Labiulm maggio 2016

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LabIULM

Periodico del master in giornalismo dell’Università IULM - Facoltà di comunicazione, relazioni pubbliche e pubblicità

ANNO XIII |||||||||||| NUMERO II |||||||||||| MAGGIO 2016 |||||||||||||||| www.lab.iulm.it

a n a t i l o p o r t e m à Citt di Milano O S U ’ l R e P I N O i Z U R IST IULM Novità amministrativa np ews ag 2223 o fotocopia della vecchia provincia? Il dossier alle pag 4 - 9

BASKET

ECONOMIA

UN CAMPIONATO CITTADINO PER I FILIPPINI pag 10 - 11

IL CAVIALE È L’ORO NERO DEL NOSTRO EXPORT pag 12 - 13

MERCATO EDITORIALE

SCUOLE DI TEATRO

EBOOK, RIVOLUZIONE MANCATA pag 14 RELIGIONE E SOCIETÀ

IL RITORNO DEL PAGANESIMO

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GIOVANI ATTORI CRESCONO

pag 16

NUOVE TENDENZE pag 18

ARRIVA STARBUCKS

pag 20

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QUESTO NUMERO MAGGIO 16 / AGOSTO 16 - N° 2 - A 13 International University of Languages and Media

Diretto da

IVAN BERNI e STEFANO BARTEZZAGHI (responsabile) Progetto grafico Stefano Scarpa Editing grafico Daniele Zinni In redazione: Omar Bellicini, Francesca Del Vecchio, Azzurra Digiovanni, Salvatore Drago, Daniele Fiori, Francesca Romana Genoviva, Edmondo Lorenzo Gottardo, Lorenzo Grossi, Lorenzo Lazzerini, Alessandra Parla, Marta Proietti, Claudio Rinaldi, Giulia Ronchi, Carlo Terzano, Federica Zille, Carlo Maria Audino, Giorgia Argiolas, Chiara Beria, Lorenzo Brambilla, Angela Briguglio, Angelica Cardoni, Michela Cattaneo Giussani, Eugenia Fiore Bennati, Laura Gioia, Andrea Ienco, Federica Liparoti, Eleonora Nella, Massimo Sanvito, Cecilia Tondelli, Daniele Zinni.

La città metropolitana, istruzioni per l’uso

La città metropolitana di Milano è entrata in funzione il 1 gennaio 2015 per effetto della legge Delrio ma in pochissimi sembrano essersene accorti. L’ente che dovrebbe occuparsi di temi fondamentali per la vita di tutti i giorni ­­– strade, ambiente, scuola – secondo molti esiste solo sulla carta.

DOSSIER/ CITTÀ METROPOLITANA Una scommessa per il governo locale

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Focus: alcuni esempi europei

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Una questione di capitale territoriale

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Città metropolitana o città fantasma?

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Intervista: “Ente inutile? No. E vi spiego perché”

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SPORT Il campionato di pallacanestro dei filippini milanesi 10

via Carlo Bo,1 - 20143 - Milano 02/891412771 tutor.giornalismo@iulm.it Registrazione Tribunale di Milano n.477 del 20/09/2002 Stampa RS Print Time (Milano) Master in Giornalismo Università IULM Direttore: Stefano Bartezzaghi Coordinatore didattico: Ivan Berni Responsabile laboratorio redazione digitale: Paolo Liguori Tutor: Silvia Gazzola

Docenti

Roberto Andreotti (Giornalismo culturale) Federico Badaloni (Architettura dell’informazione) Camilla Baresani (Scrittura creativa) Ivan Berni (Storia del giornalismo, Editing e Deontologia) Marco Brindasso (Tecniche di ripresa, luci, montaggio) Marco Capovilla (Fotogiornalismo) Piera Ceci (Giornalismo radiofonico) Marco Boscolo (Data Journalism) Andrea Delogu (Gestione dell’impresa editoriale-TV) Cipriana Dall’Orto (Giornalismo periodico) Luca De Vito (Riprese e montaggio) Giuseppe Di Piazza (Progettazione editoriale e Giornalismo Periodico) Lavinia Farnese (Social Media Curation) Guido Formigoni (Storia contemporanea) Giulio Frigieri (Infodesign e mapping) Marco Giovannelli (Digital local news) Riccardo Iacona (Videogiornalismo) Bruno Luverà (Giornalismo e società) Caterina Malavenda (Diritto penale e Diritto del giornalismo) Matteo Marani (Giornalismo sportivo) Marco Marturano (Giornalismo e politica) Giancarlo Mazzuca (Giornalismo quotidiano locale) Pino Pirovano (Doppiaggio) Andrea Pontini (Gestione dell’impresa multimediale) Roberto Rho (Giornalismo economico) Giuseppe Rossi (Diritto dei media e della riservatezza) Alessandra Scaglioni (Giornalismo radiofonico) Gea Scancarello (Storytelling digitale) Claudio Schirinzi (Giornalismo quotidiano) Gabriele Tacchini (Giornalismo d’agenzia) Vito Tartamella (Giornalismo scientifico) Fabio Ventura (Trattamento grafico dell’informazione) Marta Zanichelli (Publishing digitale)

twitter.com/labiulmcampus

“Città ricca di opportunità e amore per il basket”

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“Positività e allegria, sono questi gli ingredienti”

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ECONOMIA Caviale, oro nero d’Italia

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Intervista: “Il nostro è un prodotto speciale”

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SOCIETÀ La rivoluzione mancata degli e-book USA: sconfitta la paura del libro elettronico Intervista: il digitale sostituirà la carta?

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CULTURA Giovani e teatro, se il palco è un miraggio

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Intervista: “Il grande attore è figlio del suo tempo” 17

SPECIALE/ NEOPAGANESIMO Il ritorno degli dei

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Intervista: “Alla ricerca di una nuova spiritualità” 19 Testimonianza: Martina, vita da strega

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SPECIALE/ STARBUCKS A MILANO Caffè a stelle e strisce; qualcosa sta cambiando 20 Opinioni: favorevoli vs contrari

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IULM news

youtube.com/clipreporter

A Milano rivive l’impero romano

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facebook.com/Masteringiornalismo

La Milanesiana 2016, vanità in vetrina

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A lezione di bellezza: da Harvard alla IULM

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IVAN BERNI

Città metropolitane, una riforma senza le ali

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l dossier d’apertura di questo numero di Labiulm è dedicato alla nascita delle città metropolitane, una delle riforme più attese e importanti degli ultimi trent’anni, una riforma che con buona probabilità non decollerà. Se ne parla dal lontano 1990, quando con apposita legge vennero istituite, sulla carta, le aree metropolitane. Ovvero quelle istituzioni che avrebbero dovuto indirizzare lo sviluppo delle più grandi città italiane, raccordando i capoluoghi al loro hinterland e mettendo nelle mani di un solo organo di governo amministrativo funzioni chiave come la programmazione urbanistica, la mobilità, la cura del territorio, servizi cruciali come le reti idriche, la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti, lo sviluppo del verde. Al tempo venne addirittura costituito un apposito ministero delle Aree Urbane, affidato non a caso all’ex sindaco di Milano Carlo Tognoli, principale sostenitore di questa riforma. Com’è andata è presto detto: sono occorsi 24 anni per abolire le Province (legge Del Rio), precondizione indispensabile per dare il via al processo costitutivo delle 14 Città metropolitane previste

GEA SCANCARELLO

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Prova il buzz, l’alto e basso del giornalismo

no spettro si aggira per l’Internet: ha la forma dell’elenco puntato e l’aggressività del sottoproletariato giornalistico. A volte si fa quiz, altre fotogallery, altre ancora sondaggio; frequentemente clic compulsivo, quasi sempre pubblicitario. È il modello Buzzfeed, Attila o Re Mida delle media company digitali, a seconda che si viva di pessimismi o di ottimismi: prodotto di infotainment di fabbricazione statunitense, esportato in 10 Paesi in altrettanti anni di vita, figlio della contaminazione di generi e mezzi e capace di turbare il dotto dibattito sull’informazione segnando uno spartiacque incolmabile. Esiste un prima e un dopo Buzzfeed, e lo dimostrano, se non i post condivisi su Facebook, certamente le analisi fiorite in Rete dopo i recenti dati sul fatturato 2015: a nove anni dalla nascita, la società ha portato in cassa 167 milioni di dollari, cifra ragguardevole ma inferiore alle attese, calibrate (nonostante le smentite) su 250 milioni. Il panico internazionale è presto spiegato. La media company creata e guidata da Jonah Peretti – classe 1974 e già cofondatore dell’altro fenomeno digitale Huffington Post – è l’inventrice del native advertising, la pubblicità nativa, e cioè contenuta ed esibita sfrontatamente in video, articoli e collage pubblicati online e distribuiti ovunque sui social media, contan-

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nel nostro paese. Un processo che, fin dai primi passi, si è rivelato un sentiero accidentato e soprattutto senza un approdo sicuro. I nuovi enti si sono trovati, infatti, con dotazioni economiche e personale dimezzato rispetto alle vecchie province e, cosa ancora più grave, nell’incertezza sulla forma che il nuovo governo metropolitano dovrà assumere. Non si sa ancora se il sindaco metropolitano sarà eletto a suffragio universale dagli elettori dei Comuni che formano la città metropolitana o se il sindaco sarà, in ogni caso, il primo cittadino eletto del Comune capoluogo, designato dai colleghi sindaci degli altri Comuni della Città metropolitana. Su questo punto la legge lascia, incredibilmente, facoltà di decidere in autonomia ai nuovi enti. E così mentre lo Statuto delle città metropolitane di Milano e Roma prevede un sindaco eletto dal popolo altre città, come ad esempio Torino, non lo prevedono, dando luogo ad una asimmetria istituzionale insensata. Qualcuno potrebbe obiettare che, in fondo, si tratta di una questione di lana caprina, a cui gli elettori-cittadini sono assai poco interessati. Non è così, invece. E basta pensare, per convincersi, alla recente elezione del sindaco di Londra Sadiq Khan. Il nuovo Mayor londinese è stato eletto, infatti, da una platea di 7 milioni di elettori della “Greater London Authority”, ovvero dell’intera area urbana della capitale britannica che conta oltre 8,5 milioni di abitanti. Se il sindaco di Londra fosse stato votato dai soli residenti della City of London, ovvero del nucleo

centrale della grande metropoli, avrebbe votato circa un milione di elettori. E con tutta probabilità l’eletto non sarebbe stato un avvocato musulmano di origine pakistana del Labour Party. Inoltre non si può non considerare il differente peso specifico fra un sindaco metropolitano eletto e uno nominato: la legittimazione popolare, in democrazia, non è un orpello accessorio ma la fonte stessa del potere. E senza legittimazione è difficile immaginare una figura che, fra le altre cose, dovrebbe avere la forza di decidere per altri 134 colleghi, come ad esempio nel caso di Milano. Vedremo, nei prossimi mesi, se i nuovi sindaci delle grandi città italiane chiamate al voto in giugno sapranno trovare una posizione comune su una riforma che rischia di partire azzoppata e di finire nell’archivio delle occasioni perdute. ■

do sull’irresistibile effetto virale del divertissement a scarso sforzo cognitivo. Secondo le statistiche, ogni dieci contenuti di native advertising prodotti da Buzzfeed, tre vengono condivisi su Facebook e affini, aumentando enormemente il numero degli accessi al sito e, conseguentemente, il valore normalmente assai basso della pubblicità su Internet. Se il modello d’oro di Buzzfeed andasse in crisi, insomma, sarebbe un grande problema per decine di giornali più o meno blasonati che sull’adv sociale e virale contano, prendendo la rincorsa, per ricostruire i bilanci disastrati: dal Guardian al New York Times, passando per il Corriere della Sera e l’Atlantic, gli editori si sono infatti buttati su strutture creative simili a quelle del portale americano, sperando di emularne anche i numeri. Eppure, la formula del successo della creazione di Peretti è ben più complessa di quanto dicano le statistiche o i 78 milioni di visitatori unici ogni mese segnalati dalle rilevazioni indipendenti (il Nyt, per

avere un paragone, ne fa 52). Perché nel gran marasma di gattini, bikini e ali di pollo fritte, Buzzfeed ha ritagliato spazio per un giornalismo d’inchiesta di altissimo livello, con reporter strappati a testate celebri e premi Pulitzer come Mark Schoofs a guidare le redazioni investigative (Schoofs, peraltro, nel 2013 arrivò al portale dopo due anni a ProPublica, un altro campione americano di innovazione online che non ha uguali nel Vecchio Continente). Si tratta “soltanto” di 250 persone su uno staff complessivo di 900 (nel mondo), ma è un altro segnale della capacità di osare, sfidando le convenzioni e la consolidata divisione tra “alto” e “basso” con cui il giornalismo ha sempre distribuito meriti e metodi, almeno da questa parte dell’oceano. Forse anche per questo da almeno un anno nei corridoi dei grandi gruppi editoriali italiani si mormora dello sbarco di Buzzfeed (esistono già contenuti in tedesco, spagnolo e francese), ma nessuno risulta ancora essersi offerto come partner: non è più semplicemente la stampa, bellezza. ■

* Il giornale che avete in mano è l’ultimo di una serie nata nel 2003, quando per la prima volta il Master in giornalismo Iulm si misurò con l’impresa di dar vita a un periodico cartaceo. Dal prossimo anno accademico Labiulm cambierà, offrendo un menù informativo più legato ai campi di interesse dell’Università Iulm: comunicazione, media, rivoluzione digitale, patrimoni culturali, marketing, spettacolo, cinema, radio, telecomunicazioni. Un nuovo giornale che, cambiando formula, probabilmente avrà anche una nuova testata, restando sempre la palestra professionale degli allievi del Master in giornalismo Iulm.

