QdC2 - Mezzogiorno di radio. 100 anni di storia/e

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Quaderno di

OMUNICazione

del Corso di Laurea Interfacoltà in Scienze della Comunicazione dell’Università di Lecce anno accademico 2001-2002

Manni


© 2003 Piero Manni s.r.l. - Via Umberto I, 51 - 73016 S. Cesario di Lecce - pieromannisrl@clio.it

Indice MEZZOGIORNO DI RADIO. CENTO ANNI DI STORIA/E

Stampato col contributo del Dipartimento di Filosofia e Scienze sociali dell’Università di Lecce

Un bilancio provvisorio 13 Cento anni, e non li dimostra di Angelo Semeraro 19 La radio, fonte storica di Giovanni De Luna 9

RADIO E STORIA. IL MEZZOGIORNO 23 30 35 39 52 63

La voce dell’Italia libera di Michele Campione Radio Bari 1943-1944 di Vito Antonio Leuzzi Radio Napoli di Antonio Ghirelli Radio Palermo, un avamposto di libertà di Franco Nicastro Da Radio Sardegna al radiodramma di Antonio Santoni Rugiu Radio e mezzogiorno nelle strategie confindustriali degli anni Cinquanta di Anna Lucia Denitto LINGUAGGI & SOCIETÀ

La radio modello di lingua? Che cosa ne pensano i giovani, all’inizio del 2000 di Alberto A. Sobrero 92 La pronuncia alla radio nel periodo fascista di Sergio Raffaelli 102 Radio e letteratura: momenti di un (contrastato) rapporto 81

di Antonio Lucio Giannone 112 118

Lettura, ascolto, visione: radio e media system di Mario Proto Vocazioni culturali, vocazioni di consumo. Radio locali, syndication e identità culturali giovanili di Daniele Pitteri RADIO IN RETE

Radionet di Gianluca Nicoletti 139 Lavorare alla radio di Alessandra Scaglioni 146 La terza generazione di Enrico Menduni 152 Glocal medium di Michele Sorice 133

Le foto sono tratte dal catalogo Sulle onde della radio 1895-1995 del Comune di Tuglie - Assessorato alla cultura, a cura di Luigi Scorrano.

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INTERVENTI

Radio & Regioni di Antonio Bottiglieri Radio & Università di Stefano Cristante 171 Web & Radio di Enrico Fedi 177 Dalla parte dell’ascoltatore di Alberto Abruzzese 163 168

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Mezzogiorno di radio. Cento anni di storia/e

BIBLIORADIO Schede a cura di Giovanni Fiorentino

COMUNICARE LE INFANZIE Osservatorio 211

Infanzie di carta. Indagine sull’immaginario dei media a stampa di Loredana De Vitis

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Play, sul videogioco di Giovanni Fiorentino

IL CORSO DI LAUREA DI SCIENZE DELLA COMUNICAZIONE A LECCE 264

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Identikit

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un bilancio provvisorio

Quando nel 1895, un anno medialmente importante, la radio nasce, assieme al cinema e al fumetto, è semplicemente telegrafo senza fili, radiotelegrafia. La radio generalista, quella musica e parole, arriva negli anni Venti: da un lato l’apparato che emette il segnale, dall’altro gli apparecchi nei salotti, scatole per ricevere suoni che si moltiplicano tra le due guerre, propagando radio days e serate familiari in casa intorno al nuovo elettrodomestico. Poi ci saranno le arringhe alle masse, l’informazione di guerra con Radio Londra, la concorrenza della tv e il flusso sonoro del rock, le radio libere degli anni Settanta, lo spazio individuale e il primo medium elettronico personale, miniaturizzato ed economico, la radiolina a transistor mobile e trasportabile. Oggi in Italia circa 1400 stazioni radiofoniche rappresentano un universo in movimento; nel mondo 2000 emittenti trasmettono via Web e, celebrazioni a parte, in Internet puoi anche recuperare il fantasma della voce di Guglielmo Marconi –pacata, accento inglese e inflessioni bolognesi– mentre spiega l’invenzione nella sua casa laboratorio galleggiante, il panfilo Elettra, in viaggio tra l’Italia e il mondo. Difficile catalogare il medium radio, difficile ingabbiare un mezzo di comunicazione prima generalista poi marginale, ora personale e glocale, singolarmente accostabile alla fotografia nelle possibilità di rigenerarsi, nel suo essere slegato dalla materia, quindi interstiziale, e ancora pervasivo nella capacità di essere in qualsiasi ambiente. Lo spazio storico, l’asse diacronico e il rapporto con un territorio specifico –per noi evidentemente il Mezzogiorno italiano– possono diventare chiavi potenti di lettura per il presente della radio, cartina al tornasole, luoghi di partenza per ragionare sui destini di un evoluzione centenaria, per dialogare con le più recenti prove di sistematizzazione scientifica, per stabilire connessioni con la natura evocativa di un linguaggio diegetico che, nella privazione d’immagini, è solito privilegiare gli spazi rarefatti dell’ascolto e della costruzione immaginaria. Dunque la memoria orale, personale, biografica, quei brandelli di storia/e mai fissati da qualsiasi mezzo di comunicazione. La radio fonte storica, inesplorata, se vogliamo quella della centralità

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in quello vivo e radicato nei consumi giovanili del presente (Daniele Pitteri), rappresentato dalla proliferazione indiscriminata di emittenti che trasmettono in Internet, spesso legate a territori, talvolta geografici, più spesso risposta a sensibilità specifiche che si ritrovano in comunità identitarie e nicchie di utenza. La radio in costante dialogo con l’intera produzione mediale, si ri-media, è Webradio delle connessioni (Enrico Fedi), è quella sinteticamente esplicata dal termine glocal, come scrive Michele Sorice, in grado quindi di conciliare la dimensione globale con l’identità e le realtà locali. Una ragione in più perché se ne dovesse discutere in un corso di studi di Scienze della comunicazione, che ha posto al centro fin dal suo nascere, a Lecce, una riflessione sul glocale rivelatasi nel tempo lungimirante. La radio raccontata, nel suo complesso farsi (Alessandra Scaglioni), può essere anche quella proposta da Rainet, quella ad esempio di un autore radiofonico come Gianluca Nicoletti (Golem) che da sempre lavora alla ibridazione dei linguaggi e alla sperimentazione, costruendo un mondo sonoro che fa a meno di qualsiasi supporto fisico e si propaga smaterializzandosi, definendosi per distanza dal mondo delle immagini, e stabilendo nuove connessioni triangolari tra Internet, radio e telefonino cellulare. Del resto il mezzo di comunicazione che emerge dagli studi sistematici e recenti di Enrico Menduni, caratterizza sempre più distintamente la sfera emotiva della nostra società, la dimensione sonora, semplicemente e efficacemente musicale, quella che connette identità locali e sensibilità collettive, una sorta di radio “meridiana”, se si passa il termine, destinata a climatizzare e offrire una colonna sonora che parla il linguaggio della differenza e delle emozioni, è voce del corpo per il corpo, che si relaziona e interagisce intimamente con l’intelligenza personale ed emotiva di ognuno di noi. È una radio che caratterizza sempre più distintamente la sfera emotiva della nostra società, che ci accompagna nelle ventiquattrore quotidiane, strumento di informazione in tempo reale e contenitore soffice di una nuova oralità, davanti lo specchio o nell’abitacolo dell’automobile, è la radio del Sud, o se si vuole quella dell’Oriente, destinata a climatizzare e offrire una colonna sonora differenziale, emozionale, all’intero Occidente. E con questo si ritorna alla territorializzazione di un medium efficacemente problematizzata nelle conclusioni di Alberto Abruzzese. È possibile allora che la radio dei flussi sonori, da tempo cucita

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generalista tra le due guerre, fonte di registrazione di un immaginario ampiamente omologato e controllato imposto dai regimi, ma non solo, come precisa metodologicamente lo storico Giovanni De Luna, o come riscontra Lucia Denitto nella sua indagine ai margini dei consumi radiofonici nel Mezzogiorno dei primi anni Cinquanta. La radio gioca con una dimensione del tempo non propriamente lineare, ha a che fare con gli accidenti del ricordo e della memoria, spesso e semplicemente affidati all’unicità della testimonianza. Da qui riparte questa raccolta di contributi, dal sovrapporsi delle storie con la storia, dal fissare la voce preziosa, e volatile, dell’informazione radiofonica dell’Italia liberata, della propaganda antifascista e antinazista, di un’esperienza diretta che vede protagonista l’entusiasmo di giovani intellettuali a turno improvvisati giornalisti, radiocronisti, registi. Le prime improbabili trasmissioni per le frequenze di Radio Bari (Vito Leuzzi e Michele Campione), di Radio Napoli (Antonio Ghirelli), di Radio Sardegna, nella memoria di Antonio Santoni Rugiu, legate direttamente al supporto logistico, culturale e comunicativo delle truppe americane, non solo guerriglia controinformativa, ma anche laboratorio sperimentale e creativo, propedeutico tra l’altro agli sviluppi dell’industria culturale del dopoguerra. Evidentemente diversa è la perizia della ricerca messa in gioco nella ricostruzione storica di Franco Nicastro intorno alla programmazione di Radio Palermo. Radio della parola e del legame privilegiato con il testo scritto, almeno per lungo tempo e in molti casi, nello sviluppo storico e nelle chiavi di interpretazioni offerte da diversi percorsi di lettura. Nell’analisi dei linguaggi radiofonici, nel loro evolversi connesso a un mezzo in continuo divenire, alla ricerca costante di nuove corrispondenze territoriali (Antonio Bottiglieri), Sergio Raffaelli ha esplorato la sua funzione “normativa” durante il ventennio fascista; Lucio Giannone ha ricostruito le alterne vicende che hanno coniugato letteratura, scrittori e radiofonia in Italia; Mario Proto ha interrogato i classici dell’analisi sociologica, rintracciando una possibile frattura del sentire e del fare radio, una sorta di incrinazione del modello testuale, a favore di una nuova e diversa oralità. Il transito al presente e al passato più recente, lascia emergere un medium incredibilmente mobile e interattivo, linguaggi, costumi, usi completamente trasformati, linguistici e generazionali (Alberto Sobrero). Il mezzo di comunicazione generalista dei salotti si è trasformato

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Radioricevitore ANSALDO LORENZ mod. SRI-44, 1928

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La prima è legata a una ricorrenza che non poteva passare inosservata in un corso di studi di comunicazione che è entrato nel terzo anno di vita di una laurea triennale. Dalla radio a galena a quella digitale vi sono poco più di cento anni di storia nazionale. Cento e più anni in cui essa ha accresciuto il suo fascino, guadagnandosi un ruolo straordinario nel panorama dei media di massa e della cultura del Novecento. Sono oltre 35 milioni gli italiani che ogni giorno ascoltano radio. In casa, in auto, in ufficio essa è diventata una compagna di sfondo delle nostre attività, la “colonna musicale” del nostro vivere quotidiano. Una compagna fedele, se è vero che difficilmente tradiamo il canale preferito e di esso facciamo il nostro “tamburo tribale”, per dirla con McLuhan: l’interfaccia tra il nostro privato e la sfera dei rapporti pubblici. Non vi è dubbio che questo medium, di voci e di suoni, “parli in altro modo alla nostra mente, stimolando interazioni che gli altri media non chiedono”, come ha scritto Menduni. Suono e voce hanno maggiore potere di astrazione rispetto alle immagini; sollecitano più immediatamente la nostra intelligenza emotiva, una delle sette intelligenze gardneriane, la più sviluppata forse nelle fasce giovanili. L’amore per le onde hertziane è in crescita soprattutto tra i giovani. La radio dà voce e offre ascolto a un mondo sonoro e musicale che maggiormente li attrae, facendone i primi e più esigenti consumatori. La generazione visiva, quella allevata dalla tv, ne è oggi la più forte consumatrice. Possiamo avanzare l’ipotesi che una saturazione e crescente disaffezione al piccolo schermo stia spostando un’intera fascia generazionale sul più versatile tra i mezzi di comunicazione, aperto a tutte le contaminazioni e interferenze con i nuovi e nuovissimi media. Non saprei dire se con l’ipotesi di una nuova dominanza dell’orec-

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G. F.

Alcune buone ragioni giustificano la scelta di un convegno (e di questo fascicolo) dedicato alla radio, nella sua formulazione di “Mezzogiorno di radio. Storia/e”.

angelo semeraro cento anni, e non li dimostra

sulla pelle del disagio giovanile, lasci ipotizzare un vagheggiato e ideale campus radiofonico universitario (Stefano Cristante). Il che evidentemente –e lo rilevano tanto Angelo Semeraro nella sua introduzione che Alberto Abruzzese nelle sue conclusioni– non è solo pura provocazione da convegno di studi, rientra nell’ordine del pensare in quanto soggetti della dimensione radiofonica, parlare da protagonisti, progettare avventure da compiere più che da raccontare. È parte di un rilancio che mira ad affrontare un più generale problema formativo dell’Università italiana e, nel particolare, dei corsi di Scienze della Comunicazione che, anche nel Mezzogiorno, si sono moltiplicati. L’esperienza avviata da Menduni a Siena, in tal senso segna la strada. Creare ambienti radiofonici negli spazi universitari dei futuri comunicatori è una modalità già praticata, oltre che ipotizzata. In definitiva e più semplicemente risponde alla necessità di creare quella dimensione relazionale intensa, da punto a punto, che è sostanza e dimensione indispensabile della formazione e che permette di coniugare le intelligenze multiple dell’apprendere con le sfere altrettanto molteplici e potenti della comunicazione.

