QdC9 - Reincanto / Disincanto

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Quaderno di comunicazione rivista di dialogo tra culture 9/2008

Reincanto / Disincanto

MELTEMI


Indice

Quaderno di comunicazione nuova serie

Direzione Angelo Semeraro Comitato di Consulenza Scientifica Alberto Abruzzese Marc Augé Egle Becchi Ferdinando Boero Raffaele De Giorgi Derrick de Kerckhove Giovanni De Luna Paolo Fabbri Pier Paolo Giglioli Pina Lalli Michel Maffesoli Roberto Maragliano Mario Morcellini Salvatore Natoli Peppino Ortoleva Mario Perniola Agata Piromallo Gambardella Augusto Ponzio Elena Pulcini Stefano Rolando Antonio Santoni Rugiu Aldo Trione Ugo Volli

Amministrazione e abbonamenti Meltemi editore, via Merulana 38, 00185 Roma info@meltemieditore.it; www.meltemieditore.it La rivista può essere acquistata nella sezione Acquisti del sito www.meltemieditore.it È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata compresa la fotocopia, anche a uso interno o didattico, non autorizzata Stampato per conto della casa editrice Meltemi nel mese di novembre 2008 presso Arti Grafiche La Moderna Impaginazione: studiograficoagostini.com Meltemi editore via Merulana, 38 – 00185 Roma tel. 064741063 – fax 064741407 info@meltemieditore.it www.meltemieditore.it Registrazione presso il Tribunale di Roma n. 600/99 del 14/12/1999

p.

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Reincanto / Disincanto 11

Peppino Ortoleva, La meraviglia e l’abitudine

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Stefano Rodotà, Il corpo e il post-umano

43

Carlo Formenti, Aporie dell’ibridazione come metodo di ricerca

53

Michel Maffesoli, À la racine des rêves collectifs (Alla radice dei sogni collettivi)

71

Agata Piromallo Gambardella, Il disincanto della regola

77

Augusto Ponzio, Nella democrazia e nella libertà, non rappresentati

87

Guglielmo Forges Davanzati, Disincanto liberista: perché la deregolamentazione produce stagflazione

95

Francesco D’Andria, Reincanti virgiliani. La scoperta del Palladio di Castrum Minervæ

107

Luciana Dini, La magia del microscopio e le meraviglie del molto piccolo

117

Roberto Cingolani, Le sfide delle nanotecnologie

125

Sergio Duma, Lynch e i suoi incantesimi

Redazione Giovanni Fiorentino Mimmo Pesare Mario Pireddu

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Pubblicato con il contributo dell’Università degli Studi di Lecce erogato tramite il Dipartimento di Filosofia e Scienze sociali Le foto nei testi di Luciana Dini, Francesco D’Andria e Giorgio de Finis sono degli stessi autori.

Questo numero (a.s.)

Giorgio de Finis, Rome to Roma_diario nomade Tessiture

Tutti i numeri del Quaderno sono consultabili al sito web: www.quadernodicomunicazione.com

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F. Jullien, De l’universel, de l’uniforme, du commun et du dialogue entre les cultures, 2008; A. Kahn, C. Godin, L’Homme, le bien, le mal. Une


morale sans transcendance, 2008; M. Maffesoli Le réenchantement du monde. Une éthique pour notre temps, 2007; J. Baudrillard, La società dei consumi, (n.e.) 2008 (Angelo Semeraro) 164

R. Ronchi, Filosofia della comunicazione, 2008; U. Telfner, Le forme dell’addio, 2007; G. Sola, Heiddeger e la Pedagogia, 2008 (Mimmo Pesare)

168

R. Maragliano, Parlare le immagini, 2008 (Giovanni Fiorentino)

170

C. Formenti, Cybersoviet. Utopie postdemocratiche e nuovi media, 2008 (Valentina Donno)

171

P. Musso, L’ideologia delle reti, 2007; H. Jenkins, Fan, blogger e videogamers, 2008 (Mario Pireddu)

174

E. Scalfari, L’uomo che non credeva in Dio, 2008 (Valentina Murrieri)

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Gli autori

Questo numero

Nonostante la indiscussa centralità della comunicazione nel nostro tempo, grava su di essa il sospetto che sia la maggiore responsabile del nostro disincanto dopo aver goduto di una lunga stagione di euforie incantatrici. Anche questo Q. pone in evidenza la sua problematicità e le sue aporie, raccogliendo le voci di una vigilanza responsabile e sollecitatrice di criticità. Lo chiedono la maggior parte degli interventi raccolti in questo nono fascicolo, che resta complessivamente in bilico tra scenari di speranza – le nuove opportunità offerte dalla scienza e la ricca cornucopia di tecnologie a sostegno dell’uomo, che ci aprono a sempre nuovi incantamenti – e le incertezze, gli arretramenti, le nuove paure epocali che ci impongono di adottare quelle ragioni spinoziane che sono sempre state la bussola del Q.: non ridere né piangere, ma (cercare quanto e il più possibile di) capire. Primo agosto 2008: la sonda Phoenix rivela che su Marte c’è acqua. Non più una supposizione, ma una certezza. Il ricercatore della University of Arizona, William Boynton, riferendosi alle osservazioni della sonda Mars Odissey, precisa che è la prima volta che l’acqua su Marte è stata “toccata e assaggiata”. Se insieme all’acqua vi sarà certezza di una presenza sul pianeta rosso degli altri tre elementi che l’antica filosofia ionica presupponeva per ogni forma possibile di vita, si apriranno nuove prospettive, nuovi incanti, per gli abitanti del nostro pianeta, l’unico che fin qui abbiamo abitato. Stesso giorno, stesso giornale: pagine regionali. L’ILVA non intende abbassare nei prossimi anni il tasso di diossina che i miei concittadini sono costretti a inalare nella misura di 2,5 nanogrammi, contro l’obiettivo regionale di portarlo allo 0,80. Occorrerebbe una legge nazionale in materia di inquinamento. Il governatore Nichi Vendola scrive e poi incontra il capo dell’Esecutivo perché si metta mano a una legge che abbassi i valori percentuali di diossina per ridurre l’inquinamento dell’aria. L’incontro (“surreale e inconcludente”, secondo le dichiarazioni del governatore della Puglia) non sposta e non sposterà prevedibilmente di una virgola, almeno per un quinquennio di legislatura, quei valori che provocano nella città ionica e in quelle più prossime il più alto tasso di mortalità per cancro. In uno stesso giorno il reincanto legato al sogno di un futuro extraplanetario si dissolve nel disincanto “concettuale”, direbbe Adorno, di un presente locale immodificato, dove ogni forma di dialogo istituzionale rifluisce in lunghe guerre di posizione.


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Stessa richiesta di moderazione avanza nella ricerca estetica, dove quel dito puntato contro la comunicazione (Perniola), responsabile della “catastrofe dell’ordine simbolico”, si traduce, in penne più miti, nell’urgenza di costruire una rete di corrispondenze tra ragione e immaginario, individuo e mondo, forma e contenuto, calcolo e desiderio (Piromallo, Trione). Stesse cautele avanzano gli osservatori della società reticolare, del reincanto via web, costruttore effimero quest’ultimo di identità mobili e di “fantasie utopiche” (Formenti). Stessa preoccupazione segnalano gli analisti della stagflazione in economia (Forges Davanzati). Augusto Ponzio radicalizza le domande: dov’è finito il re-incanto della libertà, dell’eguaglianza, della democrazia, del posto di lavoro, del mercato, della ricerca dell’identità nel lavoro e nell’appartenenza? La richiesta di regole, di una più diffusa coscienza del limite, segna il nostro tempo come età del disincanto. Troverà il lettore, in queste pagine, analisi di forte impatto sociale che vanno in quella direzione, insieme a narrazioni reincantate di un tempo oltre se stesso (il Lynch di Duma, ad esempio). E si farà forse l’idea che il reincantamento, precluso alla comunione dei pensanti, resti un privilegio per chi vive e sperimenta nei laboratori. Che la scienza abbia rubato alle religioni l’arcano, che incanta e che sgomenta. Che questo reincantamento insomma segua una sua traiettoria scientificosperimentale, e che si riveli più nell’infinitamente piccolo della materia (Dini e Cingolani); che abiti insomma più agevolmente tra biologi, fisici, matematici, astronomi, nei parchi tecnologici e archeologici (D’Andria), capaci di far emergere le altre possibilità non ancora inventariate. Una chiave di lettura che può tirarci fuori dalle secche di una scissione tra saperi sperimentali incantatori e saperi pensati disincantati ce la offre Ortoleva, richiamando alla nostra memoria corta come l’incanto della vecchia bottega artigiana o del nuovo laboratorio delle particelle elementari nient’altro poi sono che la “riscoperta” dei significati simbolici presenti nel mondo fisico, quegli stessi che costituiscono gli “ancoramenti concreti alle idee e alle credenze anche apparentemente più astratte”. All’antica scissione del braccio con la mente se ne sono aggiunte altre, avverte l’autore, che investono più direttamente quelli che maneggiano quel fuoco degli dei che è la comunicazione. Ortoleva descrive con forte partecipazione le dinamiche di questa scissione. Contro una teoria del nostalgico per il caro estinto, che incantava coi suoi trucchi mediatici, egli consiglia di cessare il lutto. Il fatto è – sostiene – che vediamo sempre meno gli oggetti “perché fungibili, perché abbandonati, perché ridotti alla loro specifica funzione, senza più fungibilità”. Gouldner lo chiamava utilitarismo. Il “meraviglioso” scientifico e tecnologico carica i suoi prototipi di una sorta di effimero incantamento, di una nuova aura magica, ma questa esplosione di infiniti stupori è sottoposta alla deweiana legge dell’abitudine, che tende a svalutarle ben presto. Il marketing e la pubblicità si incaricano di tenerle in vita, “dotandole di un senso che non è più il loro”, mediandolo e rimediandolo con l’ossessività della ripetizione. Le “cose”, quelle di cui il giovane Baudrillard denunciava la scomparsa dietro i loro simulacri in una ben nota opera del 1970 meritoriamente rieditata di recente (v. scheda in Tessiture, N.d.R.), riemergono in questa analisi di Ortoleva, che segnala l’attribuzione di poteri non riconducibili alla fisicità delle cose, per cui la tecnica stessa, produttrice di meraviglie, diventa essa stessa un fattore di disincantamento.

Questo numero

Quaderno di comunicazione 6

Eppure la necessità di un dialogo tra le culture non ha alternative. Ma di quali risorse disponiamo per pensare concettualmente il rapporto tra le culture? Se lo è chiesto, di recente, François Jullien, in un notevole saggio teorico che presentiamo tra le Tessiture. Ed è in un certo senso preoccupante dover prendere atto, attraverso l’acuta analisi di questo filosofo che ci ha fatto conoscere le antiche risorse del pensiero cinese, che siamo ancora ben lontani dall’aver posto le condizioni di un vero dialogo; che quello di cui facciamo un più largo uso è viziato dalla pulsione dell’ottenimento a tutti i costi; che è venuto a mancare (semmai vi è mai stato davvero) il principio di regolazione etico-politica che include tra i dialoganti il destino del non-incluso; che proprio a ragione della sua esclusione, i conflitti si acuiscono e assumono maggiore virulenza tra chi dispone e chi non dispone di rappresentanza; che quello che riusciamo ancora a praticare nei micro come nei macro sistemi di relazione è diventato un luogo di necessità più che di opportunità; una convenienza per difendere identità sempre più pallide, inibendoci i vantaggi della diversità e della variazione, che è la ricchezza di ogni specie vivente. E tuttavia al dialogo non abbiamo alternative. Il lento, ambiguo e faticoso confronto tra culture rimane, per Jullien, come per tutti noi, la carta che abbiamo in mano per giocarci le altre possibilità, le altre risorse per volgere i conflitti in nuove opportunità. Giocato sulla scacchiera delle sfide planetarie, il monito si fa più stringente per l’Occidente, che non riesce più a legittimare una sua sovranità sul mondo, perché non ne ha più l’autorità culturale. Giocata sulla scacchiera dei fenomeni sociali più ravvicinati, che riguardano più direttamente il mondo della comunicazione, la pre-condizione del dialogare esige una profonda trasformazione del sistema dei media, responsabile – lo rileva qui con determinazione Agata Piromallo – di una cesura profonda con la memoria. È esemplare in questo senso il diario che ci affida Giorgio de Finis, in visita tra le culture rom. Un nodo – quello della memoria – per uscire dalle stereotipie, dalla micidiale miscela mediatica ogniqualvolta le “sovranità emittenti” dispongono di deviare l’attenzione sul nemico esterno. Maffesoli insiste invece sul “reincantamento” del mondo, come presa d’atto delle grandi migrazioni di senso nell’età delle etiche cool, che reclamano anch’esse regole e manutenzione. Ci troviamo nel bel mezzo di un periodo “assiale”, in un’atmosfera più fusionale ma perfino più confusionale: di inversione di polarità che permette tuttavia una nuova comunicazione tra culture diverse. “Ed è all’interno di queste culture che si costruisce un’altra forma di comunicazione tra i gruppi”, sostiene Maffesoli. Avanzano tuttavia, proprio in virtù di questo permanente stato fusionale-confusionale maggiori richieste di cautela. Più marcatamente nelle culture del diritto, dove si guarda, come fa Rodotà, sine ira alle lusinghe delle tecnologie del postumano, ma dove più acutamente si avverte la necessità di un controllo sociale che ne regolamenti i flussi di senso. Le tecnologie del virtuale hanno aperto aspettative sulla vita e il destino dell’uomo; ma il corpo transumano, avverte Rodotà, reca con sé il rischio di una svalutazione dell’umano, per effetto di una percezione del post e del trans come “portatori di valori più forti”, capaci per ciò stesso di aprire la strada a nuovi conflitti “sul terreno dei valori di riferimento”. Che si potranno evitare solo se si avrà “la capacità di mantenere fermi, e di proiettare nel futuro, i principi della dignità, dell’eguaglianza e dell’autonomia”.


a. s.

Testatina ÁGALMA 9

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Ancora Baudrillard? Ancora il destino della foucaultiana scissione tra parole e cose? C’è una via breve per uscire dalle maraviglie di cose senza più aure né parole, e di parole senza più oggetto? Di uscire dalla fascinazione del tragico che è nell’eccesso di cui parla diffusamente Maffesoli? La riconquista di un limite. L’adozione del metodo scientifico. La moderazione unita al principio di cautela. Queste sembrano le risposte, difficili ma non impossibili. Le pone oggi un grande della letteratura europea, Ian McEwan, che canta in un blues la fine del mondo, o forse solo di questo mondo per ora possibile, che riscopre le ebbrezze millennaristiche del Medioevo. L’umanità si è sempre lasciata incantare dai racconti che annunciavano la sua totale distruzione. Ma la fantasia di una fine violenta riemerge – scrive McEwan – perché scienza e cultura non sono ancora riuscite a trovare una mitologia che possa competere con il fascino della distruzione, epilogo tragico di ogni disincantamento. Il rimedio non è tanto nella ragione, quanto nell’impulso umano alla curiosità, dice. Ed è proprio alla curiosità, quella scientifica e quella che nell’archeostoria ci concilia col Mito e i suoi archetipi, che dobbiamo una conoscenza verificabile del mondo come della nostra natura e condizione. È la curiosità che ci apre a sempre nuovi incantamenti. Apò kalypto non è il finale tragico dell’aparusia giovannea, bensì l’età adulta del disvelamento, dell’emancipazione dagli Idola che inibiscono l’oltre. Il disincantamento, avverte ancora Ortoleva, non è desacralizzazione; non è l’inevitabile “triste disincanto del risveglio”, o il weberiano senso di perdita connesso a una caduta. Non è il declino. È un’altra capacità di apprendere. Un ri-apprendere, contro ogni eccesso che domina la cultura contemporanea nelle sue forme di consumo sfrenato e di emozioni estreme. Liberazione dello sguardo mediato, conquista di uno sguardo compassionevole. La doxa incanta truccando e nascondendo. L’epistéme disincanta svelando. La lotta è impari. La Sovranità invela; si prodiga perché ai cittadini-dipendenti venga erogata sicurezza affrancandoli dall’obbligo della conoscenza (che è sempre faticosa). Confeziona, per via mediatica, emozioni giocose, a sollievo della loro vita quotidiana. La doxa, signora dei reincanti, ha oggi sotto scacco l’epistéme e il senso stesso del pensare e dell’agire politico. Possiamo contrastarla solo con la paziente ricostruzione di un pensiero efficace, che può avanzare attraverso un’educazione sollecitatrice di criticità. Amica dell’epistéme.

Reincanto / Disincanto


Peppino Ortoleva La meraviglia e l’abitudine. Note critiche sui media, gli oggetti tecnici, il disincantamento

Il sonno delle cose, il triste disincanto del risveglio Grazia Deledda è una scrittrice oggi un po’ trascurata dalla critica, ma continua a essere letta. L’equilibrio che riesce a volte a raggiungere tra narrazione popolare nel senso tradizionale del termine, più propriamente novecentesco (destinata cioè a un pubblico “di massa” di lettori desiderosi e consumatori di racconti), e consapevole attenzione alle correnti letterarie della sua epoca rende il suo lavoro forse un unicum nella letteratura in lingua italiana del Novecento. Tra i segreti del fascino persistente di alcuni suoi romanzi c’è forse l’ambiguità del tempo in cui si collocano: l’avvento della modernità sembra sovrapporsi, senza veramente incrinarlo, al persistere di un mondo di così antiche radici da apparire immobile. Leggendo i suoi romanzi a volte sentiamo di poter comprendere, come di passaggio ma con tanta maggiore nitidezza, quelle diversità tra mentalità e modi di vivere che possono restare contigui e insieme incapaci di capirsi a vicenda, quella “contemporaneità del non-contemporaneo” che Ernst Bloch individuò già negli anni Trenta come uno dei problemi maggiori delle società novecentesche.

Il mondo di Efix Nelle prime pagine di Canne al vento, il romanzo ancor oggi più famoso e più letto di Grazia Deledda, troviamo il pastore Efix, personaggio chiave del romanzo anche in quanto (simile in questo ad alcune figure di schiavo nero nei capolavori di Faulkner) sembra assumersi il compito di dare continuità al tempo e alla storia con la sua semplice capacità di sopportazione unita alla dignità personale. Attorno a Efix che si sta per addormentare, l’autrice descrive un piccolo mondo di cose: dal tetto a cono di canne a giunchi che copriva i muri a secco e aveva un foro nel mezzo per l’uscita del fumo, pendevano grappoli di cipolle e mazzi di erbe secche, croci di palme e rami di ulivo benedetto, un cero dipinto, una falce contro i vampiri e un sacchetto d’orzo contro le panas [gli spiriti delle donne morte di parto che vanno a cercare i loro figli e terrorizzano le persone, N.d.R.], ad ogni soffio tutto tremava e fili di ragno rilucevano alla luna. Giù per terra la brocca riposava con le sue anse sui fianchi e la pentola capovolta le dormiva accanto.


Da Schiller a Weber Si tratta di un’espressione abusata, ma in modo spesso superficiale, in tanta letteratura sulla cosiddetta “modernità”: il disincantamento come fine di un universo di credenze solide e inizio della fase in cui “tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria”, secondo l’espressione, anch’essa citatissima, del Manifesto di Marx ed Engels. In realtà, l’enunciazione di Weber è un bel po’ più complessa di molte sue letture, e invece di limitarsi a citarla quasi fosse scontata vale la pena di dedicarle qualche attenzione critica. Prima di tutto, l’espressione non è stata coniata originariamente dal grande sociologo, ma da un superbo poeta (e importante pensatore) come Friedrich Schiller, che ne fa uso non solo in un testo teorico come le Lettere sull’educazione estetica (la sesta lettera è considerata da molti la più diretta ispirazione della concettualizzazione weberiana) ma anche in componimenti in versi come questo: non lasciar devi mai che un triste disincanto al risveglio ti trascini giù disperata da quel volo audace e orgoglioso del sogno.

È il destino dell’epoca nostra, con la sua caratteristica razionalizzazione e intellettualizzazione, e soprattutto col suo disincantamento del mondo, che proprio i valori supremi e sublimi sian divenuti estranei al gran pubblico per rifugiarsi nel regno extramondano della vita mistica o nella fraternità dei rapporti immediati e diretti tra i singoli. Non è a caso che la nostra arte migliore sia intima e non monumentale, e che oggi soltanto in seno alle più ristrette comunità, nel rapporto da uomo a uomo, nel pianissimo, palpiti quell’indefinibile che un tempo pervadeva e rinsaldava come un soffio profetico e una fiamma impetuosa le grandi comunità.

Alla luce di Schiller, il disincantamento si presenta non solo e non tanto come un ritirarsi dei “poteri” e dei valori dal mondo, ma come una netta separazione, ineluttabile e insieme difficile da accettare a pieno, tra la realtà quotidiana e i riferimenti ideali, tra l’oggettualità e la mente, tra la fisicità e il senso. Per essere più precisi, dovremmo forse parlare di due disincantamenti che hanno attraversato in tempi molto diversi ma in sostanziale continuità storica la vicenda del mondo euromediterraneo: il primo è quello individuato e descritto da Marcel Gauchet, legato al modello cristiano di trascendenza, che sopprime i modelli magici di lettura dell’universo fisico ma al tempo stesso esalta la presenza di Dio nel tempo storico; il secondo è quello di cui parla Weber, connesso al ritrarsi della religione dalla sfera pubblica, e alla progressiva separazione tra la coscienza privata, sede della vita religiosa, e l’universo degli oggetti, occupato con sempre maggiore sicurezza dal discorso scientifico. Il secondo è per certi versi la continuazione del primo, per altri il suo opposto in quanto finisce con l’espellere Dio proprio da quel tempo storico in cui il cristianesimo l’aveva insediato. Nel mondo industriale, due universi un tempo complementari appaiono polarizzarsi come per effetto del passaggio di una corrente: da un lato, le cose, prive a questo punto di significati intrinseci; dall’altro i valori e i simboli, in sé slegati dalla realtà fisica. A seguito di questa scissione, tra gli oggetti e i significati sembra possibile stabilire un legame solo attraverso il linguaggio, a sua volta privo (stando

13 La meraviglia e l’abitudine

Nel riprendere il termine, Weber aveva con ogni probabilità in mente le connotazioni già evocate dalla poesia di Schiller: l’inevitabilità, in sé liberatoria, del risveglio, e insieme la delusione e il senso di privazione connessi a quella che appare pur sempre una caduta. Connotazioni ambivalenti, che rischiano di andar perse nelle tante letture proposte in questi anni della parola “disincantamento” in varie lingue occidentali: dove tra l’altro il termine viene letto nella sua apparente semplicità, in un’accezione puramente privativa; dove il disincantamento viene fatto equivalere alla de-sacralizzazione, all’avvento di un mondo “svuotato” di ogni presenza extracorporea, e dal quale le forze magiche si sono allontanate per sempre. (Una lettura, va aggiunto, che trova i suoi ascendenti semmai in altri autori del primo Ottocento tedesco, come Novalis, ad esempio nel frammento 555: “Il senso del mondo è andato perduto. Noi ci siamo fermati alla lettera”. Autori che hanno avuto una grande influenza in tutte le correnti spiritualiste e non solo, ma che non costituivano certo il riferimento principale di Weber). Se rileggiamo, tenendo in mente le connotazioni presenti in Schiller, il noto brano da La scienza come professione, questo ci appare meno lineare e più ricco d’implicazione di quanto vogliano tante sue letture. Scriveva Weber:

Peppino Ortoleva

Quaderno di comunicazione 12

“La brocca riposava con le sue anse sui fianchi e la pentola capovolta le dormiva accanto”. Espressioni del genere sopravvivono ancora, sporadicamente, nel nostro linguaggio quotidiano, ma quando le usiamo ci suonano comunque affettate, legate a un registro metaforico un po’ forzato e diverso da quello corrente. Quando leggiamo le pagine di Canne al vento, invece, la brocca che dorme con le anse sui fianchi e la pentola capovolta non ci appaiono ricercate; e non implicano cambiamenti di registro rispetto alle righe precedenti o successive. Nel mondo di Efix, gli oggetti sono parte degli stessi processi che animano la natura e gli esseri umani. La separazione tra universo pensante e universo inanimato, e anche, all’interno del mondo delle cose, quella tra oggetti di origine naturale e manufatti, non appare ovvia né inevitabile. Grappoli di cipolle e ceri dipinti, fili di ragno e brocche, condividono spazio e destino tra loro e con gli esseri umani, e anche con entità extracorporee. Effimere o durature, fabbricate o raccolte, consacrate dalla religione o abbinate a credenze magiche, o semplicemente funzionali a un uso, le cose “vivono” accanto agli esseri umani, e trovano in tale convivenza la logica profonda del loro esistere: il loro senso non deriva da un atto volontario di comunicazione ma dal fatto stesso di essere nel mondo, nello stesso mondo abitato dagli uomini e dalle donne. Quella di Grazia Deledda non è certo un’evocazione spontanea, né ingenua; al contrario, è con ogni evidenza il frutto di un raffinato lavoro di ricostruzione mnemonica e a suo modo etnografica. Non dobbiamo quindi essere così ingenui, noi, da presumere di trovarci di fronte a un documento “di prima mano”. Ma proprio in questo sta l’interesse del testo: nello sforzo di traduzione, nel nostro linguaggio, di un universo recente e insieme remotissimo, quello che precede la frattura storica e culturale che è stata definita da Max Weber come “disincantamento del mondo”.


Dinamica di una scissione Quello che conta, insomma, nella concettualizzazione trasmessaci da Weber, non è solo, né tanto, il “vuoto” lasciato dall’incantesimo dissolto, non è un’assenza pura e semplice o l’eventuale lacuna lasciata da ciò che è scomparso. È piuttosto il fissarsi di uno scarto, di una separazione, tra presenze diverse e ormai parallele, che appaiono destinate a non incontrarsi più. È questa scissione, così irrevocabile e così sorprendente insieme, che dobbiamo tenere presente prima di ogni altra cosa quando pensiamo alla nostra comunicazione con le cose, a quel che “ci dicono” gli oggetti. Ed è questa scissione che ha dato luogo, lungo tutto il corso del Novecento, a processi contraddittori e tortuosi di ricongiungimento e di scissione ulteriore, di “riscoperta” di significati simbolici nel mondo fisico e di ancoramenti concreti per le idee e le credenze anche apparentemente più astratte. Possiamo anzi pensare che vi sia una stretta complementarità tra il disincantamento intuito da Weber e quel curioso fenomeno per cui nell’Occidente moderno, con il romanzo e poi in forma ancora più accentuata con il film e l’audiovisivo, la narrazione fantastica viene generalmente calata nell’universo fisicamente riconoscibile degli oggetti e dei paesaggi quotidiani. La scissione radicale tra universo dei simboli e universo delle cose trova una sorta di compensazione in questo re-incantamento continuo e pervasivo quanto “morbido”, aiutato come tutta la fiction dal patto non scritto che propone al lettore: l’oggetto inquadrato dal film si “carica” del senso della storia tanto più facilmente in quanto è diventato del tutto incapace di partecipare a sortilegi o anche, semplicemente, di “riposare con le anse sui fianchi”. E non è una sorta di “reincantamento”, sistematico ma comunque effimero e sostanzialmente vano, l’uso della pubblicità per “caricare” gli oggetti di un senso che non è più loro intrinseco? Cercando di rimediare con l’ossessività della ripetizione all’arbitrarietà e alla totale inverificabilità (quando non alla pura e semplice falsità) del discorso, di sostituire la fiducia con l’automatismo dell’associazione mentale, l’azione dei pubblicitari si sforza di fissare nelle menti di cui compra (all’ingrosso) l’attenzione un’equivalenza tra le cose e i valori simbolici. Al tempo stesso, proprio il mezzo usato dimostra il carattere arbitrario e inevitabilmente provvisorio del processo, e anche dello stesso effetto che si vuole ottenere.

Gli oggetti e il senso: tecnica e tradizione Il ruolo dei media nel mondo disincantato non può essere ridotto solo ai “contenuti” che veicolano. Non dobbiamo dimenticare che i mezzi di comunicazione sono in generale oggetti tecnici. Il ruolo dei media nel mondo disincantato è legato anche al fatto che essi appartengono insieme ai due universi, anche se nello studiarli ci troviamo inevitabilmente spinti a distinguere rigidamente, ancora una volta, la materialità “tecnica” dai significati tutti umani. La tecnica come la concepiamo oggi (in realtà dalla rivoluzione industriale in poi) sarebbe impensabile senza il disincantamento. D’altra parte, la tecnica stessa è un fattore, e uno dei principali, del disincantamento. Nel moderno universo della tecnica, e in particolare negli strumenti della comunicazione, il disincantamento trova, di volta in volta, limiti e compensazioni. Il “meraviglioso tecnologico” o forse potremmo parlare di magia meccanica, che ha accompagnato ad esempio la fotografia e l’elettrificazione, il cinema e la radio, l’informatizzazione e la realtà virtuale, attribuisce regolarmente agli oggetti “poteri” non riducibili alla loro fisicità, e ai loro inventori capacità sovrumane. Ce lo ricordano, a fine Ottocento, il mito giornalistico e anche letterario di Edison e, a fine Novecento, i sogni e le distopie del new age cibernetico.

Azioni a carattere tradizionale La relazione tra la tecnica moderna e il disincantamento richiede però una riflessione più approfondita, sulla scia di quanto il pensiero moderno ci ha insegnato sulla presenza della tecnologia nel nostro universo e dei processi storici che l’hanno preceduta e favorita. Prenderemo le mosse, per questa riflessione, da una definizione classica della tecnica: “La tecnica è un gruppo di movimenti e di azioni generalmente a carattere manuale, tradizionali, e organizzati, finalizzati a uno scopo unitario”, scriveva negli anni tra le due guerre l’etnologo francese Marcel Mauss. Quanto questa definizione vale per la tecnica in generale, quanto vale solo per un modello di comportamento pratico pre-moderno, oggetto degli studi etnologici ma distante dalla nostra cultura? Gruppo di movimenti e azioni organizzati, è tuttora una buona descrizione; appare anzi lungimirante l’intuizione di Mauss sul ruolo specifico dell’organizzazione nel comportamento tecnico, che precorre di molti decenni l’emergenza del pensiero organizzativo. Anche la finalizzazione unitaria è un elemento ancora oggi essenziale alla definizione della tecnica, sebbene siano sempre più diffusi i processi che realizzano tecniche innovative prima ancora di chiarirne esattamente il fine, e sebbene alcune delle maggiori rivoluzioni tecno-

15 La meraviglia e l’abitudine

È al doppio processo, di scissione e di continua parziale riconciliazione, tra mondo delle cose e mondo dei simboli, che dobbiamo ripensare se vogliamo capire, in particolare, quel che ci dicono quegli oggetti del tutto peculiari che hanno per compito proprio il comunicare. Sono i media, in quanto cose che si fanno portatrici di discorso. Le “cose che parlano” sono in effetti frutto di quella scissione, e insieme sembrano prefiggersi di porvi rimedio.

Peppino Ortoleva

Quaderno di comunicazione 14

alla lezione di Saussure) di qualsiasi radicamento “oggettivo” nella realtà esterna; oppure, attraverso l’ineliminabile soggettività dei discorsi e delle rappresentazioni. Il “triste disincanto del risveglio” non priva solo la giovane donna cui è dedicata la poesia di Schiller del sogno superbo e impossibile di un volo, ma anche la brocca di Efix del suo sonno tranquillo “con le anse sui fianchi”. Ciò che più ci colpisce in una simile espressione è lo scarto fra la concretezza fisica dell’oggetto e le implicazioni empatiche della parola, scarto che invece appare pressoché impossibile da riconoscere nel testo di Grazia Deledda. Nell’epoca del disincantamento, una sorta di pudore o di imbarazzo ci impedisce, da un lato, di credere fino in fondo ai rituali e ai monumenti, dall’altro, di attribuire agli oggetti un senso che non sia legato a una precisa finalità, pratica o retorica. È per effetto di un analogo imbarazzo che risulta quasi ovvio, nell’epoca del disincantamento, scrivere tra virgolette la parola realtà.


I tempi del processo L’espropriazione di fatto delle corporazioni, che la rivoluzione industriale portò con sé, comportò quindi una specifica azione di disincantamento, la separazione della tecnica dai suoi valori simbolici, la separazione dello strumento dalla traditio, l’espropriazione di comunità tenute insieme da complessi cerimoniali di ini-

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ziazione e giuramento. Qui sta la convergenza oggettiva tra la scelta degli enciclopedisti di riprodurre nei Tableaux gli strumenti e i comportamenti propri degli ateliers del tempo (scelta che rendendo pubblici i segreti dei diversi mestieri, e assimilando la tecnica alla scienza, mirava a svincolarla dai canali di trasmissione propriamente tradizionali) e l’azione devastante dell’industrializzazione, che portava con sé l’incorporazione diretta nelle macchine di alcuni dei saperi fin lì gelosamente custodite dalle comunità artigiane. Sul piano filosofico e ideologico, si tratta di due processi distinti, addirittura contrapposti: gli enciclopedisti miravano con la loro opera a riconoscere appieno non solo la dignità ma la centralità culturale delle attività “meccaniche”, mentre l’industrialismo aveva chiaro fin dall’inizio l’intento di ridurre i lavoratori a pure braccia pienamente sostituibili tra loro, come dimostrano le celebri pagine di Adam Smith sulla fabbrica degli spilli. Ma resta il fatto che per entrambi, i “tempi nuovi” e il progresso portavano inevitabilmente con sé la fine dei segreti corporativi, dei riti di iniziazione, del compagnonnage: sistema che avrebbe curiosamente trovato nuova vita con tutt’altre finalità in una corporazione di tutt’altro genere, quella dei “liberi muratori” o massoneria. Ma in generale il disincantamento che priva progressivamente gli strumenti di lavoro degli artigiani e poi degli operai detti “di mestiere” del loro valore simbolico è l’altra faccia del processo che svuota man mano di significato tanti riti antichissimi. È bene comunque evitare periodizzazioni troppo schematiche. Il processo che ha portato al totale assoggettamento delle pratiche produttive alla finalizzazione economico-imprenditoriale, iniziato nell’area nord-atlantica a metà Settecento, ha occupato tutto il secolo successivo e parte del Novecento. In molte aree geografiche e in diversi settori economici è ancora in corso. I moti luddisti (conflitti intorno al controllo delle tecniche più che “contro le macchine”) e poi gran parte delle battaglie sindacali ottocentesche ebbero per oggetto la proprietà, non solo e forse non tanto dei marxiani “mezzi di produzione” in quanto tali, ma anche e soprattutto dei saperi e dei valori simbolici connessi. Non era ancora interamente disincantato il mondo rappresentato in tante fotografie degli anni tra metà Ottocento e prima guerra mondiale, nelle quali i lavoratori dei mutui soccorsi o delle prime leghe sindacali sono in posa ciascuno col suo strumento, esibito come il principale dei segni d’identità; lo stesso mondo che iscrive sulle sue bandiere, insieme con il sole che sorge, la squadra o la cazzuola, la pala o il telaio. E che assume come simbolo quasi religioso (oggi in fondo esoterico come una stella orientale o come la piramide massonica che figura sul dollaro) l’accoppiamento appunto di due strumenti: falce, martello. Strumenti pacifici, che l’immaginazione del Novecento trasformerà in armi per sottolineare un significato conflittuale assente in origine: quando la falce e il martello stavano a rappresentare un incontro, tra campi e officine, come la stretta di mano presente nei simboli di tanti mutui soccorsi rappresentava a sua volta un incontro, fra lavoratori liberi e solidali. Ci vorrà il fordismo, il modello organizzativo più rigoroso inventato finora dal capitalismo industriale (un modello affrettatamente “superato” in Occidente ma tuttora in espansione nel resto del mondo e per nulla scomparso anche da noi) per completare, nelle fabbriche meccaniche, il processo di espropriazione dei saperi tradizionali. “Nelle mie fabbriche chiunque impara a lavorare perfettamente in una settimana” dettava appunto Ford, che poche pagine

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logiche del Novecento, dall’elettrificazione alla digitalizzazione, abbiano dato luogo a processi tecnici definibili come versatili e multiuso. Il carattere “generalmente manuale”, che del resto era caratterizzante anche della definizione aristotelica della tecnica (in quanto la mano, dice nel De anima, è “lo strumento degli strumenti”) appare oggi, invece, decisamente meno cogente di quanto ritenesse Mauss, ad esempio per quelle macchine che presentano interfacce rivolte ad altri organi umani, ad esempio il “comando vocale”. Ma è soprattutto un altro aggettivo che ci colpisce, perché è radicalmente lontano oggi dalla nostra esperienza e dal senso comune. “Tradizionale”, la tecnica? Al contrario, viene da rispondere, è il terreno e il motore della perpetua innovazione che ha modificato e modifica giorno dopo giorno le condizioni di vita dell’umanità contemporanea. Del resto, lungo tutto il corso del Novecento proprio le correnti di pensiero che si dicono “tradizionaliste” hanno trovato nella tecnica uno dei loro maggiori bersagli polemici, e hanno letto nell’avvento della tecnologia moderna l’essenza stessa del nichilismo. Eppure, l’affermazione di Mauss è assolutamente fondata. Non solo nelle società generalmente studiate dagli etnologi, che molti definiscono appunto come società “tradizionali”, ma anche nello stesso mondo occidentale fino al Settecento, i saperi pratici più articolati, quelli appunto che designiamo con il termine tecnica, dal saper fare degli artigiani alle regole della cucina, sono stati per definizione “tramandati”, ovvero parte di una traditio. Sono stati oggetto cioè di un processo di trasmissione solo in parte verbalizzato: in parte comunicati attraverso il fare e vedere (secondo i modelli formativi propri dell’apprendistato, attualmente al centro di ricorrenti nostalgie); in parte depositati nella materialità stessa degli strumenti, “leggibili” dalla mano stessa nella pratica e nell’abitudine. Del resto gli oggetti, regolarmente trasmessi per millenni da una generazione all’altra, sono in tutte le culture parte essenziale del patrimonio tramandato, non meno di quanto lo siano i sistemi simbolici. Lo strumento trasmesso all’interno della comunità artigiana o della famiglia (come ricordano i testamenti fino all’età contemporanea) portava con sé la sedimentazione di pratiche che si erano sviluppate lungo i secoli, e insieme condizionava le pratiche delle generazioni future. Nelle città europee di ancien règime, i sistemi di trasmissione ritenuti, al tempo, più socialmente rilevanti, erano regolati da norme rigide e sottoposti a complessi riti di potere e di passaggio, quelli propri delle gilde: gerarchie quasi castali e pene (anche estreme) applicate a chi tradisse il segreto; riti di iniziazione e cerimonie di affiliazione, accompagnati da giuramenti. E gli strumenti, gli oggetti che di quella tradizione erano il deposito fisico, erano essi stessi al centro di pratiche simboliche e rituali: dal divieto assoluto di toccarli nelle prime fasi dell’apprendistato, alla solennizzazione della consegna.


Il meraviglioso tecnologico A partire da metà Ottocento, non è più tanto la tradizione quanto l’innovazione a dare luogo ai suoi propri riti: oggetto della celebrazione è ora la tecnica in se stessa, non in quanto patrimonio tramandato ma all’opposto in quanto progresso inarrestabile, novità meravigliosa. È l’inizio delle grandi esposizioni da una parte, grandi feste del capitalismo che però non vendono nulla, esaltazione delle macchine nella loro monumentalità e in parte nella loro possibile bizzarria; è l’inizio delle fiere campionarie dall’altra, fiere che mostrano i nuovi oggetti di consumo non a chi li userà ma a chi vorrà farne commercio. La caduta della tradizione e il disincantamento hanno reso possibile l’innovazione e ne sono stati ulteriormente promossi. Che valore intrinseco, magico o meno, può avere ora uno strumento di produzione destinato a essere superato entro pochi anni, un oggetto domestico destinato a essere accantonato come un’anticaglia? Questa esperienza, familiare alle società urbanizzate e industrializzate dell’Ottocento e Novecento, ha subito poi, nell’ultimo venticinquennio, un’ulteriore intensificazione: per effetto dell’accelerazione inesorabile del ritmo dello sviluppo, guidato dai microprocessori e dalla progressione geometrica della loro potenza di calcolo. L’introduzione di nuove macchine sul mercato non solo delle aziende ma anche del consumo privato ha finito con l’assumere così i tempi insieme febbrili e programmati della moda, e la stessa effimera effervescenza.

Gli oggetti e il senso Non è il caso di avere nostalgia del mondo pre-moderno in cui gli oggetti erano ben diversamente “incantati”. Gli illuministi avevano ragione nel pensare che il rendere pubblici i segreti dei mestieri e le pratiche delle diverse corporazioni avrebbe svolto un’opera liberatoria verso la stessa tecnica, espropriando i piccoli gruppi che ne detenevano il monopolio, anche se non prevedevano che si sarebbero introdotte altre forme di appropriazione, più trasparenti ma almeno altrettanto spietate.

Le contraddizioni dell’utilitarismo Comunque, il disincantamento della tecnica e degli oggetti tecnici comporta anche altre implicazioni culturali e di mentalità, spesso sottovalutate. Una di queste è stata ben chiarita, pur senza diretto riferimento a Weber, da uno dei maggiori sociologi della seconda metà del Novecento, Alvin W. Gouldner nel libro La crisi della sociologia: è paradossale il rapporto che la società utilitaristica istituisce col mondo degli oggetti fisici che la circondano. Interessata com’è alle conseguenze dell’operare con gli oggetti, la cultura utilitaristica distrae continuamente l’attenzione dall’oggetto in quanto tale; pertanto gli oggetti non vengono più vissuti come dotati di realtà o di valori intrinseci e permanenti.

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Gli oggetti tecnici, strumenti e macchine, sembrano divenuti ormai oggetti come tutti gli altri, come i vestiti e i tanti gadget che popolano silenziosamente le nostre case. D’altra parte (come si è ricordato), il meraviglioso tecnologico, dalle prime esperienze ingenue connesse alle grandi esposizioni ottocentesche fino alle politiche di lancio e di marketing proprie delle grandi aziende dell’informatica ed elettronica di consumo oggi attive sul mercato globale, si è assunta per oltre un secolo e mezzo il compito di caricare l’oggetto di una sorta di particolare, ed effimero, incantamento ulteriore. È quello che accompagna per l’appunto la novità mai vista. In un’epoca di tecnica senza tradizioni, gli oggetti sembrano sì perdere i significati radicati nelle regole delle comunità artigiane o addirittura in più o meno forti credenze magiche; ma sembrano ritrovare, almeno temporaneamente, un senso per altra via. La promozione della nuova tecnologia, sempre meravigliosa e promettente, porta ad attribuire, agli oggetti che ne sono il prodotto, un’altra forma di magia, la capacità di abbattere barriere che in precedenza erano apparse insuperabili (dalla trasmissione della voce agli aeromobili, dall’intelligenza artificiale alle protesi “perfette”). Al tempo stesso, il mezzo fotografico e i media che ne sono nati, dal cinema alla televisione al video digitale, inseriscono gli oggetti, o meglio la loro immagine bidimensionale, nei racconti alla pari con i personaggi umani, permettendo loro di acquisire di volta in volta connotazioni nuove legate alle storie raccontate dai film o dagli sceneggiati, o ai racconti elementari ma ossessivamente ripetuti degli spot pubblicitari.

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dopo sottolineava “per certi tipi di cervello, il pensare è proprio una pena”, e che avrebbe dichiarato poi con fierezza: “la storia è un’immensa sciocchezza”. E sarà, ancora, lo stesso Ford a fare di una macchina complessa (quella che per noi italiani è stata a lungo “la” macchina per eccellenza) un oggetto di consumo, vendibile e comprabile da chiunque purché avesse il denaro sufficiente e accettasse i modelli e i colori, o il singolo colore, standard. È difficile negare l’interdipendenza esistente tra il processo storico che ha portato alla fine delle forme di trasmissione per tradizione del sapere tecnico, e quello che ha fatto della macchina un oggetto di consumo. Non c’è dubbio, d’altra parte, che lo svincolamento della tecnica dalla tradizione abbia avuto, insieme all’effetto di espropriare antiche comunità, anche conseguenze liberatorie. Con la rivoluzione industriale si apre l’età dell’innovazione: la tecnica da “tradizionale” diventa insieme oggetto e veicolo di processi ricorrenti di cambiamento. L’impresa trae la propria legittimità ideologica e la propria redditività dall’assumersi il “rischio” connesso con l’introduzione di nuovi processi produttivi e di nuove cose da vendere, e il mondo si affolla di strumenti che non sono tramandati e non sono oggetto di alcun rito (anzi, possono essere sentiti come distruttori dei riti comunitari pre-esistenti) e di nuove cose, più o meno tecnicamente complesse, da consumare nel tempo come i vestiti. È appunto in un mondo disincantato, del resto, che si è imposta la peculiare dinamica, propria delle società contemporanee, della moda: il sistema cioè che nel corso del tempo rende “attuali” o “inattuali” gli oggetti e le loro fogge, in modo apparentemente del tutto arbitrario, ma in realtà soggetto sia a processi di cambiamento storico di lunga durata sia a una logica ciclica sul più breve periodo.


è la pietra angolare dell’azione umana e le abitudini si formano in massima parte sotto l’influenza delle consuetudini di un gruppo. Per struttura organica l’uomo è fatalmente soggetto alla formazione di abitudini; infatti che lo si voglia o no, che se ne sia consapevoli o no, ogni atto determina un mutamento di atteggiamento e di tendenza, che regola la condotta futura. Le abitudini ci costringono ad agire in modo ordinato e stabile: le cose alle quali siamo abituati determinano infatti in noi un senso di tranquillità, ci danno la sensazione di essere abili e ci interessano (...). L’abitudine non preclude l’uso del pensiero, ma determina le vie entro le quali esso opera. Il pensiero è confinato negli interstizi delle abitudini.

La produzione produce il consumo Il nostro rapporto comunicativo con gli oggetti (in particolare con gli oggetti tecnici) assume così un carattere ciclico. Pensiamo per esempio al caso emblematico del computer Macintosh. Il suo lancio, con il celebre costosissimo spot trasmesso durante la finale della World Series del 1984, mirava a creare il massimo della suspense, dell’attesa. Il tema era “È finita l’epoca del grande fratello, arriva la macchina che ci libererà tutti”. Ma chi decise di acquistarla si accorse subito di avere davanti una macchina fatta per ottenere il massimo di user friendliness, per-

[La produzione] fornisce al consumo il materiale, l’oggetto. Un consumo senza oggetto non è un consumo; per questo verso, quindi, la produzione crea, produce il consumo (...). Ma non è soltanto l’oggetto che la produzione procura al consumo. Essa dà anche al consumo la sua determinatezza, il suo carattere, il suo finish. Allo stesso modo che il consumo dava al prodotto il suo finish come prodotto, la produzione dà il suo finish al consumo. Insomma, l’oggetto non è un oggetto in generale, ma un oggetto determinato, che deve essere consumato in un modo determinato, in un modo che a sua volta dev’essere mediato dalla produzione stessa. La fame è fame, ma la fame che si soddisfa con carne cotta, mangiata con coltello e forchetta, è una fame diversa da quella che divora carne cruda, aiutandosi con mani, unghie e denti. Non è soltanto l’oggetto del consumo dunque a essere prodotto dalla produzione, ma anche il modo di consumarlo, non solo oggettivamente, ma anche soggettivamente. La produzione crea quindi il consumatore (...). La produzione fornisce non solo un materiale al bisogno, ma anche un bisogno al materiale. Quando il consumo emerge dalla sua immediatezza e dalla sua prima rozzezza naturale (...) esso stesso come propensione è mediato dall’oggetto. Il bisogno che se ne avverte è creato dalla percezione dell’oggetto steso. L’oggetto artistico – e allo stesso modo qualsiasi altro prodotto – crea un pubblico sensibile all’arte e capace di godimento estetico. La produzione produce perciò non soltanto un oggetto per il soggetto, ma anche il soggetto. La produzione produce quindi il consumo 1) creandogli il materiale; 2) determinando il modo di consumo; 3) producendo come bisogno nel consumatore i prodotti che essa ha originariamente creato come oggetti.

Il processo produttivo costruisce il consumo e condiziona la percezione dell’oggetto: questa, nell’enunciazione di Marx, non sembra una regola specifica di un singolo “modo di produzione”, ma un dato generale. L’immediatezza del rapporto tra il consumatore e l’oggetto è, ed è sempre stata, solo apparente, e nasconde (ancora un effetto del feticismo della merce?) la determinazione e la mediazione operate dalla produzione. Nel capitalismo però questo processo diventa organico e strutturale. La costruzione del consumo e del consumatore diventano attività sistematiche e organizzate come lo è divenuta la produzione per mezzo dei macchinari. La produzione di massa ha bisogno di bisogni di massa, e non si limita a determinarli oggettivamente, come accadeva anche in passato, li costruisce in modo pianificato. Nessun moralismo, comunque, nel discorso di Marx: la costruzione del bisogno da parte dell’industria non è un inganno, non porta con sé l’imposizione di esigenze “inauten-

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ché ci dimenticassimo il prima possibile di stare usando il computer e perché la si adottasse come se fosse un prolungamento dell’utente. La meraviglia e l’ammirazione andavano bene per il lancio e per l’induzione all’acquisto, ma la vera penetrazione sul mercato, l’adozione da parte di milioni di utenti, richiedeva l’esatto contrario, una semplificazione e una banalizzazione, una macchina altrettanto facile da usare della cucina a gas. L’esempio appena discusso parla del nostro tempo, e della macchina per eccellenza di questa fase del capitalismo, il computer. Ma la dialettica che l’esempio mette in luce, tra la meraviglia e l’abitudine, tra il messaggio che vende l’oggetto e quello che l’oggetto porta con sé nella quotidianità del consumo, si è costruita nel corso di una storia ben più articolata. Per comprenderla, torniamo indietro nel tempo, a una pagina dei Grundrisse di Marx:

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In una società di questo genere siamo circondati da un numero crescente di oggetti, di tutti i generi, che però “vediamo” sempre meno: in parte perché sono intercambiabili e, per usare un termine giuridico, “fungibili”; un po’ per la loro stessa abbondanza e varietà; un po’ per effetto di quella riduzione dell’oggetto stesso alla sua funzione che è alla base di quello che Gouldner definisce “utilitarismo”. Il disincantamento del mondo e il trionfo dell’utilitarismo coincidono, come abbiamo visto a proposito di Ford, con il periodo storico in cui le macchine, che in precedenza erano una realtà rara e spettacolare nella sua stessa esistenza (i “teatri delle macchine” le dipingevano in modi simili a quelli propri degli animali fantastici) si sono venute banalizzando e sono entrate prima nella vita quotidiana dei lavoratori, poi in quella delle loro famiglie. Si sono così scissi due momenti: quello in cui una macchina nuova si presenta per la prima volta sulla scena, che è un momento di meraviglia nel quale l’incantamento ancora per un attimo sopravvive, legato alle novità, al fascino, alla sorpresa; e poi il momento in cui entra nell’abitudine, e inevitabilmente si banalizza. Si è separato il momento in cui la tecnologia, nuova e carica di potenzialità ancora inattuate, appartiene all’universo dei significati più che delle pratiche (e in effetti attira l’attenzione dei sacerdoti odierni del significato, gli scienziati sociali), da quello in cui, inseritasi effettivamente nella vita delle persone, diventa letteralmente (e ingannevolmente) insignificante in quanto il senso comune la riduce ai fini immediati a cui viene adibita. Ingannevolmente insignificante, sottolineiamo: perché ciò che è divenuto abitudine si sottrae alla visibilità decretata dai media e al fascino che (tanto più nel nostro tempo) è proprio soprattutto del nuovo, ma entra in un ambito per molti versi più rilevante nella realtà dell’esperienza vitale. “L’abitudine”, ha scritto, sulle orme dei Principles of Psychology di William James, il filosofo novecentesco più attento al problema dell’esperienza, John Dewey,


Seduzione, rassicurazione, adozione La costruzione del consumatore richiede a questo punto non solo la pianificazione dei bisogni (che con lo sviluppo della pubblicità entra a far parte delle spese fisse della grande industria) ma qualcosa di più: la pianificazione di diverse fasi del comportamento del consumatore. Occorre prima di tutto fare emergere il bisogno ma anche dare all’oggetto tutto il valore simbolico di una risposta al bisogno stesso. La macchina infatti non si limita a integrare l’azione del consumatore, in parte la sostituisce con la sua attività, si pone quindi in qualche misura come “soggetto” agente, col rischio di creare forme di insicurezza, o addirittura sensi di colpa. L’ingresso della macchina nella vita quotidiana viene quindi preceduto e accompagnato da una serie di messaggi, destinati ad affascinare, a rassicurare, a insegnare. La seduzione mette in scena il bisogno e insieme esalta le potenzialità dell’oggetto. La rassicurazione, quasi per compensare e delimitare l’effetto seduttivo, sottolinea la sottomissione dell’oggetto stesso, ne fa un servo perennemente disponibile rovesciando i modi in cui la macchina è stata percepita nel secolo successivo alla rivoluzione industriale, come strumento che asserve gli umani, Non a caso, la metafora del genio della lampada, onnipotente e schiavo insieme, è una delle più abusate del Novecento. Ma tutto questo non basta: è necessario l’apprendimento, la parte potenzialmente più faticosa e frustrante del processo. Ecco allora che vengono messe in atto diverse strategie per rendere l’apprendimento meno faticoso e più attraente: dalla riduzione dei suoi tempi attraverso la user friendliness, alla creazione di un alone di glamour attorno all’attività dell’imparare, come è avvenuto ad esempio per oltre un secolo nel campo della fotografia, con la promozione delle pratiche amatoriali. La più delicata attività di apprendimento necessaria a fare uso di un oggetto di consumo è quella che porta a “prendere la patente”, non a caso nel corso di un secolo si è venuta identificando in un rito di passaggio sostitutivo dei riti perduti di passaggio all’età adulta.

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Chi ha progettato questa progressiva identificazione della patente con il passaggio allo stato adulto, o comunque alla relativa autonomia personale? Se cerchiamo un singolo soggetto pianificatore siamo evidentemente fuori strada; se però pensiamo che sia stato un fenomeno totalmente spontaneo lo siamo altrettanto. Le strategie di marketing delle grandi case automobilistiche (che hanno fatto dell’auto il simbolo steso della libertà personale e dell’emancipazione dei soggetti in precedenza sottomessi), le scelte dei governi in materia di motorizzazione, i grandi processi che hanno posto l’adolescente come soggetto problematico al centro della cultura di massa hanno dato tutti il loro contributo. Non siamo di fronte a un “dispositivo” impersonale ma neppure a un atto soggettivo, e neanche, secondo una metafora da qualche tempo abusata, a un “negoziato” quasi che i diversi soggetti citati conducessero una consapevole trattativa. Siamo di fronte a un processo storico.

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tiche” contro pretese esigenze “naturali”, come vuole tanto pensiero anticonsumistico. Il processo che i Grundrisse descrivono è una realtà storica, e un ritorno a qualsiasi pretesa “naturalità” è futile. Quello che Marx non fece in tempo a vedere, e che il marxismo (con poche eccezioni) non ha mai capito a fondo, è la fase ulteriore, che ha occupato gli ultimi decenni dell’Ottocento e il Novecento. Quando la macchina diviene merce di massa, ci troviamo di fronte non solo a un bene di consumo durevole, ma a un bene di consumo portatore di un “suo” programma, che non si limita a “determinare il modo di consumo” attraverso le possibilità che concede o meno a chi lo usa (l’affordance che Donald Norman deriva dalla psicologia della percezione visiva di James J. Ginson) ma richiede un vero e proprio processo di apprendimento e impone proprie norme al consumatore. La privatizzazione e domesticizzazione dell’uso delle macchine costituiscono un processo di grandissima portata, ma in parte ingannevole, che rischia di nascondere l’altro processo parallelo, la fortissima standardizzazione delle pratiche d’uso, imposta non solo dal finish del prodotto ma anche dalle regole tecniche che la macchina porta con sé.


Stefano Rodotà Il corpo e il post-umano

1. Il corpo, dunque il luogo per definizione dell’umano, ci appare oggi come l’oggetto dove si manifesta e si compie una transizione che sembra voler spossessare l’uomo del suo territorio, appunto la corporeità, facendolo “reclinare” nel virtuale (Krocker, Weinstein 1995, p. XI) o modificandone i caratteri in forme che non da oggi fanno parlare di trans-umano o di post-umano. Una nuova, ed estrema, versione de “l’homme machine”1, di antiche utopie, speranze, angosce? Se si percorrono i mille sentieri di internet, ci si imbatte in definizioni di ciò che sarebbe transumano (“il movimento intellettuale e culturale che afferma la possibilità e la desiderabilità di migliorare in maniera sostanziale la condizione umana attraverso la ragione applicata, usando in particolare la tecnologia per eliminare l’invecchiamento ed esaltare al massimo le capacità intellettuali, fisiche e psicologiche”) e in entusiastiche tavole sinottiche che propongono comparazioni tra il corpo del XX secolo e quello del XXI, che vedrebbero quest’ultimo non solo liberato dall’invecchiamento e dai limiti imposti dall’attuale sua struttura, ma addirittura svincolato dalla “corrosione indotta da irritabilità, invidia, depressione” e proiettato verso un “turbocharged optimism”. Conviene, allora, ampliare l’area dei riferimenti e della riflessione, e ricordare almeno quel che Bacone, nel 1627, scriveva nella Nuova Atlantide, parlando di “prolungare la vita; ritardare la vecchiaia; guarire le malattie considerate incurabili; lenire il dolore; trasformare il temperamento, la statura, le caratteristiche fisiche; metamorfosi di un corpo in un altro; fabbricare nuove specie; creare nuovi alimenti” (v. Hottois 2006, p. 69). Possiamo dire che l’intera prospettiva è già delineata e, con essa, i problemi che apre2? Tra questi spicca subito la questione della portata, e del destino, di alcuni diritti fondamentali, non a caso storicamente identificati come diritti “dell’uomo” o diritti “umani”, che proprio nella natura umana troverebbero il loro fondamento, primo fra tutti quello all’“integrità fisica e psichica” di cui, da ultimo e con particolare intensità, parla l’articolo 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. La transizione verso una condizione post-umana o trans-umana farà progressivamente scolorire questi diritti? Affrontando il tema dell’integrità, la Carta indica quattro principi di riferimento, che riflettono orientamenti largamente diffusi: consenso dell’interessato, divieto di fare del corpo oggetto di profitto, divieto dell’eugenetica di massa, divieto


2. La debolezza di proclamazioni perentorie è rivelata proprio dalla discussione istituzionale intorno ai diritti relativi al patrimonio genetico, che può essere considerata come un caso particolarmente adatto a chiarire concretamente alcuni problemi prima individuati. Il timore di impropri interventi sul genoma spiega perché si sia parlato di un “diritto di ereditare caratteri genetici che non abbiano subito alcuna manipolazione” come diritto fondamentale della persona fin dal 1982, anno in cui il Consiglio d’Europa adotta la Raccomandazione 934 (82). E la stessa preoccupazione è all’origine della formula contenuta nell’articolo 1 della Dichiarazione universale sul genoma umano e i diritti dell’uomo dell’UNESCO, votata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel dicembre 1997: il genoma umano, “in senso simbolico, è patrimonio dell’umanità”. L’assolutezza di queste affermazioni è mitigata fin dall’origine già nella Raccomandazione del Consiglio d’Europa, dove si precisa che “il riconoscimento esplicito” di un diritto a un patrimonio genetico non manipolato “non deve contrapporsi al perfezionamento di applicazioni terapeutiche dell’ingegneria genetica (terapia dei geni), gravida di promesse per il trattamento e l’eliminazione di alcune patologie trasmesse per via genetica”. Si delinea, dunque, un diritto di ricorrere a tecniche che evitino la trasmissione ai figli di malattie ereditarie, esplicitamente riconosciuto dall’articolo 3 di quella che certamente è la legge più severa in materia, l’Embryonenschutzgesetz tedesco del 1990, dove si riconosce la legittimità della selezione degli spermatozoi quando ciò consenta di evitare appunto l’insorgenza di una malattia collegata al sesso del nascituro, limitatamente ai casi della distrofia muscolare o di altre malattie genetiche riconosciute “come affezioni gravi dalla au-

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torità competente designata dalla legge dei Länder”. Una conferma ulteriore viene dalla Francia, dov’è stata esplicitamente riconosciuta la legittimità della diagnosi preimpianto, la cui funzione, tra l’altro, è appunto quella di rendere possibili accertamenti volti a evitare la trasmissione di malattie genetiche. Partendo da questa premessa, anche in altri paesi, come la Gran Bretagna, è stata consentita la scelta del sesso del nascituro, seguendo una logica che ha anche la funzione di rassicurare i futuri genitori, eliminando le angosce su eventuali malformazioni del feto che spesso inducono a interrompere la gravidanza. Si pone a questo punto, legittimamente, l’interrogativo riguardante la possibilità di desumere un diritto di nascere sano dalla disponibilità di tecniche di accertamento precoce di rischi di trasmissione di malattie genetiche attraverso la diagnosi prenatale e preimpianto. La “manipolazione positiva” come diritto del nascituro? Un obbligo dei genitori di compiere tutti gli accertamenti possibili? O questo tipo di conflitto deve essere risolto all’origine da norme espresse, attribuendo importanza decisiva al fatto della nascita ed escludendo, quindi, un diritto d’azione dei nati nei confronti dei genitori? Più complessa è la riflessione aperta dalla Dichiarazione sul genoma. Il ricorso a una formula come “patrimonio dell’umanità”, sia pure temperato dalla sottolineatura del suo significato simbolico, non può essere interpretato come affermazione di una sorta di diritto attribuito a qualche soggetto collettivo, diverso dai singoli interessati, a disporre del genoma. Non è la prima volta che si parla di “patrimonio dell’umanità” o – con ulteriore, ma non decisiva specificazione – di “patrimonio comune dell’umanità”, e con questa espressione si è voluto escludere che i beni costituenti tale “patrimonio” possano essere oggetto di appropriazione5. Trasportato nel contesto qui considerato, il riferimento al “patrimonio” ha la funzione di escludere la legittimità di interventi autoritativi di qualsiasi genere sul genoma umano che, in questo modo, finisce con l’assumere un valore fondativo della persona, con una esplicita associazione tra “genoma” e “umanità” che, tuttavia, apre l’ulteriore problema di quale sia il soggetto legittimato a parlare in nome, appunto, dell’umanità. Questo punto può essere meglio chiarito tornando alle indicazioni della Raccomandazione 934 (82) del Consiglio d’Europa, dove l’affermata legittimità degli interventi volti a evitare la trasmissione di malattie genetiche consente di leggere nella giusta chiave il riferimento al diritto di ereditare caratteri genetici non manipolati. Di nuovo siamo di fronte a una formula che intende porre il soggetto al riparo dall’eugenetica di massa e alla totale strumentalizzazione della persona che questa comporta. Lungo questa linea si è ora posto l’articolo 3.2 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, che prevede “il divieto delle pratiche eugenetiche, in particolare di quelle aventi come scopo la selezione delle persone”, con riferimento fin troppo trasparente a qualsiasi politica eugenetica, dunque perseguita anche con mezzi diversi dagli interventi genetici in senso stretto, e caratterizzata sempre da forme di programmazione a sfondo razzista6. Si pone esplicitamente, a questo punto, il difficile problema dei limiti entro i quali, invece, può essere ammessa l’eugenetica individuale. Sembrerebbe che una indicazione interpretativa rilevante possa essere ricavata dal riferimento alla nozione di “malattia” contenuto nella Raccomandazione 934 (82). Ma anch’essa, da un canto, è nozione squisitamente culturale, dunque non solo variabile, ma rimessa a

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della clonazione riproduttiva. Secondo queste indicazioni, dunque, l’umano sarebbe incompatibile con la serialità, irriducibile alla logica di mercato e, soprattutto, esigerebbe piena autonomia di decisione da parte di ciascun interessato. Questa è una conclusione vicina a quella alla quale giungono anche studiosi che guardano con fiducia quasi illimitata alle nuove opportunità offerte da scienza e tecnologia, sottolineando però che l’accettabilità sociale del transumanismo, in un ambiente democratico, dipende dalla capacità di garantire la sicurezza delle tecnologie, la loro accessibilità a tutti in condizioni di eguaglianza, il rispetto del diritto di ciascuno di governare liberamente il proprio corpo (Hughes 2004). Peraltro, questa era la prospettiva indicata dallo studioso al quale si attribuisce l’introduzione del termine “transhumanism”, Julian Huxley, il quale nel 1927 scriveva che “forse il transumanismo servirà: l’uomo rimarrà uomo, trascendendo però se stesso e realizzando così nuove possibilità per la sua propria natura umana”3. Questa prospettiva è completamente rovesciata da quanti scorgono nelle trasformazioni del corpo addirittura un crimine contro l’umanità quando si manifestano nella forma della clonazione o delle modificazioni genetiche trasmissibili (Annas, Andrews, Isasi 2002)4. Una prospettazione così enfatica rischia di distorcere l’analisi, dal momento che trasferisce la questione sull’assai problematico terreno dei crimini contro l’umanità, rendendo così più difficile la legittima discussione intorno agli indispensabili limiti agli interventi sul corpo. Ponendo, inoltre, sullo stesso piano la clonazione riproduttiva e le modificazioni trasmissibili del genoma, si trasforma in questione ideologica un tema che, al contrario, esige distinzioni e attenzione particolare per il fondamentale diritto alla salute.