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DOS SIER CITTÀ METROPOLITANA

L’ente e i suoi accidenti DI DANIELE ZINNI daniele.zinni@hotmail.com

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ilano, Mesopotamia. Nel senso di “terra tra due fiumi”: l’Adda a est, il Ticino a ovest. Ovviamente non si parla di Milano-città, cioè del comune di Milano, ma di Milano-città metropolitana, l’ente di area vasta che due anni fa ha rimpiazzato la vecchia provincia. Nella Mesopotamia vera, quella tra il Tigri e l’Eufrate, si sono sviluppati migliaia di anni fa i primi centri urbani e le prime forme di governo sovra-cittadino; ora chissà che anche al territorio tra Adda e Ticino non spetti il ruolo di importante laboratorio politico, almeno a livello nazionale. Cosa c’è di particolare, nella CM di Milano? Per cominciare, è una tra le più produttive e connesse; è la seconda più piccola per superficie (dopo Napoli) ma anche la seconda più popolosa (dopo Roma). In vista di obiettivi come l’integrazione del sistema dei trasporti pubblici, la densità di persone e di risorse costituisce un vantaggio. D’altra parte, la CM lombarda è anche la seconda per numero di comuni (dopo Torino) e ciò significa che il governo metropolitano dovrà mediare con un numero particolarmente elevato di sindaci. Fin qui, del resto, rischi e opportunità sono simili a quelli fronteggiati dalla vecchia provincia. L’aspetto che davvero distingue, o dovrebbe distinguere, la città metropolitana da ciò che l’ha preceduta, è la funzione cruciale: non più amministrativa ma strategica, come nelle grandi città metropolitane europee. È un indirizzo che vuol fare di necessità virtù. Da diversi anni, non solo a causa della crisi, i governi locali soffrono una progressiva scarsità di risorse, e per continuare a stimolare la crescita del territorio è necessario che i mancati fondi pubblici siano compensati da un maggiore coinvolgimento

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Morta una provincia, se ne fa un’altra – oppure no. La città metropolitana di Milano, istituita nel 2014, non si è ancora ritagliata un’immagine chiara nella percezione collettiva: cosa distingue questo modello di governance da quello precedente? Dove troverà le risorse necessarie a realizzare le proprie ambizioni? Una panoramica su rischi e prospettive di quella che potrebbe essere ricordata come la grande scommessa amministrativa degli anni Dieci di capitali privati o comunque alternativi a Stato e regione. Di conseguenza, oltre a gestire progetti nell’immediato, la CM deve individuare i propri punti di forza e sulla base di quelli attrarre investimenti che diano frutti sul medio e lungo periodo. A Milano, questo lavoro ha raggiunto una fase piut-

IN ITALIA NON C’È UNA VERA CULTURA DELLA PIANIFICAZIONE STRATEGICA NONOSTANTE ALCUNI ESPERIMENTI DI DISCRETO SUCCESSO COME TORINO tosto avanzata: il piano strategico è stato approvato l’11 aprile, dopo un lungo confronto tra l’ente, i comuni e i principali portatori di interessi socio-economici sul territorio. Il documento individua sei orientamenti di fondo per l’attività della CM: - semplificazione di procedure e accesso ai servizi, - sviluppo della competitività territoriale, - rigenerazione ambientale e sostenibilità energetica, - pari opportunità e inclusione sociale, scolastica e lavorativa,

- mobilità fisica e connettività digitale, - gestione integrata dei servizi. Tuttavia, non mancano i punti interrogativi. Per esempio, il piano è stato approvato a poche settimane da elezioni amministrative che vedono coinvolti 20 comuni interni alla CM, tra cui Milano stessa: in altre parole, l’ente ha stabilito i propri indirizzi fondamentali mentre il sindaco metropolitano (che per legge coincide col sindaco del capoluogo) preparava le valigie. Peraltro, il fatto che la carica di sindaco sia attribuita in automatico, e che in generale i componenti di giunta e consiglio siano rappresentanti “di secondo livello”, pone una questione democratica: è opportuno che la legittimazione popolare di sindaci e consiglieri sia legata al solo loro comune di appartenenza, e non alla CM? E ancora, può un governo esprimere una gestione innovativa rispetto al passato, se non dispone di pari (o maggiori) fondi e competenze? Sono domande più che legittime, ma bisogna ammettere che presuppongono continuità tra la natura della provincia e della città metropolitana – una continuità che alcuni, soprattutto tra studiosi e politici attenti alle realtà estere, non darebbero

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FOCUS

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BARCELLONA

Abitanti: 3,2 mln. Un piano strategico che ha fatto da apripista per le altre città europee. Il processo è stato lungo e controverso, ma guidato in tutti i passaggi dalla forte leadership politica del sindaco. Momento cruciale è stato quello delle Olimpiadi ’92, che hanno proiettato la città in una nuova dimensione internazionale dopo l’uscita dal franchismo. Anche a Barcellona la giunta metropolitana non è eletta direttamente dai cittadini.

stoccarda

per scontata. A metà gennaio, nel presentare lo stato di avanzamento del piano strategico, il vicesindaco metropolitano Eugenio Comincini ha ammesso che “il percorso di costruzione sul campo del nuovo ente … non mostra ancora il passo sperato” e che gli obiettivi indicati “richiedono un cambiamento profondo nella cultura politico-amministrativa e nelle modalità operative dell’ente”. È possibile che l’avvento di quel cambiamento profondo, un giorno, giustifichi le apparenti anomalie dell’istituzione; del resto, anche ammettendo che la Legge Delrio abbia voluto inaugurare una cornice originale, sorgono problemi pertinenti a quella stessa cornice. Uno, ineludibile, è che in Italia la cultura della pianificazione strategica quasi non esiste: un esperimento efficace è stato quello di Torino, ormai al suo terzo piano strategico dal 2006, ma si tratta di un contesto ovviamente incomparabile a quelli di Napoli, Roma o Bari. Nella storia del governo locale in Italia, il capitolo sulla città metropolitana di Milano è appena ini-

BISOGNA INAUGURARE UNA GESTIONE INNOVATIVA RISPETTO AL PASSATO MA LE RISORSE A DISPOSIZIONE SONO DIVENTATE SEMPRE PIÙ SCARSE ziato; la definizione dei suoi contorni è un campo dove continuano a incontrarsi le riflessioni degli accademici, le proposte dei politici, le critiche dei giornalisti. In queste pagine di dossier, che continuano con gli articoli di Laura Gioia (pp. 6-7) e Federica Liparoti (pp. 8-9), abbiamo raccolto ed elaborato una parte rilevante di quegli input per ricostruire un’immagine più nitida di questa città metropolitana, tracciarne ben distinti un Adda e un Ticino. ■

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I NUMERI

Abitanti: 2,7 mln. L’assemblea metropolitana è eletta direttamente dai cittadini. Il potere esecutivo fa capo a un presidente onorario, affiancato da un direttore generale che non è un politico. L’ente ha tra le competenze centrali la pianificazione spaziale (urbanistica e paesaggistica), i trasporti, lo sviluppo economico, il marketing e le politiche per il turismo. Utilizza finanziamenti che provengono principalmente dai comuni.

134 comuni nella città metropolitana

3,2mln abitanti (1,3 dei quali a Milano)

LIONE

Abitanti: 1,3 mln. Gode di un contesto molto dinamico; in più, ha potuto avvantaggiarsi di importanti politiche urbanistiche sviluppate a livello nazionale. La scelta di avere un governo metropolitano, anche qui con elezioni “di secondo livello”, è nata dalla nuova geografia dei fenomeni in zona, che non comprendevano più solo il capoluogo ma anche le città circostanti. I piani strategici hanno favorito con successo settori tecnico-scientifici ad alta specializzazione.

36.302€ PIL pro capite (è il più alto d’Italia)

75% imprese nel settore dei servizi

MANCHESTER

Abitanti: 2,7 mln. Obiettivo strategico iniziale era quello di far ripartire la città, dopo una grave crisi e la conseguente de-industrializzazione. Lentamente, la città ha intrapreso un diverso modello di sviluppo e ha costruito un governo metropolitano capace di coinvolgere la business community, le istituzioni e gli altri attori locali. Grazie all’impegno congiunto di tutti questi soggetti, è riuscita a stringere accordi economici vantaggiosi con il governo nazionale.

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DOS SIER

Una questione di capitale territoriale CITTÀ METROPOLITANA

Verso la città metropolitana: il professore e urbanista Roberto Camagni si addentra nel cuore del nuovo ente per una Milano che non sarà più centripeta ma multicentrica

DI LAURA GIOIA @iaiagioia

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uando Eugenio Montale scriveva che Milano era un “enorme conglomerato di eremiti” si riferiva a una città in continua metamorfosi, una moltitudine di forme non sempre in sintonia fra loro. Per dirla in parole povere: un luogo dalle grandi potenzialità non sempre sfruttate. A determinare la ricchezza - e quindi la fortuna - di un territorio sono generalmente fattori come il clima, le dimensioni, l’urbanistica, le risorse naturali e quelle economiche. L’unione di questi elementi forma il cosiddetto “capitale territoriale”, ovvero quel patrimonio - visibile e invisibile - su cui ogni governo, ente o istituzione dovrebbe scommettere per favorire lo sviluppo della propria area. Qui sta uno dei passaggi fondamentali della legge Delrio, secondo cui ogni città metropolitana è obbligata a indicare in uno statuto non solo le caratteristiche dell’ente, ma anche le sue finalità. “Milano non ha fatto abbastanza in questo senso - precisa il professor Roberto Camagni, docente di Economia Urbana al Politecnico di Milano -. Lo statuto milanese ricalca quasi completamente le linee guida della legge Delrio. Si sarebbe potuto giocare di più sulla questione del capitale territoriale, individuarne le priorità. E’ stata persa una grande occasione. Quello che manca alla città metropolitana di Milano è una leadership solida, che abbia il coraggio di fare scelte importanti”. Anche sul versante dei privati la situazione sembra stagnare: imprese, associazioni e università fanno fatica ad alzare la mano, prediligendo strategie di tipo immobiliaristico e riforme low cost. Forse non capendo fino in fondo l’importanza della collaborazione fra capitali pubblici e privati, una sinergia senza la quale è impossibile generare progetti ad alto impatto sociale. “Qualche proposta è arrivata in passato da Assolombarda, ma non si è mai concretizzata perché chi doveva investire si è tirato indietro” spiega il professore. Da un punto di vista legislativo, la recente transizione da provincia a città metropolitana ha scoperchiato un pentolone che bolliva dal 1990, ma che ha le sue radici teoriche all’inizio degli anni Cinquanta. Era il 1951 quando gli studiosi di urbanistica Salvatore Cafiero e Alessandro Busca individuavano le prime aree metropolitane – allora 26 -, nelle quali si concentrava il 31% della popolazione italiana. Occorrerà attendere

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POST-EXPO Prima un campus universitario, poi il nuovo stadio del Milan: le proposte sulla futura gestione dell’area sono state inizialmente molto numerose. Due autostrade, un carcere e un sottosuolo tutto da bonificare hanno reso la faccenda più facile a dirsi che a farsi. Alla fine si è optato per la ricerca dell’Human Technopole e dell’Università degli Studi di Milano. Il modo poco convincente con cui è stato presentato il progetto ha fatto sì che parte dei fondi stanziati da Renzi – 200 milioni in tutto – sia andata all’Istituto di Tecnologia di Genova, giudicato il più all’avanguardia d’Italia. Recentemente è salito in corsa anche il colosso informatico Ibm che proprio lo scorso marzo ha siglato un accordo per aprire qui il primo Watson Health Center d’Europa. La restante superficie di Expo 2015 sarà invece riconvertita in area verde.

mezzo secolo per una legge che, tra i vari aspetti, si occupi anche di conferire alle città metropolitane una legittimazione demografica mai data finora. Confrontando la Milano di oggi con quella di ieri, emerge che “lo sviluppo demografico è regredito nelle zone del comune centrale e si è concentrato nell’hinterland, mentre l’occupazione ha tendenza inversa: cresce molto al centro, ma zero nelle periferie. In questo modo si torna a 50 anni fa, quando industria e terziario erano a Milano a differenza dei quartieri residenziali che CITY LIFE erano situati sulla corona”. Negli anni Ottanta e Novanta la città ha suNobilitato dalla fama di archistar come bito un notevole processo di deindustriaIsozaki, Libeskind e Hadid il progetto di lizzazione ma, anche se il centro lasciava riqualificazione dell’ex Fiera Campionaria spazio a novità come il design o il markeveste a tratti i panni della speculazione edilizia. ting, la produttività si spostava rimanenAttorno ai grattacieli d’autore sorge una corona do comunque entro i confini della vecdi residenze extra-lusso dai 10 ai 20 piani. Se chia provincia. Si pensi alla riallocazione da un lato City Life è anche spazi verdi, enerindustriale di aziende come l’Alfa Romeo, gia sostenibile e sviluppo, è giusto ricordare che già negli anni Sessanta aveva prefeche la società ha vinto il bando perchè ha rito Arese a Portello. Ma se ieri la moda, saputo rispondere bene a certi requisiti. la televisione e la finanza sembravano setUno di questi è stata la promessa a tori all’avanguardia, tale impostazione è da costruire di più. considerarsi superata e oggi è l’hinterland che corre il rischio di deindustrializzarsi. “Per invertire questa tendenza è necessario che la Città Metropolitana conferisca accessibilità e at-

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SESTO SAN GIOVANNI Qui nascerà la Città della Salute e della Ricerca: un maxi ospedale da 650 posti letto – e 450 milioni di euro – che, insieme all’Istituto dei Tumori e al Neurologico Besta, andrà a costituire un unico polo sanitario. Il progetto, che sarà realizzato nelle ex zone della Falck, insegna come quello di hinterland sia un concetto oramai superato e come - nel caso milanese - l’emergere di nuove centralità sia la chiave per sfruttare al meglio il capitale territoriale della città. A Sesto, dove un tempo si forgiava l’acciaio, si salveranno vite umane.

ROZZANO E ASSAGO Un tempo comune di aperta campagna, distante chilometri dal cuore di Milano, oggi Rozzano è diventato un centro molto dinamico. Simbolo di questa nuova realtà non è più la piazza, ma la struttura dell’Humanitas: inaugurata nel ’96, è oggi considerata un’eccellenza ospedaliera a livello internazionale. Analogamente ipermercati come il Fiordaliso o centri direzionali come Milanofiori ad Assago diventano aggregatori potentissimi, capaci di attirare anche chi abita in città. Musica, sport e spettacolo sono offerti costantemente dal Mediolanum Forum, raggiunto dall’apposita fermata della metropolitana verde.