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ragioni del successo del mezzo radiofonico: un medium in grado di soddisfare gusti ed esigenze di fasce diverse di popolazione. Quante Italie la radio ha saputo rappresentare in poco più di un secolo, a quante ha saputo dar voce: l’Italia del melodramma, dell’opera lirica, della canzone e della musica pop; l’Italia calcistica, religiosa; letteraria; l’Italia degli emigrati, delle differenze regionali, e tante altre ancora.

So di accennare a una questione su cui difficilmente possiamo incontrarci tutti. Tra gli studiosi della società vi è sempre stata divisione tra coloro che privilegiano la struttura e coloro che si sono concentrati sugli agenti delle trasformazioni sociali. E tuttavia, pur rimanendo strettamente aderenti alla struttura, non possiamo dimenticare che tutta la letteratura dell’Evo di mezzo fu prodotta per un pubblico di ascoltatori, non certo di lettori. Un buon ascolto veicola sempre al testo, alle biblioteche (e alle librerie). Rispetto agli altri media la radio, che McLuhan annoverava al pari del cinema tra i media “caldi”, fa differenza, perché agisce direttamente sull’intelligenza emotiva, quella su cui continuiamo a saperne poco, ma la più ancestrale, la più utile a sviluppare relazioni, empatia, cooperazione, premura per l’altro, problem solving, poiesi creativa. Un’intelligenza non solo giovanile, ma generale, di ogni età e condizione sociale. Il flusso di emozioni evocato dalla sonorità vocale è una delle

Abbiamo voluto rendere possibile un incontro tra i testimoni delle prime emittenti dell’Italia liberata, riaprendo così una pagina di storia nazionale che può avvalersi oggi di nuovi arricchimenti. A Palermo il 6 agosto erano cominciate le trasmissioni di carattere prevalentemente militari e le stazioni liberate dell’EIAR di Bari, Napoli e Cagliari rassicuravano gli italiani sulle intenzioni degli alleati. Nei mesi successivi all’8 setembre. del 1943, quando gli italiani appresero da Radio Londra della firma dell’armistizio di Badoglio, la radio funse da catalizzatore di sforzi per la riconquista della libertà: fu la prima voce sonora della democrazia riconquistata. Questo momento ricostruiscono gli amici di Bari, intrecciando le loro testimonianze con quelle dei testimoni di radio Napoli (Ghirelli), radio Palermo (Nicastro), radio Sardegna (Santoni Rugiu). Gli italiani avrebbero avuto modo di accorgersi subito del mutamento del linguaggio e della struttura dei notiziari, nonostante si trattasse di informare un paese occupato militarmente. Da quella

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Sui vantaggi evolutivi e semiotici della vocalità e della sonorità, punti di forza del broadcasting radiofonico hanno riflettuto in questi anni da prospettive diverse linguisti e sociologi della comunicazione e dei nuovi media. Si tratta di studiosi tutti felicemente attivi, alcuni dei quali hanno già avuto modo di incontrarsi nei tanti convegni che il centenario della scoperta di Marconi ha provocato. Essi forniscono anche in queste pagine ulteriori spiegazioni sulle cause del suo filing inarrestabile e ne affrontano da più angolazioni gli aspetti ibridativi; il suo rapporto con le avanguardie artistiche; gli aspetti commerciali, industriali, e le prospettive del fare radio oggi. C’è tuttavia una particolare cifra identificativa di questo nuovo appuntamento proposto da una sede universitaria del Sud, che vuol tentare un possibile intreccio tra memoria e futuro.

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chio sull’occhio, sostenuta anni fa da Raffaele Simone in un noto volume laterziano, possiamo trovarci tutti d’accordo: se il pendolo abbia ripreso ad oscillare spostandosi sull’ascolto. Se così fosse ne scaturirebbero nuovi doveri anche formativi, un nuovo impegno a costruire una cultura dell’ascolto, che è ancora tutta da conquistare. La mancanza di educazione all’ascolto –oltre tutto– è causa non seconda dei nostri disturbi di comunicazione, responsabile dell’entropia nei contesti di relazione. Simone ha parlato di una terza fase in cui saremmo già immersi: una fase in cui l’intelligenza simultanea della visione cede il passo a quella sequenziale dell’udito, che rende meno rilevante la visone alfabetica e le sue materializzazioni testuali. Non serve piangere, né ridere per le “forme di sapere che stiamo perdendo” (sottotitolo del fortunato volume): giova di più un’attitudine a valorizzare quel non-proposizionale; che segna oggi una distanza incolmabile tra l’insegnamento scolastico e universitario e il mondo della produzione simbolica giovanile, i suoi linguaggi. Simone ha chiuso quel saggio con lo “Zibaldone” di Leopardi, che già si domandava, ai suoi tempi, se l’analisi (l’analisi dei testi, a cui prevalentemente dedichiamo la nostra attività di chierici accademici) non fosse nemica delle emozioni, “…la morte della bellezza e della grandezza loro”.

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Da queste riflessioni sul medium radiofonico sono venuti stimoli che evocano voci più antiche sedimentatesi nel corso del Novecento, cariche ancora dei primi stupori sulle potenzialità del mezzo radiofonico e la sua intrinseca vocazione pedagogica. Sono giustamente sbalzate sulla radio smaterializzata dell’età di Internet le analisi di Arnheim, e dell’intero percorso cognitivo che sta tra Benjamin a Brecht, Adorno e Gadda, McLuhan e Enzensberger. Un filo rosso che attraversa anche queste pagine. La radio non dispone di un suo archivio, perché difficilmente si sono conservati testi destinati al consumo quotidiano di informazioni e di intrattenimento (De Luna ci intrattiene brevemente su

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questo aspetto: sugli sforzi che egli conduce per la costruzione di un archivio storico di documentazione). Comincia a disporre invece di una crescente attenzione bibliografica, che la racconta, la indaga, ne esalta le funzioni sociali: prima fra tutte la formazione di un comune senso dell’appartenenza, dell’identità degli italiani, nella vivacità delle loro differenze narrative che la radio più ancora della televisione ci ha saputo descrivere. Un Convegno di studio sulla Radio, al di là degli aspetti storici, sociolinguisti, industriali, non può tacere tuttavia sulle condizioni in cui versa in questo momento l’azienda pubblica RAI. E questa è un’altra delle buone ragioni che ci hanno orientato nella scelta del tema. Non tocca a noi prendere la parola su questo aspetto, pur avendo sottolineato nelle giornata sull’informazione che si è svolta il 6 marzo e nei seminari che ne sono seguiti nel corso dell’a.a. 200102 svolti con operatori locali della carta stampata e delle televisioni, tutti i rischi connessi a una limitazione dei diritti compresi nell’art.21. L’informazione –abbiamo scritto in un breve testo firmato da alcune decine di docenti del nostro Ateneo, inviato al Capo dello Stato e ai due Presidenti di Camera e Senato– è un bene di tutti ed è un esercizio di sovranità popolare quello di vigilare sul pluralismo dei mezzi di comunicazione. La questione è tutt’altro che risolta e ce lo conferma ogni giorno lo stato di degrado in cui versa la cultura editoriale del servizio pubblico. La presenza tra noi di un dirigente della Divisione radiofonica Rai, Antonio Bottiglieri, potrà aiutarci a capire qualcosa sulle scelte che vanno maturando nella devolution radiofonica. E chissà che non ci faccia comprendere pure le ragioni, ai più misteriose, della scomparsa dai palinsesti di RadioTre di trasmissioni intelligenti, come MattinoTre, Buddha Bar e Arcimboldo.

Fare radio, una radio di Ateneo, fu la prima richiesta che alcuni dei nostri studenti rivolsero già sul suo nascere del corso di Scienze della Comunicazione, e ricordo il primo collegamento con Siena, in cui spiegavamo come e perché un corso di comunicazione nel tacco d’Italia. Un’iniziativa che allora fu frenata (dovevamo convincere molti colleghi dubbiosi che non si era dato vita a un corso per nani & ballerine, come si scriveva in quei mesi nel noto scambio di cortesi strambotti tra filosofi e comunicazionisti togati).

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emittente si alternarono le prime voci dell’antifascismo (Giorgio Spini, Alba de Céspedes, Anton Giulio Majano, Pio Ambrogetti, Agostino Degli Espinosa, l’autore della Storia del Regno del Sud, e tanti altri). La rubrica l’Italia combatte parlava all’opinione pubblica meridionale e ai partigiani: un compito decisivo nell’orientamento delle tante anime spesso contrastanti dell’antifascismo meridionale. Fu dall’emittente del capoluogo regionale pugliese di via Putignani che si cominciarono a diffondere nelle case degli italiani i primi brani di jazz, del boogie-woogie. La prima sezione di questo Quaderno si chiude con un flash sulla radio degli anni Cinquanta, la radio che orienta ai consumi (De Nitto), ben consapevoli dei tanti altri tasselli che si potrebbero far emergere su questa fase più pedagogica che la radio ha svolto. Un solo esempio per tutti: sono stati raccolti e pubblicati a stampa per la prima volta i testi di un ciclo di trasmissioni radiofoniche di Ernesto de Martino, registrate e poi trasmesse nel 1954 dal Terzo programma della RAI. La “voce” di De Martino, introdotta da Lombardo Satriani e Letizia Bindi in un agile e utile libretto di Boringhieri appartengono all’Archivio della RAI Televisione e sono state riproposte nel 1999 da Radio Tre, in una trasmissione monografica dedicata all’ autore della Terra del rimorso e di Sud e Magia. Una miniera di spunti per un lavoro didattico pluridisciplinare che ci aiuterebbe a recuperare in un corso, che con forti motivazioni culturali abbiamo voluto che fosse interfacoltà, tutto lo spessore culturale che sta dietro quel fenomeno di largo consumo e di marketing giovanile che si cela nel fenomeno del tarantismo e delle “pizziche” estive turistizzate.

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Ringraziamenti

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Al Magnifico Rettore, per il saluto “argomentato” ai nostri lavori e per il sostegno finanziario. Al Dipartimento di Filosofia e Scienze sociali che ha patrocinato convegno e fascicolo n.2 di Comunicazione in co-finanziamento. Agli Studenti che hanno realizzato il bozzetto (Raffaella La Torre, Mariannicole Grieco, Nunzio Pacella, Valeria Potì, Annalisa Tedeschi) e sostenuto gli aspetti organizzativi (Elisa Tramacere, Laura Mangialardo, Sara Trisciuzzi, Valentina Strafino, Angelo Lombardi), sbobinato le registrazioni degli interventi (Annalisa Gentile, Valeria Gioia, Annamaria Boffola); al gruppo PAZ che ha organizzato il pomeriggio presso i Cantieri Koreja, ai web (Vincenzo Urso, Pierfausto Martina e Andrea Ingrosso). A Claudio D’Attis, Annalisa Gentile, Fabio Ingrosso, Emanuela Musca che hanno realizzato il videoclip Mezzogiorno di radio. Ai Professori che li hanno guidati e sostenuti (Favale e Valletta in particolare). Ai Cantieri Koreja e a Franco Ungaro per la squisita ospitalità. Alla Banca popolare pugliese. Agli Organi di informazione, stampa e tv locali e alla Terzarete Rai che ci seguono con interesse e attenzione. A Vito Antonio Leuzzi, direttore dell’Istituto pugliese per la storia dell’antifascismo e dell’Italia contemporanea per la documentazione fornita, nonché per lo spirito di viva e cordiale collaborazione.

