Anthony Caro

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C ARO al Museo Correr

Fondazione Musei Civici di Venezia

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Sommario

10 Prefazione Gabriella Belli 11 Introduzione Andrea Rose 12 In presenza della bellezza Gary Tinterow 16 Anthony Caro al Museo Correr Michael Fried 23 Museo Correr 1 giugno – 27 ottobre 2013 82 Biografia Ian Barker 94 Elenco delle opere

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In presenza della bellezza Gary Tinterow in collaborazione con Alison de Lima Greene

Fig. 1 Orangerie, 1969, acciaio dipinto, 225  162,5  231 cm, The Museum of Fine Arts, Houston

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“Tutto il mio lavoro è intimo”. (Anthony Caro)1 In modo assai simile al Frank Stella del 1958, con la sfida lanciata alla pittura dai suoi Black Paintings  —  “Ciò che vedi è ciò che vedi” –, Anthony Caro ha ridefinito i parametri della scultura moderna: “Nel 1960 dicevo: ‘Guardiamo le cose in modo nuovo: la scultura può essere qualsiasi cosa, non deve necessariamente essere di bronzo o di pietra’” 2. Spostando il fulcro dei suoi interessi dalla sensibilità dell’Europa del dopoguerra, dove giganteggiano personalità come Henry Moore, Alberto Giacometti, Henri Matisse e Pablo Picasso, alla scena americana, in un periodo in cui David Smith assembla forme in metallo, Caro comincia a esplorare le possibilità del metallo industriale: buttando giù la scultura dal suo piedistallo, liberandola così dalla sua fissità, in un gesto per cui è rimasto famoso, la libera dalla sua nicchia facendo in modo che “parli più direttamente all’osservatore, con la stessa forte presenza psicologica di una creatura vivente” 3. Come nota Paul Moorhouse, la presenza è l’elemento che accomuna tutte le sculture di Caro4. Benché la sua trasformazione, intorno agli anni sessanta, da artista figurativo a scultore astratto dipenda in parte dall’amicizia con il critico americano Clement Greenberg, grande sostenitore del lavoro di Smith, Caro rimane indipendente dalla rigorosa estetica minimalista propugnata dagli scultori americani attivi nel contesto critico postgreenberghiano, come Donald Judd, Sol LeWitt e più tardi Richard Serra. Al pari di loro rifiuta fermamente ogni tipo di rappresentazione, figurazione e narrazione (pur con alcune notevoli eccezioni, come The Triumph of Caesar [1987, pp. 56-57] e Trojan War [1993-1994]), ma l’arte di Caro, nella sua insistenza sull’umanesimo, rimane sempre profondamente europea. Grazie all’adozione del colore (per merito della moglie, la pittrice Sheila Girling) e al confronto con la scala (le sculture di Caro sono quasi sempre in rapporto alle dimensioni del corpo umano, i pezzi più piccoli a quelle della mano), l’artista crea opere che, per usare le parole di Michael Fried, comunicano “l’efficacia del gesto: come certa musica o poesia, sono possedute dalla conoscenza del corpo umano e delle innumerevoli modalità e sfumature in cui è capace di creare un senso” 5. Nato in un quartiere della periferia londinese, Anthony Caro comincia a modellare sculture in creta già da adolescente. Nel 1942 si iscrive alla facoltà di ingegneria del Christ’s College di Cambridge. Dal 1944 al 1946 presta servizio nella marina militare — forme di navi appariranno in seguito nelle sue opere — per poi iscriversi al Regent Street Polytechnic Institute e successivamente alla Royal Academy di Londra, che frequenta dal 1947 al 1952. Malgrado le rivoluzioni che avevano investito l’arte europea e americana nella prima metà del Novecento, la Royal Academy manteneva un ordinamento rigoroso tipico delle istituzioni ottocentesche. Volendo ampliare le proprie esperienze, nel 1951 Caro diventa assistente di studio di Henry Moore, e le sue opere degli anni cinquanta sembrano in effetti una risposta alla figurazione espressiva dello scultore più anziano. Mentre lavorano insieme Moore sostiene che “la base fondamentale per uno scultore è il lungo e intenso studio della figura umana”. In seguito affermerà che “facciamo un certo tipo di scultura perché abbiamo la forma che abbiamo e le dimensioni che abbiamo” 6. Riconsiderando il suo lavoro in quegli anni, Caro ha confermato di aver assimilato l’estetica umanista di Moore

poiché le sue sculture esprimevano “come ci si sente a stare dentro al corpo” 7. Dopo l’incontro con Greenberg, nel 1959 Caro riceve una sovvenzione per un viaggio in America. L’incontro con l’opera di David Smith e Kenneth Noland lo induce a un ripensamento radicale del proprio metodo di studio. L’invito all’azione pronunciato da Greenberg — “Se vuoi cambiare la tua arte, comincia col cambiare le tue abitudini” 8 — viene subito accolto dall’artista, che in seguito spiegherà: “Sentivo che la figura era d’intralcio, ormai. Se volevo ottenere espressività dovevo darmi alla scultura astratta, non c’era alternativa”. La chiarezza formale di Smith e il suo uso selettivo del colore danno un ulteriore impulso a questo nuovo orientamento di Caro, che si ispira allo scultore americano nell’uso dell’acciaio industriale e del metallo di scarto. Twenty-Four Hours (1960, p. 84), oggi nella collezione della Tate di Londra, può essere considerata una risposta diretta a quell’esperienza. Tuttavia una delle prime e più importanti prese di distanza da Smith è la concezione della scultura come un’entità che non necessita di basi o piedistalli. L’abbandono del piedistallo dà a Caro non solo una maggiore libertà compositiva, ma gli permette anche di instaurare un dialogo immediato e attivo tra le sue sculture e l’osservatore. Rifuggendo dalla qualità totemica tipica di gran parte dell’opera di Smith, Caro getta il suo lavoro per terra, utilizzando il pavimento come un elemento attivo ed evocando deliberatamente l’orizzontalità in opere quali Midday (1960, p. 17) (Museum of Modern Art), Early One Morning (1962, p. 16) (Tate) e Cadence (1968-1972, pp. 24-27) (collezione privata). Lo scorso anno abbiamo appoggiato il Museum of Fine Arts di Houston nell’acquisizione di Orangerie (1969, fig. 1 e pp. 80-81), un’opera che a nostro modo di vedere rappresenta la summa dei primi dieci anni della maturità artistica di Caro, oltre che una delle sue prove migliori. Orangerie è stata realizzata in un momento importante del percorso dell’artista. Nel gennaio 1969 la Hayward Gallery, da poco inaugurata a Londra, dedicò a Caro una retrospettiva curata da Fried. Il progetto diede modo all’artista di riconsiderare tutta la sua produzione prima di intraprendere una nuova fase, rappresentata appunto da Orangerie e dall’opera “sorella” Sun Feast (1969-1970, fig. 2) (Cabot Collection, Boston). Svettante a oltre due metri di altezza, Orangerie è una sintesi di temi già comparsi nelle opere precedenti di Caro — sia in quelle da poggiare a terra che in quelle più piccole da tavolo — ma sfoggia anche un’inedita, aggraziata esuberanza. In un articolo dal titolo Caro’s Abstractness, pubblicato nel 1970 su “Artforum”, Michael Fried riconobbe immediatamente l’importanza dell’opera, che diventa il fulcro del suo discorso: “Una delle sculture più incantevoli che Caro abbia mai realizzato, ma anche uno dei suoi pezzi più pittorici. A differenza della maggior parte dei suoi lavori essa sembra comprendere un certo numero di forme discrete e caratterizzate piuttosto fortemente, il cui accostamento, pur non istituendo in realtà un piano unico o una successione di piani, sembra tuttavia implicare una sorta di planarità che associamo alla pittura. (È giusto chiamare in causa Matisse in riferimento al recente lavoro di Caro.) […] E tuttavia, quanto poco pittorica è Orangerie! Le principali forme arrotondate si delineano soprattutto grazie alla loro torsione nello spazio. La loro apparente planarità è, alla fine, decisamente sovvertita da angoli e archi —

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una rapida, fluida dinamica di curve-contro-rette nel senso della profondità — descritti sia dai singoli elementi sia dalla struttura nel suo complesso. Cosa ancor più importante, Orangerie deve essere considerata in relazione alle sculture da tavolo che Caro continua a produrre dall’estate del 1966, e come un passo oltre il superbo Trefoil [1968, p. 19], in cui ha fisicamente incluso il piano del tavolo in una scultura da terra” 9.

Il disegno che si dispiega generosamente nello spazio e il senso del movimento trasmesso da Orangerie continuano a sedurre critici e curatori. “Come un fiore che sboccia ha recentemente osservato Mary Reid — si protende svelando tutti i propri meccanismi interni ed esponendoli all’attrazione altrui” 11. Eppure, con tutta la sua lirica bellezza e malgrado le associazioni con Matisse, Picasso e l’École de Paris, Orangerie rimane decisamente astratta. Come la maggior parte delle sculture di grandi dimensioni realizzate da Caro, ha una presenza ineluttabile che

stimola l’osservatore alla ricerca di corrispondenze umane, anche se lo scultore mina accuratamente alla base la possibilità stessa di simili accostamenti. Il semplice confronto con un pezzo tipico di Alexander Calder, come il coevo The Crab (1962, fig. 3) del Museum of Fine Arts di Houston, dissipa immediatamente qualsiasi idea di possibile antropomorfismo nell’opera di Caro. Fried mette in luce il fatto che “l’ostinazione della scultura di Caro a questo riguardo” è stata “solo un aspetto, ma un aspetto importante, del suo carattere antiletterale e antisituazionale”12. Come tutte le opere plastiche che Caro aveva realizzato fino a quel momento, le forme aperte e accessibili di Orangerie sono un invito a una scoperta che viene tuttavia impedita dalla loro disposizione fisica. Il più alto traguardo raggiunto da Caro, come dimostra Orangerie, è probabilmente quello di aver restituito bellezza e armonia all’arte astratta. Per usare le parole di Harold Rosenberg, Caro “ha ripristinato la Bellezza, contro la quale si ribellavano i movimenti modernisti. Il suo lavoro è, con ogni probabilità, più coerentemente lirico di quello di qualsiasi altro artista degno di nota nel dopoguerra. Il fascino primo delle sue sculture, comprese le più grandi, sta nell’equilibrio e nella proporzione che trascendono la pesantezza dei materiali”. Rosenberg vede inoltre nel suo lavoro una sensibilità musicale: “La musicalità di Caro raggiunge il vertice nelle costruzioni più piccole e nelle sculture da tavolo. Queste ultime sono principalmente ‘disegni’ lineari con strisce di metallo e tubi che superano il bordo del tavolo, fino a esistere simultaneamente su piani orizzontali o inclinati. Orangerie, collocata per terra col suo tavolo incorporato, è il pezzo forte della retrospettiva [del 1975 al Museum of Modern Art, New York] […] È una vera e propria ‘sonata’ di curve soavi, petali (o eliche) dalla forma arrotondata, intervalli tra pause e slanci”13. Nelle opere non dipinte, in acciaio arrugginito, successive a Orangerie, Rosenberg vede, dopo l’arte “neutra” degli anni sessanta,

Fig. 2 Sun Feast, 1969-1970, acciaio dipinto, 181,5  416,5  218,5 cm Cabot Collection, Boston

Fig. 3 Alexander Calder, The Crab, 1962, acciaio dipinto, 304,8  609,6  304,8 cm The Museum of Fine Arts, Houston, museum purchase 62.11

Qualche anno dopo William Rubin, curatore del Dipartimento di pittura al Museum of Modern Art di New York, parlò del nuovo lirismo di Orangerie, sottolineando il contributo delle forme ready-made che Caro aveva scelto di assemblare: “La nuova inventiva di Caro nell’uso di forme non-geometriche raggiunge il vertice nella ‘matissiana’ Orangerie. Anche qui, naturalmente, la maggior parte delle forme sono objets trouvés, pezzi di vomeri raccolti come metalli di scarto. La scelta e la segmentazione dei singoli pezzi costituiscono l’insieme del ‘disegno’. Eppure, splendidamente arabescati e piegati come sono, danno l’impressione di essere stati modellati dalla mano dello scultore, che li ha ritagliati, per così dire, alla maniera dei découpages di Matisse” 10.

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un ritorno di Caro “alla maggiore forza ed espressività dell’immediato dopoguerra. In questo caso tornare indietro significa andare avanti”. E Caro continua ad andare avanti, con cicli di opere straordinarie che nel corso dei decenni propongono nuovi materiali e soggetti per dare vita a un’arte sempre pervasa dell’umanesimo assorbito negli anni cinquanta da Moore. Il lavoro di Caro ci racconta, per usare le sue parole, “che cosa significa essere vivi”. In compagnia delle sculture di Anthony Caro, la vita è bella.

L’autore ringrazia Katia Zavistovski che lo ha assistito nelle ricerche utili alla stesura di questo testo. 1 2

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Cit. in Julius Bryant, Caro. Close Up, Yale Center for British Art, New Haven, 2012, p. 2. Anthony Caro, Anthony Caro. A Discussion with Peter Fuller, in Anthony Caro. Catalogue Raisonné, vol. III, Steel Sculptures 1960 -1980, Verlag Galerie Wentzel, Köln, 1981, p. 46. Amy Myers, Director’s Foreword and Acknowledgements, ivi, p. VII. Paul Moorhouse, Anthony Caro. Presence, Lund Humphries, London, 2010, p. 10. J. Bryant, op. cit., p. 18. Henry Moore, cit. in “Atlantic Monthly”, 1962, cit. in J. Bryant, op. cit., p. 10. Phyllis Tuchman, An Interview with Anthony Caro, in “Artforum”, giugno 1972, pp. 56-58, cit. in J. Bryant, op. cit., p. 13. J. Bryant, op. cit., p. 11. Michael Fried, Caro’s Abstractness, in “Artforum”, settembre 1970, p.  32. William Stanley Rubin, Anthony Caro, The Museum of Modern Art, New York —  Thames & Hudson, London, 1975, p. 156. Mary Reid, Anthony Caro. Drawing in Space, Lund Humphries, London, 2009, p. 24. M. Fried, op. cit., p. 34. Harold Rosenberg, Lyric Steel, in “The New Yorker”, 7 luglio 1975, pp. 72-74.

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Gagosian Gallery


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