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lo 3.1 della Carta dei diritti fondamentali, dove si parla dell’“integrità fisica e psichica” appunto come di un diritto fondamentale della persona. Come si deve affrontare, allora, il tema dell’eugenetica individuale nel quadro delineato da queste definizioni e da questi principi8? Per rispondere a questo interrogativo, si può ricordare un caso concreto, avvenuto qualche tempo fa, quando l’attenzione per questi problemi era assai meno acuta di oggi, e per questo rimasto sostanzialmente in ombra. Una donna nera, in Italia, ha deciso di ricorrere alla fecondazione con gameti di una donatrice, pur non essendo sterile. Gli ovuli donati da una donna bianca sono stati fecondati con il seme del compagno della donna nera, e quindi impiantati nell’utero di quest’ultima, che ha portato a compimento la gravidanza. La spiegazione di questa scelta assume tinte drammatiche. La madre ha deciso di rinunciare al legame biologico con il proprio figlio per assicurargli una maggiore accettazione sociale in una società di bianchi. Il richiamare l’attenzione sui modelli culturali non è estraneo all’analisi giuridica. Proprio la loro considerazione, infatti, consente di mostrare l’inadeguatezza della distinzione tra eugenetica di massa ed eugenetica individuale nel momento in cui si pone il problema del se e del come tracciare un confine tra interventi vietati e interventi leciti. L’esistenza di modelli culturali diffusi, a loro modo normativi, può produrre effetti complessivi per certi versi assimilabili a quelli dell’eugenetica di massa, quando quei modelli risultano determinanti nel condizionare l’insieme di scelte individuali che contribuiscono a connotare nel suo complesso l’organizzazione sociale. L’amplificazione dei modelli attraverso la pubblicità e le forti pressioni del mercato determinano una loro intensa penetrazione sociale, creando le condizioni propizie a una progressiva restrizione delle aree dove continua a operare la “lotteria genetica”, via via che si diffondono e si banalizzano gli strumenti che rendono possibile l’intervento della genetica. Peraltro, il crescente ricorso ai test genetici rende ineludibile l’interrogativo riguardante una possibile e invalicabile frontiera, oltre la quale la scelta individuale deve lasciare che operi unicamente il caso. Il problema diventa così quello della individuazione delle tecniche necessarie per tracciare con nitidezza un confine. Invalicabile, dal punto di vista oggettivo, è apparso il confine dell’unicità stessa della persona, con il conseguente divieto della clonazione riproduttiva previsto, su scala internazionale, dal Protocollo aggiuntivo alla Convenzione europea sulla biomedicina e dall’articolo 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Illegittime, dal punto di vista dei soggetti che possono metterle in atto, sono state ritenute tutte le pratiche eugenetiche di massa, nel senso già analizzato. Ambiguo e non decisivo, per le sue connotazioni culturali, si presenta il ricorso al concetto stesso di malattia. Sembra delinearsi un contesto istituzionale caratterizzato dalla possibilità di disciplinare in modo compiuto soltanto situazioni ritenute estreme (clonazione riproduttiva, eugenetica di massa), rimanendo affidate piuttosto a una valutazione casistica, e culturalmente determinata, la valutazione d’ogni altra ipotesi. Questo implica una valutazione di inopportunità, o di inefficacia o di possibile rifiuto sociale, delle pure tecniche giuridiche di divieto di specifici comportamenti, soprattutto se non inserite in un adeguato contesto culturale e istituzionale.

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valutazioni storicamente determinate e anche a percezioni soggettive. Il ricorso a essa, d’altra parte, può condurre a effetti imprevisti, che debbono essere attentamente valutati. L’articolo 3 dell’Embryonenschutzgesetz, già ricordato, individua tassativamente (in maniera diretta o per relationem) le malattie genetiche che rendono ammissibile la selezione del sesso del nascituro. Questa tecnica è volta a limitare in modo rigoroso le ipotesi in cui può essere legittimamente esercitato un diritto di scelta, imponendo di affidare tutte le altre al gioco del caso o alla logica della natura, per evitare utilizzazioni ritenute socialmente o eticamente inammissibili. Questa sembrava la via maestra da seguire, tanto che nel 1988 il Parlamento Europeo approvava una Risoluzione sui problemi etici e giuridici della manipolazione genetica (Doc. A 2-327/88) con la quale dichiarava di attendersi “l’elaborazione di un catalogo chiaro e disciplinato giuridicamente delle malattie ereditarie per cui si possa eventualmente ricorrere a questo tipo di terapia, catalogo che verrà rivisto periodicamente conformemente ai progressi della scienza medica” (n. 24). E si caldeggiava anche “un riesame dei concetti di malattia e di malattia ereditaria per evitare il rischio che semplici deviazioni dalla normalità genetica vengano definite a livello medico quali malattie o tare ereditarie” (n. 25). La tecnica dell’elencazione tassativa appare oggi sostanzialmente abbandonata, sì che, ad esempio, la Convenzione del Consiglio d’Europa per la tutela dei diritti dell’uomo e della dignità dell’essere umano rispetto alle applicazioni della biologia e della medicina (Convenzione sui diritti dell’uomo e la biomedicina) si limita ad affermare che “l’utilizzo delle tecniche di assistenza medica alla procreazione non è ammesso per la scelta del nascituro salvo che al fine di evitare una malattia grave ereditaria legata al sesso” (articolo 14). Quella tecnica, in realtà, può produrre un effetto che va nella direzione esattamente opposta a quella che ne aveva giustificato l’adozione. Infatti, l’inserimento di una malattia in un elenco che individua quelle per le quali è legittimo il ricorso all’ingegneria genetica, produce un doppio effetto: uno di legittimazione/divieto, l’altro di stigmatizzazione. Dall’elenco, infatti, si desume ben più che la valutazione di liceità di interventi per specifiche malattie, e dunque anche di illiceità di tutti gli altri. La lista delle malattie, predisposta per evitare interventi puramente eugenetici, potrebbe essere percepita dalla collettività come la individuazione di casi in cui è ritenuto socialmente necessario (o almeno opportuno) intervenire, trasformandosi così in un incentivo a ricorrere comunque alla genetica nei casi ammessi, per eliminare non tanto un fattore di rischio, quanto piuttosto un elemento che può produrre stigmatizzazione sociale. Gli elenchi possono così assumere un valore sostanzialmente prescrittivo, individuando un modello di normalità genetica e capovolgendo l’originaria loro funzione, che dovrebbe essere proprio quella di respingere ogni tentazione in questa direzione. Trasformato in modello culturale, l’elenco, nei casi in cui non si ricorresse all’intervento, potrebbe fondare, consciamente o no, una discriminazione o una stigmatizzazione sociale dei portatori di quelle malattie7. Abbandonata la tecnica dell’elenco, non sono certo risolte le questioni che con essa si volevano affrontare. Le opportunità offerte dalla genetica, infatti, devono essere valutate in un quadro in cui la salute viene definita, secondo i criteri del’Organizzazione mondiale della Sanità, come “stato di completo benessere fisico, psichico e sociale”. Una definizione, questa, che viene riecheggiata dall’artico-


3. Il riferimento alla normalità indica un’altra, ineludibile questione da considerare nell’ambito della discussione sul post-umano, insieme a quelle dell’eguaglianza e della dignità. Come già si è accennato, l’accettabilità della transizione verso il post-umano è stata subordinata al rispetto dell’eguaglianza e dell’autonomia delle persone, condizioni ineliminabili in sistemi fondati sulla democrazia e il rispetto dei diritti fondamentali. Dignità, eguaglianza, autonomia, normalità s’intrecciano: nessuna tra esse può essere ignorata, o sacrificata. Riandando sinteticamente ad alcuni dei temi in discussione, si può ben dire che in essi si manifestano le preoccupazioni e le angosce che, in forme estreme, hanno accompagnato le distopie riguardanti il corpo, e i destini individuali e collettivi che a esso si associano, da Il mondo nuovo di Aldous Huxley (1932) fino a Non lasciarmi di Kazuo Ishiguro (2005). Ma si tratta pure di preoccupazioni che, depurate appunto dalle prospettazioni estreme, non possono essere eluse, tanto che compaiono anche in contributi di studiosi che convintamene lavorano nella prospettiva del post-umano.

Ritorna il conflitto tra vecchio e nuovo mondo, uno che si tinge con i colori della nostalgia, l’altro portatore di un progresso che sembra voler prendere definitivamente congedo appunto dall’umano. Ma è questa l’unica rappresentazione possibile, o la più corretta? Molto di ciò che noi cataloghiamo ormai nella categoria del post-umano ha le sue origini nel bisogno di uscire dalle strettoie di un vecchio mondo dove la natura era pure “matrigna”, condannando alla malattia, alla sofferenza, all’ereditarietà dannosa. Non siamo soltanto di fronte a tentativi di acquisire nuove capacità, o di ampliare a dismisura quelle già possedute, ma di “riammettere” in una sorta di normalità naturale le persone che ne sono state o possono esserne escluse. La sperimentazione degli impianti nel corpo per recuperare o ottenere vista e udito, per governare protesi, per controllare le manifestazioni dell’Alzheimer deve essere valutata da questo punto di vista, così come le opportunità offerte dalla genetica per evitare la trasmissione di determinate malattie. Sappiamo bene che l’argomento del “pendio scivoloso” troppe volte nasconde l’incapacità o la non volontà di affrontare con mezzi adeguati le sfide del futuro. E sappiamo anche che il chiudersi in un conservatorismo senza sbocchi rischia di provocare reazioni che possono legittimare, insieme alle innovazioni sicuramente positive, anche quelle che un argomentare più razionale avrebbe potuto opportunamente limitare o escludere del tutto. Il vero problema culturale e istituzionale è quello di valutare fino a che punto si è di fronte a vere discontinuità, che segnano un congedo da un altro mondo, e dove, invece, è possibile e necessario mantenere una continuità che consenta quel trascendere dell’umano di cui parlava Julian Huxley, impedendo così la nascita di un “doppio standard” nella considerazione dell’umano e del post-umano. È dunque corretta la preoccupazione di chi segnala il rischio di una svalutazione dell’umano per effetto di una percezione del post-umano come portatore di un valore più forte, aprendo la via a un conflitto, addirittura a una “guerra”, tra umani e post-umani (v. Bostrom 2005, pp. 202-214). Un conflitto, evidentemente, che nasce sul terreno dei valori di riferimento e che può essere evitato solo se si ha la capacità di mantenere fermi, e di proiettare nel futuro, i principi prima ricordati di dignità, eguaglianza, autonomia. Qui si può e si deve costruire una continuità forte. Per cercare di vedere come sia possibile tradurre queste indicazioni generali in proposizioni concrete, giova un rapido esame di un parere approvato il 16 marzo 2005 dal Gruppo europeo per l’etica delle scienze e delle nuove tecnologie, dedicato appunto agli “Aspetti etici dei dispositivi ICT impiantabili nel corpo umano” e che procede a una ricognizione puntuale delle diverse possibili modalità di intervento9. Ci si chiede, infatti, “in che misura questi dispositivi sono da considerarsi parte di ciò che si potrebbe chiamare ‘progetto corporeo’, ricomprendendovi la personale e libera progettazione delle proprie abilità fisiche e intellettuali (eventualmente potenziate)”. Per rispondere a questa domanda, si disegna un analitico

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Mentre ti osservavo ballare quel giorno, ho visto qualcos’altro. Ho visto un nuovo mondo che si avvicinava a grandi passi. Più scientifico, più efficiente, certo. Più cure per le vecchie malattie. Splendido. E tuttavia un mondo duro, crudele. Ho visto una ragazzina, con gli occhi chiusi, stringere al petto il vecchio mondo gentile, quello che nel suo cuore sapeva che non sarebbe durato per sempre, e lei lo teneva fra le braccia e implorava, che non la abbandonasse (p. 276).

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Una analisi delle reazioni sociali rispetto ad alcune possibilità offerte dalla tecnica ha indotto a conclusioni prudentemente ottimistiche, come accade a proposito della conoscenza precoce del sesso del nascituro che non è stata accompagnata da un rafforzamento degli stereotipi negativi nei confronti delle donne, come dimostra il fatto che la scelta dell’aborto non trova, nelle nostre culture, alcuna significativa motivazione nell’annuncio che nascerà una femmina. Vero è che in India è stato generalizzato il divieto di rendere noto ai genitori il sesso del nascituro proprio per evitare l’aborto selettivo delle femmine. In questo caso, però, appare evidente che il ricorso alla regola giuridica e alla tecnica del divieto viene ritenuto necessario proprio per rimuovere un modello culturale, la cui definitiva cancellazione è tuttavia affidata a un mutamento della condizione della donna nella società indiana. Dovendo fare i conti con modelli culturali non confinati nel passato, ma incessantemente prodotti, la strategia giuridica deve tendere a creare un ambiente socio-istituzionale in grado di neutralizzare, o di ridurre il più possibile, ricadute negative, o comunque ritenute tali, del ricorso alla genetica. Questo implica, anzitutto, un rifiuto radicale di ogni parametro di normalità genetica, la messa a punto di modelli giuridici di accettazione della diversità, uno statuto forte dell’informazione genetica. La dipendenza da modelli culturali impositivi di particolari caratteristiche fisiche può essere ridotta se, anzitutto, vengono previste garanzie precise per quanto riguarda la raccolta dei dati genetici; la loro circolazione, e in particolare la loro comunicazione ai diversi interessati; l’utilizzazione da parte di soggetti che perseguono finalità puramente economiche. In sostanza si deve garantire che l’avere particolari caratteri genetici non produca discriminazioni o stigmatizzazioni. Assumono così specifico rilievo quelle definizioni della privacy che mettono appunto l’accento sulla “tutela delle scelte di vita contro ogni forma di controllo pubblico e di stigmatizzazione sociale” (Friedman 1990, p. 184), in un quadro caratterizzato dalla “libertà delle scelte esistenziali” (Rigaux 1990, p. 167). Siamo così di fronte a una precisazione del campo dell’azione giuridica e dei diritti della persona che investe, al tempo stesso, la definizione della sua identità e le modalità delle sue relazioni personali e sociali.


La totale riduzione del corpo a macchina non alimenta soltanto la propensione a trasformarlo sempre di più in strumento che rende possibile un controllo continuo della persona. Questa viene espropriata del suo corpo e, attraverso ciò, della sua stessa autonomia. Il corpo passa nella disponibilità di soggetti diversi. Ma quale può essere il destino dell’individuo spossessato del proprio corpo10?

a) l’esistenza di un rischio riconosciuto attualmente come elevato, ma incerto, in relazione anche alle più semplici forme di dispositivi ict impiantabili nel corpo umano, esige l’applicazione del principio di precauzione. In particolare, devono essere distinti gli impianti attivi da quelli passivi, quelli reversibili da quelli irreversibili, quelli che lasciano la persona offline da quelli che la mettono on line; b) il principio di finalità impone almeno una distinzione tra finalità sanitarie e finalità di altro genere. Tuttavia, anche le utilizzazioni mediche devono essere valutate con rigore e in modo selettivo, anche per evitare che possano essere poi invocate per legittimare altre forme di utilizzazione; c) il principio di necessità porta a escludere la legittimità di dispositivi ict impiantabili volti unicamente alla identificazione dei pazienti, quando essi possono essere sostituiti da strumenti meno invasivi e altrettanto sicuri; d) il principio di proporzionalità porta a escludere la legittimità di impianti come quelli utilizzati, ad esempio, al solo fine di consentire un più agevole ingresso in locali pubblici; e) il principio di integrità e inviolabilità del corpo esclude la possibilità di ritenere che il solo consenso dell’interessato sia sufficiente per rendere possibile qualsiasi tipo di impianto; f) il principio di dignità si oppone alla trasformazione del corpo in un oggetto manipolabile e controllabile a distanza, in puro fornitore di informazioni.

Che cosa accade, però, quando si passa da un miglioramento finalizzato al recupero di funzioni perdute o mai possedute a un miglioramento delle prestazioni del corpo “normale”? È questo, ad esempio, il tema del doping sportivo, sanzionato da norme nazionali e internazionali perché mette a rischio la salute dell’atleta e altera la lealtà delle competizioni. Ma la storica assunzione di droghe da parte di scrittori, musicisti, pittori non ha mai provocato una reazione giuridica di tipo proibizionista per il fatto che, in questo modo, si altererebbe il naturale o normale procedimento di creazione artistica. Gli eventuali divieti, rilevanti anche per gli artisti, discendono da norme di carattere generale sull’uso delle sostanze stupefacenti, comunque temperate da riconoscimenti della legittimità di un loro uso personale e in quantità modica. Lo sport vincolato al caso, dalle cui ristrettezze l’artista può invece liberarsi? Qualitativamente assai diverse si presentano le nuove opportunità di una programmazione integrale degli esseri umani offerte dalla genetica. Qui la rottura con il passato assume caratteri radicali, e il mantenimento del caso viene indicato come la via obbligata per non soccombere di fronte a uno scientismo che travolgerebbe la dignità umana e prospetterebbe una visione tutta strumentale della persona. Alla realtà di interventi puntuali, e rimessi a scelte individuali, si è venuta via via contrapponendo una prospettiva che mescola realismo e volontà di potenza e che propone di “riprogettare gli esseri umani” (Stock 2002), di stabilire “regole per il parco uomini” (Sloterdijk 2001). Ci lasceremmo così alle spalle “l’ultimo uomo”11, passando “a un’esplicita pianificazione delle caratteristiche individuali” grazie a una “antropotecnica” che “sarà in grado di realizzare a livello dell’intera

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Muovendosi in quest’area problematica, il Parere del Gruppo individua alcuni parametri significativi per la valutazione dell’ammissibilità degli impianti, che dovrebbero in ogni caso essere tenuti presenti:

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quadro dei principi di riferimento, che tiene conto del principio di precauzione e si articola ponendo accanto ai principi fondamentali (dignità, non discriminazione, autonomia, inviolabilità del corpo, privacy) altri principi che, una volta accertata l’ammissibilità in via generale di un intervento, rende possibile una valutazione della sua ammissibilità nei casi concreti (necessità, finalità, proporzionalità, pertinenza). Principi, questi ultimi, che rappresentano anche una sorta di precipitato storico dell’esperienza in materia di accettabilità delle innovazioni scientifiche e tecnologiche. L’insieme dei principi e delle regole giuridiche si pone, in via generale, come un possibile freno alle derive tecnologiche e dà evidenza al fatto che non tutto ciò che è tecnicamente possibile è anche eticamente ammissibile, socialmente accettabile, giuridicamente legittimo. Peraltro, alla potenza di una tecnica che si manifesta come produzione illimitata di applicazioni, non si può opporre un diritto debole, “amputato della sua causa finale”. Questo implica un riferimento costante a valori forti, capaci di dare consistenza a quella “costituzionalizzazione della persona” che è il risultato di un lungo processo e che emerge chiaramente nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, a partire dal suo Preambolo, dove si afferma appunto che l’Unione “pone la persona al centro della sua azione”. “Non metteremo la mano su di te”. Questa era la promessa della Magna Charta: rispettare il corpo nella sua integralità, Habeas Corpus. Questa promessa sopravvive ai mutamenti tecnologici. Ogni intervento sul corpo, ogni operazione di trattamento relativa a singoli dati, quindi, deve essere considerata come se si riferisse al corpo nel suo insieme, a una persona che deve essere rispettata nella sua integrità fisica e psichica. È nata una nuova concezione integrale della persona, alla cui proiezione nel mondo corrisponde il diritto a un rispetto totale di un corpo che ormai è, al tempo stesso, “fisico” ed “elettronico”. In questo mondo nuovo, la protezione dei dati svolge la funzione di garantire l’habeas data reso necessario dalle mutate circostanze, divenendo in tal senso una componente irrinunciabile di civiltà come lo è stato l’habeas corpus. Allo stesso tempo, si tratta di un corpo permanentemente “incompiuto”. Su di esso è possibile intervenire per reintegrarne funzioni perdute o mai possedute (amputazioni, cecità, sordità) o proiettarlo al di là della sua antropologica normalità, rafforzandone le funzioni o aggiungendone di nuove, sempre in nome del benessere della persona, o della sua competitività sociale (incremento delle attitudini sportive, “protesi” per l’intelligenza). Siamo di fronte a “repairing and capacity enhancing technologies”, a una moltiplicazione delle tecnologie body-friendly, che dilatano e modificano la nozione di cura del corpo e annunciano l’avvento dei cyborg, del corpo post-umano. “Nelle nostre società il corpo tende a divenire una materia prima modellabile secondo l’ambiente del momento”. Si allargano così le possibilità di intervento individuale, ma crescono anche le opportunità di interventi politici di controllo del corpo attraverso le tecnologie.


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4. Il corpo, dunque, diviene protagonista. Lo confermano dati della realtà quotidiana, che mostrano quali siano gli itinerari seguiti non tanto per arricchire l’umano, ma per cogliere le opportunità del post-umano per accrescere le forme di dipendenza. Sta nascendo un corpo manipolato, predisposto per il controllo, localizzabile. Su di esso, infatti, la tecnologia interviene direttamente. Non si limita a controllarlo dall’esterno, come avviene ad esempio con la videosorveglianza. Non si limita a utilizzarne le caratteristiche naturali, come accade quando si ricorre ai dati biometrici. Lo accompagna, invece, con dispositivi elettronici, in primo luogo quelli legati alla tecnologia Rfid. Lo integra e lo modifica con l’inserimento di impianti elettronici e, in prospettiva, con le nanotecnologie. Lo trasforma complessivamente, non solo facendolo divenire post-umano o trans-umano, ma incidendo sull’autonomia stessa delle persone, che possono essere controllate e dirette a distanza. Il trascorrere dal passato a un presente che è già futuro, dunque, si può cogliere nel fatto che i collaudati controlli e condizionamenti esterni sono ormai accompagnati da una costruzione del corpo stesso in forme che possano renderlo compatibile con la società della sorveglianza. Il corpo controllato diviene un nuovo e diverso oggetto sociale, che impone anche una riflessione nuova su che cosa sia oggi il dato personale, per far sì che la protezione già prevista possa continuare a operare. Davanti a noi sono mutamenti che toccano l’antropologia stessa delle persone. Siamo di fronte a slittamenti progressivi: dalla persona “scrutata” attraverso la videosorveglianza e le tecniche biometriche si può passare a una persona “modificata” dall’inserimento di chip ed etichette “intelligenti”, in un contesto che sempre più nettamente ci individua appunto come “networked persons”, persone perennemente in rete, via via configurate in modo da emettere e ricevere impulsi che consentono di rintracciare e ricostruire movimenti, abitudini, contatti, modificando così senso e contenuti dell’autonomia delle persone13. Questa tendenza ha avuto una esplicita conferma nell’intenzione dichiarata il 19 luglio 2004 dal primo ministro del Regno Unito di voler “etichettare e controllare” via satellite i cinquemila più pericolosi criminali inglesi. Molti hanno già messo in evidenza le difficoltà tecniche di questo progetto. Ma è la forza simbolica del messaggio a dover essere presa seriamente in considerazione. Esso ha come premessa un profondo mutamento dello statuto giuridico e sociale della persona. L’aver scontato interamente la pena non basterà più per riconquistare la libertà. Se una persona viene classificata “ad alta propensione a commettere reati”, perderà la libertà di circolazione e tutte le relative forme di autonomia individuale, perché le sarà imposto di portare uno strumento elettronico che ne renda possibile in ogni momento la localizzazione. E questa “etichettatura” delle persone pericolose potrebbe essere realizzata inserendo sotto la loro pelle un microchip. Cambierebbe così la natura stessa del corpo che, manipolato tecnologicamente, diverrebbe “post-umano”. Ma si può considerare questa prospettiva compatibile con il principio di dignità, che apre solennemente la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea? Si può accettare l’ardita mossa semantica blairiana che ha ribattezzato “società del rispetto” questa ulteriore versione della “società della sorveglianza”? Non si dica che queste sono bizzarrie futurologiche, o allarmismi. Negli stessi giorni della proposta di Blair si è appreso che in Messico, con una spesa di 150

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specie il passaggio dal fatalismo della nascita all’opzionalità della nascita e alla selezione prenatale” (Sloterdijk 2001). Si pone così il problema di una eugenetica migliorativa su scala di massa, anche se diversi sono i contesti all’interno dei quali ci si muove, poiché all’analisi di Stock è estraneo ogni progetto di “allevare” una razza di superuomini più adatti a governare il genere umano, come invece fa Sloterdijk. Queste sono prospettazioni estreme, che rievocano un passato inquietante, semplificano in modo sovente inaccettabile e che, quindi, devono essere anzitutto sottoposte al vaglio di una rigorosa analisi scientifica. Esse, tuttavia, pongono un problema ineludibile, come riconosce lo stesso Stock quando si chiede se le richieste di miglioramenti farmaceutici e genetici troveranno davvero possibilità di resistenza nel “turbolento mondo reale” (Stock 2002, p. 233). Il tema dei limiti diventa essenziale, e non può essere solo il diritto a stabilire i confini. Nell’indicare i rischi di una eugenetica liberale per allontanare i pericoli della prospettiva appena ricordata (Habermas 2001), l’accento torna a essere posto sulla necessità di rispettare la naturalità di processi già da tempo oggetto di ripetuti e consapevoli interventi dell’uomo. Proprio per questo la contrapposizione tra una natura dominata dal caso, nella quale non si deve interferire, e un mondo umano fatto di rapporti di comunicazione non offre un fondamento davvero solido a una posizione teorica che vuole porre un argine a una eugenetica positiva, tanto che lo stesso Habermas finisce con il riconoscere la legittimità di interventi di terapia genica volti a evitare la trasmissione di malattie ereditarie (pp. 45-70), anche se poi inclina pericolosamente verso l’ammissibilità di una imposizione politica della lista delle malattie da curare (p. 46)12. L’impostazione analitica seguita in precedenza può servire per affrontare anche questo problema indubbiamente drammatico, che tuttavia non può essere risolto né rifugiandosi in un proibizionismo declamatorio, né cedendo alla logica di chi si limita ad affermare che la forza dei fatti porterà irresistibilmente alla programmazione genetica generalizzata. Già oggi è possibile indicare casi in cui la programmazione genetica si presenta come uno strumento che consente, e di più consentirà in futuro, di eliminare patologie gravi, condizioni di pesante disabilità. Al tempo stesso, così come nel caso della clonazione, l’analisi di questo tipo di problemi esige che non si ceda ad alcuna forma di riduzionismo genetico, e si rifletta piuttosto sulle modalità attraverso le quali si realizza il libero sviluppo della personalità, riconosciuto come diritto costituzionale fondamentale. La possibilità di costruire liberamente la propria sfera privata, infatti, discende direttamente da una situazione nella quale non esista un programma che, in vario modo, sia imposto alla persona. Da questo rovesciamento del punto di partenza si deve muovere per identificare le situazioni di cui la regola giuridica deve sancire l’illegalità, tenendo soprattutto conto del principio di dignità e della inaccettabilità di una prospettiva in cui la vita di una persona sia preventivamente “disegnata” in base a valutazioni puramente culturali (si pensi alla richiesta, già manifestata, di far nascere una persona sorda perché questa era la caratteristica dei genitori). Ma, di fronte a una prospettiva fortemente realistica, è urgente e indispensabile mettere a punto regole sull’eguaglianza nell’accesso alle tecniche genetiche, pena la nascita di una società castale.


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all’apertura della porta di casa o del proprio personal computer, con costi decrescenti e crescenti facilità d’impianto. In alcuni paesi, come l’Italia, le applicazioni di queste tecnologie sono vietate quando consentono appunto un controllo a distanza dei lavoratori. Non basta, però, proporre che questo divieto venga generalizzato e divenga regola comune nei paesi dell’Unione Europea. Poiché queste tecnologie sono utilizzate anche per persone e attività diverse da quelle riguardanti il lavoro, deve essere direttamente affrontato il tema della legittimità stessa del ricorso a strumenti che implichino una manipolazione del corpo. Nel parere del 2005 del Gruppo per l’etica delle scienze e delle nuove tecnologie, già ricordato, si è concluso nel senso di ritenere ammissibili soltanto forme limitate di utilizzazione dei microchip e solo per finalità di tutela della salute dell’interessato. Si è ritenuto che altre utilizzazioni dovrebbero essere considerate in contrasto con la dignità della persona, dichiarata inviolabile dall’art. 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, e con i principi della protezione dei dati personali. Che cosa diventerebbe, infatti, una società nella quale un numero crescente di persone venisse tagged and tracked, etichettato e seguito? La sorveglianza sociale si affida a una sorta di guinzaglio elettronico. Il corpo umano viene assimilato a un qualsiasi oggetto in movimento, controllabile a distanza con una tecnologia satellitare o utilizzando le radiofrequenze. Se il corpo può diventare una password, le tecnologie della localizzazione stanno facendo nascere appunto una networked person. Le derive tecnologiche assumono così tratti particolarmente inquietanti. Le finalità di identificazione, verifica, sorveglianza, certezza nelle transazioni possono davvero giustificare qualsiasi utilizzazione del corpo umano resa possibile dall’innovazione tecnologica? Queste considerazioni, evidentemente, riguardano anche i casi in cui le tecnologie Rifd non determinano una modifica della fisicità della persona. Per esaminare questo tipo di problemi, è necessario distinguere le situazioni in cui i tags siano adoperati come strumenti direttamente collegati a un soggetto (contenuti ad esempio in una identità card) da quelli in cui il legame avviene attraverso il rapporto con oggetti, a loro volta etichettati. Nel primo caso siamo sicuramente in presenza di situazioni assai simili a quelle caratterizzate dagli impianti diretti nel corpo, anche se la persona ha sempre la possibilità di separarsi dal supporto materiale che contiene il tag, sottraendosi al controllo (eventualità impraticabile o di assai più complessa realizzazione per gli impianti nel corpo, anche nei casi in cui siano reversibili). Negli altri casi, si tratta di procedere a un adattamento della disciplina vigente sulla protezione dei dati, tenendo rigorosamente conto del carattere capillare del controllo e della classificazione che questa forma di raccolta dei dati rende possibile. Questo implica anche, da una parte, una riconsiderazione della definizione di dato personale per contrastare la pericolosa tendenza ad adottare interpretazioni formalistiche e riduttive, che possono pregiudicare la concreta tutela delle persone proprio di fronte alle applicazioni della tecnologia Rfid (e non solo). D’altra parte, deve essere seriamente preso in considerazione il rischio che le procedure di normalizzazione, rendendo possibile l’accesso ai dati contenuti nel chip da parte di una molteplicità di soggetti e anche un intervento attivo su tali dati, determinino controlli e manipolazioni dell’identità.

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dollari a persona, è stato “iniettato” un microchip nel braccio del procuratore generale e di altri 160 suoi dipendenti per controllare il loro accesso a un importante centro di documentazione ed, eventualmente, per rintracciarli in caso di sequestro. Unico commento del procuratore: “l’impianto mi ha fatto un po’ male”. Con evidenti intenti pubblicitari, una discoteca di Barcellona, il Baja Beach Club, e poi altri locali in Olanda e in Inghilterra consentono ai soci che accettano di farsi impiantare il chip di entrare nel locale senza alcuna formalità e di pagare automaticamente le consumazioni grazie alla loro identificazione a distanza. Una società americana sta mettendo in commercio armi che possono essere adoperate solo da chi, avendo un chip impiantato nella mano, viene riconosciuto dall’arma stessa come suo legittimo possessore. In un ospedale romano si sperimenta l’inserimento sotto la pelle di un microchip per l’identificazione di pazienti affetti da particolari patologie. Nel marzo del 2005 si è avuta notizia che, in una scuola californiana, ai bambini è stato imposto di portare al collo un medaglione contenente un piccolo chip elettronico che consente di seguire ogni loro mossa, segnalata da sensori collocati in tutti i locali scolastici, bagni compresi. La trasformazione tende a trasferirsi dall’“esterno”, dal mondo circostante, all’“interno” di ciascuno di noi. Non basta più mutare l’ambiente, ad esempio con strumenti di videosorveglianza, bisogna mutare le stesse persone. La marcia (irresistibile?) della tecnologia sembra esigere una nuova antropologia. Lo ha colto benissimo una bambina di quella scuola che, tornata a casa dopo essere stata “etichettata”, ha detto ai genitori: “non sono un pacchetto di cereali”. Non si poteva descrivere con più efficacia quello che sta davvero accadendo: la progressiva riduzione delle persone a oggetti, continuamente controllabili a distanza con le più diverse tecnologie, implacabilmente legate da un invisibile e tenacissimo guinzaglio elettronico. Gli esempi concreti sono davanti a noi, e divengono ogni giorno più numerosi. Sono ben noti i casi di lavoratori ai quali viene imposto di portare un piccolo “wearable computer”, che consente al datore di lavoro di dirigere, via satellite, il loro lavoro, indirizzarli verso i prodotti da prelevare, indicare i percorsi da seguire o le attività da svolgere, controllare ogni movimento del dipendente e individuare così in ogni momento dove si trova. In un rapporto del 2005 del professor Michael Blackmore dell’Università di Durham, richiesto dal sindacato inglese GMB, si sottolinea che questo sistema riguardava già diecimila persone, trasformando i luoghi di lavoro in “battery farms” e creando le condizioni di una “prison surveillance”. Siamo di fronte a un Panopticon su scala ridotta, che anticipa e annuncia la possibilità di diffondere su scala sempre maggiore queste forme di sorveglianza sociale. Risultati simili, anche se riguardanti la sola localizzazione all’interno dei luoghi di lavoro, sono ormai possibili grazie all’inserimento di un chip leggibile con la tecnologia Rfid nelle tessere di identificazione dei dipendenti. Una società dell’Ohio, City Watcher, è andata ancora più a fondo nella manipolazione del corpo dei suoi dipendenti, imponendo ad alcuni di essi di farsi impiantare nella spalla un microchip per essere identificati all’ingresso di locali riservati. Il corpo viene così modificato nella sua stessa fisicità e predisposto per essere direttamente controllato. E la tecnica dell’inserimento nel corpo di microchip leggibili a distanza si diffonde nei settori più diversi, dalle discoteche agli ospedali,


5. I confini dell’umano sono divenuti mobili, vengono continuamente attraversati alla ricerca di perfezionamenti del corpo che gli facciano superare i limiti che la natura o gli accidenti della vita gli hanno finora imposto. “L’uomo è antiquato” – scriveva già nel 1956 Günther Anders. E i telefilm degli anni Ottanta avevano reso popolare l’immagine dell’uomo “bionico”, un essere in cui convivevano organi biologici e artificiali, modificando così la natura umana e facendole assumere la forma del cyborg. Oggi quel modello si è materializzato davanti agli occhi del mondo e ha le sembianze di Oscar Pistorius, il giovane sudafricano che compete con successo con gli atleti “normali”, pur avendo subito fin dal-

Come un pioniere, l’uomo sposta i propri confini sempre più in là, si allontana sempre più da se stesso; si “trascende” sempre di più – e anche se non s’invola in una regione sovrannaturale, tuttavia, poiché varca i limiti congeniti della sua natura, passa in una sfera che non è più naturale, nel regno dell’ibrido e dell’artificiale.

Queste parole di Anders descrivono un’ambizione, una insoddisfazione; e, insieme, una preoccupazione. Sottrarsi ai limiti imposti dalla fisicità, alla fatalità che questa porta con sé, alla finitezza del corpo, per proiettarsi in una dimensione che sfida la stessa morte sulla spinta di un “turbocharged optimism”. Siamo in presenza di uno spostamento infinito della soglia verso un “oltre” il corpo fisico che non conosce definizione, né limiti. Torna così un interrogativo che ormai ci accompagna in ogni momento. Tutto ciò che è tecnologicamente possibile deve essere anche considerato eticamente ammissibile, socialmente accettabile, giuridicamente lecito? Quali sono i criteri di giudizio, i principi ai quali appellarsi? La federazione internazionale di atletica, nell’escludere l’atleta dalle Olimpiadi, intreccia il criterio della normalità e quello della lealtà nelle competizioni, dando una sua lettura dell’umano come misura del lecito sportivo. Si deve stabilire se le protesi, lungi dall’incarnare una disabilità, permettano di godere di un indebito vantaggio competitivo (spinta maggiore, minor resistenza dell’aria) e, proprio negando l’esistenza di questo vantaggio, si è poi ritenuta ammissibile la richiesta di Pistorius. Ma sul sentiero della manipolazione scientifica del corpo dell’atleta ci si è da tempo incamminati e, doping a parte, molti interventi sono ormai considerati leciti. Peraltro, una quota crescente di artificialità è ormai accettata per ciascuno di noi attraverso trapianti, pacemaker, inserimento di placche di metallo. Indiscutibile appare, in questi casi, la finalità che si vuole raggiungere: la tutela della salute, il ripristino di funzioni perdute. Se si prescinde dalla competizione sportiva, chi condannerebbe in nome dell’intoccabilità dell’umano l’impianto delle protesi che consentono a Pistorius di camminare, di muoversi liberamente nel mondo? In questa prospettiva normalità e umanità assumono un significato nuovo. Dove si dovrebbe cogliere il segno di una discontinuità inaccettabile perché l’umano viene sommerso e cancellato dal flusso tecnologico? Le descrizioni del futuro, quale ci viene presentato dalla miriade di ricerche in corso, fanno apparire marginale la vicenda di Pistorius. Il post-umano è associato a trasformazioni ben più profonde. Si parla della nascita di una nuova specie, di entità prodotte dall’ibridazione del dato biologico a opera della tecnica, nelle quali diventerebbe difficile riconoscere lo specifico umano. L’essere umano viene così presentato come una entità in continua trasformazione, e il nuovo modo d’intendere l’umanità implicherebbe anche una ridefinizione dei rapporti con le altre specie. Una rappresentazione enfatica del mondo a venire? Ma è indubitabile che siamo di fronte a mutamenti radicali del rapporto tra natura e cultura, tra componenti biologiche e componenti culturali, all’abbandono di una dimensione dove

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la nascita l’amputazione delle gambe dal ginocchio in giù, sostituite da due protesi in fibra di carbonio. Il mondo s’interroga non solo intorno alla misura di artificialità ammissibile nelle competizioni sportive, ma più in generale sul senso profondo di un intrecciarsi sempre più intenso di biologia e tecnologia, sul post-umano.

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Nelle apparenze meno preoccupanti degli impianti diretti nel corpo, gli smart tags si rivelano invece suscettibili di utilizzazioni assai più diffuse, e quindi tali da produrre effetti personali e sociali più profondi. Mentre, infatti, non è pensabile un impiego di massa dell’impianto di microchip, è proprio questa la linea adottata per molti nuovi documenti. Si è appreso che, nel Regno Unito, le nuove carte d’identità contengono appunto un chip leggibile con la tecnologia delle radiofrequenze. Se questo fatto viene associato, ad esempio, con l’utilizzazione di piccoli aerei senza pilota in via di sperimentazione (UAV: unmanned aerial vehicle), diventa possibile alle forze di polizia identificare persone che partecipano a una manifestazione o che si trovano in qualsiasi luogo facendo sorvolare l’area considerata da uno di quegli aerei (lo metteva in evidenza George Monbiot nel «The Guardian» del 21 febbraio 2006). Si incide in questo modo su fondamentali libertà costituzionali, come quella di circolazione o di manifestare liberamente in pubblico, rendendo così necessaria una più adeguata attenzione per la protezione dei dati personali in questa nuova dimensione. Peraltro, gli stessi vantaggi derivanti da queste nuove tecnologie per particolari categorie di soggetti (bambini, malati, anziani, disabili, incapaci) possono indurre le compagnie di assicurazione a subordinare la conclusione del contratto di assicurazione, o la misura del premio da pagare, proprio al fatto che quelle persone siano “attrezzate” con queste tecnologie, in modo da ridurre i rischi per l’assicuratore. È quello che già accade con automobili e camion, che vengono assicurati contro il furto a condizioni più favorevoli se sono equipaggiati con un dispositivo di ricognizione satellitare. Ma possono le persone essere equiparate a oggetti in movimento, con una estrema loro commodification? O proprio una forma di protezione dei dati personali, che impedisca questo modo di raccoglierli, può rappresentare lo strumento più adeguato per garantire libertà e dignità? Questo pesante riduzionismo della persona a oggetto è fortemente favorita dalle normative in materia di sicurezza e di lotta al terrorismo. Una reazione a questa deriva si coglie in una sentenza del Bundesverfassungsgericht del 200614, che ha dichiarato l’incostituzionalità della legge sulla sicurezza del trasporto aereo nella parte in cui ammetteva l’abbattimento degli aerei passeggeri quando si poteva presumere la loro utilizzazione per finalità di terrorismo e non esistevano altri mezzi per impedirlo. La mancata considerazione della vita e della dignità delle persone, dunque la loro riduzione a oggetti e dunque quasi a mere componenti dell’aereo, ha determinato l’intervento dei giudici costituzionali tedeschi proprio per impedire la negazione dell’umano, quella “degradazione dell’individuo” più volte richiamata dai giudici costituzionali italiani.


Note Segno di questa rinnovata attenzione è un lavoro come quello di Punzi 2003. Per una sintetica storia del problema Bostrom 2005 (a Bostrom si deve la definizione prima citata). 3 Inutile ricordare che Julian Huxley è fratello di Aldous, che pubblicherà cinque anni più tardi la distopia de Il mondo nuovo. 4 Nello stesso senso, per quanto riguarda la clonazione, v. Delmas-Marty 1999. 5 Si vedano, ad esempio, il Trattato sullo spazio extra-atmosferico (1967), il Trattato sul regime della luna e degli altri corpi celesti (1979), la Convenzione sul diritto del mare (1982), la Convenzione sulla biodiversità (1992). Per un quadro d’insieme v. Kiss 1982, pp. 99-256. 6 In una nota esplicativa al testo dell’art. 3 (documento Charte 4473/00 Convent 49) si sottolinea appunto che “il riferimento alle pratiche eugenetiche, segnatamente quelle che hanno come scopo la selezione delle persone, riguarda le ipotesi in cui siano organizzati e attuati programmi di selezione che comportino, ad esempio, campagne di sterilizzazione, gravidanze forzate, matrimoni etnici obbligatori, ecc., atti considerati tutti crimini internazionali dallo Statuto del Tribunale penale internazionale adottato a Roma il 17 luglio 1998 (cfr. articolo 7, paragrafo 1, lettera g)”. 7 Mi ero già occupato di questo tema in Rodotà 1993, pp. 421-431. 8 Nella sterminata letteratura Heyd 1992; Chadwick 1992; Kevles, Hood, a cura, 1992; Dyson, Harris, a cura, 1994. E, per le loro posizioni estreme, Harris 1993; Stock 2002. Sul punto alcune considerazioni nel mio lavoro La vita e le regole. Tra diritto e non diritto (2006). 9 Si individuano, infatti diverse categorie: Dispositivi ICT: dispositivi che si avvalgono delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, solitamente basati sulla tecnologia dei chip di silicio. Dispositivo medico attivo: qualsiasi dispositivo medico il cui funzionamento si basa su una fonte di energia elettrica interna e indipendente, ovvero su una fonte di energia diversa da quella generata direttamente dal corpo umano o dalla gravità. Dispositivo medico attivo impiantabile: qualsiasi dispositivo medico attivo destinato a essere impiantato interamente o parzialmente mediante intervento chirurgico nel corpo umano, o mediante intervento medico in un orifizio naturale, e destinato a rimanervi dopo l’intervento. Dispositivi ICT passivi impiantabili: dispositivi ICT impiantabili nel corpo umano che utilizzano per il funzionamento un campo elettromagnetico esterno (si veda, ad esempio, la Sezione 3.1.1. relativa al “Verichip”). Dispositivi ICT impiantabili on line: dispositivi ICT impiantabili che utilizzano per il funzionamento una connessione (“on line”) con un computer esterno, o che sono interrogabili (“on line”) da un computer esterno (v., ad esempio, la Sezione 3.1.2. relativa ai biosensori). Dispositivi ICT impiantabili off line: dispositivi ICT impiantabili il cui funzionamento non dipende da dispositivi ICT esterni (eventualmente dopo un’operazione iniziale di configurazione, come nel caso della stimolazione cerebrale profonda). 10 Sull’insieme di questi problemi si può vedere quanto ho scritto in Rodotà 2006. 11 È questo il titolo del capitolo iniziale del libro citato di Stock (2002). 12 Per una acuta discussione delle tesi di Habermas, tra gli altri, v. Viano 2004; Hottois 2006, pp. 76-81. 13 Al senso e alla portata del crescente uso della categoria della persona ho dedicato lo scritto Dal soggetto alla persona (2007a); e Dal soggetto alla persona. Trasformazioni di una categoria giuridica (2007b). 14 Bundesverfassungsgericht, 15 febbraio 2006, in Neue Juristische Wochenscrift, p. 751. Sul punto il bel saggio di Marella 2007, in particolare pp. 69-73. 1 2

Bibliografia Anders, G., 1956, Die Antiquiertheit des Menschen; trad. it. 2005, L’uomo è antiquato. I. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, Torino, Bollati Boringhieri.

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6. Una delle frontiere estreme dell’incidenza sul corpo delle innovazioni tecnologiche, inoltre, è rappresentata oggi dalle sperimentazioni e dalle ipotesi legate alle nanotecnologie in generale e alle nanobiotecnologie in particolare. Penetrato dall’infinitamente piccolo, il corpo può subire una metamorfosi radicale, divenendo una “nanomachine”, un sofisticato sistema informativo che produce ininterrottamente dati analitici sulla sua condizione. La protezione di questa categoria di dati esige un’attenzione tempestiva. È un problema di oggi, non di domani, che deve impegnare anche quanti si occupano di protezione dei dati personali in un lavoro di “vision assessment”. Le nanobiotecnologie sono destinate a produrre innovazioni rilevantissime proprio nella materia del trattamento dei dati personali. La miniaturizzazione degli strumenti diagnostici, la loro presenza diretta nel corpo dell’interessato, la moltiplicazione dei parametri che possono essere utilizzati contemporaneamente, l’espansione dello spettro diagnostico e l’immensa accelerazione delle diagnosi determinerà inevitabilmente una enorme crescita dei dati disponibili e immediatamente utilizzabili. È indispensabile partecipare fin da ora alla individuazione dei problemi legati alla creazione di questo nuovissimo “spazio interno”, dove si pongono con caratteristiche inedite anche questioni tradizionali come quelle del diritto di sapere e di non sapere; dello screening individuale e di massa; dei soggetti che possono avere accesso ai dati prodotti attraverso le nanotecnologie; della natura stessa di tali dati, che possono presentare un grado di “sensibilità” anche maggiore di quello dei sensibilissimi dati genetici, riproponendo in modo ancor più tagliente i temi delle possibili discriminazioni. L’accettabilità sociale ed etica delle nanotecnologie dipenderà in buona parte anche dalla capacità di accompagnare la loro introduzione con garanzie adeguate per i diritti delle persone. L’integrità del corpo, infatti, non è una nozione esterna. È il modo stesso in cui riusciamo a pensarci, a definire il rapporto con il nostro sé. Se viene messa in discussione, inevitabilmente determina un impoverimento del concetto di vita. La rappresentazione più radicale di questa tendenza, che trasforma la socializzazione del corpo in appropriazione o espropriazione, si può cogliere quando si guarda al “corpo dell’uomo come apparato per la trasmissione di energia e informazioni”. Queste sono le parole con le quali viene descritto l’oggetto del brevetto 6.754.472, concesso negli Stati Uniti a Microsoft nel 2004. Così non solo il corpo diviene lo strumento per collegare direttamente una serie di apparati portatili, dal telefono cellulare al computer palmare, al lettore di musica, superando le tecnologie attuali e creando, al posto delle attuali forme di connessione, una “personal area network”, una rete personale tenuta insieme dalla nostra pelle, dai tessuti. Diviene uno strumento di cui ci viene sottratta la libera disponibilità, poiché questa nuova forma della sua utilizzazione è ormai subordinata ai diritti di brevetto, dunque alle pretese economiche di Microsoft.

L’immagine del corpo come entità governata unicamente dall’interessato si appanna fino a scomparire.

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alla biologia veniva assegnata anche la funzione di limite. Questa funzione non può essere recuperata invocando ritorni al passato. È proprio al dato culturale, allora, che deve essere rivolta l’attenzione, riflettendo ad esempio sul significato che, nella nuova prospettiva, assume il riferimento alla dignità della persona. Qui, e non nella materialità del dato biologico, dev’essere ricercato il limite, il criterio per il giudizio.


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Carlo Formenti Aporie dell’ibridazione come metodo di ricerca

In un recente lavoro ho tracciato una mappa concettuale dei modelli teorici che hanno tentato in vari modi di sistematizzare le trasformazioni economiche, politiche, tecnologiche e culturali che marcano questo passaggio di millennio (Formenti 2008, p. 197). Senza riproporre integralmente lo schema in questione, mi limito qui a rilanciare alcune osservazioni in merito alle convergenze fra tre dei paradigmi analizzati: teorie neo e postmarxiste della moltitudine; interpretazioni anarco-liberali della New Economy; mediologie postmoderniste (con particolare riferimento agli sviluppi “radicali” della tradizione dei cultural studies). La tesi è che questi discorsi, pur ispirati a tradizioni di pensiero, metodologie di analisi e presupposti ideologici differenti, condividono tre aspetti di fondo: 1) non riconoscono più alcun significativo valore teorico-pratico al concetto di classe sociale, nella misura in cui indicano negli individui e nelle moltitudini i nuovi protagonisti del legame sociale; 2) attribuiscono valenza progressiva al processo di dissoluzione dello Stato-nazione e alle sue conseguenze politiche (che gli anarco-liberisti associano all’empowerment degli individui e i moltitudinari all’apertura di spazi di autogoverno per la società civile); 3) danno una valutazione positiva dei processi di “americanizzazione” della vita politica (che i mediologi associano al ruolo “democratizzante” delle nuove tecnologie di comunicazione, laddove i moltitudinari interpretano la crisi dei meccanismi di rappresentanza democratica come sintomo della fine di ogni “autonomia del politico”, e come occasione per la sperimentazione di nuove forme di democrazia diretta e partecipativa)1. Da questi elementi scaturisce un’euforia “postmodernista” che sfida tanto le conseguenze della crisi economica mondiale in corso – iniziata con lo scoppio della bolla speculativa della Net Economy per poi precipitare in concomitanza con l’attuale crisi energetica e finanziaria –, quanto la ridefinizione degli equilibri politico-militari planetari – partita con gli attentati dell’11 settembre 2001 e successivamente degenerata con l’apertura di molteplici fronti di guerra. Paradossalmente, l’aura d’incanto che ha accompagnato la rivoluzione digitale degli anni Novanta (cfr. Formenti 2000), con le sue aspettative di democratizzazione, liberalizzazione e cosmopolitizzazione, non solo è sopravvissuta al disincanto della duplice crisi appena evocata, ma sta vivendo una stagione ancora più euforica, a onta del crescente controllo di governi e grandi imprese sulle tecnologie di rete e sui loro


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che hanno portato all’acquisto di un prodotto, e che l’informazione più influente nel determinare una decisione di acquisto è il racconto delle descrizioni positive di chi lo ha già acquistato). Per questo motivo, polemizzavo7 con la tesi dei curatori della ricerca, i quali, viceversa, attribuivano proprio a tali tendenze alla personalizzazione/privatizzazione della comunicazione on line un carattere “progressivo” rispetto ai contenuti e ai linguaggi “impersonali” dei media tradizionali. Al tempo stesso, criticavo la metodologia utilizzata per la costruzione del campione, in quanto i curatori ammettevano: 1) di essersi fatti suggerire dagli stessi blogger quali domande inserire nel questionario, 2) di aver scelto il metodo “a valanga” (sfruttando il sistema del passa parola fra i membri delle comunità di utenza) per reclutare gli intervistati. Da queste due scelte, osservavo, derivava un evidente rischio di appiattimento della posizione dei ricercatori su quella dei propri informatori, cui veniva delegato il compito di definire preliminarmente il campo dell’indagine, tanto dal punto di vista dei contenuti trattati quanto da quello della sua composizione/estensione. L’idea che le caratteristiche più “rivoluzionarie”, o comunque culturalmente più innovative, della comunicazione mediata dal computer vadano ricercate proprio nelle tendenze alla personalizzazione/privatizzazione di contenuti e forme espressive, che emergono in misura particolarmente evidente nelle reti sociali dei blogger, ritorna in un’indagine etnografica, “Blog-grafie” (cfr. Di Fraia, a cura, 2007), condotta su un campione di circa seicento diari on line italiani da una équipe di ricerca dello IULM di Milano. Rinunciando a priori ad analizzare la minoranza dei blog d’informazione (considerati poco interessanti, in quanto avviati alla “integrazione” nel sistema dei media mainstream), l’attenzione dei ricercatori si concentra sulla maggioranza dei blog classificabili come diari on line, il cui interesse risiederebbe precisamente nella tendenza a cancellare la distinzione fra sfera pubblica e sfera privata, trasformandosi in luogo di un’esperienza “ibrida” in quanto, al tempo stesso, personale, relazionale e politica. Delle risonanze fra questo punto di vista e lo slogan movimentista “il personale è politico” mi occuperò più avanti. Per il momento mi interessa sottolineare, da un lato, la corrispondenza fra tale approccio e una scelta metodologica che privilegia gli strumenti etnografici dell’autobiografia e delle storie di vita, dall’altro le convergenze con le tesi del postmodernismo radicale alla Sherry Turkle (1996); allo stesso modo in cui la Turkle parla dell’opportunità di attivare processi di “autocostruzione” del sé, che nascerebbe grazie alla sperimentazione identitaria resa possibile dalla comunicazione mediata dal computer, la ricerca dello IULM sostiene che i diari on line consentono: 1) “di affermare, ritrattare o modificare costantemente la rappresentazione della propria identità” (cfr. Di Fraia, a cura, 2007, p. 58); 2) di “creare una memoria visibile del proprio essere nel mondo”. Questa idea secondo cui, nelle relazioni on line in generale e nella blogosfera in particolare, diverrebbe possibile “costruire” liberamente la propria identità, si fonda su un presupposto: nell’ambiente sociale on line l’interrogativo in merito a chi si è prevale sull’interrogativo in merito a cosa si è. I dialoganti entrerebbero cioè in relazione “in quanto esseri umani”, e non in quanto attori sociali, perché nella blogosfera “ci si relaziona gli uni agli altri in modo molto più libero dai condizionamenti sociali e contestuali cui sono soggette le comunicazioni interpersonali dirette” (p. 102); un’asserzione che, come ho già osservato altrove (cfr. Formenti

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utenti (cfr. Goldsmith, Wu 2006), del drastico ridimensionamento dei rapporti di forza che i knowledge workers hanno subito a favore delle corporation hi tech, della progressiva riduzione degli spazi di democrazia e della “colonizzazione” delle tecnologie per la condivisione delle conoscenze da parte dei modelli di business del Web 2.02. In questa sede proverò ad abbozzare un’analisi teorica delle radici sociali, culturali ed economiche (delle “radici di classe”, per chiamare le cose con il loro nome) che spiegano l’opacità ideologica che ispira tanto ottimismo, in barba alle controtendenze in atto. A tale scopo: 1) partirò da una serie di considerazioni critiche sulla metodologia di tre ricerche empiriche sui nuovi media; 2) inserirò tale analisi metodologica nel contesto di alcune tendenze evolutive della tradizione dei cultural studies; 3) metterò in relazione tali sviluppi con l’onda lunga della “cultura dei movimenti”; 4) avanzerò infine la tesi secondo cui la cancellazione del confine fra sfera pubblica e sfera privata – che è uno degli effetti più significativi dei processi culturali in questione – alimenti e rispecchi a un tempo la “falsa coscienza” dei knowledge workers, nella misura in cui costoro appaiono oggi sottoposti all’egemonia culturale del capitale informazionale (mentre i livelli di autonomia che avevano espresso negli anni Novanta sono ormai un lontano ricordo). La prima delle ricerche di cui intendo occuparmi (tutte e tre italiane e tutte e tre dedicate alla blogosfera) si chiama “Diario Aperto”3 ed è frutto della partnership fra Splinder (la maggiore piattaforma italiana di blogging), la società di ricerche di mercato SWG, l’Università di Trieste e il quotidiano on line «Punto Informatico». Proviamo ad analizzare i dati più interessanti che emergono dalle risposte agli oltre quattromila questionari on line somministrati ad altrettanti blogger e/o lettori di blog. In primo luogo, merita di essere segnalata un’apparente contraddizione: da un lato, l’83 per cento degli intervistati dichiara di avere molta o abbastanza fiducia nei blog, l’89 per cento li ritengono più originali e liberi e il 72 per cento più interessanti dei media tradizionali; dall’altro lato, il 49 per cento ammette di utilizzare proprio i noiosi e inattendibili “vecchi” media come fonte principale dei propri post. Contraddizione apparente, si è detto, perché, come confermano una serie di ricerche americane4, la vocazione dei blogger non è quella di “fare concorrenza” a giornali e network televisivi, bensì quella, nella migliore delle ipotesi, di commentare e approfondire la “materia prima” prodotta dall’informazione professionale, nella peggiore, di utilizzarla come spunto di “chiacchiere” on line che mirano a “intrattenere” gruppi di “amici di penna” e non a fare informazione né, tanto meno, controinformazione: non a caso, il 64,5 per cento degli intervistati dichiara di scrivere avendo in mente se stesso e non un qualsiasi tipo di pubblico ideale; una vocazione “intimista”5 che si esalta nelle risposte femminili (il 74,6 per cento delle donne afferma di “bloggare” soprattutto per soddisfare un’esigenza di autoespressione, il 38 per cento confessa di scrivere spesso di argomenti personali e l’81 per cento preferisce chiacchierare di episodi di vita reale piuttosto che occuparsi delle informazioni che occupano le pagine dei media). Altrove6, ho commentato questi dati sottolineando il loro interesse economico per gli uffici marketing delle internet company: questo “regime della chiacchiera”, infatti, rappresenta un terreno ideale sia per intercettare gusti e tendenze di una fascia privilegiata di consumatori, sia per sfruttare commercialmente il patrimonio di credibilità e fiducia che si genera spontaneamente nei network on line (la ricerca rivela che il 41,7 per cento degli intervistati ha trovato in un blog informazioni


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Una volta trasformatosi in (o travestitosi da) blogger, al ricercatore che ha adottato il punto di vista, il lessico e l’agenda setting del suo informatore “indigeno” (quello che la “vecchia” antropologia, in cui rientra ormai anche Clifford Geertz, definiva “going native”), non resta ormai che condividerne le pratiche di (auto)indagine in merito alle motivazioni e alle finalità del blogging. Oggetto e fine della ricerca divengono dunque (v. Di Fraia, a cura, 2007) una serie di pratiche riflessive, a partire da quella della narrazione di sé. Al centro degli interessi è l’individuo, al di qua e al di là di ogni determinazione sociale (e quindi di qualsiasi conflitto sociale e/o rapporto di potere), in un contesto culturale in cui convergono le pratiche (e le loro superfetazioni accademiche) dell’autobiografia, del racconto di storie di vita, dell’autocostruzione identitaria (v. Turkle 2005), della cura di sé (l’ultimo Foucault, certo non quello della riflessione sul biopotere) (cfr. Galzigna 2008). L’evoluzione (o involuzione, secondo i punti di vista) metodologica di cui ci stiamo qui occupando non viene dal nulla, ma affonda le radici nelle derive “postmoderniste” che hanno caratterizzato il campo dell’etnografia dei media, dei cultural studies e del femminismo teorico nell’ultimo decennio, soprattutto negli Stati Uniti e in Inghilterra. Tipici, in questo senso, i percorsi di due autrici come la psico-sociologa della rete Sherry Turkle (1996) e l’etnologa dei media Christine Hine (cfr. 2000; 2005). Alla prima dobbiamo la “traduzione” in salsa psico-socio-tecnologica delle tesi sulla “fine delle grandi narrazioni” del filosofo francese J.-F. Lyotard (1976), nonché di quelle della crisi del concetto moderno del sé da parte del femminismo di matrice anglo-americana. Per Turkle, com’è noto, la comunicazione on line – nella misura in cui “emancipa” le relazioni fra individui dalle regole sociali dell’interazione faccia a faccia – dischiude la possibilità di una sperimentazione terapeutica di un set di identità alternative. Di qui il concetto di una possibile autocostruzione del sé che prescinda dai rapporti di potere incarnati nelle differenze di classe, genere e gerarchia che caratterizzano il mondo off line (notiamo, per inciso, che questo approccio è stato impropriamente accostato a quello di un’autrice come Donna Haraway [1991] che, viceversa, manifesta forte attenzione nei confronti dei temi del potere e dei soggetti collettivi). Dal canto suo, Christine Hine affronta il problema dell’analisi dei nuovi media, da un lato, riproponendo l’approccio dei cultural studies, che mira a indagare come un medium (in questo caso internet) venga usato e incorporato nella vita quotidiana delle persone; dall’altro lato, focalizzando a tale scopo l’attenzione sulle interazioni microsociologiche e sul presente, piuttosto che sui grandi mutamenti sociali. Dopo avere così delineato il campo di ricerca, Hine “adatta” la tradizione etnografica al contesto on line in una direzione che anticipa la metodologia delle ricerche italiane appena analizzate: il ricercatore deve mettersi nella condizione di “vedere attraverso gli occhi” degli utenti della rete e deve, a sua volta, sviluppare capacità di auto osservazione in quanto utente dello stesso medium. Il mutamento di paradigma che si tenta così di legittimare nell’ambito della ricerca sociologica, antropologica ed etnografica emerge in modo ancora più coerente, chiaro ed esplicito nei lavori di Henry Jenkins, fondatore e direttore del Comparative Media Studies Program del MIT di Boston9. Jenkins, che ha concentrato la propria attenzione soprattutto sulle pratiche delle comunità dei fan dei prodotti dell’industria culturale (sit com, soap opera e/o celeberrime serie di avventure spaziali come Star Trek) indagandone linguaggi, modalità di aggregazione

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2008, p. 233), rischia di suonare come una banalità metafisica, nella misura in cui il generico riferimento all’entrare in relazione “in quanto esseri umani” non venga associato ad alcuna concreta determinazione storica, sociale e culturale, nella misura in cui, cioè, venga accantonata ogni velleità di analisi delle relazioni di conflitto e di potere che si sviluppano nell’ambiente tecnologico, economico, politico e culturale dell’era digitale, dimenticando che l’identità individuale non si è magicamente trasformata nella posta di un libero gioco soggettivo di “autocostruzione”, ma continua a essere il prodotto di fattori oggettivi – come il capitale economico, sociale, culturale e reputazionale – che determinano i rapporti di forza fra gruppi e individui in relazione alle risorse – reddito, saperi, competenze tecnico-culturali – di cui essi dispongono. La terza ricerca, “Ibridamenti” (cfr. Mapelli, Lo Jacono, a cura, 2008), frutto di una partnership fra Splinder (v. sopra) e l’Università Ca’ Foscari di Venezia, prende le mosse dai risultati delle due ricerche precedenti (dandoli in qualche modo per acquisiti) per avviare un ambizioso progetto di con-ricerca fra ricercatori universitari e blogger che, attraverso la costruzione di un blog collettivo che ha lo stesso titolo del progetto, si propone di trasformare l’oggetto dell’indagine in strumento privilegiato dell’indagine stessa8. Ritroviamo qui gli elementi critici già evidenziati dall’analisi dei precedenti progetti, rafforzati dallo sforzo coerente ed esplicito di sistematizzare un nuovo modello metodologico. Il potenziale immediatamente economico della ricerca (la cui importanza già sottolineavo a proposito del progetto di “Diario Aperto”) viene esplicitamente rivendicato, esaltando la collaborazione fra l’Università e Splinder in quanto opportunità per la creazione, a un tempo, di nuovi campi di conoscenza e nuove fonti di valore (cfr. Margiotta 2008). Per quanto concerne, invece, la metodologia, si insiste sul fatto che il ricercatore, per indagare le interazioni interne alla blogosfera, deve divenire egli stesso blogger, cosicché l’oggetto della sue osservazioni si sovrappone alle pratiche tecnologiche e socio-culturali che egli viene apprendendo. Sul piano delle relazioni empiriche fra ricercatori e blogger, ciò presuppone che i primi assumano pienamente il punto di vista ideologico dei secondi, secondo cui non esiste (o meglio, non deve esistere) alcun riconoscimento dei ruoli sociali che i soggetti coinvolti nella relazione esercitano nel mondo off line (niente gerarchie, niente riconoscimento di autorevolezza, competenza, professionalità ecc.), per cui le relazioni reciproche sono (o meglio, si presume che siano) del tutto paritarie e orizzontali, come conferma la negoziazione permanente di lessico e contenuti (v. Mapelli, Lo Jacono, a cura, 2008, e quanto già detto a proposito delle precedenti ricerche e della delega ai blogger della scelta dei temi su cui condurre dialoghi e interviste). Sul piano teorico, l’idea è quella di “andare oltre Clifford Geertz”: se il grande antropologo ha criticato il paradigma classico dell’antropologia, attestato sul presupposto dell’irriducibile differenza/intraducibilità fra culture, per introdurre la pratica di “concetti-ponte” in grado di creare canali di connessione e scambio fra il ricercatore e le culture oggetto della sua indagine, si tratterebbe oggi di passare alla pratica degli ibridamenti, in ragione della quale è la stessa differenza fra soggetti in relazione a essere messa in discussione. Il punto d’arrivo è la con-fusione fra “noi” e “loro” da cui, nel caso specifico, dovrebbe scaturire una possibilità di “comprensione antropologica” fra ricercatori e blogger (cfr. Ligi 2008).


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smo cyberpop, che si installa nell’ambiguo spazio di confine fra marketing e libera condivisione di conoscenze e informazioni (l’industria culturale ha ormai compreso perfettamente che queste pratiche sociali di appropriazione dei suoi contenuti rappresentano una straordinaria opportunità di analisi delle nicchie di mercato, più che una effettiva minaccia ai suoi giacimenti di proprietà immateriale). Proviamo, a questo punto, a convertire gli appunti critici fin qui raccolti in spunti per un’analisi delle radici di classe del mutamento di paradigma in atto. La con-fusione fra ricercatori e indigeni è meno il prodotto di un’evoluzione metodologica che la presa d’atto della comune appartenenza sociale: semplicemente, ricercatori universitari e blogger sono due facce della stessa medaglia, due manifestazioni identitarie di quella “classe creativa” (o classe hacker, o classe dei knowledge workers che dir si voglia)10 che occupa una scena culturale definita tanto dalle tecnologie dei nuovi media quanto dalle discipline e dalle metodologie di ricerca emergenti nel mondo accademico. Se i blogger non riconoscono l’autorevolezza dei ricercatori (al pari di quella di altri intellettuali) è perché vengono da percorsi formativi ed esperienze professionali che li rendono in tutto e per tutto simili (in termini di capitale sociale, culturale e reputazionale accumulato) a chi dovrebbe analizzarne le pratiche. Quanto all’ambigua relazione fra imprese, università e media, che alimenta tutti i progetti di ricerca analizzati, non è mia intenzione (come mi è stato a volte rimproverato)11 di avanzare critiche “moralistiche” in merito al loro possibile sfruttamento commerciale. Il punto è, se mai, cogliere la peculiare condizione di una generazione (sia di ricercatori che di produttori/utenti/consumatori) che si ritrova impigliata in quell’infernale dispositivo di appropriazione gratuita della creatività sociale da parte del capitalismo informazionale che sono le tecnologie del Web 2.012. In questo senso, la con-ricerca si presenta come una pratica orientata alla creazione di valore, all’accumulazione di conoscenze che, invece di essere oggetto di appropriazione gratuita, possano in qualche modo divenire oggetto di scambio sul mercato del lavoro. Tutto assolutamente lecito, se non meritorio, non fosse che tali pratiche si ammantano di giustificazioni ideologiche e si avvalgono di concetti e linguaggi che liquidano come inutile ogni sforzo di definire l’identità collettiva di questi strati sociali emergenti, nonché la loro collocazione nell’ambito dei conflitti di potere. Le mitologie della “rivoluzione digitale” – tipiche degli anni Novanta – avevano, se non altro, il merito di delineare l’emergenza di un nuovo soggetto collettivo, di una sorta di Quinto Stato che si estendeva, dall’alto verso il basso, dal management delle startup della New Economy ai tecnici informatici, alle nuove professionalità del Web, ai lavoratori del terziario avanzato, ai comunitari virtuali e ad altre figure professionali “creative”; una costellazione di strati sociali emergenti egemonizzati dalla cultura dei progettisti della rete e dai valori dell’etica hacker, fondati sul principio di cooperazione sociale e di libera condivisione di conoscenze e informazioni, concepite come commons immateriali; su nuove forme di “economia del dono”; su un’idea di lavoro come divertimento ed espressione di sé piuttosto che come alienazione in cambio di denaro; sulla promozione di nuove forme di democrazia diretta e partecipativa13. Le nuove mitologie del cyberpop – che le pratiche del blogging incarnano alla perfezione – esprimono, viceversa, una radicale tendenza verso la individualizzazione/personalizzazione delle identità e delle loro interrelazioni reciproche, verso l’orgia delle narrazioni autobiografiche e della

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e organizzazione, strumenti di comunicazione, tic e manie culturali prima e dopo l’avvento di internet, insiste sulla necessità di far dialogare il livello di osservazione scientifico con quello dell’auto osservazione da parte degli stessi fan (egli stesso si definisce un Aca/Fan, portatore di un’identità ibrida di accademico e fan) ai quali, sostiene, occorre riconoscere un’elevata capacità di analisi teorica delle loro stesse pratiche. La metodologia proposta si trova così a oscillare fra osservazione partecipante e auto osservazione, fra etnografia e psicologia riflessiva, sfruttando – come si è già visto – le prospettive autobiografiche e della narrazione del sé, sempre più al centro della pratiche dei cultural studies ibridate con quelle del femminismo teorico (o meglio di alcune sue correnti). Il riconoscimento che la produzione accademica non è altro che una pratica sottoculturale o istituzionale fra le tante possibili viene spinto tanto in là da neutralizzarne ogni differenza rispetto alle pratiche delle culture popolari indagate (paradossalmente, l’americanizzazione del “pensiero della differenza” importato dalle università europee finisce quindi per approdare alla negazione della differenza). Non meno importante, ai fini della comprensione dell’operazione metodologica di Jenkins (e allievi italiani), la centralità strategica che viene ad assumere l’analisi del testo: nei saggi dell’autore americano troviamo pagine e pagine di post ripresi da mailing list, newsgroup e blog che vengono riprodotti senza commento critico, quasi fossero in grado di “parlare da soli” (perché commentare, del resto, se i testi prodotti dai fan vengono assunti come espressione della capacità di autoanalisi teorica dei soggetti in questione?). Infine occorre mettere in luce l’estremizzazione del concetto di consumo “tattico” dei media, che Jenkins mutua da de Certeau (1990), e le conseguenze “politiche” che ne vengono fatte discendere. L’uso “alternativo” che le comunità dei fan fanno dei prodotti della cultura di massa, inventando storie parallele, oppure riadattandone il senso in funzione delle proprie identità di genere, generazionali, etno-geografiche, di classe, di nicchia subculturale ecc. viene da Jenkins messo in relazione con le idee di bricolage e bracconaggio culturale elaborate da de Certeau, che il ricercatore americano esaspera, estremizzando i “livelli di autonomia” che i fan sarebbero in grado di attingere rispetto ai linguaggi e ai contenuti imposti dall’industria culturale (autonomia che l’avvento dei nuovi media avrebbe ulteriormente potenziato). Per Jenkins, non si tratta solo della capacità di aprire spazi per gli interessi dei gruppi subculturali all’interno delle rappresentazioni dominanti, bensì della capacità di trasformare la cultura di massa in cultura popolare, laddove l’ultimo termine va inteso come sinonimo di una costellazione di pratiche di elaborazione di “fantasie utopiche”, le quali rappresenterebbero a loro volta il primo passo verso lo sviluppo di vere e proprie forme di coscienza politica. Nell’ultimo concetto cogliamo la forzatura ideologica che si tenta di operare attraverso l’introduzione del nuovo paradigma: bersaglio dell’operazione, come lo stesso Jenkins (2006b, pp. 177 sgg.) riconosce esplicitamente, è la cultura “antagonista” di hacker e jammer: costoro, con le loro pratiche di violazione della proprietà intellettuale e di manipolazione “sovversiva” di contenuti e linguaggi della comunicazione mainstream, miravano a distruggere il potere dei media, laddove i nuovi “bracconieri” si propongono, viceversa, di mettere le mani su una fetta di tale potere, in modo da poterne indirizzare la produzione in senso “democratico” e “popolare”. All’antagonismo rivoluzionario del cybersoviet subentra il riformi-


Note In alcuni casi i due punti di vista convergono: cfr., ad esempio, de Kerckhove 1990. Per una critica delle tecnologie del Web 2.0 come strumenti di appropriazione capitalistica della creatività sociale, vedi quanto ho scritto nella quarta parte di Formenti 2008. 1 2

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http://www.diarioaperto.it/ Mi riferisco, in particolare, a una ricerca del Pew Internet & American Life Project, consultabile all’indirizzo http://www.pewinternet.org/pdfs/PIP per cento20Bloggers per cento20Report per cento20July per cento2029 per cento202006.pdf 5 In merito al significato del termine, vedi, più avanti, i riferimenti all’opera di R. Sennett. 6 Cfr. il post sull’argomento che ho dedicato sul mio blog, Effetto Albemuth, consultabile all’indirizzo http://www.pazlab.net/formenti/2007/07/01/si-fa-presto-a-dire-blog/#more-346 7 Sempre nel post appena citato. 8 Ibrid@menti (http://ibridamenti.splinder.com/). 9 Per l’analisi critica delle tesi di Jenkins ho utilizzato, in particolare, Jenkins 2006a e 2006b. 10 Sui vari tentativi di descrivere la composizione di classe della società dell’informazione, v. quanto ho scritto nel secondo capitolo di Formenti 2008. 11 Per esempio in alcuni commenti al post del mio blog citato in nota 6. 12 V. ancora la quarta parte di Formenti 2008. 13 Ho proposto il concetto di “Quinto Stato” in Formenti 2002. 3

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messa in scena del privato. In precedenza, avevo anticipato l’idea di una forte consonanza fra questa ideologia e il vecchio slogan movimentista “il personale è politico”. In effetti, è come se l’onda lunga dei movimenti, accantonata qualsiasi velleità “sociale”, facesse ancora sentire i propri effetti, rilanciando proprio quelle caratteristiche culturali che, negli anni Sessanta e Settanta, le avevano attirato lo stigma di “ideologia piccolo borghese” da parte della sinistra tradizionale. Mettendo fra parentesi questo giudizio, che tanti ostacoli ha generato ai fini di una sensata analisi sociologica dei movimenti, conviene piuttosto ricordare il giudizio critico di Richard Sennett sui vizi della società “intimista” (cfr. Sennett 2006), cioè sul progressivo slittamento dell’attenzione verso le personalità individuali, verso le loro emozioni e i loro sentimenti, nonché sul parallelo sprofondare nell’ombra di identità e interessi collettivi. Così come conviene ricordare le riflessioni di Erwin Goffman (1969) sul disprezzo dei movimenti nei confronti dei “comportamenti di retroscena” della classe politica, sulla ossessione del “disvelamento” che ha accompagnato l’intera parabola del ’68 (facilitata e favorita, come ha evidenziato Joshua Meyrowitz [1985], dai meccanismi televisivi di messa in trasparenza del dietro le quinte), sul dilagare di una cultura “anti-drammaturgica”, degli impulsi alla de-sacralizzazione, alla trasgressione, alla esibizione del sé, in una sorta di panopticon rovesciato in cui il singolo si espone volontariamente allo sguardo dei molti (vedi la logica convergente di reality show televisivi e diari on line). Tutto ciò non ha nulla a che vedere con la vecchia cultura “piccolo borghese” (che viceversa era ossessionata dalla preoccupazione di nascondere agli occhi del pubblico le vicende private), ma certamente può essere classificato come una nuova forma di “falsa coscienza” (in senso marxiano) della classe dei knowledge workers i quali, avendo progressivamente smarrito il senso (peraltro originariamente debole) della propria identità collettiva, sembrano oggi ripiegare su queste forme di auto celebrazione delle proprie capacità, competenze e storie individuali. Si è già ricordato come questa ideologia consegni questo strato sociale all’egemonia culturale e allo sfruttamento economico da parte dei colossi del Web 2.0 (l’auto esibizione è la materia prima dei processi di valorizzazione di motori di ricerca, social network, piattaforme di blogging, colossi dell’e-commerce ecc.). Ma occorre aggiungere, a conclusione di questo disincantato discorso sugli effetti delle ideologie del “reincanto”, che li consegna anche all’egemonia politico-ideologica delle nuove destre “mediatiche”, come messo in luce da un recente studio di Federico Boni (2008) sulla fenomenologia di Berlusconi: è proprio grazie alla sua straordinaria capacità di mettere in scena (fino alla pura oscenità) la propria vita privata (dai recessi del suo corpo malato o chirurgicamente “ringiovanito”, agli impulsi più aggressivi e volgari, alle banalità da “uomo comune” che “ce l’ha fatta” e “si è fatto da solo”) che il leader mediatico per eccellenza ci ha insegnato che, grazie all’apoteosi del retroscena, il privato non è più solo pubblico, è anche (immediatamente e direttamente) politico (e costitutivamente di destra).


Michel Maffesoli À la racine des rêves collectifs (Alla radice dei sogni collettivi)

Souvenons-nous de ces éléments de base des grands systèmes théoriques de l’idéologie occidentale: le substantialisme, le subjectivisme, la conscience de soi. Toutes choses qui ont constitué le socle sur lequel se sont élaborées les représentations de l’anthropocentrisme moderne. L’action inaugurale de la démarche cartésienne, celle du doute universel a abouti à ces certitudes épistémologiques, non moins universelles, qui font de la conscience individuelle et de l’idéal de maîtrise les bases mêmes de toute connaissance. Idéal prométhéen s’il en est! À cela on peut opposer, sur la base de présentations empiriques, le constat intuitif de ces “données immédiates” (H. Bergson), de ces “idées-forces” (A. Fouillée) permettant de rendre attentif à la vie présente. À ce que j’ai appelé cet humanisme du présent où l’on retrouve le flux mêlé du rêve et de la réalité, l’épaisseur et la touffeur de l’existence quotidienne. Ce qui, d’un point de vue théorique enjoint de préférer la vie à l’idée de la vie. Voilà bien, en effet, la seule injonction qui mérite d’être proférée: savoir apprécier, donner son prix à ce que M. Merleau-Ponty nommait bellement “la chair du monde”.

Ricordiamoci degli elementi di base dei grandi sistemi teorici dell’ideologia occidentale: il materialismo, il soggettivismo, la coscienza di sé. Tutto ciò ha costituito il fondamento sul quale sono state elaborate le rappresentazioni dell’antropocentrismo moderno. L’impostazione fondante dell’approccio cartesiano, quella del dubbio universale, ha condotto a tali certezze epistemologiche universali, che fanno della coscienza individuale e dell’ideale dominante le basi stesse di tutta la conoscenza. L’ideale prometeico ne è un esempio! A ciò si può opporre, sulla base di presentazioni empiriche, la rilevazione intuitiva dei “dati immediati“ (H. Bergson) e delle “idea-forza” (A. Fouillée), che permettono di cogliere le caratteristiche della vita presente. Ho proposto, pertanto, la teoria dell’umanesimo del presente dove si ritrovano negli stessi flussi sogno e realtà, lo spessore e il calore dell’esistenza quotidiana. Ciò che, da un punto di vista teorico, porta le persone a preferire la vita rispetto all’idea della vita. Ecco l’unico imperativo che merita di essere proferito: sapere apprezzare, dare peso a ciò che M. Merleau-Ponty chiamava semplicemente “la carne del mondo”.


sondato nella sua totalità. Allo stesso tempo è noto, anche, che se l’abisso è un fondo, è ugualmente un valore2. Un tesoro al quale si può attingere. È qui che risiede probabilmente la sorgente della curiosa vitalità contemporanea. Tale abisso (fondo, valore), certamente contrario alla doxa del pensiero ortodosso, riemergendo apprende che “la felicità”, questa idea nuova secondo Louis-Antoine SaintJust, non è un ideale assoluto. Che la salvezza, di stampo giudaico-cristiano, è un bene astratto che persegue la redenzione dell’anima con mezzi da bottegaio. Nel sentirsi abbandonati da Dio, al contrario, si esprime un tipo di giubilo. Ho spesso rilevato che questo senso del tragico “immanente” sa adattarsi alla realtà delle cose, sa comporsi con esse. L’intelligenza degli equilibri. Grazie a ciò (ed è proprio tale vitalità a essere in questione) chiunque scopre nella potenza del gruppo la radice dei propri sogni o, più semplicemente, dei suoi modi di essere. Quanto detto si comprende a partire da tale fondo (valore), come nella formula antica “conosci te stesso”. Integrandosi in un’avventura (adventurus: ciò che deve accadere) causa ed effetto di un’inglobante vitalità. È proprio in ragione di tutte le emergenze proposte dall’esperienza quotidiana che è necessario, riprendendo una tematica heideggeriana, essere capaci di superare il soggetto padrone di se stesso, del mondo e del sociale. Mettere in discussione la posizione centrale dell’uomo e della coscienza3. Ciò che è importare notare è che “questo mondo” si espande nello stesso modo in cui la massa del pane lievita. Sostenendo ciò Heidegger voleva rilevare che al di là del soggetto e della coscienza, il pensiero deve essere

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totalité. En même temps l’on sait, aussi, que si l’abîme est un fond, c’est également un fonds. Un trésor dans lequel on peut puiser. Peut-être est-ce là que réside la source de la curieuse vitalité contemporaine. Certes, d’une part contre la doxa de la pensée établie, cet abîme (fond, fonds) renaissant apprend que le “bonheur”, cette idée neuve selon Saint-Just, n’est pas un idéal essentiel. Que le salut, d’essence judéochrétienne, est bien abstrait, que la sécurisation de l’existence procède d’une visée boutiquière. Mais, d’autre part, s’exprime une sorte de jubilation dans la déréliction. J’ai, déjà, rendu attentif à ce sens du tragique “incorporé” qui sait s’ajuster à ce qui est, composer avec lui. L’intelligence des équilibres. Grâce à celle-ci (c’est cela la vitalité dont il est question) tout un chacun découvre dans la puissance du groupe la racine de ses rêves et, tout simplement, de ses manières d’être. Réviviscence de l’antique “connaistoi toi-même”, il se comprend à partir de ce fond (fonds). Il s’intègre dans un aventure (adventurus: ce qui doit arriver) cause et effet d’un englobant vivifiant. C’est parce qu’il y a tous ces faits évidents que nous propose l’expérience quotidienne, qu’il faut, pour reprendre une thématique heideggérienne, savoir dépasser le sujet maître de lui, du monde et du social. Mettre en question la position centrale de l’homme et de la conscience1. Ce qu’il est important de remarquer, c’est que “ça monde”, un peu à la manière d’un monde qui se lève, comme l’on peut dire que la pâte de pain lève. Disant cela Heidegger voulait souligner qu’au-delà du sujet et de la conscience, la pensée devait être attentive à

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Le “idee-forza” presenti nelle nostre società, con una tale evidenza che non le si nota più, sono indubbiamente la messa in opera e l’integrazione di archetipi che attualizzano, nei vissuti quotidiani, le loro energie e le potenzialità dell’inconscio collettivo. La pubblicità, a tale riguardo, ne è un chiaro esempio. Si può sostenere lo stesso per la musica (techno, gotica), per il cinema, senza tralasciare le numerose teatralità urbane. In ciascuno di questi casi si è dinanzi a un processo di anamnesi di quello che si era creduto superato. Le cripte e le caverne della nostra umana natura. I “mattoni” primordiali che sono il fondamento di qualsiasi vita culturale, e di cui si scopre, con stupore, l’importanza. Una sorta di realtà latente, “residui” (V. Pareto) filogenetici che riappaiono nelle pratiche e negli eccessi tribali. Si tratta di una specie di sapienza selvaggia capace di liberare la bestia che riposa nel fondamento del societale1. Una specie di terremoto della natura nel cuore stesso della cultura, che si traduce in tutti i turbamenti contemporanei, e che produce, pertanto, una deidealizzazione dell’umanità. Ritengo che tali agitazioni, le atmosfere emozionali, il ritorno forsennato della libido, testimonino la saturazione dell’idealismo ufficiale e del primato della coscienza di sé che ne è l’espressione, e allo stesso tempo che esse annuncino il “reincantamento del mondo” (Maffesoli 2007, N.d.T.). Tale vertigine della natura, di cui testimonianza sono le numerose effervescenze contemporanee, si potrebbe anche paragonare alle rovine, o meglio ad abissi capaci di mettere in discussione le certezze razionali. In altre parole, ed è proprio ciò che riecheggia confusamente, il sottosuolo non può essere

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Les “idées-forces” à l’œuvre dans nos sociétés, tellement évidentes qu’on ne les voit plus, c’est bien l’activation et l’intégration, dans la vie de tous les jours, de ces anciens archétypes actualisant leurs énergies et les potentialités de l’inconscient collectif. La publicité est, à cet égard, un exemple éclairant. Mais il en est de même pour la musique (techno ou gothique), pour la production cinématographique, sans parler de diverses théâtralités urbaines. Dans chacun de ces cas, on est confronté à un processus d’anamnèse de choses que l’on avait cru dépassées. Les cryptes et cavernes de notre humaine nature. Les “briques” primordiales qui sont le fondement de toute vie culturelle, et dont on mesure, avec étonnement, l’importance. Sorte de réalité latente, “résidus” (V. Pareto) phylogénétiques qui réapparaissent dans les pratiques et les excès tribaux. Il s’agit là d’une sorte de sagesse sauvage libérant la bête qui sommeille dans le fondement sociétal. Sorte de vertige de la nature au sein même de la culture se traduisant dans tous les émois contemporains, et procédant, ainsi, à une désidéalisation de l’espèce. Je veux dire par là que ces émois, ces ambiances émotionnelles, ce retour forcené de l’affect, témoignent de la saturation de l’idéalisme officiel et du primat de la conscience de soi qui en est l’expression, et dans le même temps ils sont annonciateurs du “réenchantement du monde”. Vertige de la nature dont témoignent les nombreuses effervescences contemporaines, on pourrait tout aussi bien dire vestiges ou mieux abîmes mettant à mal les certitudes rationnelles. En effet, et c’est bien cela que l’on ressent confusément: le sous-sol ne peut pas être sondé en sa


to. Una “situazione limite” che permette l’esistenza. La nozione di genio può far luce su tale aspetto. Non il genio nella forma che egli ha acquisito durante la modernità, precisamente nel XIX secolo, quella di un individuo eccezionale, ma il genio come espressione momentanea di una qualità collettiva. Il genio contiene, di fatto, una parte d’incoscienza. Egli non agisce, né crea in coscienza, o in funzione di leggi esterne, ma piuttosto in accordo con una natura alla quale esso partecipa. Egli è il “favorito” degli dei, si potrebbe dire del divino “societale” che lo plasma. Egli cristallizza, in un momento eccezionale, il “genius” collettivo (gruppo, famiglia, “gente”) al quale partecipa. Dunque meno coscienza (di sé) che inscienza: essere dentro, o essere senza (Gadamer 1999, p. 60). Il “favorito” della deità collettiva è il collante del gruppo. È la star musicale, l’eroe sportivo, il guru religioso, l’intellettuale mediatico. È l’abbé Pierre, Zidane o Eminem. È il “totem” che ciascuno può essere, sarà o sognerà d’essere. È noto, ciascuno avrà il suo “quarto d’ora” di gloria (Andy Warhol). Per dirlo con termini presi in prestito dalla psicologia della profondità jungiana, queste figure alle quali ci accostiamo sono come altrettante “condensazioni”, dei motivi mitici, idealtipici, dietro ai quali le coscienze individuali, letteralmente, evaporano (Jung 1993, p. 84). È interessante notare che le figure totemiche preferite dai differenti strati della popolazione, così come accadeva nelle epoche passate, non sono mai anodine, ma appaiono sempre eccessive e spesso ambivalenti. Esse sono la sintesi delle molteplici qualità umane, nel bene come nel male. Soprattutto si presentano come altrettante revivi-

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d’exagéré. Une “situation limite” permettant l’existence. La notion de génie peut nous éclairer sur ce point. Non pas le génie en la forme qu’il a pris durant la modernité, précisément au XIXe siècle: celui d’un individu d’exception, mais bien le génie comme expression momentanée d’une qualité collective. Il renferme, de ce fait, une part d’inconscience. Il n’agit pas, ne crée pas en conscience, ou en fonction de lois extérieures, mais plutôt en accord avec une nature à laquelle il participe. Il est un “favori” des dieux, on pourrait dire du “divin sociétal” qui le travaille. Il cristallise, en un moment particulier, le “genius” collectif (groupe, famille, “gens”) auquel il participe. Donc moins conscience (de soi) qu’inscience: être dans, ou être sans (Gadamer 1999, p. 60). Ce “favori” de la déité collective est légion. C’est la star musicale, le héros sportif, le gourou religieux, l’intellectuel médiatique. C’est l’abbé Pierre, Zidane ou Eminem. C’est le “totem” que chacun peut être, sera ou rêve d’être. On le sait, chacun aura “son quart d’heure” de gloire (Andy Warhol). Pour le dire en des termes empruntés à la psychologie des profondeurs jungienne, ces figures auxquelles on communie sont comme autant de “condensations”, des motifs mythiques typiques derrière lesquels les consciences individuelles, littéralement, s’évaporent (Jung 1993, p. 84). Il est intéressant, d’ailleurs, de noter que les figures totémiques préférées des différentes couches de la population, ainsi que des diverses tranches d’âge ne sont, jamais, anodines mais, toujours, excessives et, souvent, ambivalentes. Elles sont le composé des diverses qualités humaines, en bien comme en mal. Et surtout elles sont comme autant de reviviscences de

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attento al risveglio del mondo e al mistero che esso porta con sé. È necessario ammettere, con lucidità e con umiltà, che le leggi morali sono estremamente variabili, e il ritorno ciclico di ciò che si era creduto sorpassato è qui per ricordarcelo. Le leggi fondamentali dello spirito umano, in quanto a loro, cambiano sempre molto poco. Queste ultime si ammantano di un aspetto contemporaneo. Questo è quanto. Ed essere attenti all’immaginario societale e all’invisibile, ci forza ad ammettere che molti fenomeni attuali non sono che la ripetizione delle vecchie credenze, illusioni ed emozioni popolari. A tal proposito, è stupefacente osservare come buona parte della produzione culturale, quella che in particolare attira le giovani generazioni, trova la sua fonte d’ispirazione nel ritorno del “mistero”. È dunque necessario, qui, comprendere strictissimo sensu: la condivisione dei miti, la reliance comunitaria4, i linguaggi gergali e il recupero dell’iniziazione. I misteri delle sette religiose durante il declino dell’Impero Romano, quelli che si celebravano nelle chiese medievali, di fatto simili a ciò che si riscontra nelle effervescenze musicali contemporanee, o nelle grandi messe che sono le sfilate dell’alta moda, sono caratterizzati dal medesimo aspetto: la creazione di un’atmosfera emotiva nella quale tutti quanti siamo “rapiti”. Grande “mysterium” insondabile nel quale, e grazie al quale, la singola persona si sente integrata in una comunità che la supera. Ciò porta al ritorno di una forma di esistenza al tempo stesso semplice e fondamentale: quella di “esserci”. La teatralità come condizione per qualsiasi manifestazione. Intendendo che ci sia nel gioco teatrale qualcosa di eccessivo, di esagera-

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l’éveil à ce monde-ci et au mystère qu’il promeut. Il faut admettre, avec lucidité, avec humilité que les lois morales sont extrêmement variables, et le retour cyclique de ce que l’on avait cru dépasser est là pour nous le prouver. Les lois fondamentales de l’esprit humain, quant à elles, varient fort peu. Ces dernières revêtent une apparence contemporaine. C’est tout. Et être attentif à l’invisible, mais opératoire, imaginaire sociétal, nous force à admettre que nombres de phénomènes actuels ne sont que la répétition des vieilles croyances, illusions, émotions populaires. Il est, à cet égard, frappant d’observer comment une bonne part de la production culturelle, celle qui en particulier attire les jeunes générations, prend sa source dans le retour du “mystère”, qu’il faut, ici, comprendre strictissimo sensu: partage des mythes, reliances communautaires, langages spécifiques, réactualisation de l’initiation. Les mystères des groupes religieux de la fin de l’Empire Romain, ceux qui se célébraient dans les églises médiévales, tout comme ceux que l’on retrouve dans les effervescences musicales de nos jours, ou dans ces grandes messes que sont les défilés de la haute couture contemporaine, redisent au fond la même chose: la création d’une ambiance émotionnelle dans laquelle tout un chacun est “pris”. Grand “mysterium” insondable dans lequel et grâce auquel la personne singulière se sent intégrée dans une communauté qui la dépasse. Ce qui force à revenir à une forme d’exister tout à la fois simple et fondamentale: celle de “être là”. La théâtralité comme condition d’apparition des choses. Étant entendu qu’il y a dans le jeu théâtral quelque chose d’excessif,


partecipa a un’orgia) e il vizioso. Si potrebbe, per diletto, stilare una lista interminabile di questi “caratteri” profondi, i quali si ritrovano nei racconti, nelle leggende e, semplicemente, nelle pulsioni quotidiane. Tali miti sono attraversati dall’ombra. Essi esprimono con forza ciò che è vissuto banalmente nella vita di tutti i giorni. Scoprendo che, contro la morale condivisa, tale ombra non perde occasione per essere un collante etico. Essa fonda, pertanto, la vita di tutte le comunità! Si è spesso definito l’essere umano come essere “capax dei”, cioè capace di usare la ragione. Forse bisognerebbe rimarcare ciò che è ugualmente “capax mortis”. È questa capacità che viene riscontrata, come un filo rosso, nelle figure mitiche di cui si è discusso. È ancora tale attitudine a essere ritrovata nelle estasi postmoderne. Ecco svelato il segno caratteristico delle forme di eccesso tribale. Le comunioni fusionali sono le forme parossistiche del sentimento tragico dell’esistenza quotidiana. Queste si strutturano intorno alle figure dell’orrore (film, spettacoli vari) o al fascino per la mostruosità. Alcuni psicanalisti contemporanei, ad esempio S. Tisseron (2003) e J.-L. Maxence (2004), indicano che ciò che accade in tali comunioni è una forma di apprendistato, di iniziazione alla morte (cfr. Maffesoli 2002). Aggiungerei un’omeopatizzazione di quest’ultima. Nelle feste (Love Parade, Gay Pride…) il bestiario mostruoso, i demoni e altre chimere occupano un posto di riguardo. Lo spettacolo delle catastrofi naturali, gli orrori politici (terrorismo), la messa in scena della pedofilia e i diversi omicidi quotidiani possiedono lo stesso fascino. In ciascuno di questi casi è il numinoso, la cui l’importanza è stata descrit-

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pourrait, à loisir, poursuivre une liste interminable de ces “fibres” profondes que l’on retrouve dans les contes, les légendes et, tout simplement, dans les pulsions quotidiennes. En bref, les mythes sont traversés par l’ombre. Ils disent en majeur ce qui est vécu en mineur dans la vie de tous les jours. Et il se trouve que contre la morale établie, cette ombre ne manque pas d’être un ciment éthique. Elle fonde, aussi, la vie de toute communauté! On a souvent défini l’être humain comme étant “capax dei”, on dit aussi capable de raison. Peut-être faudrait-il rendre attentif au fait qu’il est également “capax mortis”. C’est cette capacité que l’on retrouve, tel un fil rouge, dans les figures mythiques dont il a été question. C’est également elle que l’on retrouve dans les extases postmodernes. Voilà bien la marque essentielle des formes de l’excès tribal. Les communions fusionnelles sont les formes paroxystiques du sentiment tragique de l’existence quotidienne. Elles se structurent autour des figures d’horreur (films, spectacles divers) ou dans la fascination pour la monstruosité. Et certains psychanalystes contemporains, par exemple S. Tisseron (2003) ou J.-L. Maxence (2004), montrent bien que ce qui s’opère par là est une forme d’apprentissage, d’initiation à la mort (cf. aussi Maffesoli 2002). J’ajouterai une homéopathisation de celle-ci. Dans les parades festives (Love Parade, Gay Pride…) le bestiaire monstrueux, les démons et autres chimères occupent une place de choix. Le spectacle des catastrophes naturelles, les horreurs politiques (terrorisme), la mise en scène de la pédophilie et divers meurtres quotidiens participent de la même fascination. En chacun de ces cas c’est le numineux, dont R. Otto a montré l’impor-

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scenze di figure archetipiche che, in tal maniera, riprendono nuova vita. Da qui la necessità di mettere in opera un approccio che sappia situare il senso interno, profondo, delle fortune e delle sfortune della vita contemporanea, dei suoi divertimenti come delle sue ossessioni. Rischiamo un neologismo: della sua “désirance” fondamentale. Voglio dire in altre parole, che al di qua e al di là del desiderio individuale e psicologico, è la libido che muove tale désirance. Un impulso collettivo fatto da impressioni remote incise nella mente collettiva che, per un curioso ritorno, riprendono forza e vigore nei singoli individui. Queste impressioni prendono forma partendo da un passato lontano, e la ragione non è che un elemento, fra tanti, nella loro strutturazione. L’immaginazione si forma in maniera incalcolabile. Come lo ha dimostrato Lévi-Strauss quando parlò di “bricolage”. Quest’ultima è alla base stessa di tutte le “fantasie” sociali. Ed esse sono, a bene vedere, immorali. Di fatto, è presente in tali eccessi una strana fascinazione per il tragico. È sufficiente, a tal proposito, osservare l’amore per il teatro e per le pellicole horror. Sullo stesso piano si pone l’attrazione che suscita un fatto di sangue riportato dalle cronache. Sono tali pulsioni a essere in discussione, come insegna il buon senso popolare: ciò che succede oggi può accadermi domani. Secondo l’adagio antico “hodie tibi, cras mihi”! Tale buon senso si sedimenta, affondando le sue radici nel passato. In breve, c’è qualcosa di Edipo e di “Barbablù” in ciascuno di noi. Anche il dissoluto don Giovanni non è distante dal nostro modo di essere, così come il “serial killer”, senza dimenticare colui che, come Faust, sceglie di vendere la sua anima al diavolo. Costui è il “partouzeur” (trad. it. colui che

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figures archétypales reprenant, ainsi, une nouvelle vie. D’où la nécessité de mettre en œuvre une approche sachant repérer le sens interne, profond, des heurs et malheurs de la vie contemporaine, de ses divertissements comme de ses obsessions. Risquons un néologisme: de sa “désirance” fondamentale. Je veux dire par là, au-delà ou en deçà du désir individuel et psychologique, la libido qui la meut. Pulsion collective fait d’impressions immémoriales gravées dans la psyché collective et qui, par un curieux retour des choses, reprennent force et vigueur dans les esprits individuels. Ceux-ci sont “informés” de fort loin, et la raison raisonnante n’est qu’un élément, parmi d’autres, dans leur structuration. L’imagination est faite de bric et de broc. Ce qu’a bien montré LéviStrauss quand il parle de “bricolage”. Ce dernier est au fondement même de toutes les “fantaisies” sociales. Et celles-ci sont, à bien des égards, immorales. En effet, il y a dans l’excès une étrange fascination pour le tragique. Il suffit, à cet égard, d’observer la fascination pour le théâtre, ou encore pour les films d’horreur. Également l’attraction pour le fait-divers sanglant. Qu’est-ce qui est en jeu sinon une sorte de bon sens populaire: ce qui t’arrive aujourd’hui peut m’arriver demain. Selon l’adage antique “hodie tibi, cras mihi”! Et ce bon sens s’enracine, prend ses racines fort loin. En bref, il y a de l’Œdipe en tout un chacun, comme du “Barbe Bleue”. Le dépravé Don Juan n’est pas loin non plus, tout comme le “serial killer”, sans oublier celui qui, tel Faust, peut vendre son âme au Diable. Il en est de même du “partouzeur” comme du corrompu. Et l’on


rato come il luogo della matrice. Matrice inquietante ma allo stesso tempo “performativa”. Matrice del tragico collettivo. A tal proposito è importante rilevare che essa possiede sempre qualcosa di ruvido. “Trakou” è il non spianato, il mal smussato. Ciò di cui parlava Platone (Critone, 408c). L’esperienza che viene confermata giorno per giorno. È questo scontro con il destino, così come l’ho indicato, che ridona senso all’etica in quanto essa dimora. L’ethos è, infatti, quello spazio in cui si condividono delle figure eccessive. È ciò che può permettere di cogliere la curiosa serenità che accompagna la teatralità oscura delle figure mostruose. Accettazione di ciò che è. Esperienza di ciò che è. Accettazione ed esperienza come maniera, incosciente di dire “sì” alla vita anche riconoscendo che essa è “capace” di morte. In breve, apertura all’ignoto, all’alterità quotidiana del diverso, del numinoso come capacità di domare l’alterità parossistica: quella della morte. Si può descrivere ciò utilizzando un termine familiare e sempre più utilizzato nel gergo contemporaneo: “cool”. Termine polisemico, che descrive uno stato d’animo non offensivo, una sensibilità plurale. L’altro è cool, anche una situazione può esserlo, come l’atmosfera, la postura corporea o il modo di vestirsi. Di fatto si potrebbe elencare, ad infinitum, le espressioni utilizzate per indicare questo termine. In maniera rischiosa, forse audace, trattasi in ogni modo di uno sforzo indirizzato alla riflessione, si può confrontare “cool” con il termine che indica l’abito monastico: la coule (trad. it. cuculla). Essa era sia un paramento che i monaci indossavano per officiare i riti, sia un cappuccio portato sopra la tunica. Per inciso la cuculla permetteva di congiungere le mani sul plesso,

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ré comme un lieu matriciel. Matrice inquiétante mais non moins “performative”. Matrice du tragique collectif. Dont il est important de rappeler qu’il a, toujours, quelque chose de rugueux. “Trakou” c’est le non aplani, le mal dégrossi. C’est ce que Platon avait bien montré (Cratyle, 408c). C’est ce que l’expérience confirme au jour le jour. Et c’est cet affrontement au destin, ainsi que je l’ai indiqué, qui redonne sens à l’éthique en tant que séjour. L’éthos est, en effet, cet espace où l’on partage des figures excessives. C’est ce qui peut permettre de comprendre la curieuse sérénité accompagnant le théâtre d’ombres des figures monstrueuses. Acquiescement à ce qui est. Apprentissage de ce qui est. Acquiescement et apprentissage comme manière, inconsciente, de dire “oui” tout de même à la vie en reconnaissant qu’elle est “capable” de mort. En bref, ouverture à l’altérité, à l’altérité quotidienne de l’étrange, du numineux comme manière d’apprivoiser l’altérité paroxystique: celle de la mort. On peut illustrer cela au travers d’un terme familier et de plus en plus utilisé dans le jargon contemporain: “cool”. Terme polysémique s’il en est, décrivant un état d’esprit non-offensif, une sensibilité plurielle. L’autre est cool, une situation peut l’être aussi, tout comme l’ambiance, la posture corporelle ou la manière de se vêtir. Et l’on pourrait, ad infinitum, égrener les expressions utilisant ce terme. D’une manière hasardeuse, peutêtre audacieuse, mais il s’agit de donner à penser, on peut rapprocher ce “cool” du vêtement monastique: la coule. Soit vaste habit de chœur que les moins revêtaient pour chanter l’office, soit scapulaire porté par-dessus la tunique. Par parenthèse cela

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ta da R. Otto, ad esserne il perno centrale5. Precisamente in ciò che appare anormale e inquietante. Tutta la demonologia contemporanea ha riflettuto sulla rinascita di tale fondamento antropologico. Musica “gotica”, “metal”, moltiplicazione dei locali dove ci si scambia il partner, sviluppo del feticismo o del sadomasochismo, il “branding”, che consiste nel farsi incidere la pelle con un ferro incandescente, lo stile barbarico dell’alta moda, perfino il successo delle tecniche “New Age”, lo sciamanismo, tutto ciò mette l’accento su un’esperienza condivisa del diverso. Esperienze quotidiane che ripropongono, con più o meno serietà, talvolta anche in un modo totalmente “kitsch”, la memoria abissale dell’inferno e dei suoi tormenti. L’oscurità caratterizza i libri e i film che narrano l’iniziazione di eroi leggendari, Harry Potter è in tal caso un esempio illuminante. Una struttura ossimorica, come una “oscura chiarezza”, che riesce a dimostrare come la Storia dominante, individuale o collettiva, lasci il posto a piccole storie fondatrici della comunità. Infatti, in tutti questi esempi, il tempo misurato viene soppiantato da uno spazio che appartiene all’ordine del destino collettivo. Spazio del corpo mutilato, tatuato o penetrato da percing. Spazio semantico, o per riprendere un’espressione di L. Binswanger, uno “spazio patico” (1999). Quello di un pathos condiviso. L’espressione di questa “tana alle streghe” è presente in numerosi villaggi, gli esempi proposti fin qui sono, in qualche modo, le “tane delle streghe” delle città postmoderne. È necessario riconoscere, oltre qualsiasi valutazione morale, che questi fenomeni hanno una funzione aggregante. Questo spazio patico può essere conside-

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tance, qui est le pivot central. Justement en ce qu’il a d’étrange et d’inquiétant. Et toute la démonologie contemporaine repose sur le resurgissement de ce socle anthropologique. Musique “gothique” ou “métal”, multiplication des lieux d’échangisme sexuel, développement du fétichisme ou du sado-masochisme, le “branding”, consistant à se faire marquer au fer rouge, le haut stylisme barbare, voire le succès des techniques du “New Age”, ou du shamanisme, tout cela met l’accent sur l’expérience de l’étrange éprouvée en commun. Expériences quotidiennes rejouant, avec plus ou moins de sérieux, parfois même d’une manière totalement “kitch”, la mémoire abyssale de l’enfer et de ses tourments. L’obscurité traversant les livres ou films racontant l’initiation de ces héros de légende qu’est Harry Potter est, on peut dire, éclairante. Structure oxymoronique, c’est une “obscure clarté” montrant bien que l’Histoire maîtrisable, individuellement ou collectivement, laisse la place à ces petites histoires fondatrices de la communauté. En effet, dans tous ces exemples, le temps maîtrisé laisse la place à un espace qui est de l’ordre du destin partagé. Espace du corps que l’on mutile, que l’on tatoue ou que l’on perce. Espace sémantique, ou pour reprendre une expression de L. Binswanger, un “espace pathique” (1999). Celui d’un pathos partagé. À l’image de ce “trou aux sorcières” que l’on retrouve dans de nombreux villages, les exemples donnés sont, en quelque sorte, les “trous aux sorcières” des villes postmodernes. Il faut reconnaître, au-delà de toute appréciation morale, que ces phénomènes ont une fonction agrégative. Cet espace pathique peut être considé-


terità. C’è dunque un’irradiazione radioattiva di questo mass media di comunicazione interattiva. In una ricerca F. Casalegno parla anche dello scivolamento dell’orale “nell’aura(le)”6. È ugualmente interessante notare che in internet nei giochi o nei forum di discussione sull’undernet, “ghost” è il nome dato al fantasma che resta impresso da quando il protagonista non è più in gioco. Questo fantasma continua a far parte “realmente” della comunità virtuale. Il ricordo delle figure eccessive è pertanto un’anticipazione. Tali figure sembrano richiamare un “tempo integrale” (Schelling) dove il passato e il futuro si congiungono nel presente. Si tratta dunque di un’esperienza che “ogni volta” si rinnova. Una reale ricerca del Graal sempre e comunque attuale. Una vera “copulazione visuale”, quella di un mondo attraversato dal proliferare delle immagini, mediante un vero sradicamento di se stessi al quale si è confrontati. È nell’alterità che sbocciano le figure dell’eccesso. È in questo senso che si “inventa” (far [ri]tornare) una nuova forma di vita sulla base di un’etica per molti aspetti immorale. L’eccesso può essere fondatore. L’anomico è, sempre, l’alimento del canonico, in quanto dona contorni irregolari, inquietanti e sconosciuti a un legame sociale dove gli affetti e le emozioni hanno la loro parte: quella dell’ordo amoris (M. Scheler). Al fine di rendere relative le nostre paure di fronte a questi strani fenomeni, qualificati spesso come immorali; per collocarli, in altre parole, all’interno di una prospettiva storica, conviene ricordare che durante tutte le svolte epocali i modi di vita alternativi suscitarono sempre angoscia e dissenso. Così gli appartenenti alle sette del cri-

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grâce à l’altérité. Il y a un rayonnement radioactif de ces médias de communication interactive. Dans une recherche F. Casalegno parle même d’un glissement de l’oral à “l’Aura(le)”2. Il est également intéressant de noter que dans les jeux ou les discussions de l’Undernet dans internet, “ghost” est le nom donné au fantôme qui reste imprimé alors que le protagoniste n’est plus là. Ce fantôme continue à faire partie “réellement” de la communauté virtuelle. Ainsi la remémoration des figues excessives est anticipation. Celles-ci semblent rappeler un “temps intégral” (Schelling) où le passé et le futur se conjuguent dans le présent. Et il s’agit là d’une expérience “tousjours” renouvelée. Véritable quête du Graal toujours et à nouveau actuelle. Au travers d’une véritable “copulation visuelle”, celle d’un monde traversé par le pullulement des images, c’est à un véritable arrachement de soi que l’on est confronté. Les figures de l’excès éjectent dans l’altérité. C’est en ce sens qu’elle “invente” (font [re]venir au jour) une nouvelle forme de vie sur la base d’une éthique quelque peu immorale. L’excès peut être fondateur. L’anomique est, toujours, gras du canonique en ce qu’il donne les contours irréguliers, inquiétants, étranges d’un lien social où les affects et les émotions ont leur part: celui de l’ordo amoris (M. Scheler). Afin de relativiser nos inquiétudes vis-à-vis de ces étranges phénomènes que l’on qualifie d’immoraux, afin, aussi, de les mettre en perspectives historiques, il est judicieux de se souvenir qu’à toutes les césures épocales les modes de vie alternatifs suscitèrent angoisses et rejets. Ainsi, les sectateurs du christianisme, en son moment nais-

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questa caratteristica permetteva di distendere il corpo e di acquietare lo spirito. Il canto lancinante dei riti religiosi, la postura corporea che permetteva di accedere alla beatitudine, all’esperienza dell’essere, erano tutte quante esperienze di distacco. Si può trovare una similitudine tra quanto detto e gli abiti giovanili con il cappuccio e la tasca ventrale, questi ultimi possiamo accostarli a espressioni familiari come: être à la coule (trad. it. essere al corrente), se la couler douce (trad. it. vivere gradevolmente). Un’altra similitudine, più precisa e fondata è la “cuculine”, tipo di ape parassita, e altrettanto il “cuculo”, volatile che pone le sue uova nel nido di un altro uccello. Da qui la tattica del cuculo. Ecco dunque una conseguenza, meritevole di essere analizzata, dell’essere alla “coule” o essere “cool”: un’attitudine non attiva senza essere passiva. Una creazione che non si struttura sul rapporto dominante di un soggetto su un oggetto. Neppure su una logica del dominio, di sé e del mondo, propria della morale occidentale e della politica che ne è l’espressione, ma un’altra “forma” più serena, più distaccata, e certamente meno offensiva nei confronti dell’alterità. Tale conseguenza si può osservare, in particolare, nel diverso rapporto con la realtà che la tecnologia contemporanea ha nel virtuale. Questa diventa, per riprendere un’espressione di Bergson: “un macchinario degli dei”. “La rete” (stupenda metafora!), i giochi di ruolo su internet o lo stesso l’uso del telefono cellulare, mettono in scena delle “creature” digitali. Sensi, figure, caratteristiche che sono come altrettanti “Golem” postmoderni. Tutto ciò fa riemergere l’energia archetipica delle immagini. Favorendo la dilatazione dell’io in e grazie all’al-

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permettait de joindre les mains sur le plexus ce qui participe d’un délassement du corps, et d’une sérénité de l’esprit. Toutes choses: chant lancinant de l’office, posture corporelle permettant d’accéder à la béatitude, à l’expérience de l’être. Expérience de détachement. On peut rapprocher cela de ces vêtements juvéniles contemporains à capuchon et à poche ventrale, tout comme on peut le rapprocher de ces expressions-là encore familières: être à la coule, se la couler douce. Une autre proximité, plus précise et fondée celle-là (cf. Littré): la “cuculine”, sorte d’abeille parasite, et bien sûr le “coucou”, oiseau mettant ses œufs dans le nid d’un autre: la tactique du coucou. Voilà bien une conséquence, méritant réflexion, d’être à la coule ou d’être “cool”: une attitude non active sans être passive. Une création ne reposant pas sur le rapport dominant d’un sujet sur un objet. Non plus sur une logique de la domination, de soi et du monde, propre à la morale occidentale et à la politique qui en est l’expression, mais bien une autre “forme” plus sereine, plus détachée, bien moins offensive vis-à-vis de l’altérité. Celle-ci s’observe, en particulier, dans cet autre rapport à la réalité qu’est le virtuel propre à la technologie de pointe. Celle-ci devient, pour reprendre une expression de Bergson: une “machine à faire des dieux”. Or la “toile” (belle métaphore!), les jeux de rôle sur internet ou même l’usage du téléphone cellulaire mettent en scène des “créatures” numériques. Sens, figures, gimmick qui sont comme autant de “Golems” postmodernes. Tout cela fait bien ressortir l’énergie archétypique des images. Tout cela favorise la dilatation du moi dans et


Contro una civilizzazione debole, e avendo perduto il suo ardore originario, nei monasteri si voleva creare un sistema di vita coerente, senza antagonismo tra lo spirito e il corpo, una vita in comunione con la natura, che, pure essendo anomica rispetto ai valori stabiliti, permetteva l’elaborazione di una struttura fraterna e di un’architettura specifica che le serviva da scrigno. Uno dei punti essenziali di questo ideale comunitario è certamente la “servitù volontaria”. Un legame di gruppo che si ricerca, e che si accetta, come mezzo per accedere alla compiutezza. Si ricordi l’analisi (critica) di Étienne de La Boétie su tale tema. Prima di lui, san Bernardo sosteneva che l’uomo, nella cornice della clausura monastica, dovesse desiderare questo legame, e che l’anima ci trovasse, allo stesso tempo, schiavitù e libertà. Dolce violenza che fa della rinuncia della propria volontà, si potrebbe dire della coscienza di sé, il buon metodo per la realizzazione della totalità dell’essere. Progressivamente l’excessus monastico è diventato un elemento strutturante della civilizzazione occidentale, nonostante lo scandalo dell’adorazione della croce, “pazzia” per i saggi di questo mondo come sostenevano gli apostoli. A detta di molti tale aspetto, l’adorazione della croce, è la base assoluta della civilizzazione occidentale. Non è, quindi, legittimo chiedersi se le paure contemporanee o tutti gli eccessi che costellano la vita delle nostre società non sono altro che, semplicemente, gli indizi più sicuri di una cultura in gestazione? Le modulazioni attuali di questa ebrietas antropologica, di tale ubriachezza che regolarmente corrode il corpo sociale. Accantonando le costruzioni dottrinali e normative maggiormente stabilite. Promuovendo

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Dieu. Contre une civilisation alanguie, et ayant perdu son ardeur originelle, il s’agissait de créer un système de vie cohérent, sans antagonisme entre l’esprit et le corps, une vie en communion avec la nature, qui, tout en étant anomique par rapport aux valeurs établies, permette l’élaboration d’une architectonique fraternelle et d’une architecture spécifique lui servant d’écrin. Or, un des points essentiels de cet idéal communautaire est bien celui de la “servitude volontaire”. Le Joug du groupe que l’on recherche, et que l’on accepte comme moyen d’accéder à la complétude. On se souvient de l’analyse (critique) de La Boétie sur un tel thème. Mais, avant lui, saint Bernard rappelle que l’homme, dans le cadre de la clôture monastique, doit désirer ce joug, et que l’âme y trouve, tout à la fois, esclavage et liberté. Douce violence qui fait de l’abdication de la volonté propre, on pourrait dire de la conscience de soi, la bonne méthode pour une réalisation de l’entièreté de l’être. Progressivement, ce scandale de l’adoration de la croix, “folie” pour les sages de ce monde disait l’apôtre, ou l’excessus monastique est devenu un élément structurant de la civilisation occidentale. Pour certains même cela est en le socle irréfragable. N’est-il pas, dès lors, légitime de se demander si les transes contemporaines ou tous les excès ponctuant la vie de nos sociétés ne sont pas, tout bonnement, les indices les plus sûrs d’une culture en gestation? Modulations actuelles de cette ebrietas anthropologique, de cette ivresse qui régulièrement taraude le corps social. Mettant à bas les constructions doctrinales ou normatives les plus établies. Promouvant des mœurs alternatifs, des

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stianesimo, all’epoca della sua nascita, erano giudicati con le peggiori ignominie! Ciò che accadeva nelle catacombe romane e negli altri luoghi segreti di culto, non avvenne senza creare degli spauracchi. L’effervescenza religiosa indignava il serio razionalismo della religione di Stato romana. Tra i numerosi esempi in tal senso, si può ugualmente rammentare che l’istituzione della vita monastica, e più tardi la sua riforma, furono, analogamente, percepite come uno stile di vita considerato stravagante. Pertanto i lavori di storici e anche di sociologi come Léo Moulin (1981) posero l’accento sulla clausura monastica, che fu un vero laboratorio dove si elaborarono i lineamenti della vita moderna. Conservatori delle arti e delle tecniche, i monasteri furono anche i luoghi dove, grazie alle diverse elezioni (padre, abate, priore e altri titoli) si sperimentò ciò che poteva definirsi una democrazia partecipativa. Prima che il dominio di diversi poteri (politico e religioso), o il meccanismo delle prebende, prevalessero, i monasteri erano spazi di autonomia, luoghi di creatività dove un’etica (ethos) alternativa era in gestazione. Non è insensato ricordare che questa creatività poteva essere considerata, per i monaci stessi e, a maggior ragione, per le popolazioni circostanti, come l’espressione di un vero “excessus”: una vita eccessiva che sfuggiva agli stili di vita e alle norme comunemente accettate. Così, per san Bernardo, la vita religiosa era un “sobria ebrietas”. Un’ebbrezza sobria alla base della vita comunitaria (Davy 1990, p. 72). Normalmente, l’eccesso e l’ubriachezza confermano il mistero della vita comune, e altrettanto il “trasporto” dell’anima nel suo avanzare verso Dio.

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sant, étaient crédités des pires ignominies! Et ce qui se passait dans les catacombes romaines et autres lieux secrets de ce culte mystérieux ne fut pas sans susciter bien des fantasmes. L’effervescence religieuse choquait le sérieux rationalisme de la religion de l’État romain. Parmi les nombreux exemples en ce sens, on peut, également, rappeler que l’établissement de la vie monastique puis, plus tard, sa réformation, furent, également, perçus comme un mode de vie marqué du sceau de l’étrange étrangeté. Et pourtant, les travaux d’historiens ou même de sociologues comme Léo Moulin (1981) soulignèrent en quoi la clôture monastique fut un véritable laboratoire où s’élaborèrent les linéaments de la vie moderne. Conservatoires des arts et des techniques, les monastères furent même les lieux où, grâce aux diverses élections (père, abbé, prieur et autres diverses officies) l’on expérimenta ce qui pourrait s’appeler une démocratie participative. Avant que la mainmise des divers pouvoirs (politiques ou religieux), ou le mécanisme des prébendes, ne prévalent, il s’agissait bien d’espaces d’autonomie, des sites de créativité où une éthique (éthos) alternative était en gestation. Aussi n’est-il pas paradoxal de rappeler que celle-ci pouvait être considérée, par les moines eux-mêmes et, a fortiori, par les populations environnantes, comme l’expression d’un véritable “excessus”: une vie excessive échappant aux modes de vie et aux normes communément admis. Ainsi, pour saint Bernard, la vie religieuse est une “sobria ebrietas”. Une ivresse sobre fondement de la vie communautaire (Davy 1990, p. 72). En la matière, l’excès et l’ivresse confortent le mystère de la vie commune, et permettent le “transport” de l’âme dans son cheminement vers


Pertanto la prima di tali tipologie ha permesso l’elaborazione di categorie assolute, mentre la seconda è causa ed effetto delle diverse anomie che puntellano la vita sociale. Tali scivolamenti tra razionale e sensibile si presentano in ugual misura sfuggenti e profondi, e impongono all’osservatore sociale un nuovo stile di ascolto e d’indagine per riconoscere il posto che compete al tattile e al sensibile. È necessario mettere in opera un pensiero testardo che sappia riconosce la presenza del primordiale, del “sempre già esistente”, di una vita che si potrebbe qualificare come “primexistante”. È dunque ciò che rende possibile il riemergere delle figure eccessive di cui l’attualità non è avara. Non è più in discussione un legame sociale di cui il senso si deve cercare nel futuro, ma delle aggregazioni, più o meno effervescenti, come altrettante anamnesi dell’origine. Illustrazioni, per riprendere un’espressione di Merleau-Ponty, di una “intuizione geniale superiore al soggetto pensante” (1962, p. 305). Le stupefacenti e, talvolta, inquietanti, tribù postmoderne mettono, innanzitutto, l’accento sul significato transpersonale della vita. Quello dell’istinto e di una “psiche oggettiva”. Le trans musicali, le violenze sportive, la ricerca del rischio, dalle bande di motociclisti a quelle della sessualità disinvolta, tutto ciò può essere considerato come una “ipotiposi”, un tratto tipico dei “caratteri essenziali” che marcano in profondità l’essere insieme sotto tutte le sue modulazioni. Una tale prospettiva, che riprende la sapienza antica, permette di ammettere che possa rinascere ciò che si credeva morto: “multa renascentur quae iam cecidere” (Orazio). Considerando ciò non è più il caso di ridere, di burlarsi, di vituperare, ma

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Autant la première de ces typologies a permis l’élaboration de normes générales, autant la seconde est cause et effet des diverses anomies ponctuant la vie sociale. Ce sont ces glissements subreptices mais profonds qui nécessitent de l’observateur social un nouveau style d’écoute et de regard reconnaissant la place qui est la sienne au tactile, au sensible. Mettre en œuvre une pensée têtue qui sache reconnaître la présence du primordial, de “toujours déjà là”, d’une vie que l’on pourrait qualifier de “primexistante”. C’est bien cela que font ressortir les figures excessives dont l’actualité n’est pas avare. Non plus un lien social dont le sens est à chercher dans le futur, mais bien des agrégations, plus ou moins effervescentes, comme autant d’anamnèses de l’origine. Illustrations pour reprendre une expression de Merleau-Ponty, d’un “génie perceptif au-dessus du sujet pensant” (1962, p. 305). Les étonnantes et, parfois, inquiétantes, tribus postmodernes mettent, avant tout, l’accent sur la signifiance transpersonnelle de la vie. Celle de l’instinct, celle d’une “psyché objective”. Les transes musicales, les violences sportives, les recherches du risque, des bandes de motards à celles de la licence sexuelle débridée, tout cela peut être considéré comme une “hypotypose”, une présentation typique des “caractères essentiels” informant en profondeur l’être-ensemble sous toutes ses modulations. Une telle mise en perspective, renouant avec une sagesse antique, permet de reconnaître que puissent renaître des choses que l’on croyait mortes: “multa renascentur quae iam cecidere” (Horace). Et dès lors il n’y a pas lieu de rire, de se moquer, de vitupérer,

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dei costumi alternativi, delle mentalità eterodosse. In breve, delle posture corporee e intellettuali che testimoniano il nuovo dato societale. Segnalo che si tratta di una costante che si ritrova in tutte le culture. L’archetipo del “trickster”, la cui funzione è, precisamente, di portare una compensazione alla rigidità di ciò che nel tempo si è cristallizzato. Il “giullare del re”, il buffone, il saltimbanco non è nient’altro che una figura individuale che prende, talvolta, una “forma” collettiva. Che permette, in tal modo, che emerga nuovamente la sostanza non razionale del vasto campo degli istinti sociali. Il suo immaginario, i suoi impulsi ludici, i suoi sbrigliamenti onirici. Jung, che ha affrontato, a più riprese, una tale irruzione, parla del ruolo del “birbone divino” (cfr. Jung, Kerenyi 1970, p. 177; Jung, von Franz 1988, p. 288). Espressione coerente in quanto rileva l’importanza dell’eccesso nella costruzione sociale. Importanza che è vano negare, poiché tale “birbone” riappare sempre. Nei suoi stessi eccessi, nell’espressione del corpo sociale che gli permette di sfuggire alle languide illusioni di un’atmosfera asettica e mortifera. Secondo Fernando Pessoa, la sociologia consiste nel decifrare le leggi segrete che regolano la società (cfr. Bréchon 1996, p. 414). Quelle che, in altri termini, permettono di riconoscere il rapporto esistente tra il sogno e ciò che chiamiamo realtà. Le regole di una vita sociale dove le idee, le illusioni, le credenze, in sintesi l’immaginario, occupano un posto centrale. La “legge segreta” essenziale, e tuttavia scarsamente accettata, è quella del tramonto del razionalismo verso il sensismo, di una tipologia sociale dominata dalla ragione verso un’altra dove il sentimento prevale.

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manières de penser hétérodoxes. En bref, des postures corporelles et intellectuelles témoignant d’une nouvelle donne sociétale. Je signale qu’il s’agit là d’une constante que l’on retrouve dans toutes les cultures. L’archétype du “trickster”, dont la fonction est, justement, d’apporter une compensation à la rigidité de ce s’est, à la longue, rigidifié. Le “fou du roi”, le bouffon, et autre saltimbanque n’est pas, simplement, une figure individuelle. Il prend, parfois, une “forme” collective. Et permet, ainsi qu’émerge à nouveau la profondeur non-rationnelle du vaste domaine des instincts sociaux. De son imaginaire, de ses pulsions ludiques, de ses débridements oniriques. Jung qui a abordé, à maintes reprises, une telle irruption, parle du rôle du “fripon divin” (cf. Jung, Kerenyi 1970, p. 177; Jung, von Franz 1988, p. 288). Judicieuse expression en ce qu’elle souligne l’importance de l’excès dans la structuration sociale. Importance qu’il est vain de nier, car ce “fripon”, toujours, réapparaît. Dans ses excès mêmes, en expression du corps social lui permettant d’échapper aux languides illusions d’une atmosphère aseptisée et quelque peu mortifères. Selon Fernando Pessoa, la sociologie consiste à déchiffrer les lois secrètes régissant la société (cfr. Bréchon 1996, p. 414). En la matière, celles permettant de reconnaître le rapport existant entre le rêve et ce que l’on appelle la réalité. Celles d’une vie sociale où les idées, les illusions, les croyances, en un mot l’imaginaire occupent une place centrale. La “loi secrète” essentielle, et pourtant peu admise, est celle du glissement du rationalisme vers le sensualisme, d’une typologie sociale dominée par la pensée vers une autre où le sentiment prévaudrait.


dei grandi cambiamenti7. Periodi di inversione di polarità che permettono una nuova comunicazione tra culture diverse. Ed è all’interno di queste culture che si costruisce un’altra forma di comunicazione tra i gruppi. Comunicazione, interazione simbolica, declinazioni diverse dello stesso concetto: processo di corrispondenza, di riconoscimento, di commistione di ciò che aveva separato, si era separato, e che diviene comune. È questo destino comune che costituisce la specificità dell’etica. L’éthos è un modo di essere e di pensare, dove tutto è al suo posto, dove tutto ha il suo posto. Organicità del materiale e dello spirituale, del bene e del male, nel centro dell’unione arricchente dei contrari. Ecco dunque le radici del reincantamento del mondo proprio della postmodernità.

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grands changements3. Périodes d’inversion de polarité permettant une nouvelle communication entre des cultures diverses. Et à l’intérieur de ces cultures une autre forme de communication entre les groupes qui la constituent. Communication, interaction symbolique, manières diverses de dire la même chose: processus de correspondance, de reconnaissance, d’interpénétration de ce que l’on avait séparé, qui s’était séparé, et qui s’avère commun. C’est ce destin commun qui constitue la spécificité de l’éthique. L’éthos, manière d’être et de penser, où tout est à sa place, où tout a sa place. Organicité du matériel et du spirituel, du bien et du mal, en un centre de l’union enrichi des contraires. Voilà bien les racines du réenchantement du monde propre à la postmodernité.