Parlare della radio come fonte per la ricerca storica vuol dire innanzitutto confrontarsi con la storia della radio, o, meglio, con la storia della sua ascesa egemonica nei confronti degli altri mezzi di comunicazione di massa. Questa vicenda é strettamente intrecciata a quella della “grande trasformazione” che investì il mondo tra le due guerre mondiali. La radio fu l’assoluta protagonista di quel periodo lasciandoci dei documenti che non sono soltanto documenti “della sua storia”. Più é stata forte, determinante, incisiva la sua presenza nella società, nel costume, nella cultura, nella politica, più é forte in senso storiografico la documentazione sedimentata dalla produzione radiofonica. Non a caso il suo declino come fonte coincide con la sua perdita di egemonia, con l’avvento della televisione che le si sostituì in tutto, anche nell’intreccio con la storia. Conoscerne la storia, avere familiarità con la “cultura radiofonica”, vuol dire quindi essere consapevoli che, grazie alle parole e al modo in cui sono state raccolte, la radio ripropone una storia con una dimensione del tempo che non é quella lineare della diacronia quanto quella accidentata del ricordo e della memoria; lo storico che ascolta le sue trasmissioni utilizzandole come fonti deve avere la capacità di coglierne il sapore evocativo, stabilendo una risonanza emotiva con quei suoni che vengono dal passato tale da consentirgli di ricrearlo non più solo come ricordo ma come testimonianza e fonte di conoscenza. Basta saper ascoltare non solo con le orecchie ma formulando domande guidate da un robusto progetto di ricerca. Si prenda ad esempio il materiale radiofonico sulla seconda guerra mondiale. In un mondo come quello della “guerra totale”, tutto quanto appariva ferocemente contrapposto nel cielo delle ideologie e nella drammaticità degli eventi militari, tendeva ad assumere tratti di marcata uniformità quando ci si avvicinava ai comportamenti collettivi, al modo di vivere, alle abitudini, alla quotidianità della gente. Ebbene la radio appare oggi uno strumento di straordinaria efficacia per lasciare affiorare questa uniformità. Dai microfoni delle emittenti dei vari paesi belligeranti

giovanni de luna la radio, fonte storica

Un’idea che oggi potrebbe essere più fondatamente ripresa e sperimentata. Chissà che essa non aiuti a lenire le entropie istituzionali, la ridondanza delle informazioni, e che la stessa scena teatrale dell’insegnamento non possa trarne beneficio.

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rimbalzavano gli stessi termini, gli stessi argomenti, nelle canzoni, nei radiodrammi, nelle trasmissioni di propaganda, nelle rubriche di cucina, nelle conversazioni con gli ascoltatori. La nascita del mondo della “grande trasformazione” assumeva così precocissimi caratteri di “omologazione” che la televisione e gli altri mezzi di comunicazione del “villaggio globale” avrebbero in seguito enormemente dilatato e enfatizzato. Proprio nella radio, l’intenzionalità, intesa nell’accezione classica di sfida al futuro per imporre la propria versione dei fatti storici e una propria immagine particolarmente edificante, é ovviamente massima nei discorsi radiofonici dei grandi leaders politici che parlano direttamente “alla storia”. È anche massicciamente presente, in generale, in tutta la documentazione degli eventi politici, diplomatici e militari, per sfumare e diminuire progressivamente man mano che si passa alle zone grigie e indistinte della cronaca della quotidianità, dove i documenti radiofonici diventano appunto le classiche fonti che parlano “malgrado se stesse”, che forzano l’intenzionalità dichiarata dei propri autori racchiudendo una miniera di informazioni “inconsapevoli”.

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Radio e storia. Il Mezzogiorno

Radioricevitore CGE mod. Audiola,1932

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michele campione la voce dell’italia libera

C’è una ragione che dà concretezza storica all’evento di oggi e ai risultati che dall’incontro odierno si potranno ricavare: e cioè la riproposta del ruolo e del significato che Radio Bari ebbe subito dopo l’armistizio del settembre del ’43 nella seconda guerra mondiale. Fu un ruolo di eccezionale importanza per il tempo, per lo scenario nel quale questa attività si inserì, per i risultati conseguiti, per il contributo che l’attività di Radio Bari diede alla nascente democrazia dopo la caduta del fascismo, per il significato politico dell’azione svolta dallo sparuto gruppo di antifascisti che dall’inizio gestì le trasmissioni dell’emittente barese, per i rapporti non semplici con gli Alleati, con il governo Badoglio, per la presenza del Re a Brindisi. “Le giornate eroiche e romantiche di Radio Bari”: così ebbe a definirle il maggiore inglese Jan Greenless che il Comando Supremo Alleato aveva designato come responsabile di Radio Bari. Ed aggiunge Walter Galasso che “la coabitazione in Radio Bari di antifascisti italiani e degli Alleati è un momento particolarmente importante perché significò il passaggio dalla occupazione alla responsabilità, non più determinismo ma determinazione”. Conviene, quindi, rifarci al quadro globale del momento storico nel quale questi eventi si collocano. E prima di andare avanti in questo viaggio un po’ a ritroso nel tempo, consentitemi una notazione personale. Sono stato il Direttore di Radio Bari alla fine degli anni ’80 e sino al momento in cui, per limiti di età –come si dice con un’allocuzione ingenerosa– dopo circa quarant’anni di giornalismo, ho lasciato la RAI. Sono quindi, in un certo senso, il successore di quel Direttore di Radio Bari dell’estate del ’43, che si trovò ad avere a che fare con tre antifascisti, espressione del CLN –il Comitato di Liberazione Nazionale– che volevano “parlare alla radio”, come i tre, e cioè Michele Cifarelli, Segretario del Comitato e magistrato, il professor Michele D’Erasmo, docente di Lettere ed il professor Giuseppe Bartolo, docente di Storia e filosofia, dissero di voler fare.

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fascisti, spiega chi siano e che cosa vogliano. Poi chiede consigli e suggerimenti su come comportarsi. Il Prefetto annota diligentemente i nomi dei tre e assicura che farà saper qualcosa al più presto. Quindi scrive a matita, non si sa mai, una “riservata” come si dice in gergo, indirizzata al Ministro dell’Interno. Aggiunge di suo pugno la notazione che Cifarelli è un magistrato e quindi ci si può fidare. Tra la caduta del fascismo, il 25 luglio e l’armistizio dell’8 settembre, c’è una specie di zona grigia, di limbo politico-amministrativo durante il quale emerge come dato importante e significativo il contrasto fortissimo tra l’azione dei partiti antifascisti che puntano alla sostituzione degli amministratori pubblici compromessi con il fascismo e il tentativo del governo Badoglio di frenare l’attività dei Comitati di Liberazione Nazionale per favorire, invece, la presenza di esponenti di idee conservatrici e liberali fedeli soprattutto alla monarchia. Sostiene Vito Antonio Leuzzi in Prime voci dell’Italia libera (Edizioni dal Sud), che “l’intento della monarchia e del governo era quello di ricostituire un blocco di forze moderate non dissimili da quelle che avevano favorito l’avvento del fascismo, capaci di facilitare il processo di passaggio al dopo fascismo sotto il segno della continuità”. Forse c’è da fare, a nostro parere, anche un’altra considerazione politica per capire a fondo lo scenario di quel periodo. Michele Cifarelli, Michele D’Erasmo e Giuseppe Bartolo appartengono al filone del riformismo laico e liberal-repubblicano. Non va dimenticato che i tre facevano parte del gruppo che si riuniva a Villa Laterza ogni qual volta don Benedetto –cioè Croce– veniva a Bari per incontrare i suoi interlocutori politici giovani e meno giovani. Sono quindi particolarmente impegnati, come prospettiva politica prioritaria, nella creazione di una classe dirigente pugliese e meridionale che dovrà prendere il posto dell’establishment burocraticoamministrativo creato dal fascismo. Questa prospettiva politica di ispirazione salveminiana e che si rifà all’azione politica dello storico molfettese, colloca necessariamente in secondo piano l’esigenza di collegarsi con le forze popolari cattoliche da una parte, di estrazione moderata e con quelle socialista e marxiste dall’altra. Sono due mondi, due arcipelaghi politici, due galassie che i tre al-

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Era il 26 luglio del ’43. Siamo all’indomani della caduta del fascismo. Grandi manifestazioni popolari di esultanza anche a Bari. I soldati inneggiano alla fine della guerra, ma così non sarà. Per i baresi è in agguato la tragedia del 28 luglio: su una pacifica dimostrazione di studenti, operai, antifascisti appena liberati dal carcere, si abbatté in via Niccolò dell’Arca, sede della federazione fascista, la inconsulta reazione di un reparto di soldati che sparò senza preavviso. Il tragico bilancio fu di decine di morti e feriti. Tra le vittime Graziano Fiore, figlio di Tommaso Fiore. Di questo eccidio non un rigo sulla stampa sottoposta alla censura. Nel processo che seguì anni dopo non fu possibile accertare la verità. Fatale riferimento la circolare del Comando Supremo del Regio Esercito che così stabiliva: “Siano assolutamente abbandonati i sistemi antidiluviani, quali i cordoni, gli squilli, le intimazioni e la persuasione e non sia tollerato che i civili sostino presso postazioni militari. Si apra il fuoco a distanza, anche con artiglierie e mortai senza preavviso come se si procedesse contro truppe nemiche. Si tiri sempre a colpire come in combattimento”. Accanto a queste draconiane disposizioni ne erano in vigore altre che riguardavano il coprifuoco dal tramonto all’alba, il divieto di radunarsi in più di tre persone, di tenere comizi e conferenze anche al chiuso, il ripristino della censura su ogni tipo di pubblicazione, dai giornali ai libri. Siamo dunque al 26 luglio. I tre antifascisti si presentano alla sede di Radio Bari in via Putignani e chiedono di parlare con il Direttore, l’ingegner Damascelli. È un ingegnere barese, fascista come tutti i dirigenti dell’epoca, convinto, tenace burocrate. Senza mezzi termini i tre dicono a Damascelli che vogliono “parlare alla radio” e che rappresentano i partiti antifascisti e il Comitato di Liberazione Nazionale. L’ingegnere li sta ad ascoltare. In realtà non sa che pesci prendere, ma poi ha una folgorante illuminazione sbocciata dalla burocrazia. Ai tre interlocutori dice: “Ho bisogno di un po’ di tempo perché devo parlare con Torino. Vi farò sapere”. I tre rimangono un po’ interdetti, ma poi si accontentano dell’impegno preso. Se deve parlare con Torino, parli pure. Se ne vanno, ed appena i tre sono usciti Damascelli telefona, non a Torino, ma al Prefetto di Bari Li Voti. Lo informa che sono venuti tre anti-

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Da Taranto, a bordo di una jeep, Greenless viaggia alla volta di Bari. Arriva in via Putignani, sede della RAI –allora EIAR–, riceve il saluto di un carabiniere di guardia all’ingresso, e si installa nei locali della Direzione della Sede a pianoterra. Subito dopo si incontra con il gruppo degli antifascisti che presidiano sede ed impianti. Chi è Greenless? È un ufficiale di origine scozzese, buon conoscitore della lingua e della letteratura italiane, traduttore delle opere di Croce per la casa editrice Mc Millan. Sembra un personaggio fatto su misura per il compito che gli è stato affidato: far funzionare al meglio Radio Bari. È lo stesso Greenless che ricorda il primo incontro con gli italiani. “C’erano –egli dice– Giuseppe Bartolo, Michele e Raffaele Cifarelli, Michele D’Erasmo, Vittore Fiore, Beniamino D’Amato, Franco Cagnetta, Domenico Loizzi, Antonio D’Ippolito. Ci riunimmo tutti e decidemmo di cominciare subito le trasmissioni, dapprima modeste e fatte soprattutto di notizie, poi di commenti politici, di programmi speciali come quelli indirizzati ai partigiani con ‘Italia combatte’, e poi ancora i programmi per i lavoratori”. Il primo notiziario va in onda letto da “Simplicius”, così si firma Giuseppe Bartolo, la cui voce fu ritenuta la più “radiofonica” fra le altre. Agostino Degli Espinosa è “Astolfo”. Diego Calcagno preferisce chiamarsi “Abele”. Waldo Spini è “Waldo Gigli”, Antonio Picone Stella “Francalancia”, Alba De Cespedes “Clorinda”, Antonietta Drago “Giuditta”, Antonio Aldini è “Antonio Rivolta”. Sono scrittori, giornalisti, uomini di cinema, poeti, ma anche tecnici ed esperti di radiofonia che non possono raggiungere Roma occupata dai tedeschi e si ritrovano attorno a Radio Bari. Li chiamarono “i Cento di Radio Bari”. Si arrangiano alla meglio con i buoni mensa forniti loro dagli Alleati. La polemica politica tra Radio Bari e il Governo di Brindisi è sempre viva e non di rado dura. Badoglio un giorno ordina al Questore di vietare al gruppo degli antifascisti di entrare nella sede RAI. Greenless che ha avuto ampi poteri dal Quartiere Generale Alleato deve impegnarsi a fondo per respingere la iniziativa del Governo di Brindisi. Il divieto è annullato e le trasmissioni di Radio Bari continuano. Anzi crescono fino a coprire con il palinsesto quotidiano l’arco di tempo che va dalle sei di mattina all’una di notte con tredici edizioni del giornale radio oltre a concerti, commenti, rubriche. Norme severissime vengono impartite alle autorità militari dal