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MARTESANA Composta da 28 comuni e attraversata dalla TEEM A58 – Tangenziale Est Esterna – l’area della Martesana viene raggiunta anche dalla linea verde della metropolitana. Ben collegato al centro di Milano e al quartiere del Politecnico questo territorio garantisce, a chi vi abita, una buona qualità della vita. Basterebbe generare attività nuove o qualche servizio in più: col minimo sforzo la Martesana diventerebbe un riferimento per quelle classi “intellettualmente avanzate” che gravitano attorno a Città Studi e che potrebbero trovare qui una nuova potenziale residenza.

trattività a tutti i suoi comuni. Al momento le periferie milanesi non solo stanno perdendo industria, ma non hanno nemmeno la qualità per fare un terziario innovativo e d’avanguardia”. Eppure non tutto sembra perduto perché - è paradossale dirlo - molti comuni dell’hinterland hanno una qualità di vita nettamente superiore rispetto ad alcuni quartieri di Milano. “Questo è un aspetto che, sommato all’accessibilità, permetterebbe alla zona in questione di attrarre popolazione e creare posti di lavoro decentrati”. Fra gli altri aspetti su cui Milano dovrebbe - e potrebbe investire di più c’è anche l’internazionalità. Società di consulenza, moda e marketing sono solo la punta dell’iceberg di una globalità in fermento, nella quale la connettività gioca un ruolo di primaria importanza, nella quale Milano è l’unica città di riferimento sul panorama italiano. Non finisce qui: “Uno degli elementi di forza del capoluogo lombardo è sempre stata la sua pluralità, la capacità di crescere facendo a meno di grandi visioni unitarie”, facendo leva su un’economia molto diversificata, che ha permesso di salvare la città - se non del tutto almeno in parte - dalla crisi del fordismo. Tornando all’ente, è difficile stabilire adesso se la città abbia bisogno o meno di un nuovo modello di sviluppo e, qualora ci siano, eventuali novità in tal senso saranno chiarite nel piano strategico triennale. Certo è che se Milano vuole funzionare come città metropolitana dovrà puntare al massimo sul suo capitale territoriale, superando il tradizionale concetto di hinterland e guardando alle periferie come nuovi possibili centri propulsori. Bisognerà avere il coraggio di investire su questi luoghi, al fine di suscitare l’interesse di imprese esterne e unire con una matita tutti quei puntini - gli “eremiti” - di cui Montale parlava. ■-

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DOS SIER CITTÀ METROPOLITANA

Grande metropoli o fantasma urbano ? Un ente che dovrebbe occuparsi di temi fondamentali per la vita di tutti giorni: strade, ambiente, scuola. Ma che, secondo molti, esisterà solo sulla carta DI FEDERICA LIPAROTI @FedericaFLI

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e ghost town negli USA sono ciò che resta delle mitiche città di Frontiera. Abbandonate dai cowboy quando le miniere vicine al villaggio si esaurivano. Una sorte analoga toccherà alla neonata Città Metropolitana di Milano? Entrata in funzione il 1 gennaio 2015 per effetto della legge Delrio, in pochissimi sembrano essersene accorti. Tra di loro c’è chi lavorava nella vecchia provincia. Dopo la drastica riduzione degli organici imposta dalla riforma, alcuni precari hanno occupato più di una volta la sede di Via Vivaio. Se ne sono accorti anche i frequentatori dell’Idroscalo, la cui manutenzione e sicurezza erano di competenza di Palazzo Isimbardi. Ma ora il nuovo ente fatica a trovare il denaro necessario a impedire che il mare dei milanesi scivoli verso il degrado. Eppure nessuno ne parla, nonostante il tema del governo metropolitano sia evocato dagli anni ’60. L’ente città metropolitana fece comparsa per la prima volta nel nostro ordinamento più di venticinque anni fa. La legge 142/1990 ne prevedeva nove: Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Roma, Bari e Napoli. L’effettiva istituzione venne rimessa all’iniziativa delle regioni e degli enti locali interessati. Non se ne fece nulla.

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Il secondo tentativo dieci anni dopo, con la normativa sulle aree metropolitane del Testo Unico Enti Locali n. 267/2000. Mai attuata. Poi la riforma del Titolo V della Costituzione. L’art. 114 della Carta riconosce la città metropolitana come un ente autonomo, costitutivo della repubblica al pari di comuni, province e regioni. Buona la terza? Nonostante il riconoscimento costituzionale e i diversi interventi legislativi che si sono succeduti nel corso degli anni la città metropolitana è rimasta anche questa volta sostanzialmente inattuata. Il motivo? Italica inerzia. Poi la svolta: l’approvazione della legge n. 56/2014 (c.d. legge “Delrio”). A differenza degli esperimenti precedenti, vengono definite procedure e tempi certi. Così, il primo gennaio 2015 le vecchie province di Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli e Reggio Calabria vengono sostituite dal nuovo ente, istituito anche a “Roma capitale”. Nascono poi le quattro città metropolitane di Cagliari, Messina, Catania e Palermo, volute dalle rispettive regioni a statuto speciale. La Delrio assegna al nuovo ente importanti funzioni. Dalla pianificazione strategica e territoriale generale alla regolazione dei servizi pubblici, alla mobilità e alla viabilità. Dalla promozione dello sviluppo economico e sociale, all’impulso ai sistemi di informatizzazione. Non solo. La Città Metropolitana deve occuparsi di quei servizi che venivano erogati dalle corrispondenti province. Di fatto, subentra al vecchio ente in tutti i rapporti attivi

e passivi, nel patrimonio e nei rapporti di lavoro esistenti. Con un budget, però, ampiamente decurtato. Ma quello della sostenibilità economica è solo uno dei problemi aperti della riforma Delrio. Infatti, fra gli organi delle città metropolitane, oltre alla conferenza metropolitana, ci sono anche il sindaco e il consiglio metropolitano. Quest’ultimo è l’organo d’indirizzo e controllo composto proprio dal sindaco e da un numero di consiglieri variabile in base alla popolazione. Si tratta di un organo elettivo di secondo grado e dura in carica cinque anni. Hanno diritto di elettorato attivo e passivo i sindaci e i consiglieri dei comuni della città metropolitana. Lo statuto, che regola i rapporti tra i comuni e la città metropolitana per l’organizzazione e l’esercizio delle funzioni metropolitane e comunali, può però prevedere l’elezione diretta a suffragio universale del sindaco e del consiglio metropolitano, previa approvazione della legge statale sul sistema elettorale. Di cui, a poche settimane dalle amministrative, non c’è traccia. E così, in mancanza della legge elettorale, sindaco e consiglieri metropolitani non saranno eletti a suffragio universale, nonostante lo statuto della città metropolitana di Milano lo preveda espressamente. “Chiunque sarà eletto primo cittadino a Milano diventerà sindaco metropolitano” - spiega Gabriele Pasqui, docente di urbanistica al Politecnico - “questo automatismo non funziona”. “Pen-

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FILIPPO BARBERIS CONSIGLIERE METROPOLITANO

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o? siamo a Barcellona - continua Pasqui - il processo di costruzione del governo metropolitano è stato lungo, anche controverso, però guidato da una forte guida politica in tutti i passaggi. A Milano, invece, manca una forte leadership metropolitana. Non c’è un imprenditore politico, qualcuno per cui la Grande Milano sia il suo progetto. Nessuno vuole giocarsi la testa sulla città metropolitana perché è un ente debole, dai poteri incerti e senza risorse adeguate”. Bisogna allora riflettere sui fattori che potrebbero spingere la Grande Milano a darsi invece un assetto forte. “Le attività di pianificazione strategica in contesti metropolitani di solito hanno di solito queste motivazioni. In prims il cambiamento del modello di sviluppo della città, una tansizione molto potente di natura economico – sociale. Questo è stato il caso delle città industriali: in Italia, Torino, all’estero Manchester e Liverpool. Oppure uno shock esogeno: Barcellona usciva dal Franchismo, c’era una liberazione delle forze della società, un contesto metropolitano che doveva reinventarsi. In altri casi è stata avvertita con forza la necessità di darsi strumenti adeguati a gestire i servizi su scala metropolitana. Un esempio è quello dei servizi pubblici. In un contesto come quello della Grande Milano, un trasporto pubblico che funziona bene non può stare nei confini comunali. Perché se prendi il metrò a Sesto Marelli o a Sesto FS paghi un euro in più? È irragionevole”. ■

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Ente inutile? No. E vi spiego perché

rede realmente nell’utilità di questo nuovo ente? Sì. La Delrio ha assegnato alla Città Metropolitana alcuni nodi di governo del territorio che sono strategici. Dalla pianificazione territoriale integrata all’infrastrutturazione digitale, dalla viabilità alla semplificazione della macchina amministrativa. In una realtà complessa come quella milanese, questi temi non possono essere efficacemente affrontati a livello comunale. Sulla stampa però si dice che a Palazzo Isimbardi non voli una mosca e l’ente non sia particolarmente attivo. Che cosa risponde? I consiglieri provinciali eletti e pagati dai contribuenti sono ormai un ricordo del passato. Oggi, nel consiglio metropolitano siedono amministratori dei comuni del milanese. Vengono in sede solo quando strettamente necessario. A questo va aggiunto che la legge Delrio ci ha imposto di ridurre di oltre il 30% il personale. Ecco cosa c’è dietro quelle foto di corridoi poco frequentati, apparse sui giornali. È chiaro però che se vogliamo procedere verso un ente forte, eletto a suffragio universale, bisognerà ripensare anche al ruolo dei consiglieri metropolitani e di quelli delegati. In altri termini, i consiglieri delegati dovrebbero essere retribuiti? Di fatto hanno funzione di assessori. L’impegno e la sfida amministrativa è tale da richiedere una disponibilità a tempo pieno. Andrebbe superata quella schizofrenia per cui in politica si è pagati troppo, oppure si debba lavorare volontariamente. Le risorse in campo sono adeguate a far partire questa nuova istituzione? L’anno passato è riuscita l’impresa di salvaguardare i servizi erogati dalla provincia partendo da uno sbilancio che era pari circa al 40% delle spese correnti. La situazione finanziaria era difficilissima: l’abbiamo affrontata lavorando anche tutto agosto per raggiungere un equilibrio di bilancio. Senza dubbio, la riforma Delrio nasce da un dibattito politico molto centrato sulla spending review. Questo è avvenuto, il risparmio è stato effettivo. Ora però è necessario avviare una fase nuova. Questa siccità finanziaria mette a rischio anche i servizi ai cittadini? L’essere in trincea per chiudere i bilanci fa sì che molte energie vengano spese per tenere in piedi l’istituzione anziché per amministrare il territorio. Questo è grave perché la legge attribuisce compiti importanti alla Città Metropolitana in settori come la scuola, la viabilità e l’ambiente. Non c’è spazio per altri tagli alla spesa. Al contrario, il risparmio deve arrivare da un’azione della Pubblica Amministrazione più efficiente.

La Città Metropolitana differirà da quello che già faceva la Provincia? Senz’altro. Il nuovo ente deve puntare alla costruzione di reti tra le amministrazioni locali, aiutando i municipi a uscire dall’ottica della competizione. È essenziale introdurre regole che favoriscano coordinamento tra territori e momenti di amministrare comune. Un esempio? La nascente Agenzia per il Trasporto Pubblico Locale porterà avanti il tema dell’integrazione dei titoli di viaggio. Va introdotto un criterio tariffario unico e ridotta al minimo la quantità di biglietti da utilizzare per muoversi nell’area metropolitana. Questo a Londra accade da anni, nella Grande Milano ancora no. Ecco perché un coordinamento a livello d’area vasta è necessario. La disomogeneità nella gestione dei servizi all’interno della Città Metropolitana milanese è davvero così forte? Dico solo questo: tra Milano e Monza e Brianza ci sono circa 200 appalti per la raccolta dei rifiuti. Il nuovo ente a pieno regime potrebbe rendere più omogenei e innalzare gli standard dei servizi al cittadino. Comuni che a giugno non concorreranno all’elezione del nuovo sindaco della Grande Milano. La democrazia non è a rischio se 133 città su 134 si ritroveranno con un primo cittadino metropolitano che non hanno eletto? Il 5 giugno i milanesi sceglieranno il nuovo inquilino di Palazzo Marino che assumerà anche la carica di sindaco metropolitano. La Delrio prevede che il primo cittadino della città metropolitana sia il sindaco del comune capoluogo di provincia, che però dovrà rispondere a un consiglio metropolitano dove il 70% dei consiglieri è espressione dei paesi dell’hinterland. In questo sta l’equilibrio. Non c’è alcuna violazione della democrazia. La Città Metropolitana promuoverà un’identità condivisa tra tutti i 134 comuni? L’identità è qualcosa che non si definisce a tavolino. Spesso nasce dalle sfide comuni, da quelle prove che siamo consapevoli di dover affrontare insieme se vogliamo vincere. Penso al tema della qualità dell’aria che respiriamo ogni giorno. Penso alla capacità della Grande Milano di presentarsi al mondo - con una voce sola - come un’area omogenea in grado di attrarre risorse e talenti. Dobbiamo uscire da una competizione provinciale, mi si perdoni il bisticcio, tra il capoluogo e i comuni che gli stanno attorno e fare gioco di squadra nella competizione globale. Anche questo è Città Metropolitana. ■ [f.l.]

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SPORT BASKET

Manila-Milano, basket no limits

Nonostante l’altezza media, per i filippini la pallacanestro è una passione assoluta. Anche da immigrati DI CARLO M. AUDINO E ANGELA BRIGUGLIO @CarlettoAudino, @angelab1987

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osa accomuna una popolazione di 92 milioni di abitanti circa, dall’altezza media di 162 centimetri, alla pallacanestro? Apparentemente niente, eppure nelle Filippine il basket è lo sport nazionale. La passione travolge tutti: si pratica in ogni ordine e grado, dall’amatoriale al professionale. Persino Manny Paquiao, il pugile e personaggio sportivo più famoso filippino, è stato contagiato dalla palla a spicchi, diventando proprietario-giocatore di un club prima e presidente della Federazione Pallacanestro di Manila poi. Nell’arcipelago asiatico, insomma, il basket è una vera e propria religione che si concretizzerà con il “ritum maximum” di quest’estate, quando proprio a Manila si giocherà uno dei tre tornei Preolimpici di qualificazione a Rio 2016, con i padroni di casa pronti a voler stupire il mondo guidati da Andray Blatche e forse Jordan Clarckson, le punte di diamante della Nazionale, entrambi in NBA rispettivamente con le maglie dei Brooklyn Nets e dei Los Angeles Lakers. Non tutti sanno, però, che proprio Milano è la capitale filippina per il basket. Proprio per questo motivo il capoluogo meneghino offre uno spettacolo che in altri posti non esiste o è presente in maniera minore, il campionato di basket dei filippini milanesi. L’iniziativa è nata già nel 1990 anche se la Lega, la Filipino Basketball League, esiste solo dal 2009 ed è completamente distaccata dalla FIP (Federazione Italiana Pallacanestro) e dalle varie Leghe tricolori, andando a costituire un universo parallelo. I dati forniti in anteprima dall’Ismu (Istituto per lo studio della multietnicità) aggiornati al 2015 indicano come in Italia, su 5.014.437 stranieri totali presenti, i filippini

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sono 168.238, di cui 68.500 in Lombardia, 57.600 in provincia di Milano e ben 48.200 nella sola città. Gli amanti della palla a spicchi si dividono negli impianti utilizzati, uno a Corvetto, uno a MacMahon e uno a Pero, dove si giocano tre tornei diversi, distinti a loro volta in tre serie: la Serie A, riservata agli over 45 e alle vecchie glorie del campionato filippino; la Serie B, che vede sfidarsi i giovani più promettenti; la Serie C, che si può definire un “campionato per tutti”. In totale, considerato che ci sono almeno 24 squadre per location, il numero di filippini coinvolto è altissimo. La domenica, dalle 9 alle 17 – quando si disputano le partite – è un giorno di allegria, da passare tutti insieme praticando lo sport che maggiormente unisce. Gli incontri prevedono tempi da 20 minuti; generalmente chi riesce ad arrivare all’atto conclusivo del torneo, disputa 17 partite nell’arco di un mese. Il torneo ricomincia poi il mese successivo. Entrando nella palestra di Corvetto, il quadro che si può ammirare è quello di una festa per tutti, anche per i bambini che seguono fedelmente i loro papà – l’età media dei giocatori è dai 30 anni in su – darsi battaglia sul rettangolo di gioco sino all’ultima sirena. Certo le scaramucce non mancano, ma ciò che più impressiona è l’intensità messa in campo che, unita alla tecnica eccelsa che generalmente hanno, regala agli spettatori uno spettacolo coinvolgente e che tiene costantemente con il fiato sospeso. Le squadre vincitrici vengono premiate con coppe e medaglie. Ai primi classificati, inoltre, spettano indicativamente 300 euro, ai secondi 200 e ai terzi 50. Ma alla fine, chi vince conta solo in parte perché la festa è di tutti e si finisce a mangiare e bere tutti insieme ridendo e scherzando. Il basket è uno sport che ancora sa offrire pennellate genuine di vita quotidiana, senza sfociare mai in eccessi che contraddistin-

guono le altre discipline. E, in alcuni casi, funge anche da strumento di integrazione. John Edwin Batoon e Gian Christopher Lapuz, due ragazzi di rispettivamente 29 e 25 anni, sono solo due esempi di come tanti filippini non temano il confronto e si gettino nella mischia anche con il mondo cestistico italiano. Tutto rosa e fiori, quindi? Purtroppo no. Innanzitutto, nonostante il paese orientale abbia una Nazionale femminile, in Italia ancora non ci sono tracce di un interesse rosa per la pallacanestro, italiano o filippina che sia. Inoltre, in generale, l’integrazione rimane ostacolata dalla lingua e dalla mentalità asiatica che porta i filippini a essere un po’ chiusi e a vivere nell’ombra, nonostante Il 72% si sia stabilito in Italia da oltre 10 anni. E poi ci sono quei vecchi pregiudizi difficili da abbattere per cui è prassi comune che uno straniero in Italia svolga lavori umili. Non di rado, a proposito, si utilizza il termine “filippino” come sinonimo di domestico. Questo è il campo in cui i filippini, soprattutto le donne, primeggiano rispetto ad altri collettivi. Il 26% lavora come addetto alle pulizie, il 20% come domestico ad ore e il 16% come domestico fisso. Ci sono poi badanti e operai generici nel terziario. Solo piccole nicchie svolgono mansioni più intellettuali (infermieri, mediatori culturali) anche se il 16% ha una laurea o un diploma universitario e il 50% un diploma di scuola secondaria di secondo grado (più della media di tutte le altre comunità straniere). In compenso, il tasso di disoccupazione non è poi così alto. Solo il 10-11% dei filippini ultraquattordicenni è disoccupato. La cultura prevalente è quella del risparmio. Gran parte dello stipendio guadagnato viene inviato in patria ogni mese. Una popolazione di lavoratori modello, quindi, quella filippina, che non dà nell’occhio, non suscita proteste nei quartieri e sa dove ritrovarsi. ■

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MALIJAN HERMIE

La Philippine Basketball Association, nata nel 1975, è la Lega principale filippina: il campionato è composto da 12 franchigie, tutte sul modello americano dell’NBA. Una di queste, la Mahindra Enforcers, appartiene a Manny Paquiao, il celebre pugile filippino, che ha proprio nel basket la sua grande passione, tanto da essere allenatore, proprietario e anche giocatore. Per tutti i 92.337.852 filippini sarà un’estate di fuoco: proprio in casa loro si disputerà uno dei tornei Preolimpici che mettono in palio uno dei tre posti rimanenti alle Olimpiadi di Rio. Gli ostacoli da superare per ottenere un risultato storico si chiamano Turchia, Francia, Canada, Senegal e Nuova Zelanda: le Filippine mancano dal 1972 dai Giochi Olimpici e la qualificazione sarebbe la chiusura del cerchio dopo due argenti consecutivi ai Campionati Asiatici.

I NUMERI

168.238 i filippini presenti in tutta Italia

68.500 i filippini che vivono in Lombardia

57.600 i filippini nella città metropolitana di Milano

48.200 i filippini a Milano

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“Città di opportunità e amore per il basket”

DI ANGELICA CARDONI @AngelicaCardoni

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elle Filippine, e precisamente a Santo Tomas, Malijan Hermie, 45 anni, lavorava nell’amministrazione di una cava in cui si estraeva una materia prima per trasformarla in elettricità e, nel frattempo, era il presidente dei giovani del suo Comune, innamorati di quello sport che nei paesi asiatici viene praticato anche per le strade, la pallacanestro. Da dieci anni in Italia, ora è un domestico, con una grande passione nel cuore che lo ha incoraggiato ad organizzare il torneo di basket filippino nella sede di Corvetto, a Milano. Come è nata questa idea? Alla base del progetto c’è la volontà di trasmettere l’amore per questo sport; l’esperienza nel settore sia come giocatore che come responsabile mi ha aiutato nella realizzazione del torneo. Nel capoluogo lombardo, oltre alla sede di Corvetto, ci sono i tornei di Mac Mahon e di Pero, organizzati da altri connazionali.

Come è cambiata negli anni la gestione del torneo? Sicuramente sono aumentati i numeri delle squadre rispetto a sei anni fa, quando decisi di fondare il torneo di Corvetto e di continuare a seguire il basket che nel mio paese di origine è lo sport più popolare. Se volessimo pensare ad una classifica, la pallacanestro è al primo posto e il calcio non viene prima della quinta o della sesta posizione. Attualmente, quali sono le squadre più promettenti? Dipende dalla categoria, visto che ognuna possiede un gruppo che tende a mettersi maggiormente in mostra. Per quanto riguarda la Serie A, riservata agli over 45 e alle vecchie glorie, potrei indicare l’Elite Certosa, mentre in Serie B sta ottenendo dei buoni risultati il Vigan, tra le giovani promesse. Come ti trovi a Milano? Vivo in una città che offre opportunità di lavoro molto buone, ma diverse rispetto a quelle del mio paese. Nelle Filippine ero abituato alla scrivania, frutto di tanti sacrifici e dei miei studi umanistici. ■

JOHN EDWIN BATOON JUNIOR

“Positività e allegria questi gli ingredienti”

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ohn Edwin Batoon Junior, 27 anni, è un impiegato in banca e ha un accento milanese acquisito nei 19 anni trascorsi nel capoluogo lombardo. Tifoso di Sassari e dei Cleveland Cavaliers, non indossa solo i colori dello Spartan Famagosta nel torneo filippino di Corvetto, ma anche quelli dell’Olympic Team Milano nel campionato Fip (Federazione Italiana Pallacanestro) e Uisp (Unione Italiana Sport per tutti).

Com’è l’atmosfera in campo? Bella e festosa perché ormai ci conosciamo tutti. Questa manifestazione nasce dall’idea di alcuni amici che decidono di investire dei soldi, affittando la palestra al Corvetto per un anno ed organizzando uno dei tre tornei di basket filippino, riservato a uomini con un età media compresa tra i 30 e i 55 anni. Si tratta di un evento interno alla nostra comunità che non coinvolge altri. Gli italiani sono ammessi al vostro campionato? Potrebbe esserci un’integrazione? No, la mentalità filippina è piuttosto chiusa

da questo punto di vista, forse perché gli italiani fisicamente sono più dominanti. Non gli viene permesso di giocare perché potrebbero sbilanciare le squadre. Inoltre, siamo una popolazione molto timida, non agevolata dalla lingua perché tanti non parlano ancora bene l’italiano. Quali sono le differenze tra il basket filippino e quello italiano? Da noi c’è molto più individualismo e si tende a premiare la gente che segna, per questo lo stile è più vicino a quello americano. Nel nostro torneo specifico, a volte non c’è gioco di squadra perché molti giocatori non si conoscono, variando spesso nelle diverse squadre e questo indubbiamente influisce anche sui risultati. Il livello non è altissimo anche se ci sono vecchie glorie della pallacanestro filippina. Cosa c’è intorno alla partita? Un clima positivo e goliardico. Spesso si pranza tutti insieme, anche con le rispettive famiglie che la domenica scaldano gli spalti del Corvetto. ■

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ECONOMIA NICCHIE

Oro nero d'Italia Può sembrare paradossale ma siamo il primo produttore ed esportatore di caviale al mondo. Con 40 tonnellate all'anno battiamo Russia e Iran

DI LORENZO BRAMBILLA E MASSIMO SANVITO lorbramb92@gmail.com sanvi90@live.it

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e l’ex Segretario di Stato americano Henry Kissinger nel corso di una sua visita a Mosca negli anni ‘70 disse che avrebbe fatto qualsiasi cosa per il caviale, all’opposto qualche secolo prima il re di Francia Luigi XV non gradì le uova di storione donategli dall’allora Zar Pietro il Grande. Le sputò senza sapere che stava rifiutando l’alimento che, solo qualche tempo dopo, sarebbe diventato il più caro e apprezzato al mondo. La storia non è sempre la stessa, così come la geografia. Infatti, potrebbe sembrare uno scherzo ma l’Italia è il primo produttore mondiale di caviale. Con oltre 40 tonnellate di caviale prodotte all’anno, di cui il 90% destinato all’esportazione, siamo il Paese che da solo copre il 30% del fabbisogno mondiale. Per quanto riguarda il mercato interno, nell’ultimo trimestre del 2015, sono aumentate del 15% le richieste per portare in tavola il “cibo degli zar”; anche l’export procede a gonfie vele, facendo registrare un giro d’affari di 11,2 milioni di euro nell’ultimo decennio. La regione leader è la Lombardia, che produce il 90% del caviale italiano gra-

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zie ad aziende quali: Agroittica Lombarda di Calvisano (Brescia), Azienda Agricola Pisani Dossi di Cisliano (Milano) e Adamas di Pandino (Cremona). Ed è stata proprio l’azienda bresciana negli anni ’80 a fare da apripista nel settore, avviando attraverso pratiche di acquacoltura l’allevamento e la riproduzione degli storioni, allo scopo di ottenere quello che in cucina viene comunemente

Un chilo di caviale costa in media tra 1500 e 1800 euro. L'almas iraniano può superare addirittura i 24 mila euro chiamato “oro nero”. Altre imprese hanno seguito il suo esempio, soppiantando il primato che apparteneva a Russia e Iran, penalizzate entrambe dalle sanzioni internazionali applicate nei loro confronti da Ue e Usa. Se molte aziende italiane del settore agricolo hanno sofferto parecchio a causa dell’embargo russo sui cibi (perdendo circa 240 milioni di euro), lo stesso non si può dire del caviale italiano, risparmiato dalla “black list” stilata dal Cremlino. E qui si inserisce lo stratagemma nazionalista orchestrato dal presidente russo Vladimir Putin: continuare a importare caviale italiano mettendo però

sulle confezioni un marchio russo, in modo da nascondere il fatto che gli storioni russi non sono in grado di produrre caviale a sufficienza per soddisfare le esigenze della madrepatria. Inoltre, nel momento in cui il processo di estinzione dello storione ha raggiunto una fase avanzata (dal 2010 è specie protetta) per Russia e Iran non è stato più possibile pescare la pregiata specie in natura. Così, le nostre aziende hanno avuto l’intuizione vincente di battere la strada dell’allevamento semi intensivo, occupandosi dell’intero ciclo. Dalla riproduzione alla lavorazione delle uova per la produzione di caviale, sfruttando appieno le caratteristiche dell’acqua, sia in termini quantitativi che qualitativi. Sul mercato, oggi, per un chilo di caviale si spendono in media tra i 1500 e i 1800 euro, fino ad arrivare agli oltre 20 mila euro al chilo del pregiato caviale iraniano Almas, confezionato in scatole d’oro da 24 carati. A dire il vero, però, il caviale non è sempre stato un bene di lusso. Infatti, fino agli anni ’60 veniva venduto in tutti i supermercati dell’allora Unione Sovietica, e uno slogan pubblicitario dell’epoca recitava “Un cibo sano e buono”, sottolineandone il carattere popolare. Il prodotto finale made in Italy è un caviale di alta qualità, freschissimo e “malossol”, ovvero a basso contenuto di sale, senza conservanti aggiuntivi o trattamenti di alcun tipo.

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STEFANO MARTURANO

“Il nostro è un caviale speciale”

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tefano Marturano, primo direttore nell’82 dell’Azienda Agricola Pisani Dossi di Cisliano, dal ’97 è responsabile della produzione, ricerca e sviluppo. La storia della Pisani Dossi, però, ha radici molto lontane. Fondata nel 1913 dal nobile Franco Pisani Dossi, figlio del poeta “scapigliato” Carlo Alberto, il “Dossi” della letteratura ottocentesca, inizialmente era una riserva di caccia. Oggi, invece, è una delle tre aziende lombarde impegnate nel commercio di caviale.

Come e quando é nata l’idea di allevare storioni e commercializzare caviale? Inizialmente l’impianto é nato come allevamento di anguille. Negli anni successivi abbiamo sperimentato delle modifiche per orientarci alle richieste di mercato, notando come gli storioni fossero dei pesci molto resistenti e si riuscissero ad allevare qui in maniera soddisfacente per le caratteristiche dell’acqua e dell’ambiente. La prima svolta c’è stata tra il ‘97 e il 2005, quando abbiamo iniziato a vendere le uova embrionate in giro per il mondo: dalla Cina agli Stati Uniti, dal Canada al Nord Africa. Sempre per esigenze di mercato, quando il mercato delle uova è andato esaurendosi perché anche altri Paesi riuscivano a far riprodurre i propri storioni, abbiamo deciso di puntare sul caviale.

FOCUS

Lo storione

In che modo avete superato le difficoltà iniziali legate agli alti costi d'investimento del settore e alla non immediatezza del ritorno economico? La riproduzione dello storione d’allevamento richiede una procedura complessa. Dato che per ottenere il caviale bisogna aspettare tra i sei e i sette anni d’età delle fattrici, che poi vanno soppresse, abbiamo aggirato il problema per contenere i costi e aumentare la produzione. Attraverso la biopsia si riesce ad estrarre il caviale mantenendo vive le fattrici, che anche in futuro potranno produrre caviale. Che tipi di specie allevate? Principalmente lo storione siberiano, da cui deriva il 90% del nostro prodotto. Alleviamo anche lo storione russo, lo storione americano, il beluga (italiano), lo sterleto, molto piccolo, e lo stellatus. L’Italia é il maggior produttore di caviale con oltre 40 tonnellate all’anno, di cui ben 30 nella sola Lombardia. Qual é la situazione del mercato ad oggi? Se vent’anni fa il caviale veniva prodotto dalla cattura dei pesci in natura, ora il mercato interessa solo l’acquacoltura. I pionieri sono stati nel bresciano (Agroittica di Calvisano), imprenditori di lunga veduta che già negli anni ’80 hanno investito in questo settore. Ancora per poco manterremo questo primato: la Cina, ma anche Paesi europei come la Germania, la Spagna e la Francia, si stanno evolvendo in questo senso. In Lombardia ci sono tre diversi impianti che si occupano di tutto il ciclo, in Veneto uno. Ciò non è dovuto a particolari caratteristiche climatiche, ma solo all’effetto traino dell’azienda di Calvisano: lo storione potrebbe essere allevato anche al sud. Quali sono i vostri principali mercati e volumi di esportazione? A causa della limitata conservazione del prodotto, la nostra clientela non può essere troppo lontana. Per questo siamo molto radicati sul territorio, con l’80% dei consumatori in Lombardia, soprattutto nelle province di Milano e Varese dove abbiamo tra i clienti importanti pescherie e gastronomie.

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li storioni sono pesci Ganoidi della famiglia Acipenseridae. Vivono generalmente nelle acque marine, in prossimità delle foci dei fiumi risalendo questi ultimi per la riproduzione. Si nutrono di pesci e d’invertebrati e depongono un gran numero di piccole uova. In Europa vengono allevate svariate specie della famiglia Acipenserida: lo storione siberiano (Acipenser baerii); lo storione danubiano (Acipenser gueldenstaedtii); lo storione sterleto (Acipenser ruthenus) che vive esclusivamente nelle acque dolci; lo storione comune (Acipenser sturio) che vive sempre nel mare e lo storione adriatico (Acipenser naccarii).

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Nel 2010 lo IUCN (Unione Internazionale per la conservazione della natura) ha definito lo storione come il gruppo a maggior rischio di estinzione a livello globale. Le principali cause sono : eccessiva pesca e alterazione dei loro habitat naturali dovuta alle regimentazioni dei corsi dei fiumi e agli sbarramenti che impediscono loro le migrazioni riproduttive oltre all’inquinamento. L’allevamento di storioni è importante non solo per la produzione di carne e caviale ma anche per il ripopolamento di queste specie. Ai tempi dell’Urss c’erano programmi di ripopolamento, dopo la sua caduta è avvenuta una divisione anche in questo mercato. La durata media dell’allevamento degli storioni da carne è di 14 mesi. ■ [l.b.]

Che tipo di caviale producete? Dal momento che non potevamo competere coi giganti del settore, fin dall’inizio abbiamo deciso di produrre un caviale speciale. Il nostro caviale è lavorato tradizionalmente, a mano e senza aggiunta di conservanti. A differenza dei russi e degli iraniani che usano additivi per conservarlo, noi ci serviamo solo del sale in basse quantità. Il nostro è un caviale fresco, che si mantiene solo tre mesi. Se si pensa al caviale non si pensa sicuramente all’Italia. Cosa c'entriamo noi con questo prodotto? Beh, la Russia e l’Iran sono i Paesi più conosciuti, ma già in epoca romana conoscevano il caviale. Ci sono scritti di Plinio che ne parlano. E poi, ci sono storie di pesca e fotografie che testimoniano la presenza di questo pesce enorme nel Po, quando vi si trovava il Beluga. È solo in termini di commercio che il caviale è associato all’Italia da poco tempo. ■ [m.s.]

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SOCIETÀ EDITORIA

La rivoluzione mancata degli e-book Disattese le previsioni di mercato sopravvive ancora il libro tradizionale

DI ELEONORA NELLA @Elenne

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ell’onda della grande trasformazione digitale la lettura si fa ecologica e alla carta si affiancano gli e-book. I libri fruibili su e-reader, tablet e smartphon, sbarcati sul mercato Italiano in ritardo rispetto alla nascita negli Stati Uniti, si affiancano a quelli cartacei ma la crescita disattende le aspettative. Alla nascita oltre oceano si era accompagnata l’idea dell’estinzione dei libri tradizionali, “la carta andrà in pensione” si disse e, invece, non solo i libri old school sono rimasti sul mercato ma gli e-book hanno fatto fiasco. Questi ultimi, che non possono comunque considerarsi una meteora, sono una nuova modalità di lettura che, puntando sul digitale, consente l’integrazione di diversi interessi e si modella sulle necessità quotidiane che ci vedono sempre più coinvolti nella rivoluzione del web. I lettori, oggi, non utilizzano un solo mezzo per leggere, ma tutti quelli a loro disposizione, scambiandoli a seconda della contingenza proprio come si farebbe con un paio di scarpe. “Il miglior mezzo che hai per leggere è quello che hai con te”, la vede così Willem Van Lancker, il co-fondatore di Oyster il servizio di streaming di e-book su abbonamento, ma, anche se

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questo è vero, la tendenza “green” mediata dal life style delle starlette hollywoodiane, non ha contagiato il popolo dei lettori, o almeno non quanto ci si attendeva; infatti, come ci ha raccontato Andrea Benasso, digital marketing manager di Mondadori, “la pura trasposizione in formato digitale dei libri cartacei è una scelta miope”. Ogni prodotto o servizio digitale parte dal cliente e si sviluppa sulle sue necessità. C’è allora da domandarsi chi sono i digital readers? Secondo i dati Istat sulla lettura in Ita-

AD OGGI I LETTORI ITALIANI NON HANNO ABBRACCIATO IL NUOVO FORMATO DIGITALE CON IL CALORE DIMOSTRATO DA ALTRI PAESI lia nell’anno 2015 4 milioni 687 mila persone hanno letto e/o scaricato libri online o e-book negli ultimi 3 mesi dell’anno. Tra questi, la maggior parte sono giovani e persone che possiedono una fornita biblioteca di prodotti cartacei. L’ambiente familiare, il livello di istruzione e la dimensione urbana dei luoghi sono fattori determinanti sulle abitudini di lettura e ci consentono di tracciare il profilo del lettore di e-book. Dobbiamo immaginarlo, giovane, probabilmente donna, la lettura è infatti una pratica maggiormente diffusa per il sesso fem-

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crescita del

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USA: sconfitta la paura del libro elettronico DI EUGENIA FIORE BENNATI @EugeniaFioreBen

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GIOVANNI PERESSON

Il digitale sostituirà la carta? DI CHIARA BERIA chiara.beria10@libero.it

iovanni Peresson, responsabile dell’Ufficio Studi di AIE, ha commentato per noi l’andamento del mercato digitale italiano.

Non è una questione di generi, né di formato digitale in quanto tale. L’e-book ha allungato la vita ai testi che andavano presto fuori catalogo. Basta l’avvio di un corso universitario per fare impennare le vendite. Certamente l’allungamento del ciclo di vita dei libri ha avuto un forte impatto sull’editoria. Ma si tratta di un sviluppo indipendente, non direttamente collegato alla nascita dell’e-book.

Perché il libro cartaceo è sopravvissuto alla rivoluzione digitale? Perché chi ha progettato l’e-book non ha valutato la capacità di resilienza di un prodotto che ha attraversato 1500 anni di storia. E nemmeno si può dire che l’editoria digitale coincida con l’e-book. I primi a “digitalizzarsi” sono stati gli autori, abbandonando la macchina da scrivere in favore del PC. Poi, negli anni Ottanta, gli editori hanno iniziato ad allegare ai manuali tecnici i primi cd rom. Tuttavia, la nuova tecnologia non ha cambiato il contenuto del libro, ma solo la modalità di distribuzione. Gli autori non sviluppano la loro creatività pensando al digitale. Per loro è solo un modo diverso di commercializzare il prodotto.

L’e-book si rivolge preferibilmente ai giovani? Non farei un discorso di età, ma di atteggiamento nei confronti della lettura. L’e-book ripropone un tipo di lettura lineare. È un prodotto pensato per chi ama leggere. Certamente i giovani leggono più e-book degli adulti: il dieci per cento dei diciannovenni dichiara di averne letto uno negli ultimi sei mesi, contro una media nazionale dell’otto per cento. Ma è anche vero che il 52 per cento di loro legge almeno un libro all’anno. I ragazzi sono, in generale, i più propensi alla lettura. Non è, quindi, una questione di età. Semplicemente, i consumatori di e-book sono lettori forti. E d’altra parte, non ha senso investire cento euro in un e reader per leggere pochi titoli all’anno.

È possibile prevedere il successo commerciale di un libro? Certamente è possibile più che in passato. Se un libro scatena un dibattito su Facebook, l’editore sa che è opportuno pubblicarlo. Tuttavia, credo che questo fenomeno tocchi una parte molto piccola dell’editoria italiana. Nella maggior parte dei casi il successo di un libro è legato a fattori imponderabili.

Come cambia il rapporto qualità – prezzo nell’era digitale? In questi anni di crisi gli editori hanno abbassato i prezzi per incoraggiare i lettori a comprare. Ma ora che il mercato digitale si è consolidato, anche i prezzi hanno ripreso a salire. In ogni caso, non è il prezzo a determinare il successo di un libro. Il principale fattore che porta ad acquistare un titolo è l’interesse per l’argomento. Solo per i libri di scarsa qualità il prezzo può essere decisivo nell’orientare la scelta dei lettori. ■

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Tra gli e-book più venduti troviamo anche testi di filosofia. Come si spiega?

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calo del

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ei anni fa il panico segnava il mondo dei libri statunitense. Milioni di lettori si convertivano ai nuovi formati digitali e tra il 2008 e il 2010 il mercato degli ebook americano cresceva del 1260%. Nel 2011 la paura si concretizzò quando Borders, la seconda più importante catena di libreria degli Stati Uniti, dichiarò la bancarotta dopo anni di cali nelle vendite che hanno reso impossibile la gestione dei debiti. Gli analisti predissero addirittura che le vendite degli ebook avrebbero superato già nel 2015 quelle del libri tradizionali, ma questa apocalisse che tanto si temeva non si è mai realizzata, e, al contrario, quelle vendite sono lentamente rallentate. Soltanto nei primi cinque mesi del 2015 la vendita degli ebook sul mercato statunitense è diminuita del 10% - è quanto emerge da un’analisi realizzata dall’Association of American Publishers, che raccoglie dati da circa 1.200 editori. In totale si parla di un calo del 6% delle vendite già dal 2014, con 223 milioni di ebook acquistati contro i 240 milioni del 2013. Molti servizi di abbonamento agli ebook, modellati attraverso compagnie come Netflix e Pandora, hanno lottato per convertire i lettori ai formati digitali, ma molti hanno fallito. Secondo alcuni son-

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daggi, infatti, anche i nativi digitali americani preferiscono leggere sul cartaceo. Questa inaspettata resistenza della stampa ha portato un respiro di sollievo soprattutto alle librerie indipendenti, indebolite già dalla competizione con Amazon. L’American Booksellers Association ha contato 1712 negozi membri in 2227 luoghi nel 2015, contro i 1410 in 1660 località di 5 anni fa. “Il fatto che la parte digitale del mercato abbia frenato così tanto la sua crescita gioca a nostro favore,” ha detto Oren Teicher - amministratore delegato dell’American Booksellers Association - “Il mercato delle librerie indipendenti è molto più forte oggi di quanto non fosse prima.” Sicuramente la guerra tra pixel e stampa non finisce qui. Secondo gli analisti del settore infatti è troppo presto per dichiarare la sconfitta della rivoluzione digitale in quanto un nuovo dispositivo potrebbe fare la sua apparizione da un momento all’altro. “Forse è solo una pausa questa,” – dice Carolyn Reidy, presidente e amministratore delegato della Simon & Schuster, una delle più grandi case editrici statunitensi – “Cosa succederà se la prossima generazione vorrà leggere i libri sugli smartphone? ■

minile, residente in un comune centro di un’area metropolitana del Nord Italia che abbia un buon livello d’istruzione e una vasta biblioteca cartacea; proprio le persone con più alta confidenza con i libri tradizioni, infatti, non disdegnano l’innovazione tecnologica e si mettono a leggere nel tragitto che porta all’ufficio il loro libro senza carta. Accantonata l’idea di un “aut-aut” tra carta e digitale la tendenza nell’editoria è quella di sfruttare il potere della rivoluzione

LA CRESCENTE TENDENZA A USARE GLI SMARTPHONE PER LEGGERE AVRÀ CONSEGUENZE IMPORTANTI PER L’ECOSISTEMA EDITORIALE tecnologica senza però dimenticare che la fetta più grande del mercato del libro, che perde il 3,6% rispetto all’anno precedente, è data dal cartaceo mentre il digitale rappresenta il 9,4% dello stesso mercato e questo non basta per parlare di rivoluzione. Quanto accade nel mondo dei libri, non è infondo molto diverso da quanto succcesse ,con l’avvento del digitale, per i giornali. Che il web abbia messo in crisi i modi convenzionali di scrivere per informare è certo, ma non li ha portati all’estinzione. La parola chiave è e resta la convivenza. ■

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CULTURA TEATRO

Giovani e teatro se il palco è un mira

Recitare è una scelta di vita o una scelta professionale? Parlano gli allievi delle scuole, tra sogni e disillusioni DI ANDREA IENCO E CECILIA TONDELLI paco2002@hotmail.it @BreakXit

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o capito che dovevo smettere di prendermi in giro, il teatro è sempre stata la mia vita”. Francesca Amato, 25 anni, amante del teatro fin da piccola, è riuscita a superare le resistenze della famiglia (padre magistrato e madre insegnante) decidendo di abbandonare definitivamente Giurisprudenza per seguire il sogno della sua vita: diventare attrice. Ancora oggi la scelta di intraprendere la professione di teatrante è difficile, tanti sono gli ostacoli che sembrano insormontabili seppur negli ultimi anni la voglia di fare teatro e di vederlo è aumentata in maniera esponenziale. Per fare teatro, e per farlo bene, sono necessari due ingredienti indispensabili ossia gli attori e gli uditori, e qui sorge un dubbio: come è composto anagraficamente il pubblico che si reca a teatro? Stando all’analisi effettuata dall’osservatorio dello spettacolo per conto del Ministero dei Beni culturali le persone andate a teatro almeno una volta nella stagione 2014/15 rappresentano il

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26,4% della popolazione nazionale, mentre quelle non andate rappresentano una percentuale del 73,6. Stando ai dati raccolti, il pubblico teatrale, quindi, costituisce più di un quarto della popolazione italiana. I ragazzi compresi tra i 18 e i 25 anni risultano es-

I RAGAZZI TRA I 18 E I 25 ANNI RISULTANO ESSERE I più PROPENSI AL CONSUMO DI TEATRO sere maggiormente propensi al consumo di teatro con un 33,7% della popolazione di riferimento (ossia dei circa 5 milioni e mezzo di ragazzi italiani) che dichiara di essere andata a teatro almeno una volta negli ultimi dodici mesi. Solo il 27,4% degli adulti di età compresa tra i 41 e i 60 anni, ha frequentato le sale teatrali nell’ultima stagione. La novità è rappresentata dal fatto che, contrariamente ai luoghi comuni, i ragazzi lasciano indietro i loro genitori nel consumo culturale. Molte, tante le scuole che fanno teatro e che preparano a questa professione. Ma chi sono i ragazzi che frequentano queste scuole? quali paure e quali

aspettative hanno nei confronti del futuro? Il messaggio che esce dalla nostra indagine è chiaro. Sono giovani pieni di voglia di fare ma con poche certezze che li portano ad avere paura e cercare, quando l’età avanza, un piano B. Tutti vorrebbero diventare attori di successo, non vorrebbero scendere a patti con il mondo della televisione e del cinema, ma non rifiuterebbero un’offerta in questo ambiente per farsi notare. L’età di chi frequenta l’accademia è varia: c’è lo studente appena uscito dalle superiori e chi come Francesca ha capito un po’ più tardi cosa voleva. “Questo lavoro è un sogno ma si basa sul precariato” affermano in coro. “La maggior parte di chi sogna diventare attore vuole solo avere successo, non sanno lo studio che ci deve essere. Bisogna avere tenacia e sperare che l’impegno venga ripagato. Tra le storie che abbiamo ascoltato c’è quella di Miriam Mancini: amante del teatro fin da piccola “Tutti mi dicevano che non avrei mai trovato lavoro e ho fatto una scelta razionale”. Continua a sognare il teatro ma lo vede come un progetto irrealizzabile: la vita richiede concretezza e la famiglia non avrebbe mai accettato. Gli anni avanzano, cambia università e qualcosa scatta: “Ho capito che dovevo smettere di prendermi in giro”. Miriam decide che recitare sarà la sua vita, oggi i genitori lo hanno ac-

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INTERVISTA

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“L’attore è figlio del suo tempo” DI GIORGIA ARGIOLAS E MICHELA CATTANEO-GIUSSANI michicg90@hotmail.it @giorgiargiolas

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iraggio cettato e cerca di raggiungere il suo obbiettivo con tanto studio. “Sento molto la pressione dell’età, del resto è diverso iniziare l’accademia a diciott’anni o a venticinque. Ho deciso che questo sarà il mio lavoro, ci metterò tutta me stessa” conclude. Lavorare nel teatro è difficile, alcuni hanno anche paura di essere presi in giro. “I miei amici sono tutti

“NON SO FARE ALTRO NELLA VITA. QUANDO SALGO SUL PALCO MI SENTO UNA PERSONA MIGLIORE” iscritti all’università, pensavo non mi capissero ma sai cos’è la cosa più bella? Mi sbagliavo! Mi invidiano perché vedono che io ho un obbiettivo”. Tra i giovanissimi c’è Federico Novello, volto promettente dalla bella voce. Inizia quasi per gioco a fare il doppiatore e capisce in fretta che nel suo futuro c’è la recitazione. Studente svogliato alle superiori, oggi si dedica interamente al teatro. “So fare solo questo nella vita, quando salgo sul palco divento un’altra persona.” La competizione in questo mondo è tanta, le file ai provini sono lunghe e nessuno di loro nega esistano raccomandazioni. ■

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ice che il teatro è l’unica arte del presente che si consegna al mondo. E che in teatro un testo prende vita solo quando viene messo in scena. Mentre libri, quadri e dischi vivono anche a posteriori. Andrée Ruth Shammah, classe 1948, milanese, ha cominciato a fare teatro al Piccolo a soli 24 anni come assistente di Giorgio Strehler e Paolo Grassi. Nel ’72 fonda a Milano insieme a Franco Parenti il Salone Pier Lombardo, poi rinominato Teatro Franco Parenti, di cui dall’89 è unica responsabile. Attrice e produttrice teatrale, la direttrice del Parenti analizza il rapporto tra giovani e teatro.

per farlo… Per emergere il discorso è diverso. Perché se per emergere si intende farsi riconoscere e diventare famosi, allora il teatro non è il posto giusto. Per questo ci sono tv e cinema. Il vero problema non è tanto entrare a far parte di questo modo, ma resistere e imparare. I giovani amano di più fare teatro, piuttosto che vederlo.

Cosa ha da dire il teatro ai giovani di oggi? Il teatro può dare tanto, tantissimo. Aiuta a muoversi, esprimersi, superare le timidezze ed è una forma di svago. Mentre ai giovani, inteso come pubblico, può far arrivare uno scambio di emozioni eccezionale. Il problema è che quest’eccezionalità non viene trasmessa né raccontata. Il teatro entra nella vita di un ragazzo in maniera totalmente sbagliata.

Il Piccolo ha più abbonati di Milan e Inter, è una buona notizia? Avere un teatro pieno di abbonati non è indice di una presenza viva in città. A me interessa che uno spettacolo parli a tutti, non solo agli abbonati. Un teatro vive di cittadini che rivolgono al botteghino. Uno spettacolo di successo si basa sul passaparola. Se uno spettacolo non è bello, non cammina. La persona che lo ha visto, magari lo ha trovato anche bello, ma uscendo non ha voglia di parlarne con altri. Il passaparola avviene quando lo spettatore esce e ne parla, invogliando altre persone ad andare a vederlo. In un teatro di abbonati il telefono non suona e noi non vogliamo questo. Noi vogliamo il passaparola. Noi abbiamo una base di 3 mila abbonati (cioè otto spettacoli) e la sala piena. Il mio sogno è che la gente venga qui perché si fida del Teatro Parenti.

Cosa deve avere oggi un attore rispetto al passato? Un attore per essere un grande attore deve essere figlio del suo tempo. In ogni epoca anticiperà il suo tempo, lo stupirà e lo rappresenterà.

Andrée Ruth Shammah

In che senso? Innanzitutto non sono i genitori a portare i giovani a teatro ma le scuole, le quali però non forniscono la chiave di lettura corretta. È molto grave perché non viene trasmessa la passione della comunicazione teatrale in quanto tale. I ragazzi non incontrano lo spettacolo nella sua emozione, ma in una specie di approfondimento culturale scolastico. Vanno a vedere Pirandello e Goldoni ma solo perché fanno parte del programma in itinere. Ed è un’esperienza che li segna molto, in negativo. Infatti fino ai 13/14 anni adorano il teatro, poi al liceo se ne disinnamorano, ritornando, in alcuni casi, solo al termine degli studi. Quindi come si può colmare questo gap? La gente non si rende conto di cosa significa davvero questo rapporto intenso, basato su uno scambio eccezionale di emozioni. Se il teatrante è bravo è in grado di far pendere dalle proprie labbra il pubblico. Questa è una lezione che andrebbe fatta anche ai professori. Se si spiegasse tutto questo cerimoniale ai giovani, ne rimarrebbero affascinati. Anche perché i ragazzi si identificano nel teatro: hanno meno filtri e meno esperienze. I giovani sono il pubblico ideale, quello meno condizionato da un bagaglio di stanchezza, esperienze, filtri, citazioni che invece un adulto ha accumulato nel tempo. Se racconti il teatro in un certo modo, allora i giovani vengono a teatro. Con quali prospettive i giovani teatranti possono approcciarsi a questo mondo? Possono ancora puntare “in alto”, nonostante sia un mestiere “per pochi”? Ci sono molte più occasioni, molte più compagnie, molti più teatri e opportunità rispetto a una ventina di anni fa. A Milano c’erano solo il Piccolo e il Nuovo che facevano teatro privato. Adesso c’è la tv, ci sono le compagnie sperimentali, e mille altri modi

Come e perché nasce il sodalizio con Filippo Timi, molto amato dal pubblico femminile giovanile? Nasce perché ho visto il suo Amleto e ho riconosciuto subito il suo talento. E da allora lavoriamo insieme. Da produttrice e direttrice del teatro ho cercato di instradarlo e di fargli raccontare il suo mondo. Forse dieci anni fa le cose non sarebbero andate così. Forse sono io che adesso mi diverto a fare regie e sono nella fase in cui mi piace usare la mia esperienza. In più non ho bisogno più di affermare chi sono e posso dedicarmi a promuovere gli spettacoli degli altri. Potrà mai esserci un’altra Andrée Ruth Shammah, con un percorso così lungo, intenso e all’avanguardia? C’è una ragazza straordinaria che si chiama Serena Sinigaglia (regista teatrale italiana, fondatrice dell’Associazione Teatrale Indipendente per la Ricerca). Io ho avuto la fortuna di avere dei grandissimi maestri: ho cominciato al Piccolo giovanissima stando vicino a Eduardo De Filippo, Giorgio Strehler, Franco Parenti, Giovanni Testori… Ho conosciuto il meglio di tutto il teatro, in un momento in cui la gente si stava mettendo in discussione, dopo le contestazioni del ’68. Ho vissuto un momento storico incredibile con maestri incredibili. Allora non sapevo di avere a che fare con il massimo, ma avevo solamente la consapevolezza della mia curiosità. ■

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SOCIETÀ MILANO

Il ritorno degli Dei Nella foto: "Il Cerchio", una tipica celebrazione neopagana

DI CHIARA BERIA chiara.beria10@libero.it

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ermalosi e vendicativi, oppure saggi e indifferenti. Ce li immaginiamo così, gli Dei, mentre giriamo per Atene o sfogliamo il manuale del liceo. Ma anche se a Delfi o in Campidoglio i templi sono vuoti, gli Olimpici non hanno mai lasciato il nostro mondo. Per secoli la gente comune – in latino pagus significa “villaggio” - ha tramandato gli antichi misteri nelle fiabe e nel folklore. Le magie curative, i rituali legati alla terra e alla fertilità, la lettura della mano e i tarocchi sono arrivati fino a noi, in barba alla caccia alle streghe e alla rivoluzione scientifica. E ora che i tempi sono maturi, le Divinità hanno deciso di metter su casa. Di nuovo. É dedicato alla Luna, ed è il punto di riferimento della comunità neopagana milanese. Il Tempio sorge a pochi passi da Viale Monza, nei pressi di un antico tempio massonico – intitolato alla Notte – riscoperto solo pochi anni fa. Ma se il luogo non potrebbe essere più adatto, l’edificio non ha nulla che richiami gli antichi fasti. Niente colonne e statue colossali, solo tanti spazi accoglienti e colorati. Sale che, ogni giorno, si riempiono di decine di praticanti. E come nella migliore tradizione politeista, i culti ammessi sono tanti. Druidi, neoellenici, wiccan hanno la possibilità di esporre la propria concezione del divino, senza alcuna censura o pretesa di superiorità. Nessun dogma, quindi; il Neopaganesimo è una religione pluralista, composta da diverse correnti. Alla guida del Tempio - sede

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Gli aderenti alle religioni esoteriche sono 16.000, meno dell’un per cento degli italiani. La comunità neopagana di Milano esiste dal 2002; obiettivo: riconoscimento e accesso all’otto per mille

dell’Unione delle Comunità Neopagane - c’è Davide Marré, sacerdote wiccan e presidente del Circolo dei Trivi. Molto attivo su Internet, scrittore, ha fondato e dirige Athame, la prima rivista italiana dedicata al mondo della stregoneria. «Il Neopaganesimo – spiega – si è sviluppato negli anni Cinquanta del Novecento, grazie alle opere divulgative dello scrittore inglese Gerald Gardner. In

"non siamo satanisti crediamo nella laicità e nella libertà dell'uomo" seguito, il movimento ha preso due strade diverse: la prima, quella legata alla Wicca e al druidismo, proclama la tolleranza religiosa, la celebrazione dei cicli stagionali e la polarità tra maschile e femminile; la seconda, quella che noi wiccan definiamo “veteropagana”, si basa sulla riproduzione pedissequa dei culti romani, ellenici e germanici, spesso accostandosi a un’ideologia politica di estrema destra». Insomma, nonostante le intenzioni panteistiche, la pax deorum è ancora lontana. Gli avversari dei

druidi sono, come ai tempi di Cesare, i Tradizionalisti Romani. Ma questa volta le accuse – fascismo e sessismo – sono prese in prestito dal dibattito politico contemporaneo. «La nostra etica è totalmente laica – continua Davide – non c’è alcuna differenza tra uomo e donna. Anzi, sin dall’antichità i pagani hanno scelto le donne per celebrare i rituali. Le streghe sono sacerdotesse pagane». Sarà colpa dell’Inquisizione, ma anche coi cristiani i rapporti non sono rosei. «Dialoghiamo con tutti – sottolinea il sacerdote – alcuni di noi sono andati al Parlamento Mondiale delle Religioni, dove la Wicca è rappresentata da due decenni. Ma è difficile confrontarsi con chi professa un’unica via alla salvezza. I cattolici, poi, ci bollano come satanisti. Invece siamo persone normalissime, pienamente inserite nella società. Crediamo nella laicità e nella libertà dell’uomo. E non siamo nemmeno contro la scienza. I sistemi oracolari esistono in molte culture e sono un mezzo per conoscere se stessi. La divinazione non è in contrasto con la scienza, è la lettura simbolica di una persona». Quanti sono i neopagani italiani? Difficile dirlo, anche perché molti fedeli non aderiscono alle organizzazioni ufficiali. «I pagani “solitari” sono tan-

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INTERVISTA

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Massimo Introvigne, sociologo, è direttore del Cesnur, Centro Studi Nuove Religioni

“Nel politeismo ognuno può costruirsi la sua via alla spiritualità”

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rituali neopagani prevedono pratiche erotiche? Il ritorno agli Dei è solo una forma di trasgressione? In realtà pochi gruppi neo-pagani prevedono pratiche erotiche. L'ipotesi della trasgressione vale forse - dico forse, perché anche lì la realtà è più complessa - per alcuni gruppi satanisti e di magia sessuale, che però tengono a distinguersi dalla Wicca, e viceversa. Certamente, ma specie in anni passati e più in altri Paesi che in Italia, la Wicca è stata anche espressione di rivendicazioni "spirituali" sia femministe sia LGBT. Il neopaganesimo può essere interpretato come il ritorno alle radici della cultura occidentale? Questa è una auto-interpretazione da parte dei neopagani, ma presuppone una ricostruzione storica delle radici occidentali diversa da quella della storiografia accademica. In quale misura la crisi delle religioni tradizionali ha alimentato il fascino dell’esoterismo? Vi è certamente un nesso, ma non si tratta di avvenimenti recenti. Il periodo d’oro dell'esoterismo è stata la belle époque, quando il distacco dalla Chiesa Cattolica in Italia, Francia, Spagna e America Latina spinse le élite a rivolgersi alla massoneria, alla Società Teosofica, al martinismo o ai Rosacroce. Semmai, questi processi si sono molto diversificati nel tardo ventesimo e nel

Martina, vita da strega Martina ha ventitré anni ed è una sacerdotessa del Tempio della Luna. Studia Lingue e Letterature Straniere, segue la Wicca sin da ragazzina. Questa è la sua testimonianza.

"Avevo tredici anni e un grande vuoto dentro. Dio mi sembrava lontano, irraggiungibile. Mi sono interessata a varie forme di spiritualità, ma nessuna faceva al caso mio: dei Testimoni di Geova non mi piaceva il proselitismo, di Scientology la tendenza a fare business. Poi, un giorno, sono entrata in libreria e ho notato un volume fuori posto. Era il Libro delle Streghe di Buckland, il manuale pratico della Wicca. Ho scoperto una religione che valorizza la donna e propone un rapporto diretto, senza intermediari, con il Divino. Dopo la prova d’iniziazione il mio sguardo sul mondo è completamente cambiato. Sono diventata più empatica, capisco meglio gli altri e riesco a scorgere i fili sottili che collegano gli elementi della realtà. Capire le analogie tra gli elementi del Cosmo è l’abilità fondamentale di una strega. Microcosmo e macrocosmo sono collegati, così come gli oggetti che servono per convogliare l’energia. Per esempio, quando eseguo l’incanto di guarigione scelgo una bambolina, vi inserisco capelli, unghie o una goccia di sangue e cerco di visualizzare con gli occhi della mente la persona da guarire. Per sprigionare la forza necessaria mi concentro sulla danza e sul canto, solo raramente ricorro anche alla magia sessuale. La nudità rituale è fondamentale nella nostra liturgia e presuppone un legame fortissimo tra i praticanti. Per questo, pur avendo anche amici non wiccan di lunga data, ho notato che è molto difficile ricreare la stessa profondità che si instaura tra i membri di una Coven. Solo nel Cerchio, dove c’è perfetto amore e perfetta fiducia, sono sicura di raggiungere il massimo grado d’intimità. Oggi, a ventitré anni, so che la congrega mi accoglierà sempre, in questa e nella prossima vita. E sono felice". (c.b.)

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ventunesimo secolo perché agli organizzatori tradizionali dell'esoterismo che esistono ancora, ma perdono colpi - si sono affiancati fenomeni nuovi come il New Age e, appunto, la Wicca. É possibile stimare il numero di persone che, ogni anno, si avvicinano a questo tipo di spiritualità? Negli Stati Uniti sono nate iniziative, come il "pagan census", con l’obiettivo di effettuare un’indagine statistica. Il problema è che il Neopaganesimo non è una religione unitaria - è divisa in centinaia di piccoli gruppi - e i livelli di partecipazione sono molto diversi. Alcuni considerano effettivamente il Neopaganesimo la propria religione, altri partecipano a certe attività nel quadro di una vicenda biografica da "seeker", frequentando contemporaneamente diversi gruppi. Possiamo parlare di 150.000-200.000 persone nel mondo che considerano il Neopaganesimo la loro identità religiosa primaria e di qualche milione che vi si avvicina solo occasionalmente. Secondo le ultime stime Cesnur, in Italia gli aderenti al Neopaganesimo sarebbero circa 3.000. Come si è svolta l’indagine? Non ricorriamo mai ai questionari, ma sempre al contatto diretto e se possibile all'osservazione dei singoli gruppi. Poi sommiamo le stime che abbiamo prodotto gruppo per gruppo. ■ [c.b.]

ti, forse centomila – spiega Davide – si avvicinano alla Wicca navigando in Internet, ma non partecipano alle feste e ai rituali». Chi non pratica, però, non può definirsi un vero wiccan: «nello Wicca iniziatico la connessione col divino passa sempre per il rituale. La Wicca è nata esoterica. Negli anni Sessanta alcune cerimonie sono diventate pubbliche, ma si diventa sacerdoti solo entrando in una coven, cioè una congrega di fedeli». Un certo mistero, quindi, circonda le attività del Tempio. Il modello di

la prima regola: "se non danneggi nessuno fa' ciò che vuoi” riferimento è, a quanto pare, il culto di Eleusi, Iside e Dioniso, tutti riti che esaltano il valore della sensualità. Una concezione che, secondo i praticanti, si fonda sull’unione fisica e spirituale tra la Divinità maschile e quella femminile. L’imperativo morale, invece, è semplice: “se non danneggia nessuno, fa’ ciò che vuoi”, recita il Rede. In realtà, spiega il sacerdote, «bisogna anche fare

del bene. Nel momento in cui senti che il divino permea l’universo, sai di avere un dovere verso di lui». Tutela dell’ambiente e venerazione della natura sono, di conseguenza, i valori più condivisi. Le otto festività (Equinozi, Solstizi, Festa dei Morti, Candelora, Calendimaggio e Festa del Raccolto) sono pubbliche e anche chi neopagano non è, o non vuole esserlo fino in fondo, può accedervi. Antichi, insomma, ma non troppo. I nuovi pagani si muovono bene nei meandri della società globalizzata. E visto che la libertà religiosa è sacrosanta, anche Zeus e Thor si uniscono a Buddha e Vishnu nella richiesta di un riconoscimento formale. «L’esistenza di una procedura legale per riconoscere un culto è un segno di arretratezza – denuncia Davide – tanto più che il percorso è molto lungo. Induisti e buddhisti ce l’hanno fatta solo nel 2013, dopo decenni di lotta. Ora anche l’Unione delle Comunità Neopagane si sta battendo per ottenere lo status di associazione religiosa e l’accesso all’otto per mille». A quanto pare, quindi, la realpolitik va di moda anche sull’Olimpo. Guadagnare mette tutti d’accordo. Perfino gli Dei. ■

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ATTUALITÀ MILANO

La catena ha annunciato l’apertura del primo negozio nel capoluogo lombardo Segno che qualcosa sta cambiando

Starbucks, caffè a stelle e strisce

DI CECILIA TONDELLI @BreakXit

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gni giorno lavoriamo con la speranza di ottenere due cose: condividere il caffè con i nostri amici e aiutare il mondo ad essere un po’ migliore”. È questa la frase che appare sul sito di Starbucks, la grande catena di caffè che serve 40milioni di clienti ogni giorno e che si prepara ad aprire in Italia. Il primo store Starbucks aprì il 30 marzo 1971 a Seattle ma la fortuna della compagnia nacque dal leggendario viaggio dell’amministratore delegato Howard Schultz a Milano: lì conobbe il caffè italiano e decise di portare in America l’amore per l’espresso. L’apertura in Italia, ormai certa dopo tanti falsi annunci, è prevista per il 2017: prima di una serie di negozi, studiati per il nostro mercato e che apriranno nei prossimi anni. “Umiltà e rispetto per un

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paese che da sempre è custode della più antica e originale aroma di caffè” ha affermato Schultz che inizia con i piedi di piombo questa avventura. Ma cosa ha portato i dirigenti di Starbuks a cambiare idea, dopo che per anni, la paura di scontrarsi con il maestro aveva bloccato qualsiasi iniziativa di

Starbucks al momento è presente in 58 paesi con quasi 20.000 caffetterie aperte nuovi negozi? Prima di storcere il naso dobbiamo capire cosa si nasconde dietro Starbucks: questa firma rappresenta un concept collaudato, il cliente trova un’atmosfera particolare e un servizio più unico che raro: la possibilità di ritagliarsi un momento di tranquillità nella frenesia della città. Il servizio wi-fi gratuito, le poltrone in pelle, i muffin caldi e camerieri istruiti sono le armi vin-

centi del sistema Starbucks che avrà sicuramente successo nelle città internazionali come Milano offrendo, ad un costo pur superiore alla media, un servizio di qualità. L’accoppiata tecnologia e caffè è stata la strategia vincente della catena, che ha portato addirittura alla creazione di un canale digitale per guardare serie tv e video; era ormai solo una questione di tempo, il mercato italiano si va ad aggiungere ai 68 paesi in cui è già presente Starbucks con circa 2500 coffe shop. La passione degli italiani per la tazzina di ceramica rimane e rimarrà, i centinaia di bar tradizionali non chiuderanno così come non hanno chiuso le tavole calde con l’arrivo di McDonald’s. Starbucks è semplicemente un riflesso di quel grande calderone chiamato globalizzazione, magari non aiuterà il mondo ad essere “un po’ migliore” ma certo a trovare un po’ di quiete. Impareremo anche noi a camminare con bicchieri di caffè bollente in tazze di cartone, e a dire i nostri nomi ad alta voce a camerieri dalla verde divisa. ■

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DI ANDREA IENCO paco2002@hotmail.it

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li appassionati come me hanno già iniziato il conto alla rovescia. Eh sì… perché Starbucks, prima ancora di colpirti con i suoi servizi, ti entra nella testa. I suoi detrattori continuano a non darsi pace, convinti che il protezionismo sia la medicina ideale per curare l’economia italiana. Esattamente come McDonald’s o Burger King non hanno tolto clienti alle pizzerie italiane, così Starbucks non porterà via clienti ai bar italiani. L’avversione che ha l’italiano medio nei confronti di grandi caffetterie come questa non può essere legata alla qualità del caffè o al metodo usato nella preparazione delle bevande. Starbucks non vuole insegnare come fare il caffè a noi italiani, piuttosto vorrebbe insegnarci come fare business con il caffè. Il “Frappuccino” non farà chiudere nessuna caffetteria, anzi magari spingerà molti locali andati in rovina e mai sistemati a offrire nuovi e migliori servizi. Ma cosa potremo realmente fare anche in Italia con l’arrivo di Starbucks? Come prima cosa chiudere gli occhi e scegliere un Frappuccino a caso tra le oltre 40 versioni di gusti e combinazioni. Si va da quello aromatizzato alla fragola a quello alla zucca passando per le alternative con crema, cocco o cannella. Per di più si potrà ricaricare lo smartphone senza bisogno del cavetto. Si avete letto bene. In un mondo in cui

CONTRO DI MASSIMO SANVITO sanvi90@live.it

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basta collegarsi qualche minuto su facebook per far passare la batteria del telefono dal 60 al 10 per cento, da Starbucks basta poggiare lo smartphone su una particolare piastra incastonata nei tavolini per avviare la ricarica, senza bisogno dei cavetti. E infine, ma non ultimo per importanza, con l’arrivo del colosso americano del caffetteria in Italia potremo tutti fingerci impegnati in attività culturali. È risaputo che i locali Starbucks sono solitamente popolati da persone che amano monopolizzare il tavolino per ore e ore sfruttando la possibilità della connessione wifi gratuita. Perché allora non entrare anche noi in questa “cerchia esclusiva”? Potremmo stare comodamente seduti su confortevoli i divanetti verdi sorseggiando il nostro caffè bollente e lavorare in un ambiente meno stressante dell’ufficio. Per chi invece ha solamente voglia di relax e di svago, potrà scambiare due chiacchere in tutta tranquillità. Ogni volta che mi capita di andare all’estero per una vacanza faccio sempre un salto da Starbucks perché qui si respira un’aria particolare, diversa dal normale. Di ritorno a casa la nostalgia mi viene a trovare, perché quella caffetteria ha rappresentato una bella esperienza durante il mio soggiorno fuori dall’Italia. In questo modo varcando le porte del nuovo Starbucks milanese potrò rivivere quei momenti gioiosi pensando ai miei viaggi ; potrò ricordarmi della frenesia di New York, del romanticismo di Parigi, della compostezza di Londra. Ecco perché non vedo l’ora che Starbucks entri nel cuore di Milano! ■

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e lo immaginate un giapponese che fa la coda in una catena di sushi francese a Tokyo? O un catalano in fibrillazione per l’apertura di un ristorante tedesco specializzato in paella a Barcellona? Allo stesso modo, per noi italiani, che senso avrebbe fare colazione da Starbucks? Nella patria dell’espresso in tazzine, cosa ci azzeccano i bicchieroni di carta col celebre logo della sirena verde? Seppur i numeri sembrerebbero dire il contrario, dal momento che quasi 60 mila persone hanno cliccato su “parteciperò” all’evento-inaugurazione di facebook, poi rivelatosi finto, del primo punto italiano del colosso americano a Milano, prevista a cavallo tra 2016 e 2017; seppur dalla società americana fanno sapere che gli italiani “sono pronti a vivere questa esperienza”, ecco tre motivi per essere contrari all’apertura della catena di caffetterie più conosciuta al mondo in Italia. Innanzitutto i precedenti fuori dagli Stati Uniti, dove i 2400 punti vendita della catena rappresentano solo il 10% del fatturato globale. La causa, presumibilmente, è da ricercarsi nella tradizione che hanno mantenuto le storiche caffetterie del Vecchio Continente. Difficile pensare che, se è stato così per Regno Unito, Spagna o Francia, non lo possa essere anche per l’Italia, dove il caffè al bar è un vero e proprio rito sacro. Secondo: il nostro concetto di bar mal si coniuga con la filosofia di Starbucks. Se si fa un giro all’estero, infatti, si può notare come la maggior parte delle persone che occupano i tavoli di queste caffetterie siano giovani studenti che sfruttano la connessione wi-fi per lavorare al pc. Considerato il fatto che

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oggi il wi-fi c’è ovunque, a partire dalle università, vale la pena pagare, e non poco, una consumazione per usare la connessione di Starbucks? Senza considerare il fatto che in Italia, il “prendiamoci un caffè” sottintende la volontà di scambiare due chiacchiere al bancone. Non c’è tempo per navigare in internet. Arriviamo, così, al terzo, e forse più importante aspetto: il rapporto qualità prezzo. Perché spendere più del doppio, quasi il triplo, per un caffè americano lungo e annacquato? È come se pagassimo dieci euro una pizza col ketchup al posto del pomodoro. La scelta sarebbe alquanto discutibile. Inoltre, non va tralasciato il servizio, cosa anch’essa fondamentale per un pubblico esigente come quello italiano. Inutile dire, dunque, che i bicchieroni di carta difficilmente farebbero breccia nel palato degli italiani, abituati a tazzina e cucchiaino. Così come in Europa, anche in Italia c’è il rischio che Starbucks sia più una moda che una scelta di gusto. Più che la qualità del caffè conterebbero i like ai selfie scattati col bicchierone brandizzato in primo piano. È ovvio che prendere il caffè nel bar sotto casa è meno cool, ma è giusto sacrificare la sostanza per l’apparenza? E pensare che il numero uno di Starbucks Howard Schultz ideò la catena di caffetterie proprio a partire da un viaggio in Italia, quando studiò “la magnifica rappresentazione teatrale che va in scena ogni volta che in un bar viene servito un caffè”. Ora ci ritorna, con “umiltà e rispetto”, per proporre una copia della bevanda più apprezzata dagli italiani. Per riprendere la metafora di Schultz, così come i teatri sono luoghi di cultura, lo sono anche i bar. Non può essere un frappuccino o un muffin a poter cambiare la cultura degli italiani, che è fatta anche di caffè e cornetti. ■

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IULM

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A Milano rivive l’Impero romano Quattro atenei, tra cui la IULM, danno vita al primo portale dedicato all’archeologia milanese DI LORENZO BRAMBILLA lorbramb92@gmail.com

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tesori e i resti della Milano antica sbarcano sul Web. Grazie alla collaborazione tra quattro atenei milanesi (Politecnico, Università Cattolica del Sacro Cuore, Università degli Studi e IULM) è nato Milano Archeologia, il primo portale istituzionale interamente dedicato all’archeologia milanese, ai suoi luoghi e ai personaggi che ne hanno fatto la storia. Il sito (www.milanoarcheologia.beniculturali.it) è ospitato sul server del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo ed è il luogo in cui si incontrano ricerca scientifica, divulgazione e informazione turistica. “È pensato per essere utilizzato e fruito da qualsiasi tipo di pubblico: dai cittadini ma anche dai turisti. Sul sito è possibile innanzitutto trovare una sezione dedicata ai luoghi di Milano oltre a itinerari sia di tipo turistico che tematici e d’approfondimento” dice Gioia Zenoni, assegnista di ricerca del Team Laboratorio ArcheoFrame IULM e curatrice del sito. Grazie a immagini, videoclip, mappe interattive e rilievi tridimensionali cittadini e turisti possono effettuare un viaggio alla scoperta della Milano romana e medievale. Quella Milano in cui come descritto, nel IV secolo d.C., dal poeta latino Au-

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sonio “ogni cosa è degna di ammirazione, vi è profusione di ricchezze e innumerevoli sono le case signorili (…) La città si è ingrandita ed è circondata da una duplice cerchia di mura; vi sono il circo, dove il popolo gode degli spettacoli, il teatro con le gradinate a cuneo, i templi, la rocca del palazzo imperiale, la ricca zecca, il quartiere che prende nome dalle celebri terme Erculee (…) Le sue costruzioni appaiono una più imponente dell’altra, come se fossero tra sé rivali, e non ne sminuisce la grandezza nemmeno la vicinanza con Roma”. Il portale web è solo il punto d’arrivo di un percorso più ampio che ha avuto inizio nel gennaio 2013 quando Soprintendenza Archeologia della Lombardia , Regione Lombardia, Comune di Milano e Curia Arcivescovile hanno deciso di dare il via al progetto “Milano Archeologia per Expo 2015. Verso una valorizzazione del patrimonio archeologico milanese”. Tale progetto aveva un duplice scopo: da una parte, sviluppare processi di conoscenza e di manutenzione programmata delle realtà archeologiche urbane tramite azioni mirate di conservazione e manutenzione e dall’altra, sviluppare un sistema di valorizzazione complessivo dei resti della Milano romana e paleocristiana, mediante attività e strumenti di promozione e comunicazione dei siti all’interno di un sistema a rete. Con il finanziamento della Fondazione Cariplo,

la collaborazione scientifica con alcuni atenei milanesi e il coinvolgimento di tre parrocchie, depositarie di alcuni importanti resti archeologici (Basilica di S. Eustorgio, S. Lorenzo Maggiore e S. Nazaro Maggiore) questo progetto si è concluso nel Novembre 2014. Da dicembre 2014 è nato e si è sviluppato un nuovo progetto, Mediolanum MMXV, in continuità con il precedente , con l’obiettivo di ampliare e potenziare le linee di ricerca sul patrimonio archeologico di Milano, mediante l’attivazione di sei assegni di ricerca presso i quattro atenei milanesi (tra cui la IULM) vincitori del bando regionale “Invito a presentare progetti di ricerca applicata per la valorizzazione del patrimonio culturale lombardo, rivolto alle università di Lombardia”. I principali risultati raggiunti sono stati: produzione di materiale digitale per visite virtuali a siti non accessibili, redazione di manuali per la manutenzione programmata dei resti archeologici, predisposizione di materiale divulgativo oltre alla costruzione del sito web Milano Archeologia. Perché, come scriveva lo scrittore e giornalista Guido Piovene nel suo Viaggio in Italia: “Pure Milano è bella. Chi la percorre con amore, vede come persistono nonostante le offese i suoi motivi antichi”. Una Milano che guarda al futuro e alla modernità senza dimenticare però le sue origini e il suo passato. ■

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DI FEDERICA LIPAROTI @FedericaFLI

Mostra, performance e poesia in università

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uasi cinquanta appuntamenti in tre città, con oltre cento ospiti internazionali e sei mostre. Sono questi i numeri della diciassettesima edizione de “La Milanesiana”, la rassegna di letteratura, musica, cinema, scienza e teatro, ideata e diretta da Elisabetta Sgarbi. Quest’anno la kermesse, in programma dal 23 giugno al 18 luglio, sarà dedicata al tema della vanità. Ventisei giorni di dibattiti, concerti, incontri con scrittori, registi, filosofi ed economisti. In scena artisti pluripremiati, fra cui due Premi Nobel per la Letteratura, il cinese Gao Xingjiang e il sudafricano John Coetzeee. Contraddistinta da una forte vocazione internazionale, la manifestazione si conferma una finestra aperta sul mondo delle arti e delle scienze. «La Milanesiana assomiglia sempre più a una Wunderkammer in cui prevale il piacere della scoperta e del sorprendere - spiega Elisabetta Sgarbi - la rassegna riafferma con determinazione il progetto di un sapere ampio, inclusivo di tutto, curioso, divertito». Una kermesse che spazia tra linguaggi artistici differenti, dunque, e si sviluppa in diversi luoghi della cultura, delle istituzioni e dell’impresa milanesi, tra cui l’Università IULM. L’Ateneo sarà protagonista della manifestazione, ospitando all’interno del Campus una serie di eventi. Martedì 28 giugno all’Open Space IULM 6, sarà inaugurata “Le vanità di Antonio Ballista”, una mostra che svelerà un lato insolito del compositore e pianista italiano: la sua passione per il disegno. Seguirà il concerto “Doppio Ballista”, a cura del maestro stesso. Mercoledì 29 giugno sarà la volta di “Vuoto e bellezza del fiume Po”, performance tra letture e musica di Vasco Brondi e Massimo Zamboni, da poco in libreria con “Anime galleggianti”, un viaggio lungo il canale Tartaro, da Mantova al delta del Po. Infine, sabato 9 luglio, un appuntamento

La Milanesiana 2016, vanità in vetrina

Elisabetta Sgarbi, ideatrice e direttrice de La Milanesiana

tra cinema, musica e letteratura, dedicato al genio di David Bowie, recentemente scomparso. Dopo un prologo di Piergiogio Oddifreddi, il poeta Aldo Nove leggerà alcuni testi di David Bowie. Interverranno il critico Gianni Canova, preside della Facoltà di Comunicazione IULM, Mogol, che ave-

Collegio di Milano, al via le selezioni

e selezioni per l’anno accademico 2016-2017 sono aperte: c’è tempo fino al 30 giugno per presentare la propria candidatura per essere ammessi al Collegio di Milano. Il campus ospita i migliori studenti delle università meneghine. La struttura è nata nel 2003 dalla collaborazione tra i sette Atenei milanesi, il Comune di Milano, la Regione Lombardia ed enti privati. Obiettivo del progetto è valorizzare il talento dei propri studenti attraverso un’offerta formativa parallela e integrativa. Non solo: nel college la vita di comunità è vivace, studenti che provengono da ogni parte del mondo e da diverse esperienze accademiche si incontrano e confrontano. Le relazioni che nascono qui spesso lasciano un’impronta indelebile. Il Collegio di Milano propone anche un programma culturale che punta a integrare la preparazione accademica degli studenti. Si tratta di attività didattiche e pratiche che permettono di ampliare le conoscenze già possedute, di esplorare nuovi ambiti, di aprirsi all’interdisciplinarietà. Gli studenti vengono inoltre coinvolti direttamente nell’ideazione del programma. L’intento è di valorizzare le potenzialità dei propri studenti, incoraggiandone i progetti personali e accademici, aiutandoli a realizzare le loro aspirazioni. ■ (fl)

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va scritto la versione italiana di “Space Oddity” e il regista Giovanni Veronesi che aveva girato “Il mio West” con il cantante. Lo spazio musicale sarà affidato ad Andy dei Bluvertigo. La serata si chiuderà con la proiezione del film “L’uomo che cadde sulla terra”, interpretato dallo stesso Bowie. ■

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INIZIATIVE

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A lezione di bellezza da Harvard alla IULM

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isognerebbe educare la gente alla bellezza: perché in uomini e donne non s’insinui più l’abitudine e la rassegnazione, ma rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore” diceva Peppino Impastato ne I Cento Passi. Anche all’Università di Harvard sembrano pensarla così, tanto da aver organizzato la Summer School “Beauty, Leadership and Innovation”, dedicata al tema della bellezza: al suo significato, alla sua storia e al suo ruolo di volano per l’economia, l’innovazione e il benessere. L’idea è di far vivere agli studenti l’esperienza del bello: per questo le lezioni si terranno in Italia, a Siena, città medievale dal fascino intatto, e a Milano, capitale mondiale della moda e del design. E sarà l’Università IULM a ospitare nelle sue aule il ciclo di corsi. Così dal 20 giugno al 16 luglio, un gruppo di studenti della prestigiosa università statunitense farà tappa in Ateneo per frequentare lezioni frontali, seminari e viaggi d’istruzione per la durata di quattro settimane. Inoltre, durante la Summer School, cinque studenti IULM iscritti al Corso di Laurea Magistrale in Arti, patrimoni e mercati avranno la possibilità di seguire le lezioni insieme ai colleghi del prestigioso college americano. ■ (fl)

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International University of Languages and Media

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