(traduzione di Federico Ettore Maria Tarquini)

Note Cf. Steiner 1987. Sur “l’underground”, cf. Gadamer 2002, p. 281. Cf. aussi Moscovici 1979. 2 Cf. F. Casalegno, Sociétés ; cf. aussi Moscovici 1985. 3 Sur la notion “période axiale”, cf. Jaspers 1954. 1

Bibliografia Binswanger, L., 1932, Das Raumprobleme in der Psychopathologie; trad. franc. 1999, Le Problème de l’espace en psychopathologie, Toulouse, Presses Universitaires du Mirail Toulouse. Binswanger, L., 1932, Das Raumprobleme in der Psychopathologie. Bréchon, R., 1996, Étrange étranger. Une biographie de Fernando Pessoa, Paris, Bourgois. Davy, M. M., 1990, Saint Bernard, Paris, Félin. Gadamer, H. G., 1999, Les chemins de pensée de Heidegger, Paris, Vrin. Jaspers, K., 1949, Vom Ursprung und Ziel de Geschichte, München, Fischer; trad.

Note 1 Sulla nozione di “societale”, cfr. Maffesoli 1993 (N.d.T.). 2 L’autore utilizza un gioco di parole che nella traduzione perde il suo significato. I termini fond (fondo) e fonds (valore) in francese si pronunciano nello stesso modo (N.d.T.). 3 Cfr. Steiner 1987. Su “l’underground”, Gadamer 2002, p. 281. Cfr. Moscovici 1979. 4 Sulla nozione di “reliance”, cfr. Maffesoli 2004 (N.d.T.). 5 Sulla nozione di “numineux”, Otto 1917 (N.d.T.). 6 F. Casalegno, Sociétés. Cfr. Moscovici 1985. 7 Sulla nozione di “periodo assiale”, cfr. Jasper 1954.

Bibliografia Binswanger, L., 1932, Das Raumprobleme in der Psychopathologie. Bréchon, R., 1996, Étrange étranger. Une biographie de Fernando Pessoa, Paris, Bourgois. Davy, M. M., 1945, Saint Bernard, Paris, Félin.

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finalmente di cogliere questa (ri)nascita che mette in relazione l’ombra e la luce, il bene e il male. Quando il “bad boy” Eminem canta: “io non sono qui per salvare il mondo”, egli ottiene l’adesione spontanea dei suoi “fan” in trans, sovreccitati da un ritmo musicale sincopato. In quell’istante, Eminem non diviene forse la personificazione dell’antica figura di Ermes, dio del commercio e dei ladri, dio dell’illuminazione e guida dei misteri, figura dell’alchimia, scienza dove lo spirito divino è nascosto nella materia? Questa figura musicale eccessiva, come le altre del passato (Madonna), dello stesso periodo (Björk), e come quelle che verranno, non è altro che una cristallizzazione dello spirito del tempo, un “genio che soggiace al soggetto pensante” rammentando che, regolarmente, un nuovo “commercio” si instaura. I sentimenti e le sensazioni circolano nuovamente, mandando in cortocircuito la morale stabilita. Ricordando che oltre la salvezza del mondo da parte del bene (Dio, progresso, storia…), può esistere una misteriosa alchimia dove gli dei e i demoni di ogni sorta si confondono. Questo nuovo commercio pone l’accento sulla nebulosità della vita, sul suo chiaroscuro. Sul fatto che al di là o al di qua della “coscienza di sé” esiste un’unione indissociabile dell’autentico e dell’inautentico, della verità e dell’erranza. Ed è tale intreccio inestricabile che determina ciò che comunemente chiamiamo il legame sociale. Per dirlo più semplicemente, un modo di camminare insieme: non unicamente fianco a fianco, secondo lo schema razionale del contratto sociale, ma in un’atmosfera più fusionale, perfino più confusionale. Così sono i “periodi assiali” dove questo cammino simultaneo subisce

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mais bien de comprendre cette (re)naissance mettant en relation l’ombre et la lumière, le bien et le mal. Lorsque le “bad boy” Eminem chante: “je ne suis pas là pour sauver le monde”, il obtient l’adhésion spontanée de ses “fans” en transe, surexcités par un rythme musical saccadé. Mais n’est-il, à ce moment-là, la personnification de l’antique figure d’Hermès, dieu du commerce et des voleurs, dieu de l’illumination et guide des Mystères, figure de l’alchimie où l’esprit divin est enfoui dans la matière? Cette figure musicale excessive, comme il y en eut bien d’autres avant (Madonna), en même temps (Björk), comme il y en aura après, n’est en fait qu’une cristallisation de l’esprit du temps, un “génie au-dessous du sujet pensant” rappelant que, régulièrement, un nouveau “commerce” s’instaure. Je veux dire par là que les affects et les sensations circulent à nouveau, et court-circuitant les valeurs établies. Rappelant qu’au-delà du salut du monde par le Bien (Dieu, Progrès, Histoire…), il peut exister une mystérieuse alchimie où les dieux et les démons multiples ont partie liées. Ce nouveau commerce met l’accent sur la nébulosité de la vie, son clairobscur. Sur le fait qu’au-delà ou en deçà de la “conscience de soi” existe une union indissociable de l’authentique et de l’inauthentique, de la vérité et de l’errance. Et que c’est ce mixte inextricable qui détermine ce que communément on appelle le lien social. Pour le dire plus simplement une manière de cheminer ensemble: pas uniquement côte à côte selon le schéma rationnel du contrat social, mais dans une ambiance plus fusionnelle, voire plus confusionnelle. Il est des “périodes axiales” où ce cheminement de concert subit des


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Agata Piromallo Gambardella Il disincanto della regola

L’uomo della fine del XIX secolo si trova a vivere una straordinaria avventura: quella di entrare nel mondo incantato dei media e di vedere improvvisamente allargarsi a dismisura il suo orizzonte sensoriale ed esperienziale. Comincia così la sua navigazione in questo nuovo spazio allietato dal canto delle Sirene mediatiche, davanti a cui egli non può e non vuole tapparsi le orecchie. Ma, come Ulisse, vuole goderne fino in fondo l’incanto, senza lasciarsi, però, legare dall’astuzia della ragione di cui questo uomo, incautamente, pensa ancora di possedere il controllo. E quando comincerà a dubitarne, s’accorgerà che in fondo non ha più nessuna importanza per lui seguire la giusta rotta, perché tutte le vie ormai si sono moltiplicate, sovrapposte, incrociate, non permettendogli più di tornare indietro. Per questo motivo, non cercherà di uscire dall’incantesimo. Il primo di questi incantesimi è rappresentato dal cinema, dove l’immagine raggiunge il culmine del suo potere di seduzione e della sua capacità di conferire la massima visibilità al reale attraverso una ricostruzione, manipolazione, al limite falsificazione del dato. Il cinema è uno dei momenti salienti di quel processo di espansione della cultura dei media che Maffesoli ha definito le “réenchantement du monde”. Alla base di tale reincanto c’è soprattutto l’irruzione delle immagini le quali rappresentano lo slancio vitale allo stato puro, l’affermarsi di una estetica delle emozioni, il desiderio di comunione con il mondo e con gli altri. Esse non impongono regole, non indicano nessuna traccia privilegiata da seguire, perché, a differenza della logica del discorso, esprimono “l’organicità profonda di ogni cosa”. Queste immagini che, come già evidenziato da Maffesoli ne Al fondo delle apparenze (1993, p. 111), “dopo essere state cacciate dall’esordio della scienza e della tecnica, ritornano in forze, si diffondono nell’insieme del corpo sociale; e ciò con l’aiuto dello sviluppo tecnologico. La tecnica non è più iconoclasta ma iconofila”. È “proprio questo ‘lasciar-essere’ della funzione iconica che la rende sospetta a tutta l’ideologia ‘attivista’ dell’homo faber” (p. 78). Nello stesso tempo, però, essa costituisce la sua fascinazione, il suo potere d’incarnare una “passione impassibile” che non travolge mai un singolo soggetto, ma solo una comunità di soggetti, perché è al loro interno che le emozioni deflagrano per cementare il gruppo. Ed è sempre al loro interno che viene condivisa quell’aura collettiva che li aggrega intorno a “immagini archetipali che tendono a favorire, misteriosamente, l’adesione a un dato prodotto, a una data musica, a una data star” (p. 111).


Ciò sembra ripetersi oggi, perché l’iconizzazione crescente e totale del nostro universo culturale ci ha come svuotati della nostra carne “invece d’incarnare il vuoto che lascia risultare la nostra immagine” (p. 270). È una situazione cui per il momento non sembra facile porre rimedio, almeno fino a quando “il desiderio di mostrare e di sottomettere prevarrà sul rispetto del desiderio di vedere e sull’esigenza d’incarnare” (ib.). La necessità della regola insorge nel momento in cui si cerca di ristabilire con la realtà un legame che sembra essersi spezzato e d’instaurare nuovamente un rapporto di scambio tra il visibile e l’invisibile: il visibile, infatti, non può darsi senza un rimando all’invisibile, essendo i due termini in un rapporto di reciproca inclusione e non di contrapposizione (Merleau-Ponty 1964). In questo modo, il legame ristabilito permetterebbe di attingere l’invisibilità della legge attraverso la trasfigurazione dell’idolo in elemento di passaggio dal falso al vero, essendo, in fondo, il falso la zona d’ombra del vero. A ciò si aggiungerebbe “la rivendicazione esistenziale della parola” (Midzain 1996, p. 272), che, in tal caso, spezzerebbe le “dittature visuali” per ristabilire l’originaria unità con l’immagine. Per questa ragione, appare auspicabile passare dall’incanto vuoto e splendente dei nostri doppi, dalle seduzioni di una “felicità paradossale” (Lipovetsky 2006), dalle strategie del desiderio attivate da una comunicazione improntata molto spesso ai criteri di una esteticità diffusa, al disincanto della regola. Il discorso del disincanto segue il percorso inverso da quello del reincanto del mondo intrapreso da Maffesoli, in quanto esso parte dal “vuoto delle apparenze” per riconquistare la pienezza del gioco delle metamorfosi e le regole di costruzione di uno spazio simbolico che renda possibile la trasformazione etica ed estetica del mondo. Una trasformazione che non è adesione, ma “volontà” di significare ancora e oltre il dato. Ma è proprio questa dimensione dell’oltrepassamento che chiama in causa la regola che fissa la rotta e ne impedisce la deriva verso l’insignificanza, l’informe, in una parola verso l’entropia. D’altra parte, è il senso del contenimento e quindi del limite che è “la marca specifica dell’essere dell’uomo”, come ammette lo stesso Maffesoli (2007, p. 70). L’epoca attuale, tuttavia, è contrassegnata non solo dal reincanto come eccesso, lusso, “copulazione visiva”, vertigine, sciamanismo diffuso, ma anche da un’idea, seppur vaga, di legge la quale è diventata, però, relativa al singolo individuo o, al massimo, al gruppo, nel senso che “la legge è la mia legge”. Tuttavia, anche in questa ottica, non si può prescindere da quel principio basilare che non permette di annullare “la distanza che separa l’autos e il nomos, il sé e la norma” (Ferry 1990, p. 358). Ciò significa che il diritto alla differenza individuale non può cancellare quella necessità, intrinseca alle cose stesse, di stabilire una ulteriore differenza tra la soddisfazione delle singole esigenze e un principio che le coordini ai fini di una maggiore libertà ed equilibrio dello stesso flusso vitale. D’altra parte, accanto a questa deriva narcisistica, esiste un’“etica dell’autenticità” che, secondo Ferry, sembra compensare il desiderio di “espansione del sé”, in quanto essa comporterebbe un accresciuto rispetto dell’Altro. Infatti, egli affer-

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quando Mosè discende dal Sinai per la prima volta, la Legge è infranta di fronte all’idolo. Quando Mosè ritornerà con la Legge per la seconda volta, è l’idolo che sarà infranto. L’incompatibilità della legge e dell’idolo è rafforzata dalla legge stessa che enuncia la proibizione dell’idolo, perché l’idolo minaccia la Legge.

Agata Piromallo Gambardella

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Il mondo reincantato è quindi quel mondo che considera le immagini come potenti catalizzatori di innumerevoli effervescenze sociali che vanno dal costituirsi di piccole comunità all’intensificarsi delle relazioni amicali, fino all’affermazione di una religiosità diffusa, intesa più come forma minore di un rinascente paganesimo che non come adesione a una fede ben definita. In ciò Maffesoli si ricollega a quella tendenza così ben evidenziata da Moscovici, quando definisce gli uomini dei mythmakers, in quanto partecipano “tutti alla fabbricazione di piccoli miti insiti nella comunità” (Moscovici 1988, p. 82). Miti che contribuiscono fortemente alla formazione di quelle rappresentazioni sociali intorno a cui gli individui si riconoscono come gruppo e che creano il senso della continuità all’interno della discontinuità della vita quotidiana. Miti che possono assimilarsi a quegli idoli che popolano il nostro attuale universo, dotati di quel potere di attrazione delle primitive icone, molto vicino all’idolatria (Maffesoli 2008). E non a caso oggi l’esplosione delle immagini ha determinato uno straordinario incremento della creazione di piccoli miti, o idoli, nello stesso momento in cui la vita quotidiana si va organizzando intorno a quei piccoli rituali con cui gli individui consumano moda, politica, cultura, ponendosi al centro di una nuova galassia dove anche gli stessi idoli si consumano nello spazio di un mattino. Tuttavia, il reincanto per Maffesoli avviene anche attraverso la dimensione della pietà; una pietà lontana da ogni forma di astrazione, ma radicata nell’amore verso tutto ciò che vive, la quale s’insinua negli interstizi più profondi della libertà di ognuno e la cui funzione consiste nell’“abitare questo dolore di essere al mondo, non superarlo ma accettarlo fino a farne una gioia specifica” (2007, p. 107). In questa gioia rientrano l’infanzia, il passato, il meraviglioso, la memoria, le radici profonde, in una parola tutto ciò che lega ogni uomo agli altri. Per questo motivo, Maffesoli può parlare di un Homo religiosus come variante dell’Homo æstheticus. Se quest’ultimo, infatti, trova il suo terreno di sviluppo in un ambiente ormai interamente attraversato da immagini e suoni che comunicano vitalismo, piacere e attivano processi di continua e pervasiva estetizzazione del mondo circostante, l’Homo religiosus trova un punto di leva privilegiato in questa stessa dimensione estetica. La sua funzione, infatti, è anche di “mettere in evidenza l’efficacia delle forme di simpatia e il loro ruolo di ‘legante’ sociale nel nuovo paradigma che viene a delinearsi” (1993, p. 27). L’Homo æstheticus, in altri termini, è un uomo che vuole ritrovare nella energia archetipica delle immagini la comunione con il cosmo, in una nuova ritrovata armonia dove la salvezza esiste solo nella valorizzazione del proprio vissuto, nel ritorno al mondo della magia, nel rapporto fusionale che fonda la socialità contemporanea. Ne Le réenchantement du monde Maffesoli sottolinea come l’espansione creativa delle nuove tribù postmoderne dia una nuova potenza espressiva alle parole e una nuova ebbrezza alla vita di gruppo. Questa “passione di creare” che tende a sostituirsi “alla grande ideologia del lavoro, quella della padronanza di sé e del mondo” (2007, p. 165), non può sottrarsi, però, al disincanto della regola. Oggi l’uomo ha messo in moto una infinita macchina desiderante, ha forgiato nuovi idoli, ha riempito con i suoi cloni gli spazi siderali di Second Life dove si partecipa “magicamente, al gioco del mondo, al mondo come gioco” (2008, p. 209), ma si è sottratto una volta per tutte al dominio di qualsiasi legge. Midzain (1996, p. 234) ricorda che


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a un tempo, le simulazioni della realtà e la costruzione di quell’immenso “arabesco” nel quale trovano posto le azioni e i sogni degli uomini. È nella corrispondenza che risiede il fine ultimo di ogni processo comunicativo ed è dalla corrispondenza che emerge un’idea di armonia che “si attesta come un territorio mobile di relazioni e di significati, di suono e di senso che… alla fine vive di vita propria. E vivere di vita propria significa disporsi nella necessità dell’Ordine e della Legge” (1991, p. XIII). Questa armonia non riguarda solo la forma della poesia, non riguarda solo la realizzazione di valori formali, sempre più intesi come “mezzi di salvazione”, ma riguarda il mondo delle cose, dei rapporti e dei messaggi che li attraversano. Il piacere estetico che ne deriva taglia quindi trasversalmente anche le altre forme di esperienza, perché ognuna di esse non può sfuggire a quella forza centripeta che tende a disporle in una rappresentazione da cui ciascun individuo ricava il senso e la gioia del proprio esistere. Per questa ragione, il piacere estetico può diventare il principio regolatore che precede e seleziona ogni proiezione degli individui nel gioco combinatorio e infinito dei linguaggi. Questo significa, in fondo, il disincanto della regola: sostituire a una deriva entropica la passione del creare che è la risposta positiva a ogni sollecitazione dell’ambiente e contrapporre all’eccesso che domina la cultura contemporanea nelle sue forme di consumo sfrenato e di ricerca di emozioni estreme l’“ordine necessario” che è l’ordine della vita contro il disordine della morte.

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ma che “l’alterità è, ai nostri giorni, il valore sicuro tra tutti, la parola d’ordine che non si può né aggirare né contestare” (p. 359). Tuttavia, “la sacralizzazione dell’autenticità” tenderebbe a far sfumare “l’idea stessa di limite”. Ferry è consapevole di trovarsi dinanzi a un dilemma che egli cerca di sciogliere, muovendo da un’idea d’individualità, nata dalla riflessione kantiana de La critica del giudizio e ripresa poi dal Romanticismo tedesco, secondo cui essa si esplica pienamente “nella sintesi d’una particolarità concreta con l’universale”. In tal modo, l’individuo si caratterizzerebbe come espressione “di un contenuto singolare e pertanto generalizzabile. È a questo prezzo, e a questo prezzo soltanto, che l’esigenza di autenticità può essere mantenuta” (p. 363). Pertanto, egli ritiene che l’esigenza di autenticità non significa la rinuncia al principio di eccellenza che implica “una teoria generale dei limiti che bisognerà ben risolversi a pensare fuori degli ambiti di una cosmologia se ci si vuole tenere al livello della sfida lanciata dal ritiro del mondo” (ib.). Ferry ritrova nell’estetica la via privilegiata per giungere allo scioglimento di nodi apparentemente insolubili, perché è qui che si realizza quell’incontro misterioso tra il piacere fortemente soggettivo e la tensione partecipativa che unisce gli individui in un consenso generalizzato. In altri termini, è qui che è possibile uscire dalle secche di una soggettività irrelata ed entrare in quella dimensione corale che è la risposta etica alla “esacerbazione del nudo particolare”. E quest’ultimo inevitabilmente finisce col condurre a quella banalità astratta nella quale la realtà sembra annientarsi, senza lasciare alcuna traccia dietro di sé. Ma la funzione dell’arte non è solo di realizzare un equilibrio, anche se metastabile; è anche di rompere continuamente tale equilibrio: l’arte ferisce, interrompe di continuo la catena desiderante per sostituirvi la nostalgia dell’irrealizzato, infrange le regole per istituirne di nuove che spingono verso livelli più alti di significazione. L’arte non concilia se non attraverso la bellezza della forma; al contrario di molte esperienze legate alla fruizione mediatica che lasciano spesso irrisolte, già a livello formale, le contraddizioni e gli squilibri che si vorrebbero risolvere in una apparente conciliazione degli opposti. L’arte provoca strappi che restano impressi nella carne di colui che si abbandona alla visione o all’ascolto; a patto che ci sia una carne dove la lama della parola splendente o dell’immagine sonora possa entrare e lasciarvi il segno. In questo senso, concordiamo con Gadamer secondo cui la parola non è segno, ma lascia il segno. La parola che custodisce l’enigma si apre alla tragedia e rinasce continuamente sullo sfondo di un perenne disincanto (Trione 2007). Il mondo dei media non può più solo incantare perché l’hic et nunc nel quale esso è radicato sta rompendo il legame con la memoria, sta bloccando la via di fuga verso il futuro, ingabbiando in un infinito presente l’incantesimo del passato e ogni volo verso l’utopia. Si tratta, quindi, di un ancoraggio che non permetterebbe movimenti successivi, anche perché incapace di ritrovare una rotta alternativa per la quale c’è bisogno di un nuovo sistema di regole, dopo il progressivo sgretolamento di ogni limite. Ed è la necessità di una regola che dovrebbe segnare l’era di un nuovo disincanto che non è più contrassegnato dallo sprofondare del mondo magico nell’abisso della pura razionalità, ma dall’urgenza di creare una rete di corrispondenze tra ragione e immaginario, tra individuo e mondo, tra forma e contenuto, tra desiderio e calcolo. Si tratta dello stesso calcolo che sorregge,


Augusto Ponzio Nella democrazia e nella libertà, non rappresentati

Tutti i marxismi, pur utilizzando tanto di Marx, hanno dimenticato (e pure noi) la tesi più “fondante”: le idee dominanti sono le idee della classe dominante. (Arcangelo Leone de Castris 2008, p. 114)

Al disincanto della critica marxiana, compresa quella (in riferimento al “programma di Gotha” [Marx 1875]) alla comunità di lavoro, sono seguite fino ai giorni nostri, nei socialismi sedicenti “reali” o meno e nel “mondo libero”, forme di re-incanto che perdurano. I valori borghesi, strutturali alla forma sociale capitalistica – rispetto ai quali il “comunismo rozzo e volgare” (come si esprimeva Marx nel 1844), per giunta, a un certo punto del suo sviluppo, autodichiaratosi “marxista” (una cosa posso dire con certezza – pare che dicesse Marx – ed è che “io non sono marxista), non ha saputo essere, nel migliore dei casi, che un’alternativa, ma non ha proposto nessuna alterità – sono ritornati a galla. Questi valori vengono sbandierati indifferentemente e unanimemente da “schieramenti” che si considerano opposti, ma “pronti al dialogo” per il mantenimento, lo sviluppo e il miglioramento di questa forma sociale. Dunque ecco il re-incanto della libertà, dell’eguaglianza, della democrazia, del posto di lavoro, del mercato, della ricerca dell’identità nel lavoro merce, e, a causa della disoccupazione strutturale, il parossismo dell’identità (di sesso, di razza, di nazione, di etnia, di religione, insomma di appartenenza). Ci sono segni di disincanto? Senza disincanto, “niente di nuovo sotto il sole”. I giovani con cui ho a che fare nell’università, oggi si addestrano per il “mercato del lavoro”. Sono sicuri che “il lavoro rende liberi”, come era scritto nel campo di sterminio di Dachau. Si abituano, attraverso il sistema universitario del conteggio in “crediti” dello studio e della loro formazione, alla quantificazione in “ore-uomo” anche del “lavoro immateriale” (“risorsa fondamentale” della fase odierna della produzione capitalistica quella della “comunicazione globale” o “comunicazione-produzione”). Sono predisposti alla sua equiparazione e vendita, se mai – attraverso una “formazione permanente”, e accumulando “bollini-del-Mulino-Bianco”, o “indulgenze” – riusciranno a “inserirsi” nel “mercato del lavoro” e a trovare un posto di lavoro nel paradiso per laici e realisti, per gente coi piedi per terra e senza utopie, che è “questo mondo”, l’“unico possibile, ragazzo mio!”. Non si può identificare la vita con l’avere un lavoro. “Non di solo lavoro” (è il titolo di un extra-ordinario seminario organizzato da Oasi2 il 16 maggio nell’auditorium San Luigi di Trani): il lavoro-merce sia ben inteso, il “lavoro” nell’accezione astratto-concreta della forma sociale capitalistica, quella delle espressioni chiare a tutti e ben realistiche – malgrado l’uso dell’astrazione “lavoro” –


Di fatto il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità e dalla finalità esterna: si trova quindi per sua natura oltre la sfera della produzione materiale vera e propria. (...) Al di là di esso comincia lo sviluppo delle capacità umane, che è fine a se stesso, il vero regno della libertà.

Lo stravolgimento di questa verità l’abbiamo menzionato sopra: “Arbeit macht frei”. La rilevanza del lavoro in generale, del lavoro astratto, indifferente, è tale che

la vecchia morale protestante del lavoro celebrava la sua resurrezione – in forma secolarizzata – fra gli operai tedeschi. Il programma di Gotha reca già tracce di questa confusione. Esso definisce il lavoro come “la fonte di ogni ricchezza e di ogni cultura”. Allarmato, Marx ribatté che l’uomo che non possiede altra proprietà che la sua forza-lavoro, “non può non essere lo schiavo degli altri uomini che si sono resi proprietari delle condizioni materiali del lavoro”. Ciononostante la confusione continua a diffondersi, e a poco a poco J. Dietzgen proclama: “Il lavoro è il messia del tempo nuovo. Nel miglioramento del lavoro consiste la ricchezza, che potrà fare ciò che nessun redentore ha compiuto”. Questo concetto della natura del lavoro, proprio del marxismo volgare non vuol vedere che i progressi del dominio della natura, e non i regressi della società; e mostra già i tratti tecnocratici che appariranno più tardi nel fascismo (pp. 214-215).

“Il lavoro non è la fonte di ogni ricchezza”, precisa Marx nella Critica del programma di Gotha. E aggiunge: “I borghesi hanno i loro buoni motivi per attribuire al lavoro una forza creatrice soprannaturale” (Marx 1875, p. 11). Nel manoscritto del 1844, che è stato intitolato Proprietà privata e comunismo, Marx criticando il “comunismo rozzo e materiale” (e ante litteram, ante factum, anche il “socialismo reale”), che sopprime la proprietà privata generalizzandola e che oppone alla proprietà privata la proprietà privata generale, il possesso fisico esteso a tutti, combatte l’equivoco di una ri-progettazione del sociale che continui a fare, come la società capitalistica, del lavoro in generale la fonte della ricchezza, sicché “l’attività degli operai non viene soppressa, ma estesa a tutti gli uomini” (p. 108). Per tale comunismo “rozzo e volgare”, la comunità non è altro che una comunità del lavoro e l’eguaglianza del salario, il quale viene pagato dal capitale comune, dalla comunità in veste di capitalista generale. Entrambi i termini del rapporto vengono elevati ad una universalità rappresentata: il lavoro in quanto è la determinazione in cui ciascuno è posto, il capitale in quanto è la generalità riconosciuta e la potenza riconosciuta della comunità (p. 109).

In contrasto con “comunità”, che generalmente indica una comunità di lavoro identitaria, chiusa (vedi il “classico” libro di Tönnies, Comunità e società [Gemeinschaft und Geselschaft, 1887]; nel lessico della Germania nazista, Geselschaft, società, fu soppiantato da Gemeinschaft, comunità), il termine “comunanza” (in mancanza d’altri) può essere impiegato per indicare una forma di socialità non basata sulla compra-vendita del lavoro, aperta all’alterità e libera dall’ossessione dell’identità. All’internazionalismo del lavoro un internazionalismo altro: quello dell’irriducibilità di ciascuno a forza lavoro, materiale o immateriale che sia, a risorsa per il profitto – irriducibilità che i due fenomeni incontenibili in questo sistema e che fanno inceppare il circuito della comunicazione globale, la migrazione e la disoccupazione strutturale, ci mettono sotto gli occhi. Così intesa, la società è extracomunitaria a se stessa, e ciascuno è extracomunitario; una comunanza per

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anche la progettazione di forme sociali alternative generalmente non è riuscita a immaginare altra fonte di ricchezza sociale se non il lavoro come si configura nella sua forma alienata; altra soluzione ottimale che quella del “posto di lavoro per tutti”. Ciò aveva ben presente Walter Benjamin, quando osservava, in Tesi di filosofia della storia (1939-40), che:

Augusto Ponzio

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come “mercato del lavoro”, “datore di lavoro”, “cerco lavoro”, “certificato di lavoro” (il certificato di lavoro nella Germania nazista – Arbeitsbescheinung – esonerava dalla deportazione e dall’internamento come ebreo; oggi, permette all’“extracomunitario” di non essere espulso). Il lavoro occupa, ma anche preoccupa. Chi vive tra gli studenti, lo vede bene: essi sono seriamente già pre-occupati dal lavoro. Tutta la vita si organizza in funzione della vendita del proprio lavoro: “riuscirà il nostro eroe ad avere un posto di lavoro?”. E, naturalmente, fra chi, nella campagna elettorale, promette posti di lavoro – deve farlo se vuole avere successo in questo mondo, il gioco funziona così –, ma di mestiere fa il politico, e chi, invece, si è messo in politica, ma è un “datore di lavoro” affermato, uno che è riuscito nella vita (nel mercato del lavoro) e che dà quello che tutti vogliono (è proprio lui, “il datore di lavoro”), è chiaro che, a parità di offerta, è quest’ultimo a prendere più voti. Ricerca dell’identità e ricerca del lavoro. Che cosa è più importante? Indubbiamente non solo importante, ma fondamentale, decisivo, è il lavoro; lo è a tal punto che la mancanza, la perdita, la fine del lavoro comporta la mancanza, la perdita o per lo meno la messa in crisi dell’identità. Attenzione – vale la pena esplicitarlo – quando dico “lavoro” non sto dicendo né inventiva, né creatività, né capacità di trasformare le cose. “L’uomo è l’animale che lavora”, nel senso che non mangia il crudo, lo elabora, lo trasforma: non gli interessa, se non in situazioni inumane di mera sussistenza, il cibo, ma il “piatto”; “l’uomo è un animale infunzionale”, nel senso che non esiste il più preistorico vaso di creta, di terracotta, che non abbia un fregio, che non abbia una forma particolare, che non abbia un dettaglio inutile. Che cosa si conserva, che cosa si protegge, in una teca, in un museo, di un vaso privo del fondo, se non l’inutile, l’eccedente, l’infunzionale? Il lavoro come creatività, come invenzione, come trasformazione, come il mangiare il “cotto”, il mangiare insieme, il piacere di stare insieme (“le maniere di stare a tavola”), ecco, non più il cibo, ma il piatto e l’elaborazione del cibo. Non ci sono forme culturali poverissime che non abbiano il piatto. Il piatto significa: c’è un in più al di là del bisogno, un’in più al di là della necessità. Certo ci sono culture ridotte alla sopravvivenza, ma esse sono state ridotte alla sopravvivenza, e nessuna cultura, neppure la più – per l’antropologo più gretto – “primitiva”, è tale da limitarsi semplicemente alla soddisfazione del bisogno. L’infunzionale, l’eccedente, il “gioco del fantasticare” è talmente essenziale per l’individuo umano che il mercato ne fa una merce appetibile al di là della soddisfazione del “bisogno” e della relativa possibilità di saturazione della necessità di acquistare. Il miglior posto di lavoro è quello che maggiormente permette di ampliare la possibilità di procurarsi l’infunzionale, il superfluo. Il lavoro-merce come mezzo per entrare nel regno del propriamente umano, il regno della libertà. Diceva Marx (1867-94, vol. III, p. 933):


L’Unione offre ai suoi cittadini uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia senza frontiere interne e un mercato interno nel quale la concorrenza è libera e non falsata (undistorted).

Da questo punto di vista, la Costituzione europea è perfettamente in linea con la concezione della libertà espressa in The National Security Strategy of the United States of America (settembre 2002). Dopo aver detto, nella parte che costituisce l’introduzione di George W. Bush, che: Le grandi lotte del XX secolo tra la libertà e il totalitarismo si sono concluse con la vittoria decisiva delle forze della libertà e di un unico modello sostenibile per il successo nazionale: libertà, democrazia e libertà di impresa.

e che La libertà è una richiesta non negoziabile della dignità umana. (…) Oggi l’umanità ha nelle mani l’opportunità di un ulteriore trionfo della libertà su tutti i suoi nemici. Gli Stati Uniti si assumono la responsabilità di guidare questa missione.

il testo definisce la libertà come segue (capitolo VI, Ignite a New Era of Global Economic Growth through Free Markets and Free Trade): Se sei in grado di fare una cosa che gli altri apprezzano, allora dovresti anche essere capace di vendergliela. Se gli altri sono in grado di fare una cosa che per te ha valore, dovresti essere in grado di comprarla. Questa è la vera libertà, la libertà per una persona, o una nazione.

La Costituzione europea (I.3, 3) afferma che:

In questo obiettivo vi è un’insolubile contraddizione. È ben difficile, in effetti impossibile, conciliare l’alta competizione, auspicata dall’ideologia neo-liberista, con la piena occupazione e con un elevato livello di protezione dell’ambiente. Si tratta della stessa contraddizione presente nel cosiddetto Libro bianco di Jacques Delors, prodotto dalla Commissione delle comunità europee il 5 dicembre 1993. Nel titolo stesso di questo libro – Sviluppo, Competizione e occupazione – possiamo notare la presenza di un rapporto inversamente proporzionale tra “sviluppo” e “competizione” da una parte, e “occupazione” dall’altra. Egualmente, nella dichiarazione della Costituzione europea, c’è un rapporto inversamente proporzionale tra “highly competitive social market economy” da una parte, e “full employment” e “high level of protection and improvement of the quality of the environment” dall’altra. La produzione funzionale all’“highly competitive social market economy” causa, come effettivamente risulta sotto i nostri occhi, un incremento della disoccupazione e della distruzione dell’ambiente. Il reincanto odierno riguarda l’egemonia neoliberista con l’impiego di “democrazia” come passepartout accanto a “libertà” (entrambe esportate a livello mondiale “con tutti i mezzi necessari”), egemonia che perdura e si rafforza con (nel senso ambiguo di causa o di effetto) il progressivo smantellamento, fino all’autocancellazione, della cosiddetta “sinistra” – come è accaduto in Italia, con il Pds, che si è auto-amputato la “s” della sigla. Mentre il disincanto riguarda il riconoscimento, da parte di chi voleva “cambiare davvero” le cose, del carattere illusorio di questa idea – per riferirci di nuovo all’Italia, “con [pseudo] riformisti [e] moderati” (Bertinotti 2008, p. 8), all’insegna di un capitalismo “ben temperato” (Prodi 1995b). Per quanto “illuminato“ o “ben temperato”, il capitalismo non può rinunciare a ciò che è condizione imprescindibile del profitto: lo sfruttamento (si pensi a propositi del tipo: gli ex paesi socialisti dell’Europa centro-orientale potrebbero configurarsi come il nostro Messico; bisogna far scendere il costo del lavoro in Italia, che è il più caro d’Europa [Prodi 1995a, pp. 35, 81; 1995b]). La Costituzione europea nel preambolo dichiara di trarre ispirazione “dai valori universali dei diritti inviolabili e inalienabili della persona, della libertà, della democrazia, dell’eguaglianza, e dello stato di diritto”. Sono questi gli stessi principi a cui si ispira anche The National Security Strategy of the United States of America, con la differenza che qui il riferimento al valore dell’economia del neoliberismo è esplicita. Nell’introduzione di George W. Bush troviamo congiunte le espressione “freedom” e “democracy” con “free enterprise”. Jacques Derrida (2003, p. 19) sottolinea il carattere mistificatorio della concezione della “democrazia” come “attuale, presente democrazia” e come “la nostra democrazia”: “la démocratie [est] à venir: il faut que ça donne le temps qu’il n’y a pas” [La democrazia a venire: bisogna che si dia il tempo che non c’è]. Sull’uso della parola “democrazia” il semiotico americano Charles Morris (1948, pp. 145-146), in L’io aperto, osservava:

81 Nella democrazia e nella libertà, non rappresentati

L’unione si adopera per lo sviluppo sostenibile dell’Europa, basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un’economia sociale di mercato, fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale, e su un elevato livello di tutela e di miglioramento dell’ambiente.

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alterità, senza confini, territori, appartenenze, radici; fondata sul lavoro incommensurabile, singolare, unico di ciascuno, e nella quale la ricchezza è misurata dal tempo disponibile – disponibile per l’alterità propria e altrui. Marx preconizzava nei Grundrisse (1857-58) la riduzione, tramite lo sviluppo tecnologico e l’automazione, del tempo di lavoro, obiettivo necessario della produzione capitalistica e condizione per lo sviluppo della piena ricchezza dei singoli e dell’intera società, ricchezza che consiste nel tempo disponibile per sé e per l’altro, nel poter dare tempo (in cui ciò consiste veramente l’ascolto) all’altro di sé e all’altro da sé. Sicché, egli diceva, risulta il tempo disponibile e non il tempo di lavoro la vera ricchezza sociale. La logica programmatica della Costituzione europea (il Treaty Establishing a Constitution for Europe fu approvato a Bruxelles il 18 giugno 2004 e firmato il 29 ottobre in Campidoglio a Roma, dove nel 1957 fu firmato il trattato della Comunità Economica Europea) è la logica del capitale orientata nel senso della ideologia neo-liberistica, la logica del cosiddetto “libero mercato”, della libera competizione, secondo la quale la libertà è fondamentalmente libertà di comprare e di vendere. La giustizia e la sicurezza sono concepite come equità nello scambio e come possibilità di preservare lo stile di vita previsto dalla società di mercato. L’articolo I.3, 2 della parte I, titolo I, Definizione e obiettivi dell’Unione, recita:


Nessuno dei cosiddetti diritti dell’uomo oltrepassa dunque l’uomo egoista, l’uomo in quanto è membro della società civile, cioè l’individuo ripiegato su se stesso, sul suo interesse privato e sul suo arbitrio privato, e isolato dalla comunità. Ben lungi dall’essere l’uomo inteso in essi come ente generico, la stessa vita del genere, la società, appare piuttosto come una cornice esterna agli individui, come limitazione della loro indipendenza originaria. L’unico legame che li tiene insieme è la necessità naturale, il bisogno e l’interesse privato, la conservazione della loro proprietà e della loro persona egoistica (p. 178).

esso procede, per così dire, alle spalle degli interessi particolari riflessi in se stessi, alle spalle del singolo interesse dell’uno in antitesi a quello dell’altro (Marx 1857-58, vol. I, p. 212).

La loro diversità, per bisogni, per genere di produzione, è solo occasione dello scambio, lo giustifica, ne è fondamento, ma sembra non intaccare l’equiparazione; la diversità è il presupposto dell’eguaglianza dello scambio, che, come tale, è scambio di equivalenti. All’eguaglianza si aggiunge la libertà: ognuno aliena ciò che gli appartiene con libera volontà. Nel rapporto di scambio ciascuno diventa mezzo per l’altro, ma proprio in tal modo raggiunge il suo scopo. Se dunque uno accumula e l’altro no, uno si arricchisce e l’altro si impoverisce, ciò non dipende dal loro rapporto, che appare come rapporto di completa eguaglianza e libertà. I diritti dell’uomo, che Marx, nello scritto Sulla questione ebraica, aveva smascherato come i diritti del bourgeois, dell’individuo isolato della società borghese, vengono ora da lui stesso ricondotti alla reciproca indifferenza del rapporto di scambio del sistema capitalistico. Non solo dunque uguaglianza e libertà sono rispettate nello scambio basato sui valori di scambio, ma lo scambio dei valori di scambio è anzi la base produttiva, reale di ogni eguaglianza e libertà. Come idee pure esse sono soltanto le espressioni idealizzate; e in quanto si sviluppano in rapporti giuridici, politici e sociali, esse sono soltanto questa base ad una diversa potenza (p. 214).

83 Nella democrazia e nella libertà, non rappresentati

Per quanto concerne i diritti umani non è difficile rendersi conto che questi diritti sono sostanzialmente i diritti dell’Identità, del “nostro stile di vita” (“our way of life”, come si legge nel testo della Casa Bianca del 2002). Il titolo del saggio di Emmanuel Lévinas I diritti umani e i diritti altrui (un saggio che apparve nella raccolta L’invisibilité des droits de l’homme, ora in Lévinas 1987, pp. 116-125) è sintomatico della possibilità della contraddizione tra la rivendicazione dei diritti dell’identità come diritti dell’uomo, e i diritti dell’alterità, i diritti dell’altro. In Sulla questione ebraica (1843) troviamo un primo avvio di Marx alla critica dei cosiddetti “diritti umani”. “Umano” e “umanitario”– aggettivi tramite i quali i luoghi comuni del discorso fanno appello, nell’ottenimento del consenso, al genere più universale in cui gli individui umani possano essere collocati – sono generalmente impiegati per “avere ragione dell’altro”, e li troviamo perciò disinvoltamente usati oggi in espressioni quali “intervento militare umanitario”, “guerra umanitaria” («Athanor» 2007-08). Si tratta ancora, da parte di Marx (1843), di una critica di ordine “morale”, una critica dell’individuo egoista, che spaccia per valori umani i suoi interessi materiali. I diritti dell’uomo – è la denuncia di Marx – non sono altro che i diritti del membro della società civile, cioè dell’uomo egoista, separato dall’altro uomo e dalla comunità. Così il diritto dell’uomo alla libertà non si basa sul legame dell’uomo con l’uomo, del singolo col singolo, ma sull’isolamento dell’uomo dall’uomo, dell’individuo dall’individuo, dell’individuo chiuso nel proprio genere che ne determina la differenza e gli conferisce l’identità; è il diritto alla libertà dell’uomo in quanto monade isolata e chiusa, interessata a se stessa, è il diritto a tale isolamento, il diritto dell’individuo limitato, limitato a se stesso, che bada a se stesso e risponde solo di se stesso.

Successivamente Marx (negli appunti del 1857-58), mostra la genesi dei cosiddetti diritti umani nei rapporti di scambio della società capitalistica, in particolare nella compra-vendita del lavoro. È questa la “scena primaria” – per usare un’espressione di Freud – da cui deriva l’attuale organizzazione sociale e la relativa configurazione dell’individuo con la sua identità, la sua libertà, la sua volontà e la complementare responsabilità autoprotettiva, la responsabilità con alibi, come dover rispondere solo di sé. In tal modo si configura nella sua individualità e identità, nella sua responsabilità di ruolo, come ente generico, come appartenente a un insieme, come individuo appunto, e dunque come rappresentante di un collettivo, perciò rappresentabile, intercambiabile, equiparabile. Ciò che si viene a perdere è l’unicità, la singolarità, in quanto tale irriducibilmente altra rispetto all’identità e illusoriamente cercata in questa come suo surrogato: illusoriamente, perché l’identità non può che essere generica, una denotazione-connotazione di genere. Come si presenta il rapporto sociale nello scambio, momento di incontro di lavori reciprocamente indifferenti? Marx ne darà una descrizione nel primo libro de Il Capitale (1867-94) ironizzando sui valori propri del liberalismo e della democrazia. Nello scambio, tutte le antitesi immanenti nella società borghese sembrano cancellate. I soggetti dello scambio, se risultano non reciprocamente indifferenti, lo sono soltanto rispetto ai valori d’uso dello scambio, sicché il loro rapporto sociale è un rapporto fra cose, fra merci. Non risulta alcuna differenza, o antitesi, fra loro in quanto soggetti che scambiano e svolgono reciprocamente questa identica funzione: la loro relazione è quella di eguaglianza. Essi scambiano oggetti equiparati in quanto merci, scambiano oggetti equivalenti e, come tali, sono essi stessi equivalenti. In quanto equivalenti, i soggetti dello scambio sono indifferenti a tutte le loro particolarità individuali, ma, in effetti, l’“interesse comune” dello scambio non toglie nulla alla reciproca indifferenza dei soggetti:

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“Democrazia” è diventata una parola fortemente apprezzativa, non chiara dal punto di vista designativo. Classificarsi democratici è ora tanto insignificante, e tanto inevitabile, quanto per i politici farsi fotografare con i bambini. È stato detto a ragion veduta che quando il fascismo conquisterà l’America lo farà in nome della democrazia. Infatti, qualsiasi cosa si faccia ora in America – o altrove sulla terra – sarà fatto in nome della democrazia. Sicché abbiamo bisogno di parlare in modo concreto. Nessuna delle etichette grandiose che sbandieriamo oggi vale granché. Non risolviamo i problemi effettivi del mondo contemporaneo invocando parole sfruttate come “individualismo”, “socialismo”, “capitalismo”, “liberalismo”, “comunismo”, “fascismo”, “democrazia”. Questi termini sono fortemente apprezzativi. Ogni cultura, e ogni gruppo, li adopererà a proprio vantaggio. Se usassimo il termine “democrazia” in senso designativo sarebbe sinonimo dell’espressione “società aperta di io aperti”. E poiché disponiamo di quest’ultima espressione più precisa, e poiché nessuna etichetta è sacra né indispensabile, possiamo fare a meno dalla parola “democrazia”.


Il sistema dello scambio nella società capitalistica, caratterizzato dalla reciproca indifferenza ed equivalenza dei soggetti che scambiano, si presenta come il sistema dell’eguaglianza e della libertà, ma alla sua stessa base questo sistema è fatto di differenze indifferenti, di coercizioni, di profondi conflitti, di ingiustizie strutturali. Così ineguaglianza ed eguaglianza, coercizione e libertà, indifferenza e differenza, ingiustizia e giustizia stanno, in questa forma sociale, strettamente insieme, sono complementari l’una all’altra. La “filosofia dell’hitlerismo”, come Lévinas osserva nella prefazione del 1990 alla traduzione inglese del suo testo del 1934, non è un’anomalia contingente. Al contrario, essa si inscrive, come una stabile minaccia, nella ideologica occidentale (l’ideologia che si presenta come la logica stessa della “realtà”, dell’“essere delle cose”), affetta com’è di allergia all’alterità. Senza il superamento di tale “allergia”, il liberalismo e la democrazia non possono nulla contro questa minaccia, dato che essi, pur essendo stati provocati dalla “questione altro”, si sono costituiti fondamentalmente per la difesa dei diritti propri, piuttosto che di quelli altrui; dell’identico, piuttosto che del diverso; del consimile piuttosto che dell’estraneo, dello straniero; si sono attestati a difesa degli appartenenti, dei comunitari, con l’esclusione dei non appartenenti, degli extracomunitari, degli altri, il riconoscimento dei quali generalmente non si è spinto oltre la dichiarazione della propria disponibilità alla solidarietà e alla tolleranza.

Bibliografia «Athanor. Semiotica, Filosofia, Arte, Letteratura», 2003-04, n.s., n. 7, Lavoro immateriale, a cura di S. Petrilli, Roma, Meltemi.

85 Nella democrazia e nella libertà, non rappresentati

La sfera della circolazione ossia dello scambio di merci, entro i cui limiti si muovono la compera e la vendita della forza-lavoro, è in realtà un vero Eden dei diritti innati dell’uomo. Quivi regnano soltanto Libertà, Eguaglianza, Proprietà, e Bentham. Libertà! Poiché compratore e venditore di una merce: es. della forza-lavoro, sono determinati solo dalla loro libera volontà. Stipulano il loro contratto come libere persone giuridicamente pari. Il contratto è il risultato finale nel quale le loro volontà si danno una espressione giuridica comune. Eguaglianza! Poiché essi entrano in rapporto reciproco soltanto come possessori di merci, e scambiano equivalente per equivalente. Proprietà! Poiché ognuno dispone soltanto del proprio. Bentham! Poiché ognuno dei due ha a che fare solo con se stesso. L’unico potere che li mette l’uno accanto all’altro e che li mette in rapporto è quello del proprio utile, del loro vantaggio particolare, dei loro interessi privati. E appunto perché così ognuno si muove solo per sé e nessuno si muove per l’altro, tutti portano a compimento, per una armonia prestabilita delle cose, e sotto gli auspici di una provvidenza onniscaltra, solo l’opera del loro reciproco vantaggio, dell’utile comune, dell’interesse generale (Marx 186794, pp. 193-194).

«Athanor. Semiotica, Filosofia, Arte, Letteratura», 2004, n.s., n. 8, The Gift, a cura di G. Vaughan, Roma, Meltemi. «Athanor. Semiotica, Filosofia, Arte, Letteratura», 2005, n.s., n. 9, Mondo di guerra, a cura di A. Catone, A. Ponzio, Roma, Meltemi. «Athanor. Semiotica, Filosofia, Arte, Letteratura», 2006-07, n.s., n. 10, White Matters/Il bianco in questione, a cura di S. Petrilli, Roma, Meltemi. «Athanor. Semiotica, Filosofia, Arte, Letteratura», 2007-08, n.s., n. 11, Umano troppo disumano, a cura di F. De Leonardis, A. Ponzio, Roma, Meltemi. Benjamin, W., 1931, Der destruktive Charakter; nuova ed. 1972, in Gesammelte Schriften, a cura di R. Tiedermann, H. Schweppenhäuser, Frankfurt am Main, Suhrkamp, IV, 1, pp. 396-401; trad. it. di P. Segni, 1995, “Il carattere distruttivo”, in Benjamin et al. 1995, pp. 9-12. Benjamin, W., 1933, Erfahrung und Armut; nuova ed. 1972, in Gesammelte Schriften, a cura di R. Tiedermann, H. Schweppenhäuser, Frankfurt am Main, Suhrkamp, II, 1, pp. 213-219; trad. it. di F. Desideri, 1995, “Esperienza e povertà”, in Benjamin et al. 1995, pp. 15-21. Benjamin, W., 1939-40, Über den Begriff der Geschichte; nuova ed. 1972, in Gesammelte Schriften, a cura di R. Tiedermann, H. Schweppenhäuser, Frankfurt am Main, Suhrkamp, I, 3, pp. 1223-1266; trad. it. di R. Solmi, “Tesi di filosofia della storia”, in F. Rella, a cura, 1980, Critica e storia, Venezia, Cluva, pp. 209-219. Benjamin, W., et al., 1995, «Millepiani», n. 4, Il carattere distruttivo, Milano, Mimesis. Bertinotti, F., 2008, Ottimismi di volontà, Bari, Palomar. Delors, J., 1994, Commissione Comunità Europee. Libro bianco. Crescita, competitività, occupazione, Milano, il Saggiatore. Derrida, J., 2003, Voyous, Paris, Galilée; trad. it. di G. Berto, 2003, Stati canaglia, Milano, Cortina. Enzi, A., 1971, Il lessico della violenza nella Germania nazista, present. di L. Heilmann, Bologna, Pàtron. «La Rose de Personne. La rosa di nessuno», 2007, n. 2, Culture nazie? Cultura nazista?, Milano, Mimesis. Leone de Castris, A., 2008, “La rivoluzione eventuale”, postfazione a Bertinotti 2008, pp. 91-115. Lévinas, E., 1934, Quelques réflexion sur la philosophie de l’hitlerisme; trad. ingl. 1990, «Critical Inquiry», vol. 17, n. 1, prefaz. di E. Lévinas, p. 63; trad. it. di A. Ponzio, in «Athanor», 2007-08, pp. 74-60. Lévinas, E., 1972, Humanisme de l’autre homme, Montpellier, Fata Morgana; trad it. di A. Moscato, 1995, Umanesimo dell’altro uomo, Milano, Il melangolo. Lévinas, E., 1987, Hors Sujet, Montpellier, Fata Morgana; trad. it. e pref. di F. P. Ciglia, 1992, Fuori dal Soggetto, Genova, Marietti. Marx, K., 1843, Zur Juden frage; trad. it. di R. Panzieri, 1954, La questione ebraica, Roma, Editori Riuniti. Marx, K., 1844, Ökonomish-philosophische Manuscripte; trad. it. di N. Bobbio, 1978, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Torino, Einaudi. Marx, K., 1857-58, Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie; trad. it. di E. Grillo, 196870, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, Firenze, La Nuova Italia, 2 voll. Marx, K., 1867-94, Das Kapital; trad. it. 1964-65, Il Capitale, Roma, Editori Riuniti: vol. I, trad. it. di D. Cantimori, 1964; vol. II, trad. it. di R. Ranieri, 1965; vol. III, trad. it. di L. Boggeri, 1965. Marx, K., 1875, Kritik des Gothaer Programms (pubblicata da Engels nel 1891); trad. it. di I. Pasqualoni, 1975, Critica del programma di Gotha, intr. di A. Illuminati, Roma, Savelli. Morris, C., 1948, The Open Self, New York, Prentice Hall; trad. it. e cura di S. Petrilli, 2002, L’io aperto, Bari, Graphis. Ponzio, A., 1999, La comunicazione, Bari, Graphis; nuova ed. 2006. Ponzio, A., 2002, Individuo umano, linguaggio e globalizzazione nel pensiero di Adam Schaff, Milano, Mimesis. Ponzio, A., 2003, I segni tra globalità e infinità. Per la critica della comunicazione globale, Bari, Cacucci.

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Quaderno di comunicazione 84

Tra configurazione ideale e configurazione reale nella forma sociale capitalistica vi è uno stretto rapporto, perché l’espressione ideale è soltanto la trasfigurazione di quella reale. Nel mercato del lavoro, come Marx mostra nel primo libro de Il Capitale, trovano la loro espressione e realizzazione gli stessi “diritti naturali dell’uomo”:


Quaderno di comunicazione 86

Ponzio, A., 2004, Elogio dell’infunzionale. Critica dell’ideologia della produttività, Milano, Mimesis. Ponzio, A., 2007, Fuori luogo. L’esorbitante nella produzione dell’identico, Roma, Meltemi. Ponzio, A., Petrilli, S., 2000, Il sentire della comunicazione globale, Roma, Meltemi. Prodi, R., 1995a, Governare l’Italia, Roma, Donzelli. Prodi, R., 1995b, Il capitalismo ben temperato, Bologna, il Mulino. The National Security Strategy of the United States of America, 2002, Washington, The White House. Treaty Establishing a Constitution for Europe, 2004, conferenza dei rappresentanti dei governi degli Stati membri, Brussels, 13 ottobre; trad. it. 2005, La costituzione europea, Lecce, Il Raggio Verde. Tönnies, F., 1887, Gemeinschaft und Geselschaft; nuova ed. 1935; trad. it. di G. Giordano, 1963, Comunità e società, Milano, Edizioni di Comunità; nuova ed. 1979.

Guglielmo Forges Davanzati Disincanto liberista: perché la deregolamentazione produce stagflazione

Il pensiero economico dominante, di evidente orientamento liberista, ha dovuto prendere atto dei limiti del modello di sviluppo trainato dalla new economy che incantò, su scala planetaria, gli anni Novanta. La crisi finanziaria iniziata nell’estate del 2007 e lo shock petrolifero di questo 2008 caratterizzano lo scenario economico globale come fortemente instabile, in contesti di bassa crescita economica, aumento degli squilibri regionali, elevata disoccupazione e alta inflazione. Ciò a fronte del pieno rispetto – nel corso degli ultimi anni – delle indicazioni di policy del mainstream: politiche monetarie restrittive (particolarmente in Europa), riduzione della spesa pubblica e dell’imposizione fiscale, deregolamentazione dei mercati e, in particolare, del mercato del lavoro. La crisi appare a tal punto acuta da indurre molti autorevoli fautori del laissez-faire a invocare un ritorno alle politiche keynesiane all’interno, e al protezionismo nei rapporti internazionali. A ben vedere, d’altronde, non si è troppo lontani dalla stagflazione di metà anni Settanta, sebbene i problemi attuali abbiano connotazioni in larga misura inedite, generate dal combinato disposto della “globalizzazione” – e, dunque, dell’accelerazione dei movimenti internazionali di capitale – e della “finanziarizzazione” – e, dunque, dell’aumento esponenziale dei profitti bancari e dei guadagni dei rentiers. E, d’altra parte, mentre dalla stagflazione di trenta anni fa scaturì il “superamento” del keynesismo (pensato e praticato), dalla stagflazione contemporanea sembra semmai derivare l’opposto: la crisi è nei fatti, ma – come quasi sempre accade – è (fortunatamente) anche nelle menti di coloro che della dottrina liberista e liberoscambista avevano spesso fatto – nel recente passato – un vero e proprio dogma. L’obiettivo di questo breve saggio è individuare alcune possibili cause della crisi, sia con riferimento ai paesi industrializzati, sia con riferimento all’Italia, con una parte introduttiva finalizzata a delineare lo scenario attuale della c.d. finanziarizzazione. In particolare, verrà argomentato che la condizione nella quale si trovano attualmente le economie industrializzate (elevata disoccupazione ed elevata inflazione) è, sotto molteplici aspetti, causata dalle politiche liberiste messe in atto negli ultimi decenni, e, in particolare, dalla crescita delle disuguaglianze distributive ai danni dei redditi da lavoro dipendente. In tal senso, se un’affinità si può trovare con la crisi del ’29, tale affinità è da ricercarsi nel fatto che, ora come allora, la crisi origina da bassi consumi e, dunque, da bassi salari.


La doppia crisi: finanza e petrolio Che le economie dei paesi industrializzati stiano attraversando uno dei loro momenti peggiori dalla grande crisi del ’29 è un dato di fatto: ne è consapevole la classe politica e ne sono ben consapevoli gli economisti, sebbene le diagnosi e le terapie siano in larghissima misura divergenti. In estrema sintesi, i fatti più eclatanti che caratterizzano questo passaggio sono il vertiginoso aumento del prezzo del petrolio – il cui “prezzo reale” è di circa 40 volte superiore a quello raggiunto nel 1980, al termine del secondo shock petrolifero – e la crisi finanziaria. Si tratta, in prima approssimazione, di due fenomeni distinti, sia per datazione, sia per le cause che li determinano. L’aumento del prezzo del petrolio, in atto da pochi mesi, viene fondamentalmente imputato a due fattori: l’aumento

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Si può intendere per finanziarizzazione un processo contrassegnato dalla crescita relativa della sfera finanziaria rispetto alla sfera produttiva, in termini di quota dei redditi dei rentiers sul PIL, con il conseguente aumento del loro potere politico. La finanziarizzazione origina in primis dalla liberalizzazione dei mercati finanziari, che ha la sua principale ratio economica nella seguente argomentazione: è solo consentendo l’erogazione di prestiti con poche (o nulle) garanzie reali che si garantisce ai meno abbienti maggiore capacità di spesa e maggiore possibilità di mobilità sociale (Maki 2000; Kiff, Mills 2007). Si tratta di ciò che è stato correttamente definito un keynesismo privatizzato, nel quale la domanda aggregata viene mantenuta alta non dalla spesa pubblica ma dalla spesa privata (Bellofiore, Halevi 2008). L’esperienza recente ha mostrato l’intrinseca instabilità di questo modello, dal momento che l’erogazione di prestiti a individui con bassi redditi si è risolta nella loro materiale impossibilità di far fronte al pagamento, con conseguente vertiginoso aumento delle sofferenze bancarie e conseguenti fallimenti di istituti di credito. Ma ha mostrato anche che l’indebitamento privato tende a produrre pressioni inflazionistiche: l’aumento della spesa privata accresce i margini di profitto e, in economie nelle quali i prezzi sono rigidi verso il basso, gli accresciuti margini di profitto vengono trasferiti sui prezzi: la BCE riporta, a riguardo, che i profitti in Europa sono cresciuti da 768 milioni di euro nel 1999 a 12.252 milioni nel 2007, e che il tasso di inflazione, agli inizi del 2008, è del 3,5 per cento, ed è costantemente in aumento. L’evidenza empirica segnala che i processi di finanziarizzazione sono in atto da almeno un ventennio su scala internazionale, con andamenti crescenti. Recenti ricerche condotte negli Stati Uniti, in particolare da Gerald Epstein, dell’Università del Massachusetts, evidenziano anche la correlazione fra aumento del peso politico dei rentier, attuazione di processi di liberalizzazione dei mercati finanziari e aumento delle rendite. La vulgata neoliberista considera i mercati finanziari uno strumento di selezione delle imprese più efficienti, la cui efficienza è tanto maggiore quanto più deregolamentati sono quei mercati, dimenticando di rilevare che le liberalizzazioni producono un aumento complessivo degli oneri finanziari che ricadono in primo luogo sulle imprese. È interessante, a riguardo, osservare che la quota delle rendite finanziarie sul PIL è tanto più elevata quanto maggiore è il grado di sviluppo di un paese. In particolare, si rileva, su dati del Fondo monetario internazionale, che – nel decennio 1990-2000 – a fronte di una quota circa pari al 18 per cento in Italia, gli Stati Uniti registrano una percentuale superiore al 33 per cento. Il che non desta sorpresa, se si abbandonano gli schemi di analisi oggi dominanti. Già Marx aveva osservato che – quando ciò è possibile – i capitalisti trovano spesso conveniente utilizzare i loro profitti per realizzare guadagni monetari nei mercati finanziari. Il meccanismo che rende oggi possibile, e conveniente, la dislocazione di risorse da usi produttivi a usi improduttivi è duplice: da un lato, le liberalizzazioni rendono quei mercati facilmente contendibili, consentendo quindi l’ingresso di nuovi operatori; dall’altro, perché tale dislocazione sia attuabile, i capitalisti devono disporre di fondi sufficienti per l’acquisto di prodotti finanziari. Lo scenario nel quale ci muoviamo da oltre un

ventennio, infatti, è precisamente questo: alti profitti, alte rendite finanziarie, liberalizzazioni. La finanziarizzazione accresce le passività finanziarie, soprattutto a danno delle imprese più piccole, strutturalmente più fragili, collocate nelle aree periferiche dello sviluppo capitalistico. Un numero abbastanza elevato di queste imprese, quelle che non possono reagire all’aumento dei costi aumentando i prezzi, né aumentando la produttività del lavoro e neppure comprimendo i salari, falliscono. Per restare al solo ambito nazionale, a riguardo, l’ISTAT registra al 2004 – ultimo anno di rilevazione disponibile – “tassi di sopravvivenza” di imprese nate nel 1999 pari a circa il 60 per cento nel Nord (Nord-Est e Nord-Ovest) e a circa il 51 per cento nel Sud e nelle isole. Il fallimento di un numero significativo di imprese comporta l’aumento delle quote di mercato di imprese di più grandi dimensioni, strutturalmente più forti, localizzate nelle aree centrali dello sviluppo capitalistico. Anche per questa via, la finanziarizzazione si associa alla concentrazione dei capitali industriali, dal momento che crea le condizioni per processi di acquisizione e fusione, o comunque per un ampliamento delle quote di mercato delle imprese strutturalmente più forti. Ciò accade sia sotto forma di crescenti dimensioni d’impresa, sia sotto forma di crescente concentrazione geografica. La concentrazione, a sua volta, produce un duplice effetto. Da un lato, generando posizioni monopolistiche, determina processi inflazionistici, che comprimono i salari reali. Dall’altro, riducendo l’intensità competitiva, riduce il livello di produzione e di occupazione. Si è dunque in presenza di una spirale viziosa, stando alla quale la liberalizzazione dei mercati finanziari tende a generare l’aumento delle rendite finanziarie, che finisce per gravare sul capitale produttivo come una forma occulta di tassazione. La quale viene, a sua volta, trasferita sul lavoro, generando cali di occupazione e dei salari reali, in una condizione – quella attuale – nella quale la capacità di resistenza del sindacato è ridotta ai minimi termini. In questo contesto, appare dunque fuorviante leggere l’attuale “questione salariale” come questione che nasce e si sviluppa all’interno del mercato del lavoro. Quest’ultimo, per dirla con Keynes, resta un mercato “residuale”, nel quale si riflettono contraddizioni che, in ultima analisi, originano dalla sfera finanziaria. Da cui, conclusione n. 1: la deregolamentazione dei mercati finanziari riduce il tasso di crescita, accrescendo il tasso di inflazione (e i divari regionali).

Guglielmo Forges Davanzati

Quaderno di comunicazione 88

La “finanziarizzazione”


Il problema italiano: salari e produttività del lavoro La “questione salariale” – della quale si è a lungo dibattuto negli ultimi mesi – non è una questione di giustizia distributiva, o almeno non lo è in primo luo-

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go. È soprattutto una questione che attiene all’efficienza del sistema economico. La Banca centrale europea registra – nell’area UE – un declino della quota dei salari sul prodotto interno lordo dal 2,66 nel 1996 al 2,16 nel 2007 e, nello stesso periodo, una caduta della produttività dall’1,26 allo 0,5. L’indice della produzione industriale rimane sostanzialmente invariato nell’ultimo decennio e, nell’ultimo anno, l’occupazione si riduce nell’ordine dello 0,2 per cento. In Italia, la situazione è peggiorata dal fatto che, su fonte OCSE, i salari monetari sono inferiori di circa il 20 per cento rispetto alla media europea e i salari reali lo sono del 22 per cento. A fronte di questa evidenza, si ritiene che si debba continuare con politiche di alti tassi di interesse, riduzioni della spesa pubblica, incentivazione all’uso “flessibile” del lavoro e, da ultimo, incentivazione all’aumento delle ore lavorate. È una strada già percorsa negli ultimi decenni, e soprattutto percorsa in modo sempre più accelerato, con risultati pessimi per la crescita economica e per il recupero della competitività internazionale. Va peraltro ricordato che l’OCSE stesso segnala che gli italiani lavorano più di quanto si lavora in media nelle economie ad alto grado di sviluppo capitalistico (1.824 ore annue a fronte di un valore medio di 1.794), che il PIL italiano cresce meno di quello medio OCSE e che è semmai maggiore in Italia l’incidenza degli infortuni mortali sul PIL. Va chiarito, ove ce ne fosse bisogno, che non è questa l’unica strada percorribile. L’aumento dei salari reali – per esempio mediante il ritorno a forme di indicizzazione – comporta un aumento della propensione a innovare, come testimoniato da un’ampia letteratura teorica ed empirica. Non a caso, la caduta dei salari, in Europa e in Italia, non è indipendente dalla riduzione della produttività e dal rallentamento del tasso di crescita: ne è in larga misura la causa. L’aumento dei salari reali traina le innovazioni, dal momento che – riducendo temporaneamente i margini di profitto – costringe le imprese ad accrescere la produttività per ripristinare i margini di profitto “normali”. D’altra parte, è ben noto – da Keynes in poi – che l’aumento dei salari accresce la domanda e, dunque, l’occupazione e la produzione. Vi è di più. In contesti nei quali vi sono i presupposti per l’aumento della spesa – pubblica e privata – per la ricerca tecnica e la sua applicazione, l’aumento dell’offerta, conseguente alle innovazioni, può temperare le pressioni inflazionistiche. Per le medesime ragioni, lette a contrario, le politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro, riducendo la propensione a innovare e conseguentemente l’offerta, contribuiscono a far crescere il tasso di inflazione, con conseguente ulteriore erosione del potere d’acquisto dei percettori di redditi fissi. Inoltre, è ampiamente documentato che la deregolamentazione del mercato del lavoro, misurata dall’indicatore EPL (Employment Protection Legislation) elaborato dall’OCSE, produce semmai disoccupazione (v., fra gli altri, Brancaccio 2008)2. È evidente che questa strategia non viene posta in essere perché politicamente non conveniente, sebbene configuri un modello di sviluppo di lungo periodo realmente fondato su quella che viene enfaticamente definita la “via alta alla competitività”. A ben vedere, una politica economica orientata all’aumento dei salari reali – sebbene possa ragionevolmente produrre effetti macroeconomici desiderabili – incontra la resistenza di quelle imprese che, incapaci di competere innovando, sconterebbero gli aumenti salariali come puri incrementi

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della domanda, soprattutto dei paesi cosiddetti emergenti (Cina e India in primis), e la speculazione. Quest’ultima si realizza quando una massa critica di investitori scommette sul rialzo del prezzo del petrolio, generando “profezie autoverificantisi”, ovvero determinando, con le loro scelte, l’aumento effettivo del prezzo. La crisi finanziaria, che nasce esattamente un anno fa, viene imputata all’eccessiva deregolamentazione dei mercati statunitensi, con la connessa possibilità – assegnata agli operatori finanziari – di vendere prodotti altamente rischiosi, con elevata probabilità di insolvenza. A ben vedere, si è in presenza di un andamento asimmetrico delle rendite. Da un lato, l’aumento del prezzo del petrolio, accrescendo la rendita petrolifera, riduce i profitti e, come immediata conseguenza, i salari reali. D’altra parte, e ovviamente, a parità di redditi monetari, è sufficiente l’aumento del prezzo di un prodotto “base” per ridurre i redditi reali, o incentivare la sostituzione di questi beni. Dall’altro, la crisi finanziaria – “curata” con bassi tassi di interesse negli Stati Uniti – attenua le pressioni su profitti e salari, sebbene impoverisca le famiglie (soprattutto statunitensi) la cui ricchezza dipende in modo significativo dagli andamenti azionari. L’asimmetria si accentua se si considera che, in Europa, grazie a tassi di interesse crescenti per mano della BCE, la rendita finanziaria tende semmai ad aumentare, riducendo in via diretta i salari nonché la ricchezza reale dei consumatori, soprattutto quelli esposti a mutui con tasso variabile. Alcuni autorevoli commentatori, ad esempio Francesco Giavazzi sulle colonne on line della voce-info, fanno osservare che, in fondo, si tratta di crisi già sperimentate. Vero, con la clausola – affatto irrilevante – che crisi finanziaria e shock petrolifero – almeno in tempi recenti – non si sono mai verificate simultaneamente. E non desta sorpresa che siano questi stessi commentatori a escludere del tutto l’esistenza di speculazioni. A ben vedere, il fatto che i due shock siano asimmetrici e contestuali dovrebbe, invece, indurre a individuarne le possibili relazioni. Fra queste, non ci sembra inverosimile ritenere che la crescente difficoltà da parte degli operatori finanziari di ottenere guadagni mediante la compravendita di prodotti finanziari li spinga a rivedere le proprie scelte, incentivando la compravendita di titoli che rappresentano beni “reali”, il cui prezzo è peraltro in costante aumento. In altri termini, la crisi petrolifera può essere – almeno in parte – causata dalla crisi finanziaria. Mentre nel passato, anche recente, questi effetti di contagio erano attenuati dalla ridotta mobilità internazionale dei capitali, è evidente che l’accelerazione che questi hanno subito contribuisce a rendere una crisi funzionale all’altra. La terapia più diffusamente suggerita consiste nel rendere più stringente la regolamentazione dei mercati finanziari e, almeno in Italia, accrescere la tassazione sulle rendite petrolifere1; due misure che, fino al recente passato, nessun economista liberista avrebbe sottoscritto. Da cui, conclusione n. 2: la deregolamentazione dei mercati finanziari accresce l’inflazione (importata).


Alla luce dell’evidenza empirica e delle argomentazioni qui presentate, appare chiaro come le politiche liberiste di deregolamentazione dei mercati e di restrizioni all’intervento pubblico siano in larga misura all’origine dell’attuale crisi economica internazionale. La deregolamentazione incide negativamente sulle performance macroeconomiche da almeno due punti di vista. In primo luogo, la deregolamentazione dei mercati finanziari, in quanto contribuisce a generare “finanziarizzazione”, accresce le passività finanziarie delle imprese, con un duplice risultato: minore occupazione e/o più bassi salari. In secondo luogo, la deregolamentazione del mercato del lavoro – come documentato da un’ampia letteratura teorico-empirica – contribuisce a comprimere ulteriormente salari e occupazione, agevolando il recupero dei margini di profitto mediante la compressione dei costi. Appare dunque chiaro che l’attuale crisi è originata da squilibri distributivi e, in particolare, da livelli salariali tali da non garantire un livello sufficiente di domanda aggregata.

Note 1 Non ci sembra che questa proposta possa produrre gli esiti desiderati. Data una struttura dell’offerta basata su una forte propensione a fare cartello, l’imposizione fiscale può semmai incentivare la collusione fra le imprese produttrici ed esportatrici di petrolio, con ulteriori conseguenti aumenti di prezzo. 2 È anche provato, sul piano empirico, che la deregolamentazione del mercato del lavoro non riduce (talvolta accresce) le dimensioni dell’economia irregolare. Ciò accade a ragione del fatto che, in primo luogo, la riduzione dei salari incentiva l’offerta di lavoro irregolare e, in secondo luogo, dal momento che la deregolamentazione del mercato del lavoro è comunque funzionale a una strategia di compressione dei costi, le imprese possono trovare conveniente ricorrere al sommerso per tenere elevati i margini di profitto.

Bellofiore, R., Halevi, J., 2008, “Deconstructing Labor. What is ‘New’ in Contemporary Capitalism and Economic Policies: A Marxian-Kaleckian Perspective”, in C. Gnos, L. P. Rochon, a cura, Employment, Growth and Development. A Post-Keynesian Approach, Cheltenham, Elgar. Brancaccio, E., 2008, Deficit commerciale, crisi di bilancio e politica deflazionista, Napoli, mimeo. Kiff, J., Mills, P., 2007, Money for Nothing and Checks for Free: Recent Developments in U.S. Subprime Mortgage Markets, «International Monetary Fund Working Paper», 07/188. Maki, D. M., 2000, “The Growth of Consumer Credit and the Household Debt Service Burden”, in The Federal Reserve Board – Finance and Economics discussion series.

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Considerazioni conclusive

Bibliografia

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di costo. E poiché la struttura produttiva italiana è caratterizzata da piccole dimensioni aziendali e da una specializzazione in tecnologie di retroguardia, le nostre imprese non sono attrezzate a reagire ad aumenti dei costi di produzione innovando. La linea Marcegaglia-Draghi, sulla base della quale gli aumenti salariali sono accordati solo ai lavoratori dipendenti di imprese che registrano aumenti di produttività, è – in questo contesto – l’unica percorribile, sfortunatamente e almeno in linea di principio. Peccato che sia tecnicamente impraticabile: è ben noto infatti che, soprattutto in un’economia con forte grado di terziarizzazione, nella quale peraltro sono sempre più rilevanti le economie di squadra, non è possibile imputare gli aumenti di produzione a un unico fattore produttivo e, tanto meno, individuare il contributo del singolo lavoratore. La retorica dei “fannulloni”, che ha tanto colpito l’immaginario collettivo, e il suo corollario della retorica del “merito”, resterà retorica fino a quando non si scoprirà una misurazione oggettiva della produttività del lavoro. Da cui, conclusione n. 3: la deregolamentazione del mercato del lavoro riduce l’occupazione e accresce l’inflazione


Francesco D’Andria Reincanti virgiliani. La scoperta del Palladio di Castrum Minervæ

Appare molto probabile che il nome di Messapia, attribuito dagli antichi greci alla penisola salentina, significhi Terra di Mezzo, come Mesogaia o Mesopotamia, la terra tra i due fiumi. La percezione che se ne aveva era quella di una terra tra due mari, Ionio e Adriatico, ma anche tra regioni diverse, i Balcani, la Grecia continentale, l’Italia. La Messapia era facilmente tagliata da vie istmiche, tra Taranto e Brindisi, tra Otranto e Gallipoli e il territorio pianeggiante ne favoriva la permeabilità alle culture, anche se i messapi venivano descritti dagli scrittori antichi come fieri e bellicosi difensori della loro identità, specie rispetto alle pretese di conquiste territoriali, prima di Taranto e poi di Roma. La penisola salentina si protende nello spazio marittimo, terminando nel promontorio di Leuca, de finibus terræ: l’antica Akra Iapygias, la punta estrema della Iapigia, un altro dei nomi di questa terra al centro del Mediterraneo.

Il mito Modellato dalle vicende geologiche, dal lavorio incessante della natura e dall’insediamento umano, il promontorio bianco (Leuca, appunto) viene a intercettare nella lunga durata i percorsi marittimi che uniscono Egeo ed Europa centrale attraverso gli approdi etruschi del Po; a esso fanno riferimento anche i marinai che viaggiano dall’Egeo verso l’Italia, lungo percorsi che partono sino dalle coste dell’Anatolia, alla ricerca di nuove terre da colonizzare, di mercati dove scambiare le merci, di luoghi dove rifornirsi di materie prime, in primis, i minerali di ferro. Insieme agli uomini di mare viaggiano idee, credenze, racconti e si ripetono i versi di un poeta considerato alla pari degli dei, Omero; eroi che combattono intorno alle mura di una città inespugnabile, Troia, poi conquistata con l’inganno del cavallo di Ulisse. Dalle sue ceneri vincitori e vinti partirono, chi cercando di tornare alle proprie case, chi cercando salvezza verso Occidente, portando con sé le memorie della patria perduta. Si disegna così in tutto il Mediterraneo una geografia del mito che tocca quasi tutti i luoghi dando forma a ciò che prima era uno spazio indistinto. Da questa rete non poteva restare esclusa la “Terra di mezzo” dove approdarono eroi come Idomeneo, il re di Creta, i compagni di Minosse, al ritorno dalla Sicilia, infine Enea, nel suo viaggio verso le foci del Tevere, dove inizierà l’epopea della fondazione di Roma.


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Tutta l’area marittima tra Albania, Grecia e Italia appare così coinvolta dalle vicende troiane e, proprio di fronte al promontorio della Iapigia, la città di Butrinto conserva gelosamente i ricordi di Troia, anzi si configura come una nuova Ilion, grazie ai profughi troiani che vi erano giunti prigionieri come Eleno, ma soprattutto Andromaca, la sventurata moglie di Ettore che cerca nelle forme del paesaggio e nella fisionomia delle persone che la circondano le tracce di un passato ormai diventato cenere. Attraversando il canale di Otranto, lo “stoma”, la bocca del golfo Adriatico, dopo qualche ora di navigazione appare il profilo basso del promontorio iapigio, l’humilis Italia di Virgilio, e lungo la costa rocciosa si erge un’acropoli alta che domina un porto stretto ma sicuro, fiancheggiato da rocce turrite. Questo luogo corrisponde oggi all’abitato di Castro, dove la ricerca archeologica in questi ultimi anni sta rivelando nuove dimensioni della storia e del mito. È indubbio che in questo luogo si siano stratificati vari racconti a partire dalle fasi più antiche, forse già nell’Età del Bronzo, ma certamente nei secoli VIII e VII a.C., quando tutta l’Italia meridionale viene investita dal fenomeno della colonizzazione greca. Lungo la costa adriatica del Salento i greci approdano e stabiliscono rapporti di scambio, forse piccole comunità elleniche si insediano nei porti iapigi dando origine a una complessa interazione culturale che porterà nel Salento fenomeni rivoluzionari come la scrittura, quando gli indigeni messapi adottano l’alfabeto greco per fissare sulla pietra i nomi e le espressioni della loro lingua di provenienza balcanica. È probabile che in questo stesso periodo si siano impiantati lungo le coste salentine, in siti come Brindisi, Roccavecchia, Otranto, Castro, Leuca, anche i racconti poetici e i miti che costruiscono le prove di una identità composita dove le tradizioni locali si fondono con gli apporti esterni e con l’epos greco, in particolare quello legato al mito di Troia.

Fig. 2. Castro. Panoramica aerea.

“Antiquam exquirite matrem” Punto di sintesi di queste tradizioni è l’Eneide di Virgilio che nel libro III descrive la profezia di Eleno a Butrinto Antiquam exquirite matrem (“cercate l’Antica madre”, nelle terre dell’Italia); ma la sede della nuova Ilio non sarà sulla costa del primo approdo, ancora varie traversie e avventure dovranno essere affrontate. Così Enea affronta la traversata del tratto di mare e all’alba è in vista della bassa costa della penisola, humilis Italia; in un clima di esaltazione festosa i compagni gridano, invocando il nome dell’Italia, e Anchise compie una libagione nel mare prendendo il vino da un cratere incoronato. La poesia di Virgilio celebra, per così dire, la “scoperta dell’Italia” in un clima, quello dell’età di Augusto, in cui Roma e l’Italia sono il centro del nuovo Impero del Mediterraneo. Un approdo sulla costa rocciosa è dominato dall’acropoli sulla quale si erge il templum Minervæ che scompare alla vista quando l’eroe troiano entra nell’insenatura e si manifesta il segno divino dei quattro cavalli bianchi al pascolo, profezia di future battaglie per conquistare una terra in cui infine potranno svilupparsi pacifiche attività. I sacrifici si compiono, indossando frigi mantelli, e si riprende il viaggio verso Occidente lungo le rotte che avevano portato i greci a fondare colonie in Italia.

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Reincanti virgiliani. La scoperta del Palladio di Castrum Minervæ

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Fig. 1. Il viaggio di Enea da Troia all’Italia.


Già i commentatori dell’Eneide avevano riferito il templum alla località di Castrum Minervæ e la Tabula Peutingeriana, una antica carta geografica, indicava il sito sulla costa salentina a otto miglia a sud di Otranto. Non c’era dubbio che questa indicazione si riferisse all’attuale abitato di Castro, che conserva nel nome e nell’assetto topografico (l’approdo, l’acropoli che domina le scogliere della costa), il ricordo di quell’antica testimonianza letteraria. Ma la notizia del santuario di Atena sull’akra della Iapigia emerge in altri autori come Varrone e Dionigi di Alicarnasso.

Le risposte dell’archeologia

Fig. 4. Castrum Minervae sulla Tabula Peutingeriana.

Da tutte queste discussioni sarebbe stato difficile estrarre un qualche elemento di valutazione e probabilmente la discussione sul luogo sacro ad Athena sarebbe stancamente proseguita nei prossimi anni (o decenni?) se non fossero emersi dati nuovi dall’indagine sul terreno. A Castro i reperti archeologici di età preromana da molto tempo permettevano di considerare il sito all’interno di un sistema insediativo complesso riferibile al periodo messapico, compreso fra l’VIII e il III secolo a.C., quando il Salento venne infine conquistato dai romani. Castro, con il suo approdo a controllo dei passaggi fra mare Ionio e Adriatico, costituisce la proiezione marittima di un vasto entroterra che si collegava anche all’altro importante approdo adriatico: Otranto. In questa ampia e fertile pianura fornita di pozzi e di acqua, il centro dominante era Muro Leccese ma il suo nome antico è perduto. Sappiamo molto di più dell’altra città dove gli scavi dell’Università del Salento continuano a fornire nuovi dati: il suo nome antico era Bausta e si conserva ancora oggi nel paese di Vaste.

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Competere per Minerva

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Fig. 3. L’approdo di Enea a Castro (InkLink Firenze).

Inoltre nell’Alessandra di Licofrone si cita un santuario di Athena Skylletria (“delle armi”) presso gli iapigi, dove sarebbero stati offerti in dono votivo i sandali di Elena. Dalla varietà delle testimonianze nasce una questione, a partire almeno dall’età umanistica, in cui varie città salentine rivendicano il collegamento con le testimonianze relative al celebre Athenaion. Da nord si inizia con Brindisi, a cui allude perfino il Galateo, per scendere sino a Otranto dove la tradizione si attesta sul Colle della Minerva. Ma qui non sono mai state rilevate tracce di una frequentazione antica e la chiesa dedicata a san Francesco di Paola ricorda le memorie del martirio degli otrantini perpetrato dagli invasori turchi nel 1480. Peraltro altri toponimi richiamano il nome della dea, forse la vicina Minervino, fondata (nel Medioevo?) da profughi provenienti da Castrum Minervæ (dopo una sua distruzione?). E qualcuno aveva proposto Porto Badisco per l’approdo di Enea, con qualche fortuna tra i turisti meno informati. Ovviamente Castro conservava le maggiori possibilità di corrispondere al luogo del santuario di Athena e gli eruditi locali si affannavano a cercarne le prove, come avvenne alla fine del Settecento, quando lo stesso vescovo monsignor Del Duca annunciò di aver identificato il santuario: si trovava nella grotta della Zinzulusa e le stalattiti non erano altro che le colonne del tempio!! La notizia fu ripresa perfino in Francia e riportata nella «Gazette» di Parigi ma ben presto fu dimostrato che le stalattiti erano formazioni naturali, tipiche della natura carsica del Salento e nulla avevano a che fare con l’architettura greca. I prelati giocarono un ruolo in questa competizione in cui il tema del trionfo del cristianesimo doveva essere enfatizzato rispetto ai culti pagani. Su questa base si sviluppò la tradizione del santuario di Leuca “de finibus terræ” in cui il culto mariano sarebbe stato fondato sulle rovine dell’antico tempio di Minerva. Ma recenti ricerche su tutta l’area non hanno permesso di ottenere alcun riscontro nell’area di Punta Meliso, dove si sviluppa invece un insediamento di età protoiapigia (XI-X secolo a.C.). Al contrario un luogo di culto messapico è stato portato alla luce nella Grotta Porcinara, nella prospiciente Punta Ristola: ma la divinità venerata era Zeus, anzi Zis, in lingua messapica, un dio della navigazione e delle tempeste.


Fig. 5. La costruzione delle mura spagnole su quelle messapiche (Inklink Firenze).

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un punto in cui le mura del Cinquecento presentavano crolli e lacune. Nel corso degli scavi Luigi Capraro, assessore alla Cultura del Comune di Castro, laureato in Archeologia dell’Università del Salento, notava anche in quel punto la presenza di blocchi, probabilmente appartenenti alle fortificazioni messapiche. Grazie al suo impegno fu possibile stabilire un piano di collaborazione scientifica che fu ratificato da una Convenzione fra Comune di Castro, Università del Salento e Soprintendenza Archeologica della Puglia. Da quella Carta, un semplice accordo che poteva restare lettera morta, scaturì invece una prassi operativa in cui i giovani archeologi dell’Università, con il loro impegno ed entusiasmo, produssero straordinari risultati scientifici. Cominciarono a emergere in modo sempre più evidente le fortificazioni costruite dai messapi tra la fine del IV e il III secolo a.C.: blocchi squadrati di grandi dimensioni posti in opera con sapienza costruttiva. In quel punto, non a caso indicato come zona Muraglie, si portò alla luce uno dei tratti meglio conservati di mura in tutta la Messapia con sedici filari di blocchi ancora in situ. Sulle mura antiche si distingueva anche una fascia intermedia, con blocchi di reimpiego, sotto le strutture del Cinquecento. Anche in età medievale l’abitato di Castro era fortificato nel periodo angioino quando tutta la costa adriatica del Salento era proiettata verso il Levante. Questa stratificazione di strutture all’interno dei terrazzamenti agricoli sui pendii intorno alla città fortificata assumeva uno straordinario valore comunicativo, di racconto di una storia di difesa del territorio dai pericoli del mare, ma anche di secolare lavoro dei contadini che, con le piantagioni di ulivi, con i piccoli orti tenuti dai muri a secco, avevano modellato un paesaggio rurale esposto purtroppo alle ingiurie della “vita moderna”: inserimenti edilizi abu-

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Fig. 6. Le mura messapiche (InkLink Firenze).

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Che a Castro ci fossero resti monumentali in particolare delle mura di fortificazioni a blocchi era emerso in molte occasioni; già negli anni Cinquanta si erano riconosciuti dei tratti e poi la Soprintendenza Archeologica aveva scavato in piazza Perotti una struttura muraria che presentava caratteri notevoli. Si poteva così pensare che le fortificazioni di età spagnola erano state costruite sullo stesso percorso di quelle messapiche del IV secolo a.C., a distanza di quasi duemila anni, ma poggiandosi su di esse e in parte utilizzando gli stessi blocchi antichi che venivano tagliati in pezzi più piccoli per comporre la nuova tecnica muraria. L’acropoli fortificata dominava il piccolo porto in basso e così alla funzione militare si aggiungeva quella commerciale e l’insediamento somigliava agli emporia greci, in particolare a quelli dell’Egeo dove le divinità vigilavano dall’alto della rocca e proteggevano gli scambi. Infatti in molti punti di Castro, negli scavi per le fondazioni delle troppe nuove case (chiamate pretenziosamente villette), sono emersi i frammenti di quelle anfore che trasportavano sulle navi il vino e l’olio che i messapi scambiavano con i loro prodotti agricoli (il grano doveva costituire una merce richiesta) e della pastorizia. Sino a pochi anni fa erano però informazioni sparse, sino a quando sono iniziati i lavori della nuova rete fognaria, che bisognava convogliare all’esterno dell’abitato. Per questo era necessario attraversare la linea delle fortificazioni in


Fig. 7. Castro. Zona Muraglie. Le mura messapiche conservate per 16 filari.

sivi, uso estensivo di muri in mattoni di cemento, sovrapposizione di edifici moderni alle mura, che ne avevano sfondato in alcuni punti la struttura. Era necessario un intervento che proteggesse e valorizzasse questa fascia pomeriale esclusa sino ad allora da un piano di tutela, fatto ancor più grave poiché da questo punto si gode un panorama ineguagliabile sul mare azzurrissimo del canale di Otranto seguendo la costa rocciosa sino al capo di Leuca, una vista d’insieme su tutto l’antico promontorio iapigio.

Iniziarono così gli scavi e le sorprese cominciarono a susseguirsi: prima strati ricchissimi di cenere, chiari resti dei sacrifici, e all’interno piccoli vasi, ridotti in piccoli frammenti secondo antiche pratiche rituali. Nell’area erano dunque collocati altari di ceneri che contenevano resti di doni votivi; cominciarono a emergere frammenti di vasi di marmo provenienti dalle Cicladi, monete di argento con tracce di combustione, frammenti di panneggio relativi a una statua femminile, forse la stessa immagine della divinità, laminette di bronzo che rivestivano oggetti di legno. E infine apparvero le punte di lancia in ferro e le punte di freccia. A quel punto appariva chiaro che in quella zona di Castro, protesa sul mare e sull’approdo, si svolgevano azioni rituali intorno a un tempio. L’offerta di armi era inoltre comune nei santuari di Athena, la dea raffigurata con elmo, scudo e lancia; il pensiero correva all’Athenaion di Gela e ad altri luoghi sacri a Pallade. Sembrava l’argomento decisivo per riconoscere a Castro il luogo del celebre santuario immortalato da Virgilio. Il 26 aprile 2007 Cinzia Dal Maso scriveva un articolo pubblicato a tutta pagina su «la Repubblica» dal titolo: Castrum, ecco il

La “passeggiata delle mura” di Castro: per un turismo lento Così avevo proposto di creare la “passeggiata delle mura”: un itinerario che corresse tra i terrazzamenti nel pendio ai piedi della fortezza di Castro, con un progetto che portasse anche a un restauro dell’ambiente e che convogliasse su questa parte trascurata della cittadina uno sguardo collettivo. La conoscenza di queste bellezze era la garanzia maggiore perché fossero conservate ma anche una ulteriore offerta per un turismo lento, cioè di qualità, che permetta al visitatore di scoprire nuove dimensioni e di soffermarsi su di esse. Con l’inizio dei lavori si raggiunse anche un punto che rappresentava il massimo degrado di questa zona: la Chiavica, costruita dopo la seconda guerra mondiale per raccogliere i liquami di Castro. Grazie all’intervento dei sindaci Pasquale Ciriolo e Gigi Carrozzo oggi di quella bruttura non rimane più nulla. Anzi la zona è inserita nella “passeggiata delle mura” e sono iniziati gli scavi che hanno portato alla scoperta della Porta

Fig. 8. Punte di frecce e giavellotti in ferro.

103 Reincanti virgiliani. La scoperta del Palladio di Castrum Minervæ

L’avventura dell’archeologia

Francesco D’Andria

Quaderno di comunicazione 102

Urbica. Qui nel IV secolo a.C. giungeva sull’acropoli la strada che partiva dal porto e si arrampicava lungo il pendio roccioso. Anche questo tratto delle mura messapiche appariva ben conservato e all’interno era visibile in sezione una successione di strutture e di strati riferibili all’età medievale ma anche alle fasi più antiche. Inoltre, tra i blocchi sparsi intorno, uno fu riconosciuto come appartenente alla parte centrale di un timpano decorato da un motivo poco frequente, quello del triglifo. Appariva chiaro che, nelle vicinanze della porta, si trovava un edificio templare, di ordine dorico.


Fig. 9. La porta messapica sormontata dal Tempio dorico (InkLink Firenze).

Il Palladio di Castro Il primo maggio scorso un mio collaboratore archeologo, Amedeo Galati, accompagnato da uno studente di archeologia, Emanuele Ciullo, si recò sul cantiere di scavo per iniziare la preparazione delle attività e per controllare lo stato del luogo. Osservarono nella sezione dello scavo dello scorso anno una macchia verdastra nel terreno; pensando fosse una laminetta metallica come le altre rinvenute nell’area, rimossero con molta prudenza la terra intorno all’oggetto rendendosi conto immediatamente che si trattava di una statuetta di bronzo a fusione piena alta 14 cm. Avvisato tempestivamente, mi recavo a Castro e potevo, con enorme emozione, constatare che si trattava di una statuetta raffigurante la dea Athena, probabilmente di fabbrica tarentina del IV secolo a.C. Ma era la particolarità della sua iconografia che mi riempiva di stupore: non si trattava della consueta immagine della dea, raffigurata con l’elmo attico e l’egida; la dea con lungo chitone doveva reggere nella destra piegata una coppa nell’atto di compiere una libagione, nell’altra mano reggeva la lancia. La testa era coperta da un elmo frigio: si trattava dunque della rappresentazione dell’Athena di Ilion, del Palladio di Troia. La dea di Castro era dunque connessa con la famosa città dell’Anatolia e la tradizione di Virgilio si collegava a un fatto reale: la presenza a Castro dell’Athenaion del capo Iapigio dove si veneravano divinità collegate al mito troiano e agli eroi come Enea. La scoperta apriva altri interrogativi e individuava nuove chiavi di lettura e collegamenti con altri ambiti e tradizioni. Il 15 giugno ne «Il Sole 24 Ore» Cinzia dal Maso annunciava con un lungo articolo la nuova scoperta che confermava l’ipotesi nel tempio di Castro, con un titolo molto chiaro, E la nave di Enea attraccò in Puglia. La statua bronzea del IV secolo a.C., raffigurante Athena frigia e ritrovata negli scavi di Castro, confermerebbe che questa è la città descritta da Virgilio quale luogo dell’approdo in Italia. Si pongono così le basi per sviluppi significativi nella prosecuzione degli scavi e l’interesse del pubblico va crescendo su un tema che può rappresentare per Castro una vera occasione di crescita. Intanto è stata accettata la proposta di chi scrive, inviata al sindaco, di modificare il nome della cittadina ritornando al nome antico Castrum Minervæ, con il quale il richiamo al prestigioso luogo risulta evidente. Castro, che ha ritrovato il suo Palladio, deve ritrovare l’orgoglio delle sue origini e pensare al modo di valorizFig. 10. Statuetta in bronzo raffigurante Athena con zarle all’interno di una vasta rete mediterranea le cui tapelmo frigio (IV sec. a.C.). pe possono essere segnate dal percorso di Enea.

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gettista degli interventi sulle mura, si impegnarono con tutte le forze per acquisire il lotto di terreno accanto alla zona della porta dove, per fortuna, era rimasta intatta una zona a orto, immune dalle costruzioni moderne che pure hanno invaso parte dell’area. La complessa pratica di acquisto poté completarsi nella primavera di quest’anno e cominciò a organizzarsi la campagna di scavo.

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porto che accolse Enea. Gli archeologi: nel Salento il tempio di Minerva descritto da Virgilio. Con rara tempestività, il giorno dopo, il giornale «The Independent» dedicava una intera pagina alla scoperta con il titolo In the steps of a Trojan hero, illustrata da una incisione antica, e commentata dalla traduzione del libro III dell’Eneide, fatta nel XVII secolo da John Dryden Minervas temple then salutes our sight, plac’d, as a landmark, on the mountain’s height… A questo seguirono altri articoli nella stampa locale e infine, nel febbraio di quest’anno, Andrea Parlangeli riportava in «Focus» un ampio commento della notizia, con splendide illustrazioni e con la ricostruzione della porta messapica di Castro sormontata dal tempio dorico. L’articolo riporta tra l’altro la dichiarazione di Mario Geymonat, dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, uno dei massimi esperti di Virgilio. Il docente richiama la testimonianza di Marco Terenzio Varrone che fa riferimento, per l’approdo di Enea, a Castrum Minervæ nobilissimum, cioè di antica tradizione e richiama il metodo di Virgilio che conosceva i luoghi descritti nel poema e che, andando in Grecia, “percorreva, con gli occhi bene aperti, il tratto di mare che andava dal Salento all’Albania”. Nell’articolo si citano anche le recenti scoperte di Ardea, l’antica capitale dei rutuli di Turno, anch’essa oggetto di recenti scoperte archeologiche. Naturalmente il risalto dato alla scoperta nella stampa nazionale e internazionale ha suscitato a Castro grande interesse, stimolando l’orgoglio patrio: gli articoli sono stati esposti in piazza e nella sede comunale e hanno contribuito a creare un interesse crescente verso le potenzialità dell’archeologia nella promozione del territorio. Così il sindaco Carrozzo, l’assessore Capraro, l’architetto Fersini, pro-


Luciana Dini La magia del microscopio e le meraviglie del molto piccolo

La vista, l’olfatto, l’udito, il tatto e il gusto sono i cinque sensi con cui, noi esseri umani, relazioniamo con il mondo circostante. Ovviamente, in questo non siamo certo unici. Organi di senso sono presenti in tutti i vertebrati e invertebrati. Si va dalle terminazioni nervose libere, che forniscono le informazioni essenziali sulle modificazioni dell’ambiente interno e di quello esterno, a organi complessi per struttura e funzionamento, come l’orecchio o l’occhio. Quindi, l’elenco generale di tutti gli organi di senso presenti nel mondo animale è molto più lungo dei cinque organi che possiamo elencare per l’uomo: occhio, naso, orecchio, pelle e lingua. La capacità di percepire un cambiamento e di rispondere a questa variazione è una proprietà fondamentale dei viventi, siano essi singole cellule oppure organismi pluricellulari. Per sopravvivere in un mondo che cambia i vertebrati devono percepire le modificazioni dell’ambiente esterno e di quello interno (le sensazioni che provengono dall’interno del corpo) ed elaborare risposte comportamentali e fisiologiche appropriate: per evitare di essere mangiati, per trovare un rifugio, il cibo, un compagno. Ogni animale ha una sua prerogativa di vita (acquatica, terrestre, aerea) e, conseguentemente, un bagaglio di organi di senso adeguato. Ogni specie animale ha così una personale lista di priorità per l’uso dei diversi organi di senso. È chiaro che in una vita acquatica, al di là delle modificazioni anatomiche/funzionali degli organi di senso adeguate all’acqua, la vita di relazione non sarà certamente basata sui suoni anche se le onde sonore prodotte da un oggetto in vibrazione si diffondono molto più rapidamente in un mezzo denso come l’acqua, piuttosto che nell’aria. Per i teleostei, l’udito consiste nella percezione delle perturbazioni dell’acqua. Analogamente i volatili hanno necessità di avere la vista acuta, mentre possono tranquillamente vivere senza un olfatto sviluppato. Gli esseri umani usano tutti gli organi di senso, ma in maniera preponderante la vista, piuttosto che l’udito o il gusto. Esiste, tuttavia, una variabilità individuale rispetto alla acutezza di quel particolare organo di senso (è linguaggio comune riferirsi a persone con “un gusto sopraffino” o “olfatto infallibile”) ulteriormente amplificata e/o sfruttata per specifiche professioni come per esempio i sommelier o i produttori di profumi. La vista rimane comunque essenziale per l’Uomo in tutte le sue attività di relazione. Se proviamo a chiudere gli occhi e a continuare a svolgere quello che stavamo facendo, saremo certamente colti da un senso di pro-


Gli occhi: una fabbrica di meraviglie Gli organi di senso, e quindi anche gli occhi, rappresentano il mezzo con cui “colleghiamo” l’esterno con il cervello, che decodifica la percezione e crea una immagine che siamo in grado di riconoscere e a cui attribuiamo un nome. Anche le sensazioni che provengono dall’interno del nostro corpo hanno specifici recettori,

Gli occhi: una lenta costruzione Studiando lo sviluppo degli occhi, abbiamo subito la netta percezione che si sta sviluppando un organo estremamente complesso. L’occhio dei vertebrati si sviluppa con una sequenza di eventi sostanzialmente simile. Inizialmente è una evaginazione singola, mediana del diencefalo (una regione del cervello) da cui per biforcazione sarebbero derivate le vescicole ottiche. Quindi la ciclopia (una condizione anomala nella quale è presente un singolo occhio produttore di immagini in posizione mediana) è in realtà una condizione di sviluppo per difetto, che rappresenta il risultato della mancata biforcazione dell’evaginazione mediana. Quando i progenitori dei vertebrati sono diventati animali più grandi e più attivi, le cellule fotorecettrici sono state, per convenienza, concentrate in prossimità dell’estremità anteriore del corpo, nella cavità di una regione del cervello in corso di evoluzione, la cui evaginazione le avrebbe portate vicine alla superficie del corpo. La parallela modificazione dei tessuti adiacenti avrebbe consentito la trasmissione della luce. Mentre ciascuna vescicola ottica si estende verso la superficie del corpo, la sua parte prossimale si restringe nel peduncolo ottico (il futuro nervo ottico) e la parte distale s’invagina per formare il calice ottico (la futura retina). Infine si sviluppa il cristallino, la cui definitiva maturazione avviene solo dopo la nascita.

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ma questa è un’altra storia. Il cervello è il nostro centro di elaborazione e allo stato attuale, abbiamo acquisito solo una minima conoscenza del suo funzionamento nonostante sia l’organo più studiato al mondo. Ma ancor meno siamo in grado di sfruttarne tutte le potenzialità. Rispetto a questa capacità siamo praticamente alla preistoria e dobbiamo percorrere ancora molta strada. Infatti, non solo il cervello ci visualizza una immagine, ma ci permette di associarvi emozioni, sia di meraviglia, di piacere, di serenità che di disgusto, di dispiacere, di angoscia. Credo che la capacità di percepire non solo immagini ma emozioni rappresenti la più grande meraviglia del binomio occhio-cervello. Ma non è ancora tutto; guardando negli occhi la persona che abbiamo di fronte ne possiamo cogliere lo stato d’animo. Come è possibile? Non cercate la risposta in questa breve nota, non la posso dare semplicemente perché non la so. Nell’evoluzione dell’uomo, l’uso prioritario della vista è diventata la scelta strategica migliore per il tipo di vita e l’ambiente che nel tempo noi esseri umani abbiamo conquistato. L’utilizzazione che facciamo dei nostri occhi è vastissima; li usiamo per tutto o quasi. È attraverso gli occhi che controlliamo il nostro territorio, facciamo delle scelte, analizziamo il comportamento dei nostri simili, ci innamoriamo. È attraverso gli occhi che rimaniamo incantati da meravigliosi paesaggi, quadri, da una architettura perfetta, dal sorriso di un bambino, dalla fatica di un atleta, ed è sempre attraverso gli occhi che raggiungiamo abissi di angoscia quando vediamo le immagini crude della sofferenza di un malato terminale, di un bambino affamato, di un atto di violenza, di terrorismo. Insomma, gli occhi sono lo strumento per “fabbricare” meraviglie e vivere momenti di incanto che si alternano in ordine sparso con momenti di dolore o di disincanto quando le immagini create nel nostro cervello rivelano verità scomode.

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fonda incapacità, magari associato a panico, scoprendo che non ne siamo capaci. Senza una corretta visione perdiamo la nozione della nostra posizione nello spazio e di conseguenza ci sentiamo insicuri e impauriti. Ma non è così per tutti gli animali con cui condividiamo questo nostro pianeta: basta osservare il nostro cane e/o gatto o quello di un amico per comprendere la prevalenza dell’olfatto nella loro vita di relazione. E se potessimo osservare tutti gli animali presenti sulla Terra, ci sorprenderemmo per la miriade di modalità di relazionare attraverso i sensi che, ovviamente, hanno funzionamenti più disparati. A questo punto sembra lecito domandarci se la “percezione” del Mondo è la stessa per l’uomo, il cane, il gatto, la lucertola, il coniglio, il canarino, e così via. Difficile dare la risposta. Forse ci sono “tanti mondi”: quello basato sulla luce, sui colori, sui suoni, sul buio e chissà su cos’altro. Di sicuro la descrizione del mondo fatta dagli uomini è diversa da quella che potrebbe fare un qualunque altro animale. Pensate alla visione preponderante in bianco e nero dei cani! E non solo, infatti molti mammiferi non sono dotati della visione dei colori. E allora, quando non si ha più il dono della vista, come è percepito l’ambiente che ci circonda? Va ricordato che una delle proprietà più stupefacenti che possediamo, in quanto organismi viventi, è quello della plasticità. I cambiamenti a cui andiamo incontro sono sorprendenti (in positivo e in negativo, equamente) anche a noi stessi che ci osserviamo tutti i giorni allo specchio. L’armonia del funzionamento delle nostre attività biologiche viene mantenuta dall’equilibrio che si crea tra due “attività contrastanti”. Anche il rinnovamento cellulare viene mantenuto con un perfetto equilibrio tra proliferazione e morte cellulare. Nei casi in cui si verificano perturbazioni nell’armonia delle attività biologiche, organi di senso inclusi, e le cui cause sono molteplici: genetiche, traumatiche, degenerative o per malattie, si avvia un’attività tampone che ne compensa la perdita o la degenerazione. Ovviamente, questa capacità tampone ha dei limiti ben precisi che qualora venissero superati porterebbero alla malattia e, nei casi più gravi, alla morte dell’organismo. Non siamo immortali, anche se il raggiungimento dell’immortalità rappresenta l’aspirazione massima dell’uomo dai tempi più antichi (basta ripercorrere i Miti a tal proposito). È conoscenza popolare che quando per motivi traumatici si perde l’uso di uno dei cinque sensi, le capacità di quelli rimasti sono acuite. Quando si perde la vista, non sarà certamente il naso ad acquistare anche questa funzione, ma l’intero organismo, gradualmente, cambia la modalità con cui percepire l’ambiente circostante. Gli odori, i suoni, il tatto diventano le sensazioni predominanti nel relazionare. E il mondo, se perde i colori, acquista una gamma vastissima di profumi, suoni, sapori. Insomma si “vede” il mondo diversamente dagli esseri viventi, così detti vedenti. Come vedenti siamo la maggioranza, e gli altri non me ne vogliano se scrivo di noi.


Senza la luce non possiamo vedere, e al buio non ci sentiamo a nostro agio. Forse è per questo che la luce simboleggia Dio, il Paradiso e la Verità, mentre il buio è la morte, sia quella fisica che quella dell’anima. Il Diavolo è nelle tenebre, gli Angeli nella luce. Quindi la luce è un elemento amico e ci permette di vedere il mondo. Anzi molto di più: senza il sole non ci sarebbe la vita sulla Terra. La luce è energia, e noi tutti esseri viventi abbiamo bisogno di energia (anche le piante!). Tuttavia, guardando il cielo in una splendida giornata di sole, a nessuno viene da pensare che quei raggi così essenziali per la vita sulla nostra Terra, sono allo stesso tempo così pericolosi… incanto, disincanto, reincanto. Gli occhi utilizzano la luce per riprodurre sulla retina quello che osserviamo. La luce è recepita dalle cellule dei bastoncelli e dei coni. I bastoncelli sono attivi in luce debole, ma non sono dotati della visione dei colori e sono responsabili della visione indistinta. I coni sono dotati della visione a colori, ma richiedono luce intensa e formano immagini più nitide. Eppure poter “solamente” vedere il mondo che ci circonda non ha appagato la curiosità di noi umani. È sempre prevalso il desiderio di scoprire come è fatto il “dentro” di un oggetto, di un animale, di una pianta. La voglia di conoscenza accompagna da sempre lo sviluppo dell’Uomo. Quanti giocattoli sono continuamente “smontati” per vedere come sono fatti? Ma come fare? Non si può certo “spezzettare” un organismo per dargli un’occhiata. Sin dall’antichità si conosceva la proprietà delle lenti di convergere la luce (basta ricordare Archimede che ha salvato il porto di Siracusa bruciando le navi avversarie) e di riprodurre una immagine di un oggetto ingrandita e rovesciata. Possiamo dire che la lente di ingrandimento sia un rudimentale microscopio. Solo nel Seicento però, ad opera di un commerciante olandese di Delft, Anton van Leeuwenhoek, con il pallino per la natura, è stato prodotto il primo microscopio ottico con doppia lente, che rovesciando la prima immagine forma-

Il mondo al di là del visibile: un caleidoscopio di forme Superato il potere di risoluzione dei nostri occhi con l’aiuto dei microscopi abbiamo potuto vedere il noi stesso invisibile, e abbiamo scoperto che siamo fatti di cellule. Siamo andati sempre più in profondità e abbiamo visto cosa c’è in una cellula, come è fatto il nucleo e abbiamo fotografato il DNA e non solo. Il materiale biologico non è idoneo per essere osservato al microscopio, infatti, prima della sua osservazione, deve subire un complesso processamento che lo

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La luce, gli elettroni e i microscopi

ta consente di produrre una immagine diritta. Le sue osservazioni degli “animaletti” presenti in una bacinella d’acqua lasciata al sole per qualche giorno (risultate essere animali coloniali, Vorticelle), sono state pubblicate dalla Royal Academy of Science inglese, e rappresentano il primo lavoro scientifico in assoluto che riporta uno studio al microscopio. Il microscopio ottico è rimasto praticamente lo stesso fino a quando le conoscenze scientifiche hanno dato spiegazioni sempre più dettagliate della natura della luce, a cui è stata associata una lunghezza d’onda. La tecnologia ha permesso di costruire microscopi sempre più raffinati. Ma quanto è “cannibale di conoscenza” l’Uomo? Tanto. Vedere il più piccolo non meravigliava più; si intuiva che ci fosse molto altro al di là di quanto il microscopio ottico permetteva. Il desiderio era quello di andare sempre verso il più piccolo ma lo strumento (il microscopio) è legato ad alcune proprietà fisiche che non possono essere infrante. Il limite invalicabile del potere risolutivo del microscopio ottico è legato sostanzialmente alla lunghezza d’onda della luce impiegata. Il potere risolutivo cresce proporzionalmente al decrescere della lunghezza d’onda della radiazione impiegata. A soddisfare il desiderio dell’uomo di scoprire sempre il più piccolo è stata fondamentale la scoperta che gli elettroni (doppia natura: corpuscolare e ondulatoria – onde di De Broglie, agli elettroni viene associata una lunghezza d’onda) hanno una radiazione di bassissima lunghezza d’onda. Mentre la luce visibile possiede, infatti, lunghezze d’onda comprese fra 4.000 e 7.000 Å, un elettrone accelerato da una differenza di potenziale di 10.000 KV (a 200 KV la lunghezza d’onda relativistica è di 0.0251 Å) possiede una lunghezza d’onda di 0.12 Å. Un gruppo di giovani dottorandi berlinesi negli anni che precedettero lo scoppio della seconda guerra mondiale, tra cui Ernst Ruska, che molti anni dopo avrebbe ottenuto il premio Nobel per quella scoperta, stavano lavorando per la produzione di televisori con borse di studio finanziate dalla Siemens. Studiando la formazione di immagini su di un tubo catodico (ricordate i vecchi apparecchi televisivi?) si accorsero che usando i fasci di elettroni si ottenevano poteri risolutivi assai elevati. Era l’inizio della microscopia elettronica. Quindi, in linea di principio, un microscopio elettronico opera come un normale microscopio ottico qualora si usasse luce con lunghezza d’onda bassissima. L’era della moderna microscopia era scoccata e la crescente tecnologia ha fatto il resto. Il mondo dell’ultramicroscopico poteva essere svelato. E l’era della microscopia elettronica italiana iniziava per opera di una donna, la professoressa Bocciarelli. Non poteva essere diversamente. Infatti “curiosità è donna”! Il suggestivo itinerario alla ricerca dell’“invisibile” poteva essere scandito alla ricerca di un filo logico, rinnovando la nostra percezione del mondo.

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Nonostante l’occhio sia molto variabile nella serie dei vertebrati per quanto riguarda i dettagli adattativi, la sua struttura di base è identica. Tralasciando la descrizione anatomica dettagliata, gli occhi sono essenzialmente delle piccole macchine fotografiche biologiche. Il diaframma che regola l’intensità luminosa è equiparabile all’iride, la camera oscura alla camera posteriore del bulbo ottico, la lente convergente la luce al cristallino, mentre il negativo su cui si forma l’immagine alla retina. Sono generalmente localizzati ai lati della testa e, in molti mammiferi, la presenza di un elevato grado di sovrapposizione dei campi visivi fornisce la percezione della profondità o visione stereoscopica. Come le macchine fotografiche producono fotografie, gli occhi producono immagini. Ma che cosa è la fotografia e che cosa sono le immagini? Luigi Ghiri afferma che la fotografia è la grande avventura del mondo del pensiero e dello sguardo, un giocattolo magico che riesce a coniugare miracolosamente la nostra adulta consapevolezza e il fiabesco mondo dell’infanzia, “un continuo viaggio nel grande e nel piccolo, nelle variazioni attraverso il regno delle illusioni e delle apparenze, luogo labirintico e speculare della moltitudine e della simulazione”. L’immagine è la percezione visiva di ogni scatto, di ogni batter di ciglia.


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dimensioni (ricordate che vi ho detto che con gli occhi si ha la visione stereoscopica?), e di conquistare la possibilità di ricostruire le forme biologiche nella loro tridimensionalità ha fatto nascere nuovi microscopi in grado di effettuare sezionamenti ottici e ricostruzioni in 3D (tecnicamente è la microscopia confocale a scansione laser). Ma, ancora una volta, dopo i primi stupori, l’assuefazione o meglio la definizione dei limiti dello strumento hanno spinto verso nuovi sviluppi. E allora ecco la video-microscopia: la meraviglia del mondo microscopico che si muove. E dopo aver imparato come sono fatte le cellule e i tessuti stiamo imparando come si muovono le cellule e i loro componenti. Rapiti dalle continue evoluzioni, spostamenti… sembra proprio che nell’ultramicroscopico valga la regola del “chi si ferma è perduto”. La video-microscopia ha permesso di filmare anche il miracolo della fecondazione e delle prime fasi dello sviluppo. Osservare la nascita della nuova vita sin dal suo primo istante è emozione allo stato primordiale. E intanto le nuove microscopie elettroniche a sonda ci permettono di incontrare molecole e atomi.

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rende sufficientemente sottile per permettere il passaggio della luce o degli elettroni, e le sue diverse parti devono avere un contrasto o una diversità di colore sufficiente a distinguerle le une dalle altre. Queste proprietà sono ottenute artificialmente, ma sono indispensabili per poter osservare al microscopio un campione biologico. Soprattutto se il nostro campione non viene colorato/contrastato l’osservazione al microscopio risulterà inutile. Si vedrà poco o niente perché gli organismi viventi contengono molta acqua (e la presenza di acqua, fonte indispensabile di vita, impedisce una corretta formazione dell’immagine) e perché tessuti e cellule non hanno di per sé colore. Quanta delusione è stata provata quando si è scoperto che la cellula degli animali non ha colore. Eppure veniamo da un mondo, il nostro, che è colorato! A osservare bene, ma proprio bene, un paio di colori si vedono al microscopio ottico: il rosso e il verde. Il primo per effetto del ferro che è contenuto nell’emoglobina presente nei globuli rossi, il secondo per via del magnesio della clorofilla delle piante, o del rame e manganese nei mitocondri. Qualche colore in più per i fiori dovuto a pigmenti liposolubili (solubili nei grassi) e idrosolubili (solubili in acqua) quali le antocianine (colorazione blu e porpora le cui gradazioni di colore dipendono dal grado di acidità o basicità del terreno in cui cresce la pianta), i flavonoidi per il colore giallo, i carotenoidi per il colore rosso, arancione e giallo. I fiori bianchi non devono la propria colorazione a particolari pigmenti, ma alla presenza di sacche d’aria microscopiche, poste fra le cellule dei petali. Ma, quale delusione dal microscopio elettronico dove le immagini del mondo invisibile degli esseri viventi sono ottenute rigorosamente in gradazioni di grigio, dal bianco al nero! Per fortuna che le forme sono così sorprendenti che fanno dimenticare l’assenza dei colori. Il disincanto dei falsi colori ottenuti con l’elaborazione computerizzata dell’immagine. Il prezzo da pagare per favorire la divulgazione scientifica, in un mondo pronto a elaborare e computerizzare, tutto. Speriamo non i sentimenti! Salviamo l’incanto del bianco e nero e delle infinite meravigliose forme. E in un istante la Scienza diventa Arte. Per essere precisi la Natura è Arte. La Scienza ha compreso e si inchina all’Arte che c’è nella Natura. Le immagini scientifiche possono definire la solitudine inevitabile dell’uomo dinanzi allo spettacolo incomprensibile del mondo, della natura. Con questo mondo si può intrattenere un rapporto intermittente e concitato, come il Palomar di Calvino, come il suo occhio che sente l’ansia di conoscenza e interagisce sempre con la materia su cui si applica dimostrando la propria momentanea fallibilità ma restituendo un potere di meraviglia a ciò che cade sotto il suo sguardo. Osservate le immagini qui di seguito; rappresentano esempi di cellule animali, microrganismi e biomateriali; volutamente non descrivo che cosa rappresentano queste immagini: ognuno veda quello che vuole e sperimenti le sue sensazioni. Gli anni trascorsi a osservare campioni al microscopio (ottico o elettronico) mi hanno insegnato che si vede quello che si “vuole” vedere. Si potrebbe dire che la ragione spegne la vista. Vedere senza condizionamenti è oggettivamente difficile, ma rappresenta l’unico modo per “vedere quello che c’è”. Emozionarsi per quello che si vede è un’altra storia. La scienza e la tecnologia sono sempre state in stretto contatto; senza lo sviluppo della tecnologia non si progredisce e senza un problema scientifico da risolvere la tecnologia non si sviluppa. La necessità di superare immagini “piatte”, in due


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Secondo quanto detto finora, i campioni biologici osservati al microscopio, al di là del dato scientifico che rappresenta il principale scopo dell’osservazione, sono fonte di immagini fantastiche, oniriche, meravigliose con le loro forme singolari. Sono stupore, sorpresa ed emozione. Perfino un microrganismo al microscopio riesce ad affascinarci. Ma, quando la ragione prevale anche il microrganismo che prima ci rapiva, torna a essere il “nemico” da combattere. Alcuni campioni biologici, se osservati al microscopio ci lasciano interdetti. Fate l’esperimento e osservate le immagini al microscopio elettronico a scansione di un latte in polvere per neonati (la prima immagine rappresenta la polvere, mentre le altre due il latte ricostituito, cioè la polvere sciolta nell’acqua bollente) e registrate le vostre emozioni.

Sorpresa di sicuro, ma anche una bella dose non trascurabile di disgusto. Forse vi state chiedendo “ma con che cosa ho nutrito mio figlio/a?”. Non posso darvi torto. Ancora una volta la ragione imprigiona le emozioni delle immagini. Ma allo stesso tempo non è possibile negare che queste immagini di “latte” siano belle se osservate come un minuscolo ago di conoscenza conficcato in un mondo né totalmente inconoscibile né totalmente opaco. L’immagine dell’ultrastruttura del cibo non è resa gradevole neanche dal sapere che il cibo, formato da alimenti, è materiale organico e come tale ha una sua ultrastruttura. La gradevolezza al gusto di un alimento dipende dalle sue proprietà organolettiche che sono a sua volta determinate dalla ultrastruttura. Ma se osserviamo la panna e i gelati al microscopio di sicuro saremmo delusi nel constatare che la loro bontà e la loro qualità dipendono praticamente dalla quantità e grandezza delle bolle di aria!!! Nessun gelataio farebbe pubblicità al proprio prodotto con immagini al microscopio.

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Non tutto incanta: quando il cibo incontra il microscopio


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Il microscopio e il post-umano Il microscopio ha la sua parte di merito/demerito nell’era del post-umano. Ebbene con i microscopi il corpo è “sezionato” e rivelato/violato nelle sue strutture intime. La voglia di conoscenza delle strutture e del loro funzionamento si spinge nel sempre più piccolo a trovare quei varchi necessari che ne permettono di copiarne le opportune forme. Copiare non solo il corpo umano ma la natura stessa è fonte di innovazione tecnologica. Dopo avere studiato a fondo le proprietà del geco, che può tranquillamente passeggiare su qualsiasi superficie, anche su vetri verticali, sfruttando l’attrazione molecolare (forza di Van der Waals) che esercitano i piccoli peli che ricoprono le sue zampe, e la cozza, che resta attaccata agli scogli anche sott’acqua, saldandosi fortemente alle superfici grazie a una proteina contenuta nei suoi filamenti di cheratina, è stato prodotto un polimero sintetico adesivo che funziona nell’acqua e si può riutilizzare più volte: la super colla Geckel. Che non è il frutto di esperimenti ai limiti delle capacità umane. Ma è semplicemente il frutto di un’attenta osservazione della natura e delle sue meraviglie. La super colla, infatti, è stata costruita imitando la struttura delle zampe del geco (studiate al microscopio elettronico) intrise con lo stesso aminoacido 3,4-L-diidrossifenilalanina (DOPA) contenuto nelle proteine prodotte dalle cozze. Nell’attesa di costruire scarpe che permettano di camminare su grattacieli, mimando le imprese di Spiderman, si prevedono per ora possibili applicazioni in ambito sanitario, ad esempio nella creazione di cerotti impermeabili. Un ruolo fondamentale per il microscopio nel post-umano è quello connesso con le pratiche per la fecondazione artificiale e la clonazione. Lavorare con un microscopio provvisto di un micromanipolatore ha reso sempre più facile “vedere”, ma soprattutto più sicure, le pratiche di microiniezione della cellula uovo con nuclei specifici (clonazione). Ma ancora, è con il microscopio che si scelgono gli embrioni migliori per l’impianto. Più performante il microscopio, più sicuro il risultato. Il binomio conoscenza e tecnologia viaggia nella stessa direzione e con binari comunicanti. Il corpo umano è stato messo sotto “video sorveglianza” anche per la sua componente microscopica con il video microscopio: spostamenti, tragitti preferenziali, allineamenti, assemblaggi/disassemblaggi di molecole, organelli e cellule sono stati trasferiti su nastri e memorie informatiche. Lo scopo, al di là della mera conoscenza è, anche qui, quello di cogliere, rubare, carpire la scelta inventata dalla natura. Ebbene sì, la natura ha “inventato” tutto; aspetta solamente che noi impariamo a osservare tutti i suoi segreti. Impossibile descrivere esaurientemente il mondo microscopico, ma spero che queste poche righe abbiano suscitato la vostra curiosità per un mondo che è anche dentro di noi. Cosa ci riserverà il futuro in questo campo per continuare a stupirci? Io la butto qui: perché non associare i colori e le loro gradazioni con una nota e dare la possibilità ai non vedenti di vedere la natura?

Roberto Cingolani Le sfide delle nanotecnologie

Cosa ci attende nel prossimo futuro Se decidessimo di “disassemblare” un uomo nei suoi componenti fondamentali, riempiremmo tre taniche con ossigeno, idrogeno e azoto, e tre terrine con carbonio, calcio, e sale. Rimarrebbero quindi pochi grammi di zolfo, fosforo, ferro, magnesio e piccole quantità di un’altra ventina di elementi fondamentali. La cosa curiosa è che “disassemblando” molti altri esseri viventi o addirittura altri oggetti organici, otterremmo più o meno le stesse cose. La spiegazione delle infinite diversità e varietà che madre natura ci propone non sta infatti negli elementi, ma nell’architettura della loro combinazione. A prescindere dalle implicazioni filosofiche (esiste un grande architetto oppure l’architettura è spontanea ed evoluzionista?), il semplice esempio che abbiamo portato è alla base di una rivoluzione culturale che sta pervadendo il quotidiano, e in una certa misura, definendo il futuro della nostra civiltà: la rivoluzione nanotecnologica. Per capire di cosa si tratta, cominciamo a domandarci come mai madre natura o il creatore abbiano scelto ossigeno, carbonio e altri elementi semplici per costruire il più potente computer parallelo del pianeta (il nostro cervello) e non il silicio su cui si fonda l’elettronica dei moderni computer artificiali. Domandiamoci ancora come è possibile che più o meno gli stessi elementi siano sfruttati per creare molecole fotosensibili che permettono di catturare l’energia dal sole mediante i processi biochimici di fotosintesi. O ancora come mai un osso diventi lungo come il femore, piatto come un dente o flessibile come un capello pur avendo la stessa composizione. La risposta all’osservazione attenta di questi processi sta nella capacità di madre natura di organizzare atomi e molecole sulla scala del miliardesimo di metro (cioè del nanometro) in modo funzionale, ordinato e controllato. Le scienze cosiddette esatte conoscono da tempo questi meccanismi, sia pur con alcune barriere culturali che hanno portato fisica, biologia e chimica a essere discipline molto distinte. Tuttavia in tempi recenti l’orizzonte ha cominciato a unificarsi. La forza trainante della rivoluzione nanotecnologica sta nel fatto che gli scienziati stanno esplorando e talvolta imitando le capacità architettoniche di madre natura: quella capacità di trasformare elementi semplici, economici e abbondanti in strutture complesse auto-generanti, auto-riproducenti e auto-riparanti. Il valore finale di questo approccio è immenso. Senza alcuna presunzione


Elettronica ad altissima integrazione L’immenso progresso dell’elettronica (computer, cellulari, TV ecc.) è dovuto al costante affinamento dei processi di manipolazione e di fabbricazione di materiali mediante tecnologie litografiche ad altissima risoluzione. Questo approccio è denominato di tipo top-down, in quanto basato sulla riduzione delle dimensioni di un cristallo (tipicamente silicio) da macroscopiche a microscopiche, e ha lo scopo di integrare in un chip il maggior numero possibile di transitori ed elementi circuitali. Il concetto di integrazione fa ormai parte della nostra cultura. Grazie al miglioramento costante di queste tecnologie, l’industria elettronica raddoppia il numero di elementi circuitali contenuti in un circuito integrato ogni due anni, consentendo così il continuo aumento di prestazione dei sistemi elettronici a parità di costo e consumo. Allo stato attuale le principali multinazionali dell’elettronica hanno raggiunto standard di produzione di massa con risoluzioni dell’ordine di 0.25-0.18 micrometri (milionesimi di metro), e si prevede a breve di aumentare ulteriormente la risoluzione dei processi litografici a 0.15-0.13 micron (questo significa che un chip di 1 centimetro quadrato può virtualmente contenere circa un miliardo di elementi circuitali). Questa rincorsa alla miniaturizzazione, pur consentendo di ottenere chip sempre più potenti, tende tuttavia al raggiungimento del limite quantistico della materia, in base al quale la dimensione del singolo elemento circuitale diverrà ben presto comparabile alla lunghezza d’onda di DeBroglie dell’elettrone (o più semplicisticamente comparabile allo spazio che probabilisticamente l’elettrone occupa nel dispositivo). Il raggiungimento di questo limite, previsto entro qualche anno, imporrà una profonda revisione delle architetture dei normali dispositivi elettronici.

Fabbricazione di nuovi materiali funzionali Un’altra grande sfida delle nanotecnologie consiste nello sviluppo di metodologie per la fabbricazione e l’assemblaggio di nuovi materiali sia di tipo organico che inorganico, con controllo delle loro proprietà su scala atomica e molecolare. Questo è il cosiddetto approccio bottom-up, esattamente opposto a quello top-

Nuovi dispositivi per telecomunicazioni Quest’area tematica riguarda lo sviluppo di nuove tecnologie per fabbricazione di dispositivi ottici molto veloci e a bassissimo consumo che consentano di avere telecomunicazioni operanti alla velocità della luce. Tali dispositivi permetteranno di avere frequenze di trasferimento dei dati nell’ordine dei 5 Terabit/secondo (il suffisso Tera equivale a 1 milione di miliardi), con le quali sarà possibile avere internet ad altissima velocità. Questo permetterà il telelavoro per milioni di cittadini, la cura in rete e in tempo reale per gli anziani, la televisione interattiva, le cure mediche on line, gli archivi e i documenti gestiti da casa via internet, l’istruzione e il commercio in rete. Tutto ciò oltre a permettere una capillare distribuzione dell’informazione e della diagnostica, potrà avere un enorme impatto ambientale, poiché ridurrà il traffico pendolare nelle grandi città, l’uso della carta, dei carburanti per gli spostamenti di massa ecc. Una ulteriore frontiera è rappresentata dai nuovi dispositivi elettronici e fotonici a singola particella, che consentono di processare segnali sotto forma del passaggio di un singolo elettrone, o di emettere segnali luminosi costituti da pochi (virtualmente singoli) fotoni. Questo ridurrà drasticamente le potenze elettriche di alimentazione e le soglie di corrente di funzionamento dei futuri dispositivi rendendo attuabile la costruzione di reti e sistemi complessi costituti da migliaia di miliardi di elementi. Si pensi che la fabbricazione di un cervello artificiale basato su tecnologia elettronica standard, capace di effettuare miliardi di operazioni parallele come il cervello umano, richiederebbe potenze elettriche enormi (una centrale elettrica dedicata), assolutamente non biocompatibili. Sistemi così complessi necessitano di nanodispositivi a bassissima dissipazione in potenza (dell’ordine del nanoWatt o miliardesimo di Watt) che possano essere collegati fra loro senza necessitare di potenze troppo elevate.

Nanorobot Fabbricazione di fabbriche nel chip, che sfruttano nanocomponenti della dimensione di qualche centinaio di nanometri che possano scorrere, spostarsi, inca-

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down delle litografie, e concettualmente simile all’auto-assemblaggio di madre natura. In questo caso viene controllata la sintesi e l’auto-assemblaggio di nanostrutture a partire dalla sequenza di aggregazione atomica e molecolare. A farla da padrone sono i sistemi biomolecolari, per computazione ed elettronica di nuova concezione. Si tratta di un’area emergente che coniuga le biomolecole, quali DNA e proteine, ai nanocircuiti, nel tentativo di sfruttare le capacità di auto-organizzazione, riconoscimento, apprendimento e auto-riparazione delle molecole biologiche nell’ambito di circuiti e dispositivi elettronici e sensoristici. Alternativamente, si sfruttano metodologie del tutto biologiche, quali codici e sequenze di peptidi per forzare l’aggregazione di cristalli inorganici (silicio, oro ecc.) in maniera analoga al processo di formazione e diversificazione delle ossa degli esseri viventi. Tale approccio potrebbe rivoluzionare nel lungo termine i metodi di fabbricazione dei materiali impiegati in elettronica, e aprire le porte a una elettronica completamente biocompatibile.

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etica, questa metodologia naturale è quella che ha portato alla creazione di sistemi complessi molto sofisticati (alberi, piante...) e a creature che camminano, si muovono, pensano e sognano. Nulla di artificiale riesce a raggiungere livelli di funzionalità così elevati. La chiave di volta di questo processo culturale, sta nel controllo dei metodi di sintesi, assemblaggio e misura di atomi e molecole su scala atomica. La nanotecnologia è infatti un insieme di metodologie mirate al controllo della materia sulla scala del nanometro (miliardesimo di metro). Tutto questo sta facendo cadere le barriere culturali fra le diverse discipline, e richiede un enorme sforzo culturale agli scienziati che, uscendo dalle rispettive aree di azione, cominciano a unire i propri sforzi verso ricerche di tipo fortemente interdisciplinare. Ma vediamo nel dettaglio alcuni esempi rappresentativi di nanotecnologie.


La rilevanza di questo settore è molto grande, sia in termini di nuovi materiali che di miglioramento delle caratteristiche dei mezzi aerospaziali. Si cerca di fabbricare materiali ad altissima durezza e bassissimo peso specifico mediante inclusione di nanoparticelle in sistemi a fibre (nanocementazione) per ottenere mezzi a basso consumo e ad alta resistenza meccanica. È inoltre possibile fabbricare coatings ad altissima resistenza termica per esplorazioni stellari e piattaforme spaziali. L’obiettivo primario di queste tecnologie è quello di costruire nuovi materiali ultraleggeri, ad alta resistenza, ad alto grado termico che consentano bassi consumi, alte prestazioni e miglior sicurezza nel volo e nel trasporto. Nel futuro sarà possibile rendere alcune delle fibre conduttive (al pari dei nervi di un corpo umano) per rendere la stessa struttura portante del mezzo in grado di colloquiare con i sistemi di guida, integrando una sorta di sistema nervoso autonomo nel materiale composito.

Applicazioni medico-sanitarie Questo settore si propone di investigare e comprendere su scala molecolare i processi di aggregazione, organizzazione e operazione dei “building blocks” della vita (proteine, acidi nucleici ecc.) e di identificare le loro controparti inorganiche allo scopo di sfruttare i meccanismi naturali per riprodurre in maniera controllata le caratteristiche uniche di forma, dimensione, auto-organizzazione e funzionalità dei sistemi biologici. Si tratta di una sfida di portata unica, che in futuro rappresenterà la vera forza trainante per lo sviluppo delle nanotecnologie. Tra le possibili ricadute di queste ricerche menzioniamo: - miglioramento delle capacità diagnostiche e investigative grazie a strumentazione avanzata per lo studio cellulare e molecolare con risoluzione nanometrica - miglioramento terapeutico mediante nanoparticelle che trasportano medicinali in situ, e in maniera selettiva - introduzione di nanoparticelle cromogene o magnetiche in strutture cellulari per diagnostica in situ - sequenziazione del genoma più rapida grazie a metodi di calcolo e modelli più avanzati - diagnosi e cura remota in vivo - fabbricazione di tessuti, membrane e materiali artificiali biocompatibili - interconnesione nervo-cellula con sistemi elettronici artificiali - visione artificiale.

Questo è un altro settore di alta strategicità in cui le nanotecnologie possono giocare un ruolo fondamentale. L’idea principale consiste nel creare processi di catalisi, purificazione e trattamento dei materiali basate su nanosistemi. Fra queste includiamo: - uso di materiali cristallini con porosità sulla scala dei nanometri per catalisi ad alta efficienza, con numerose applicazioni (dai catalizzatori delle auto all’industria chimica) - nuovi materiali porosi e membrane selettive sulla scala dei 10-100 nm per applicazioni farmaceutiche, biologiche e alimentari - materiali polimerici rinforzati da nanoparticelle per sostituire i metalli nelle auto. Il risparmio di peso permetterebbe enormi vantaggi dal punto di vista del consumo di carburante e quindi dell’inquinamento - nuovi materiali “environment-friendly”, fra cui gomme per pneumatici, filtri, liquidi di raffreddamento e lubrificanti, polveri decontaminanti. È importante sottolineare che per la sua natura intrinsecamente esplorativa, per gli alti contenuti innovativi, e per la forte interdisciplinarità, la nanotecnologia è considerata una delle aree di ricerca e sviluppo di più alta priorità dai paesi più industrializzati della Terra. Su questo fronte si giocherà il futuro tecnologico dei paesi avanzati e l’abilitazione di gran parte delle future tecnologie del pianeta. La partita che si giocherà su questi nuovi concetti nei prossimi anni avrà una portata storica, e potrà determinare una rivoluzione culturale e tecnologica di gran lunga superiore a quella operata dalla meccanica quantistica all’inizio del Novecento o dalla scoperta del transistor e dell’elettronica dello stato solido negli anni Cinquanta.

L’altra faccia della medaglia Da quanto discusso risulta evidente che “solo le menti preparate potranno cogliere le occasioni” che in futuro si prospetteranno nei vari settori. Ed è proprio in tale ambito che emergono i rischi sociali ed etici delle nanotecnologie, e le debolezze infrastrutturali dell’Italia nella competizione globale. Dal punto di vista dell’etica è importante sottolineare che il potenziale delle nanotecnologie è realmente devastante. Il controllo della manipolazione su scala atomica di qualsiasi elemento significa di fatto che si potrà “costruire” qualsiasi cosa progettandola sin dall’inizio. Questo vale per qualsiasi materiale, compreso quello biologico, con evidenti potenziali effetti sulla riproduzione di sistemi viventi, normali o alterati. Altresì, ciò che di buono verrà fatto per migliorare i trasporti, le telecomunicazioni, o la diagnostica medica, potrà facilmente essere trasformato in arma sofisticata, con evidenti conseguenze di tipo militare e bellico. Non esiste soluzione al problema etico del progresso. Qualsiasi strumento male utilizzato può diventare un’arma (si pensi a un cuscino usato per soffocare, o a un normalissimo aereo da trasporto impiegato come nel fatidico 11 settembre). Non credo si possa e si debba fermare la sperimentazione. Piuttosto è fondamentale analizzare con grande cura le ricadute e i rischi delle nuove tecnologie, poiché solo

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Applicazioni aerospaziali e automotive

Ambiente ed energia

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nalare correnti, accumulare (memorizzare) carica per compiere operazioni complesse come dei nanorobot programmabili. Le integrazioni di tante funzioni complesse in un singolo chip sono attualmente il trend principale in biologia, con l’intento di compattare interi laboratori di analisi genomica o cellulare su singoli dispositivi usa e getta a basso costo. Le applicazioni di questi sistemi sono numerosissime, e vanno dalla sicurezza alimentare alla diagnostica genetica istantanea.


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colo vizioso di riduzione della domanda tecnologica, cui si è dovuto adeguare tutto il sistema sia della formazione che della ricerca pubblica (basti pensare che nei licei scientifici si fanno ancora più ore di latino che di discipline tecniche). Infine, abbiamo una burocrazia troppo pesante. Ormai il sistema burocratico vive per tenersi in piedi e non per risolvere proceduralmente le necessità del ricercatore. Le gare per acquisti superiori a 5.000 euro (un buon PC), o l’invenzione della consip, o il tempo medio di sei mesi per assumere un borsista con un bando pubblico sono tutte cose che rallentano il processo di sviluppo della tecnologia. Per esempio, dato che la durata media di un progetto di ricerca pubblico è fra i 24 e i 36 mesi, come si può pensare di espletare la procedura di assunzione di un giovane ricercatore in sei mesi? Vuol dire che un quarto del progetto rimane scoperto! Per quanto questa analisi sia un po’ “approssimativa”, credo si possa affermare che il Modello culturale italiano in materia di Ricerca e Tecnologia sia profondamente sbagliato. Per raccogliere la sfida delle nanotecnologie ed esserne protagonisti internazionali serve una visione globale, culturale, sociale e politica, che a oggi non sembra avere attecchito in nessuna delle nostre classi dirigenti. Esistono alcuni punti fermi che sono universalmente accettati in tutti i paesi ad alto sviluppo che ancora stentano a essere accettati in Italia: - Un ricercatore si comincia a formare a 6 anni. L’allenamento mentale al perché delle cose e alla curiosità deve essere stimolato nei bambini e non può essere improvvisato negli adulti. Non si diventa campioni del mondo iniziando uno sport a 18 anni, e questo vale anche per la ricerca. - Non è accettato il principio che la ricerca è uno sport. Il concetto di competizione, classifica di merito, premiazione, e necessità di infrastrutture (dove allenarsi o dove fare ricerca) è comune ai due mondi. Così come è necessario scegliere quale sport fare in funzione delle caratteristiche dell’atleta ma anche delle caratteristiche del territorio (ovvio che non si fa dello sci alpino in Olanda…) è altrettanto ovvio che si dovrebbero fare delle scelte chiare anche per i settori della ricerca da sviluppare in determinate aree e situazioni. Il nostro sistema educativo appiattisce le differenze fra i giovani, spesso misconoscendo il talento. Il nostro sistema infrastrutturale impedisce all’eventuale talento di trovare laboratori (tranne rare eccezioni). La valutazione (e quindi la classifica) non è mai l’elemento che determina le scelte e gli investimenti. - Manca una alfabetizzazione tecnologica. Una divulgazione televisiva e giornalistica che crei curiosità e rispetto per la scienza. - Il contenuto scientifico delle scuole è troppo basso. Se si vuole preparare le nuove generazioni alla ricerca tecnico-scientifica bisogna avere scuole dedicate. - L’università mette barriere disciplinari, in larga misura atte a proteggere gruppi tematici, contro ogni logica interdisciplinare. Questo è ormai contro tutti i trend internazionali. - Manca il riconoscimento della responsabilità del risultato. In tutto il mondo le università e i centri di ricerca arruolano i migliori professori/ricercatori come se fossero i giocatori di una squadra di calcio. Questo significa che queste istituzioni hanno un programma di sviluppo che implica scelte tecnico-scientifiche chiare e precise, e conseguentemente una politica di investimento su laboratori e personale scientifico mirata a ottenere il massimo nei settori prescelti, compatibilmente coi

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la conoscenza e la consapevolezza possono limitare gli effetti negativi della crescita tecnologica. Per il resto è il buon senso dell’uomo e della società civile che si spera possa dirigere le scelte nelle direzioni più costruttive. Il secondo problema, quello della debolezza infrastrutturale dell’Italia, sarebbe invece di più semplice soluzione se finalmente il nostro paese decidesse di emulare altre società più serie e lungimiranti della nostra. Per essere competitivi nel futuro, bisognerà avere oltre a una eccellente cultura interdisciplinare, anche una eccellente organizzazione della ricerca e della formazione. L’Italia ha avuto per molti anni un primato educativo e formativo nelle materie scientifiche, derivante dall’ottima qualità delle sue lauree. L’avviamento giovanile alla ricerca è invece sempre stato carente, principalmente perché il nostro paese è stato uno degli ultimi ad adeguarsi al sistema del PhD (dottorato di ricerca) intorno al 1985, e ha sempre avuto scarse infrastrutture di ricerca. Negli ultimi anni la qualità delle nostre lauree tecnico-scientifiche è peggiorata, anche in seguito a processi di riforma dell’università (di ispirazione anglosassone) che ne hanno ridotto la capacità formativa pre-laurea, senza però potenziarne la capacità di avviamento alla ricerca post laurea. Il risultato è stato un peggioramento netto della qualità delle lauree (che si sono abbassate al livello di quelle inglesi e americane) senza un simultaneo potenziamento del percorso formativo di ricerca del PhD, che è rimasto quello di standard italiano (lontano dallo standard anglosassone). Le ragioni di questo regresso sono culturali, sociali e politiche, e indicano la scarsa propensione tecnologica del nostro paese, che nel lungo termine rischia di perdere la sfida delle nanotecnologie, così come ha già perso quella della chimica e dei computer negli ultimi decenni. In particolare: - In primo luogo la carriera del ricercatore (e dell’insegnante) è poco attrattiva. È frustrante il lunghissimo precariato, la remunerazione molto bassa, la scarsa sensibilità del sistema alla mobilità, la scarsa meritocrazia, la troppa burocrazia ecc. Come figura di merito basta considerare che, per esempio rispetto alla Francia, abbiamo un terzo dei ricercatori e dieci volte il numero degli avvocati (…e la Francia non è decisamente un grande esempio di nazione high-tech!!). - Culturalmente la nostra educazione non è quantitativa. Basti pensare che non adottiamo la pubblicità comparativa sui prodotti, quindi non inculchiamo il concetto di confronto quantitativo fra le cose a livello di vita quotidiana. O peggio, abbiamo il più alto numero di cellulari pro-capite, ma anche il più basso numero di byte scambiati per telefonia cellulare nel G7 (vale a dire che telefoniamo a mamme e fidanzate ma non usiamo il cellulare come un terminale intelligente). - La scarsa dotazione dei laboratori didattici e di ricerca pubblici ha fatto sì che si verificasse uno “shift-delle-conoscenze”, vale a dire: gli ingegneri hanno cominciato a fare simulazioni e teoria, diventando praticamente dei fisici, i fisici hanno cominciato a fare teorie sempre più spinte avvicinandosi alla matematica, i matematici hanno mirato a modelli sempre più lontani dal reale. In sostanza è diminuita la capacità di produrre hardware, oggetti e sistemi funzionanti a fronte di tanta simulazione (che non porta a prodotti vendibili). Questo ha avuto una conseguenza forte sulla realtà industriale italiana, fatta di manifattura ma non di innovazione e prodotto. Ormai le tecnologie hardware vengono da fuori. In Italia, tranne casi rari ed eccellenti, si assembla, si disegna, si produce moda ecc. ma si produce poca tecnologia hardware. A sua volta questa carenza ha generato il cir-


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mezzi disponibili. Gli scienziati che vengono arruolati diventano i motori di sviluppo dell’università e/o dell’ente di ricerca. Se funzionano portano risorse (progetti, soldi, studenti) e vengono premiati. Se non funzionano vengono allontanati. La valutazione è fatta da organi scientifici indipendenti. I rettori non sono eletti, e quindi non cercando il consenso (e la riconferma) possono premiare e licenziare, scegliere e prendersi responsabilità. In Italia invece funziona tutto al contrario. I rettori sono eletti e per mantenere il consenso dell’elettorato devono distribuire le risorse senza poter realmente incidere sulle direzioni da seguire. Sempre per rimanere in tema di sport, nessuno accetterebbe l’idea di un allenatore eletto dai giocatori, che non può escluderli quando giocano male! Inoltre, il ricercatore/professore viene assunto sulla base di un concorso (blindato verso il ricorso invece che verso la qualità) che di fatto deresponsabilizza la struttura che assume. Non essendoci strategia dell’ente di ricerca che assume, viene meno la strategicità della scelta del ricercatore che si assume. Analoghe considerazioni valgono persino per il dottorato di ricerca, che rappresenta il motore della ricerca di tutti i laboratori del mondo. I dottorandi di ricerca italiani non sono assunti da un responsabile di progetto che deve rendicontare i risultati e che quindi ha interesse a prendere i migliori giovani con specifici profili. Essi vengono assunti con un concorso generale, che non può verificare le competenze nel settore in cui il dottorando dovrà lavorare. Tutto al fine di garantire la solita procedura tecnocraticamente perfetta ma tecnicamente sbagliata. Inoltre, fatta la dura valutazione di ingresso non esiste più una vera valutazione dei risultati durante e dopo il corso di dottorato. Esattamente il contrario di quello che succede all’estero. - Non viene riconosciuta dignità alle ricerche applicate rispetto a quelle fondamentali (si provi a fare carriera con i brevetti piuttosto che con le pubblicazioni…). - I giovani ricercatori nella stragrande maggioranza dei casi non hanno contributi pensionistici, sanitari, e hanno stipendi comunque inferiori alla media europea (netto mensile per un ricercatore con PhD e Post Doc nei primi tre anni di carriera 1.000 euro, per una co.co.co. circa 1.400 euro senza contributi). Se questi giovani vanno in banca per chiedere un prestito per comprarsi la macchina o la moto non gli viene concesso. Ancor peggio se chiedono un prestito per trasferirsi in altra sede. Su questo punto devono essere chiare anche le responsabilità del sistema bancario, che fa finta di ignorare le disposizioni della funzione pubblica in materia di assunzioni. - Non si danno contributi pubblici alle aziende per fare ricerca. Quello che sembra essere un incentivo nel breve termine è in realtà un’atrofizzatore della capacità di investire, rischiare e scegliere da parte delle aziende. È ovvio che esiste una manifesta incompatibilità fra il sistema-ricerca del nostro paese e la ricerca nel resto del mondo. Il futuro è culturalmente esaltante, e ci sono decine di paesi emergenti che stanno facendo sforzi enormi per essere pronti alla sfida, sia nelle nanotecnologie che in molti altri settori dello scibile. La ricerca cambia a ritmi non nostri, bisogna adeguarsi o retrocedere. Abbiamo saputo fare queste cose nel calcio, perché non ci riusciamo nella cultura?

Sergio Duma Lynch e i suoi incantesimi

L’uomo spesso sogna un futuro e una vita migliori. A volte si rifugia nella fantasticheria e nell’incanto di una esistenza piacevole per fuggire dallo sconforto di una realtà insoddisfacente. Tale atteggiamento non è nuovo. È anzi insito nella nostra sensibilità e filosofi, artisti, intellettuali hanno ragionato sul sogno. Nel panorama artistico anglosassone, c’è un regista, in particolare, che a tale tematica ha dedicato gran parte della sua produzione, concentrandosi sull’incanto che il sogno comporta e sul disincanto che la realtà implica. Mi riferisco all’americano David Lynch, uno dei più grandi registi viventi. Considerare Lynch, comunque, un cineasta significherebbe sminuirlo. È senz’altro vero che è al cinema che il regista originario del Montana deve la fama; ma Lynch, come buona parte degli artisti multimediali contemporanei, è anche coinvolto nella pittura, nella grafica, nella fotografia, nella musica. In altre parole, Lynch è ciò che gli americani, in particolare, definiscono “artista rinascimentale”, impegnato, cioè, in innumerevoli e diversificate esperienze creative. Di tale versatilità ci si può rendere conto assistendo alla sua straordinaria mostra fotografica, “Fetish”, esposta a Londra, a Parigi e a Milano, in occasione della Triennale, ricca di dipinti, fotografie, creazioni sonore. Con la collaborazione del designer francese Christian Louboutin, Lynch ha per esempio fotografato le ballerine del Crazy Horse con ai piedi scarpe dalle forme bizzarre, di chiara matrice feticista. Un’altra sezione della mostra, “The Air is on Fire”, è dedicata alle memorie d’infanzia e alle visioni ricorrenti di Lynch, come i quadri dedicati alla figura tenebrosa di Bob, simbolo del Male, una delle sue più celebri creazioni sin dai tempi, come vedremo, del suo Twin Peaks; oppure potremmo citare la serie dei cosiddetti distorted nudes, “nudi distorti”: fotomontaggi digitali creati da immagini erotiche dei primi del Novecento. Ma parlavo del sogno. Lynch non ha mai nascosto la sua attrazione nei confronti del sogno e la stragrande maggioranza delle sue opere è ricca di suggestioni oniriche. E il sogno per eccellenza, Hollywood, è da sempre per Lynch un’ossessione. Il nome Hollywood, “bosco allegro o bosco felice”, è espressione che definisce un mondo luminoso la cui superficie è perfetta e attraente. Ma holly rimanda anche a holy, “sacro”, e a hell, “inferno”, il contrario del sacro, e perciò potremmo tradurre Hollywood come “bosco sacro o bosco infernale”; e sacro e profano a Hollywood dilagano. Lo aveva già intuito Francis Scott Fitzgerald negli anni Venti del secolo scorso, con i suoi produttori, i “tycoon”, belli e dannati; uomini perfetti


Primi incanti Gli esordi di Lynch avvengono nel campo della pittura e, più in generale, delle arti figurative. Fortemente influenzato dal surrealismo (che, lo ricordo, del sogno e dell’incanto ha fatto la sua bandiera), definisce le sue tele “sinfonie industriali”, “mondi carichi di colore oscuro che nascono dai miei sogni” (Rodley 1998). In seguito, dopo aver costruito strani congegni, come donne meccaniche che si trasformavano in macchine da scrivere o flipper a forma di bocca femminile che producevano svariati suoni, realizza i primi cortometraggi sperimentali. Il suo sconvolgente film d’esordio, Eraserhead, già rivelava l’interesse di Lynch nei confronti dell’universo onirico; tuttavia, qui non è ancora presente la dicotomia incanto/disincanto che diventerà evidente nelle opere successive, e lo stesso si può dire per Elephant Man e Dune che, comunque, alla suggestione del sogno, specie l’ultimo, devono molto.

Il sogno della provincia americana Il senso del disincanto incomincia a rivelarsi in Blue Velvet, per molto tempo il suo film più conosciuto e da parecchi considerato il suo capolavoro. Ambientato in una cittadina statunitense, Lumberton, che più che altro rappresenta lo stereotipo del paesino felice e tranquillo propagandato dalla cultura mediatica americana degli anni Cinquanta/Sessanta (genere Happy Days, tanto per capirci), l’opera

Incubo da schermo televisivo È con il serial televisivo Twin Peaks, però, che Lynch inizia ad approfondire il conflitto sogno/realtà o incanto/disincanto. Ancora oggi considerata rivoluzionaria, la serie TV sconvolse il pubblico americano e internazionale con il quesito “Chi ha ucciso Laura Palmer?”, pretesto utilizzato da Lynch per esplorare fino in fondo le sue ossessioni. Anche in questo caso, lo sfondo dell’azione è una piccola cittadina di provincia, simile alla Peyton Place immaginata da Grace Metalious. Nel romanzo Peyton Place, la scrittrice descrive una complessa e labirintica vicenda ambientata in una città del New England, popolata da gente perbene, da famiglie solide tutte religione e lavoro. Il volto pulito del sogno americano, insomma. Ma dietro la facciata si nascondono tradimenti, violenze in ambito familiare, disillusioni. In un certo senso, Grace Metalious anticipò la voga di certe saghe familiari (e lo stesso Peyton Place ebbe due versioni cinematografiche e una televisiva), svelando, non si sa quanto consapevolmente, la falsità delle apparenze. Lynch parte da questo modello e ambienta la vicenda in un paese immaginario del Nord-Ovest, Twin Peaks, appunto, una Peyton Place moderna. Qui la natura è idilliaca, con le splendide quanto inquietanti foreste e in particolare con gli abeti “Douglas Firs”, vera icona del serial; con un lago; con un paesaggio incantato (e i termini “sogno” e “incanto” sono sovente pronunciati dai personaggi della storia).

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esplora la realtà nascosta nel sogno. In questo paese è tutto perfetto. Le villette hanno giardini ben curati. I bambini vanno a scuola ordinatamente, sotto l’occhio attento di un vigile. Le persone sono gentili e sorridenti. Il bravo ragazzo della porta accanto, interpretato da un ottimo Kyle MacLachlan, è educato e tranquillo e la studentessa giudiziosa, una strepitosa Laura Dern, con i suoi abiti poco vistosi, il viso acqua e sapone, l’ostentata timidezza, è la figlia che tutti vorrebbero avere. Insomma, siamo nel sogno suburbano propriamente detto, quello vagheggiato da tanti americani. Ma i giardini ben curati pullulano di scarafaggi orribili (e Lynch, con sguardo impietoso da entomologo, ce li fa vedere in primo piano); le persone sorridenti spesso nascondono segreti inconfessabili; il ragazzo della porta accanto entra di nascosto nelle case delle donne sole per osservarle mentre si spogliano; e le ragazzine di buona famiglia non sono poi così tranquille. Insomma, nell’incanto provinciale di Lynch si nasconde il Male, simboleggiato dalle pulsioni perverse e incestuose di uomini insospettabili. Ed è lo stesso Lynch che definisce Blue Velvet un “film sogno”, “ricco di immagini che hanno ossessionato le notti degli adolescenti degli anni Cinquanta, un sogno che però si è trasformato in incubo” (Caccia 2004). Lynch dichiara che l’idea originaria di Blue Velvet (e del successivo Twin Peaks) nacque osservando le sue foto giovanili. In tutte le foto, dice il regista, sia lui sia gli altri membri della sua famiglia sfoggiavano un grande sorriso. Secondo Lynch, ciò era una metafora dell’America: una nazione che viveva in un sogno felice e si crogiolava in tale illusione, senza sapere che ben presto il sogno sarebbe finito e il disincanto, ciò che Lynch definisce “catastrofe imminente” (Rodley 1998), avrebbe preso il sopravvento. E nella fattispecie, per Lynch, la catastrofe si sarebbe realizzata con la guerra del Vietnam, i conflitti generazionali, il terrore atomico, i problemi razziali e sessuali.

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esteriormente ma condannati alla morte dell’anima con la loro corruzione: proiezione e rappresentazione del marciume del sistema degli Studios. O anche Nathaniel West che nel suo The Day of the Locust aveva già percepito la contraddizione di un mondo tutto lustrini e luccichii ma contaminato da una segreta, nascosta abiezione. In tempi più recenti, il giovanissimo Joshua Miller ha sconvolto il panorama letterario statunitense con il suo The Mao Game, imperniato sul personaggio di una anziana fotografa di Hollywood che sta per morire di cancro, sullo sfondo delle palme lambite dal vento, del Sunset Boulevard, delle ville con piscina dei divi, autentica rappresentante di un mondo di sogno corrotto dalla malattia (e il fatto che l’autore sia nipote di un celebre fotografo specializzato in ritratti di attrici della golden age hollywoodiana è significativo). Anche nell’ambito del noir uno scrittore come James Ellroy si è spesso concentrato sui vizi di Hollywood, ambiente da lui definito “notturno”, simile a un sogno trasformato in incubo, un incanto che lascia spazio a un doloroso disincanto di fronte alla realtà delle cose. E in questo senso è significativo il suo Black Dalhia. Ellroy, d’altronde, non ha mai nascosto il suo debito di ispirazione nei confronti di Kenneth Anger, regista controverso, occultista e soprattutto autore di Hollywood Babylon, libro che rivelava, con spietata sincerità, la realtà squallida ben celata dai sorrisi perfetti delle star. Potrei citare molti altri esempi di tale tendenza ma non è lo scopo di questo contributo e intendo concentrarmi prevalentemente sull’attività di David Lynch, che ha scelto di utilizzare tematiche già ampiamente affrontate e anticipate, come ho scritto, da altri artisti.


Incanti fiabeschi Anche in Wild at Heart, che fa vincere a Lynch la Palma d’Oro al Festival di Cannes, ci sono riferimenti alla dicotomia incanto/disincanto, benché il film risenta comunque di altre ispirazioni, in particolare dell’immaginario filmico e musicale degli anni Cinquanta e della narrativa pulp. Tuttavia, la vicenda di due amanti in fuga, ostacolati dalla madre della ragazza, si presta ad alcune riflessioni. Se in Twin Peaks il padre perfetto è uno psicopatico omicida, in Wild at Heart, la madre esemplare è una pazza pronta ad assoldare un killer allo scopo di eliminare il ragazzo della figlia, colpevole di essere a conoscenza dei segreti scottanti della donna. C’è inoltre, in tutta la vicenda, un interessante sottotesto, collegato alla favola del Mago di Oz. Lula, la protagonista della pellicola, immagina di vivere all’interno della fiaba, identificandosi nel personaggio della strega buona dell’Ovest (e va da sé che la madre è la strega cattiva). Il romanzo di Frank L. Baum, The Wizard of Oz, è molto importante per la cultura statunitense e Lynch lo utilizza di proposito, come archetipo narrativo, per fare l’ennesima analisi sul conflitto tra realtà e apparenza. In verità, tale conflitto non viene risolto e in diversi momenti lo spetta-

Il sogno di Hollywood Lost Highway, opera complessa e inclassificabile, gioca sui concetti di “realtà” e “apparenza”; tuttavia qui non c’è disincanto, dal momento che la vicenda, imperniata su un caso di uxoricidio e di sdoppiamento della personalità, malgrado l’impervia struttura narrativa, è chiara. Si intuisce da subito che il protagonista ha ucciso la moglie e che il suo matrimonio non funzionava. In questo caso non essendoci disincanto, non può esistere nemmeno l’incanto. In The Straight Story, Lynch ci racconta la toccante vicenda di un vecchietto che, con il suo tosaerba, va a trovare il fratello ammalato; e anche in questo caso non esiste la dicotomia incanto/disincanto, dal momento che l’entroterra americano viene presentato in una luce sempre positiva. È invece con Mulholland Drive che Lynch realizza finalmente ciò che da sempre lo attraeva: una riflessione sul sogno e sulla sua falsità, concentrandosi sulla terra dei sogni per eccellenza, Hollywood. Che Lynch si sentisse coinvolto da Hollywood era già evidente nelle opere precedenti e, tra i progetti del regista fortemente voluti e mai realizzati, c’era anche un film sulla vita di Marilyn Monroe. Forse nessuno più della Monroe potrebbe in effetti rappresentare il conflitto incanto/disincanto: l’attrice bellissima e desiderata, la dea del sesso, sorridente e appagata, era di fatto una ragazza fragile e sfortunata, tormentata dalla depressione, schiava della droga, con un torbido passato di adozioni infelici, prostituzione e pornografia (e una delle frasi più spiazzanti del Twin Peaks lynchiano è: “Che rapporti c’erano tra Marilyn Monroe e i Kennedy? Chi ha ucciso il presidente?”; e qui preferisco non occuparmi di Kennedy e, quindi, di un altro conflitto: l’affascinante rampollo di una dinastia, protagonista di un sogno politico e mediatico, ucciso a causa di colpe e segreti che coinvolgono la corruzione della sua famiglia e la mafia). Di tale contraddizione è stata consapevole una scrittrice come Joyce Carol Oates che nel suo romanzo Blonde ha appunto analizzato, in chiave postmoderna, il rapporto incanto/disincanto simboleggiato dalla celebre diva. Mulholland Drive, come si intuisce dal titolo, si svolge a Hollywood e nei luoghi a esso collegati nell’immaginario filmico di un’intera epoca: l’autostrada, la Mulholland Drive del titolo, appunto, ma anche nome di un quartiere; il Sunset Boulevard e così via. Alcuni hanno definito il film una specie di Viale del Tramonto in stile lynchiano. È vero che Lynch non ha mai negato la sua profonda ammirazione nei confronti del grande Billy Wilder, uno dei nomi storici dell’epoca d’oro di Hollywood, che aveva già, effettivamente, intuito come la Mecca incantata del cinema fosse in realtà una menzogna. Tuttavia, il film di Lynch presenta anche altre ispirazioni. La storia di una ragazza bionda e sensibile che arriva a Hollywood per fare un provino, sperando di diventare una stella del cinema, è il pretesto per un viaggio nell’inconscio del regista ma anche nell’universo da sogno che è Hollywood stessa. La prima parte del film, che appunto narra le vicende della ragazza, coinvolta suo malgrado nei problemi di una smemorata donna bruna, braccata da qualcuno e bisognosa di protezione, rappresenta la superficie di

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tore si chiede cosa sia vero e cosa non lo sia e l’ambiguo, spiazzante lieto fine del film non ci fornisce (volutamente) una risposta precisa.

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Ma in questo mondo pacifico avviene la tragedia: il corpo nudo e senza vita di Laura Palmer, reginetta del liceo di Twin Peaks, viene trovato in riva al fiume, avvolto in un sacco di plastica. L’assassinio della ragazza, studentessa modello da tutti ammirata, sconvolge la piccola comunità e nello stesso tempo distrugge il sogno della vita serena degli abitanti di Twin Peaks. L’arrivo dell’agente dell’FBI Dale Cooper dà inizio al disincanto: sarà Cooper, infatti, puntata dopo puntata, a togliere il velo dell’ipocrisia e a scoprire la realtà autentica delle cose. A Twin Peaks tutti hanno perlomeno un amante. Le famiglie rispettabili celano segreti imbarazzanti. La ragazzina modello di giorno era di notte una prostituta tossicomane. Aggiornando il modello Peyton Place all’era Bush, Lynch inserisce nella vicenda torbide storie di droga, di liceali scapestrati e assassini, con un forte senso di disincanto che si accentuerà man mano che la complessa storia si dipana. La scoperta del colpevole dell’omicidio di Laura, e cioè suo padre, rappresenta il punto culminante della trama: l’avvocato rispettabile e stimato è in realtà un maniaco che ogni notte abusa della figlia. Questa è la realtà nascosta nel sogno, sembra volerci dire Lynch. E la suggestione onirica è fortemente presente nel serial e tale particolare ha spinto alcuni critici (Grasso 2007) a considerare Twin Peaks, almeno per gli standard televisivi dei primi anni Novanta, un prodotto innovativo: esiste infatti una dimensione parallela, popolata da enigmatiche creature da incubo che giocano con gli abitanti della cittadina, manipolandoli. Tra essi, l’inquietante Bob, un uomo dai capelli lunghi e spettinati e il ghigno satanico, la rappresentazione del Male, colui che controlla dietro le quinte il mondo celato nella maschera dell’incanto. È lui a spingere il padre di Laura a uccidere la figlia. E sarà sempre lui, alla fine della serie, ad avere l’ultima parola. Secondo Lynch, quindi, una volta che il disincanto è arrivato, non ci potrà essere salvezza e l’incanto inevitabilmente non potrà tornare. Le riflessioni sul mondo reale/irreale di Twin Peaks sono poi proseguite nel lungometraggio Twin Peaks – Fire Walk With Me, senza però che si sia aggiunto molto a ciò che già si comprendeva.


I meandri incantati dell’inconscio E dopo Mulholland Drive i critici si sono chiesti a quale grado di complessità sarebbe potuto arrivare Lynch. E INLAND EMPIRE (il titolo deve essere scritto in maiuscolo per volere del regista) ha dato la risposta. Una risposta scioccante. Una risposta che ha spiazzato tutti. Con la sua ultima fatica, in effetti, Lynch ha realizzato il suo film oggettivamente più difficile e Gianni Canova, negli extra della versione in DVD, ha esplicitamente definito INLAND EMPIRE “epocale… un film avanti di vent’anni rispetto alla cinematografia contemporanea”. Va detto che INLAND EMPIRE ha suscitato una serie interminabile di discussioni e attualmente critici e sociologi stanno scrivendo saggi monumentali al riguardo. E certamente, come previsto da molti, nei prossimi anni le tesi di laurea su INLAND EMPIRE si sprecheranno. Il film, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia di un anno fa (e Lynch, in quell’occasione, è stato premiato con il Leone d’Oro alla carriera), ha ricevuto accoglienze contrastanti, anche se tutti hanno riconosciuto all’ultima fatica lynchiana una forza espressiva notevole. Se riassumere opere come Lost Highway e Mulholland Drive è difficile, fare un riassunto di INLAND EMPIRE e cercare di trovare uno schema logico è forse impossibile, come nel caso dei romanzi postmoderni di Thomas Pynchon, William Gaddis o William Gass. Tuttavia, mi cimenterò nel non facile compito, avvisando che molte delle cose che scriverò saranno frutto di personali e soggettive percezioni e che in rete circolano centinaia di interpretazioni di INLAND EMPIRE, tutte differenti. Ciò che però si può dire con certezza è che, anche in questo caso, la struttura onirica è rilevante e la dicotomia incanto/disincanto è fortemente radicata nella trama (o nelle trame, per essere più precisi).

Innanzitutto, INLAND EMPIRE è composto da diverse “sezioni” o “frammenti narrativi” o “trame parallele”, tra loro intersecate, senza rispettare una sequenza cronologica precisa. Il concetto della fluttuazione temporale, e della memoria, e delle sue differenti percezioni, è espresso con l’immagine ricorrente di una puntina che scorre sui solchi di un disco, ripresa però da una prospettiva particolare che la rende simile a una spirale che si avvolge su se stessa. La tematica della “visione” della protagonista (che osserva o ricorda i diversi stadi della sua vita) è invece simboleggiata dal raggio di luce di un proiettore (e che rimanda al cinema e ricordo che Inland Empire è il nome di un quartiere di Los Angeles, non molto lontano da Hollywood). Altre volte invece la stessa idea è esplicitata dal foro provocato da una sigaretta accesa su un pezzo di seta; foro che la protagonista usa per sbirciare nelle molteplici realtà. Le varie sezioni sono così sintetizzabili: 1) la storia di una prostituta polacca, imprigionata in una stanza, che segue in televisione le vicende di una donna bionda e una situation-comedy con protagonisti conigli antropomorfi; 2) la suddetta situation-comedy, con i conigli forse collegati alla donna e che parlano al contrario (tipica caratteristica del mondo onirico). Le frasi da loro pronunciate fanno comunque riferimento alla vita della bionda; 3) la storia di un’attrice di Hollywood in procinto di recitare in un film. Il rapporto con il marito è problematico e misterioso. Il film da interpretare è la cronaca di un amore extraconiugale. Man mano che la lavorazione procede, l’attrice inizia una relazione con il suo collega di lavoro. La pellicola è il remake di un film polacco, mai concluso per la morte violenta dei protagonisti; 4) la storia del film propriamente detto; 5) la storia di una donna che ha un rapporto difficile con il marito, ambientata nei paesi del Baltico e che Lynch presenta come se fosse un radiodramma a puntate; 6) la storia del rapporto difficile tra la prostituta e il marito, che è di fatto il film polacco incompiuto; 7) la storia di una tossica che si prostituisce nell’Inland Empire e che viene poi uccisa. Da considerare che, a parte le sezioni 1, 2, 6, protagonista di tutte le altre e quindi, di tutte le differenti versioni di donna, è sempre Laura Dern, vera e propria attrice icona di Lynch. Sorgono quindi spontanee le domande: tali versioni sono la stessa donna? Sono possibili ruoli che potrebbe interpretare? Sono parti della sua personalità, aree del suo inconscio (ricordiamoci che INLAND EMPIRE potrebbe essere tradotto con “impero dell’interiorità o impero interiore”)? Sono sogni? Oppure diversi momenti della sua vita? Considerando che il film comunque gioca, specie nella prima parte, sulla consueta contraddizione incanto/disincanto del cinema hollywoodiano, possiamo propendere per l’ultima ipotesi e di conseguenza orientarci in questo autentico labirinto narrativo.

Un’ipotesi di lettura C’è una donna, quindi, che a volte Lynch ci presenta con le sembianze di Laura Dern, altre volte con le fattezze di una donna polacca. È sposata con un uomo che

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Fili per il labirinto narrativo

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Hollywood, la falsità, l’incanto che nasconde l’orrore. In questo sogno, la protagonista ha grande talento, ottiene tutto facilmente e soprattutto trova l’amore della bellissima donna bruna. La seconda parte di Mulholland Drive, invece, ribalta la prospettiva, facendoci vedere (forse) la cruda realtà: la protagonista è solo una comparsa dalle scarse capacità recitative; la donna bruna non è bisognosa di protezione, è anzi una cinica e fredda arrivista pronta a schiacciare chiunque pur di raggiungere i suoi scopi; la stessa Hollywood non è più il sogno abbagliante dove tutti sorridono: i registi di talento sono egocentrici e insopportabili; i produttori sono al soldo dei mafiosi; amore e amicizia sono solo vuote parole. Hollywood è il regno del Male. E il Male è incarnato in un essere mostruoso, un barbone nascosto nei vicoli di Los Angeles, che gioca crudelmente con l’inconscio delle ragazze desiderose di diventare stelle immortali, raffigurato da una scatola azzurra. E il Male si nasconde ovunque, persino nel sorriso apparentemente innocuo di due vecchietti che, alla fine del film, sveleranno la loro natura diabolica. Tuttavia, l’amore che Lynch prova nei confronti di Hollywood emerge comunque ed è evidente soprattutto nella sequenza ambientata nel Club Silenzio. In questo teatro, attori fingono di recitare (il testo è registrato) e le cantanti fingono di cantare (anche le canzoni sono registrate), come se Lynch volesse dirci che a Hollywood tutto è finzione; ma tale finzione, per quanto dolorosa, ci incanta e la sequenza ha, in effetti, un livello di suggestione visiva ed estetica eccezionale, al punto che molti l’hanno considerata il momento artisticamente più alto di Mulholland Drive.


Basso Fossali, P., 2006, Interpretazione tra Mondi. Il Pensiero Figurale di David Lynch, Pisa, Edizioni ETS. Caccia, R., 2004, David Lynch, Milano, Il Castoro. Grasso, A., 2007, Cattiva Maestra, Milano, Mondadori. Rodley, C., 1997, Lynch on Lynch, New York, Paperbacks; trad. it. 1998, Lynch secondo Lynch, Milano, Baldini e Castoldi.

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Bibliografia

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in realtà non ama e, a un certo punto, inizia una relazione con un altro, suscitando le ire della moglie di quest’ultimo (e peraltro, l’amante sarà ucciso dalla consorte). Questo momento della sua vita è in parte presentato da Lynch come un radiodramma e in parte come il film polacco incompiuto. In seguito, il marito trova lavoro presso un circo, dominato da una sinistra, tipica figura lynchiana, un uomo chiamato “Fantasma” e che deciderà di controllare la donna con l’ipnosi. Lei rimarrà incinta e il Fantasma spingerà il marito a picchiarla e a farle perdere il bambino (e anche questa parte è a volte presentata come se si trattasse del radiodramma e altre volte come se fosse il film polacco). Dopo la perdita del bambino, la donna, prigioniera del Fantasma, viene portata a Los Angeles e qui costretta a prostituirsi (è la sezione ambientata nell’Inland Empire). In questa situazione, la prostituta, di tanto in tanto, sogna l’incanto di una vita migliore, immaginando di essere un’attrice di Hollywood, impegnata nelle riprese di un film basato sulla sua esistenza passata (e ciò ci riconduce alla sezione iniziale di INLAND EMPIRE). Solo una parte di sé è consapevole dell’illusione e Lynch ce la presenta in due versioni: la prostituta polacca, prigioniera in una dimensione onirica, che assiste in continuazione al film della sua vita; e una Laura Dern più vissuta che, in una squallida stanzetta, racconta a una enigmatica figura maschile inconscia tutto ciò che le è accaduto e che vede la sua vita “come se fosse un film proiettato in un teatro”. E sarà solo quest’ultima Laura Dern, in una dimensione sognante (probabilmente dopo la morte, assassinata dalla moglie del suo amante, anch’essa ipnotizzata) a uccidere i demoni interiori, rappresentati dal Fantasma, appunto, e a raggiungere l’equilibrio, accettando ogni lato della personalità. Tale accettazione, però, avverrà non nella realtà, ma in un mondo di sogno. In questo caso, il disincanto non prevale; pur essendo cosciente di non essere un’attrice ma una prostituta; pur consapevole di non avere una vita perfetta, alla fine del film, la protagonista avrà un marito, un figlio, forse la carriera di attrice vagheggiata. E pazienza se nei marciapiedi di Los Angeles lei sarà solo un relitto umano che muore mentre alcuni barboni la osservano impassibili. La trama di INLAND EMPIRE parte dall’incanto (l’irreale vita hollywoodiana), raggiunge il disincanto (la brutale realtà di tradimento, droga e prostituzione); ma, a differenza delle altre opere lynchiane, si conclude con il ritorno all’incanto (il mondo del sogno che è sempre migliore della realtà). Come mai Lynch ha optato per questa soluzione? Forse perché ha deciso di non abbandonarsi alla disillusione? Non ci è dato saperlo e non è nemmeno importante. Si può sicuramente dire che con INLAND EMPIRE Lynch ha toccato i vertici del suo cinema. Dal punto di vista tecnico e visivo, con i lenti movimenti della macchina da presa, con le immagini di corridoi oscuri, di labirinti alla Piranesi, forse rappresentazioni inconsapevoli dell’inconscio di Freud, di alberghi a ore occupati da prostitute simili ai set utilizzati dalle attrici (e prostitute e attrici, in fondo, in INLAND EMPIRE sono la stessa cosa e ogni personaggio femminile è manipolato da qualcuno: l’attrice dal regista; la prostituta dal cliente; la moglie dal marito prima e dall’ipnosi del Fantasma poi). Dal punto di vista narrativo, ovviamente. E anche, oserei dire, da quello concettuale, perché mai come in quest’opera Lynch è riuscito, a mio parere, a esprimere la magia del sogno e la terribile concretezza della disincantata realtà.


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Giorgio de Finis Rome to Roma_diario nomade *

Caro Sindaco... In seguito allo sgombero della comunità rom di Campo Boario nel 2004 il collettivo di artisti e architetti Stalker/Osservatorio Nomade scrive al sindaco di Roma Walter Veltroni: Caro Sindaco, Le scriviamo a proposito delle ultime vicende del Campo Boario di Testaccio, un luogo a cui teniamo molto e di cui nel tempo abbiamo seguito le trasformazioni... Eravamo presenti nel momento dello sgombero giovedì 2 dicembre, è stata una brutta esperienza... Vede Signor Sindaco, si può essere esemplari anche nel demolire le baracche... Ci sarebbe piaciuto sentirLe dire che per Lei il Campo Boario è una Città Laboratorio, il luogo simbolico dove affrontare quelle contraddizioni della società che di solito si nascondono tra le pieghe della periferia... una Città dell’Accoglienza, dell’Ospitalità e della Solidarietà... Lei forse non riesce a vedere come tutte queste città potrebbero convivere con la Città delle Arti, ed è per questo che ha fatto il primo passo falso. Già, ma le arti non dovrebbero essere proprio loro a tentare di comprendere la realtà, tradurla, rappresentarla, raccontarla e magari a trasformarne i problemi in risorse?

Il Laboratorio d’Arte Urbana Stalker nasce nel 1995. Quanti siano i membri di questo collettivo romano, nessuno lo sa con esattezza. Nemmeno loro, “da un minimo di 7 – si stima – a un massimo di 20”, a seconda del periodo. Il nome di questo gruppo dedito al camminare come pratica estetica, che vanta tra i propri precursori landartisti, lettristi, situazionisti, dada e surrealisti, è mutuato dal celebre film di Tarkovskij: scopo della loro pratica nomade è – infatti – “Violare la zona!”, esplorare le aree urbane interstiziali, “andare alla deriva” nel liquido amniotico della città non ancora consolidata. È frequentando gli arcipelaghi urbani, la “città dell’andare” piuttosto che quella dello “stare”, che gli Stalker hanno incontrato curdi, albanesi, moldavi, polacchi, rumeni, ucraini, serbi, bosniaci. E il popolo rom.

* Rome to Roma_diario nomade è anche il titolo del film-documentario realizzato dall’autore in collaborazione con Stalker/Osservatorio Nomade, l’Università di Roma Tre, TU Delft, Belgrade University, KTH Stockolm, UN-Habitat e Triennale di Milano (N.d.R.).


Diario nomade 14 febbraio 2008. Campo Boario: la carovana parte da qui. Dal luogo dove con l’aiuto della comunità curda fu realizzato il tappeto volante e che fu sede di ARARAT, lo spazio sperimentale di accoglienza per i popoli in esilio pensato da Stalker per avviare un dialogo permanente tra le comunità dei profughi e la città. Nella loro proposta questa doveva diventare la “Piazza dei Popoli”, poi c’è stato lo sgombero. Gli studenti hanno passato qui la loro prima notte in camper. L’aria di questa mattina di febbraio è frizzante, ma il sole mette il buon umore e si sente il profumo del caffè. Alla spicciolata, gli apprendisti osservatori nomadi riempiono il piazzale, mentre le carrozzelle escono a fare il pieno di turisti. Il nostro rapporto con le comunità rom inizia qui – ricorda Francesco Careri – nell’ex mattatoio di Testaccio, dove assieme alla comunità di rifugiati curdi ci installammo nel 1999. La prima azione che pensammo di promuovere fu la consegna di una “carta di non identità” a tutti i curdi, rom e immigrati clandestini presenti, un’azione che intendeva creare condivisione tra questi soggetti emarginati. Poi c’è stato il Pranzo Boario, il primo pranzo curdo-rom-giapponese della storia dell’umanità, pensato per far conoscere e cooperare la comunità curda, da noi introdotta in quello spazio libero, e la comunità rom calderash, lì presente da anni.

La lezione di apertura spetta a Marco Brazzoduro, che da anni segue le comunità rom della capitale. Quella di Brazzoduro è una introduzione alla storia dei rom

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Nella sede storica di via Libetta, a Ostiense, Lorenzo, “Piccio”, Aldo, Camilla, Ilaria, Giulia, Massimiliano e Fabrizio1 stanno mettendo a punto i preparativi per la loro nuova impresa, un seminario itinerante per oltre 40 studenti provenienti da tutto il mondo alla scoperta dei campi “nomadi” della capitale. Il progetto “Plans & Slums. Campus Rom” prosegue idealmente la precedente esplorazione realizzata da Stalker lungo le sponde del Tevere, insieme agli studenti del corso di Arte Civica dell’Università di Roma Tre. Un per-corso, più che un corso quello di Careri, fatto a tappe che in tre mesi ha portato alla luce e mappato (una “mappatura senza mappa” perché l’intento non era quello di fornire un censimento “poliziesco” dell’abusivismo) una realtà abitativa estrema fatta di ripari, nascondigli e vere e proprie baraccopoli dove trovano rifugio quasi duemila persone, invisibili a una città inaridita e che da anni guarda al fiume solo come a un ostacolo da attraversare. Al di là dell’impegno politico o degli intenti artistici e conoscitivi che caratterizzano questo collettivo, c’è nello spirito di Stalker una costante ludica, una propensione neotenica, che spiazza, confonde e diverte. Anche quando a seguirli sono orde di studenti, i “giovani” sono sempre loro. Più che alle atmosfere post-atomiche di Tarkovskij, partecipare a un progetto Stalker fa pensare a vestire i panni di Wendy e fratellini e partire con Peter Pan alla volta dell’Isola che non c’è. Ci si aspetta da un momento all’altro di imbattersi in una nave pirata, di danzare con gli indiani intorno a un fuoco o di fare il bagno con le sirene.

in Europa, una vicenda fatta di esclusione e pregiudizio, sfruttamento e persecuzioni, che vede gli zingari in Moldavia e in Valacchia schiavi per oltre cinquecento anni, e che trova il suo tragico epilogo nei campi di sterminio della Germania nazista. Al termine della lezione di Brazzoduro, Piccio e Lorenzo mostrano agli studenti la porzione di “tappeto volante” custodita nei locali della comunità curda, un’opera di Stalker realizzata con 42.000 corde annodate al soffitto, all’estremità di ogni corda un ciondolo di rame. Poi arriva il momento di mettersi in moto. Si studia il percorso e si avviano i motori. Prima tappa il campo di via Salviati, nella periferia nord-est della città.

Salviati 72 Nel campo di via Salviati 72 – in 45 container – vivono 322 persone, la maggior parte appartenenti al gruppo dei rom xoraxané, di religione islamica, provenienti dalle zone rurali della Bosnia e del Montenegro. La gente del campo sopravvive con il commercio dei rottami metallici e la pulizia delle cantine. La maggior parte dei residenti del campo ha il permesso di soggiorno o è legato per via parentale a nuclei con le carte in regola. Questa era infatti la condizione richiesta per ottenere un container. I rom del campo sono nati in Bosnia per il 39,4 per cento – spiega Brazzoduro – e sono in maggioranza adulti, mentre il 43 per cento, è nato in Italia. Nonostante ciò solo il 5,9 per cento è cittadino italiano. Nascere in Italia, infatti, non basta; si eredita la cittadinanza dei genitori; ma questi bambini potranno diventare cittadini italiani, se lo vorranno, al compimento del 18° anno di età. Il numero delle nascite di figli di stranieri in Italia è in crescita. Dietro questo fenomeno c’è senza dubbio la speranza di madri e padri che qui i loro figli avranno migliori opportunità.

Durante il pranzo al sacco, a base di pizza e arance, si discute di strategia: come far sì – si chiede Lorenzo – che quello che appare a tutti gli effetti un handicap – l’estraneità di decine di studenti provenienti dai più diversi paesi d’Europa, Asia e Sud America – possa tramutarsi in una chiave d’accesso inedita capace di bypassare le relazioni stereotipate tra noi e loro, tra rom e gagè? Che non sia proprio la costitutiva molteplicità e diversità di questo gruppo un modo di avvicinare le comunità rom permettendoci di stabilire una relazione di reciproco rispetto e di ascolto? Di certo questa carovana non è meno esotica e spiazzante di quelle zingare che si affacciavano alle corti dell’Europa rinascimentale e che si diceva provenissero da Egitto, Siria, Caldea, e altre terre ancora, molto lontane e molto misteriose.

Casilino 900 Casilino 900 è una baraccopoli che esiste da oltre quarant’anni. Inizialmente ha accolto un’immigrazione proveniente dal Sud d’Italia, ma già a partire dalla fine degli anni Sessanta vi si insediano le prime comunità dei rom. Oggi ci vivono circa 650 persone, per lo più provenienti dalle aree della ex Iugoslavia: rom serbi, macedoni, bosniaci, montenegrini, kossovari. Molti di loro, prima che fosse sgomberato, abitavano il vicino campo di Casilino 700, allora il campo più grande d’Europa.

Giorgio de Finis

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La carovana Stalker


Era il 1966, di lì a poco i rom inizieranno a stabilirsi a Casilino 900. Roma oggi riscopre le baraccopoli, tra lo stupore dei media e l’indifferenza della popolazione e della politica. Di tanto in tanto questa indifferenza si camuffa da “emergenza”. Ma poi niente cambia. “So ben figurarmi – è ancora Pasolini a parlare – gli occhi che sorvolano queste immagini senza guardarle... Sono gli occhi di coloro che ‘credono’ che le borgate, non siano, non solo un problema loro, ma un problema attuale...” (1995, p. 157). Nonostante la polvere e i cumuli di immondizie e rottami ammassati nel campo, le case all’interno sono pulite e ordinatissime. A gruppi gli studenti vengono accolti nelle abitazioni, incontrano le famiglie, riempiono questionari, raccolgono genealogie e storie di vita che diligentemente annotano nei loro moleskine; soprattutto a questi architetti in erba interessa capire com’è suddiviso e utilizzato lo spazio abitativo, dov’è che si cucina, dove si mangia, dove ci si intrattiene con gli ospiti, dove si lavora. Se la vicinanza, e la disposizione delle baracche nel campo, è questione di parentela, provenienza, religione. Poi si beve un caffè, si gioca con i bambini, e il tono si fa più confidenziale. Nei momenti di silenzio prepotentemente si fa avanti una domanda ancora senza risposta, e che rende impotenti: che fare?

Divino Amore 15 febbraio 2008. Il Santuario del Divino Amore: è probabilmente l’unico luogo di culto d’Italia dedicato al popolo rom, uno spazio a cielo aperto voluto per ricordare il beato Zeffirino Gimenez Malla, il primo zingaro elevato agli onori degli altari il 4 maggio 1997. Ma per don Bruno Nicolini questo non è tanto un luogo di “devozione” quanto un luogo di “rivoluzione”. Questi siti – dice don Bruno – io li penso come un dono di una città cosmopolita, un momento di richiamo per tutti i cittadini alla diversità necessaria per vivere felicemente da uomini e da gruppi umani. Questo monumento ricorda Auschwitz, ma ricorda anche la segregazione quotidiana di un popolo martire. Questo luogo voluto da papa Giovanni Paolo II vuole essere la testimonianza che nei confronti degli zingari è finito il tempo della carità ed è iniziato quello della giustizia. È possibile condividere la vita insieme. L’importante è che non smarriamo la stella della nostra civiltà, soprattutto rinascimentale, che è quella che ognuno ha diritto di vivere in libertà, ma insieme con gli altri. Dobbiamo coltivare la speranza attraverso i movimenti di risveglio, che oggi sono anche religiosi oltre che culturali, in modo da dare esperien-

Il Villaggio della Solidarietà Il Villaggio della Solidarietà a Castel Romano, sulla via Pontina: questo insediamento ospita oltre mille persone ed è stato considerato dall’amministrazione cittadina il modello cui ispirarsi per la realizzazione di 4 super campi da costruire fuori del Grande Raccordo Anulare. Un progetto – quello che prevedeva di spostare i 7.000 rom attualmente residenti nei 26 campi legali fuori dall’area urbana in nome della sicurezza – che è stato duramente criticato da Stalker. Improponibile e fuorilegge, sostengono. A Castel Romano, tra le fila di container verdi tutti uguali, incontro Odissio Cizmic, poeta rom. “Guarda cosa hanno costruito – dice – le scatole hanno messo. Qui non c’è l’acqua potabile, respiriamo la polvere e i sassi, e i nostri figli hanno avuto l’epatite a e b”. “Ringraziando Dio ho una macchina”, interviene Gigi Hamidovic. “Qui le persone sono isolate dal resto del mondo”. Torniamo a Castel Romano l’indomani di buon’ora, convinti di trovare i camper all’ingresso del villaggio. Invece la carovana Stalker si è spostata nottetempo all’EUR. Ci sono stati problemi, tensioni e per motivi di “sicurezza” agli osservatori nomadi è stato chiesto di non pernottare nel campo. Probabilmente le dure critiche mosse da Stalker al modello dei villaggi della solidarietà non li ha resi ospiti graditi (almeno a quanti fanno della gestione dei servizi del campo di Castel Romano il loro business). Il risveglio è faticoso. Per attenuare la frustrazione, Stalker e studenti hanno fatto le ore piccole in esplorazioni ludiche e riappropriazioni collettive degli spazi fuori scala pensati per la gloria della nuova città fascista. “Nomadizzare” l’EUR prima di augurarsi la buona notte. Visto che la circostanza sembra proprio richiedere il responso favorevole delle stelle, Lorenzo, come da consuetudine, legge per tutti l’oroscopo, rigorosamente quello di Rob Brezsny su «Internazionale». Poi si fa il punto sull’accaduto. C’è bisogno di confrontarsi sulle ragioni del “mancato confronto”. Gli studenti sembrano delusi e anche un po’ spaventati. Cosa non ha funzionato? Non è bastato farsi carovana, aprirsi all’altro con la più sincera disposizione a imparare, per trovare una breccia nel muro di diffidenza che storicamente ci separa dai rom? Quando si riparte tutti sono più sollevati. Forti anche del fatto che il prossimo incontro si gioca in casa. Con la piccola comunità che risiede nel campo del Foro Italico, all’altezza del Monte Antenne, tra la via Olimpica e il fiume, gli Stalker con il Dipartimento di Studi Urbani di Roma Tre e gli studenti del corso di Arte Civica, hanno da tempo avviato un progetto sperimentale che prevede, tra l’altro, l’inclusione dell’insediamento rom all’interno del Progetto Tevere Nord, e la costruzione di alcuni prototipi abitativi. La strategia di venire qui con i camper – spiega Lorenzo Romito – se da una parte è motivata dall’esigenza di restare uniti, dall’altra trova ragione in un principio che nel-

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Queste non sono immagini di Roma – scriveva Pier Paolo Pasolini riferendosi alle borgate e ai tuguri della periferia romana – ma immagini del Terzo Mondo. È nel Terzo Mondo che le abitazioni hanno questo colore bigio e profondo di legno marcio, catrame e bandone; le strade questa rugosità di vecchio fango e di vecchia polvere; la pelle dei bambini è di questa pasta grigia e animale.

za che si può convivere con loro, che è bello convivere con loro, che è meraviglioso parlare di figli con loro, che è bello lasciarci guidare verso una società della gioia invece che della paura. Credo che gli zingari, senza enfatizzare, non ci siano per recarci disturbo. Ci sono per salvarci.

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Situato all’incrocio tra la via Casilina e la via Togliatti è nascosto alla città dal muro di sfasciacarrozze da un lato, dall’aeroporto di Centocelle attualmente in disuso e dal parco archeologico, di recente istituzione, dall’altro. Nonostante sia stato dotato di bagni chimici e perfino di una fontanella!, le condizioni igieniche del campo sono davvero drammatiche.


Il viaggio continua 20 febbraio 2008. Il mio percorso con Stalker doveva concludersi a Roma. Avevo deciso di fare con loro un pezzo di strada, nell’ambito della mia esplorazione della città; e invece eccomi in volo alla volta di Belgrado, ancora parte di questo assurdo insieme studentesco dai passaporti più disparati, che con l’andare dei giorni si fa sempre più gruppo. L’idea è di confrontare la situazione italiana con quella dei paesi d’origine. Circa il 70 per cento dei rom considerati stranieri nel nostro paese proviene infatti da questi luoghi; molti si trovano oggi a non essere riconosciuti né dall’Italia né dagli Stati etnici nati dalla frantumazione della ex Iugoslavia, vittime di una guerra che non gli apparteneva. Ad accoglierci sono i block di Novi Beograd, la città socialista costruita a partire dagli anni Cinquanta sulla riva sinistra della Sava per ospitare, questo il progetto, un milione di residenti e gli uffici del governo. Quella che ci appare come un’immensa periferia è in realtà una zona molto ambita, sede di uffici, musei, impianti sportivi e grandi alberghi, e oggi impreziosita da una crescente quantità di nuovi centri commerciali. I primi rom li incontriamo qui, accampati a ridosso dei cantieri dei nuovi complessi residenziali in costruzione; provengono dal Kosovo. Che si è dichiarato indipendente quarantott’ore fa. Questa terra sembra prepararsi ad ulteriori conflitti... se così sarà ai rom, che non hanno mai combattuto una guerra, non resterà che scappare ancora una volta. Il nostro Ministero degli Esteri ha immediatamente riconosciuto il governo autonomo di Pristina, dunque qui (almeno noi italiani) non siamo ben visti. Lorenzo scherza: “è vero – dice – la storia passa di qui, ma pure noi!”. Ma arrivati in albergo Ivan Kucina, il responsabile del progetto per l’Università di Belgrado, ci ragguaglia sulla situazione. È molto preoccupato e raccomanda la massima prudenza. L’indomani ci sarà una grande manifestazione di protesta ufficiale contro la decisione unilaterale presa dal Kosovo, in violazione, qui si sottolinea, del diritto internazionale. Anche se presentata come una protesta pacifica, si temono disordini. L’aria che si respira è incandescente. Penso alle pagine di Erri De Luca, volato a Belgrado nel maggio del 1999 per “stare dalla parte dei bombardati, facendo atto di residenza, non di resistenza” (2008, pp. 23-24). Le rovine degli edifici colpiti dalla NATO Air Force più che un monito, appaiono oggi offese da lavare. Il paese moderato e liberale che spinge per entrare in Europa sembra zittito dalla rabbia e dalla voglia di riscatto della Grande Serbia che scende in piazza. Ci sono gli ultrà di Tomislav Nicolic´, i soste-

Gazela 22 febbraio 2008. Gazela non è un insediamento rom, è una baraccopoli. Lo standard abitativo di un quarto della popolazione mondiale: la metà della popolazione mondiale oggi vive infatti in città, la metà di questa metà in uno slum! Le città del futuro, lungi dall’essere fatte di vetro e acciaio secondo le previsioni di generazioni di urbanisti, saranno in gran parte costruite di mattoni grezzi, paglia, plastica riciclata, blocchi di cemento e legnami di recupero. Al posto delle città di luce che si slanciano verso il cielo, gran parte del mondo urbano del ventunesimo secolo vivrà nello squallore, circondato da inquinamento, escrementi e sfacelo. Anzi, il miliardo di cittadini che abitano gli slum postmoderni guarderà molto probabilmente con invidia le rovine delle solide case di fango di Catal Hayuk in Anatolia, erette all’alba della vita urbana, ottomila anni fa (Davis 2006, p. 24).

Una immensa discarica situata sotto l’omonimo ponte che scavalca la Sava collegando le due Belgrado, la vecchia e la nuova. Quattro corsie stradali sopra la testa. Un girone infernale, dove l’aria è irrespirabile e dove si muovono silenziosi come fantasmi cani, gatti, topi, donne e bambini; sembrano alla ricerca di qualcosa, ma cosa si può cercare qui? Si muovono silenziosi, osservo, ma non è davvero così, una volta entrati le grida dei bambini si sentono, eccome, come pure il rumore dei martelli sui rottami di ferro; uomini e animali, appaiono muti solo a causa del frastuono del traffico pesante che scorre sopra di noi a cui si aggiunge quello che arriva dalla vicina ferrovia.

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Tu ci sei – aggiunge Careri – stai facendo una cosa, e nel frattempo ne accade un’altra. Ieri sera, ad esempio, sono tornati al campo due anziani che erano fuori, e subito hanno iniziato a dire che qui non bisogna fare il prototipo di casa che noi avevamo immaginato ma bisogna fare il giardino. “D’accordo!” – ho detto. Il progetto cambia continuamente, se tu sei capace di accogliere gli stimoli che nascono dal fatto di essere qui.

nitori di Vojislav Kostunica, nazionalisti, slavisti e filorussi, e quanti comunque pensano che, dopo la Slovenia, la Croazia, la Macedonia, la Bosnia-Erzegovina e il Montenegro, Belgrado non possa perdere anche il Kosovo. “Cos’è il Kosovo? Dov’è il Kosovo? C’è qualcuno in mezzo a voi che pensa che il Kosovo non sia suo?”, chiede a gran voce il premier con la mano sul cuore. Tra gli interventi che accendono la folla mi pare di sentire anche quello del regista di Gatto nero e gatto bianco, ormai devoto alla causa serba. Finiti gli appelli e le dichiarazioni cominciano i saccheggi, vengono giù le vetrine dei negozi che non espongono il cartello con lo slogan “il Kosovo è Serbia”, viene assaltata l’ambasciata americana, ci scappa il morto. Solo pochi studenti se la sono sentita di uscire a curiosare, tra loro quelli meno “a rischio”, cinesi e spagnoli. I più non si sono mossi dalle loro stanze, impegnati a tranquillizzare le famiglie via SMS. La mattina ci si ritrova tutti all’Università nelle aule della Facoltà di Architettura. Ivan e gli studenti serbi cercano di rispondere alle mille domande che il gruppo rivolge loro; il nazionalismo, le rivendicazioni patriottiche e localistiche, la violenza etnica suonano incomprensibili alla carovana mobile e multiculturale che si è data convegno qui. Il gioco, vecchio e attualissimo, delle identità contrapposte è difficile da accettare. Sbircio nei quaderni dei ragazzi: “Quanto è importante la nazionalità per noi?”. Leggo “Gli zingari non ci insegnano proprio questo, che non c’è bisogno di una patria, di una città, di una terra?”.

Giorgio de Finis

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l’attività di Stalker è fondamentale, cioè che l’atto di osservare sia sempre un atto di partecipazione delle realtà osservate. Forse è questa la cosa più interessante di questo viaggio.


Orlovsko Brdo 23 febbraio 2008. Rispetto allo slum di Gazela, quello di Orlovsko Brdo alla periferia di Belgrado ha l’aria di un tranquillo villaggio contadino. Qui non ci sono baracche, ma case che solo l’assenza di intonaco indica come possibili abitazioni rom. Anche qui i primi ad accoglierci sono i bambini, tanti e rumorosi, desiderosi di mostrarci le loro abilità ma soprattutto i loro sorrisi. C’è da dire che quanto a sorrisi siamo davvero prodighi anche noi; e non solo perché siamo ben educati; è che qui ci fa difetto la lingua e spesso non resta che ricorrere alla comunicazione non verbale. Che, filosoficamente parlando, non è poi poca cosa! Lo stesso Wittgenstein, che sollevò il problema della traduzione dei giochi linguistici, aprendo la strada al relativismo epistemologico e alle teorie dell’incommensurabilità, indicò proprio nei “gesti”, nelle “espressioni del viso” e nel “tono della voce” gli strumenti a nostra disposizione per fare breccia nella muraglia rappresentata dal confine culturale. Che non ci si guadagni rinunciando giocoforza alla parola, foriera di così tanti malintesi? Ciò che veramente risulterebbe

Smederevo 24 febbraio 2008. Ci lasciamo Belgrado e le ambasciate presidiate alle spalle. Smederevo dista una settantina di chilometri dalla capitale. La mattina è libera. Ne approfittiamo per vedere la grande piazza del municipio con la chiesa di San Giorgio. Ci diamo appuntamento all’una al Centro culturale per l’incontro con i rappresentanti delle associazioni rom; poi insieme visiteremo l’insediamento. Il problema della rappresentanza rom è questione delicata; tutta la storia dei movimenti politici per il riconoscimento dei diritti delle genti zingare è caratterizzata dalla difficoltà di uscire da una sorta di particolarismo associativo. Una vera e propria nebulosa, quelle delle associazioni rom, dicono gli specialisti, che raramente riesce a dare “visibilità” al popolo invisibile. Il leader dei rom di Smederevo intrattiene a lungo gli studenti. Come ogni buon politico, sembra sapere il fatto suo. Gli studenti registrano ogni parola. A fine meeting ne approfittiamo per una bella foto di gruppo. Poi di nuovo sul campo. Ma la strada dell’esploratore, si sa, è lastricata di fallimenti e disseminata di prove e trabocchetti. E mai fidarsi di guide e informatori che non siano di testata fiducia. Invece di entrare, come fatto sinora, e disperdersi in piccoli gruppi, cosa che facilita i tentativi mimetici, invero sempre frustrati, dell’osservatore, i ragazzi fanno massa all’ingresso, scoprendo il numero tutt’altro che rassicurante della loro pacifica invasione. Qualcuno sembra non gradisca la nostra visita, e ce lo fa capire aiutandosi con un pitbull alla catena. Il diario a fumetti di Azzurra riporta l’episodio così: nella prima vignetta l’incontro con il rappresentante politico della comunità rom di Smederevo, sono le

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incommensurabile è un gioco linguistico appartenente a una realtà extraterrestre. Oh Oh… due marziani! Appaiono davvero così i due rom a bordo della loro diane “degagizzata” di cui non resta che la scocca, le ruote e il motore. Forse non resta che rammaricarci con Rorty. Peccato davvero che noi, i galattici e le farfalle siamo incapaci – concettualmente – di riconoscerci reciprocamente una esistenza. Con tutto quello che ognuno avrebbe da offrire all’altro! Esaurito il repertorio di saluti, sorrisi, strette di mano, esclamazioni di stupore, cenni di assenso, ci tolgono d’impaccio gli studenti serbi che si vedono costretti, per ospitalità, al ruolo di mediatori linguistici. Anche se poi scopriamo, ma è una scoperta che facciamo ogni volta, che in un insediamento rom è possibile sentire parlare davvero le lingue più diverse. La visita continua. Sempre con al seguito il nostro piccolo esercito di bambini. Ognuno reclama la sua fotografia. Ottenerla è un attestato di presenza e di merito, certifica che si è prestato loro attenzione. Che li abbiamo “visti”. Le case che più distano dalla strada sono le più povere, si sente l’odore di immondizia e plastica bruciata. La discarica non deve essere lontana. Molte famiglie vivono raccogliendo rottami. Il legno qui prevale sui mattoni, e le pareti delle abitazioni sono foderate di gommapiuma, le notti devono essere davvero fredde, se già al tramonto il vento taglia come un rasoio.

Giorgio de Finis

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Gli amici serbi mi dicono che ci sono piani per riqualificare l’area di Gazela; il campo verrà presto smantellato e gli abitanti dislocati. Davvero vergognosamente troppo vicino al Sava Center e all’Hotel Intercontinental, penso! Gazela è davvero un brutto posto. Ma perfino qui, tra queste montagne di spazzatura, i bambini giocano, e tutti sono gentili. Mi chiedo se ci è dato conoscere i rom fuori dello stereotipo che ce li propone ora sporchi e cattivi, ora liberi e felici? Gli zingari “veri” chi sono? Il popolo delle discariche? Il “popolo resistenza” capace di andare per la propria strada, a costo di farsi sempre e dovunque invisibile? A partire dalla seconda metà del XV secolo l’Europa gagè, per il tramite di inquisitori, commediografi, poeti, pittori, viaggiatori, romanzieri, compositori, registi, ha raccolto il suo campionario di profili zingari. Ce n’è per tutti i gusti. Per citare lo “ziganologo” italiano Leonardo Piasere, dagli zingari “buoni da ridere” a quelli “buoni da piangere”. Ma oggi sono ancora pregiudizi e stereotipi la causa della esclusione e del mancato riconoscimento della minoranza rom o quella contro i rom è solo una battaglia nell’ambito della più generale offensiva che oggi i ricchi muovono, sotto ogni latitudine, contro i poveri? A poco più di centro metri dalla baraccopoli di Gazela, c’è il fiume, l’aria è tersa, il rumore del traffico è lontano. Sembra di risvegliarsi al mattino dopo un sonno agitato. Anche i rom rispettano questo confine, questa non è più la loro città, qui ci passeggia la gente perbene, queste acque calme attraggono le coppiette e i turisti, qui si fa jogging e si porta a spasso il cane; loro lo sanno e se ne restano all’ombra della sopraelevata, muovendosi in una striscia più interna, una terra ancora di nessuno, anche se per poco a giudicare dai cantieri aperti, che corre tra il lungofiume e il grande boulevard Vladimira Popovica. A poca distanza dal simbolo di Belgrado, la torre dell’Usce, che un altro cantiere e altre gru, stanno restituendo agli splendori che precedettero il bombardamento dell’aprile del 1999.


Grdicka kosa 2 25 febbraio 2008. Il viaggio continua. Sul pullman si ricrea, chissà se Proust ne parla, quell’atmosfera da gita scolastica che riporta indietro (ma questo non vale, penso, per i ragazzi). Siamo diretti a Krajevo per visitare un insediamento che si sta avvalendo della cooperazione di UN-Habitat, l’organismo delle Nazioni Uniti che si occupa degli insediamenti umani e che dal 2003 ha aperto un ufficio a Belgrado con l’obiettivo di realizzare in Serbia un programma abitativo e di integrazione per i rifugiati. Grdicka kosa 2 dista un chilometro e mezzo dal centro di Krajevo. È l’insediamento di cui mi ha parlato Barbara Galassi. Qui si sta realizzando il progetto pilota che, stando a quanto riferitoci, dovrebbe avviare una nuova stagione di interventi tesi a migliorare le condizioni abitative dei rom in Serbia. Il progetto incluso nel “Settlement and Integration of Refugees Programme” ha la finalità di realizzare alcuni interventi di canalizzazione delle acque se non capisco male. Accanto alla mancanza di adeguate infrastrutture, tra i problemi che affliggono questo villaggio, apprendiamo dallo studio condotto da UN-Habitat, risultano al primo posto la povertà della popolazione residente, una bassa qualità degli edifici e una sostanziale inadeguatezza degli stessi, cui si devono aggiungere, non ultime, le questioni relative alla proprietà della terra. Dello stato di avanzamento del progetto qui non sanno dirci molto. Qualcuno non ne ha mai sentito parlare. Eppure il progetto ha tutte le carte in regola. Non è facile, anche quando c’è la volontà, che i grandi organismi internazionali riescano a comunicare con la gente. Perfino quando il metodo prevede il confronto, la partecipazione e l’autocostruzione. Ci sono tanti passaggi tra la ratificazione di un accordo internazionale e la sua ricaduta sul territorio. Ma è difficile spiegarlo agli studenti che si aspettano di toccare con mano i risultati di tanti sforzi cooperativi. Di vedere con i loro occhi, un po’ sognanti, giu-

La Terra Promessa dei rom 26 febbraio 2008. Skopje, la capitale della Macedonia, una città di 500.000 abitanti, ma anche la città che ospita il più grande insediamento rom d’Europa. Ci si sveglia di prima mattina, come sempre accade quando il giorno riserva prove importanti. La Macedonia si è dichiarata indipendente nel 1991, e diversamente da quanto accaduto per la Croazia e la Bosnia-Erzegovina, lo ha potuto fare con un referendum. Pacificamente. Anche se poi non sono mancate le tensioni con la minoranza albanese presente nel paese, sfociate quasi in una vera e propria guerra civile nel 1999, per l’intervento dell’Esercito di Liberazione del Kosovo in territorio macedone, intervenuto a difesa di questi ultimi. Dal 2005 la Macedonia è uno dei paesi candidati all’ingresso nella Unione Europea. Un giro per ingannare l’attesa e scoprire questa interessante città, poi raggiungiamo il luogo fissato per l’appuntamento, il ponte sul fiume Vardar, che collega la grande piazza delle ambasciate con l’antico quartiere musulmano. La prima cosa da fare è decidere come arrivare a Shutka. Il pullman viene bocciato all’unanimità, ma si avverte il timore di sbagliare “strada”, di finire magari in un vicolo cieco come a Smederevo o Castel Romano. Di mancare l’incontro. Lorenzo è preoccupato. Sente tutto il peso delle aspettative per la visita alla città dei rom. Si decide di raggiungerla a piedi. Un modo per guadagnar tempo e prendere le distanze. Lungo la strada, divagando, entriamo in un caravanserraglio. Ci troviamo di fronte casse di foto e documenti. Non sono tracce del mondo rom, ma sono memorie disperse, proprio come le loro. Stalker e studenti si immergono avidi e curiosi nello spoglio di questo archivio abbandonato, un dono inaspettato offerto a sorpresa dal procedere erratico che hanno deciso di praticare. “Il modello dell’incontro – osservano Laplantine e Nouss (1997, p. 113) – non ha nulla dell’arte dell’appuntamento… Non si capita mai a un incontro, è sempre l’incontro che vi capita”. È vero: il viaggio è un passaggio tra due mondi, un procedere che contempla l’ignoto, la paura, la fatica, l’esatto contrario del partire o dell’arrivare in orario. Certo che dieci chilometri non sono una passeggiata. Con noi ci sono telecamere, cavalletti, macchine fotografiche… stringo i denti e mi consolo pensando a quanto affermato da Régis Debray (un tempo viaggiatore-guerrigliero in Bolivia, oggi viaggiatore-repubblicano in Kosovo): “Se faccio trenta chilometri al giorno a piedi, calcolo il mio tempo in anni; se ne faccio tremila in aereo, calcolo la mia vita in ore” (1999, p. 75). Del resto, mentre ci avviciniamo passo passo alla meta, gli Stalker rimasti a Roma stanno partecipando alla “giornata mondiale della lentezza”.

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stizia fatta di povertà ed emarginazione. Anche a Krajevo non si è realizzata la civitas cucaniensis. Ma poi si sa come sono i ragazzi, un prato che già sa di primavera, due tiri al canestro, e il malumore è dimenticato. Ormai tutti pensano già a Shutka! Fantasticando sulla città dei rom. Di certo la meta più attesa di questo viaggio.

Giorgio de Finis

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13.00. Il nostro arrivo alle ore 15.00, la nostra partenza alle ore 15.01. “Sinti sbrighi o sciolgo”, la traduzione inglese recita: “you better move away quickly”! Niente paura, c’è il piano di riserva. I signori viaggiatori sono pregati di prendere posto sul pullman. La tempistica con cui si individua una destinazione alternativa è davvero degna delle migliori agenzie turistiche. Il nostro autista punta su di una comunità decisamente meno bellicosa, anche se più “rassegnata” è l’espressione che mi evoca il ricordo di quegli anziani, donne e bambini, rom e non, accomunati dalle malattie respiratorie che la vicina fabbrica elargisce loro con magnanimità, cospargendo il villaggio di velenosi detriti rossi che rendono i tramonti di qui davvero unici. All’agenzia questo dettaglio non deve certamente essere sfuggito! I “quattro gatti” che vivono in questo insediamento certo annoteranno questa visita nelle cronache del villaggio. Non credo siano molti i viaggiatori stranieri che si trovano a passare di qui. Ma tutto sommato la visita è un successo e tutti… visitati e visitatori sono contenti. Ma il più contento di tutti è il rappresentante dei rom di Smederevo, che se la ride sotto i baffi, felice di aver salvato la faccia.


il fanciullo – scrive il filosofo Michel Serres (1992, p. 58) – va alla ventura del mondo, getta avanti un piede rispetto all’altro, posto, radicato… Esso si espone. Lascia il luogo basso e si innalza. Cresce e slancia i suoi rami. Salta. Lascia la posizione stabile e si scosta. Cammina, in breve. Lascia la riva e si lancia. Nuota. Abbandona la consuetudine per sperimentare. Evolve. Dà. Offre. Ama. Passa la palla. Dimentica la sua terra, sale, viaggia, erra, conosce, guarda, inventa, pensa… Io sono verso l’altro passo, non più nel radicamento.

Abbiamo sentito molto parlare del sindaco di Schuto Orizari, il sindaco dei rom; sta facendo tanto per la sua gente – ci raccontano: di recente ha perfino subito un attentato, ma non ha lasciato il suo incarico. Che da quel che sentiamo sembra più una missione. All’ingresso del municipio effettivamente ci sono due cartelli con il divieto di introdurre armi nell’edificio! Siamo doppiamente fortunati. Il sindaco c’è ed è felice di riceverci. Espresso con linguaggio simbolico Schuto Orizari è la terra promessa dei rom – ci spiega Erduan Iseni. Attualmente è l’unico governo rom in Europa (e nel mondo, presumo). E per molti rom di questa zona ha rappresentato e rappresenta la salvezza, la loro e quella dei loro figli. Ogni volta che scoppia un conflitto nella regione, dalle zone di guerra i rom vengono a Schuto Orizari. Questo è successo nel 1999, con la crisi del Kosovo, ma sono venuti rom dal Sud della Serbia e da molti luoghi della Macedonia. Schuto Orizari è l’unica municipalità al mondo in cui i rom stessi sono incaricati della pianificazione, hanno potere decisionale in materia di economia, questioni sociali e legali. Questa è una vera e propria amministrazione, una municipalità, un governo locale a tutti gli effetti che, dal 1996 ha il proprio gonfalone, il proprio nome, il proprio Consiglio per le questioni urbanistiche, di sicurezza, di salute pubblica, per le questioni comunitarie. Abbiamo la nostra bandiera e un nostro statuto, una nostra Costituzione. La lingua ufficiale in Schuto Orizari è il romani, seguita da quella macedone. In effetti questo è l’unico Stato virtuale rom al mondo. In questo periodo dell’anno la metà della popolazione di Schuto Orizari si trova all’estero, sparpagliata nei diversi paesi occidentali. Ora qui ci sono 44 mila residenti circa, ma in piena estate, a luglio, durante le vacanze estive, quando celebriamo i nostri matrimoni e le nostre feste, il numero degli abitanti sale fino a 100.000 unità. Le persone vengono qui dall’Italia, dalla Germania, dal Belgio.

Alle spalle del major di Schuto Orizari c’è una grande foto in bianco e nero che ritrae una tavolata all’aperto, tutti sorridono: è un dettaglio che Erduan Iseni ci invita a osservare:

La sera, al ritorno, osservo la gente passeggiare in centro, sedersi nei tanti locali alla moda e immagino Shuto Orizari aumentare la sua popolazione, crescere accogliendo in seno la diaspora rom così come auspicato dal suo sindaco. Cosa succederebbe se a Skopje gli zingari continuassero ad arrivare sempre più numerosi? Si rivelerebbe davvero, questa, la terra promessa dei rom?

Epilogo a Casilino 900 Il seminario Plans & Slums è finito. Dovrebbe esserlo anche il nostro lavoro. Ma non riusciamo ad abbandonare questa storia. 2 aprile 2008: dalle prime ore dell’alba Casilino 900 è presidiato dalle forze dell’ordine. Polizia e funzionari comunali controllano i documenti, si provvede perfino a dare una nuova numerazione alle baracche. Nessuno sa se questo è l’inizio dello sgombero tanto annunciato e oggi previsto dal nuovo piano regolatore. Si diceva non sarebbe avvenuto prima della fine dell’anno scolastico, per non compromettere l’istruzione dei bambini. Che qui vanno a scuola numerosi. Ma con le elezioni che si avvicinano magari si vuole fare un po’ d’ordine! Alcune abitazioni sono state già abbandonate. Chi non ha i documenti in regola se n’è andato. C’è grande paura al campo, nessuno sa bene cosa sta succedendo e cosa deve fare.

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Sapete qual è il modo più facile per riconoscere un insediamento rom? Basta vedere quando l’urbanizzazione si arresta, ecco lì inizia l’insediamento rom! I rom sono la popolazione più povera d’Europa. E sono allo stesso tempo la più grande minoranza in Europa. Secondo le stime dei demografi ci sono dagli 8 ai 12 milioni di rom in Europa, una minoranza etnica (etnica e apolide) tra le più significative. I rom sono presenti in tutti i paesi europei. Immaginate una realtà di 8-12 milioni di persone con un tasso di analfabetismo del 90 per cento, la maggior parte non ha istruzione al di sopra della scuola elementare. In qualche paese abbiamo casi di persone che non possiedono documenti legali, non sono registrati, non frequentano le scuole, non hanno un’occupazione e vivono isolati, totalmente esclusi dalla società. E questo costituisce un grande problema per l’Europa. Sono stato ospite del sindaco Veltroni, a Roma, e ho visitato due campi, a via Casilina e a via Pontina; in quell’occasione l’amministrazione cittadina ha cercato di spiegare ai rom lì residenti che se vogliono stare in Italia devono mandare i loro figli a scuola: questo come precondizione per ottenere il prolungamento del loro permesso di soggiorno. Per me questo è sbagliato e l’ho detto al sindaco. Non mi piace l’idea che tutte quelle famiglie restino in Italia, mi piacerebbe che tornassero a Schuto Orizari. Cosa succede se i bambini vanno a scuola mentre i genitori mendicano e rubano… i bambini, che modello-rom possono vedere nei loro padri? Ricevendo un assegno sociale i genitori condizionano l’educazione dei loro figli e questo non è giusto. Ho detto al sindaco Veltroni e alla vostra amministrazione cittadina: non dateci i pesci, insegnateci a pescare. Quello che stiamo facendo qui è lavorare a un progetto per costruire una scuola superiore. Perché la gente istruita non decide di immigrare per mendicare sulle strade delle città europee. La questione basilare è lo sviluppo, ma certamente non ce la possiamo fare senza adeguati sostegni economici. Con quello che riceviamo dal governo ci paghiamo l’elettricità e l’acqua. Ma noi incoraggiamo i rom che vogliono tornare a investire nello sviluppo di Schuto Orizari, perché l’unico investimento su cui si può contare a questo punto è l’investimento privato.

Giorgio de Finis

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Un gruppo di studenti ottiene un passaggio su un carretto, sono eccitati e orgogliosi di aver trovato la “loro” modalità d’accesso. Gli altri li ritroviamo su un prato, Daniela sta facendo i tarocchi. Si va disegnando un immaginario comune rispetto all’andare a Shutka che allontana le preoccupazioni di Lorenzo. I bambini che tornano a casa dalla scuola si fermano a curiosare, e ne hanno ben d’onde! Scavalcare a piedi i confini fisici e mentali che spesso ci impediscono di vedere ciò che accade a pochi isolati da casa, creare distanze ma anche scoprire prossimità. Questo gli Stalker vogliono insegnare agli studenti, un “metodo”, un modo diverso di guardare al tempo e allo spazio che ci circondano. Un andare che è un attraversare territori fatti di barriere fisiche, psicologiche, culturali e disciplinari. Si riprende il cammino.


Lorenzo mi riferisce con preoccupazione di casi in cui sono stati demoliti i container di rom responsabili di furti o altri atti criminali. Di casi in cui i familiari di coloro che si sono macchiati la fedina penale sono stati allontanati dal campo, un passaggio alla responsabilità collettiva che sembra violare le più elementari regole di democrazia e giustizia. Chi di noi perde la casa se commette un reato? Cosa c’entrano moglie e figli se un padre ruba?

Poi leggo il ponderoso saggio di Jonathan Simon, docente presso la Boalt Hall School of Law, University of California, che mi dischiude l’abisso. Negli Stati Uniti possono essere sfrattati da un appartamento in cui risiedono (parliamo di alloggi popolari) interi nuclei familiari se uno degli inquilini riporta una condanna penale. Inoltre leggi statali e federali escludono dal voto detenuti ed ex detenuti (in otto Stati il bando è a vita). Durante le elezioni presidenziali del 2000, circa 4,7 milioni di cittadini americani sono stati esclusi dal voto a causa di una condanna penale. Stime attendibili suggeriscono che, in base alle tendenze elettorali generali della popolazione afroamericana, qualora anche solo gli elettori afroamericani “banditi” dall’elettorato, pur avendo interamente scontato la loro condanna, fossero stati in condizione di esprimere il loro voto, George W. Bush non sarebbe stato eletto alla Casa Bianca (Simon 2007, p. XIV).

Negli USA, gli afroamericani (pur essendo una minoranza) costituiscono infatti la maggioranza assoluta della popolazione carceraria. In nome della sicurezza, l’America da anni sferra la sua guerra ai ghetti urbani, utilizzando il sistema della pena per “sorvegliare, soggiogare e, quando necessario, punire e neutralizzare le popolazioni recalcitranti di fronte al nuovo ordine economico” (Wacquant 1999, p. 73, cit. in Simon 2007, p. XXI).

questa notte proprio non riesco a prendere sonno. Non riesco a cancellare dalla mente le immagini di quelle madri con i figli piccoli in braccio, scortate dalla polizia per salire sui pullman e lasciare i campi in fiamme. Sì, madri e bambini, non rom o zingari. Non riesco a non provare vergogna e dolore per quelle donne in fuga con i figli stretti a sé. Mia figlia, di appena nove mesi, dorme serena, nel suo letto comodo, nella sua casa calda e qualcuno sempre pronto a sorriderle e a farle una carezza. Una figlia, proprio come quelle aggrappate al collo di quelle donne dolenti. Cosa pensa una madre mentre fugge stringendo il proprio bambino? Cosa pensa una madre quando sa che il suo bambino, prima ancora che nasca, è già un nemico per qualcuno? In questa notte insonne provo vergogna per tutte le madri italiane che non hanno saputo vedere in quei bambini i loro figli.

Il teorico della società liquida Zygmunt Bauman sostiene che la freddezza nei confronti degli stranieri che sono fra noi, segnali un abbassamento della temperatura in tutte le relazioni umane e in ogni ambito della vita. In questo senso, sono fredde le persone che hanno dimenticato da molto tempo quanto calore possa trasmettere la solidarietà umana. Come dobbiamo considerare gli italiani freddi o razzisti? Secondo gli ultimi dati del Censis la nostra società avrebbe una percezione della paura più alta del dato reale, in controtendenza rispetto al numero dei reati che è in diminuzione. Per il presidente del Centro studi investimenti sociali Giuseppe De Rita la paura è frutto della crisi economica che attraversa la società italiana, “quando non si va avanti si va indietro, quando non si cresce ci si difende”. Ma la crisi è planetaria. “Il pianeta è saturo, ci ricorda ancora Bauman. Mentre la produzione di rifiuti umani prosegue senza posa e tocca nuove vette, il pianeta resta rapidamente a corto di strumenti per il riciclaggio dei rifiuti”. In fondo abbiamo paura di finire tutti nella pattumiera, per questo odiamo i rom. Il popolo che abbiamo consegnato alle discariche e che ci rimanda come uno specchio l’immagine terribile del nostro destino di “vite di scarto”. Essere rifiutati, esclusi, uscire dal gioco, restare soli, queste sono le cose che ci fanno paura (parole che vanno bene per “loro” ma suonano orribili quando le rivolgiamo a noi stessi). Il nostro peggior incubo: Gridare alla società globale “Vengo anch’io” e sentirci rispondere: “no, tu no!”

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La notte a Casilino 900 ardono grossi falò. È la controffensiva rom all’attacco a sorpresa delle ruspe, gli abitanti del campo lavorano alacremente per mettere ordine; l’indomani le forze di polizia troveranno la strada spianata, le palizzate rimosse e le immondizie bruciate. È la provocazione di chi da sempre ha imparato a collaborare. Ma quelle fiamme rosse, se per un attimo sembrano rischiarare una notte che appare a tutti troppo fredda e buia, celano funesti presagi. Di altri roghi. Di lì a qualche settimana gli abitanti di Casilino 900 e degli altri campi presenti sul territorio nazionale guadagneranno le prime pagine dei giornali e le aperture dei TG: scoppia l’emergenza rom, le baracche e le roulotte sono prese d’assalto e bruciate in nome della sicurezza e della legalità. Ma le urla rabbiose della folla che inneggia a raid e linciaggi, e insulta i pompieri, non riescono a farsi coro, fosse anche per singole flebili voci, come quella di Nicoletta, una giovane donna che scrive al quotidiano «la Repubblica»:

Giorgio de Finis

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Sette giorni dopo. Veniamo svegliati all’alba. Sono arrivate le ruspe. È iniziato lo sgombero di Casilino 900. Le autorità ribattono che non si tratta di sgombero, ma di interventi tesi a rendere la strada che attraversa il campo praticabile ai mezzi di pronto intervento e ai vigili del fuoco. “Nell’ultimo anno a Roma – mi dice Francesco – ci sono state 6.000 persone sgomberate da baraccopoli e campi rom2. Gli sgomberi vengono eseguiti spesso con la violazione dei più elementari diritti umani e civili, senza preavviso, senza informare le persone delle loro future destinazioni, senza lasciare il tempo di raccogliere le proprie cose, senza offrire la possibilità di poter partecipare a decisioni che riguardano l’intero destino della propria esistenza. Demolire e sgomberare, per offrire nuovamente una soluzione temporanea, è oggi l’unica proposta che la nostra società è capace di offrire”. “Pensare che la sicurezza possa essere condannare gli altri al peggio, sempre, è un grande errore, aggiunge Lorenzo. La sicurezza non può che essere reciproca. Io ho recentemente fatto un viaggio in Israele e Palestina. Non c’è verso che la tua sicurezza sia garantita dalla totale esclusione dell’altro. Fino a che punto puoi alzare questo muro intorno ai rom? Più saranno segregati, più saranno allontanati dal centro, più saranno commisti culturalmente e uniti solo dal loro statuto di sottoproletariato, più diventeranno pericolosi. Allora la soluzione, sul percorso che si sta prendendo, non potrebbe essere alla fine che la loro eliminazione”.


153 La Diane “degagizzata�. Gazela, Belgrado.

La nuova moschea in costruzione a Schuto Orizari.

Percours gitani, Belgrado.

Il campo di via Salviati, Roma.

Il cimitero dei rom a Schuto Orizari, Skopje.

Cantieri a Novi Beograd.

Giorgio de Finis

Gazela. Sotto il cavalcavia.

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Un momento del backstage del film documentario Rome to Roma.


EUR,

Roma.

Bibliografia

L’accoglienza dei bambini a Orlovsko Brdo, Belgrado.

La casa di tutti. Inaugurazione a Casilino 900.

Bambina rom chiede l’elemosina nelle vie del centro. Roma.

Balbo, L., 2006, In che razza di società vivremo? L’Europa, i razzismi, il futuro, Milano, Bruno Mondadori. Bauman, Z., 1999, In Search of Politics, Cambridge, Polity Press; trad. it. 2005, La solitudine del cittadino globale, Milano, Feltrinelli. Bauman, Z., 2004, Wasted Lives. Modernità and its Outcasts, Cambridge, Polity Press; trad. it. 2005, Vite di scarto, Roma-Bari, Laterza. Biondillo, G., 2008, Metropoli per principianti, Parma, Guanda. Bonomi, A., a cura, 2008, La vita nuda, La Triennale di Milano, Milano, Electa. Careri, F., 2001, Constant. New Babylon, una città nomade, Roma, Testo & Immagine. Careri, F., 2006, Walkscapes. Camminare come pratica estetica, Torino, Einaudi. Careri, F., Linke, A., Vitone, L., 2005, Constant e le radici di New Babylon, «Domus», 885, ottobre. Careri, F., Romito, L., 2008, “Roma: una città senza case, un popolo senza terra”, Autointervista, in Bonomi, a cura, 2008. Davis, M., 2006, Planet of Slums, London, Verso; trad. it. 2006, Il pianeta degli slum, Milano, Feltrinelli. Debray, R., 1999, Croire, voir, faire. Traverses, Paris, Odile Jacob. de Finis, G., 2008, Diari urbani, Roma, Prospettive Edizioni, c.s. de Finis, G., Scartezzini, R., a cura, 1996, Universalità & differenza. Cosmopolitismo e relativismo nelle relazioni tra identità sociali e culture, Milano, Angeli. De Luca, E., 2008, Pianoterra, Roma, nottetempo. Desideri, P., Ilardi, M., a cura, 1997, Attraversamenti, Genova, Costa & Nolan. Hammarberg, T., 2008, Memorandum. Roma and Sinti; Immigration, 28 luglio, Strasbourg, Council of Europe. Impagliazzo, M., a cura, 2008, Il caso zingari, Milano, Leonardo International. Laplantine, F., Nouss, A., 1997, Le Métissage, Paris, Flammarion. Mannoia, M., 2007, Zingari che strano popolo, Roma, XL edizioni. Michel, F., 2000, Désirs d’Ailleurs, s.l., Armand Colin; trad. it. 2001, Altrove, il settimo senso. Antropologia del viaggio, Milano, MC edizioni. Moresco, A., 2008, Zingari di merda, Milano, Effigie Edizioni. Pasolini, P. P., 1995, Storie della città di Dio. Racconti e cronache romane (1950-1966), a cura di W. Siti, Torino, Einaudi. Petruzzelli, P., 2008, Non chiamarmi zingaro, Milano, Chiarelettere. Piasere, L., 2004, I rom d’Europa. Una storia moderna, Roma-Bari, Laterza. Piasere, L., 2005, Popoli delle discariche. Saggi di antropologia zingara, 2a ed. riveduta e corretta, Roma, CISU. Piasere, L., 2006, Buoni da ridere, gli zingari. Saggi di antropologia storico-letteraria, Roma, CISU. Revelli, M., 1999, Fuori luogo. Cronaca da un campo rom, Torino, Bollati Boringhieri.

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“Congresso” Stalker.

1 Lorenzo Romito, Francesco Careri detto “Piccio”, Aldo Innocenti, Camilla Sanguinetti, Ilaria Vasdeki, Giulia Fiocca, Massimiliano Maiello, Fabrizio Boni. 2 Tra gli sgomberi ricordiamo: Campo Boario (sgomberato il 4 aprile 2007; La Martora (parzialmente sgomberato il 5 luglio 2007); Ponte Mammolo (sgomberato il 10 dicembre 2007); Quintiliani (sgomberato in novembre 2007); Tor Cervara (sgomberato il 24 maggio 2007 e il 12 ottobre 2007); via Maddaloni (sgomberato il 17 luglio 2007); Tor Pagnotta (sgomberato il 21 febbraio 2007); Magliana Vecchia (sgomberato il 19 luglio 2007 e il 29 gennaio 2008); via dell’Imbrecciato (sgomberato il 28 aprile 2007 e altre due volte); Villa Traili (sgomberato il 9 marzo 2007); Tor di Quinto (rese inagibili 78 baracche il primo novembre 2007); Saxa Rubra (sgomberato il 29 gennaio 2008); Aldobrandeschi (sgomberato due volte). I dati sono forniti da Stalker.

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Note


Testatina ÁGALMA 157

Quaderno di comunicazione 156

Rodari, E., a cura, 2008, Rom, un popolo. Diritto a esistere e deriva securtaria, Milano, Edizioni Punto Rosso. Rorty, R., 1982, Consequences of Pragmatism, s.l., University of Minnesota; trad. it. 1986, Conseguenze del pragmatismo, Milano, Feltrinelli. Serres, M., 1992, Le Tiers-Instuit, s.l., Éditions François Bourin; trad. it. 1992, Il mantello di Arlecchino. “Il terzo-istruito”: l’educazione dell’era futura, Venezia, Marsilio. Simon, J., 2007, Governing Through Crime. How the War on Crime Transformed American Democracy, New York, Oxford University Press; trad. it. 2008, Il governo della paura. Guerra alla criminalità e democrazia in America, Milano, Raffaello Cortina. Stalker, 2004, Stalker, catalogo della mostra, Bordeaux, CAPC, Musée d’art contemporain, Lyon, Fage. Stalker/ON, 2008, “Un interrogativo manifesto”, in 15a Quadriennale d’Arte a Roma, Venezia, Marsilio. Stalker/ON, Urban Body, 2008, Roma Time. Plans & Slums. The Roma Right to Inhabit across Europe. Learning from Roma and Back, Delft, TU-Delft Roma Tre University, Belgrade University, KTH Stockholm University, UN-Habitat Belgrade. Villani, T., 1992, I cavalieri del vuoto, il nomadismo nel moderno orizzonte urbano, Milano, Mimesis.

Tessiture


Jullien, F. De l’universel, de l’uniforme, du commun et du dialogue entre les cultures Paris, Fayard, 2008, pp. 265, € 18,00.

Kahn, A., Godin, C. L’Homme, le bien, le mal. Une morale sans transcendance Paris, Édition Stock, 2008, pp. 398, € 21,50.

Maffesoli, M. Le réenchantement du monde. Une éthique pour notre temps Paris, La table rond, 2007, pp. 206, € 18,00.

Baudrillard, J. La società dei consumi Bologna, il Mulino, 2008 (n.e.), pp. 264, € 15,00. Mentre per i tipi di Laterza esce in Italia Parlare senza parole. Logos e Tao, che prosegue la fortunata serie di libri con cui Jullien ci avvicina da anni al pensiero cine-

se, a gennaio, nelle librerie parigine svettava un altro suo libro non ancora tradotto sul vis-à-vis delle culture in questo primo decennio del millennio. Jullien non ama girare troppo attorno alle sue tesi e il giudizio è netto fin dalle prime pagine: l’Occidente ha perso l’autorità culturale per legittimare una sua sovranità sul mondo. La situazione, così come oggi si presenta alla ricerca sociale, si caratterizza infatti per una omologazione dei modi di vita, di produzione, di consumo, e la mediatizzazione minaccia di annullare ogni diversità culturale. Anziché smorzarsi, i conflitti si sono acuiti, guadagnando semmai in virulenza. Proprio per questo, nonostante tutto, la necessità di un dialogo tra le culture non ha alternative: esso rimane per Jullien occasione di contaminazioni, influenze, ma anche di torsioni, dissidenze, resistenze. Le condizioni di un vero dialogo tuttavia sono ancora lontane. Caduti alcuni indicatori di riferimento: un’etica pubblica e il principio di responsabilità nei confronti del terzo escluso, il dialogo è un luogo di rimessa più che di opportunità; una necessità e una convenienza a difesa delle residue identità che marcano le differenze. Nonostante le buone intenzioni dei proponenti, quando queste vi siano, esso resta una costruzione intellettuale poco credibile. Il carattere troppo ideologicamente corretto insieme a un certo difetto di funzionamento lo hanno perciò condannato al disinteresse pubblico. Nella dimensione politica esso non è più neppure un metodo di lavoro.


La pluralità delle culture, il cui esame occupa l’ultima parte di questo denso lavoro, andrebbe perciò accolto non come occasione per marcare quelle differenze che provocano tensioni e conflitti, bensì come opportunità di inventariare le altre risorse che l’intera umanità ha a disposizione per risolvere i conflitti, e che non riesce ad attivare per paura, o per convenienza a gestire la paura per un nuovo potere fondato sulla sorveglianza dei corpi. L’invito è a compiere un decisivo passaggio da una sterile difesa dell’identità culturale resistendo alle illusorie sicurezze dell’uniforme. Un dia-logos delle culture non avrà forza se non farà uscire quell’oltre del dia greco dalle secche dell’intelligibile (logos). Se riusciremo a fare a meno dell’universalità, conclude l’Autore, si produrranno nuove condizioni di autoriflessione dell’umanità sulle risorse dell’umano. Un’altra novità che svettava nelle librerie parigine nei primi mesi di questo 2008 è il denso dialogo che si dipana per circa quattrocento pagine tra un biologo genetista (Axel Kahn) e un filosofo (Christian Godin). Confesso di aver avuto una certa soggezione e qualche incertezza nello sfogliare il volume (si compra/non si compra?) ma alla fine, dopo averlo un po’ spiluccato, la decisione è venuta da sé: merito anche del buon marketing dell’editore Stock, che in quarta di copertina rovescia il noto “se Dio è morto, tutto è permesso”, espressione che Dostoevskij fa recitare a uno dei suoi personaggi, in un “se Dio è morto, non tutto è consentito”. Non abbiamo bisogno di un dio, né di una morale, è la tesi di questo lungo dialogare tra i due. Soprattutto non ne abbiamo bisogno per elaborare le regole del vivere insieme. Tesi non del tutto nuova, ma nuovo è senz’altro l’approccio dei dialoganti: un lento avvicinamento della filosofia alle scienze umane, all’etnologia, alle neuroscienze può favorire la ricerca di una Morale senza trascendenza? L’essenza di una morale senza trascendenza percorre tutte le grandi domande dove è necessario e urgente una visione chiara per agire in modo “ragionevole e umano”, aggettivi a

cui sembra affezionato Axel Kahn. Morale dice in latino ciò che Etica diceva per i greci. Si deve, com’è noto, a Cicerone l’arrangiamento dell’ethos greco, che stava a indicare costumi e regole di comportamento interne dei diversi gruppi sociali. Eppure se assumessimo la lezione degli analitici anglosassoni, per cui una parola assume il significato che l’uso le assegna, tra etica e morale si determinerebbe un divorzio insanabile. È curioso constatare che nella presentazione anglosassone della filosofia utilitarista, l’etica è una nozione generalizzata (non strettamente filosofica) della deontologia, la quale fissa doveri particolari di particolari gruppi professionali che si esprimono sotto forma di codici di condotta riconosciuti come etici per l’esercizio di una determinata professione. L’etica utilitaristica perciò tende a presentarsi sotto forma di deontologia della società. La morale, afferma Kahn, null’altro può essere che un’etica universale, ed è l’uomo che la costruisce, facendo il bene e combattendo il male. Intanto che scienza del bene e del male, essa non può che corrispondere a un’etica universale. Ma un’etica è sempre in cammino, in quanto ricerca continua della via buona, della soluzione giusta. Ogni qualvolta si affrontano terreni nuovi e strade inesplorate, in particolare quelli a cui la scienza e la tecnica ci chiedono di dare risposte con l’incalzare delle scoperte scientifiche e del tumultuoso sviluppo delle tecnologie. Godin fa osservare che il divorzio dei termini è dato dal fatto che la morale ha una base religiosa e si fonda su principi immutabili che poggiano su un’autorità, rivelata o gestita da gerarchie e poteri esterni alla coscienza individuale, mentre l’etica rifiuta ogni interferenza con la propria libertà di autodeterminarsi liberamente, pur accettando come proprio orizzonte una regolazione prodotta secondo ragione. L’etica è sempre personale, mentre la morale si connota di interdizioni assolute e universali. L’etica è legata a comportamenti particolari e determinati, e ha la tendenza a rimpiazzare il bene con il buono, l’obbligo col sostenibile e l’interdizione con l’auspicabile. Essa insomma è una morale applicata. Ma se l’etica non è che una morale applicata al-

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ta, è tutt’altro che inclusivo: tende semmai all’espansione dell’esclusivo. Invece di aprire alla partecipazione, s’incarica di definirsi in forme di comunitarismo. Tessendo il filo della storia dell’Occidente europeo, Jullien vede il comune dispiegarsi con l’avvento dei primi borghi cittadini, fino a incontrare, nella dimensione cosmopolita che muove dalle città, l’esigenza di un universale. E tuttavia si tratta di un universale senza unità, dal momento che esso incontra due piani diversi: quello logico, con la conquista occidentale del concetto; quello giuridico, con l’istituzione della cittadinanza (civis romanus sum); quello religioso infine con la dissoluzione paolina di ogni discriminazione nell’economia della salvezza. Al di là dunque delle pretese della metafisica classica, il concetto di universale non rivela, si domanda Jullien, una debolezza e una caoticità ogni qualvolta pretenda di ridurre ad unum ambiti diversi tra loro; non è esso stesso portatore di una intrinseca caoticità? La conclusione dei capitoli IV-VII di questo saggio molto impegnativo è che il concetto di universale, tenendo insieme elementi tanto eterogenei tra loro, non costituisce che una chiave di volta ideologica, e i capitoli che seguono sono una dura requisitoria contro il sapere filosofico, incapace di uscire dalle proprie chiusure e di rompere l’ordine rassicurante delle proprie astrattezze. Jullien pone due precise domande: 1) In che misura le altre culture hanno sviluppato l’esigenza di un universale? 2) Vi sono davvero questioni d’emblée a priori e universali? Il non essere affatto sicuri di poter rispondere a queste domande costringe a rivedere la validità dell’universale e a concepirla più che altro come una forma di totalità satura. Conseguentemente, l’in-comune delle culture non potrà essere assunto né come denominatore, né come fondamento, ma solo come un intelligibile in continua modificazione. L’esempio più evidente viene dalla gestione politica dei diritti dell’uomo. L’Occidente non può pretendere di esportare i propri modelli come universalmente superiori proprio quando essi rovinano uno sull’altro come birilli. Non può insegnare agli altri come vivere proprio quando vanno in frantumi le sue sicurezze.

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Per superare questa empasse non possiamo che partire da una presa di coscienza del punto in cui siamo: ossia che l’unica forma di dialogo in funzione è quello che il nostro Bonfantini catalogava come funzionale. Così non ci resta che inventariare gli scarsi arnesi che abbiamo a disposizione per tentare altre strade oltre quella segnata da un vago umanesimo che sembra aver esaurito le proprie risorse di senso con l’avvento della debordiana società mediatica, sterminatrice di differenze, a vantaggio dell’uniforme. François Jullien affonda l’analisi sulle ragioni di uno scacco in cui si svolge il colloquio umano nella geopolitica del globo e rilancia la questione, proponendo una riflessione su tre metaconcetti: l’universale, l’uniforme, il comune. Concetti tra loro interconnessi e che a suo avviso costituiscono una base critica a cui ancorare un dibattito fruttuoso, capace di togliere il dialogo dalla sfera delle necessità e della convenienza per portarlo sul piano di un’etica della convivenza. Ancora una volta deve però valere l’invito al disimparare per riapprendere o – se si vuole – di decostruire per ricostruire, di ritrovare il significato più preciso di questa trinità concettuale, salvandola (e salvandoci) dai detriti alluvionali della doxa. Di quali nozioni disponiamo per pensare concettualmente il rapporto tra le culture? Il concetto di universale, derivato della teoria della conoscenza, non riesce più a nascondere una sua ambiguità di fondo. Serve a riconoscere una totalità, un a priori preliminare a tutte le esperienze, ma può ambire a costituire davvero una norma assoluta per tutta l’umanità? È evidente che non si può più credere alla trasparenza di questa nozione e alla neutralità del suo uso. A sua volta l’uniforme rivela un interesse non della ragione ma della produzione: la cui dittatura è tanto più insidiosa quanto più è discreta, presentandosi in forme persuasive e affidandosi alle insicurezze che dettano il bisogno di non differenziarsi, di seguire le mode dettate da quella che Baudrillard già nei primi anni Settanta aveva intravisto come società del consumo, analizzandone con lucidità i meccanismi. Il comune, a sua vol-


L’etica (anzi le etiche) cambia/no e la morale non c’è più. Su una tenue linea di confine che questa volta passa tra filosofia, sociologia e letteratura Maffesoli ci offre dal canto suo una riflessione sulla scomparsa di una Morale universale e l’avvento, di etiche particolari. Lontani oramai dalla Legge del Padre, la Morale, quella con la maiuscola, tenta di sopravvivere a se stessa moltiplicando gli sforzi di regolamentazione, avverte Maffesoli. Una rincorsa vana e

l’individuo a partire dall’“azione reciproca”, afferma Maffesoli, che qui discute da un’altra angolazione gli stessi temi affrontati da Jullien, Kahn e Godin, segno di una fecondo dibattito culturale nella Francia reincantata di Sarkozy. Ma nell’economia della salvezza giudaico-cristiana essa è divenuta una pratica contabile: una minuta precettistica che riduce il qualitativo in quantitativo. Da qui l’Io-quantum, la sottomissione delle cose al loro stesso marketing, la prevalenza del produttivismo e lo sviluppo delle società di consumo. Per cui tutte le cose vengono valutate su quell’imperativo (categorico) remotamente ispirato all’ingiunzione divina (Genesi, 3, 17) di una morale del lavoro che imposta la realizzazione dell’individuo sul dominio della natura (tema caro al nostro Ponzio, che lo ha illustrato nel seminario di preparazione a questo numero del Q.). Il cuore della “forma” morale universale sta nel dominio sull’altro, sull’oggetto da sottomettere all’uso umano indiscriminato. Da qui l’importanza che Maffesoli attribuisce all’immaginario, al ludico, all’onirico: cose che non si consumano solo nell’ordine della vita privata ma che agiscono sulla stessa sfera pubblica. Dal dialogo orientato all’ottenimento dunque, al dialogo per costruire una prospettiva. È questo il passaggio per il nuovo “réenchantement du monde” che Maffesoli ha il merito di aver proposto da qualche anno esaminando le etiche cool che fioriscono fra le tribù postmoderne. E che in questo libro (il penultimo, ancora alla ricerca di un editore italiano) egli ha magistralmente sistematizzato. È a lui che neppure tanto remotamente dobbiamo le riflessioni contenute in questo fascicolo del Q. Quanto poi a quella società del consumo, a cui egli fa riferimento, per una curiosa coincidenza, il discorso torna all’analisi dirompente di un Baudrillard datato, che la casa editrice bolognese il Mulino meritoriamente ripropone in una nuova edizione dell’omonimo libro del 1970 in cui il giovane autore, burrascoso amico di studi di Foucault, prendeva atto che il principio di simulazione aveva tolto la scena al vecchio,

freudiano, principio di realtà. Andando un po’ oltre il Debord della società “spettacolare”, egli dava impulso, con quello scritto, a una letteratura che ha portato fino in fondo la tesi dello sterminio dell’oggetto, a vantaggio delle sue rappresentazioni. Rileggere oggi quel libro e la sua impietosa analisi del sistema del consumo fa uno strano effetto, perché si tratta di un processo tuttora in corso con una prognosi infausta per i suoi esiti. Il Baudrillard di quegli anni, prima della svolta degli scritti sulla seduzione e sul sistema simbolico, non può che sorprendere il lettore per la sua lucidità, dal momento che c’è in quel libro un po’ di tutto quanto è poi accaduto nel quarantennio che ci separa dal Sessantotto e i suoi dintorni: la potenza di fuoco del potere segnico, nella pubblicità, nella moda, nella politica marketing. Con quel saggio insomma, Baudrillard si fece teorico del disincanto mediatico, fino a portarsi su posizioni luddiste: il rifiuto della comunicazione-spettacolo ne fece anzi un accanito protoapocalittico del sistema mediatico, responsabile dell’“intima morte delle cose” (e delle parole). Essendo i media lo sviluppo di ogni pratica segnica della società dei consumi, sosteneva Baudrillard, essi trasformano la stessa parola rivoluzionaria in spettacolo, depotenziandola e facendola morire. Questa fu la tesi che sostenne in quel lontano 1970. Liquidando il preconcetto umanistico di gran parte della cultura europea, francofortesi compresi, egli preconizzava analisi che per noi oggi sono scontate, ossia che i media di massa, la pubblicità, sono al di là del vero e del falso, come la moda è al di là del bello e del brutto, e l’oggetto moderno è al di là dell’utile e dell’inutile. Quell’opera fu tradotta in Italia dal Mulino sei anni dopo (1976), un anno prima di quel ’77 bolognese che costituì un pugno nello stomaco per quei partiti di massa che credevano nella centralità della produzione. Lo ha di recente ammesso la Rossanda nel suo volume di memorie La ragazza del secolo scorso, e anche Scalfari, nel più recente L’uomo che non credeva in Dio, che più avanti recensisce Valentina Murrieri. Baudrillard poneva un problema a tutto il

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forse inutile, contro il fiorire di comportamenti individuali che aspirano alla dignità di etiche di persone e gruppi associati che si propongono come legge a se stessi. Contro la loi du père (che rimane un pallido ricordo del passato) hanno congiurato nell’ultimo quarantennio le etiche parziali: per dimostrare questa sua tesi, Maffesoli parte dall’invisibile, nozione centrale a partire dalla quale si organizzano le cose umane, rivendicando una centralità del sotterraneo (Hypo) e dell’invisibile. Si tratterebbe perciò di accingersi a un lavoro sul campo per decriptare l’effervescenza dei fenomeni che stanno sotto la pelle del visibile. Da quest’assunto l’Autore fa discendere la necessità di una eterologia, ossia di un sapere del molteplice, capace di restituirci la ricchezza del vivente (Hegel, del resto, pensava che “tutto ciò che conosciamo, non è veramente conosciuto”). In effetti le idee che governano il mondo, l’immaginario, la sua potenza fecondatrice, restano enigmatici. Ma è proprio il paradosso, l’in-definito, le zone d’ombra dell’incerto, che costituiscono il terreno di una nuova sfida epistemica. Il termine épistéme significa “veder chiaro dentro ciò che è ancora oscuro fuori”: la leva metodologica di Archimede che consente di sapere ciò che non dimora in un senso definito e compiuto, ma che obbedisce a specificità locali che hanno radici profonde. Da Hegel a Simmel, riferimento quest’ultimo di fecondi paradossi per Maffesoli, che porta in scena la labilità vitale del produrre forme e superarle, o anche distruggerle. La forma, spiega, si costituisce attraverso il costume, l’organizzazione, le istituzioni, ma il destino di ogni forma è quello di svilupparsi superando e distruggendo ciò da cui ha avuto origine. Una insperata e necessitata dialogicità tra la parte destruens e quella parte construens di ciascun’epoca storica e, all’interno di essa, di ogni passaggio generazionale. Distruzione e costruzione vanno di pari passo, e l’arte del sapere si trasforma in un’arte del saper vivere. La morale elaborata a partire dal XVIII secolo si presenta con i caratteri dell’universale; è ingiuntiva, e ha pretese di applicabilità dovunque: è una “forma” generata da quella che Simmel definiva la coesistenza del-

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la vita reale, controbatte Kahn, una ricerca della via buona non può fare a meno di un’ingiunzione morale. Una riflessione sul metodo conduce a quella sui principi che fanno necessariamente riferimento alla morale. Kahn deve ammettere le ragioni di un discredito che gioca a svantaggio di una morale universale, anzi, dello stesso termine “morale”. E le ragioni stanno nella sua dimensione prescrittiva e repressiva, mentre la nozione del bene e del male non sono, in quanto oggetto di scienza, prescrittivi di per sé, né richiedono un’adesione senza convinzione. Un’etica della convinzione ci rende più responsabili nei confronti dell’habitat naturale e della specie. L’atto più personale, quello che mi investe in quanto natura individuo pensante e volitivo, è inclusivo di altri, di tutti gli altri, dal momento che quando agisco sulla base delle mie convinzioni entro in una situazione che trascende me stesso. Impossibile dar conto qui delle infinite applicazioni di questa posizione su cui a lungo discutono i due dialoganti affrontando molti dei temi presenti nella riflessione di Rodotà in questo stesso Q.: desacralizzazione del corpo; eugenetica, clonazione, sessualità, malattia, eutanasia. In una parola, la dignità dell’uomo dinanzi al mistero della vita e della morte. Per quanto siano ben rintracciabili le reciproche matrici culturali, i due interlocutori affrontano le questioni tenendo ben presenti le loro interferenze filosofiche e le molteplici sfide poste dallo sviluppo della biologia molecolare, delle nanotecnologie, e dallo sviluppo impetuoso delle tecnologie.


Angelo Semeraro

Ronchi, R. Filosofia della comunicazione Torino, Bollati Boringhieri, 2008, pp. 235, € 18,00. Siamo di fronte a un testo di una certa audacia speculativa, il cui autore, docente di Filosofia Teoretica all’Università di L’Aquila, di formazione fenomenologica e con interessi semiologici, non dissimula un approccio analitico caratterizzato dai più algidi strumenti che l’ermeneutica novecentesca ha registrato. Un impianto narrativo che non nasconde gli influssi delle profondità linguistiche di Lévinas e del secondo Heidegger, da una parte, e le suggestioni testuali di Barthes e Jakobson, dall’altra. Ronchi costruisce tutto l’impianto della sua complessa proposta teoretica attorno a una lettura del concetto di comunicazione rispettivamente come metafisica, come fisica e come pragmatica; e questa triplice interpretazione viene tessuta attraverso una originale e (al tempo stesso) eterogenea rilettura di alcuni dei capisaldi del pensiero occidentale. Capita, allora, di vedere avvicinate speculazioni filosofiche a tutta prima incompatibili o, almeno, molto lontane teoreticamente: dal Parmenide di Platone alla metafisica della durata di Bergson; dalla teologia di Cusano alla linguistica di Jakobson e Bachtin; dall’attualismo di Gentile alle profondità infernali di Bataille. L’incedere del volume è tutto caratterizzato dal forte uso di un etimologismo caro a una certa impostazione neo-ermeneutica di matrice tedesca. Tale elemento arricchisce di suggestioni l’idea portante del lavoro, che, pertanto, appare in tutta la sua evidenza nell’ultima parte del testo: Ronchi si chiede come la verità possa “comunicarsi” senza compromettere la sua natura e, per

altri versi, come il sapere umano possa sottrarsi alla paralizzante alternativa dell’assoluto e del relativo. Risulta chiaro, dunque, a dispetto del titolo del libro, che farebbe pensare a una sorta di manuale sul rapporto tra la filosofia e la comunicazione (come accade per settori disciplinari quali la Sociologia della comunicazione, la Pedagogia della comunicazione, la Psicologia della comunicazione), che Filosofia della comunicazione rappresenta, invece, uno sforzo analitico prettamente filosofico. Il genitivo sulla comunicazione costituisce, quindi, la precisa accezione verso la quale l’ermeneutica di Ronchi dirige il suo sguardo e la sua riflessione. Si tratta perciò di un testo fondamentalmente epistemologico: quali possono essere le condizioni entro le quali la filosofia come comunicazione può ambire a essere legittimata? Ponendo in atto una pregnante caratterizzazione metafisica (e attraverso rodati topoi della filosofia classica, quali i concetti di dynamis, enérgheia, ón, koinonìas), Ronchi parte dall’assunto secondo il quale comunicazione significa rivelazione. Nel linguaggio delle religioni monoteiste, la filosofia presuppone un dio che si rivela, che si comunica a un popolo. Ogni tipo di conoscenza, dunque, presupporrebbe un atto di comunicazione e di rivelazione (e dunque di bontà) che rende la stessa filosofia un processo mai concluso di graduale avvicinamento al vero. Il soggetto principale di questa ricerca, risulta allora il concetto di gnosi, sul quale l’Autore costruisce una definizione di quasi paradossale “rovescio della filosofia” (facendo flirtare concetti deleuziani e lacaniani con influenze scolastiche e patristiche). Altri punti d’interesse di Filosofia della comunicazione sono rappresentati dai più che condivisibili e oramai consolidati elementi di critica contro la comunicazione veicolare del modello matematico di Shannon e Weaver e dal classico modello antropologico del dono riferito alla comunicazione (communis/communitas). Quest’ultimo viene radicalizzato con un’interessante flessione verso la filosofia di Emmanuel Lévinas (cfr. il concetto di intrigo etico), attraverso la cui lezione il dono comunicativo viene

designato quale vera e propria responsabilità ontologica. Nella terza parte del lavoro (quella sulla “pragmatica della comunicazione”), le profonde analisi di Ronchi si evolvono in un’ulteriore problematizzazione che tenta di risolvere il rapporto sempre complesso e accattivante tra la filosofia teoretica tout court e le derive cromaticamente più incisive del poststrutturalismo linguistico francese e dei suoi possibili influssi levinasiani. La comunicazione, allora, diviene “comunione fatica”; la parola diviene “parola altra” (debito riconosciuto nei confronti di Massimo Recalcati, guru del lacanismo italiano); il tra dei soggetti comunicanti appare indissolubilmente legato all’evento del senso. Tutta una gamma di possibili suggestioni semiotico-linguistiche che, tuttavia, si arricchisce sempre di contributi inaspettati, come quello finale di Matte-Blanco (l’inconscio freudiano come “insieme infinito”). Un libro, insomma, che non mancherà di stupire per soluzioni speculative e per eclettismo di contributi bibliografici. Mimmo Pesare

Telfner, U. Le forme dell’addio Roma, Castelvecchi, 2007, pp. 319, € 16,00. Diciamo subito che questo libro ha un sottotitolo che porterebbe quasi immediatamente a pensare si tratti dell’ennesimo saggio da ombrellone sui casi dell’amore. Sotto il più enigmatico Le forme dell’addio, leggiamo infatti Effetti collaterali dell’amore (locuzione che rimanderebbe alla premiata ditta Crepet-Alberoni). Del resto, si hanno più elementi per scommettere sulla lettura di questo libro: il titolo, stimolante; il sottotitolo, molto meno stimolante; una bella copertina fondo bianco su cui campeggia, minimalista, un doppio picciolo di ciliegia con un solo frutto invece che due; infine il nome dell’autrice, psicoterapeuta e docente a La Sapienza, che per Castelvecchi ha già

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cantamento dell’oggi, che chi vive tra i giovani nelle aule universitarie avverte forse più acutamente.

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movimento politico di quegli anni, spiegando che il sistema di consumo “non è fondato sul bisogno e sul godimento bensì su un codice di segni (di oggetti/segni) e di differenze”; che bisogni e godimenti individuali non sono che “effetti di parola”. Portava così alle estreme conseguenze ciò che aveva già scritto in Le system des object, un libro del Sessantotto che già nel titolo gridava il suo messaggio: “tutto è sistema, codice, segni”. Con Baudrillard insomma, divenuto il teorico della società post-politica, lo strutturalismo scendeva nelle piazze, diventando un movimento post-politico. Entravano nelle università gli studi di Lévy-Strauss sulla struttura della parentela e lo scambio delle donne-segno, di Barthes sul sistema-moda e, prima ancora di loro, di Jacobson e della Scuola di Praga. Mi ha richiamato l’analisi di Baudrillard in quel suo scritto di trentotto anni fa, non solo una bella recensione di Belpoliti (L’onda corta dei simulacri, «Alias», suppl. a «il manifesto», n. 29 del 19 luglio 2008, p. 23), ma più ancora il saggio molto denso di Ortoleva pubblicato in questo stesso Q. Anche Ortoleva parte dalla scissione “radicale” tra universo dei simboli e universo delle cose; di incantesimo dissolto, di nostalgia della scomparsa. Un’onda lunga che parte dal Benjamin dell’Angelus novus, che già decretava la fine del mistero delle cose. Ortoleva anzi lo retrodata a Schiller (il triste disincanto del risveglio) e a Weber che ci trasmise una concettualizzazione del “vuoto” che prendeva il posto dell’“incantesimo dissolto”. Peppino Ortoleva afferma che quella radicale scissione tra i due universi dei simboli e delle cose trova una sorta di compensazione in questo re-incantamento “morbido”, continuo e pervasivo, che si esprime oggi nelle narrazioni, nella fiction, nella pubblicità. Un processo tuttora in corso, ma già intravisto in quell’altro libro cult di Baudrillard, Per una critica dell’economia politica del segno, in cui egli preconizzava il consumo come stadio in cui la merce è immediatamente prodotta come valore segno, e i segni (la cultura) come merce. Cultura come merce. E con questo viatico ci accompagnava al profondo disin-


libro fresco e intelligente sulla sperequazione, spesso ai limiti del gap, esistente tra strutture ancestrali e imperiture della psiche umana e, invece, la mutevolezza dei paradigmi sociali e relazionali che il tempo presente inchioda a una cornice di assoluta mancanza di definizioni. Mimmo Pesare

Sola, G. Heidegger e la Pedagogia Genova, il melangolo, 2008, pp. 199, € 16,00. La Pedagogia è uno dei saperi fondamentali delle scienze umane, uno scibile storiografico, o semplicemente un insegnamento accademico confortevolmente arroccato all’interno di rassicuranti Settori-ScientificoDisciplinari? Negli ultimi anni, questi interrogativi sono tornati e rappresentano una domanda metodologica sorretta del tutto legittima. In Italia, la ricerca pedagogica post-gentiliana, post-marxista, post-moderna, infatti, sembra essere nel bel mezzo di un punto di stallo dal quale, dopo i fasti accademici dei decenni passati, ripropone i suoi tratti teoretici classici come “storia della Pedagogia” o come ricerca sperimentale che spesso, più che fare i conti con il Grund disciplinare, propone saggi su “condotte pedagogiche” spesso vacui o estremamente parcellizzati nella struttura e nella corroborazione scientifica. Questa storica costola del sapere umanistico, alla quale per decenni si è richiesto di “drizzare le schiene” delle nuove generazioni, sembra essere giunta a identificarsi con un “sapere museale”, tanto per usare una incisiva definizione di Gaston Bachelard. Esiste, tuttavia, una serie di indirizzi scientifici che si misurano con l’attualità di tale sapere (per esempio nelle discipline della comunicazione o delle arti) e con la volontà di continuare e rafforzare un vettore della ricerca che non può dirsi mai compiuto,

proprio per il fatto di essere restituzione speculare dell’umano e di ciò che ne rappresenta la sua evenemenzialità. Tra questi sforzi virtuosi del panorama italiano, merita menzione l’indirizzo scientifico di chi ha tentato di tracciare un’analisi teoretica della Pedagogia, verificando sempre in maniera “ulteriore” il suo statuto epistemologico e legittimando nuove ipotesi di ricerca nelle sue radici più propriamente filosofiche. All’interno di tale indirizzo, reso fertile in Italia dalla riflessione di Alberto Granese, si colloca il saggio di Giancarla Sola, che ripropone il percorso già consolidato di un ripensamento critico dell’epistemologia pedagogica, iniziato con volumi quali Umbildung. La “trasformazione” nella formazione dell’uomo (Bompiani, 2003) e Epistemologia pedagogica. Il dibattito contemporaneo in Italia (a cura di, Bompiani, 2002). Oggetto specifico, come chiaro sin dal titolo del volume, è il contributo della produzione heideggeriana alla fondazione teoretica della Pedagogia, tema ad alto gradiente di complessità filosofica, al quale anche i numeri scorsi del Quaderno hanno dedicato interesse e spazio. Il lavoro della Sola ha il merito di costituire un sguardo trasversale sull’opera di Heidegger al fine di dimostrare come non sia necessario stilare una analisi esclusivamente euristica sugli scritti in cui il maestro di Messkirch avrebbe accennato a tematiche “direttamente” pedagogiche quali il rapporto tra la paideia greca e la Bildung tedesca (in La dottrina platonica della verità e in Dell’essenza della verità) o l’educazione estetica (in Lettere sull’“educazione estetica” di Schiller). L’Autrice individua nel panorama complessivo dei Denkenwege heideggeriani, una serie di concetti fondamentali per risemantizzare il quadro delle prospettive epistemologiche dell’educazione e della formazione, intese come problematiche del pensiero contemporaneo, più che come semplici “buone prassi”. Dunque la filosofia heideggeriana, sebbene non abbia mai esplicitamente trattato temi pedagogici tout court, costituisce un bacino di riflessione ricchissimo assolutamente utile alla Pedagogia e alle sue domande fon-

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menti di scrittura: nelle (poche) storie di vita che corroborano la teoria proposta, compaiono improvvisamente ma fruttuosamente, accanto alle normotipiche palinodie della coppia etero, anche storie di amori omosessuali, di famiglie allargate, di forme familiari non convenzionali e non necessariamente facenti riferimento alla coppiasposata-con-figli. Poi ci sono utili strumenti bibliografici complementari, come l’indice della “letteratura sul disamore”, divisa per romanzi, racconti, film e (addirittura) canzoni. Ma soprattutto questa vis laica che permea le pagine di Le forme dell’addio, ha la sua più significativa interfaccia nella filosofia di fondo che l’autrice, in maniera sempre garbata ed elegante, propone con forma di rispettosa “pedagogia del distacco sentimentale”. L’autrice si chiede: “perché ci si lascia?” e “cosa si deve fare se ci si lascia?”, ma la risposta non deve necessariamente essere conciliante rispetto alla ricostruzione del mito dell’ermafrodito platonico; ci si lascia perché il desiderio finisce e l’heideggeriano abbandono-Gelassenheit risulta l’unico atteggiamento che sia coerente con la finitezza dell’uomo e con il rispetto del suo desiderio. A pag. 274 del testo si legge un brano che sembra essere la scrematura di tutto il lavoro della Telfener: “dovremmo liberarci – tutti quanti – da una pretesa che ci rende solamente infelici e ci condiziona da millenni: che l’amore sia salvifico, fantastico e per sempre. (...) Viviamo nell’epoca del cambiamento, il contesto risulta però ancora conservatore e sembra guidato da regole fisse, da idee difficili a morire”. E giù con l’elenco di alcuni degli stereotipi/tabù sui rapporti d’amore, analizzati in altrettanti acribici paragrafi: “credere che l’amore salvi la vita, credere che l’amore sia per sempre, credere che l’amore sia ‘fusione’, credere che esista una sola forma di rapporto, quello monogamico, credere che sesso e amore coincidano, credere che l’amore sia ordine, certezza e armonia”; solo per citarne alcuni. Un libro che di consolatorio ha poco, dunque, un libro sul disincanto nelle relazioni che il tempo spegne senza che sia ben visibile una qualche causa razionale. Ma è un

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pubblicato un testo tanto agile quanto fortunato (Ho sposato un narciso, 2006), ma che vanta una ricca produzione saggistica (per i tipi, tra gli altri, di Bollati Boringhieri). Usando probabilmente le “scorciatoie delle sinapsi”, chi scrive si è lasciato sedurre dalla ciliegia prima, e dall’indice poi, ma soprattutto da una telegrafica recensione sul domenicale de «Il Sole 24 Ore». Ebbene, credo si tratti di un esempio virtuoso di come sia possibile coniugare la ricerca teorica che sta alla base di ogni opera saggistica, a una scrittura che attraversa temi universali dell’esistenza umana in maniera assolutamente brillante e allo stesso tempo comprensibile non solo agli esperti di modelli psicodinamici. Le forme dell’addio è fondamentalmente un’analisi sul fenomeno dell’abbandono, non solo e non necessariamente dal punto di vista amoroso della coppia – sebbene questa dimensione sia la più direttamente osservabile – ma come meta-condizione della psiche e delle pieghe emotive di essa. L’abbandono, allora, fuori dalle secche neghittose dei rotocalchi di psicologia femminile da edicola, viene analizzato come fenomeno che appartiene ai momenti di transizione dell’umanità occidentale, passando poi a esplicitarne le strutture antropologiche ed epistemologiche e le relative ricadute sulla collettività e sulle relazioni sociali e infine fornendo una legittimazione psicodinamica che, naturalmente, affonda le proprie radici in autori come Balint, Bowlby, Laing. Le oltre trecento pagine di questo volume sono sempre attraversate da una armonia tra la narrazione di casi clinici e l’esplicazione scientifica, tale da toccare le corde emotive dei lettori su un tema che, in attivo o in passivo, appartiene agli archetipi dell’immaginario umano. Ma la Telfener fa di più. Questo saggio è sorretto, fondamentalmente, da una bella spinta di laicità scientifica, da un disincanto sullo scottante tabù del disamore che libera la mente degli stereotipi sulla coppia e costituisce un valido esercizio di analisi e affrancamento dalle pesantezze platonico-religiose sulla pervasività dell’amore. Innanzitutto con stru-


Mimmo Pesare

Maragliano, R. Parlare le immagini Milano, Apogeo, 2008, pp. 182, € 14,00. Per parlare le immagini, sostiene Maragliano, bisogna lasciare il territorio delle certezze pedagogiche e frequentare dal di dentro lo spazio inquietante delle stesse. Uno spazio inquietante perché in

grado di distruggere le cornici e mettere naturalmente in connessione mondo interiore e mondo esteriore, animando l’immaginario individuale e collettivo. Non a caso, a dividere il volume in due parti c’è una raccolta di immagini, scelte secondo il gusto e la sensibilità personale dell’autore: Oriente e Occidente, arte e consumo, manuale, analogico e digitale, la copertina di un giornale popolare, una tavola tratta dalla Principessa Mononoke di Hayao Miyazaki, un’illustrazione di Tom Sawyer, un’immagine tratta da Second Life, un quadro di Picasso e uno di Leger, alcune figurine di animali. È come se queste immagini funzionassero come una immediata dichiarazione di intenti: natura diversa, molteplicità, accostate l’una accanto all’altra, frammenti singoli e in relazione tra loro che parlano e interagiscono con il nostro singolo sguardo raccontando storie completamente differenti, e in soggettiva – l’esperienza dell’autore prima di tutto –, perché parlare le immagini è quasi come far parlare noi stessi. Roberto Maragliano, pedagogista particolarmente attento alle trasformazioni antropologiche dell’uomo digitale, nel suo ultimo saggio sgombra immediatamente il campo da qualsiasi illusione di poter vedere chiaro nelle immagini. Nessuna risposta chiusa e, in tempi di iconofobia e iconoclastia diffusa, il suo aperto schierarsi dalla parte delle immagini prova invece a cercare di spiegare come operino dentro ognuno di noi. Il libro è deliberatamente incompleto, o aperto alla produzione dell’altro, uno strumento di innesco – piuttosto che un manuale prescrittivo – alle tattiche del pensare, e apprendere, collettivamente. Costruito in due parti che si alternano in successione, ogni capitolo è scandito dai “ragionamenti” impostati dall’autore e da una serie di “attraversamenti” transdisciplinari, un’antologia di autori anche molto diversi tra loro, che rimandano alla filosofia e all’antropologia, alla pedagogia alla letteratura, alla sociologia o alla mediologia, una costellazione ricca che rende conto della genealogia culturale dell’autore, e che offre un ritorno frequente alle riflessioni di Georges Didi-

Huberman da una parte e di Bolter e Grusin dall’altro. Le immagini, ovviamente, non sollecitano la sola visione, e basta tener conto di questo con Didi-Huberman per ampliare i punti di vista. Dopo lo sguardo – spiega il francese –, le immagini “sollecitano anche il sapere, la memoria, il desiderio e la loro capacità, sempre disponibile, di intensificazione. Ed è come dire che esse implicano la totalità del soggetto, sensoriale, psichico e sociale”. Per sgombrare il campo da qualsiasi equivoco, Maragliano intanto chiarisce che qualsiasi immagine è sempre frutto di una costruzione. “Le immagini sono realtà, sono elementi – fondamentali – attraverso i quali noi costruiamo e usiamo realtà”. Qualsiasi ragionamento non può che dare per acquisito questo dato. Sullo sfondo una storia dell’educazione che, nei confronti dello sguardo, oscilla tra vigilanza e repressione, quindi una partita che invita a scardinare possibilità e capacità di controllo e governo della pedagogia, “verbocentrica e astrattamente scrittoria”. Insomma le immagini non possono essere governate dal verbale, dalle istituzioni-cornice che governano le pratiche dell’educazione formale per arginare la potenza delle sensazioni, di cui l’occhio umano è immediato conduttore. Per navigare il mondo conturbante delle immagini forando filtraggi e censure della pratica educativa – “la prospettiva occhiocentrica”, scrive Maragliano –, l’autore utilizza una serie di concetti giocandoli fluidamente e dialetticamente tra loro: esterno e interno, statico e dinamico, dentro e fuori, consumo e arte. La pratica pervasiva e invasiva che coinvolge la totalità del soggetto e si rinnova e reiventa nella rimediazione digitale, è tattile ed emotiva, costruisce un rapporto diretto con le immagini, giocato su immediatezza, partecipazione, apertura, e rispondente alle prerogative di una comunicazione-riflessione visiva ritmata sul circolo immersione, astrazione, immersione che fa saltare i giochi. Quest’immagine partecipata, vissuta, frattura qualsiasi logica binaria legata alla tradizione dicotomica apocalittici-integrati.

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dai banali riduzionismi; 2) sgomberare la ricerca pedagogica da imbarazzanti fraintendimenti; 3) infine, procedere a una più accurata e rigorosa critica pedagogica. Ai tre luoghi heideggeriani della decostruzione pedagogica seguirebbe, nella proposta dell’Autrice, la sua ricostruzione attraverso la categoria della originarietà (Ursprünglichkeit): il tratto distintivo di un pensare che “non conosce provincialismi gnoseologici”, liberando l’educazione dalle massificazioni mediatiche, dalle stereotipie e dai luoghi comuni del “si pensa”. L’originarietà, alla luce di questa lettura, si identificherebbe allora con la stessa condizione di scientificità dell’epistemologia pedagogica, e con la sua flessione di UrBildung, ossia di formazione originaria, l’atto del formarsi in ragione della propria originarietà e lontano da ogni pratica di conformazione. Attraverso tali contributi filosofici, insomma, la Pedagogia ha la possibilità di reinterpretarsi quale scienza il cui compito è innanzitutto una educazione al pensiero libero, senza mai rinunciare alla legittimazione teoretica di tale libertà. Heidegger e la Pedagogia, pertanto, nel mostrare come i concetti di matrice pedagogica del filosofo non siano occasionali né epifenomenici e nel tentativo di risemantizzarne lo statuto epistemologico, restituisce a una disciplina in forte ricerca di rinnovamento teorico, una ventata di intelligenti spunti teorici e un discorso scientifico chiaro e stimolante.

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damentali. Non potrebbe essere altrimenti, se, come ricorda la Sola, per Heidegger l’uomo è, fondamentalmente, un “formatore di mondo” (weltbindend ), quel mondo – come si legge nei Grundbegriffe – nel quale viviamo e che ci annoia, ma nei confronti del quale riusciamo a instaurare, attraverso la nostra capacità di pensare, rapporti fondamentali coi suoi enti. Nella lezione di Heidegger la peculiarità dell’uomo tra gli altri enti, la sua stessa essenza (Wesen) com’è noto, è quella di interrogarsi intorno a se stesso, dandosene un’immagine e quindi “formando” la propria rappresentazione ontologica nel mondo al quale co-appartiene. Ebbene, l’uomo, in quanto formatore-di-mondo, è innanzitutto soggetto della propria formazione, con la conseguenza che studiare l’uomo significa, ante litteram, studiare le problematiche connesse ad essa. In questo senso, come bene dimostra la Sola, all’interno della “costellazione delle idee” heideggeriane, emerge un “emisfero pedagogico” la cui portata euristica è tutt’altro che implicita o indiretta, benché essa non rappresenti il centro apparente della speculazione del filosofo tedesco. E allora, oltre ai chiari riferimenti pedagogici già individuati nei temi heideggeriani della Bildung e della Cura, l’Autrice propone una serie di elementi filosofici che corroborano la sua tesi: innanzitutto la contrapposizione heideggeriana tra i termini tedeschi Mann (l’uomo) e Man (il pronome impersonale Si ). Il primo è il soggetto autentico, il secondo è l’elemento di inautenticità che trasforma l’uomo in massa (“si dice”, “si fa”, “si crede”): “in questa contrapposizione antinomica tra Mann e Man, la pedagogia può reinterpretare la sua idea di uomo, di quel soggetto che si forma e si trasforma nell’autenticità e nell’originarietà di se stesso, distinguendolo dall’individuo che si conforma e si deforma nell’inautenticità” (p. 148). In questo senso la Pedagogia dovrebbe decostruirsi attraverso l’analisi dei “tre luoghi heideggeriani” dell’essere-nel-mondo, della cura e dell’essere-per-la-morte, per il semplice fatto che essi ne rivoluzionerebbero la stessa struttura epistemologica, consentendo di: 1) epurare il discorso pedagogico


L’immagine “artistica” intesa da Maragliano non è quella intesa dalla tradizione estetica e istituzionale occidentale, è piuttosto un’immagine che alimenta il libero gioco dell’intera immaginazione, un’immagine che alimenta il rapporto produttivo e creativo tra esterno e interno, contribuendo alla formazione dell’immaginario, è un’immagine che muove sempre, stabilendo connessioni tra indeterminato e determinato, è un’immagine che aspira senza riuscirci a diventare “l’equivalente esteriore della ricchezza infinita dell’immagine interna”. L’esperienza performativa dell’immagine esplorata da Maragliano produce inquietudine e irrequietezza, stabilisce continue reazioni tra il suo farsi esteriore e interiore, ma è quella in grado di far maturare un discorso di consapevolezza sui meccanismi mediante i quali facciamo esperienza del mondo. Giovanni Fiorentino

Formenti, C. Cybersoviet. Utopie postdemocratiche e nuovi media Milano, Raffaello Cortina, 2008, pp. 279, € 23,00. Ci sono tesi che ritornano. Altre che s’abbandonano. E poi ci sono letture, interpretazioni e sguardi, che mutano. C’è tutto

La politica, in particolare gli effetti delle nuove tecnologie sull’evoluzione dei sistemi democratici, tornano dunque al centro di un lavoro che ha il merito di ripercorrere criticamente il meglio della speculazione teorica attorno alla rete, mettendo a confronto tendenze interpretative le più disparate. Teorie neoliberali, teorici della moltitudine, anarcocapitalisti, esponenti del pensiero critico, neomarxisti, teorie del post-colonialismo, teorici della seconda modernità, informazionalismo, mediologie post-moderniste, dialogano con la penna di Formenti, che li restituisce al lettore, letteralmente, smontati. Analiticamente descritti, lucidamente discussi e criticamente comparati, nei rispettivi punti di contatto e nelle reciproche distorsioni prospettiche. Muovendosi tra approcci disciplinari molteplici (dalla mediologia alla filosofia, dal pensiero politico alla sociologia) Formenti dimostra le sue tesi con un incedere rigoroso, capace di tracciare un percorso lineare di là dalla densità concettuale e semantica degli argomenti che affronta. È attento nel sorreggere costantemente il lettore nella tenuta della comprensione, ricorrendo a richiami, riepiloghi a un corteggio di interrogativi che trovano, distribuiti nelle quattro parti in cui è organizzato l’indice del testo, puntualmente risposta. Non manca, in Cybersoviet, quello stile critico nei confronti di certe vulgate ideologiche che impastano determinismo tecnologico, libertarismo velleitario e neoliberismo, e che giustificano la decisa presa di distanza dai facili tecno-entusiasmi di certi profeti del Web 2.0 (parte IV). Torna, inoltre, la capacità innovativa e interlocutoria verso il pensiero critico di ispirazione marxiana. Che questa volta si spinge sino all’interessante tentativo di rilettura delle esperienze storiche di democrazia diretta: dai soviet russi, ai consigli tedeschi, sino agli esperimenti di auto-organizzazione politica nelle fabbriche e nelle università d’Italia nel suo decennio di lotte sociali, messe a confronto (nella parte III) con le utopie cyberdemocratiche (Levy, Berardi, Lovink, de Kerckhove). Non muta, infine, l’idea sulla necessità di sviluppare una cultura del conflitto che

abbandoni le illusioni in merito all’esistenza di un soggetto unitario capace di appropriarsene; rispetto alla quale, in chiusura, Formenti sembrerebbe quasi contraddirsi, nell’affidare il dischiudersi di “nuovi orizzonti di speranza” all’assunzione di consapevolezza da parte dei knowledge workers dei propri “interessi di classe”, unitamente a un ridimensionamento dell’ideologia neoliberale. Permane, in modo indiscusso, l’“antica” tesi secondo cui la direzione dello sviluppo tecnologico e scientifico sia profondamente influenzata dalla forma e dal contenuto che il conflitto sociale assume in una determinata fase storica. È a tali forme e contenuti che Formenti ascrive il “forse non ancora” delle considerazioni conclusive. Valentina Donno

Musso, P. L’ideologia delle reti Milano, Apogeo, 2007, pp. 234, € 14,00. Non di rado accade di riscontrare un utilizzo del termine rete nelle accezioni più disparate. Spesso interlocutori diversi discutono di rete avendo come punti di riferimento modelli impliciti molto distanti tra loro (qualcosa di simile a quanto succede nel campo dei “nuovi media”): il risultato è il più delle volte una gran confusione terminologica e concettuale. Ecco allora che L’ideologia delle reti di Pierre Musso ci aiuta a far chiarezza e a districarci nel vero e proprio “reticolo di reti” (réseuil) nel quale siamo immersi da millenni e nel quale continuiamo a muoverci, spesso con troppa disinvoltura. Lo scopo dichiarato di Musso è la denuncia di quel che definisce reincantamento contemporaneo, il deterioramento del concetto di rete, oggi “degradato in vulgata della rete, in ideologia e tecnologia dello spirito”. Secondo la ricostruzione storica offerta dall’autore, la rete – che per un breve momento avrebbe giocato il ruolo di “operazione

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questo, e molto altro, in ogni operazione intellettuale di riconsiderazione autocritica dei percorsi, personali, di ricerca. Così è nel nuovo saggio di Carlo Formenti che, non solo chiude idealmente la “trilogia” iniziata con Incantati dalla rete (2000) e proseguita con Mercanti di Futuro (2002), ma riprende il filo di una riflessione teorica sul rapporto tra nuove tecnologie e conflitto sociale ormai più che ventennale. E, come già in altre occasioni, lo fa a partire da un bilancio delle “vecchie” ipotesi. Per valutarne la tenuta alla prova dei fatti. Evidenziarne gli eventuali limiti teorici. Proporre, com’è in Cybersoviet, il ripensamento critico maturato, alla luce di scenari d’intorno, nel frattempo mutati. A mutare qui, rispetto alle ipotesi avanzate nel lavoro del 2002, è la probabilità di un’evoluzione in senso “postdemocratico” dei sistemi politici occidentali. È la fiducia nell’esistenza di margini per la ricostituzione di un “blocco sociale”, – quello che l’autore aveva a suo tempo definito “Quinto Stato” – di lavoratori della conoscenza (ricercatori, hacker, comunità virtuali ecc...) e imprenditoria di internet, in grado di favorire l’integrazione tra istituti della democrazia rappresentativa ed esperimenti di democrazia diretta e partecipativa attraverso la rete (i “cybersoviet” del titolo). Internet – come si ricava dalla costellazione di approcci teorici nel saggio illustrati – sembra non prestarsi più a connotazioni che la qualifichino come “nuovo spazio pubblico”. Né i lavoratori che vivono e operano in, e mediante, essa risultano in grado di esprimere alcun “potenziale antagonista”. Così, Cybersoviet ci restituisce l’immagine d’una rete lontana da quella visione libertaria che la voleva “un atto di natura (...) indipendente dalla tirannia dei Governi del Mondo”, come l’ebbe a definire John Perry Barlow nella sua Dichiarazione d’indipendenza del cyberspazio e come, soprattutto, l’intera cultura di internet, nella sua fase aurorale, l’aveva concepita. Una cultura, largamente americanocentrica, di cui anche Formenti ha, a lungo, subito il fascino e che ha caratterizzato tanta parte della sua produzione teorica.

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Le immagini – spiega l’autore – inquietano perché mettono in scena la molteplicità/complessità dei giochi che si attuano nell’intendere e praticare quel terzo spazio (l’immaginario) che sta tra mondo esteriore e mondo interiore, dove le matrici della scrittura e del suono operano assieme, e dove trionfa l’ibrido: questo è quanto sostengo io. Alludendo, con ciò, a tutte le immagini. Che sono in movimento, e smuovono e fanno movimento anche quando sono fisse. Che illustrano il mondo, anzi i mondi, nel senso che ci danno modo di costruirli, di costruirceli.


il “disincanto” del corpo e della Natura – resi intellegibili non più in relazione alla trascendenza, ma direttamente dal loro in-

Per l’autore è lo scambio di immagini tra la medicina e l’ingegneria a costituire il vero punto di svolta nella genealogia del concetto moderno di rete. Ma la figura centrale del testo è il filosofo francese Saint-Simon: l’abbandono del concetto di albero da parte di Saint-Simon e il mantenimento dell’idea di rete applicata ad altri oggetti hanno portato il filosofo francese a sostituire alla morale teologica (“matrice simbolica verticale che riferisce il mondo a un aldilà celeste”) una matrice “positiva” che riferiva il presente al futuro terrestre. Attraverso la nuova figura della rete, scompariva la verticalità divina e la nuova matrice era dunque a misura d’uomo, orizzontale. Il singolare neo-umanesimo di Saint-Simon non si risolveva nell’abbandono della religione, ma nella reinvenzione del legame sociale come fondamento morale della società, ovvero in una nuova religione. Secondo Musso il concetto di rete formulato da Saint-Simon diventa da subito il simbolo del Nuovo Cristianesimo, ma saranno proprio le immagini e le metafore attribuite alla rete dai discepoli sansimoniani a condurre inevitabilmente all’indebolimento del concetto stesso. I sansimoniani hanno sviluppato un autentico culto religioso della rete: “la degradazione dell’operazione sansimoniana in ‘tecno-messianismo’ prende la forma di una ‘tecnoutopia’”, e il concetto di rete muta in “tecnologia dello spirito”. L’autore si sofferma sulla visione deterministica di molti “sociologi-ingegneri” contemporanei, legata all’utopia di una potente ideologia della trasformazione sociale prodottasi con la “diffusione commerciale e ideologica” del concetto di rete ormai “degradato” (è quel che definisce “retiologia”). Dai teorici della cibernetica fino a Manuel Castells, passando naturalmente per Marshall McLuhan, il pensiero contempora-

neo della rete viene sottoposto da Musso a una rigida lettura demistificante, con risultati che – comunque la si pensi – ogni analista contemporaneo dovrebbe tener presenti. Secondo l’autore “l’onnipresenza della nozione di rete nelle scienze sociali si rivela l’indice della debolezza teorica di un tale concetto passe-partout e rinvia a una tecnologia destinata a rimettere insieme i frammenti di una società disgregata”. Dal sapore “criticoapocalittico” e guerriero, il libro di Musso si offre comunque come una ricostruzione ragionata dell’evoluzione di un concetto fondamentale come quello di rete, e la piacevole lettura rende indulgenti nel perdonare all’autore qualche forzatura teorica. Mario Pireddu

Jenkins, H. Fan, blogger e videogamers. L’emergere delle culture partecipative nell’era digitale Milano, FrancoAngeli, 2008, pp. 288, € 22,00. I saggi raccolti in questo testo di Jenkins dedicato ai mutamenti nella relazione tra mass media e fruitori rendono conto di diversi anni di studi e ricerche accademiche. Nell’analisi di Henry Jenkins, professore di Letteratura al Massachusetts Institute of Technology di Boston e direttore del Comparative Media Studies Program, si legge il racconto dell’evoluzione parallela di media e società degli ultimi decenni, che ha subito una forte accelerazione a opera dei linguaggi digitali e dei mutamenti nei rapporti tradizionali tra produzione e consumo. Come scrive Boccia Artieri nella sua appassionata introduzione a Jenkins: “c’è una mutazione in atto, ed ha a che fare con una componente ‘partecipativa’ che passa attraverso i media. Quelli nuovi, caratterizzati dai linguaggi dell’interattività, da dinamiche immersive e grammatiche connettive”. Naturalmente

non è tutto qui, come sottolinea lo stesso Boccia Artieri, e naturalmente in Fan, blogger e videogamers non tutto è nuovo. Quel che appare più interessante in questo testo di Jenkins, ora in italiano dopo il fortunato Cultura convergente (Apogeo, 2007), è la ricostruzione del percorso che ha portato l’autore a indicare un cambiamento paradigmatico sul piano teorico e sul piano metodologico nell’ambito dei media studies. Jenkins si sofferma sul rapporto tra logiche della produzione e meccanismi di partecipazione “dal basso”, mostrando come il lavoro attivo dei “fan”, attraverso complesse strategie di appropriazione e di “remixing”, sia diventato a tutti gli effetti parte del processo produttivo. Il valore della partecipazione, in questa cornice teorica, non riguarda unicamente i prodotti dell’industria culturale e dunque il mercato, ma ha a che vedere anche con l’educazione e la vita quotidiana. In una intervista rilasciata a Bernardo Parrella, traduttore italiano del libro di Jenkins, è lo stesso autore a spiegare questa trasformazione: in Fans, Bloggers & Gamers descrivevo il movimento dei fan di Star Wars allora agli albori, e oggi è chiaro come si trattasse solo di uno dei numerosi gruppi di produzione amatoriale pronti a partire, maturi per raggiungere un pubblico più ampio. Quel che mancava era il canale di distribuzione fornito da YouTube. Secondo l’autore ci troviamo in un periodo in cui le corporation abbandonano il concetto di “pull media” per riconoscere, seppur lentamente e avvitandosi spesso in non poche contraddizioni, il valore connesso alla capacità dei fan di diffondere ovunque materiali e contenuti, anche remixati. L’utilizzo diffuso (di “massa”) delle tecnologie della comunicazione e dell’informazione contribuisce a riconfigurare diversi aspetti della nostra vita, compresi “i modi in cui creiamo, consumiamo, impariamo e interagiamo gli uni con gli altri”. L’abitudine all’immediatezza e alla rapida circolazione di contenuti favorita dalle pratiche di condivisione messe in atto dai fan

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terno grazie alle loro strutture reticolari – era stato promosso dagli Illuministi e dai fisiologi. Prendendo tutt’altra direzione, la concezione della rete degli ingegneri apre la strada alla feticizzazione della rete tecnica moderna.

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simbolica” e “concetto autentico” – sarebbe oggi diventata una “ideologia dell’utopia”. Il pregio dell’analisi di Musso, come nota Abruzzese nella sua presentazione, è che il campo delle attuali interpretazioni sui media digitali viene indagato in modo genealogico, con apprezzabili risultati sul piano della chiarezza espositiva e sul piano critico. L’opera di ricostruzione portata avanti da Musso è utile dunque per tracciare da una parte l’evoluzione del concetto di rete dall’Antichità a oggi, dall’altra i mutamenti connessi alle fasi del suo continuo recupero e riutilizzo. Se per certi versi l’illuminismo di Musso ricorda da vicino le puntuali analisi di Philippe Breton sul “culto di internet”, non si può fare a meno di avvertire anche in questo libro una laicità quasi guerriera, che poco concede a chi oggi vede nelle reti la possibilità di una dimensione relazionale diversa e aperta all’accoglienza dell’alterità. L’aspetto forse più interessante dell’approccio di Musso è il punto di partenza dichiarato sin dall’introduzione al testo, e cioè l’ipotesi per la quale non si può “dissociare” la rete considerata come tecnica dalle sue rappresentazioni in quanto tecnoimmaginario. La vera forza del concetto di rete risiede allora nell’immaginario associato alle tecniche del reticolo, che vanno dal disegno della rete fino alle sue rappresentazioni formalizzate. I tre tempi della genealogia della rete sono per l’autore quelli della lenta invenzione (dalla mitologia antica fino a Descartes), della sintesi transitoria (tra il XVIII e il XIX secolo), e del deterioramento brusco (dall’invenzione del computer in poi). La tentazione di inserire automaticamente Musso tra quanti oggi rimpiangono i bei tempi andati davanti alla rovina attuale – dunque tra i profeti del “quando le cose erano autentiche” – è grande e quasi istintiva. Ma Musso merita maggiore attenzione, perché il suo ragionare è rigoroso e le conclusioni alle quali giunge sono decisamente degne d’interesse. Scrive Musso:


Mario Pireddu

Scalfari, E. L’uomo che non credeva in Dio Torino, Einaudi, 2008, pp. 152, € 16,50. L’uomo che non credeva in Dio, in realtà, non vi ha mai creduto. Non almeno al dio “sicurezza” di Agostino, che tende la mano alla creatura e l’aiuterà a sollevarsi. Sì invece al dio di Zarathustra, come “illusione indispensabile”. Quando Scalfari, in un percorso che oltrepassa i magisteri della religione e della scienza, riannoda le fasi di una lunga esistenza alla ricerca del senso attraverso il racconto delle melanconiche madeleine dell’infanzia, le vivide rievocazioni adolescenziali e i flussi di coscienza della maturità, è come se affermasse che la nascita porta con sé il germe della religiosità, intesa come ricerca intrinseca di ciò che è dotato di senso. Come se l’umido viaggio uterino imponesse una tensione verso il comprensibile. Ossessione istintiva da cui è consentito affrancarsi soltanto attraverso i disincanti della maturità. Istintiva è anche la morale, che garantisce continuità alla specie. Un istinto, non un’architettura partorita dall’uomo, perché viene prima della polis, delle istituzioni, della nascita dello Stato. Se la pulsione della morale non fosse congenita e non prevalesse sulle tentazioni individualiste, la specie umana si sarebbe estinta da migliaia di anni. La vecchiaia è “una stagione in cui senti assai meno il problema della sopravvivenza

individuale e dell’amore di sé, e molto di più quello dell’amore per gli altri”. Nella gioventù prevalgono invece l’egoismo e l’autoaffermazione, istinti anche questi. Che sia proprio riferita all’individualismo giovanile la veemenza dell’urlo collettivo del “non c’è più religione”? Forse perché la religione è quella buona condotta che preserva la specie? Come può accogliere le memorie di un ottuagenario il ventenne di oggi? I giovani, protagonisti e vittime al contempo di società “a rischio”, “liquide”, scalciano e si dimenano. Come se l’esperienza potesse strapparli all’oblio. Ci si incammina verso la conoscenza, la si corteggia titubanti, ma le clessidre cominciano a vuotarsi, non c’è più tempo. L’albero della conoscenza e i suoi frutti non saziano più. Quello è il varco temporale in cui mastica e ingoia l’antimateria. È la contrapposizione costante tra Io e specie il leitmotiv di questa autobiografia intellettuale. Dove l’ego prende forma nei Cattivi pensieri di Paul Valéry. L’Io diviene un derviscio di superstizione, caricatura, maschera, io bandiera. O il pennacchio di un elmo. Un complesso custode delle memorie. Dispotico e nevrastenico. Gabbia e prigione. “Dio muore nel momento stesso in cui la sola verità pensabile – e relativa – si colloca nello sguardo dell’uomo. Dio muore nel momento in cui scopriamo d’averlo inventato per sfuggire la paura”. La paura estrema della morte. Sono i toni che il fondatore de «la Repubblica» utilizza restituendoci Nietzsche, e difendendolo da chi vorrebbe il padre di Zarathustra un irriducibile nichilista. C’era una volta il luogo comune della gioventù spensierata, un edulcorato stato di innocenza colpevole, affogato nella retorica dell’ingenuità. E c’è oggi la riscoperta del peccato delle origini, quello che incombe sulle teste più giovani, dove la velocità è un metadone per lenire la paura della morte. L’illusorio e tormentato senso di onnipotenza della gioventù, lascia il posto al disincanto della vecchiaia. La vita vissuta e forse appagata emancipa dal ripudio della morte.

Montaigne diceva che “bisogna portarselo sulla spalla”, il pensiero della morte, come i signori del suo tempo portavano sulla spalla il falcone. Se segui quel consiglio, ti diventa amica. “In fondo fa parte della tua vita, che avrebbe tutt’altro sapore se tu non sapessi di quell’appuntamento finale”. Valentina Murrieri

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tare a comprendere il senso di un cambiamento in atto ormai da tempo, e che ha registrato una accelerazione di non poco conto negli ultimi anni. Nota finale: peccato per quel ritrito “nell’era digitale” nel sottotitolo, assente in originale e forse più funzionale agli obiettivi della casa editrice italiana che non alla comprensione del testo.

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hanno alterato per Jenkins anche i modi in cui i consumatori interagiscono con le istituzioni governative, educative e commerciali. I consumatori di prodotti mediali acquisiscono sempre più capacità autonome di produzione, per dar vita ad altri prodotti mediali, grazie alla relativa semplicità di utilizzo delle tecnologie per l’editing e il remixing digitale dei contenuti, sempre più spesso gratuite. I fruitori ora manipolano immagini, video, suoni, brani musicali, parti di software o di videogame, dando vita a prodotti inediti e spesso slegati dalle narrazioni e dalle intenzioni originali (non di rado si tratta di parodie o imitazioni più o meno ingenue, ma non è difficile incontrare anche prodotti raffinati). Le fanfiction, create da singoli fan o da gruppi di fan di libri, serie televisive, film o fumetti a partire dagli universi di riferimento dei propri prodotti preferiti, sono ormai un fenomeno di grande interesse, e non solo per chi si occupa di comunicazione e di mutamento culturale. Jenkins indaga il rapporto tra popular culture e industria dei media attraverso un percorso che cerca di integrare la dimensione della partecipazione nelle prospettive di osservazione, e che è dunque un percorso anche autobiografico. Jenkins si definisce infatti un Aca/Fan, ovvero, come si legge nella introduzione italiana, “sintesi di accademico studioso dei prodotti culturali e delle pratiche sottese e appassionato degli stessi, capace di osservare dall’interno quegli stessi meccanismi che lo riguardano”. In breve, il libro di Jenkins cerca di osservare i fenomeni di appropriazione e la vitalità creativa dei fan dal punto di vista di chi è immerso e coinvolto profondamente in questa realtà. Se da un lato questa “osservazione partecipante” è forse l’unica metodologia utile per conoscere realmente l’oggetto della propria analisi, d’altra parte va detto che chi cerca elementi di analisi critica del sistema dei media (per esempio, come hanno sottolineato alcuni, delle strategie di molte media companies volte alla creazione di vere e proprie schiere di lavoratori volontari non retribuiti) non avrà molte soddisfazioni leggendo il libro di Jenkins. Ne avrà chi invece cerca una scrittura chiara, semplice, poco accademica, che possa aiu-


Gli autori

Roberto Cingolani è professore ordinario di Fisica Generale presso la Facoltà di

Ingegneria dell’Università del Salento (Dipartimento di Ingegneria dell’Innovazione). È stato membro dello staff del Max Planck Institut di Stuttgart (Germania) dal 1998 al 1991. Nel 1997 è stato visiting professor presso l’Università di Tokyo e dal 1998 è Joint Professor della Electronic Engineering Faculty della Virginia Commonwealth University a Richmond (Virginia-USA). Ha fondato nel 2001 e dirige il Laboratorio Nazionale di Nanotecnologie a Lecce (220 ricercatori da 15 paesi a tutto il 2008). Dal 2004 è direttore scientifico dell’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT) con sede a Genova (300 ricercatori da 37 paesi a tutto il 2008). È autore di circa 600 pubblicazioni scientifiche su riviste internazionali, oltre 30 brevetti ed è fondatore di 3 spin-off. Ha vinto il Concorso europeo per Giovani Ricercatori della Philips nel 1980 e nel 1981, il premio della Società italiana di Fisica nel 1986 e nel 1990, il premio “Ugo Campisano” di INFM nel 1999, e il premio SIF/ST-Microelectronics nel 2000, il Premio Guido Dorso del Senato della Repubblica nel 2006. È stato selezionato come rappresentante per l’Italia al Simposio della Fondazione Nobel sulla fisica delle eterostrutture nel 1996. È stato insignito dal presidente della Repubblica del titolo di alfiere del lavoro nel 1981 e del titolo di commendatore nel 2006. roberto.cingolani@unile.it

Francesco D’Andria è professore ordinario di Archeologia e Storia dell’Arte Greca

nell’Università del Salento, direttore della Scuola di Specializzazione in Archeologia e direttore della Missione Archeologica Italiana a Hierapolis (Turchia) dal 2000, direttore dell’IBAM-CNR (Istituto per i Beni Archeologici e Monumentali). Autore di numerosi saggi, articoli e monografie tra cui: La Puglia Romana, 1979; Itinerari archeologici: Puglia, 1980; Messapi e Peuceti, 1988; Archeologia dei Messapi, 1990; Ricerche sulla casa in Magna Grecia e in Sicilia, 1996; Lecce romana e il suo teatro, 1999; Guida archeologica di Hierapolis di Frigia, 2003; Cavallino. Pietre, case e città della Messapia arcaica, 2005; Hierapolis di Frigia I. Le attività delle campagne di scavo e restauro 2000-2003, 2007. francesco.dandria@unile.it

Giorgio de Finis come antropologo ha svolto attività didattica e di ricerca presso numerosi atenei italiani e stranieri e la LUISS di Roma. Per cinque anni ha condotto ricerche scientifiche presso i Batak di Palawan (Filippine) come visiting researcher associate dell’Ateneo della Manila University. Ha pubblicato e curato diversi volumi, tra i quali La filosofia e lo specchio della cultura, Universalità & differenza. Cosmopolitismo e relativismo nelle relazioni


Luciana Dini è professore ordinario di Anatomia Comparata e Citologia nell’Università del Salento. I suoi studi sono documentati da numerosissime pubblicazioni e comunicazioni a congressi. I principali argomenti di ricerca affrontati sono relativi allo studio del differenziamento, del processo apoptotico con particolare attenzione alla rimozione delle cellule apoptotiche, degli effetti dell’ambiente sulla vitalità e integrità cellulare (campi magnetici/elettromagnetici; effetti dello stress nei sistemi di acquacultura). Si occupa di problemi di biocompatibilità di polimeri sintetici e dell’utilizzo farmacologico dei principi bioattivi di piante e invertebrati marini. Ha ricevuto il premio “Società Nazionale di Scienze Lettere e Arti” in Napoli per il miglior lavoro nel campo della Biologia Cellulare (1987). Ha ricevuto la laurea ad honorem in Medicina dalla Medical State University Yerevan, Armenia (2005). Le sono state conferite due medaglie d’oro della Medical State University Yerevan, Armenia, nel 2003 e nel 2005. È inserita nel: “Who’sWho in Science and Engineering” 2003-2004; 2004-2005; 20052006; 2006-2007; “2000 outstanding scientists of the 21st century”. luciana.dini@unile.it Valentina Donno è laureata con lode nella LT in Scienze della Comunicazione

nell’Università degli Studi del Salento. LM in Editoria, Comunicazione Multimediale e Giornalismo – indirizzo New Media – presso La Sapienza di Roma. Ha svolto attività di ricerca per la Fondazione Rosselli e di consulenza per la Presidenza del Consiglio, Dipartimento Affari Regionali. È autrice di prodotti multimediali di formazione a distanza e consulente sui temi dell’innovazione. Attualmente svolge attività di ricerca sui sistemi di certificazione della competenza a livello europeo. Collabora con l’insegnamento di Teoria e Tecnica dei Nuovi Media C.d.S. Triennale in Scienze della Comunicazione. v.donno@libero.it

Sergio Duma è professore a contratto di Lingua e Traduzione Inglese nel corso di Scienze

della Comunicazione dell’Università degli Studi del Salento. Si occupa prevalentemente di letteratura inglese e americana. Suoi saggi sono apparsi nel volume Maturandosi (1993) e Commowealth Literary Cultures – New Voices New Approaches (1990). s.duma@libero.it

Guglielmo Forges Davanzati è professore associato di Storia dell’Analisi Economica e titolare dell’insegnamento di Giornalismo Economico nell’Università del Salento. I suoi interessi di ricerca riguardano le dinamiche del mercato del lavoro, la modellistica post keynesiana, l’istituzionalismo, i rapporti fra etica ed economia. Fra le sue più recenti pubblicazioni si segnala la monografia Ethical codes and income distribution: A study of John Bates Clark and Thorstein Veblen (2006). g.forges@sesia.unile.it Carlo Formenti insegna Teorie e Tecniche dei Nuovi Media nell’Università del Salento. Collabora con il «Corriere della Sera». È stato caporedattore di «Alfabeta». Ha fondato e diretto la testata on line «Quintostato» e affida i suoi commenti su economia e cultura della rete al blog “Effetto Albemuth”.

Michel Maffesoli è professore ordinario di Sociologia all’Università René Descartes, Paris V-Sorbonne; Fondatore e direttore del CEAQ (Centre d’Études sur l’Actuel et le Quotidien) e della rivista «Sociétés»; presidente dei Centri europei di Ricerca sull’Immaginario (GRECO CRI). Vicepresidente dell’Institut International de Sociologie (IIS). Administrateur al CNRS (Centre National de la Recherche Scientifique). Tra le sue pubblicazioni: La conquista del presente. Per una sociologia della vita quotidiana (1983); La conoscenza ordinaria. Compendio di sociologia (1986); L’ombra di Dioniso (1990); Nel vuoto delle apparenze (1993); La contemplazione del mondo. Figure dello stile comunitario (1996); Del nomadismo. Per una sociologia dell’erranza (2000); Il mistero della congiunzione (2000); Elogio della ragione sensibile (2000); L’istante eterno. Ritorno del tragico nel postmoderno (2003); La parte del diavolo. Elementi di sovversione postmoderna (2003); Il tempo delle tribù. Il declino dell’individualismo nelle società postmoderne (2004); Note sulla postmodernità (2005). Le réenchantement du monde (2007); Iconologies (2008). Le sue opere sono state pubblicate in diversi paesi stranieri tra cui Italia, Brasile, Messico, USA, Corea. maffesoli@ceaq-sorbonne.org maffesoli@univ-paris5.fr Valentina Murrieri si è laureata in Scienze della Comunicazione (LT) e in Scritture giornalistiche e multimedialità (LM) con lode nell’Università del Salento, con tesi in giornalismo scientifico. Ha curato, insieme ad Angelo De Giorgi, il volume collettaneo, Agrodolce. Reportage sul Salento che cambia (2007). valentina.murrieri@libero.it

Peppino Ortoleva è professore straordinario di Storia e Teoria dei Media all’Università di

Torino. Autore e curatore di vari libri (ricordiamo tra gli altri I movimenti del ’68 in Europa e in America (1998); Cinema e storia. Scene dal passato (1991); Mediastoria. Comunicazione e cambiamento sociale nel mondo contemporaneo (2002); Enciclopedia della radio (2003); Luci del teleschermo. Televisione e cultura in Italia (2004); Trent’anni di libertà d’antenna (2006) e numerosissimi saggi, conduce dagli anni Settanta un’intensa attività professionale nei campi della ricerca, della produzione di mostre e musei, della progettazione culturale, da ultimo come titolare e presidente di Mediasfera, Firenze. ortoleva@mediasfera.it

Agata Piromallo Gambardella è professore ordinario, insegna Teoria e Tecniche delle Comunicazioni di Massa nei corsi di Scienze della Comunicazione dell’Università degli Studi di Salerno e del Suor Orsola Benincasa di Napoli. Dirige l’Osservatorio “Violenza Media Minori” presso il Dipartimento di Scienze della Comunicazione dell’Università degli Studi di Salerno, in collaborazione con il GRIS (Groupe de Recherche sur l’Image in Sociologie), sezione del CEAQ dell’Université Sorbonne Paris V, diretto da Michel Maffesoli. Tra le sue ultime pubblicazioni: Le sfide della comunicazione (2001); Violenza e società mediatica (a cura, 2004); Violenza televisiva e subculture dei minori nel meridione (con G. Paci, D. Salzano, 2004); Comunicazione & Significazione. Fenomeni culturali e rappresentazioni sociali tra mass media e new media (a cura, 2007). agapir@tin.it Augusto Ponzio è professore ordinario di Filosofia del Linguaggio e Linguistica Generale all’Università di Bari. Dirige, dal 1989, la serie annuale «Athanor. Arte, Letteratura,

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Di recente ha pubblicato: Mercanti di futuro (2002); Not Economy (2003); Cyborsoviet. Utopie postdemocratiche e nuovi media (2008). carlo.formenti@alice.it

Gli autori

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tra identità sociali e culture. Le trasformazioni del politico. Ha fondato e diretto «Il Mondo 3. Rivista di teoria delle scienze umane e sociali» ed è stato direttore responsabile del «Journal of European Psychoanalisis». Figura tra gli autori dell’International Dictionary of Anthropologist, dell’Enciclopedia Pedagogica e dell’Enciclopedia Multimediale delle scienze filosofiche. Regista e autore televisivo, ha realizzato oltre trecento tra documentari e servizi, molti dei quali dedicati alla città e all’architettura contemporanea. gdefinis@libero.it


Quaderno di comunicazione 180

Semiotica, Filosofia», edita prima da Longo (Ravenna) e attualmente da Meltemi. Ha contribuito come curatore e traduttore alla diffusione in Italia e all’estero del pensiero di Pietro Ispano, Bachtin, Lévinas, Marx, Rossi-Landi, Schaff, Sebeok. Nella sua ricerca sui segni e sul linguaggio, di questi autori ha ripreso ciò che, malgrado le loro differenze, soprattutto li accomuna, vale a dire l’idea dell’imprescindibilità, qualsiasi sia l’oggetto di studio, e per quanto specializzata ne sia l’analisi, dalla vita di ciascuno nella concreta singolarità del suo coinvolgimento senza alibi nel destino degli altri. Tra le sue pubblicazioni: A mente. Processi cognitivi e formazione linguistica (2008); Fuori luogo. L’esorbitante nella riproduzione dell’identico (2007); Linguaggio e relazioni sociali (2006); Elogio dell’infunzionale. Critica dell’ideologica della produttività (2004), e con Susan Petrilli Semioetica (2003) e Il sentire nella comunicazione globale (2000). www.augustoponzio.com

Stefano Rodotà è professore ordinario di Diritto Civile nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Roma “La Sapienza”. Insegna diritto all’Istituto per le Scienze Umane di Firenze, ed è professore alla Faculté de Droit, Paris 1, Panthéon-Sorbonne (2006). Visiting Fellow, All Souls College, Oxford e Visiting Scholar, Stanford School of Law. Presidente del Comitato Scientifico dell’Agenzia per il diritti fondamentali dell’Unione Europea (2008), è stato pure presidente dell’Autorità garante per la protezione dei dati personali (1997-2005) e presidente del Gruppo dei garanti europei (2000-2004). Membro del Gruppo europeo per l’etica delle scienze e delle nuove tecnologie (1993-2005) e della Convenzione per la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (2000). Direttore delle riviste «Politica del diritto» e «Rivista critica del diritto privato», collabora con giornali e riviste nazionali («Il Giorno», «l’Unità», «il manifesto», «Panorama») e, sin dalla sua fondazione, con la Repubblica. Tra i suoi titoli più recenti: Un codice per l’Europa? (2002); Repertorio di fine secolo (nuova ed., 2000); Tecnopolitica (nuova ed., 2004); Intervista su privacy e libertà (2005); La vita e le regole. Tra diritto e non diritto (2006); Ideologie e tecniche della riforma del diritto civile (nuova ed., 2007); Dal soggetto alla persona (2007). s.rodota@tiscali.it

Indice dei numeri precedenti N. 1. Oltre il senso del luogo Presentazione Parte prima - Oltre i luoghi Da questo glocale di Angelo Semeraro I luoghi delle idee di Ennio Capasa Banca 121 nelle reti di Lorenzo Gorgoni Il sangue del luogo di Edoardo Winspeare Il nuovo Atlantide di Francesco Spada La mia piccola editrice di Piero Manni Un consorzio per l’innovazione tecnologica di Luigi Barone Un consorzio per l’abbigliamento di Pantaleo Pagliula L’agire mercuriale di Stefano Cristante L’altra faccia della new economy di Aldo Bonomi Il kitsch di Alberto Abruzzese Lessico post-fordista di Carlo Formenti L’identità sospesa di Mauro Protti Il fascino del complesso di Alberto Abruzzese Parte seconda - Il glocale degli innocenti Infanzie nelle reti di Angelo Semeraro Nuovi minori, nuovi media di Mario Morcellini Antropologia delle infanzie di Alessandro Simonicca Risorse immaginarie dell’identità e life corse di Catherine Pugeault Double bind e comunicazione nelle famiglie con giovani adulti di Vincenzo Cicchelli Adolescenze al cinema di Vito Luperto Il principe dei mutanti di Giovanni Fiorentino Pedofili in rete di Ferruccio De Salvatore Adolescenze al limite di Fernanda Rizzo Come parlarne? di Federico Pirro Il padre ritrovato di Luigi Vaccari Parte Terza - Ricerche Sondaggio sull’orientamento politico degli studenti universitari leccesi nel voto del 13 maggio a cura di Gian Maria Greco Schede Libertà a rischio di Ornella Quarta Vivere in un mondo connesso di Fabio Ingrosso Dimensioni nuove per una realtà globale di Roberta Maci Dalla routine alla flessibilità nel nuovo mercato del lavoro di Antonella Epifanio “Domani” e “Domenica”, due film sull’abbandono di Miriam Mariano Gli autori Appendice Inaugurazione dell’indirizzo di studi (novembre 2000). Prolusione Editore Manni, Lecce


N. 2. Mezzogiorno di radio. Cento anni di storia/e

N. 3. Del desiderio

G(iovanni) F(iorentino), Un bilancio provvisorio Angelo Semeraro, Cento anni, e non li dimostra Giovanni De Luna, La radio, fonte storica

Questo numero (a.s.)

Radio e storia. Il Mezzogiorno Michele Campione, Radio Bari ’43, voce dell’Italia libera Vito A. Leuzzi, Radio Bari 1943-1944 Antonio Ghirelli, Radio Napoli Franco Nicastro, Radio Palermo, l’avamposto della libertà Antonio Santoni Rugiu, Da Radio Sardegna al radiodramma Lucia Denitto, Radio e mezzogiorno nelle strategie confindustriali degli anni Cinquanta Linguaggi & società

Comunicazione di desiderio Angelo Semeraro, Regine cannibali (desideri scomunicanti) Mimmo Pesare, Sehnsucht e comunicazione Luigi. A. Armando, Donne e pastasciutta Myriam Mariano, Doct Faust e dom Giovanni Geografie Paolo Pellegrino, I mille volti del desiderio Albarosa Macrì Tronci, Società di conoscenza/società di desiderio Sergio Duma, L’america non desidera guerre Stefano Cristante, Spagna, 11 marzo: voglia di verità

Alberto Sobrero, La radio modello di lingua? Che cosa ne pensano i giovani, all’inizio del 2000 Sergio Raffaelli, La pronuncia alla radio nel periodo fascista Lucio Giannone, Radio e letteratura: momenti di un (contrastato) rapporto Mario Proto, Lettura, scolto, visione: radio e media system Daniele Pitteri, Vocazioni culturali, vocazioni di consumo. Radio locali, syndacation e identità culturali giovanili

Guglielmo Forges Davanzati, Le emozioni dell’oeconomicus Mauro Ingrosso, Glocale musicale salentino Annacarla De Vito, Voci di desiderio: un progetto di radio Valentina Donno, Narrazioni cyborgpunk

Radio in rete

Nuove generazioni

Gianluca Nicoletti, Radionet Alessandra Scaglioni, Lavorare alla radio Enrico Menduni, La terza generazione Michele Sorice, Glocal medium

Egle Becchi, Bambini in Mediaset tra cartoni e spot pubblicitari Carlo Gelosi, Globali o locali? media e giovani L.S., Il piacere di sondare (ovvero la ricerca di lavoro del laureato in scienzecom)

Interventi Antonio Bottiglieri, Radio & Regioni Stefano Cristante, Radio & Università Enrico Fedi, Web & Radio Alberto Abruzzese, Dalla parte dell’ascoltatore Osservatorio A cura del centro interdipartimentale internazionale sulle infanzie e le adolescenze dell’Università di Lecce A. Semeraro, Comunicare le infanzie. Un osservatorio Loredana De Vitis, Adolescenti di carta. Indagine sull’immaginario dei media a stampa Giovanni Fiorentino, Play. Sul videogioco Catherine Peugeault, Vincenzo Cicchelli, Les spectateurs d’Orange mécanique en 1970 et en l’an 2000 Alessandra De Giovanni, Giurisdizione europea su minori in internet Ferruccio De Salvatore, Libertà di comunicare e tutela della persona minorenne nel cyberspazio Gli autori Editore Manni, Lecce

Desiderio di comunicazione

Tessiture Giovanni Fiorentino legge: Ortoleva e Scaramucci/ Radio Calefato/Lusso, Reinghold/Smart mobs, Abruzzese/Lessico, Semeraro/Calypso, Robins & Webster/Tecnoculture, Sorrentino/Giornalismo, Pinto Minerva&Gallelli/Pedagogia post-human, Ferri/Fine dei media, Ardizzone, Rivoltella, Galliani, Maragliano/E-larning, C:Cube/Annata 2003, Bianco & nero su giallo: obiettivo sul Salento di Ronny Leva. Angelo Semeraro legge: Nancy/Ascolto, Fiorentino/Silenzio, Perniola/Controcom, Mattelart/Utopie, Maffesoli/Tragico, Dahrendorf/Libertà. Carlo Formenti legge: Castells/Reti Smeralda Tornese legge: Semeraro/Calypso la nasconditrice Albarosa Macrì Tronci: Tra memoria e progetto: un convegno a Fisciano Gli autori pagine gialle Scienzecom a Lecce (a cura di Raffaella Scorrano) Editore Manni, Lecce


N. 4. Riconoscersi

N. 5. Del segreto

Questo numero (a.s.)

Questo numero (a.s.)

L’ira e le lacrime di Angelo Semeraro Spaesamento e riconoscimento di Mimmo Pesare Ritornare a Parmenide di Nello Barile Virtualità e crisi della rappresentanza di Carlo Formenti La sympathy nelle relazioni industriali di Guglielmo Forges Davanzati Lo sguardo e l’immaginario di Giovanni Fiorentino Van Gogh e Gauguin: colori sonori, di Anna Gentile

Andrea Tagliapietra, Ontologie del segreto Franco La Cecla, Un dispositivo di verità Stefano Cristante, Informazioni particolari Carlo Formenti, Luci di retroscena Mimmo Pesare, Disvelamento come trasformazione Paolo Pellegrino, L’opera d’arte e il suo enigma Carlo Gelosi, Pubblica amministrazione: trasparenza ed ostacoli Guglielmo Forges Davanzati, Andrea Pacella, Cosa e perché conviene non dire: gli effetti esconomici della corruzione Paola Nestola, Arcani vaticani Sergio Duma, Note angloamericane Gino Frezza, Doppia identità e mutazioni nei fumetti dei supereroi Angelo Semeraro, Tende e velami

Reset Storie di riconoscimenti e di risentimenti: ScienzeCom. di Stefano Cristante Old Education & Media Education di Antonio Santoni Rugiu Glocali Meraviglie occidentali per giovanotti mondani di città di Livio Romano Italian Sud-Est di Alessio Pepe Adolescenze: dodici scuole rispondono sull’aggressività di Stefano Mangia Tessiture

Reset Santa De Siena, Il paradigma spezzato Elena M. Fabrizio, Il pluralismo negato Elena Pulcini, Autenticità e riconoscimento Vincenzo Susca, Turbamenti della postmodernità, intervista a Michel Maffesoli Matteo Greco, Le metafore pedagogiche nel cinema di Burton

Letti da: Semeraro: Benasayag, Schmitt / Passioni tristi; Carnevali / Romanticismo & risentimento; Veca / Amore infinito; Bauman / Amore liquido; Marchesini, Post-human / Anima appeal; Eco / Misteriosa fiamma. Duma: Icke / Alice; Heinein / Fanteria dello Spazio; Anais Nin / Mistica del sesso; Caccia / David Linch. Barile: Gibson / Accademia dei sogni. Fiorentino: Chambers / Ad limina mundi; Temple Grandin / Pensare in immagini; Lurija / Mondo perduto/ritrovato. Caputo: Sebeck / Signs. Introduction to Semiotics; Peirce / Opere [g. f.] Una giornata di desiderio [a. s.] A margine di un convegno

Giorello: Nessuna chiesa (M. Pesare); Scalfari: Laicità/laicismo; Badaloni: Inquietudini e fermenti; Herbert, Vico e laici credenti; Ruggenini, Paltrinieri: La comunicazione, ciò che si dice e ciò che non si lascia dire; Bauman: Scarti (A. Semeraro); Esposito: Bios (S. De Siena); Florida: Classi creative (C. Formenti); Gibelli: Popolo bambino; Marra: Ombre di un sogno; Lyon: Massima sicurezza; De Luna, D’autilia, Crescenti: Italia fotografica (G. Fiorentino); Semeraro: Omero a Baghdad (M. Pesare); Latour: Culto moderno dei fatticci (M. Pesare); Trione: Sopralluoghi (P. Pellegrino); Ferretti, Gambarara: Com. & scienze cognitive; Gambarara: Bipede implume; Cimatti: Mente e vita; Mazzone: Menti simboliche. Riconoscersi a Lecce: un convegno (G. Fiorentino).

Gli autori

Eugenio Scalfari: la motivazione della laurea Honoris causa.

Editore BESA, Nardò (Le)

Gli autori

Tessiture


N. 6. fiducia/sicurezza

N. 7. Il del tutto nuovo

Questo numero (a. s.)

Questo numero (a. s.)

Raffaele De Giorgi, Evoluzione della fiducia e periferie dell’accadere Davide Torsello, Contesti di prevalente incertezza sociale. Il caso dell’Italia meridionale e dell’Europa postsocialista Augusto Ponzio, Fiducia, sicurezza, alterità Egle Becchi, Per una storia libidica della fiducia Francesco Vitale, C’è da fidarsi. Sulla fiducia in Jacques Derrida Ferdinando Boero, La storia di Mae Marc Augé, Una scommessa sull’avvenire (dialogo con Mimmo Pesare) Mimmo Pesare, La sicurezza dei luoghi. Abitare come aver-cura Ernesto Mola, Dalla compliance all’empowerment: due approcci alla malattia Guglielmo Forges Davanzati, Andrea Pacella, La fiducia come risorsa e il suo rendimento economico Carlo Gelosi, La fiducia nelle istituzioni Sergio Duma, Sfiduciati e fiduciosi Angelo Semeraro, Vigilia del dì di festa per metropoli occidentali

Augusto Ponzio, La riproduzione dell’identico Alberto Abruzzese, Variazioni postumane Sergio Brancato, Scrutare il buio Nello Barile, La disillusione della fine Mario Pireddu, Nuovi media e realtà multiple Carlo Formenti, Neo, ovvero la fine della storia nel mito di Matrix Ferdinando Boero, Evoluzione graduale e per salti: quale futuro per le specie? Ornella Martini, Rimediare la didattica Angelo Centonze, Arte contemporanea: la ricerca identitaria Cristina Caiulo, Stefano Pallara, Architettura, il nuovo che non c’è Lelio Semeraro, Pubblicità: la rivoluzione creativa

Tessiture «Contatti»/Paura e paure; Volli, Laboratorio di semiotica; Bauman, Fiducia e paura nella città; Peters, Parole al vento. Storia dell’idea di comunicazione (A. Semeraro) AA.VV., Tesi per il futuro anteriore della semiotica (E. Dell’Atti) Morin, Étique, La Méthode 6 (S. De Siena) Tundo Ferente, Moralità e storia (E. Fabrizio) AA.VV., Il bello del relativismo; Galimberti, La casa di psiche (M. Pesare) Ricuperati, Fucked Up; Casetti, L’occhio del Novecento; Frezza, Effetto Notte; Molotch, Fenomenologia del tostapane. Come gli oggetti quotidiani diventano quello che sono (Giovanni Fiorentino) Thom, Morfologia del semiotico (a cura di P. Fabbri); «Athanor». Semiotica, filosofia, arte, letteratura (1990-2005) (Cosimo Caputo) Reset Antonio Santoni Rugiu, A proposito di segreti Gli autori Editore Meltemi, Roma

Reset Fulvio Papi, Microgenealogia di una scrittura Claude Poissenot, L’individu nouveau: être un individu aujourd’hui Francesco Vitale, L’invenzione della decostruzione Tessiture Escobar, La libertà negli occhi; Curi, La forza dello sguardo; Farné, Diletto e giovamento. Le immagini e l’educazione (A. Semeraro) Semeraro, Del sensibile e dell’immaginale; Baldi, Appartenenze sconosciute; Rovatti, La filosofia può curare?; Marrone, Pezzini (a cura), Senso e metropoli (M. Pesare) Hall, Il soggetto e la differenza; Pireddu, Tursi (a cura), Post-umano; Codeluppi, vetrinizzazione sociale (G. Fiorentino) Caputo, Semiotica e linguistica (A. D’Urso) Signore, Lo sguardo della responsabilità (Susan Petrilli) Fadda, Lingua e mente sociale (C. Caputo) Gli autori Editore Meltemi, Roma


N. 8. Le variazioni grandi Questo numero (a. s.) Franco Ferrarotti, Ego e Alter Francesco Monico, La variazione technoetica Augusto Ponzio, Formazione, occupazione, migrazioni Agata Piromallo Gambardella, “Ricostruzione” della sfera pubblica e utopia del linguaggio Giulia Colaizzi, Posthumanidad y cultura de masas Giorgio de Finis, Maximae cities: grandi variazioni urbane Pina Lalli, Vita metropolitana: nuovi rischi, nuove competenze? Paolo Fabbri, Neo-televisione: del sublime e del disgusto Roberto Maragliano,“Vuoi mettere?!” Cose che l’insegnamento in presenza non può fare Renato Covino, La seduzione del dismesso. L’archeologia industriale Reset Andrea Miconi, Sulle “variazioni grandi”, la storia e la teoria. In merito all’articolo di Alberto Abruzzese Antonio Santoni Rugiu, Fantasiosa pubblicità (o fantastici profitti)? Osservatorio Patrizia Calefato, Cittadinanza attiva: il sogno della politica nella “primavera pugliese” Luigi A. Santoro, Melpignano: l’industria del ragno Franco Martina, Ancora una volta scuola, università e Mezzogiorno Tessiture Dewey, Arte come esperienza (A. Semeraro) Bueb, Elogio della disciplina; Galimberti, L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani (A. Semeraro) D’Alessandro (a cura), Il gioco dell’intelligenza collettiva (A. Semeraro) Calefato, Che nome sei? (G. Mioni) Gerosa, Second Life (C. Formenti) Cassano, Zolo, L’alternativa mediterranea; Guarracino, Mediterraneo. Immagini, storie e teorie da Omero a Braudel (G. Fiorentino) Grandin, La macchina degli abbracci (G. Fiorentino) Young, Mitologie bianche (G. Fiorentino) Capani, Magia del cinema (F. Martina) Semeraro, Pedagogia e Comunicazione (M. Pesare) Gli autori

Note


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