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meno per il momento si guardano bene dall’esplorare e dall’indagare a fondo. Non averlo fatto o avendo sperimentato con scarso successo itinerari politici di possibili ampie aggregazioni dei ceti borghesi e di quelli proletari, impedisce tutto sommato a Radio Bari di crescere per comprendere, in termini politici, scenari a tutto tondo, anche se in nuce, con felici intuizioni, tutto questo si ritrova nelle trasmissioni di Radio Bari. Né ci pare possa essere sottovalutato il fatto che esiste una emergenza sovrana su tutto ed è la lotta al nazismo ed al fascismo e la liberazione del nostro Paese. Comunque l’iniziativa di Cifarelli, Bartolo e D’Erasmo presenta caratteri eccezionali con straordinarie imprevedibili prospettive nel gestire, al servizio della nascente democrazia, un mezzo di comunicazione sociale come la radio che rappresenta in quel momento storico il massimo di presenza capillare che può essere realizzata. Ci si potrebbe chiedere a questo punto perché i tre puntino sull’impiego della radio, un mezzo che presuppone anche conoscenze tecniche non indifferenti invece di ripiegare su strumenti tradizionali come i giornali. Forse c’è la consapevolezza che la radio, come servizio pubblico, può essere legittimamente a disposizione della comunità e quindi dei partiti che della società sono gli interpreti ed i portatori delle istanze, delle attese, delle speranze dei cittadini. Poi perché con la radio è facile arrivare nelle case. Il giornale, invece, oltre che stamparlo va distribuito capillarmente nei grandi come nei piccoli centri se si vuole che il messaggio arrivi a tutti.Quindi occorrono mezzi per collegare i vari paesi e non ci sono né i mezzi, né la benzina, e soprattutto i partiti non hanno fondi per i giornali. Dunque la radio, in grado di collegarsi con i patrioti che operano al Nord, come con gli italiani che si trovano nei territori occupati dai tedeschi e dai fascisti. Infine la considerazione che gli Alleati puntano proprio sul ruolo dei messaggi radiofonici, sulla loro importanza per tener vivi i collegamenti al di là del fronte. E veniamo ora al 10 settembre del ’43. A Taranto da un sommergibile sbarca il maggiore inglese Jan Greenless che ha ricevuto dal Quartiere Generale Alleato di Algeri un compito preciso: occupare Radio Bari, far funzionare gli impianti per avere una voce dall’Italia, dall’Europa continentale.

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sono disperati. Ma ecco che prima di passare alla sigla di chiusura l’annunciatore tedesco dice: “Ed ora una notizia che riguarda l’Italia occupata. Il Congresso di Napoli non si tiene più” e giù con pesanti ironie sulle mirabolanti promesse di libertà e sulle bugie degli angloamericani. Il gioco è fatto. Eisenhower in persona dispone che il Congresso si faccia a Bari. Ultime resistenze degli inglesi: è meglio che i civili non entrino nel Piccinni, sede del Congresso, perché ci possono essere attentati. Si promette che gli interventi di maggiore importanza saranno registrati da tecnici inglesi e divulgati in piazza Prefettura, il che puntualmente non avviene. L’eco politica del Congresso di Bari è enorme tra i partiti. Molti delegati attraversano le linee tedesche per essere presenti all’incontro che Radio Londra definisce come “il primo Congresso democratico che si raduna sul continente europeo dal giorno in cui Hitler vi spense il lume della democrazia”. A Bari giunge anche Cecil Sfrigge, il mitico inviato del Times di Londra. La BBC inglese trasmette per suo conto le sintesi degli interventi di rilievo, tra cui il discorso di Benedetto Croce sulla libertà, la requisitoria del conte Sforza contro la monarchia e i contributi dei rappresentanti dei partiti antifascisti italiani. Segretario del Congresso di Bari è Michele Cifarelli. Sono giornate vibranti di passione politica. Paradossalmente questo momento così intenso segna l’inizio del declino di Radio Bari. A poco più di un mese dalla data del Congresso, tutto il personale della PWB, da Bari viene trasferito a Napoli. Anche i tecnici e i giornalisti lasciano il capoluogo pugliese. Siamo a metà marzo. Delle trasmissioni politiche, dell’impegno a favore della democrazia e della libertà nemmeno l’ombra nei notiziari irradiati da Radio Napoli, che è sotto l’egida degli americani del generale Clark. Commenta Greenless: “Tutto è in mano ad un ‘piccolo americano’”. La grande stagione degli ideali pareva tramontata. A Napoli furono cancellati i commenti politici e le rubriche sulla vita dei partiti. Favorite invece le trasmissioni di varietà, le canzoni, il divertimento come si diceva allora. E varietà, canzoni e divertimento erano tutti di matrice americana. Dalle colonne della rivista “La Rassegna” di Antonio Amendola e dai microfoni di Radio Bari il giovane Aldo Moro, allora Capitano

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governo Badoglio: riguardano il coprifuoco, la censura preventiva, le autorizzazioni innumerevoli e complesse per ottenere il permesso di pubblicare un giornale, compresi quelli per i ragazzi. Tra l’altro occorre dimostrare di disporre della carta necessaria per la stampa. Quasi tutte le richieste vengono respinte dalla Commissione per la censura. Se questo vale per i giornali, figuriamoci una emittente radio in mano ai nemici della monarchia. Il momento più alto dell’azione politica svolta da Radio Bari è il Congresso dei Comitati di Liberazione Nazionale di tutta Italia che si tenne a Bari il 28 e 29 gennaio del 1944. Il Governo Badoglio e i Circoli filomonarchici, con l’assenso tacito della Corte britannica, non vogliono che i partiti antifascisti si riuniscano perché temono che l’incontro possa trasformarsi in un momento “Costituente” per la questione istituzionale. Che possa trattarsi cioè di una specie di referendum contro la monarchia sabauda. Il Congresso avrebbe dovuto tenersi a Napoli, ma gli Alleati fanno sapere ai rappresentanti dei partiti che non è possibile perché Napoli è troppo vicina al fronte e poi è in corso un’epidemia di tifo. Non è vero niente, ma il consiglio, sotto forma di suggerimento, è uno solo: meglio lasciar stare tutto. Cifarelli e Bartolo non intendono però lasciarsi sfuggire questa grossa occasione e allora decidono di scommettere su una possibile polemica giornalistica che sarebbe derivata dalla divulgazione della notizia che il Congresso non si sarebbe tenuto. L’idea di fondo era questa: se i tedeschi non sono stupidi prenderanno a volo la notizia per dire: “ecco, questi sono i liberatori, i paladini della democrazia!” E gli Alleati sicuramente, pensano ancora Bartolo e Cifarelli, non vorranno perdere la faccia. La notizia del mancato Congresso viene stilata senza nessuna enfasi e portata al Direttore Greenless al quale Bartolo e Cifarelli spiegano le ragioni della vicenda. Greenless guarda i due e poi dice: “Va bene, potete trasmetterla”. Una breve pausa, quindi aggiunge: “E fate in fretta, anche perché oggi sono in ferie”. La notizia viene letta alle 19.00 e alle 22.30, ora di trasmissione del Notiziario di Radio Berlino, comincia l’attesa. A Radio Bari ci si chiede: “Avranno abboccato all’amo i tedeschi?”. Il notiziario prosegue: notizie dal fronte russo, poi dal fronte interno, la guerra dei sommergibili sui mari ed eccoci al fronte italiano. Notizie di scontri, ma nessuna che si riferisca al Congresso. Bartolo e Cifarelli

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vito antonio leuzzi radio bari 1943-1944

Dopo l’8 settembre 1943 Radio Bari, che costituiva una delle più importanti strutture dell’EIAR1, grazie all’intervento dei tecnici, venne sottratta ai tentativi di distruzione messi in atto dai reparti della Wermacht che non riuscirono nel capoluogo pugliese a sabotare il porto, il palazzo delle Poste ed altre infrastrutture militari e civili2. L’emittente barese iniziò immediatamente a trasmettere le prime notizie relative all’armistizio, allo sbarco anglo-americano in Puglia ed alla lotta antitedesca anche per iniziativa di un gruppo di antifascisti, che avevano aderito dalla fine degli anni Trenta al gruppo liberal-socialista fondato a Bari da Tommaso Fiore, tra i quali il giudice Michele Cifarelli, Giuseppe Bartolo, Raffaele Cifarelli, Vittore Fiore, Antonio D’Ippolito, Michele D’Erasmo, Franco Cagnetta3.

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Sin dagli anni della guerra gli antifascisti di Bari erano riusciti ad organizzare una vera e propria struttura di controinformazione. Così Mario Melino, uno dei giovani aderenti al movimento liberalsocialista, ricostruisce l’intensa attività antifascista: “A Michele Cifarelli il gruppo aveva affidato, oltre a settori di penetrazione politica anche il compito di riferire le trasmissioni di Radio Londra. Alle 17 ci davamo appuntamento in Prefettura e tutte le volte Michele ci sbalordiva per la completezza anche nei minimi dettagli delle notizie che aveva ascoltato. Dopo il luglio 1941 e per circa un anno quella piazza sembrava trasformarsi in un otto volante”4. Il gruppo liberal-socialista, che confluì nel partito d’Azione, svolse in ruolo decisivo per la libertà d’informazione, sottoposta ad una rigida censura badogliana nella fase di transizione dal fascismo alla repubblica5. Il tempestivo intervento degli anglo-americani impedì agli esponenti badogliani di continuare ad esercitare un controllo totale della radio. Il PWB (Psycological Warfare Branch) fu sollecito ad occupare prima di ogni altra struttura militare e civile, la sede barese dell’E.I.A.R. Infatti il primo ufficiale alleato a mettere piede a Bari fu Ian Greenless che aveva ricevuto a Tunisi l’ordine di trasferirsi a Bari in concomitanza con l’annuncio dell’armistizio6. Greenless che era stato traduttore di Croce per la casa editrice Mc Millan, utilizzò nella gestione della radio le competenze degli intellettuali democratici. La sua opera venne sostenuta anche dal maggiore Robertson, un altro ufficiale scozzese che agevolò il tentativo di mantenere una relativa autonomia della Radio dalle direttive del governo inglese, schierato a difesa della monarchia e di Badoglio. A questo proposito sostiene lo storico Giorgio Spini (che alla fine del settembre ‘43 come ufficiale dell’esercito italiano era stato distaccato dall’ufficio stampa del Comando supremo all’emittente barese): “Ma i miei due scozzesi, con la più britannica flemma di questo mondo, fecero finta di non aver capito cosa volesse il loro governo e trasformarono Radio Bari nella voce dell’Italia antifascista dei CLN”7. Radio Bari, infatti, a differenza di Radio Palermo, Radio Sardegna e di Radio Napoli che dopo l’arrivo degli alleati vennero utilizzate come strutture strettamente legate alle esigenze militari soprattutto della V armata americana, sperimentò una gestione dei diversi servizi informativi della radio aperta all’apporto degli intellettuali antifascisti e dei diversi rappresentanti politici del CLN.

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di aviazione perché docente universitario, ammoniva, come ricorda Antonio Rossano in Qui Radio Bari (Edizioni Dedalo) che “l’antifascismo ha da essere principio di autocritica e di impulso al rinnovamento perché è esso stesso un nuovo mondo di libertà responsabile, di amore, di pace”. È stato anche scritto che forse Mussolini nella kafkiana solitudine di Salò ha ascoltato da Radio Bari commenti ed idee, esortazioni ed inviti perentori, incitamenti ed appelli. La coscienza intera di un paese che si poneva nuovi traguardi di dignità di partecipazione, di solidarietà operante, di libertà. Nell’aprile del ’44 da Napoli, dove risiedeva, Jan Greenless scrisse a Michele Cifarelli. “Ricorderò sempre, diceva la lettera, quei primi giorni dopo l’armistizio quando venni a Bari per far funzionare la stazione radio. Ero solo però ebbi la fortuna di incontrarmi con Lei. C’era molta confusione negli animi degli Italiani ed era importante trasmettere notizie serie e commenti politici equilibrati. Fu la prima voce democratica trasmessa dal continente italiano da più di venti anni. Si iniziò la divulgazione della dottrina democratica sul suolo italiano”. E sinceramente non fu cosa di poco conto. Anche per questo mi sia permessa la soddisfatta consapevolezza di essere stato, come giornalista, Direttore di Radio Bari.

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calancia), Agostino degli Espinosa e Giorgio Spini che utilizzò lo pseudonimo di Valdo Gigli. Quest’ultimo spiega nei suoi ricordi autobiografici che non usò il suo nome e cognome “per non procurare guai alla famiglia”, rimasta a Firenze sotto l’occupazione nazista12. L’attività di Radio Bari, inizialmente limitata a poche ore di trasmissione, con una prevalenza di notiziari e musica leggera, si sviluppò pienamente tra ottobre e novembre, disponendo di più di dieci edizioni di giornali radio e di programmi che ininterrottamente si susseguivano dalle 5,55 alle 2,05. I notiziari più importanti erano quelli delle 22.00 e delle 23.00, perché venivano captati da molte stazioni straniere ed in particolare da Radio Berlino. Quest’ultima attaccava quasi quotidianamente la più importante emittente dell’Italia libera, definendola “radio vergogna” e “radio sinagoga”13. Accanto ai commenti politici, diverse rubriche “Le Donne a Casa”, “La Voce dei giovani”, “La voce dei lavoratori”, animarono Radio Bari suscitando la forte ostilità degli ambienti monarchico-clericali. Uno dei protagonisti di quell’esperienza, il giornalista abruzzese Libero Pierantozzi, che divenne in seguito caporedattore dell’“Unità” e del settimanale “Rinascita”, così ricostruiva l’intensa attività svolta a Bari: “La Voce dei giovani nasce in novembre (1943) e si fonda immediatamente sulla ancora scarsa documentazione reperibile della lotta partigiana e sulla dura e aggressiva azione propagandistica anti-repubblicana. Ben presto la sua polemica si estenderà anche contro la innata boria sciovinistica dei circoli ufficiali monarchici… Più tardi con l’aiuto di una intervista concessami da Togliatti a Napoli, in via Medina, La Voce dei giovani rintuzzò l’ostinato j’accuse di Croce sulle presunte responsabilità fasciste dei giovani”14. A rendere popolare l’emittente tra i combattenti contro il nazifascismo nei Balcani e nell’Italia Centro Settentrionale la rubrica “Italia Combatte”: Sulla “Gazzetta del Mezzogiorno” del 18 Dicembre 1943, il giornalista Picone Stella così presentava la nuova trasmissione: “Un notiziario aggiornato e vivace, racconti di fatti personali vissuti da scrittori e giornalisti che hanno passato le linee, impressioni di cose vissute nei territori che subiscono l’odio antifascista, informazioni dal fronte della resistenza sull’attività dei patrioti, istruzioni per quanti intendono cooperare alla cacciata delle truppe germaniche dall’Italia, conversazioni, polemiche, battute umoristiche15. Il momento più alto e significativo della breve ma intensa attività politico-culturale dell’emittente barese si registrò con il Con-

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“Ci riunimmo tutti –ricorda Greenless– mettendo insieme un programma e decidemmo di cominciare subito le trasmissioni, dapprima modeste, e fatte subito di notizie, poi di commenti politici, poi di programmi speciali (come per esempio quelli indirizzati ai partigiani, come ‘l’Italia combatte’, o quelli per i lavoratori)”8. Nella sua lunga testimonianza l’ufficiale inglese evidenzia il ruolo in particolare del giudice Michele Cifarelli al quale fu affidato “il commento politico dei fatti del giorno inquadrandoli in una cornice chiaramente antifascista e presentando la guerra in corso come una guerra per la libertà delle idee, e di conseguenza come una guerra di liberazione dall’occupazione nazista”9. Il primo dei commenti radiofonici, del giudice barese, trasmesso il 18 settembre ’43, “La morte del fascismo”, ebbe una forte eco nell’opinione pubblica perché spiegava per la prima volta agli italiani non solo la funzione della “grande rivoluzione liberatrice in atto”, ma individuava le questioni più importanti della difficile transizione dal fascismo ad una società libera. “Noi vogliamo –affermava Cifarelli– che sia dato il giusto posto alla nuova classe dirigente che nel paese si è formata e che comprende quanti uomini onesti che durante il fascismo hanno adorato la libertà in silenzio senza piegare; quanti per vent’anni hanno lottato contro il fascismo nella cospirazione e negli esili o in qualsiasi altro modo fosse ad essi consentito specie nel campo della cultura; quanti, specie tra i giovani, nonostante il fascismo, hanno acquisito nella religione della libertà una preparazione morale ed intellettuale adeguata al cimento… Noi vogliamo che questa nuova classe dirigente sia posta in grado di rompere coraggiosamente e sistematicamente tutte le strutture fasciste della pubblica amministrazione, della finanza, dell’economia dell’organizzazione sociale, e di aprire per conseguenza le porte a quelle grandi correnti di opinioni, a quelle formazioni spirituali e di interessi che il popolo italiano saprà esprimere non appena gli sarà consentito di fruire in pieno della libertà”10. L’importanza del nuovo corso dell’emittente barese non sfuggì ai commentatori politici di Radio Londra che dal settembre ’43 utilizzarono Radio Bari come fonte d’informazione per spiegare le vicende politico-militari nell’Italia libera11. Al nuovo sistema d’informazione radiofonica dettero il loro apporto diversi giornalisti e intellettuali che erano riusciti a passare le linee tra cui Alba De Cespedes (Clorinda), Antonio Picone Stella (Fran-

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gresso di Bari dei CLN del 28 e 29 gennaio 1944. Nelle settimane che precedettero l’importante assise venne varata una nuova rubrica “La Voce dei partiti”. La nuova trasmissione, secondo Gianni Isola: “fu il perno di tutta l’iniziativa politica, che ospitando alla tribuna tutte le voci dell’arco antifascista riusciva contemporaneamente a portare alla superficie tutta l’effervescenza di un paese che per vent’anni si era apparentemente identificato nella univocità della dittatura”16. La profonda eco suscitata dal Congresso nella realtà internazionale, definito dai maggiori organi d’informazione internazionale ed in particolare da Radio Londra “il primo congresso democratico del continente europeo”17 indusse il governo conservatore inglese a rivedere l’assetto dell’emittente, assumendo la decisione di spostarne la redazione a Napoli. Con il trasferimento nel capoluogo campano dei responsabili del PWB, si chiudeva l’intensa fase politica dell’emittente barese. A Radio Napoli furono cancellate tutte le rubriche politiche e culturali che avevano caratterizzato per circa sei mesi la felice stagione di Radio Bari. “Fu la prima voce democratica –dirà Greenless nei suoi ricordi– trasmessa dal continente italiano da più di venti anni”18.

Note

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Nella mia vita professionale, naturalmente, mi è capitato di lavorare spesso per la radio ed anche per la televisione, sempre nelle emittenti del pubblico servizio, con un’esperienza breve ma significativa come direttore di un telegiornale, il TG2, dal 1986 al 1987. Ciò nondimeno, i miei ricordi più tenaci restano legati al periodo che risale al 1944/45 e che mi vide esordire come giornalista, radiocronista e regista a Radio Napoli, la trasmittente che –dopo un’iniziale permanenza della redazione a Bari– ospitò un gruppo di

antonio ghirelli radio napoli

La sede di Bari dell’E.I.A.R. (Ente italiano per le audizioni radiofoniche), costituitasi nel 1932, assunse immediatamente un importante ruolo nella politica espansionistica e militaristica del regime nei Balcani ed in Medio-Oriente. Nel 1934 ebbero inizio le prime trasmissioni in lingua araba con l’entrata in funzione di un trasmettitore ad onde medie della potenza di 20 Kw, collocato alla periferia della città nella frazione di Ceglie. Esisteva anche un secondo trasmettitore della potenza di 1 Kw presso la Fiera del Levante. Nel corso del conflitto si determinò una completa militarizzazione di tutto il sistema radiofonico e dell’informazione che senza soluzione di continuità, all’indomani del 25 luglio, passò dal controllo fascista a quello monarchico-badogliano. Cfr. F. Monteleone, Storia della RAI dagli Alleati alla DC, Laterza, Bari 1980; A. Rossano, Qui Radio Bari 1943, De Donato, Bari 1993. 2 Cfr. V. A. Leuzzi, La Città in guerra, in Problemi di storia del Novecento tra ricerca e didattica. Bari e la Puglia negli anni della guerra, a cura di V. A. Leuzzi e M. De Rose, Irrsae Puglia, Bari 1995. 3 Una ricostruzione delle origini del movimento liberal-socialista è contenuta in: M. Dilio, Puglia antifascista, Adda Editrice, Bari 1977; Le lotte politico culturali a Bari e in Puglia all’indomani della caduta del fascismo in Quella Bari del ’43, a cura 1

di M. Dilio, V. Fiore e V. A. Leuzzi, numero speciale della rivista “Ipotesi”, n.22, luglio-agosto 1993; saggio introduttivo alla riproduzione anastatica de “Il Nuovo Risorgimento”, a cura di G. De Luna, F. Fistetti e V. A. Leuzzi, Palomar, Bari 1996. 4 Cfr. lettera di Mario Melino a Vittore Fiore del 1 febbraio 1994 in “Carte Vittore Fiore” dell’Istituto pugliese per la storia dell’antifascismo e dell’Italia contemporanea (IPSAIC). 5 Cfr. Prime Voci dell’Italia libera, a cura di V. A. Leuzzi, Edizioni dal Sud, Bari 1996. 6 Cfr. I. Greenless, Radio Bari 1943-1944, in Inghilterra e Italia nel 900 (Atti del Convegno di Lucca), la Nuova Italia, Firenze 1973. 7 Cfr. G. Spini, La Strada della liberazione. Dalla riscoperta di Calvino al Fronte dell’VIII Armata, a cura di V. Spini, Claudiana,Torino 2002, p.114. 8 Cfr. I. Greenless, Radio Bari 1943-1944, cit., p. 234. 9 Ibid., p. 235. 10 Copia del Documento è nella “Carte Cifarelli” Archivio IPSAIC. 11 Cfr. Radio Londra 1940-1945. Inventario delle trasmissioni in Italia, vol. II, a cura di M. Piccialuoti Caprioli, Ministero per i beni culturali ed ambientali, Roma 1980. 12 Cfr. G. Spini, La Strada della liberazione cit., p. 115. Cfr. anche A. Degli Espinosa, Il Regno del Sud, 8 settembre 1943 - 4 giugno 1944, Migliaresi Edizioni, Roma 1946 (altre edizioni, a cura di F. Santarelli, Editori Riuniti, Roma 1973 ed a cura di G. Russo, Mondadori, Milano 1993). 13 Cfr. Radio Londra 1940-1945 cit. 14 L. Pierantozzi, Radio Bari e Radio Napoli, settembre 1943-1944 in Mezzogiorno e fascismo, Atti del Convegno nazionale di studi promosso dalla regione Campania, Salerno - Monte San Giacomo 11-14 dicembre 1975, a cura di P. La Veglia, vol. 2, ESI, Napoli 1978, p.195. 15 Cfr. “La Gazzetta del Mezzogiorno”, 18 dicembre 1943. 16 G. Isola, Cari amici vicini e lontani. Storia dell’ascolto radiofonico nel primo decennio repubblicano, La Nuova Italia, Firenze 1995, p. 30. 17 Radio Londra 1940-1945, cit. 18 Lettera di I. Greenless a M. Cifarelli, Napoli, 2 aprile 1944, in Carte Cifarelli, cit.

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solini come centrale di propaganda della politica estera fascista nei paesi arabi, soprattutto in chiave anti-inglese e a questo fine era stata dotata di attrezzature tecniche particolarmente efficienti, tali da portare la voce dell’Italia nell’intero bacino del Mediterraneo. L’ironia della storia consisteva, in questo caso, nel fatto che di quegli impianti mastodontici ora si stavano servendo le autorità alleate e i democratici italiani per portare la voce della libertà fino alle Alpi, precedendo l’immane sforzo bellico dei soldati e dei partigiani contro la Wermacht e le bande repubblicane di Salò. Erano stati giornalisti e tecnici riuniti nel capoluogo pugliese, al seguito di Vittorio Emanule III e di Badoglio, a costituire sotto la direzione di Picone Stella, la prima redazione del giornale-radio democratico, che si era poi trasferita a Napoli appena la nostra città fu liberata nell’autunno 1943 dalla durissima occupazione tedesca. Gli italiani lavoravano, naturalmente, nell’ambito di un servizio militare alleato che si chiamava Psychological Warfare Branch, cioè Settore della guerra psicologica (i nazifascisti parlavano più apertamente di propaganda), e che in Italia era controllato da un gruppo di italo-americani, in gran parte ebrei livornesi e romani costretti ad espatriare oltre Oceano, dopo il 1938, per la stolta e infame discriminazione razziale a cui Mussolini si era deciso per compiacere Hitler. Quei ragazzi erano comandati da un biologo molto intelligente e volitivo, Elvio H. Sadun, che con molti suoi compagni negli Stati Uniti si era impegnato attivamente nella campagna antifascista al fianco di Gaetano Salvemini, nella “Mazzini Society”, un’associazione a sfondo repubblicano e liberal-socialista. Tra i principali collaboratori di Radio Napoli, all’inizio di quella indimenticabile esperienza, c’erano Mario Soldati e Leo Longanesi, che erano fuggiti da Roma subito dopo l’8 settembre e davano vita ad una trasmissione satirica raffinatissima ed esilarante, che il piccolo Leo firmava con lo pseudonimo di “Stella Bianca”. Altri due intellettuali si assunsero la responsabilità nel settore spettacolo: Edoardo Antonelli, figlio del grande commediografo Luigi e della scrittrice Lucilla, noto anch’egli sotto lo pseudonimo di Eduardo Anton come piacevolissimo scrittore di teatro; ed Ettore Giannini, regista scrittore, musicista di straordinario talento e, tra l’altro, anticipatore di Orson Welles con una famosa trasmissione radiofonica di gusto fantascientifico. Furono proprio Anton e Giannini (quest’ultimo, nostro concittadino, futuro autore del celeberrimo Carosello Napoletano, conosceva

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collaboratori italiani assunti dai dirigenti americani ed inglesi del Psychological Warfare Branch per curare i programmi di informazione, commento e “fiction”, naturalmente in strettissimo rapporto con la guerra in corso e con comprensibili intenti di propaganda antinazista, antifascista e democratica. Radio Napoli fu un laboratorio nel quale, sotto la direzione di intellettuali italo-americani in uniforme, sostennero le loro prime prove come giornalisti, scrittori, attori, annunciatori, registi, agitatori politici e sindacali, alcuni giovani napoletani che uscivano in maggioranza dalle file del Gruppo Universitario Fascista e dalle sue istituzioni culturali, ma che avevano ripudiato da tempo l’ideologia totalitaria per volgersi ad orizzonti assai più vasti, dal liberalismo crociano al marxismo comunista. Il valore di quel laboratorio fu esaltato dal clima di entusiasmo, di sollievo e di ritorno alla vita che la liberazione di Napoli dall’occupazione nazista aveva creato, nonostante la tremenda crudità della guerra perduta, dei bombardamenti aerei, delle distruzioni materiali morali provocate dalla sconfitta. Soltanto qualche libro e qualche film americano, francese o sovietico, filtrati tra le maglie della censura littoria, ci avevano offerto fino a quel momento una vaga idea degli sviluppi incalcolabili che la democrazia può offrire al mestiere, o se si preferisce all’arte, della comunicazione. Con Radio Napoli, quella vaga idea prendeva corpo. Come per miracolo, e sia pure con le remore imposte dalla politica alleata e dalla permanenza dello stato di guerra, potevamo lanciarci sui grandi sentieri della libertà di espressione, dar voce alle idee e ai sogni, chiamare a raccolta intorno ai nostri microfoni le forze più genuine della città: i giovani, le donne, i sindacalisti, gli uomini di cultura. Ci era consentito non solo di lavorare ma di inventare, creare, imparare i fondamenti di una tecnica e di una professione, e tutto questo non nell’atmosfera rarefatta del tempo di pace ma nel crogiolo ardente di una guerra che da anni ciascuno di noi viveva come una crociata ideologica, una terribile scelta epocale tra il male e il bene, tra l’oppressione e la giustizia. Quel gruppo di giovani napoletani poteva contare su un’udienza molto alta che andava assai oltre la ristretta cerchia cittadina, per una ragione piuttosto paradossale, una sorta di piccola ironia della storia, e cioè per la potenza di emissione della stazione di Radio Bari a cui eravamo collegati. Radio Bari era stata creata da Mus-

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Durante la seconda guerra mondiale ci fu, da una parte e dall’altra, un ricorso massiccio e spesso plateale all’uso propagandistico della radio. False informazioni, disturbi di emissione, interferenze e perfino studiati mascheramenti diedero vita a una parallela “guerra delle onde”. Solo dopo lo sbarco in Sicilia nel 1943 si cominciò ad affermare il ruolo della radio anche come mezzo di informazione di massa. E proprio in Sicilia si sperimentò con Radio Palermo il primo modello radiofonico nell’Italia liberata. Le trasmissioni cominciarono il 5 agosto 1943. Ne dava notizia il giorno dopo il primo numero di Sicilia Liberata, la testata del Pwb che aveva preso il posto del Giornale di Sicilia e dell’Ora sospesi il 22 luglio dagli alleati appena entrati a Palermo: “Siamo orgogliosi di poter annunciare che ieri sera Radio Palermo ha ripreso le sue trasmissioni”. Non c’è bisogno di dire che la continuità con la radio del regime era riferibile solo alla natura del mezzo. Per il resto la ripresa delle trasmissioni segnalava un cambio del registro della comunicazione, del linguaggio e in misura più prudente dello stile. Il fatto più importante in quel momento era comunque un altro: la ripresa di un ciclo regolare di trasmissioni che intanto faceva recuperare alla radio, oltre al ruolo sociale che aveva avuto a partire dagli anni Trenta, la sua funzione essenziale di informazione. Dallo sbarco era passato meno di un mese, e ancora l’operazione Husky non era conclusa. I soldati dell’VIII armata inglese erano appena entrati a Catania dopo una furiosa battaglia. L’area dello Stretto di Messina era sottoposta a devastanti bombardamenti. La ritirata

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nazifascisti, e dalla Garfagnana dove operava l’Armata Monterosa, comandata dal maresciallo Graziani. I nostri compagni di Radio Napoli si andavano anch’essi disperdendo, ciascuno dietro la sua ispirazione e il suo destino, ma per ciascuno di noi, Radio Napoli è rimasta come una stella fissa, un punto di riferimento, una fiamma di allegria e di giovinezza che ci ha accompagnato lungo tutto il nostro cammino.

franco nicastro radio palermo, un avamposto di libertà

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naturalmente meglio di chiunque altro l’ambiente) a lanciare coraggiosamente la politica dei giovani, mentre Picone Stella e gli americani preferivano scegliere, per il giornale radio, professionisti locali di buon calibro. Per le trasmissioni di spettacolo e varietà furono assunti, tra gli altri, Luigi Compagnone, Tommaso Giglio, Giuseppe Patroni Griffi, Francesco Rosi, Raffaele La Capria e tanti altri, insieme con Arnoldo Foà, che non era napoletano ma aveva trovato scampo tra noi dalla persecuzione antisemita. La Sezione Prosa curava tutta una serie di trasmissioni diverse che andavano dalla riduzione radiofonica di commedie di repertorio al varo di “originali” su grandi personaggi della storia, da rubriche di intrattenimento musicale a note o informazioni di cronaca cittadina e sindacale. Molti di noi, a turno, andavano “in onda” –come imparammo a dire allora– per leggere commenti politici, recensioni artistiche, annunci, perfino poesie ma soprattutto per affiancare Foà e Aldo Giuffré nella conduzione delle due rubriche più importanti di Radio Napoli: “Italia combatte” e “Spie al muro”. Con Radio Napoli, dopo le poche settimane delle trasmissioni da Bari, fu possibile ascoltare per la prima volta un’informazione libera e proveniente non da emittenti straniere, come Radio Londra e la “Voce dell’America” ma da una stazione della zona liberata. “Italia combatte” era un notiziario di guerra partigiana, introdotto da una sorta di rullo di tamburi: “Non credete – non obbedite – non combattete – per il TEDESCO!”. Ma la magia della radio moltiplicava ancora di più il tremendo fascino dell’altra rubrica cui ho fatto cenno: “Spie al muro”, nella quale si mettevano in guardia contro i confidenti del nemico, i partigiani, gli antifascisti, gli ebrei, i giovani in età di leva, minacciati nel Centro e nel Nord Italia dai rastrellamenti, dalle delazioni, dalle deportazioni, dai massacri dei nazisti e dei repubblicani. In “Italia combatte” si accavallavano i “messaggi speciali”, cioè le istruzioni in codice ai patrioti e ai guastatori operanti alle spalle dell’esercito tedesco, in “Spie al muro”, si inseguivano nomi, indirizzi, ammonimenti. Quando anche Roma fu liberata e le armate incominciarono ad avanzare verso la pianura padana, Tommaso Giglio ed io chiedemmo agli amici americani l’onore di continuare il nostro lavoro in zona di operazioni, al seguito della Unità Mobile Radiofonica della Quinta Armata che si stava installando ad Altopascio, in Toscana, a pochi chilometri da Firenze ancora occupata in parte dai

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Valori e ideali dei “liberatori” Questa stretta connessione tra operazioni militari e propaganda era parte integrante della complessiva strategia alleata che assegnava all’ “informazione psicologica” un compito essenziale: “Oc-

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correva tra l’altro far breccia negli spiriti, nei cuori e nella mentalità delle popolazioni siciliane e degli italiani più in generale, provocando nel loro conscio o inconscio tutto un complesso di sentimenti, di tendenze, di attitudini mentali per promuovere e stimolare il capovolgimento di tendenza a favore della causa delle democrazie”3. Non a caso questa forma di persuasione venne paragonata, in coerenza con i fini che si proponeva, a una quarta arma in aggiunta alle tre della guerra moderna4. Il senso di questa strategia, nella quale si riflettevano i valori americani messi in campo nella seconda guerra mondiale, si coglie già nel messaggio del generale George S. Patton, comandante della VII Armata, pubblicato il 6 agosto da Sicilia Liberata: “Lo scopo degli Stati Uniti, sotto la guida del nostro grande Presidente, Franklin D. Roosevelt, non è quello di rendere schiavi ma di liberare quei popoli del mondo che hanno sofferto per venti anni sotto la malefica influenza del fascismo e del nazismo”. Guidati da questi ideali democratici, gli americani venivano dunque da “liberatori”. Si trovavano davanti una Sicilia provata dalla guerra: città devastate, commercio paralizzato, agricoltura e industria pesantemente danneggiate, servizi pubblici inesistenti. Dopo tre anni di conflitto le condizioni generali della Sicilia scontavano anche un ritardo strutturale. “Già nel 1939, infatti, la situazione economico-sociale dell’isola era fortemente inferiore alla media del Paese […] e il reddito per abitante era di oltre il 35 per cento inferiore a quello medio nazionale”5. Nel gennaio 1943 lo scrittore inglese Fernando Tuhov aveva scritto per Sphere un articolo sulle condizioni arretrate della Sicilia che ne facevano un “frutto maturo” da cogliere subito: “La Sicilia è stata talmente trascurata dal governo fascista che i siciliani sarebbero lieti di aprire le braccia agli anglo-americani e fare entrare in casa loro le truppe alleate”6. Le calorose accoglienze riservate ai soldati alleati confermarono le intuizioni di Tuhov. I siciliani non acclamavano solo i “liberatori” ma intravedevano nel nuovo ordine una concreta possibilità di sopravvivenza al disastro bellico del regime. Ma né gli inglesi né gli americani erano pronti a gestire questi problemi a causa di una preparazione inadeguata e di una programmazione affrettata. Nella fase iniziale, il governo militare alleato per la Sicilia si limitò quindi a gestire il contingente talvolta con scelte discutibili come

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delle truppe italo-tedesche proseguiva con lentezza tra difficoltà di comunicazione, resistenze furibonde e le prime stragi di civili. Bisognerà aspettare altri 12 giorni perché l’ultimo soldato dell’Asse abbandonasse la Sicilia ma già in quelle condizioni il Pwb poteva a buon diritto dichiarare il proprio “orgoglio” per essere riuscito a riattivare il sistema dell’informazione con un quotidiano diffuso in 40 mila copie e una emittente in grado di raggiungere quei 400 mila siciliani che ascoltavano la radio almeno una volta al giorno1. In realtà il bacino di utenza di Radio Palermo superava i confini della Sicilia. E anzi le sue trasmissioni erano rivolte prima di tutto al pubblico continentale, dato che da Palermo la radio era in grado di “coprire” una vasta area del Sud. La conseguenza pratica fu che per seguire le operazioni militari almeno i siciliani non avevano più bisogno di ascoltare di nascosto Radio Londra, come facevano ormai da tempo con un atto di sfida che era entrato nel costume quotidiano di molti tra cui un giovanissimo Massimo Ganci che a quegli anni dedicherà poi una parte dei suoi studi storici. “A tarda sera, verso le ventidue, sin dal dicembre 1939, mi incollavo con parenti ed amici all’apparecchio fine anni Venti (…) ed ascoltavamo i bollettini del comando inglese e il commento salace ma composto del colonnello Harold Stevens, un vecchio conservatore britannico che chiudeva la trasmissione con un corretto ‘buona sera’. Da quel momento la nostra fonte di informazione non fu più l’Eiar (…) ma la Bbc”2. La sede di Radio Palermo, in piazza Bellini, era la stessa dell’Eiar dove i soldati della VII Armata americana avevano ricostruito gli impianti di trasmissione smantellati dai tedeschi prima della fuga. Le “prime trasmissioni non fasciste” (così Sicilia Liberata segnalava la novità) duravano all’inizio solo quattro ore, dalle 20 alle 24, quando Radio Palermo si presentava come la “Voce delle Nazioni Unite”. Ma presto scelse la sigla di “Avamposto dell’Italia liberata” più congeniale alla parte che le era assegnata, quasi a ricordare che occupava una postazione molto vicino alla linea di fuoco.

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Stille e le “lezioni di giornalismo” Naturalmente il lavoro della radio non richiedeva solo l’opera di annunciatori. Il notiziario, che presto andò in onda “ogni ora sull’ora”, era affidato a una redazione composta da giornalisti di varia estrazione. Nella selezione non si andò troppo per il sottile. Così accanto a Marcello Sofia, figlio di Nino estromesso dal fascismo dalla direzione del giornale L’Ora, si poteva trovare Giacomo Gagliano, amico di Luigi Pirandello, critico teatrale e letterario dello stesso giornale ma con una diversa storia professionale e politica. Gli altri erano giovani alle prime esperienze, come Salvatore Riotta e Virgilio Giordano, oppure cronisti con un recente passato fascista come Giuseppe Marino, già redattore del Giornale di Sicilia, che nel fatidico 1938 si era impegnato nella entusiastica promozione

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delle leggi razziali presentandole come un “legittimo esercizio di difesa” contro la “combutta giudaica annidatasi nella nostra Patria”8. E ancora: Giuseppe Pullara, che con lo pseudonimo di “calatinus” curava uno spazio di varietà, e più tardi Filippo Salerno il “Bersagliere”, incaricato del commento quotidiano. Il Pwb aveva affidato il coordinamento redazionale a un giovane sergente ebreo dalle ascendenze russe, Mikhail Kamenetzki, che in famiglia chiamavano Misha. Laureato in filosofia, amico di Giaime Pintor, era vissuto e aveva studiato in Italia prima di trasferirsi negli Stati Uniti in seguito alle leggi razziali che lo avevano anche indotto ad assumere lo pseudonimo di Ugo Stille quando imperversavano le prime persecuzioni antiebraiche. L’arruolamento nell’esercito americano lo aveva riportato in Italia. Si ritrovò così a 24 anni a dirigere Radio Palermo, prima tappa di una carriera giornalistica che si sarebbe conclusa mezzo secolo dopo con la direzione del Corriere della Sera. Nel breve tempo trascorso a Palermo, Ugo Stille introdusse nella vita di redazione uno stile che non poteva non colpire i giovani giornalisti. “Racconta uno dei suoi redattori di allora: “Eravamo ragazzi, cresciuti nel fascismo, e capimmo cosa fosse la democrazia vedendo il sergente Kamenetzki ricevere un colonnello con i piedi sul tavolo”9. Ma Stille fu soprattutto l’interprete di una cultura professionale che cercava di spazzare via i retaggi della retorica di regime introducendo regole di costruzione della realtà fino a quel momento sconosciute. Ricorda Salvatore Riotta: “Ci diede alcune essenziali lezioni di giornalismo. Siamo alla radio, ci diceva, e ci vuole un linguaggio semplice e chiaro. Il soggetto va ripetuto. Bando alle enfatizzazioni. L’obiettività deve essere una preoccupazione costante. Un giorno mi chiamò per chiedermi di rifare il bollettino. Mi disse: ‘Non c’è alcuna notizia di sconfitta alleata. Se non siamo obiettivi chi vuoi che ci creda?’. Fui costretto a trovare una nave affondata dai tedeschi da qualche parte”10. Il modello giornalistico di Radio Palermo, incentrato sulla credibilità del notiziario, non poteva tuttavia essere estraneo alle ragioni della propaganda. E non poteva essere totalmente affrancato dal condizionamento del clima bellico. Rispetto a quello che accadeva nelle altre radio soggette a un controllo militare le notizie e la costruzione di senso non avevano un taglio molto diverso. Anche per Radio Palermo si può dunque parlare, com’è stato fatto per le

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accadde in molti casi con le nomine dei sindaci. Del resto la preoccupazione prevalente era in quel momento rivolta alla situazione militare, alla ricerca di consenso e al controllo dell’ordine sociale. Anche il ruolo di Radio Palermo era naturalmente orientato verso una funzione di sostegno all’impegno bellico. Dai microfoni dell’emittente venivano diffusi soprattutto proclami, messaggi in codice, appelli alla resistenza. L’informazione era assicurata dal notiziario politico e militare di 15 minuti che andava in onda alle 20, alle 21,30 e alle 23,45. Le notizie dai fronti di guerra giungevano a Palermo direttamente dal quartier generale di Algeri oppure erano riprese da altre trasmissioni radiofoniche. “Molte notizie venivano captate attraverso un sistema di ascolto con l’installazione di comuni apparecchi radioriceventi molto sensibili, per mezzo dei quali alcuni interpreti intercettavano da tutte le stazioni radio del mondo ed in tutte le lingue le notizie che interessavano in quella giornata per redigere i notiziari da mettere in onda”7. Il frenetico lavoro artigianale di quei giorni che animava l’“avamposto” palermitano riaffiora nella memoria di una delle “voci” di Radio Palermo, Salvatore “Toti” Messina. Come lui tanti altri giovani erano finiti negli studi di piazza Bellini dopo avere letto su Sicilia Liberata del 14 agosto l’avviso che Radio Palermo cercava annunciatori. Non c’era tempo da perdere: le prime selezioni si sarebbero svolte il giorno dopo, in pieno ferragosto. Un nuovo avviso il 19 convocava per il 20 le “audizioni finali”.

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Intrattenimento senza propaganda Questa considerazione non fu certamente estranea alla decisione di ampliare la programmazione iniziale di quattro ore, assorbita completamente dalle ritrasmissioni da Londra e da Algeri e da musica leggera registrata, a nove ore e mezzo, dalle 16 all’1,30. Il palinsesto fu arricchito, l’informazione potenziata. In una relazione del 30 settembre 1943 inviata al capitano Charles Poor dell’Amgot, si descriveva sommariamente anche la struttura del palinsesto di Radio Palermo: oltre a un giornale radio che offriva una panoramica mondiale, c’erano spazi dedicati ai commenti, agli approfondimenti, ai programmi musicali e a trasmissioni concepite “per tenere alto il morale” sia delle truppe sia della popolazione. Il palinsesto era diviso in due parti. Nella prima veniva trasmesso un programma di evidente impronta americana, Army Expeditionary Station, che comprendeva, tra le 16,30 e le 17, un British program for Troops. La seconda parte della programmazione (quella che veniva ricondotta all’“Avamposto dell’Italia liberata”) era invece in italiano. Conteneva ancora ritrasmissioni della Bbc, di Radio Algeri e della Voce dell’America. Ma proponeva anche una varietà di notiziari, commenti e uno spazio di 15 minuti per “programmi speciali di tipo politico o psicologico”. “Questo quarto d’ora […] è di aiuto per l’ascoltatore che viene così informato che subito dopo le notizie delle otto e mezzo c’è un programma interessante, diverso, ogni programma viene ripetuto settimanalmente, la stessa sera”12.

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Il “Bersagliere” suona la carica Furono proprio i programmi di conversazione ad avere, con quelli di intrattenimento, un notevole successo d’ascolto e a rappresentare un originale modello radiofonico corrispondente peraltro, almeno nelle intenzioni, ad alcune “general recommendations” dell’Oss, i servizi segreti americani. La raccomandazione più importante era riferita all’uso dell’ “entertainment” e di discussioni politiche e culturali “su una base di non-propaganda”. Come dire che l’azione di aggregazione del consenso più efficace era quella che puntava sull’intrattenimento leggero senza denunciare la sua natura propagandistica. Si scopriva l’importanza dell’entertainment nei media che già aveva trovato riconoscimento in alcune testate e in alcuni studi americani. Non sempre la “raccomandazione” sarà comunque e fedelmente attuata nella programmazione della radio, e in particolare nei commenti di Filippo Salerno, il “Bersagliere” che da Palermo suonava la carica facendo l’appassionato controcanto al “Commento ai fatti del giorno” della radio fascista; nelle cronache di Lauto Alberti, pseudonimo di Giacomo Gagliano, che raccontava la guerra sul fronte orientale, e in quelle di Virgilio Giordano che riferiva le notizie del fronte jugoslavo. Di tutti questi programmi uno dei più seguiti era quello del “Bersagliere”, commentatore politico ufficiale della radio. Barese, laureato in legge, ufficiale dei bersaglieri (di qui la scelta dello pseudonimo), Salerno aveva difeso in Africa soldati e civili arabi ed ebrei davanti al tribunale di guerra. E si era esposto al punto da essere a sua volta arrestato e processato davanti allo stesso tribunale. Gli alleati ne tennero conto quando si schierò dalla loro parte. Fu subito destinato a una emittente clandestina di Capo Bon, che si presentava come una radio fascista e prendeva addirittura il nome di Italo Balbo: uno dei tanti camuffamenti escogitati nella guerra di propaganda che contribuì ad alimentare la diffidenza nei confronti della radio. Il 10 luglio Salerno sbarcò in Sicilia con il primo reparto radio mobile della VII Armata americana. Ogni suo intervento a Radio Palermo, preceduto dai celebri squilli che introducono l’inno del corpo dei bersaglieri, era rivolto a dare una lettura degli avvenimenti del giorno. Nel commento del “Bersagliere”, che si presentava come una “rassegna di orientamento politico-militare nel mondo”, si può riconoscere quindi tutta la cifra co-

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altre emittenti, di “alterna attendibilità delle trasmissioni, dove il confine tra verità e falsità interessate, tra amplificazioni propagandistiche e cronaca degli eventi, era quanto mai labile”11. Nella concezione di Stille, però, la contaminazione dei generi doveva evidentemente fermarsi o almeno attenuarsi davanti all’interesse dell’informazione e all’autorevolezza del mezzo. E non sempre questa esigenza riuscì ad avere preminenza nella linea della radio. Ma il suo modello, sperimentato in quei giorni in Sicilia, costituì un importante banco di prova per il nuovo sistema di informazione, non solo radiofonica, che si stava mettendo a punto in quegli anni cruciali con un’attenzione straordinaria rivolta ai criteri giornalistici e professionali.

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L’annuncio dell’armistizio Quel giorno Salerno era attendato con le truppe americane tra Punta Raisi e Capaci, vicino Palermo. Aspettava di registrare un messaggio di “particolare importanza”. Ma ne ignorava il contenuto. Alle 16 un ufficiale della marina britannica, il comandante Martelli, lo prelevò con una jeep e solo sulla strada che conduce dalla borgata di Tommaso Natale a Palermo seppe di che si trattava. Alle 17,45 il generale Dwight Eisenhower e il maresciallo Pietro Badoglio avrebbero dovuto annunciare simultaneamente l’armistizio: Eisenhower da Radio Algeri, Badoglio dalla radio italiana. Salerno avrebbe dovuto scrivere il commento per Radio Palermo. Fu portato in una stanzetta degli studi di piazza Bellini, cominciò l’attesa per l’annuncio che avrebbe cambiato il corso della guerra. Ma all’ora convenuta si sentì solo la voce di Eisenhower: “Le Forze Armate italiane si sono arrese incondizionatamente […]. L’armistizio è stato firmato da un mio rappresentante e da un rappresentante del maresciallo Badoglio e diviene effettivo in questo istante”. Da Roma invece silenzio. La radio continuava a trasmettere solo musica. Martelli era infuriato, Salerno inquieto. Con un’ora di ritardo, quando già i comandi alleati cominciavano a sospettare della lealtà degli italiani, finalmente alle 18,45 parlò Badoglio: “Il governo italiano, riconosciuta l’impossibilità di continuare l’impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi danni alla Nazione, ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze anglo-americane. La richiesta è stata accettata”. Vent’anni dopo, rievocando quei momenti, Salerno racconterà: “Prima ancora che Badoglio concludesse il suo intervento, uscii

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precipitosamente in cerca del comandante Martelli. Lo trovai emozionato che stava venendo verso la nostra stanzetta. Da un altro apparecchio aveva già ascoltato la notizia […]. Insieme gettammo in fretta, su pezzi di carta raccolti qua e là, le linee generali del primo commento radiofonico di Bersagliere”14. Qualche giorno dopo dalla calda voce meridionale di Salerno si potevano sentire queste vibranti parole: “Anche i commenti delle radio estere e le descrizioni particolareggiate della viva reazione italiana contro l’esercito tedesco (barbaro e tiranno) ci mostrano chiaramente la vera anima del nostro popolo; non quella che per vent’anni era stata avvilita e falsata da un’ipocrita mistica e da un’altrettanto ipocrita etica fascista, ma quella autentica, genuina, semplice e sincera, fatta da industre operosità e di pace feconda, ma nel tempo stesso di dedizione assoluta e di sublime eroismo, quando sono in gioco sul tappeto della storia e nelle svolte del destino i reali interessi del Paese”15. Nelle parole del “Bersagliere” si possono magari riconoscere i residui di una cultura radiofonica che si era formata sul “Commento ai fatti del giorno” di Nino D’Aroma, Aldo Valori, Mario Appelius, Giovanni Ansaldo. Ma forse la familiarità del tono, che poteva richiamare una sottile continuità stilistica con le cronache del regime senza le cadute volgari, era indotta dalla necessità di competere almeno all’inizio sullo stesso terreno con la radio fascista. I commenti del “Bersagliere”, che nel tempo assunsero un taglio informativo più articolato abbandonando l’iniziale tono propagandistico, suscitavano comunque discussioni e confronti soprattutto in Sicilia dove, già prima dello sbarco, si potevano cogliere fermenti sotterranei di agitazioni antifasciste non soltanto di segno separatista ma anche in campo cattolico, comunista, socialista, liberale.

La “guerra psicologica” negli altri programmi In una regione dove il ruolo sociale della chiesa era molto influente e il sentimento religioso molto profondo non poteva mancare nella programmazione di Radio Palermo una conversazione religiosa che andava in onda, naturalmente, la domenica. Nelle intenzioni degli americani il commento doveva trattare i temi religiosi con un taglio che segnalasse anche in questo campo il cambiamento intrapreso nell’Italia liberata. E infatti, spiegava la relazione all’Amgot, “il discorso cattolico stimola la virtù in termini religiosi di libertà, u-

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municativa della radio. E come comunicava Radio Palermo? Bisogna dire che le innovazioni stilistiche e linguistiche introdotte da Ugo Stille nel notiziario giungevano molto attenuate nelle note di Filippo Salerno. Il “Bersagliere” indulgeva talvolta a toni enfatici e propagandistici, almeno nei commenti d’esordio come quello dell’8 settembre che dava notizia dell’armistizio e delle reazioni in questi termini: “Il popolo siciliano ha appreso la grande notizia, che si è propagata velocemente, con quella emozione solenne, viva e festante, che è propria delle grandi ore in cui si decidono i destini della propria pace, delle proprie famiglie, del proprio avvenire”13.

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Il “Calabrone” che pungeva ronzando Quando lo schema della programmazione fu definito in modo stabile (Stille era già andato via), Radio Palermo assunse una fisionomia più precisa sia come strumento di propaganda sia come mezzo di informazione che, “per tenere alto il morale”, dava spazio anche a speciali con cadenza settimanale e a programmi musicali. A Radio Palermo venivano sperimentate le stesse innovazioni che –in un contesto culturale indubbiamente più vivace– in quei giorni interessavano Radio Bari: i programmi “si arricchirono, aumentarono le ore di trasmissione, la tecnica si perfezionò, si introdussero numerosi brani di musica leggera e di jazz, comparve il boogie-woogie”18. Un programma che avrebbe sicuramente tenuto “alto il morale” fu il Calabrone, anch’esso replicato da Radio Bari, uno spigliato e originale giornale radiofonico che andò in onda dalla fine di marzo 1944, quando gli Alleati non erano ancora giunti a Roma, ed era curato da un gruppo di universitari di Palermo. Il titolo era ripreso dall’omonima opera che veniva riproposta come sottofondo musicale mentre un “giornalaio” banditore, “Toti” Messina, annunciava l’avvio del programma ricordando che il Calabrone “ronza e punge una volta la settimana”. Oggi si direbbe che era un programma di satira. In anticipo sui

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tempi, quella satira faceva anche informazione e vi si poteva riconoscere con qualche evidente caduta qualunquista (del resto in linea con i tempi) il fermento di una coscienza civile più aperta, il gusto della critica spinta fino alla dissacrazione. Uno dei bersagli che il Calabrone si divertiva a “pungere” era il re nanetto interpretato da Lina Acconci, esperta attrice di operetta e varietà, che dava la sua voce al piccolo Vittorio Emanuele III. Tra gli autori spiccava un giovane dotato di verve ironica, Eugenio Franzitta, che firmava i testi come Filosì, lo pseudonimo con il quale per anni aveva firmato le sue pungenti “analisi” nelle pagine del Bertoldo. Il carattere graffiante del programma cominciò a dare fastidio. La versione pugliese suscitò nel dicembre 1945 anche un intervento censorio della Prefettura di Bari, secondo cui “è sommamente pregiudizievole, per il prestigio che deve mantenere il rappresentante del governo in provincia, ricalcare abusati motivi di satira politica”19. La libertà era stata appena conquistata e già cominciavano a manifestarsi inquietudini restauratrici. In Sicilia qualcuno avrebbe preferito ridurre l’audience del Calabrone: risultato che stava per essere raggiunto allorché la società generale elettrica siciliana annunciò, ufficialmente come forma di risparmio energetico, la sospensione dell’erogazione a Palermo nell’ora in cui il Calabrone cominciava a “ronzare”, cioè alle 21. Il contrattacco degli universitari fu immediato. Franzitta lo ricorda così: “L’indomani tutta Palermo fu invasa da piccoli manifesti per informare che, nonostante l’incredibile ed ingiustificato gesto della Sges, Calabrone sarebbe stato ascoltato da tutti i palermitani ‘direttamente dai nostri altoparlanti collocati nel balcone su piazza Bellini, su piazza Pretoria, nonché nel tratto di via Maqueda davanti l’Università’. Sapevo che quella platea sarebbe stata illuminata a giorno. […] Alle 20,45 quando il brusio dei palermitani cominciava a somigliare ad un immenso nido di Calabroni, accesi i tre grossi riflettori, che illuminarono a giorno la grande distesa di teste di palermitani (o comunque gli uomini, donne e bambini, tenuti a cavalcioni sul collo da padri e madri). La maggior parte dei palermitani non immaginava cosa poteva descrivere una Palermo di notte, immersa nel buio totale. E non sentì (in quell’estate di fresco dopoguerra) che dal vastissimo brusio di migliaia di spettatori, a sentire ormai la conosciutissima musica del Calabrone, si levò il rombo degli applausi di ventimila palermitani […], che

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guaglianza, onestà ecc., e serve anche a mostrare il nostro desiderio di dare alla religione una voce libera”, contrariamente al ruolo di fiancheggiamento che per essa il fascismo aveva concepito16. Tra gli altri programmi vanno ancora segnalati What Allies Say About Italy, che il martedì proponeva una rassegna di ciò che gli alleati pensavano e dicevano dell’Italia, e la Nuova Italia che andava in onda il giovedì e presentava “ciò che l’Italia può sperare, quale dovrebbe essere il suo ruolo”17. La trasmissione del giovedì, Al popolo del Nord, rientrava chiaramente nella “guerra psicologica”. Ogni settimana diramava un messaggio con il quale spronava alla resistenza i lavoratori, le donne, i soldati dell’Italia continentale non ancora liberata e non ancora libera. Per raggiungere la maggiore efficacia comunicativa gli appelli erano rivolti nel “dialetto di ogni regione o città”. Un programma di contenuto militare, Italia combatte, trasmesso anche da Radio Bari, segnalava infine ai gruppi partigiani, in via di formazione, l’attività di spie e di infiltrati.

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La dottrina propagandistica e la “copertura” radiofonica La radio aveva a quel punto consolidato la sua attività ed era una creatura in grado di camminare con le proprie gambe. In queste condizioni poté dunque affermarsi e crescere uno spirito antifascista più autentico di qualsiasi altra pressione psicologica. L’esperimento di Radio Palermo aveva fissato le direttrici di un modello di informazione che sarebbe stato, con nuovi innesti e in realtà a volte più complesse di quella siciliana, trasferito nelle stazioni Eiar di Bari, Napoli, Roma e delle zone via via raggiunte e liberate dall’offensiva alleata. Il modello di Radio Palermo si rivelò uno strumento di indubbia efficacia nell’attuazione dei princìpi di una dottrina propagandistica, messa a punto in vista dello sbarco in Sicilia, che mirava da un lato a convincere il nemico della sua sicura disfatta e dall’altra ad ottenere l’adesione delle popolazioni all’obiettivo di cooperare per costruire un paese libero e una condizione di benessere. Libertà e benessere erano tra loro correlati ma il fattore decisivo era la fame: per essa gli alleati si trovarono a gestire, come fu detto, il “crollo morale di un popolo”. E se la prevalenza nella copertura informativa era pur sempre della carta stampata, che raggiungeva il 61 per cento dei siciliani, la radio ebbe in questa strategia una parte significativa perché nel momento di massima diffusione e ascolto riusciva a raggiungere perfino il 23 per cento della popolazione. E quel che più conta, anche grazie alla radio, “i siciliani non solo erano al corrente della propaganda americana ma in generale la accettavano”21. Pur senza il conforto di questi rilevamenti, di dubbia scientificità, nella loro avanzata dopo lo sbarco gli americani, più degli inglesi, avevano già potuto toccare con mano un alto grado di consenso sugli obiettivi alleati. Con la spinta di una condizione sociale miserabile la propaganda aveva raggiunto gli scopi ma fu la radio a completare l’opera.

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Note 1 Il dato sull’ascolto radiofonico emerge da un’inchiesta commissionata dal Pwb a Stuart Dodd verso la fine del 1943. Cfr. R. W. Van de Velde, The Role of US Propaganda in Italy’s Return to Political Democracy, 1943-48, Ph. D. thesis, Princeton 1950. 2 M. Ganci, Quell’estate di guerra a Palermo, L’Ora, 23 agosto 1990. 3 L. Mercuri, La Sicilia e gli Alleati, Storia contemporanea n.4/1972, p. 926. 4 Cfr. L. Mercuri, La “quarta arma”, Mursia, Milano 1998. 5 S. Di Matteo, Anni roventi. La Sicilia dal 1943 al 1947, Palermo 1967, p. 133. 6 Cfr. l’articolo “Sanguinoso oltraggio inglese a tutta la gente di Sicilia” in La Gazzetta di Messina, 17 gennaio 1943. 7 Testimonianza di Salvatore Messina in AA.VV., I protagonisti , Palermo 1993, p. 267. 8 Cfr. M. Genco, Repulisti ebraico, Istituto Gramsci Siciliano, Palermo 2000, p. 104. 9 G. Riotta, Lezioni di democrazia, Corriere della Sera, 3 giugno 1995. 10 Testimonianza di Salvatore Riotta resa all’autore. 11 E. Menduni, Il mondo della radio. Dal transitor a Internet, Il Mulino, Bologna 2001, p. 105. 12 Activities of Radio Palermo, Radio Section Pwb. 15 Army Group, 30 settembre 1943 in A. Pizarroso Quintero, Stampa, radio e propaganda. Gli Alleati in Italia 1943-46, p. 120. 13 Dal commento dell’8 settembre 1943, ore 20. 14 F. Salerno, “Quell’8 settembre del ’43”, Giornale di Sicilia 8 settembre 1963. 15 Dal commento “Tramonta l’epoca della menzogna” dell’11 settembre 1943. 16 Activities of Radio Palermo, Radio Section Pwb. 15 Army Group, 30 settembre 1943 in A. Pizarroso Quintero, op.cit., p. 120. 17 Ibidem. 18 F. Monteleone, Storia della Rai dagli Alleati alla Dc 1944-1954, Laterza, RomaBari 1979, p.30. 19 L’episodio è riportato in F. Monteleone, cit., p. 68. 20 E. Franzitta, Un Calabrone sul Ficodindia, inedito. 21 R. W. Van de Valde, cit., p.162

Radioricevitore RADIOMARELLI mod. Vertumno II, 1934

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si misero ad imitare con la bocca quel ronzio di un ignaro insetto che aveva punto (e punito) tanti intrallazzisti commercianti e politici (e religiosi)”20. La puntata pubblica aveva ormai decretato il successo del Calabrone al punto che il programma ebbe da quel momento due appendici: una ancora radiofonica (con il Calabroncino, dieci minuti di informazione e satira supplementari) e una stampata.

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antonio santoni rugiu da radio sardegna al radiodramma Radio e storia 50

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perato e oggi del tutto dimenticato. Eppure il miracolo di quella radio a galena mostrò subito una capacità imprevista di coinvolgimento e di suscitazione intellettuale ed emotiva. La galena è un minerale i cui cristalli plumbeo-sulfurei consentivano la ricezione del segnale captato dalle onde hertziane (nell’euforia dei primi tempi dette “gli eterei sentieri”) e per loro particolare proprietà magnetica di autoalimentazione fornivano un ascolto pure in zone (non poche nell’Italia rurale degli anni ’20) ancora sprovviste di elettricità. Prima di raggiungere l’ascolto attraverso apposite cuffie, occorreva appoggiare la punta sottile, quasi un ago, di un filo di ferro avvolto a spirale su uno dei tanti minuti cristalli superficiali della galena, detto “baffo di gatto” per la sua forma sottile e la sua grande sensitività (e forse perché il gatto fin da tempi remoti è stato usato come metafora di magìa). Che cos’erano infatti se non magìa una voce o una melodia ascoltate da tanto lontano? Inoltre per tutti, contadini e cittadini, la bravura a trovare, magari al primo colpo, il cristallo giusto, per ulteriore fattore di coinvolgimento, fino a sentirsi co-protagonista di quella magica comunicazione e identificarsi in certa misura con il medium (e quindi precorrendo McLuhan di qualche decennio, anche con il messaggio). Stabilire quel contatto però, semplicissimo a dirsi, di fatto non era per niente facile. A volte il baffo di gatto doveva saltellare dieci-venti volte in vari punti della galena. Prova e riprova finché si perdeva la pazienza o si trovava il cristallo giusto. E magari, una volta stabilito il contatto, i rumoracci restavano sempre in agguato: bastava che il segnale si allontanasse per un effetto fading delle onde medie (le onde lunghe e le corte erano ancor meno propiziatrici di felici ascolti) e ecco che ricomparivano più laceranti di prima fischi, scariche, gracchiamenti, stridori e roba del genere. