lo stesso Bacchelli ricordava, nel 1918, che il valore primario impresso dal cubismo su Morandi “è un criterio di purità, cioè di essenzialità” (Bacchelli 1918, p. 43). L’opera rimase nello studio di Morandi di via Fondazza – il “quadro lungo che tiene sul letto” (Raimondi 1948, p. 149) – prima dell’acquisto da parte del Musée national d’art moderne di Parigi nel 1961.


77


6. Natura morta, 1918 V. 35 Olio su tela, 68,5 x 72 cm Già firmato in basso a destra: “Morandi” Milano, Pinacoteca di Brera, Collezione Jesi (Reg. Cron. 5082) 7. Natura morta, 1919 V. 44 Olio su tela, 56,5 x 47 cm Firmato e datato in alto a destra: “Morandi 919” Milano, Pinacoteca di Brera, Collezione Jesi (Reg. Cron. 5083) 8. Natura morta, 1919 V. 47 Olio su tela, 58 x 60 cm Firmato in basso a destra: “Morandi” Collezione patrimonio artistico eni SpA

84

Dalla metà del 1918, e sino all’anno seguente, Morandi riprende la natura morta in una serie di opere note come metafisiche, per la presenza di elementi peculiari di questa ricerca (manichini, squadre, solidi geometrici). Il suo incontro con la metafisica avviene sulle pagine de “La Raccolta”, rivista fondata dall’amico letterato bolognese Giuseppe Raimondi, dove sono riprodotte alcune opere di de Chirico e di Carrà, artisti che tramite Raimondi incontrerà personalmente nel 1919. La prima Natura morta di Brera (cat. 6), già in Collezione Jesi, è tra le prime opere che attestano questo nuovo indirizzo. La severa struttura compositiva è impostata su direttrici perpendicolari di linee e di pure geometrie solide (parallelepipedi, cilindri, ovoidi e sfere), in una costruzione di alternanze geometriche di forme curvilinee e rettilinee e di valori cromatici assoluti, il bianco e il nero. Nella presenza degli oggetti disposti su un piano ridotto a pura linea – una bottiglia, una scatola, un cilindro e il mezzo manichino trovato a Grizzana, che “pare inclinarsi a un muto colloquio, come una persona vera” (Arcangeli [1964] 2007, p. 203) –, persiste una suggestione magica e la loro “evidenza è mentale” (Brandi [1942] 2014, p. 22). Piuttosto che per le vere e proprie implicazioni metafisiche, l’interesse del pittore è per la sintassi spaziale e la ricerca della forma, in continuità con la tradizione

dell’arte italiana, “in quello che essa contiene di più scheletricamente bello” (de Chirico 1922, p. 784). Diversa è anche l’impronta luminosa, che cristallizza sui volumi una materia pittorica compatta, quasi senza peso. La tela è collocabile al 1918 inoltrato, vicino ad alcune opere metafisiche che, pur datate 1919, sembrano piuttosto risentire del clima Valori Plastici (V. 40 e 46). Già nella seconda metà del 1919 la tensione metafisica si allenta. Morandi risponde al richiamo all’ordine che corre per tutta Europa: i suoi riferimenti tornano a essere i grandi maestri del passato. Nella seconda tela di Brera (cat. 7), anch’essa già in Collezione Jesi, gli oggetti – l’asticciola, la palla, le sagome di legno, tra cui l’orologio a forma di violino visto già nelle opere dei primi anni dieci (catt. 134 e 135) – sono ormai spogliati di ogni magia. Rispetto alle “camere incantate” degli anni precedenti, scatole chiuse all’interno delle quali enigmatici elementi lineari si librano nell’aria, gli oggetti sono ora disposti in una scatola prospetticamente aperta, dove la corrispondenza diagonale di volumi e di luci ne sottolinea la presenza e il peso. L’intonazione è sempre quella castigatissima degli ocra e dei verdognoli, ma la tessitura tonale ammorbidita da una luce più calda è esito della riflessione sulle opere caravaggesche e del Seicento romano, prima attraverso le pagine di Roberto Longhi ne “L’Arte”

e poi dal vero, a Roma, nell’autunno 1919. Anche la Natura morta di quell’anno di proprietà Eni (cat. 8) è da collocarsi probabilmente nell’autunno 1919 e già in clima Valori Plastici (la data ante quem di esecuzione dell’opera la si deduce da una lettera di Morandi a Raimondi, 11 settembre 1919, cfr. Raimondi 1970, p. 194). L’impaginato compositivo – vertice di un gruppo di opere concepito “in serie” (V. 45 e 48) – è una puntuale riformulazione del lessico cézanniano e prelude alla rigorosa spazialità dei lavori più maturi. L’opera segna il recupero delle “cose”, che si fanno corpose e grevi di materia dopo il distacco metafisico, di cui resta traccia nella prospettiva incoerente del parallelepipedo e in una certa rigidità dei piani e dei volumi chiusi entro profili metallici. Nel dicembre 1919 l’opera – unitamente a quella esaminata in precedenza (cat. 7) – fu ceduta a Mario Broglio con un disegno a quest’ultima affine (P. 2000 D. 1919-1920/2) e pubblicata in “Valori Plastici” (a. III, n. 4; cfr. Fergonzi 2003b, pp. 474 e 505). Broglio, insieme a Raffaello Franchi e Riccardo Bacchelli (Bacchelli 1918, Franchi 1918, Franchi 1919), fu tra i primi a intendere lo “spirito essenzialmente plastico” delle opere metafisiche di Morandi (M. Broglio, Morandi, Fondazione Primo Conti, Fiesole, Fondo Valori Plastici, manoscritti Broglio, n. 13, p. 5, cit. in Fergonzi 2008, pp. 19, 29, nota 8).


85



95


13. Autoritratto, 1924 V. 93 Olio su tela, 53 x 44 cm Firmato e datato sulla tavolozza in basso al centro: “Morandi 924” Firenze, Galleria degli Uffizi, Collezione degli Autoritratti

96

Il 1924 segna la ripresa del tema dell’autoritratto, affrontato dal pittore in sette dipinti che costituiscono il repertorio a olio più ampio all’interno del suo scarno nucleo di opere con soggetti di figura (poco più di una trentina a fronte del suo intero corpus, catt. 4 e 5). Morandi si ritrae a trentaquattro anni, in un impianto quasi frontale e ravvicinato, a pieno busto seduto davanti al cavalletto in scorcio, con gli attributi di pittore e abbigliato, com’era suo solito, con il gilet e la “camicia senza colletto e col gemello al cinturino” (Brandi [1960] 2014, p. 103). La luce investe la figura da sinistra e dà risalto alla materia pittorica densa e piena, segnata da un ductus largo e sintetico. Rispetto agli autoritratti di questi anni, di impostazione variata e dal risalto più chiaroscurato (ne dipinse altri quattro tra il 1924 e il 1930, ultime opere del genere, cfr. V. 94, 96, 113 e 159; le prime datano 1914 e 1917-1919, cfr. V. 12 e 33; del 1923 è un disegno dall’impianto analogo, cfr. T.P. 1923/1), qui Morandi enuncia un’assoluta limpidezza, accostabile

al tonalismo di Corot. Se l’impianto e l’intonazione cromatica seguono la linea del naturalismo ottocentesco (nel 1919 si era recato proprio agli Uffizi per studiare gli autoritratti di Hayez, Ingres e Delacroix, cfr. la lettera di Giorgio Morandi a Giuseppe Raimondi, 15 agosto 1919, in Raimondi 1970, pp. 77, 187), l’immediatezza di visione ottenuta dalla forte luce laterale e le rapide velature che, assorbite dalle pieghe della camicia, trapassano dai punti di massima luce sino alle ombre scure, evocano “quasi i bianchi del Caravaggio” (Brandi [1960] cit., p. 103) e la sua passione giovanile per le pitture luminose e di “apparizione” di quel tempo. La sorvegliata architettura dell’insieme attribuisce un carattere di compostezza alla figura, colta in un’espressione indefinita sul volto, privo di evidenza plastica rispetto al resto dell’immagine. Le sommesse indicazioni psicologiche sembrano velate da “quell’aria quasi indifferente e inquieta come di un sospetto finito, di un azzardo riuscito bene” (Raimondi cit., p. 21). I tratti fisionomici sono appe-

na suggeriti – “ci restava sempre più di quel che toglieva” (Brandi [1966] 2014, p. 69) –, ma riconoscibili in un’immagine interiorizzata di sé: “quando Morandi si pone dinanzi allo specchio per ritrarsi […] si sente condizionato dal dato fisionomico che ostacola la sua tendenza a evadere dal reale e a trasfigurarlo in una identità nuova” (Magnani 1982, p. 42). La soluzione di ritrarsi allo specchio fa sì che l’immagine sia speculare (la figura, pertanto, sembra reggere il pennello del momento con la mano sinistra, soluzione che può avere indotto a dire che Morandi era mancino). Per questa difficoltà ad accostarsi alla figura umana e a spogliarla di “connotazioni”, il pittore “amava poco” i suoi autoritratti, raramente esposti al pubblico (Brandi [1966] cit., p. 68). L’opera, già nella collezione bolognese dell’amico Giuseppe Raimondi, fu donata agli Uffizi dagli eredi di Lamberto Vitali secondo il suo legato testamentario. Vitali fu il primo a renderla pubblica nel 1950 (Vitali 1950, tav. 20).


97



109


128


129


45. Natura morta, 1929 V. 145 Olio su tela, 49 x 61,5 cm Firmato e datato in alto al centro: “Morandi / 929” Collezione privata 46. Natura morta, 1929 V. 147 Olio su tela, 35 x 48 cm Firmato e datato in basso a destra: “Morandi 1929” Collezione privata 47. Natura morta, 1929-1930 V. 152 Olio su tela, 42 x 50,5 cm Collezione privata

138

Queste opere fanno parte di quel cospicuo numero di nature morte datate 1929, epoca in cui Morandi, trascorsa un’intensa attività sul paesaggio, torna a concentrarsi sugli oggetti disposti sul piano di posa. Dopo prove di assoluto controllo sull’immagine (catt. 41-44), con uno scarto quasi immediato la sua ricerca volge verso schemi più liberi, spingendosi anche oltre i limiti formali degli oggetti e verso una graduale dissoluzione dei volumi. Così, i piccoli oggetti radunati al centro della prima tela qui esposta (cat. 45) assumono un tono drammatico, per l’aritmia dei contorni meno scrutinati, per la marcata visuale rialzata e per l’intonazione generale, quasi monocroma e offuscata. Ridotti in numero, sono accostati tra loro quasi per similitudine di forme concave e convesse, in un contrasto netto di pieni e vuoti: la caffettiera dal manico allungato, il mezzo manichino in terracotta dei quadri metafici e una conchiglia, tema d’esordio degli anni venti (catt. 119-121 e 142-145). Anche per quest’opera, come per l’acquaforte dell’anno precedente che ne ispira la composizione (cat. 144), è possibile fare il nome di Chardin per il motivo isolato del pentolino da caffè dal manico allungato posto in diagonale sul tavolo, memore della lunga pipa de La tabagie, al Louvre (Fergonzi 2008-2009, p. 61). Il soggetto è ancora ripreso in un dipinto di quell’anno (V. 146). Nella tela successiva (cat. 46, vedi anche, in catalogo, p. 35, fig. 18) la pittura diviene ormai un pretesto in pochi og-

getti delle ultime nature morte, appaiati al centro della tela. La concentrazione emotiva sul soggetto è data dall’assenza di pause, dal peso delle ombre che grava sugli oggetti e dall’inconsistenza del piano d’appoggio, caratteri espressi nel disegno di studio, che ne delinea appena i contorni (T.P. 1929/5; un altro studio compositivo è il T.P. 1929/4). La stesura pittorica dà risalto a marcati contrasti cromatici e testa nuove vibrazioni materiche. Rispetto alla sua traduzione incisoria, sorvegliata dalla razionalità del segno (V. inc. 56), essa difforma la materia rendendo quasi indistinguibile il manico della caraffa di vetro. “Il mondo d’ogni giorno – osserva Arcangeli – sembra ormai irrecuperabile” (Arcangeli [1964] 2007, p. 356). Il dipinto servì da “memoria storica” del proprio lavoro, in quanto Morandi tornerà sullo stesso soggetto a distanza di tempo in alcuni disegni del 1939-1940 (T.P. 1939/2, 1940/9, 1940/10), saggiando la composizione con alcune varianti per poi riproporla definitivamente in un gruppo di opere di quegli anni (V. 239, 258, 259, 260). Esposta insieme ad altre due tele alla I Quadriennale romana del 1931, suscitò sferzanti critiche locali, ma l’acquisto da parte dell’amico pittore Ardengo Soffici “legittimò presso un pubblico dai gusti più tradizionali la grandezza di una pittura dai connotati stilistici visionari ed espressionistici” (Fergonzi 2012). Soffici – i cui scritti furono i primi a indicargli la via delle avanguardie europee – vedeva in Morandi “colui che tra i giovani

artisti italiani, forse più spedito cammina precisamente sulla strada indicata” (Soffici 1932, p. VI). La Natura morta del 1929-1930 (cat. 47), già in Collezione Feroldi e poi Vitali e ripresa in tre acquaforti (cat. 152, V. inc. 74 e 99), porta queste ricerche all’estremo. Il tipico tonalismo morandiano cede il passo a una costruzione dei volumi con la sola materia compatta del colore: “appena un’indicazione piana dell’oggetto, che il fluido cromatico, la pennellata a rilievo, cangia nello stesso tono sol con le incidenze diverse della luce sulla pasta del colore” (Brandi [1942] 2014, p. 28). La composizione, costruita su un’ardita prospettiva ad angolo, è serrata nello sviluppo del numero di oggetti che occupano interamente la tela, smaterializzati in enigmatici profili incerti e in “molli, inquietanti impasti” (Arcangeli cit., p. 345). Si stagliano contro l’intonazione monocorde dell’insieme intervalli di forte intensità luminosa, in un ardito contrasto cromatico: il giallo della bottiglia persiana (oggetto poi ricorrente nelle opere degli anni quaranta) o i bianchi, così differenti l’uno dall’altro, della bottiglia e della conchiglia in primo piano, che poi costituiranno il motivo di una tela da questa derivata (V. 169). Morandi ritornerà sulla composizione in un disegno del 1932 rapidamente tratteggiato (T.P. 1932/4), che dimostra come in taluni casi l’opera su carta non preceda necessariamente quella a olio.


139


140


141


48. Natura morta, 1932 V. 170 Olio su tela, 62 x 72 cm Firmato e datato a sinistra verso l’alto: “Morandi / 1932” Roma, Galleria d’Arte Moderna di Roma Capitale 49. Natura morta, 1936 V. 208 Olio su tela, 51 x 62,5 cm Firmato e datato in basso al centro: “Morandi 1937” Rovereto, Mart - Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto, Collezione Augusto e Francesca Giovanardi, Mart 258 50. Natura morta, 1937 V. 222 Olio su tela, 61,8 x 76,3 cm Firmato e datato in basso a destra: “Morandi 1937” Firenze, Fondazione di Studi di Storia dell’Arte Roberto Longhi

142

Come visto nella precedente sequenza di opere (catt. 45-47), dopo il 1928 – anno di rifioritura della pratica incisoria – Morandi si affida a costruzioni di “più libera fantasia” (Arcangeli [1964] 2007, p. 275), sia nella grafica (catt. 144, 145 e 152-154) sia soprattutto nella pittura (catt. 42, 43, 45, 47). Questa ricerca sfocia nella stesura per piani cromatici delle nature morte degli anni trenta, di cui tre qui esposte. La prima, della Galleria d’Arte Moderna di Roma, datata 1932 (cat. 48), dimostra lo sforzo di trasfigurazione di queste prime opere. L’agglomerato di oggetti, ora ingranditi sino a occupare l’intera superficie della tela, si sfalda in una struttura compositiva più larga, dove anche i vuoti e le zone d’ombra acquistano la stessa consistenza degli oggetti. Forme dagli spiccati distacchi cromatici che ritrovano una rinnovata monumentalità, quasi “rotte e grandiose pencolanti nella composizione, così violentemente anche magistralmente sgarbate nella fattura, alternata di magrezze e di spessori improvvisi dove le pennellate si urtano in densi strattoni, in incroci, a sovrapposizioni, a grandi zig-zag” (Arcangeli cit., p. 397). La visuale fortemente ravvicinata e sghemba è potenziata dal senso di precarietà di alcuni oggetti, disposti oltre l’orlo del tavolo. Dello stesso anno

è un disegno di analoga struttura compositiva (T.P. 1932/2). Segue la tela del 1936 (cat. 49), di Collezione Giovanardi, dai timbri cromatici scaldati da una luce quasi crepuscolare. Un numero crescente di oggetti affolla la scena e la occupa con maggiore articolazione, portando avanti una ricerca già affrontata (cat. 44), anche in incisione (V. inc. 66 e 67; C. 1929/14 e 1929/15)). La materia pittorica, quasi priva di notazioni chiaroscurali, è piena e densa, ma anziché costruire i volumi li riduce in superfici piatte. Allo stesso modo circoscrive, in netti contrasti cromatici, la combinazione apparentemente casuale delle luci e delle ombre che ricadono sulle loro superfici, seguendo uno scheletro lineare indagato in un disegno (T.P. 1936/2). L’insieme si presenta come un intarsio di zone cromatiche uniformi e lucide o come “una tarsia prospettica del Quattrocento”, dove “le zone colorate si saldano tra di loro lungo i contorni ed emergono uniformi sulla superficie del quadro: solo le differenti qualità di tono ne fanno intuire la loro collocazione nello spazio” (F. Fergonzi in Bernardini 2008, pp. 52-53, n. 10). Fremito che si placa, infine, nella grande Natura morta “di oggetti in viola” del 1937 (cat. 50), in Collezione Longhi, che anticipa quell’atmosfera rarefatta che sembra segnare una svolta improvvisa

nel percorso dell’artista. L’ampia intelaiatura spaziale, pausata dal ritmo verticale degli oggetti, ne riduce le aggregazioni plastiche e d’ombra, permettendo modulazioni cromatiche pure e levigate, appena toccate dal chiaroscuro. Anche i pigmenti chiari degli oggetti divengono valenza originaria di luce, allo stesso modo dei controluce e dei bianchi assoluti sperimentati nell’incisione. Come per l’opera precedente, si è parlato di una rifioritura pierfrancescana, in un momento di vicinanza intellettuale con Roberto Longhi, lo storico dell’arte che per primo riscoprì la modernità del pittore quattrocentesco e che in Morandi aveva già intuito “uno dei migliori pittori viventi d’Italia” (Longhi [1934] 1977, p. 217). L’uso del colore, tuttavia, più violento e limitato a pochi timbri, “sembra infrangere l’abituale sapienza tonale e luce zenitale che viene dall’alto” (M.C. Bandera in Bandera-Miracco 20082009, pp. 164-167, n. 40), anticipando le complesse composizioni colorate che sfoceranno nella sala personale della III Quadriennale romana. Il soggetto sarà interpretato tra il 1936 e il 1938 in altre sei tele di differente formato (V. 209, 222-221, 225-227) e in un acquerello (P. 1936/1). L’opera pervenne a Longhi poco prima di lasciare Bologna nel 1938 (Bandera 2014a in Bandera 2014b, pp. 52-54, docc. 3 e 4).


143


56. Natura morta, 1941 V. 309 Olio su tela, 45 x 47 cm Firmato in basso al centro: “Morandi” Collezione privata 57. Natura morta, 1940 P. 1940/1 Acquerello su carta, 18,5 x 29 cm Firmato e datato in basso al centro: “Morandi 1940” Collezione privata 58. Natura morta, 1941 V. 314 Olio su tela, 31 x 46 cm Firmato e datato in basso al centro: “Morandi 1941” Collezione privata 59. Natura morta, 1941 P. 2000, 1941/3 Olio su tela, 29 x 44 cm Firmato e datato in basso al centro: “Morandi 1941” Collezione patrimonio artistico eni SpA

150

Quelli della seconda guerra mondiale sono anni d’intenso lavoro di ricerca dei motivi della propria pittura. Mentre in alcune opere Morandi sperimenta un impianto centrale o inquadrato entro un formato allungato, in altre, come in quelle qui esposte, ritorna con insistenza sui singoli oggetti allineati orizzontalmente sul piano o lungo diagonali. Esse dimostrano il suo procedere lento, con poche varianti, sugli stessi oggetti disposti sul tavolo foderato di carta, su cui appunta segni, impronte, numeri corrispondenti alle diverse composizioni che va sempre variando. L’acquerello del 1940 (cat. 57) – tecnica che rifiorisce proprio con l’aprirsi di questo decennio – affronta la medesima composizione indagata in alcune opere sin dall’anno precedente (V. 239, 258-260, T.P. 1939/2). Se in queste ultime il gruppo di oggetti è colto dall’alto e collocato all’estremità più lontana del piano di posa, così da lasciarlo ampiamente in vista, in questo foglio è ripreso da un marcato sottinsù. Qui il bordo stesso del piano, solitamente limitato a perimetro spaziale, allo stesso modo degli oggetti entra nel gioco dell’economia distributiva dell’insieme. Ne risulta uno schema compositivo impostato su perpendicolari: le longitudinali del piano e del vuoto sottostante e le verticali degli oggetti, allungate dalla visuale ribassata sino a toccare il margine superiore del foglio, espediente che ne accentua l’altezza e l’impressione di monumentalità. Una uniforme stesura bruna ricopre la quasi totalità del foglio, esclusi i punti di massima luce e le brevi notazioni cromatiche

che ne delineano le parti in ombra, sopra un leggero tracciato a matita. Con questo acquerello e con il disegno dello stesso anno che ne ricalca la composizione (cat. 123; cfr. anche T.P. 1940/10) Morandi aggrega all’abituale spazio della rappresentazione anche quello effimero situato “al di sotto” del piano di posa, portando avanti una conquista spaziale che era già stata degli anni venti (cat. 10). Il foglio appartenne all’amico e storico dell’arte Carlo Ludovico Ragghianti. Le tele seguenti fanno parte di due “lotti” ravvicinati di opere e dimostrano i diversi e paralleli registri espressivi in questo 1941. La prima, già in Collezione Mondadori e Mazzotta (cat. 56), appartiene a una sequenza unica di opere caratterizzata dalla presenza dei medesimi oggetti in composizioni differenti (V. 302-308, 310). In questa, si accosta a una rinnovata chiarezza formale e a una più accomodante costruzione su diagonali convergenti, con oggetti non più spigolosi ma arrotondati, tra cui la bottiglia bianca a torciglione dei quadri del 1916, debitori di Rousseau (Vitali [1964] 1970, p. 19). La ricomposta stabilità su fermi rapporti di spazio non sembra tuttavia essere alterata dagli innesti di puri colori squillanti – che rimandano ancora una volta alle opere degli anni trenta (catt. 48-50) – dei blu carichi della bottiglia e della boccetta di profumo e, in uno splendido accostamento, del nero e del bianco del lume a petrolio e della bottiglia a torciglione al centro della tela. La luce torna a condensarsi “come in uno specchio ustorio” e il “colore acquista

la materia lucida e dura del minerale” (Brandi [1942] 2014, p. 34). Un orientamento del tutto diverso è nella coppia seguente di opere (catt. 58, 59), appartenenti a una serie che chiude l’intenso lavoro sulla natura morta nel 1941 (V. 314-317, 318, 320). In entrambe le opere gli oggetti sono “posti su un tavolo rotondo e, quasi fossero figure su un proscenio, sono illuminati frontalmente” (M.C. Bandera in Bandera-Miracco 2008-2009, pp. 212-215, nn. 60-61). La fluidità dell’impasto pittorico e l’incidenza della luce ne riducono i volumi in semplici piani geometrici. In un dinamico rapporto di “vicinanze”, alla linearità delle superfici rettangolari delle bottiglie si frappongono quelle cilindriche della bassa coppetta sulla sinistra e dei vasi, più esili, quello centrale segnato da impercettibili decorazioni. La pittura è sintetica e ritorna alle tenui cromie degli anni venti per la luce diffusa, per i bruni quasi monocromi del fondo e per le molteplici variazioni sul tema grigio-chiaro degli oggetti. Uno sfocato ispessimento di materia ne delinea i profili accorpati in due aree distinte, in un gioco di alternanze di forme e altezze. Brandi osserva in questi lavori “la possibilità di portare la zona del colore al limite, oltre cui, affievolendosi il titolo di luce, per la nostra vista diviene indistinta: ma non evanescente” (Brandi cit., p. 37). La bottiglia persiana, piatta e dal collo abbreviato (terza da sinistra nella natura morta V. 314), già colta in scorcio negli anni trenta (cat. 47), qui è spostata “per creare l’emozionante e allucinante ‘exit’ di oggetti visti di fianco” (Arcangeli [1964] 2007, p. 421).


151


152


153


160


161


68. Natura morta, 1948 V. 618 Olio su tela, 30 x 45 cm Firmato in basso al centro: “Morandi” e datato sul retro: “1948” Parma, collezione privata 69. Natura morta, 1948 V. 632 Olio su tela, 33 x 40 cm Firmato in basso a sinistra: “Morandi” Collezione privata 70. Natura morta, 1950 V. 1364 Olio su tela, 43,5 x 43,5 cm Firmato in basso al centro: “Morandi” Collezione privata 71. Natura morta, 1952 V. 826 Olio su tela, 35,5 x 46 cm Firmato in basso a sinistra: “Morandi” Collezione privata 72. Natura morta, 1952 P. 2000, 1952/7 Olio su tela, 30,2 x 40,5 cm Firmato in basso a sinistra: “Morandi” Collezione privata 73. Natura morta, 1952 V. 815 Olio su tela, 34 x 44 cm Firmato in basso a sinistra: “Morandi” Collezione privata

164

Tra gli anni quaranta e cinquanta si assiste alla ricerca, nella natura morta, di sempre nuove composizioni in una “quasi allucinante insistenza sui temi”, ora più obbedienti alla misura geometrica e in toni schiariti. Si è parlato di una “classica, ma squisita ad un tempo, capacità di racconto” (Arcangeli [1964] 2007, pp. 433, 435). Da qui, la semplificazione del comporre della Natura morta del 1948 (cat. 68), dove gli oggetti sono serrati al centro della tela in uno schema ad angolo, “d’una geniale, e poetica per il suo improvviso, ‘agudeza’ spaziale” (Id., p. 437). La resa dello spazio, incardinata sull’imponente imbuto rovesciato montato su una scatola cilindrica di latta dipinta, “una forma perfettamente pierfrancescana nella sua semplice geometria solida” (Briganti 1984, p. 9), è contraddetta dalla casseruola di rame disposta diagonalmente, in un’ambiguità prospettica tra il piano di fondo e quello di appoggio. La stesura piana del colore, che quasi annulla ogni cenno di chiaroscuro e di profondità, affida le relazioni interne al dipinto alla straordinaria gamma cromatica coniugata sul bianco del fondo della casseruola di rame e sull’arancione del cilindro, contrappunto e chiusura dell’intera composizione, e sul piccolo giocattolo sferico di celluloide bicolore che “magicamente intona, dispone, fissa il rango” (Brandi [1952] 2014, p. 52). Con la Natura morta del 1948 (cat. 69) e le altre opere della serie (V. 630 e 631) Morandi ritorna su un motivo inaugurato nel 1942 (V. 376) e che lo ossessionerà anche negli anni successivi. Il tema è variato con una marcata incidenza lumi-

nistica, che genera ombre più insistite. Le forme compongono, in un complicato gioco d’incastri, un insieme rettangolare suddiviso in due aree speculari, una chiara e l’altra scura. La spazialità è suggerita dalla brevissima ma efficace indicazione del piano d’appoggio con un piccolo triangolo scuro, in fondo a destra. Nelle opere dei primi anni cinquanta si precisa progressivamente la semplificazione compositiva, una maggiore plasticità e una riduzione del registro cromatico. Verso un’“ampia dosatura degli spazi intorno alle cose” (Arcangeli cit., p. 435) volgono le due nature morte di poco successive (catt. 70 e 71), che danno prova di una rinnovata chiarezza nella visione rigorosamente frontale, che include il profilo longitudinale del piano, e nella disposizione degli oggetti – ora di pianta circolare – su una leggera diagonale. La luce diffusa riduce quasi del tutto le ombre, lasciando a pochi ma arditi accostamenti cromatici il rilievo plastico dei volumi: alle estremità, i bianchi purissimi dei vasi, al centro, gli ocra accordati ai blu e i gialli ai verdi, con “equilibri […] azzardati e quasi impossibili, fra mezze tinte calde e fredde” (Minassian 1952). Nella seconda, già nella collezione di Lionello Venturi, l’equilibrio formale nasce da rapporti ancora più complessi: la geometrizzazione del vaso cilindrico, a sinistra, che “pare far tutt’uno con la tazzina” (M. Pasquali in Museo Morandi 2004, pp. 182-183, n. 45), e le forme non più lisce ma irregolari della coppetta, della boccetta istoriata e soprattutto del panno ripie-

gato su se stesso – elemento chiave di antica memoria cézanniana e ancora prima seicentesca – conquistano una significativa tridimensionalità. Il tema della natura morta “col panno giallo” sarà affrontato in una straordinaria serie di dieci opere (V. 822-825, 827-832) e in alcuni bellissimi disegni (T.P. 1952/6, T.P. 1952/9-10, 1965/7; la medesima composizione priva del “panno giallo” ritorna in V. 833-837, T.P. 1953/3). Il soggetto delle ultime due nature morte della serie (catt. 72 e 73), vero e proprio leit motiv degli anni quaranta e di questi primi anni cinquanta, è esemplare del modus operandi in serie su analoghi soggetti ma anche di procedere a distanza di molto tempo combinando di volta in volta specifici gruppi di figure. Le due tele, infatti, accorpano in un’estesa regia distributiva due gruppi di oggetti – la caraffa, l’urna di coccio, l’alto vaso cilindrico e il bricco da caffè a sinistra e, a destra, la brocca con il manico orientato in posizione centrale e la scatola antistante – già apparsi nel 1942 e via via ricomposti nel corso del decennio successivo a partire dalla V. 632 appena esaminata (cat. 69, V. 376, 633, 691, 692, 694, 695, 741, cat. 166, V. 373-374, 816 e 1368). La tela V. 815, già nella collezione di Lamberto Vitali, rivela nell’impianto leggermente ampliato una resa pittorica più plastica nel marcato chiaroscuro che descrive i volumi – studiato in alcuni bellissimi disegni (T.P. 1952/3, 1952/4 e 1952/5v) –, e un maggiore rilievo cromatico, ora in dialogo con la nota squillante del piccolo giocattolo sferico di celluloide, già apparso nel 1936 (V. 210).


165


176


177


186


187


134. Natura morta con bottiglia e brocca, 1915 V. inc. 3; C. 1915/1 Incisione all’acquaforte da matrice di rame su carta India, inciso 155 x 127 mm Firmata a matita sul foglio in basso a sinistra: “Morandi” e datata a matita in basso a destra: “1915” I/II stato Collezione Enos Ferri 135. Natura morta con bottiglia e brocca, 1915 V. inc. 3; C. 1915/1 Rame elettrolitico inciso all’acquaforte, 155 x 127 mm Roma, Istituto Nazionale per la Grafica, inv. 1799/2

234

Nella ricerca morandiana l’acquaforte non è un fatto minore rispetto alla pittura, anzi, si può parlare di “simbiosi dei due ‘alfabeti’” (Basile 1985, p. 3): a volte, l’incisione risolve “graficamente gli stessi problemi che erano stati proposti nella tela”; in altre, invece, i due linguaggi affrontano “una naturale identità di problemi”; in altre ancora, la ricerca grafica arriva “più in fondo […] fino a toccare risultati addirittura assoluti” (Vitali [1957] 1989, p. 13). Natura morta con bottiglia e brocca (catt. 134 e 135), una delle poche opere compiute nel 1915, è la prima acquaforte sul tema e la terza nel catalogo morandiano. È anche una delle poche opere compiute in un anno di ricerche febbrili e di difficoltà, dopo la lunga malattia sopraggiunta durante l’addestramento militare, allo scoppio della prima guerra mondiale. Il foglio in esame riprende alcuni esercizi pittorici cubo-futuristi sulla scomposizione e compenetrazione dei piani plastici degli anni precedenti. Il soggetto è una variazione più complessa di quello affrontato in una pittura coeva (V. 23), evoluzione sul tema già presente in due tele dell’anno precedente, di cui una qui esposta (cat. 1). Al centro sono raggruppati la brocca o l’innaffiatoio di ferro e la scatola ret-

tangolare sopra la quale è posizionato un libro. Ai lati, l’orologio-termometro a sagoma di violino – che tanto ricorrerà nell’opera morandiana – e il piatto cosiddetto d’argento, in realtà “un comunissimo piatto di terraglia” (Vitali [1964] 1970, p. 17, nota 34), come mostra un disegno a carboncino dello stesso anno (T.P. 1915/3). La bottiglia di vetro sulla sinistra, idea cézanniana che introduce il ritmo di lettura della composizione e inaugurata nelle nature morte cubiste dell’anno precedente (V. 13 e cat. 1), è ombreggiata da un tratteggio incrociato qui sperimentato per la prima volta. Chiudono la composizione le quinte spaziali di alcuni elementi verticali visti in tralice, “vassoi, cabarets, mensole, cornici e tavolette” (Raimondi 1948, p. 149), all’interno di una spazialità infittita che rivedremo nelle nature morte smaltate degli anni trenta. Gli oggetti, “tutti accostati come costole di libri su uno scaffale” (Brandi [1952] 2014, p. 47), si definiscono in un segno che occupa totalmente il foglio, con passaggi argentei quasi monocromi. Breve e deciso, il segno non scalfisce i margini dei volumi, in piena luce, forse sull’esempio delle puntesecche cubiste di Picasso e di Braque (Vitali [1957] 1989, p. 14). Come per le Bagnanti dello stesso anno

(catt. 4 e 5), ritornano suggestioni dal goticismo lineare di André Derain, studioso dei primitivi senesi, in particolare dalla sua Nature morte sur une table, che nel 1912 illustrava il fondamentale saggio parigino Du “cubisme” di Gleizes e Metzinger (Fergonzi 2003a, pp. 285-286, n. 16). È significativo in questo senso l’avvicinamento al cubismo con la simultanea riscoperta della spazialità giottesca, i cui affreschi furono visti l’anno precedente ad Assisi e a Padova. Già in questa incisione, apice conclusivo di un periodo vastissimo di ricerche, si mostrano magistralmente quei solidi propositi strutturali e di forma che, in Morandi, nemmeno nelle sue brevi stagioni metafisiche e ‘puriste’ (catt. 6-8, 11 e 12), avrebbero allontanato l’oggetto della pittura dall’aspetto fenomenico della realtà. L’incisione, qui esposta accanto alla sua matrice in rame donata da Morandi alla Calcografia negli anni 1949-50, fu la prima a essere pubblicata, nel secondo numero de “La Raccolta”, uscito a Bologna il 15 marzo 1918 a cura di Giuseppe Raimondi, a fronte della prima pagina dello scritto Tobia futurista di Carlo Carrà.


235


136. Paesaggio (Veduta dell’Osservanza a Bologna), 1922 V. inc. 16; C. 1922/1 Incisione all’acquaforte da matrice di rame su carta avorio, inciso 72 x 123 mm Firmata e datata a matita, sul margine inferiore, a destra: “G. Morandi 1922” e numerata a matita in basso a sinistra: “3/50” I/II stato Firenze, Fondazione di Studi di Storia dell’Arte Roberto Longhi 137. Paesaggio con la ciminiera (Sobborghi di Bologna), 1926 V. inc. 27; C. 1926/1 Incisione all’acquaforte da matrice di zinco su carta avorio, inciso 227 x 241 mm I/II stato Firmata e datata a matita, sul margine inferiore, a destra: “G. Morandi 1927” Firenze, Fondazione di Studi di Storia dell’Arte Roberto Longhi 138. Paesaggio (Casa a Grizzana), 1927 V. inc. 32; C. 1927/3 Incisione all’acquaforte da matrice di zinco, inciso 261 x 200 mm Firmata e datata a matita sul foglio in basso a destra: “Morandi 1927” e numerata in basso a sinistra: “11/50” II/III stato Firenze, Fondazione Spadolini Nuova Antologia 139. Le tre case del campiaro a Grizzana, 1929 V. inc. 59; C. 1929/7 Incisione all’acquaforte da matrice di zinco, inciso 248 x 299 mm Firmata e datata sulla lastra in basso al centro: “Morandi 929” Firmata a matita sul foglio in basso a destra: “Morandi” e numerata a matita in basso a sinistra: “1539/40” I/II stato Firenze, Fondazione Spadolini Nuova Antologia

236

140. La strada bianca, 1933 V. inc. 104; C. 1933/6 Incisione all’acquaforte da matrice di rame su carta India, inciso 206 x 304 mm Firmata e datata sulla lastra in basso al centro: “Morandi 1933” Firmata a matita sul foglio in basso a destra “Morandi” e numerata in basso a sinistra: “2/50” I/II stato Roma, collezione privata 141. Paesaggio di Roffeno, 1936 V. inc. 108; C. 1936/1 Incisione all’acquaforte da matrice di rame, inciso 158 x 199 mm Firmata e datata a matita sul foglio in basso a destra: “Morandi 1936” e numerata in basso a sinistra: “20/60” I/II stato Firenze, Fondazione Spadolini Nuova Antologia

Dopo i primi paesaggi d’esordio incisi nel 1912 e 1913 (V. inc. 1 e 2; C. 1912/1 e 1913/1), bisogna aspettare un quindicennio perché prenda avvio la “grande stagione di Morandi acquafortista”, che in soli sei anni (1927-1933) vede compiersi un’ottantina di matrici, più della metà dell’intero corpus. Segna questo fecondo inizio, dopo una pausa di cinque anni, l’incisione del 1922 (cat. 136), intitolata nel proprio quaderno manoscritto “Veduta dell’Osservanza e della Torre Comi” (Cordaro 1991, n. 1922/1). Sorveglia il paesaggio quella “modesta Tour Eiffel” di Villa Comi (Arcangeli [1964] 2007, p. 256), sui crinali meridionali delle colline bolognesi che Morandi scorgeva dall’abitazione fuori Porta Saragozza dell’amico Giuseppe Raimondi. Il soggetto ritorna, ravvicinato, in un dipinto dello stesso anno e nella più tarda incisione qui di seguito (catt. 14 e 137). Il motivo paesaggistico, in apparenza ottocentesco e già accanto a Strapaese (Arcangeli cit., p. 128), memore della Tour Eiffel di Rousseau vista dai sobborghi parigini (Fergonzi 2008-2009, pp. 5657) e del Corot italiano, proietta l’opera in colloquio con l’Europa. Ardengo Soffici la pubblicherà a distanza di anni nel numero monografico de “L’Italiano” del marzo 1930, proprio come emblema di uno “stile moderno e nello stesso tempo legittimo ed italiano” (Soffici 1932, p. X). Il soggetto di Villa Comi ritorna, come detto, in questa acquaforte del 1926 (cat. 137), stampata l’anno successivo e pervenuta a Roberto Longhi alla fine degli anni trenta insieme alla precedente (Bandera 2014b, pp. 53-55, n. 4). Con l’ausilio di raschietto e brunitoio, Morandi tramuta sulla lastra la “Tour Eiffel dei bolognesi” in una più famigliare “ciminiera” da cui deriva l’intitolazione dell’incisione (Petrucci 1948, n. 22; Vitali [1957] 1989, n. 27; Cordaro 1991, n. 1926/1). Rispetto al foglio precedente, il segno è più “rigido” e profondamente inciso e contiene in una rigorosa griglia visiva i singoli elementi del paesaggio, con una marcata solidità geometrica (Arcangeli cit., p. 321). L’incisione illustrerà uno degli organi di stampa ufficiali di Strapaese (Il Selvaggio 1926) e servirà da modello, con l’esclusione dell’alta torre, per l’illustrazione de Il sole a picco di Vincenzo Cardarelli del 1929 (Pasquali-Tavoni 1994, p. 270, n. XXVI). Riscoprono le “sottigliezze del giuoco tonale” le ultime incisioni qui in esame (Vitali cit., p. 17). La prima (cat. 138), uno scorcio di una casa a Grizzana dall’im-

pianto architettonico di matrice cézanniana, traduce in controparte un dipinto dello stesso anno (cat. 18). Le gamme tonali variano dal fitto tratteggio incrociato a punta ad ago inciso in due morsure, con conseguenti differenti profondità degli incavi scuri, alle aree chiare, quasi bianche, alleggerite da abrasioni o velate da fini ritocchi a secco. L’incisione ebbe immediata fortuna nelle riviste “strapaesane” “L’Assalto” (11 febbraio 1928, a. IX, n. 6) e “Il Selvaggio” (15 aprile 1928, a. V, n. 7). Le due seguenti sono entrambe scorci delle Case del Campiaro a Grizzana, le pure geometrie dei fienili che il pittore poteva scorgere poco oltre l’ingresso di Villa Vegetti, dove abitava, più volte soggetto delle sue opere (catt. 17, 30 e 31). La prima della serie, datata 1929 (cat. 139), è esemplare “per la complessità della composizione” e la metodicità degli incroci a punta ad ago a seconda dell’intensità tonale (Vitali cit., p. 17). Anche questa stampa servirà da illustrazione per “Il Selvaggio” (15 dicembre 1929, a. VI, n. 20-30) e per la raccolta poetica di Cardarelli (Pasquali-Tavoni 1994, p. 269, n. XXIII). La Strada bianca del 1933 (cat. 140), tema otto anni più tardi affrontato in pittura (cat. 30), è esemplare del rapporto di forte autonomia tra il mezzo incisorio e quello pittorico (Bandera 2013b, p. 23). Insolitamente la resa a stampa del soggetto non risulta speculare ma corrispondente al verso naturale. Il fatto è spiegabile con l’esistenza di una prima lastra incisa in controparte, poi biffata e riutilizzata nel retro, la cui prova di stampa sarebbe servita da modello per il tracciato della matrice in esame (Cordaro 1991, n. 1946/1). La padronanza del timbro cromatico, esito di assoluta sintesi spaziale e luminosa, è ottenuta da una doppia morsura che riduce in alcune parti la profondità del tessuto segnico in un’intonazione di “grigi argentei” funzionali a rendere “la luce accecante di quella campagna” (Vitali [1957] 1989, pp. 17, 20). La veduta di Roffeno del 1936 (cat. 141), infine, dominata dal monte Vigese, tra gli ultimi paesaggi incisi dall’artista, riprende non solo il tema ma anche la stesura “carica e improvvisa” (Arcangeli cit., p. 391) di alcuni precedenti dipinti (cat. 23), con un ductus rapido e immediato a punta a ciappola, esteso in lunghezza e variamente intersecato per rendere la differente profondità atmosferica dei piani prospettici.


237


238


239


242


243


246


247


248


249


256


Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.