Robert Mapplethorpe. La ninfa fotografia

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Prefazione

Il racconto teorico composto da un’antologia di scritti su Robert Mapplethorpe non è il risultato di un progetto pianificato nel tempo, ma è innanzitutto il frutto di un’esperienza personale che si intreccia alla conoscenza e alla frequentazione dell’artista. È il riflesso di un dialogo che inizia nel 1977 con l’incontro in occasione della sua personale alla Holly Solomon Gallery in West Broadway a New York, e continua per anni sino alla sua scomparsa. Corrisponde a una storia di vita che consiste in ricordi di serate e nottate spese a discutere di fotografia, quanto nel tempo trascorso ad analizzare e a conoscere il suo lavoro. È la narrazione, irripetibile e unica, di un giovane studioso d’arte contemporanea che ha la possibilità, non disponendo di mezzi per andare in albergo, di soggiornare sia presso Joseph Kosuth, Art & Language, Christo, Coosje van Bruggen e Claes Oldenburg, sia nello studio dello stesso Mapplethorpe in Bond Street a Manhattan e di sfogliare, durante la notte dopo innumerevoli tirate, i raccoglitori in cui erano contenute le migliaia di provini selezionati o scartati. Uno scavo visivo e mentale vissuto in diretta, tanto da essere discusso per ore le sere dopo con Robert stesso, prima che uscisse per le sue sistematiche avventure notturne. Uno sviluppo privilegiato che già nel 1983 porta alla cura di un’esposizione a Palazzo Fortuny, Venezia, che fu proibita ai

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minori di diciotto anni: un’autocensura, voluta dagli enti pubblici cittadini, ma che il giorno dell’apertura registrò in prima linea un gruppo di suore! Una mostra, costruita e allestita con il fotografo che la spiegò al pubblico durante una conferenza molto intensa e da cui scaturiscono le frequentazioni dal 1982 con Sam Wagstaff e Lisa Lyon, la prima woman bodybuilder, e i viaggi insieme, come quello con Robert e Ingrid Sischy a Tokyo: momenti di vita che si tramutano in storia. Dalla pluralità di queste esperienze hanno origine le prime letture teoriche e storiche che dopo il 1989, anno in cui Robert muore per AIDS, porta a diversi attraversamenti critici, come nel 1992 la messa in relazione tra Rodin e Mapplethorpe, oppure nel 2004 allo studio del suo contributo rispetto alla tradizione manierista e classica, con una mostra inaugurata al Deutsche Guggenheim di Berlino e poi itinerante all’Hermitage, San Pietroburgo, Moscow House of Photography, Guggenheim, New York, per poi approdare alla collezione del Guggenheim Hermitage a Las Vegas, che oggi non esiste più. Su tutto lo stimolo interiore a “promettergli”, appena scomparso, di realizzare una mostra che aspirasse a un milione di visitatori. Nasce così, con Michael Ward Stout e la Robert Mapplethorpe Foundation, il progetto della mostra “Robert Mapplethorpe” che, partita dal Louisiana Museum, Humlebaek, ha


viaggiato dal 1992 al 1997 ed è stata ospitata in diciannove musei di tutto il mondo, tra cui Museo D'Arte Contemporanea, Prato; Moderna Museet, Stoccolma, Tel Aviv Museum of Art, Fundació Joan Miró, Barcellona, Hayward Gallery, Londra, e Museo de Art Moderna, São Paulo, raggiungendo un pubblico di oltre ottocentomila persone. Infine la memoria registra il riconoscimento, spesso negato dalle maggiori istituzioni museali, da parte del Solomon R. Guggenheim Museum, di cui ero Senior Curator, della sua importanza nella storia della fotografia con il suo inserimento nella collezione d’arte attraverso l’accettazione della donazione di centinaia di originali da parte della Robert Mapplethorpe Foundation. Questo libro è quindi il frutto di un’amicizia e di una conoscenza diretta. Attesta un’interazione tra esperienza e studio, partecipazione e scrittura. Non è un documento neutrale ma personale, una porzione di autobiografia di chi per professione avvicina l’arte e gli altri linguaggi facendone anche un percorso di vita. La raccolta di queste testimonianze, rielaborate in un’antologia, che ripropone integralmente i saggi come pubblicati nella prima edizione, fatta eccezione per Il satiro Mapplethorpe e la ninfa Fotografia e Tra antico e moderno, che sono stati rielaborati, è un lavoro che ha

ricevuto l’aiuto di molte persone. A New York un ringraziamento particolare va alla Robert Mapplethorpe Foundation presieduta da Michael Ward Stout, insieme a Burton G. Lipsky, Dimitri Levas, Stewart Shining e Eric Johson, e diretta da Joree Adilman che, con l’assistenza di Max Staudacher, ha messo a disposizione con la massima generosità le immagini del fotografo, facilitando la pubblicazione. Un grazie anche a Xavier Hufkens ed a Elisabeth Van Caelenberge, Brussels, per le preziose informazioni. A Milano ho potuto contare sulle puntuali ricerche iniziate da Mariví García-Manzano e continuate da Laura Conconi che, con profonda attenzione, hanno portato a termine la redazione, italiana e inglese, del volume. L’ottimo risultato editoriale non sarebbe stato possibile senza la casa editrice Skira nelle persone di Massimo Vitta Zelman, Stefano Piantini, Alessandro Degnoni, Emma Cavazzini, Marcello Francone, Sara Salvi, Anna Albano, Sylvia Notini e Paola Lamanna. Nel mio studio Marcella Ferrari, affiancata da Mattia Ruffolo, ha sostenuto il coordinamento e la definizione del progetto, mentre la mia famiglia, Argento e Paris, ha condiviso le emozioni e le tensioni del mio procedere. Grazie a tutti. Germano Celant

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1. Patti Smith, circa 1973

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essere diversamente, io sono un bianco e loro sono neri, sono un essere maschile e loro femmine. Da qualche parte una differenza esiste, ma non deve porsi come valore negativo. C’è differenza nell’avvicinare un nero che non indossa vestiti o un bianco nella stessa condizione? No, è una forma e prende il significato che gli vuoi dare o vedere. G.C. Parliamo allora di soggetti più problematici, quali le riprese di eventi pornografici e di scene sadomasochiste. R.M. Personalmente ritengo la pornografia una sessualità più interessante. Credo sia la cosa più stimolante che conosco, un po’ perché di fatto non la si conosce mai, e ciò la rende affascinante. Riguardo alle fotografie sadomaso, esistono diverse ragioni perché le ho scattate. Era un’area che certamente in fotografia non era stata esplorata in maniera intensa. Le persone ne avevano paura. Anche i grandi fotografi ne erano rimasti fuori e io pensai che, essendo un territorio inesplorato, fosse molto stimolante. Non c’era competizione ed ero libero di fare qualsiasi intervento. G.C. Quelle immagini ti attraevano come soggetto o come evento personale? R.M. Non credo che si possa separare due realtà che si sovrappongono al punto di non conoscere quale sia la vera. La mia vita è riprendere immagini, quanto farne esperienza. G.C. Perciò quelle fotografie hanno influenzato la tua vita? R.M. Ho imparato molto sulla mia sessualità, sia nel partecipare sia nel riprendere fotografie. Tutto si è intrecciato. Era documentare nient’altro che me stesso in diversi modi. Non era come leggere gli annunci nei giornali porno per incontrare persone con strani gusti sessuali. Erano piuttosto persone che conoscevo, ne ero amico e le riprendevo nelle fotografie. G.C. Le fotografie erano quindi il risultato di un rapporto personale, non di una regia? R.M. Le persone implicate in quelle immagini erotiche erano realmente partecipi di quanto avveniva. In quel modo cercavano piacere. 12

Se qualcuno nella foto beve l’urina di un altro, di fatto stava bevendo urina. Non lo faceva per essere fotografato, ma perché gli piaceva. Tutto avveniva spontaneamente, con una voluta partecipazione. Del tutto diverso da quanto recentemente ho visto in un film, in un porno-movie a Düsseldorf. Lì la situazione era terrificante perché le persone riprese non volevano partecipare, ma erano forzate a farlo. Forse solo la persona che impugnava la pistola per costringere gli altri alla scena sessuale, era l’unica a ricavare un piacere da tutta la situazione. Certamente chi era frustato e violentato non si divertiva. Le persone da me fotografate cercavano nelle loro azioni un orgasmo e per me questo era giustificabile. Non era violenza per la violenza, dove una persona si approfitta di un’altra. Si agiva insieme per ottenere un reciproco orgasmo, anche se non sembra facile crederlo dalle fotografie. G.C. Eri sentito partecipe o eri visto come un voyeur? R.M. Prima di tutto conoscevo tutte queste persone. Le avevo incontrate prima, durante una reciproca esperienza sessuale, e fuori dalla ripresa fotografica. Erano miei amici. Non c’era alcun problema. Desideravano che si documentassero le loro sensazioni, quali che fossero. Le immagini documentano quindi un’esperienza e una sensibilità comune, che non possono essere capite se non sono condivise. G.C. La fotografia è un luogo di memoria personale? R.M. Considero queste fotografie parte di un diario. Queste sono persone – alcune le conosco molto bene, altre poco – che hanno incrociato la mia vita negli ultimi anni. Voglio essere capace di tornare indietro e ricordare quella parte che mi attrae. G.C. L’attore e il regista coincidono? R.M. Sono un regista che ama non dirigere, se la persona fotografata ha idee su di sé e sulla sua immagine. Lascio quindi che riveli le sue fantasie in una maniera che, penso, altri fotografi non sono disposti a concedere. Pertanto prima di una seduta fotografica non so cosa succederà. Posso avere un’idea sullo sfondo, ma può anche non funzionare.


2. Self-Portrait, 1983

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3. Belly Button, 1986

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8. Gun Blast, 1985

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9. Lisa Lyon, 1980

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Il satiro Mapplethorpe e la ninfa Fotografia

L’eros multiplo L’eros domina il mondo e le fotografie di Robert Mapplethorpe ne glorificano la potenza e la moltiplicazione, solo non lo identificano nel predominio di un unico e univoco sesso, maschile o femminile, ma lo esaltano per la pluralità delle sue espressioni, per il suo muoversi irregolare e diverso, per il disordine che esso crea nell’identità degli individui. Mapplethorpe rivendica un eros che non esclude alcun tipo di scambio e di passione, un desiderio che agisce in un territorio libero e aperto che si trova là dove l’esperienza umana lo coglie. Crede in un eros soddisfatto e realizzato, che ingloba sempre le nuove frazioni della vita e i nuovi poteri dell’amore. Non impoverimento quindi, ma continuo zampillare di pluralità sessuali di incontri e di affetti. Assenza di ogni colpa per l’indomito e insaziabile voler essere e accettare, senza interdetto e oltre qualsiasi limite, tutti i tipi di amore. La loro tessitura, che comprende sessualità e tenerezza, non può infatti dipendere da un processo di rinuncia, di rimozione e di inibizione, ma deve lasciarsi intrecciare e dipanare dalla libera erranza della libido e del desiderio. Attraverso le sue fotografie, Mapplethorpe cristallizza il massimo investimento pulsionale su persone e su cose, compie un viaggio nella vertigine dei sensi, dallo sguardo ai genitali, che ammette soltanto l’unione libera e circolare degli esseri, atta ad ampliare e superare l’ultimo concetto di erotismo. Quanto ritrae è l’esuberanza di un’arte amatoria che, rivolta al piacere di sé, prescinde dalla differenza tra amore e perversione, tra attivo e passivo, tra

dominante e dominato, tra bene e male. Va oltre gli opposti e supera le distinzioni, perché interessato a muoversi negli intervalli o negli iati che, nel separare, attraggono le individualità, producendo quelle straordinarie sorprese di eventi personali e sensuali che si definiscono erotiche. Tuttavia, la carica erotica che pulsa in un’immagine e riesce ad affascinare e inquietare si spiega alla luce di una dialettica tra provocazione e armonia estetica. Nel loro coagulo si condensano un’energia e una potenza vitali che vanno verso il “limite”, ma in un manifestarsi composto e felice. È una pienezza o un approdo dove gli esseri cessano di contrapporsi, per tuffarsi nella corrente dei sensi. […] Quello che, dal 1970 al 1976, i lavori giovanili di Mapplethorpe delineano è il profilarsi di un doppio statuto: da un lato lo scandalo dell’amore omofilo e il culto della “diversità” sessuale e razziale, le espressioni infuocate ed esplosive del vissuto e del quotidiano; dall’altro la sublimazione delle immagini attraverso la rigorosa composizione delle figure, la rappresentazione colta e costruita di una bellezza ideale, che trova il suo senso nell’antichità e nella storia. L’attentato al pudore e la provocazione erotica, come gesto di ribellione sociale 1, avvicinano al dadaismo e al surrealismo, mentre la logica dell’ordine e della visione armoniosa, rispecchiata nel rigorismo plastico delle figurazioni, rimanda allo studio del modello nella scultura rinascimentale e neoclassica. Il tessuto capillare, in cui scorrono tali elementi linfatici dell’avventura fotografica di Mapplethorpe, si forma negli anni seguenti ai suoi studi, dal 1963 al 1969, di pittura e di 27


scultura al Pratt Institute, Brooklyn, e si manifesta dopo il tuffo nel magma del materiale pornografico, esposto e venduto a Times Square e nella Quarantaduesima strada a New York. Attraverso l’apprendimento della storia dell’arte e delle sue procedure linguistiche deriva la coscienza di poter porre un’alterità radicale, personale e collettiva, capace di esprimersi con ogni materiale e mezzo, mentre la scoperta delle “forti” figurazioni pornografiche sollecita la volontà di raccontare, anche al massimo dell’estremizzazione, il proibito della carne e del sesso. Da questo serbatoio di motivi primari scaturiscono gli assemblages e i collage, dal 1970 al 1973, che sono le vere premesse, seppur ancora esteticamente immature, dell’incanto erotico delle fotografie future. Tra i primi lavori, Altarpiece, 1970, accentua al massimo le connessioni con la memoria artistica e lo spirito provocatorio del dadaismo e del surrealismo. Si tratta di un complesso assemblage di oggetti e di materiali vari, quali stoffe e sete, scialli e pellicce, tavolo e lampada, statua e fotografia, candele e frange, che arrivano a formare una sorta di inginocchiatoio o altare, dove le immagini sacre della Madonna e del Cristo presentano lo sguardo accecato da una banda nera e alcuni oggetti simbolici, come la lampada o il martello, sono fasciati in seta con frange o in velluto. Tale continente di segni, di matrice cattolica, in relazione quindi con l’educazione di Mapplethorpe, produce uno spazio scenografico di una visione interiore, perché velata e non rivelata, cioè quella di un discorso sul “dentro”. Le figure del Cristo e della Madonna, della lampada e del martello sono “accecate” perché la verità del loro “vedere” viene dall’interno, è legata alla negazione dell’esterno e dello sguardo; sono accecate perché aperte alla pluralità dei sensi. Tuttavia la copertura può sottendere un altro significato, quello di un ammorbidimento delle loro funzioni. La luce viene filtrata e soffusa, e il martello che spezza e apre brecce può attenuare il suo potere, si rende più dolce. Vedendo in essi simboli erotici e razionalizzandone il rimosso, si potrebbe parlare di una liberazione o di 28

una esaltazione dei sensi o delle sensorialità meno usate, quanto di un ingentilimento o di un ammorbidimento della performance della conoscenza-luce e della violenza delle mutazioni-martello. Assumendo invece le figure del Cristo e della Madonna per la loro connotazione del maschile e del femminile e le figure della luce e del martello per la loro predisposizione ad attraversare e penetrare i corpi, vale a dire leggerle per il loro funzionamento erotico, si potrebbe parlare di un accecamento intenzionale che, spaesando le reciproche conoscenze di sé e dei propri ruoli, permette la molteplicità dei rapporti amatori e la dislocazione penetrativa e copulatoria. Se valide, entrambe le interpretazioni rivelano latenze che per Mapplethorpe dovevano essere adorate e sacralizzate, poste quindi sull’altare. Il processo adottato è quello caratteristico del dadaismo e del surrealismo, dove l’artista si appropria degli oggetti, se li rende familiari e poi li investe di una carica narcisistica, cosicché l’insieme parli di un suo “altrove”, di un sentire ignoto e sconosciuto che, una volta assimilato, diventa un ritratto del proprio sé e del proprio inconscio: il cieco vede. L’arte (e poi la fotografia) diventa il luogo da cui partono associazioni attive, capaci di rendere palesi i propri desideri e le proprie pulsioni. Qui si incontrano motivazioni e necessità oscure, personaggi e raffigurazioni che suscitano meraviglia, i quali concorrono a formare immagini e racconti, emotivi e personali, che portano alla nozione di sé stessi. Quanto conta è allora la inside view delle opere, il livello superiore quanto quello interiore, il diritto e il rovescio, il maschile e il femminile, il visuale e il tattile, l’esplorazione delle stratificazioni e delle latenze, delle sfasature e dei tagli, delle associazioni e dei riflessi. Lo spazio, che si apre nei collage e nelle pitture con indumenti e oggetti del 1970, è quindi quello di una topografia di sintomi e di incidenze personali eterogenee. Le sovrapposizioni di mutande e sospensori e di ritagli pornografici, la drammatizzazione cromatica del cavatappi-pene insanguinato e l’associazione dell’iconografia omosessuale


10. Altarpiece, 1970

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11. Untitled (Corkscrew), 1970


20. Open Book, 1974

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21. Untitled (Self-Portrait), 1973

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28. Jacques-Louis David, Marat assassiné, 1793

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capolavoro neoclassico si rifà Mapplethorpe quando ritrae James Ford, 1979, nella vasca da bagno18. Il ritorno alla fonte neoclassica reitera il progetto fotografico rispetto alla storia dell’arte, solo che in Mapplethorpe il carattere fetale del corpo nell’acqua si trasforma in una condizione estatica, tanto che il braccio si unisce all’altro in una comunione sensuale di tutto il corpo. La riproposta della storia ricorre ulteriormente nella ritrattistica, dove il fotografo riflette, come David, sulla contingenza degli eventi e dei loro protagonisti, che non sono mai autonomi dal periodo storico, ma legati a esso. Lo stesso si potrebbe dire per l’attenzione al Jean-Auguste-Dominique Ingres di La Baigneuse de Valpinçon, 1808, il cui riferimento alla poetica di Canova per il “bello ideale” trasforma i corpi in pura forma, seppure dando loro un sentire più romantico: “Il mio lavoro concerne l’ordine. Sono un perfezionista. Non voglio che le cose possano essere contestate; se faccio una testa, questa deve essere nella giusta posizione, dove il naso incontra la guancia”19. La tensione scultorea della fotografia di Mapplethorpe, rivolta alle vicende della storia dell’arte dal rinascimento al romanticismo, via neoclassicismo, trova un altro e più profondo riscontro nella sua sintonia con Auguste Rodin, la cui opera porta il fotografo alle soglie del nostro secolo, che inizia a essere dominato dalla storia della fotografia. Dopo Rodin il percorso della citazione artistica prenderà la strada del rimando ai protagonisti della fotografia. Ma perché Rodin? Innanzitutto la prima relazione tra i due è data dall’attrazione per l’eros e la sensualità dei corpi scultorei20. Entrambi si interessano alle forme e ai volumi carnali dei loro modelli, maschili e femminili, per realizzare un’esperienza che sia plastica, visiva e personale. Usano l’erotismo delle figure per trasgredire e violare i tabù del loro tempo e per ottenere una rottura e un’innovazione delle loro arti, la scultura e la fotografia. Non si sottraggono ad alcuna esperienza, dentro e fuori lo studio, sicuri che a essa vadano riconosciuti dignità e valore autonomi. Vanno oltre, verso l’eccesso, nella prosecuzione e nella conquista di un’esperienza limite.

Il fine è l’affermazione di un sé, dove l’eros della materia e delle configurazioni possa pienamente circolare in tutti i suoi topoi sensuali e sessuali. Nelle loro opere essi diventano arte e tecnica, strumenti di produzione visuale mediante cui cogliere e realizzare i propri rapporti, critici ed emozionali, con il mondo e il suo sociale. Prima Rodin che afferma: “L’arte è, sopra ogni cosa, gusto. È il riflesso del cuore dell’artista sull’oggetto che crea. È il sorriso dell’animo umano sulla casa e su quanto essa contiene. È il fascino del pensiero e del sentimento incarnato in tutto quello che l’essere umano usa”21. In seguito Mapplethorpe, con tono meno romantico: “Ho cominciato a fare fotografia perché mi sembrava un veicolo perfetto per commentare la follia dell’esistenza odierna. Cerco di registrare il momento in cui vivo e il luogo in cui vivo, che si dà il caso essere New York. Cerco di cogliere qualcosa della follia e di impartirvi un ordine. Come dichiarazione sui tempi non è male, in termini di accuratezza. Queste foto non potrebbero essere state fatte in un’altra epoca”22. Uno mette il cuore nell’elegia e nell’ebbrezza dei corpi nudi di cui ama circondarsi in studio al fine di ispirarsi per disegni e sculture, l’altro nel compimento di un erotismo che prende corpo in immagini fotografiche di partner, intellettuali e fisici. Per entrambi conta la messa in circolazione di una “corporeità” che sia provocante, in quanto sposta e disloca dal luogo accettato e comune i confini tra bene e male, bello e brutto, morale e immorale. E siccome è stato il rinascimento a rendere possibile una completa raffigurazione nuda e senza veli del corpo, sia Rodin sia Mapplethorpe partono dalla sua rappresentazione classica, quella di Michelangelo, per conseguire una spogliazione che trovi giustificazione nella storia e acquisti un valore non solo artistico, ma linguistico e sessuale. Nel 1880 Rodin, realizzando Adam 23, guarda alla Creazione di Adamo nella Cappella Sistina a Roma, mentre per i suoi Studi di nudi seduti, 1874-1880, o Le Penseur, ancora 1880, porta l’attenzione alla Cappella de’ Medici a Firenze. In sintonia Mapplethorpe nel 1974, subito dopo le sue


29. James Ford, 1979

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30. Auguste Rodin, Adam, 1880

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esperienze di collage e di montaggio di ritagli tratti da riviste pornografiche, all’inizio della sua avventura fotografica – come abbiamo visto – riprende, in The Slave, le pagine aperte di un libro su Michelangelo, dove è riprodotta la figura di uno Schiavo morente e del particolare del suo busto, là dove la mano muove le bende che lo bloccano. Tuttavia, il michelangiolesco non termina con questa fotografia: nello stesso anno fa il ritratto a Jamie, circa 1973, un bellissimo ragazzo ripreso mentre mima la posizione e il gesto dello Schiavo morente. Il riferimento alle tematiche e alla plasticità michelangiolesche rivela che non solo uno scultore, ma anche un fotografo può assumere quale riferimento una visione scultorea, che affonda nella tradizione rinascimentale e cristiana. Si potrebbe anzi affermare che Mapplethorpe ricerchi un mutamento della sensibilità fotografica in senso neoclassico, vale a dire aspiri ad affermare le verità del suo tempo, mediante il ricorso a forme e figure, composizioni e articolazioni senza tempo, e la sua ossessione per la simmetria potrebbe essere una prova di questo impegno: “Ho in testa la simmetria. È radicata in me. Penso che derivi dalla Chiesa cattolica – ho ricevuto un’educazione cattolica” 24. Ed è proprio il ricorso al classicismo michelangiolesco a rendere possibile l’iconoclastia di Rodin e di Mapplethorpe. Usando la dignità della tradizione, espressa mediante forme e figure di altissima sobrietà, i due artisti riescono a veicolare contenuti insostenibili per la loro epoca, quale l’amore etero e omosessuale, come le scelte erotiche sadomasochiste. L’esaltazione del momento eroico del corpo, nudo o vestito, appartiene alla tradizione dell’arte, che si afferma nella sua immobile esemplarità disturbando il linguaggio corrente, con la vigorosa esaltazione dell’eros. Il transito tra passato e presente non è solo formale, perché il dislocamento temporale, da Michelangelo a Rodin e poi a Mapplethorpe, della questione sensuale e sessuale non ha ancora risolto la separazione tra fisico e non fisico, erotico e pornografico, bello e vero, omo ed eterosessuale. Ed è al superamento di tali opposti che questi artisti hanno teso,

spingendo l’arte della pittura e della scultura, del disegno e della fotografia a dare “soddisfacimento” alle proprie e altrui pulsioni immaginarie e segrete. Nella concezione di Mapplethorpe la relazione con il soggetto o il modello assume connotazioni interpersonali. Tra fotografo e fotografato egli ricerca un fluire emotivo e decisamente libidico. Non si considera un voyeur, ma un partner. Rifiuta dunque la funzione del protagonista dell’azione, intento a proiettarsi e imporsi nell’immagine, per aspirare a uno scambio e a un passaggio energetico che è creativo ed erotico. Va verso la trasmissione di una differenza sensoriale, che presuppone un incontro intimo. […] “Preferisco”, sottolinea Mapplethorpe, “gente che conosco o almeno gente con cui ho parlato, perché si tratta di un rapporto tra il fotografo e il soggetto”25. Ma continua: “Mi piacerebbe idealmente pensare di poter tendere verso le persone e di poter forse avere idealmente con loro un’esperienza migliore di quella di fotografarli”26. Per questo motivo Mapplethorpe lascia all’altro di erompere sulla scena della fotografia, allestita sempre nell’intimità del suo studio (un altro parallelismo con Rodin), per manifestare la sua identità, palese o nascosta, davanti alla macchina fotografica. Si abbandona quindi allo stato di eccitazione che si stabilisce con il soggetto e lascia che le immagini sgorghino dalla situazione erotica conseguente. La sintonia con i momenti sadomasochisti non è quindi legata al concetto di perversità e di sacrificio sessuale, ma di amore e di passione. Nel loro scatenamento si concretizzano le infrazioni alle regole e ai limiti dei divieti, individuali e artistici. A proposito delle fotografie S&M, Mapplethorpe dichiara: “Stavo cercando di dimostrare una posizione sulla sessualità. Ero entusiasta del fatto che la gente sperimentasse sé stessa”27. E continua: “La maggior parte della gente nelle foto S&M era orgogliosa di quanto stava facendo. Consisteva nel darsi piacere reciprocamente. Non si trattava di fare del male. Era una sorta di arte. Naturalmente c’erano persone che arrivano alla brutalità, ma non era quella la mia inclinazione. Per me, si trattava di due persone che stavano


31. Female Torso, 1978

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32. Grace Jones, 1984

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avendo un orgasmo simultaneo. Era piacere, anche se sembrava doloroso”28. Mobilitando quotidianamente, dal 1976, soggetti e rapporti, si può capire il continuo effluvio sensuale del suo lavoro, che si fa vorticoso e violento quando riprende la condizione dei rapporti omoerotici, oppure impetuoso e caldo se documenta le pulsioni sessuali tra partner maschili e femminili, oppure dolce e intenso quando si abbandona alla bellezza del corpo muscoloso di un nero o alla vellutata tattilità di un fragile fiore. La forza delle sue fotografie sgorga allora da una realtà tutta scoperta e disponibile, di cui Mapplethorpe fa “il ritratto”. Anche Rodin lascia che la natura, o meglio il corpo dei modelli che erano invitati a muoversi nudi nel suo studio d’artista, interloquisca con la scultura. Si abbandona a essa con la stessa passività di un amato che si lascia sedurre da un amante: “Prendo dalla vita i movimenti che osservo, ma non sono io a imporli. Anche quando un soggetto sul quale sto lavorando mi costringe a chiedere al modello una certa posa fissa, gliela indico, ma evito accuratamente di toccarlo per metterlo in posizione, perché desidero riprodurre solo quello che la realtà mi offre spontaneamente. Obbedisco alla Natura in tutto e non pretendo mai di dominarla. La mia sola ambizione è quella di esserle servilmente fedele”29. Parte dalla sua contemplazione, sia che prenda forma di due corpi in procinto di compiere movimenti erotici omo ed eterosessuali, da Le Baiser, 1888-1898, a Deux femmes enlacées, 1908, sia dei loro particolari anatomici, come nella Danaïde, 1885, e nel disegno Main sur un sexe, per trascendere e superare la visione ideale della figura umana. Si sottrae così alla visione scientifico-illuminista del corpo per solidificarne un forte erotismo interiore, basato sulla sensualità della carne e del gesto: “Di fronte a un modello”, afferma ancora Rodin, “lavoro con grande desiderio di riprodurre la verità, come se stessi facendo un ritratto. Non correggo la natura, mi fondo con essa. La natura mi guida. Posso lavorare solo con un modello. La vista di un essere umano mi sostiene e mi stimola. Nutro una sconfinata ammirazione per il corpo nudo. Lo venero... A volte,

guardando un modello, si può pensare di non aver scoperto nulla. Poi, tutto in una volta, a poco a poco la natura si rivela, appare una striscia di carne, e questo frammento di verità porta l’intera verità e permette di salire con un unico balzo al principio assoluto delle cose”30. Sul piano della realtà artistica, l’eccesso di energia porta alla creazione di un “corpo glorioso” che in Rodin si distende nelle tensioni della materia bronzea e in Mapplethorpe si emulsiona in superfici epidermiche nere, che acquistano la forza visiva dello stesso metallo: “La forma”, sottolinea il fotografo, “rende bene sul nero, dà l’effetto del bronzo”31. I corpi che essi ritraggono sembrano pervasi di forza prometeica che, se continua il rimando al non finito di Michelangelo, lo supera per l’attitudine a un tutto pieno della vita, vibrante e tesa a coniugare la potenza della materia corporale. Prototipo di un essere che ha esplorato i limiti di questo pieno è l’atleta e il bodybuilder, o il danzatore, che sono scelti da Rodin e da Mapplethorpe a soggetto della loro arte. Entrambi li assumono come motivi di una motilità visiva della materia umana. Rodin riprende la comprensione muscolare del lottarore Samuel Stockton White e lo traduce in L’athlète, 1901-1904, ora al Philadelphia Museum, mentre Mapplethorpe fotografa molti bodybuilder, da Schwarzenegger a Lisa Lyon e a Lydia Cheng, o i danzatori Bill T. Jones e Lucinda Childs. Punto per punto il materiale scultoreo e fotografico riverbera un’incandescenza e un germinare intensivi dei torsi e delle gambe, dei volti e delle mani. I muscoli e la pelle si offrono in ebollizione, appaiono attraversati da una forza esplosiva. E anche quando Rodin e Mapplethorpe si concentrano sulla parcellizzazione di un corpo, portando lo sguardo su una schiena o su una coscia, su un pene o su una vagina, su un braccio o su un collo, sull’ombelico o sull’ascella, il “taglio” non allenta la presa energetica, la porzione si invera di potenza. Si accende così una vertigine sensuale che attinge al piacere della carne, maschile e femminile, nera e bianca. Il risultato è l’offerta di un corpo purificato da ogni scoria, sessuale e 51


37. Patti Smith, 1978

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38. Patti Smith, 1978

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39. Self-Portrait, 1978

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40. Self-Portrait, 1973

grande strada. Con lei ho vissuto tutte queste transizioni. E lei a sua volta viveva le mie trasformazioni: il passaggio dal voler fare il pittore a diventare poi fotografo”39. Ma la solidarietà è fuorviante, qualcosa da “non toccare” perché dannoso allo sviluppo (fotografico: “non toccare”): “Ricordo che da bambino ero attratto dalle fotografie di uomini; poi incontrai Patti e lei cambiò tutto intorno a me, perché ero ossessionato da lei, per lei. Era decisamente lei la persona. Ecco perché il sesso funzionava. Ero talmente dentro di lei. Ma la situazione non è chiara neanche per me... Quello che è interessante nel sesso è il non capirlo mai completamente. Non sono neanche sicuro di aver capito come ho finito per essere omosessuale”40. Al tempo stesso, i ritratti del 1975 di Patti Smith in transito tra femminile e maschile proiettano sulla sua figura il mito dell’androgino, la ricerca di una maschilizzazione della donna, quando Mapplethorpe aspirava a una effeminazione di sé. Ma la sessualizzazione di un trapasso nel contrario avviene solo con una lacerazione e con una violenza. Nel 1978 Patti Smith viene ripresa con le vesti strappate, tipiche di una cultura

underground, e nello stesso anno Mapplethorpe si ritrae, in Self-Portrait, vestito di pelle e con una frusta inserita nel retto. Dopo Untitled (Self-Portrait), 1971, nel violet bag, il Self-Portrait, 1973, in movimento inquadrato in una nicchia rotonda, e il Self-Portrait, 1974, nella cornice verde sagomata, e il Self-Portrait, 1975, con il braccio disteso e l’ascella ostentata e ora il Self-Portrait, 1978, con l’autopenetrazione anale, mediante frusta, ci si accorge che l’utilizzazione della propria immagine segna un percorso oscillante, che attesta nel corso del tempo le impronte emotive e sessuali sulla propria carne e sul proprio essere. Le inquietudini giovanili passano attraverso la simbologia ascetica michelangiolesca, danno spazio – nel movimento del torso – alla comparsa di un’immagine di sé non definita, per arrivare alla fine alla pietrificazione fotografica della propria omosessualità, unita al gesto provocatorio e scandalistico di una penetrazione anale, resa pubblica e diabolica. La proliferazione di un sé, fecondato dalle esperienze, emancipa il riconoscersi in un corpo “doppio”, che sfugge a ogni fissità. L’identità si offre allora quale punto zero, come uno spazio da riempire, trovandone i contenuti nel linguaggio delle relazioni, che vanno da Patti Smith al vortice sadomasochista, dall’amore omofilo per i suoi black lovers alla riflessione sul corpo felino di Lisa Lyon. L’autoritratto equivale al movimento incessante di un’energia che si brucia e si rigenera, si concretizza e si dissolve nella forza errante della vita. Segna dunque un partorirsi e una nascita continui solo che, al pari di Antonin Artaud, un altro protagonista della scena surrealista, “la luminosità va guadagnata, ma a patto di passare attraverso l’orrore, il fiotto della bestialità, l’intumescenza dell’inconscio scatenato” 41. La discesa nel “basso” della propria materialità e sessualità ruota sul perno di una simbologia del riassorbimento e dell’ostentazione oggettuale; gli autoritratti presenteranno sempre un Mapplethorpe affiancato da un segno, oggetto o strumento, che esprimerà e manifesterà il suo stato d’animo, i suoi desideri e il suo destino. II suo riflettersi sarà allora il “teatro muto” di un attore toccato o squassato dagli 61


41. Self-Portrait, 1974

eventi felici o tragici della sua esistenza. Egli si dissolverà in esso per raffigurare le sue metamorfosi e la sua reattività fisica e corporale. Ridotto a effige, si offrirà nudo, rivestito di pelle e di borchie, truccato da macho e da donna, da teddy boy e da sadomaso, da dandy e da gentleman, da giovane e da vecchio, da sano e da malato, e si approprierà di una frusta, di un coltello, di un mitragliatore, di una pistola, di una stella a cinque punte, di un bastone con il pomo a figura di teschio per rivelare i segreti della sua “espressività” personale e fotografica. Il self-portrait funziona da cassa di risonanza di un’immagine vivente, che trapianta nel suo organismo il magnetismo dei rapporti feticisti tra oggetto e soggetto. La configurazione corporale con la frusta nel retto, Self-Portrait, 1978, omologa una condizione d’essere che assume la frusta come fallo e viceversa, e richiama la sfrontatezza e l’impudenza dell’omosessuale, trasformato dalla società in mostro infernale o in demonio. Inoltre la frusta è usata contro i criminali, rimanda al fulmine divino che colpisce i malviventi sulla terra. È un’energia che punisce, ma al tempo stesso trasforma. In questo senso possiede anche un valore positivo, genera 62

un processo creativo. L’incorporazione di “segni attivi”, nel 1980, include la doppia animazione di Mapplethorpe maschio e femmina, che si realizza con l’autoritratto del tough guy, vestito di pelle con la sigaretta in bocca, contrapposto all’autoritratto con il make-up degli occhi e delle labbra, e i capezzoli in erezione. Per arrivare a Self-Portrait, 1983, dove Mapplethorpe, alle spalle una stella a cinque punte rovesciata, appare vestito con una giacca di pelle, ma con la camicia bianca e la cravatta da tuxedo, mentre imbraccia un mitragliatore. La gamma del suo esporsi risponde a un’esigenza di raffigurazione massima del codificatore e del trasmutatore della vita: il corpo. Mapplethorpe insegue la sua traversata nel mondo e la rappresenta, arriva a partecipare della sua ebbrezza per l’abbandono all’ignoto e al latente, simbolizzati attraverso gli oggetti citati o usati. Così il pentagramma invertito diventa, come ha acutamente evidenziato Mike Weaver, logo della sua “diabolica omosessualità”, tanto da ricorrere in altre fotografie, da Jimmy Freeman, 1981, a Lisa Lyon, 1982, dove “una stella a cinque punte foggiata come un cappello alla moda creato per Lisa Lyon può essere una parodia


42. Jimmy Freeman, 1981

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43. Self-Portrait, 1983

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44. Lisa Lyon, 1982

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45. Self-Portrait, 1985

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46. Wilhelm von Gloeden, Satiro, circa 1900

satanica, ma la stella ricamata sul berretto di Jimmy Freeman indica che l’intero corpo di Jimmy risplende incarnandosi in una costruzione pentagonale. Il fallo costituisce un supporto per il nudo, che interseca uno spazio bianco triangolare, e penetra tra le caviglie e l’avambraccio. Qui l’astrazione della testa viene resa contigua con l’astrazione del fallo”42. La nostalgia di uno stato completo del suo dualismo in un corpo compatto e unico, che comprenda bene e male, luce e tenebra, angelo e demone, uomo e animale si traduce in Self-Portrait, 1985, in cui Mapplethorpe si ritrae quale figura caprina, un satiro con le corna. Quale fauno, spirito dei boschi e delle montagne, si identifica con Dioniso, allegoria del piacere e della lussuria. Si offre quale partecipe di riti orgiastici. Ma più di ogni altra cosa, il ritratto con la testa cornuta avvicina Mapplethorpe al dualismo della figura demoniaca di Satana, il diavolo. Questo nella devozione a Jahweh, secondo la profonda analisi di Carl Gustav Jung43 sul tema della figura satanica, rappresenta una divinità bivalente e binaria, che in sé ascrive il divino, in quanto “funzione personificata di Dio”44. Inoltre le corna del demone caprino possiedono un doppio significato: con la loro forza di penetrazione sottendono il principio attivo e mascolino, mentre con la loro apertura a forma di lira e di ricettacolo simboleggiano il principio passivo e femminino45, la cui riunione esprime l’essere completo, maturo. Ritraendosi quale fauno e demone, Mapplethorpe vuole sottolineare la conquista definitiva di una consapevolezza della sua natura duale, che però racchiude in sé l’unità della molteplicità. È un satiro e un diavolo, simbolo di piacere e di libido peccaminosa rimossa e soddisfatta, quanto un angelo, cherubino o serafino46, messaggero ed esecutore di una volontà di essere sé stessi, nel pieno dell’energia che domina il mondo: l’eros. L’immagine del satiro e del fauno è ripetutamente presente nell’iconografia artistica, mentre in quella fotografica è rara e sempre associata all’immaginario dell’arcadia e del panteismo greci. Inoltre il satiro è indice di lussuria fallica, segna una seduzione violenta e penetrativa. Ai primi del

Novecento il barone Wilhelm von Gloeden ritrae all’aria aperta nudi, molli fanciulli siciliani addobbati come divinità pagane. Essi impersonano, con i loro flauti e i loro diademi di fiori, pastori e divinità boschive le cui languide fatture e i bellissimi gesti impersonano il trionfo della lussuria e del desiderio. Le fotografie di Von Gloeden Satiro e Uomo nudo seduto su una roccia, datate intorno al 1900, presumibilmente acquistate agli inizi degli anni settanta insieme a San Wagstaff, sono state trovate nella collezione di Mapplethorpe 47. La rappresentazione del fauno e del satiro, quanto delle divinità pagane, da Pan a Orfeo, traccia anche una storia della fotografia omofila48. Viene richiamata da F. Holland Day (un altro fotografo presente nella collezione di Mapplethorpe) e da Frank M. Sutcliffe fino a trasformarsi in statue classiche di efebi in George Platt Lynes e in Minor White. La funzione del soggetto omossesuale od omofilo nell’arte e nella fotografia salta evidente agli occhi proprio nella fortuna del motivo di Pan o della sua transitività da una dimensione corporale all’altra. La perennità del suo simbolismo erotico viene sottolineata da Mapplethorpe in Pan Head and Flower, 1977, dove si propone la figura della divinità pagana, coronata da una zampa di gallina, che bacia il pistillo di un fiore, chiaro segno di un rapporto fallico-omosessuale. La continuità del soggetto classico e statuario, che rimane fino alla fine della sua opera, dà luogo alla logica della rappresentazione e della “recita”, vale a dire dello sdoppiamento di sé. Mapplethorpe è al centro di tale duplicità, per cui, a scadenze quasi annuali, dà resoconto del suo destino fisico e sessuale. Si fa “storico” e testimonianza di una dimensione desiderata e vissuta, mai conclusa. La sequenza di autoritratti risulta allora un tentativo rivolto a “espellere”, in una ripetizione di sembianze speculari diversificate, l’identità del suo molteplice. Egli si mette al posto del soggetto perché sa che il mito di Narciso coincide con il mito dell’altro, quasi sempre l’androgino: è consapevole che il corpo riflesso è il corpo cercato e desiderato. Cerca l’identico, quindi 67


47. Pan Head and Flower, 1977

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48. Poppy, 1988

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surrealisti quanto per Mapplethorpe, si identifica nel desiderio e nell’Eros. Esso è la promessa di un profondo che deve riscaldarsi e affiorare. […] La relazione tra le due consistenze ripropone nuovamente l’attenzione di Mapplethorpe per la figura che implica il sorgere e l’elevazione, dove si immagina la presenza di una latenza che rende l’invisibile visibile e l’ombra risolta dalla luce. La realizzazione di sé deve trovare la sua venuta nello spazio della carne. Ma il metodo per conoscere e conocersi non è quello dell’aggressività e della penetrazione dura nel reale, bensì la volontà di rimanere flessibili. Muoversi e trovare un’identità, omo o eterosessuale non importa, significa mantenersi fragili e flessibili, crescere e trovare il corpo meraviglioso del proprio sé. L’enigma del corpo Il portento dell’energia interna, reclusa e proibita, di un fiore o di un pene induce a rileggere l’enigma del corpo, su cui facendo scorrere la luce e i riflessi sarà possibile vedere spessori reconditi e fremiti sconosciuti. Illuminata, la pelle abbandonerà la sua opacità e fragilità per diventare una scorza carnale lucente e possente. Il suo “sotto” si animerà e glorificherà la tumescenza dei muscoli, così da annunciare un’interiorità intensa e una pienezza impaziente: tutte queste qualità feline promuoveranno una modificazione della sostanza e della forma corporale. Ma la qualità felina e la ricchezza di queste sensazioni vanno “estratte” e Mapplethorpe trova la sua miniera nei bodybuilder e nei black men, il cui arrotondamento muscolare è per lui paragonabile alla rivelazione del segreto sadomasochista, quanto alla maturazione di un fiore o di un pene. Avendo sempre dato rilievo sin dal 1970 alla fluidità della vita e della materia, all’elasticità delle esperienze e del sesso, ai recessi e alle tenebre dell’identità, Mapplethorpe con la sua declinazione del corpo anatomicamente coltivato, sviluppato e reso perfetto, continua a delineare una concezione del mondo in cui la continuità e la totalità prevalgono sulla frattura e sull’unicità. Tutto il suo declinare fotografico è all’insegna della “pienezza”, che non va occultata, velata o 90

mascherata, ma evidenziata e dispiegata. E siccome la bellezza è per lui, fotografo di matrice michelangiolesca e al limite del barocco, connessa alla rotondità e alla levigatezza, al rigonfiamento e alla compattezza, il bello si identifica con il pieno e il gigantesco. Nel 1976 riprende Arnold Schwarzenegger e dal 1982 la sua allieva più famosa Lisa Lyon, a cui dedica tre anni di ricerca fotografica, per continuare con altri atleti e cultori fisici quali Vibert e Bob Paris, 1984, Joe Morris, Terry Long e, nell’ambito femminile, Lydia Cheng, 1985-1987. La scelta del corpo trionfale del bodybuilder, maschile e femminile, è un’ulteriore risposta a una fotografia, da Man Ray a Edward Steichen, da Richard Avedon a Irving Penn, orientata a sistematizzare la bellezza quale dimensione eterea e fragile, caduca e frivola, caratteristica dell’unico prototipo pensato, il femminile. Per Mapplethorpe essa è invece incontestabilmente fisica e possente, muscolosa e forte, gonfia e impetuosa, quanto enigmatica, perché duale e ambigua, né maschile né femminile. L’esperienza degli opposti è semplificata in Lisa Lyon, 19801982, che all’interno dello stesso corpo, il femminile, fa combattere e coesistere il maschile, o meglio stabilisce un’equivalenza tra una condizione corporale che è e non è l’uno e l’altra. Essendo chiuso in un’identità fissa, maschile, ma rivolta al femminile, Mapplethorpe cerca nell’enigma del corpo di Lisa Lyon – nel 1979, a Los Angeles, prima campionessa mondiale di bodybuilding femminile – la conferma di un’energia dormiente che, se esercitata, può svegliarsi e divenire reale. Nella sua inseparabilità tra gli opposti, la figura di Lisa introduce un dinamismo sorprendente, che fa saltare l’unilateralità. La sua presenza corporale, sensuale e seducente, si regge sulla tensione di forze opposte. Queste sono nascoste e vengono alla luce, quando le circostanze sono favorevoli alla loro dilatazione, come un fiore toccato da raggi solari. La luce di Mapplethorpe solennizza il suo fiorire e per tre anni diventa “lo strumento per capire tutti gli aspetti delle fotografie fatte precedentemente”72. Come la Notte73 di Michelangelo nella Cappella dei Medici di Firenze, Lisa Lyon è la


68. Frank Diaz, 1980

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69. Lisa Lyon, 1982

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70. Lisa Lyon, 1982

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107. Skull, 1988

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