Futurismo 1909-2009

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13 Alberto Martini, Notturno - La parabola dei celibi, 1904 Inchiostro di china su cartoncino bianco, 310 x 190 mm Milano, collezione privata (cat. n. I.20)

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14 Alberto Martini, La Venere dissepolta, 1904 Inchiostro di china su cartoncino bianco, 310 x 190 mm Milano, collezione privata (cat. n. I.19)

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15 Alberto Martini, L’Homme des foules, 1908 Inchiostro di china su carta, 273 x 205 mm Milano, collezione privata (cat. n. I.24)

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Le due anime di Marinetti Giovanni Lista

Fortunato Depero, Ritratto di Marinetti, 1923 Particolare (ill. n. 68)

1 Cfr. Giovanni Lista, Marinetti poeta simbolista e il complesso di Swinburne, in Marinetti, poetica, ideologia, biografia, catalogo della mostra, Aula del Campidoglio, Comune di Roma, 22-23 febbraio 1995, Roma - Edizioni Fahrenheit 451, Roma 2000, pp. 87-108.

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scente civiltà industriale, rimane deluso da un’Italia provinciale e desueta a tal punto che si getta a capofitto nell’attivismo letterario. La singolarità della sua esperienza esistenziale diventa un terreno fertile per gli autori del simbolismo decadente, con i quali può identificarsi grazie alle sue nevrosi, alla sua storia personale, all’immaginario esotico della sua infanzia. Legge Mallarmé, Baudelaire, Maeterlinck, Verhaeren, si appassiona a Wagner, cede alla curiosità per le sedute spiritiche. Pubblica raccolte di versi simbolisti, poi nel 1905 la tragedia satirica Le Roi Bombance in cui prende atto della crisi dell’intellettuale borghese di fronte alle prime lotte operaie. Opponendo Nietzsche a Schopenhauer, la forza creatrice della pulsione vitale al ciclo dell’eterno ritorno, enuncia allo stesso tempo la “religione del divenire” come sola risposta possibile all’inanità di ogni utopia. Fonda la lussuosa rivista “Poesia”, con la quale vuole introdurre nelle lettere italiane il verso libero, su cui lancia un’inchiesta letteraria, facendone un modello formale dinamico e vitalista. La rivista, che esce ogni volta con una diversa monocromia della copertina disegnata da Alberto Martini, diviene la culla del futurismo. La fondazione del movimento futurista nasce da un episodio vissuto, eppure così paradossale da fare di Marinetti un personaggio da romanzo. La mattina del 15 ottobre 1908 il giovane e ricco poeta, sempre impeccabilmente vestito e con la sigaretta in bocca, si reca in viale Monte Rosa, fuori Milano, agli stabilimenti Isotta Fraschini, dove acquista un modello cabriolet Tipo BN 40/50 HP di gran lusso. La macchina, che può raggiugere gli 80 km/h, ha una carrozzeria a forma di double phaeton, si tratta cioè di una spider a quattro posti. Impettito e raggiante, Marinetti si fa fotografare al volante della vettura. Parte poco dopo, ma in via Domodossola la macchina si capovolge in un fossato pieno d’acqua, imprigionando sotto il suo peso Marinetti, che riesce a salvarsi solo grazie all’intervento di alcuni operai. Da allora egli non guiderà mai più un’automobile, né una motocicletta, così come non cercherà mai di imparare a pilotare un aeroplano. In tutta la sua vita, il cantore futurista del progresso tecnologico e della nuova civiltà delle macchine ha guidato solo un’automobile per poco più di un chilometro, finendo fuori strada. Questo significa che l’esperienza inebriante della velocità

hiunque si accinga a studiare la biografia o l’opera di Marinetti si rende subito conto delle forti contraddizioni che costituiscono la clamorosa vitalità del personaggio. Figlio di due culture, italiana e francese, unisce un temperamento ardente e impulsivo alla più lucida razionalità intellettuale. Uomo di frontiera, si rivela sempre in bilico tra sensibilità passatista e volontà anticipatrice, tra afflato romantico e fredda impassibilità, tra le certezze della nostalgia e il fascino della scoperta, esattamente come lo è in ambito ideologico tra nazionalismo e cosmopolitismo, tra gusto borghese e sperimentalismo avanguardista, tra la libera autonomia creatrice e l’imperativo dogmatico dell’innovazione. La sua attitudine fondamentalmente aggressiva deriva da un trauma che subisce da bambino, quando il padre lo scaglia in acqua affinché impari a nuotare. L’episodio, che riaffiora costantemente nell’arco della sua vita, lo impronta a un gusto primigenio per le sensazioni violente e a un’immagine della vita percepita come lotta e costante antagonismo. In particolare negli anni simbolisti, ma anche nella teoria e nelle azioni futuriste successive, la sua immaginazione appare continuamente polarizzata su sensazioni legate al mare e allo scorrere fluido dell’acqua, elemento naturale specifico di una continua esaltazione dell’istinto vitale1. Deve la sua formazione al padre, lettore di Edouard Schuré e appassionato di storia delle religioni e della mitologia delle anime dei morti dell’antico Egitto; alla madre che gli legge Dante e Leopardi, inculcandogli un amore viscerale per l’Italia; ai gesuiti francesi del collegio d’Alessandria che gli infondono la passione per la letteratura. A diciotto anni è già in rivolta. Scopre Emile Zola, autore prediletto dal quale riprenderà la formula di un’Italia impietrita dalla “ruggine dei secoli”. Soggiogato dalle manifestazioni della natura che materializza ai suoi occhi il flusso del tempo e l’eterno rinnovarsi della vita, scrive i suoi primi versi pubblicando nel 1894 la rivista “Le Papyrus”, definita da lui stesso “colma di poesia romantica e di invettive anticlericali contro i gesuiti”. Scappa dal collegio, costringendo il padre a mandarlo a Parigi per terminarvi gli studi. Si lascia allora affascinare da una città mitica che corrisponde alla sua formazione francese. Trasferitosi poi in una Milano borghese, città d’affari che si sta aprendo alla realtà della na-

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72 Umberto Boccioni, Donna futurista, 1910 Olio su tela, 64 x 66 cm Collezione privata (cat. n. III.20)

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73 Luigi Russolo, Profumo, 1910 Olio su tela, 64,5 x 65,5 cm Rovereto, MART - Museo d’Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto, Collezione VAF Stiftung, inv. MART 986 / VAF 670 (cat. n. III.84)

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74 Luigi Russolo, I capelli di Tina, 1910 Olio su tela, 71,5 x 49 cm Collezione privata (cat. n. III.86)

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84 Umberto Boccioni, Dimensioni astratte di una testa (Ritratto della madre), 1912 Olio e tempera su tela, 59,5 x 60 cm Milano, Civiche Raccolte d’Arte, Museo del Novecento, inv. 5171 (cat. n. III.25) 85 Umberto Boccioni, Figura, 1912 Acquarello, tempera e collage su carta, 560 x 390 mm Milano, Civico Gabinetto dei Disegni - Castello Sforzesco, inv. 843 C 89 (cat. n. III.26)


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86 Umberto Boccioni, Donna al caffè (Compenetrazione di luce e piani), 1912-1914 Olio su tela, 86 x 86 cm Milano, Civiche Raccolte d’Arte, Museo del Novecento, inv. 5172 (cat. n. III.30) 87 Carlo Carrà, Donna ambiziosa, 1912 Tempera su carta, 41,5 x 29 cm Collezione privata (cat. n. III.52)


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100 Gino Severini, Studio per “L’autobus”, 1913 Olio su tela, 35 x 27 cm Collezione privata Courtesy Claudia Gian Ferrari, Milano (cat. n. III.96)

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101 Gino Severini, Paesaggio toscano. Omaggio a G. Apollinaire, 1912-1913 Pastello su carta, 600 x 500 mm Collezione privata (cat. n. III.89)

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102 Gino Severini, Danseuse et tzigane, 1913 Olio su tela, 42,5 x 36,5 cm Collezione privata Courtesy Galleria dello Scudo, Verona (cat. n. III.100)


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124 Ardengo Soffici, Natura morta con uovo rosso, 1914 Olio, tempera e collage su tela, 46 x 38 cm Rovereto, MART - Museo d’Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto, Collezione L. F., inv. MART 2200 (cat. n. III.111) 125 Ardengo Soffici, Natura morta (Piccola velocità), 1913 Olio, tempera e collage su cartoncino, 650 x 497 mm Milano, Civiche Raccolte d’Arte, Museo del Novecento, Collezione Jucker, inv. 8761 (cat. n. III.109)

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140 Giacomo Balla, Complesso plastico colorato di frastuono + velocitĂ , 1914 Legno, cartone e lamine di stagno (dette anche stagnole) colorate a olio, 52 x 60 x 7 cm, irregolare Collezione privata, inv. 2248 (cat. n. III.15)

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141 Fortunato Depero, Ciz Ciz quaglia (Astrazione animale), 1915 Collage di carte colorate, 495 x 695 mm Collezione privata Courtesy Galleria Fonte d’Abisso, Milano (cat. n. III.60) 142 Fortunato Depero, Soldatino Hop Hop, 1917 Legni verniciati, 39 x 19 x 20 cm Collezione privata (cat. n. III.61) 143 Fortunato Depero, Architettura di gobbo (Clavel), 1917 Legno verniciato, h 39 cm Lugano, collezione privata (cat. n. III.64)

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233 Benedetta Cappa Marinetti, Incontro con l’isola, 1939 Olio su tela, 90 x 120 cm Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, inv. 3758 (cat. n. V.2)

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234 Gerardo Dottori, Aurora sul golfo, 1935 Olio e tempera su tavola, 147 x 147 cm Perugia, Consiglio Regionale dell’Umbria, in deposito presso il Museo Civico di Palazzo della Penna (cat. n. V.16)

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Il cinema cinematografico Giovanni Lista

Immagine della sequenza iniziale del film Thais (Les Possédées),1916, di Anton Giulio Bragaglia, con scenografie di Enrico Prampolini

I1 Cfr. Giovanni Lista, Il riscaldamento dei media: cinema e fotografia nel futurismo, in Vertigo, un secolo di arte off-media, catalogo della mostra, a cura di Germano Celant e Gianfranco Maraniello, Museo d’Arte Moderna, 6 maggio-4 novembre 2007, Bologna.

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futuristi hanno intrattenuto un rapporto problematico con i nuovi media tecnologici, quali il cinema e la fotografia. Elaborando i loro approcci teorici sulla base del pensiero di Henri Bergson, e puntando quindi sulla creazione di un’arte dell’élan vital, essi escludevano che il cinema e la fotografia potessero diventare nuovi linguaggi artistici poiché il determinismo meccanico dell’obiettivo non riesce a trasmettere l’attività soggettiva e l’energia vitale dell’artista, elementi fondamentali che rendono l’arte possibile. I futuristi insomma consideravano il cinema e la fotografia “media freddi”, nella misura in cui sembrano incapaci di cogliere l’intensità e l’unicità dell’atto creativo dell’artista1. D’altra parte, la nascita del futurismo avviene in un’epoca precoce in cui anche il cinema è ancora alla ricerca di se stesso. Il cinema futurista avrà così un’evoluzione che corrisponde al progressivo affermarsi del “cinematografo” come arte. In un primo tempo, i futuristi si interessano al cinema soprattutto per la sua capacità di manipolare la realtà rendendola illogica o astratta. Passano poi a un approccio strumentale del cinema, realizzando dei film in cui mirano a presentare le loro idee. Infine creano dei film d’avanguardia dichiaratamente futuristi.

Futurismo e cinema popolare Il cinema futurista può rivendicare una protostoria che comincia già alla fine del XIX secolo, all’interno della cultura popolare dei teatri di varietà. Tra il 1895 e il 1897 i numerosi cortometraggi che presentano la danza serpentina di Loïe Fuller e quelli di Luca Comerio per gli spettacoli di Leopoldo Fregoli introducono di fatto un’estetica del movimento, della rapidità, della metamorfosi energetica e continua, precorrendo le ricerche cinematografiche futuriste. Agli inizi del Novecento Comerio crea il cinema-azione, effettuando le riprese con la macchina installata su un treno, un’automobile, un dirigibile, una mongolfiera, una cabina teleferica, un aeroplano, dalle Gare di palloni all’arena (1908) alle Riprese dall’aeroplano di Mario Calderara (1911). Inventa così un cinema in cui l’immagine diviene trasmissione di energia ed esperienza percettiva inedita. Le soluzioni visive dei suoi film anticipano le formule teoriche del “dinamismo plastico” elaborato poi dai futuristi. I futuristi nutrono un’ammirazione sincera per l’inventi-

va e l’audacia del cinema popolare, che rinnova il linguaggio delle immagini spingendosi fino a distruggere la logica naturalista dell’azione umana e a de-realizzare l’immagine della realtà. Nel Manifesto tecnico della letteratura futurista, Marinetti allude alle sequenze a ritroso del film Bagni di Diana in Milano (1896) di Giuseppe Filippini, e alle animazioni cinetiche degli oggetti in Come Cretinetti paga i debiti (1909) di André Deed, per celebrare il cinema che offre “movimenti della materia fuor dalle leggi dell’intelligenza e quindi di un’essenza più significativa”. Si interessa inoltre a film come La storia di Lulù (1910) di Arrigo Frusta che, escludendo la rappresentazione del viso, della testa e delle parti superiori del corpo umano, mostra solo le gambe degli attori. Marinetti afferma che la frammentazione della forma umana e la visione delle parti inferiori del corpo, da sempre considerate meno nobili se non addirittura volgari perché in relazione con gli istinti, i bisogni fisici e la materialità dell’esistenza, permettono di porre un limite alle sublimazioni umaniste dell’idealismo. Lo spirito futurista dei film popolari vive anche nella celebrazione delle mitologie della modernità: dalla conquista dello spazio, in Un matrimonio interplanetario (1910) di Yambo (Enrico Novelli), alle avventure in terre lontane, in Le avventure straordinarissime di Saturnino Farandola (1913) di Marcel Fabre e Luigi Maggi. Marinetti vede inoltre nei film che praticano l’ibridazione delle tipologie narrative, come Le avventure di Pinocchio (1911) di Giulio Antamoro – in cui Pinocchio finisce tra gli indiani come in un film americano – un contributo fondamentale “alla distruzione futurista dei capolavori immortali”. Nonostante le riserve nei confronti del cinema come medium artistico, Marinetti e i futuristi ritengono che il cinema popolare stia provocando una rivoluzione radicale nella visione quotidiana del mondo. Manipolando i dati oggettivi della realtà e prendendosi gioco delle idee solenni e retoriche del pensiero umanista, il cinema popolare cambia l’intuizione ontologica del rapporto tra spazio e tempo, sconvolge il senso comune, abolisce le convenzioni, si pone inconsapevolmente come vero e proprio laboratorio formale per un’arte d’avanguardia. In altri termini, il cinema popolare è la rivoluzione futurista che avanza senza ideologia né teoria.

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319 Anton Giulio e Arturo Bragaglia, Salutando, fotodinamica, luglio 1911 Stampa originale, 17,5 x 23 cm Modena, Galleria Civica, Raccolta della Fotografia Contemporanea, Fondo Franco Fontana, inv. 597/F (cat. n. X.17) 320 Anton Giulio e Arturo Bragaglia, Ritratto polifisiognomico di Umberto Boccioni fotodinamica, 1913 Stampa originale, 12,3 x 17 cm Milano, collezione privata (cat. n. X.18) 321 Gustavo Bonaventura, Ritratto di Anton Giulio Bragaglia, sdoppiamento incosciente: fotografia spiritica truccata, fotodinamica, novembre 1913 Stampa originale, 22,8 x 16,5 cm Milano, collezione privata (cat. n. X.16)

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358 Luigi Russolo e Ugo Piatti, Ricostruzione di Intonarumori dai brevetti e dai documenti d’epoca, 2006 Rovereto, MART - Museo d’Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto (cat. n. XII.23)


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Rumorarmonie... Daniele Lombardi

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1 F.B. Pratella, Manifesto dei musicisti futuristi (1910), Manifesto tecnico della musica futurista (1911) e La distruzione della quadratura (1912). 2 In “Nuova Musica”, XVI, 1911, Firenze. 3 Cfr. G. Maffina, Caro Pratella, Edizioni del Girasole, Ravenna 1980, p. 20.

ilippo Tommaso Marinetti introdusse sistematicamente nella pratica delle varie arti il manifesto programmatico e spinse gli artisti che avevano dato la loro adesione al nascente movimento futurista a scrivere a loro volta delle dichiarazioni d’intenti, spesso pilotandoli con suggerimenti e interventi. Grossa novità per le arti nei sistemi di comunicazione, creò un ventaglio di dichiarazioni riguardanti tutte le discipline. La regia dell’innovazione futurista fu totalmente guidata da Marinetti e fu talmente forte l’idea che il sodalizio con i vari giovani artisti portò a un considerevole numero di questi manifesti. Per la musica, la sua scelta cadde su Francesco Balilla Pratella, giovane compositore romagnolo che si era messo in luce con l’interessante esperimento di una prima opera in dialetto romagnolo: la Sina d’Vargöun (1906). Ferruccio Busoni aveva scritto un fondamentale Saggio per una nuova estetica musicale proprio in quei mesi e sicuramente Marinetti e Pratella ne tennero conto, valutando l’importanza di una precisa dichiarazione di intenti che potesse rivolgersi a una competenza d’ascolto in fieri. Pratella realizzò tre manifesti1 che aizzarono la feroce reazione del mondo musicale e non appena apparve il primo, Manifesto dei musicisti futuristi (1910), vi fu l’immediata risposta di un contromanifesto: Musicisti futuristi?, assai contrario e polemico, e tra i firmatari c’era anche Ildebrando Pizzetti2. Tra le affermazioni di questo proclama di Pratella si leggeva il leale intento di moralizzare la vita musicale, di cercare nuove strade con il limite, oggi chiaramente visibile, di un contesto culturale basso e reazionario quale quello della provincia italiana. Pratella scriverà nella sua Autobiografia: “[…] debbo poi aggiungere che alcune affermazioni di carattere polemico reclamistico e altre di carattere teorico e riferentesi a rapporti fra musica e macchina […] non sono state scritte da me e neppure pensate e spesso in contrasto col resto. Le inventava e aggiungeva Marinetti di suo arbitrio e all’ultimo momento. Io poi mi sorprendevo a leggerle con sotto la mia firma, ma la cosa era già fatta e il rimedio di una protesta in quel momento delicato e a base di equivoci non avrebbe giovato a nulla e a nessuno”3. Con le sue prese di posizione Pratella si inserì nei limiti della querelle in atto in quei primi anni del Novecento, collocandosi tra compositori che sperimentavano nuovi lin-

guaggi e nuove espressività con un solido possesso del mestiere, ma al tempo stesso risentendo di un contesto provinciale che era quello della sua Lugo di Romagna, distante non soltanto per lontananza geografica da Parigi e da Vienna (Alfredo Casella se ne andò a Parigi, Alberto Savinio a Monaco di Baviera...). Mentre credeva di scatenare tempeste inaudite, in molte città d’Europa come Parigi e Vienna si focalizzava la fisionomia delle emergenze che hanno fatto la storia del Novecento, si accoglieva il nuovo in tutte le sue forme: politonalità, atonalità, dodecafonia, con un’apertura che attraeva chiunque avesse messo in atto una spregiudicata sperimentazione. Pratella però merita più attenzione, perché è stato molto più significativo di quanto lo si sia considerato allora e continui a essere oggi. Il tentativo di realizzare una sinestesia suono-colore, nella scena dei Sogni nell’opera L’aviatore Dro, rimane un caso unico, come del resto tutta l’opera, che sviluppa una tematica aviatoria. Ascoltando questa scena dei Sogni non si può non ricollegare quel clima sonoro all’inizio dell’opera Il prigioniero di Luigi Dallapiccola, che era stato molto interessato anche al tema aviatorio, tanto che poi scriverà Volo di notte che insieme al Volo di Lindbergh di Kurt Weill e a Il deserto tentato di Alfredo Casella è tra i rari esempi di ispirazione aeronautica nell’opera lirica. La musica di Pratella è stata considerata un po’ deludente dopo le sue affermazioni teoriche, in quanto ci si aspettava un vero bruitismo o una distruzione del tactus, un intento eversivo che non c’è stato, neanche nel suo primo brano Musica futurista - Inno alla vita op. 32 (1913) per orchestra, incredibilmente mai più eseguito nella versione originale dopo la serata al teatro Costanzi di Roma. Questa composizione rivela in filigrana le caratteristiche del suo pensiero musicale, tra lirismo e iperespressività (Armando Gentilucci lo definirà “futur-espressionista”). Non va sottovalutato il meccanismo sintattico che Pratella chiamò “stato d’animo generatore”, vale a dire un modo di procedere secondo collegamenti dettati dalla consequenzialità dell’emozione, come un libero delirio, come la trasposizione in musica di “parole in libertà”. Nel 1914 apparvero scritti di forte opposizione alla musica futurista, tra i quali un feroce articolo dal titolo Futurismo musicale, a firma di Gennaro Napoli. L’allora noto

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L’architettura come utopia Giovanni Lista

Virgilio Marchi, Città fantastica: edificio per una piazza, 1919 Particolare (ill. n. 378)

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l tema visionario della città è ricorrente negli scritti di Marinetti già negli anni simbolisti. Alla vigilia della fondazione del movimento futurista, egli pubblica una raccolta di poesie del periodo 1905-1908 dal titolo La Ville charnelle, in cui appare la sua evoluzione da una visione decadente della città ai temi moderni della velocità e dell’automobile. La lettura di autori come Jules Romains, Emile Verhaeren e Mario Morasso ha certamente favorito questa sua rapida transizione verso le scelte poi rivendicate in nome del futurismo. Benché composta da diverse tendenze, l’architettura futurista risponde a una poetica unitaria: ogni riferimento alle vestigia archeologiche e all’architettura monumentale è desueto; l’architettura dev’essere, da una parte, legata all’ambientazione urbana, dall’altra, fatta per una società in movimento e su larga scala. Pur essendo questa concezione comune a tutti i futuristi, ci sono delle varianti fondamentali nella formulazione di nuove immagini architettoniche. Le divergenze appaiono polarizzate intorno a due grandi città, Milano e Roma, che rappresentano ciascuna una particolare forma di urbanizzazione e una particolare cultura architettonica.

Da Marinetti a Boccioni Fin dal Manifesto di fondazione del futurismo, Marinetti evoca in una serie di immagini vitalistiche la metropoli moderna, parlando delle “grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere o dalla sommossa”, celebrando “il vibrante fervore notturno degli arsenali e dei cantieri”, esaltando i “ponti simili a ginnasti giganti che scavalcano i fiumi” come di altrettanti temi d’espressione dell’arte futurista. A cominciare dal manifesto Contro Venezia passatista (1910), svolge poi un’attività propagandistica a favore delle città del triangolo industriale che incarna l’“Italia rinascente”, cioè Milano-Torino-Genova, contro le città del triangolo artistico e turistico, cioè Venezia-Firenze-Roma, da lui denigrate perché i loro “vecchi palazzi crollanti e lebbrosi” e le loro “vecchie muraglie” inculcano negli italiani “l’abbrutente adorazione di un passato insuperabile”. Nel libro Le Futurisme, quasi interamente scritto nel corso del 1910 ma pubblicato l’anno seguente, Marinetti si allontana dal tono dell’invettiva e dallo stile ditirambico dei manifesti per enunciare in modo più preciso le sue idee che cor-

rono tra due poli: l’estetica funzionale della macchina alternata a un’estetica dell’effimero, della velocità e dell’energia. Marinetti si pone subito in simbiosi con il mondo contemporaneo, si riferisce senza alcuna riserva al progresso tecnico dell’epoca, che valorizza il cemento armato in Francia e i ponti di ferro in Inghilterra: la sua è un’adesione immediata alla modernità in divenire. È solo dopo questa opzione di base che evoca le forme. Egli annuncia “il regno della macchina” e delinea un panorama urbano popolato da “gigantesche ciminiere industriali”, in cui trionfa “l’estetica che risponde direttamente all’utilità”. Celebra la “bellezza meccanica” che identifica con “la pretesa bruttezza delle locomotive, dei tramways e delle automobili”. Esalta le costruzioni nuove, come i “tunnel spiralici”, i “ponti in ferro”, le “grandi case popolari ben aerate” e le “gabbie in ferro e cristallo” delle centrali elettriche. Prevede allo stesso modo un’architettura consacrata all’effimero. Non solo la modernità ha reso obsoleti gli antichi “palazzi reali dalle linee dominatrici e dalle basi granitiche” e “i pinnacoli delle cattedrali”, ma “il nomadismo cosmopolita, lo spirito democratico e la decadenza delle religioni hanno reso assolutamente inutili i grandi edifici decorativi e imperituri, che erano simbolo dell’autorità reale, della teocrazia, del misticismo”. Marinetti intende l’architettura non solo in quanto facente corpo con la città, ma anche come prodotta da questa. L’arte s’identifica con il processo d’industrializzazione crescente, quindi l’architettura diventa significante non più per se stessa, ma attraverso e per l’industria. Non è più nella sua storia che deve cercare le forme nuove di un’espressione moderna, ma determinandosi solo in riferimento alla vita rinnovata dalla tecnologia, poiché è l’industria che fa ora la città. L’architettura deve essere inerente alla realtà urbana, concepita in funzione dello spazio in espansione della città industriale. Ogni riferimento alle vestigia archeologiche e all’architettura monumentale è diventato desueto. L’architettura futurista sarà, da una parte, legata all’ambiente urbano, dall’altra, adattata a una società mobile e a grande scala. Marinetti conclude il libro sull’immagine fantasmatica della “grande città futurista che punta la sua formidabile batteria di ciminiere industriali”. Le idee di Marinetti sono condivise dagli altri futuristi, co-

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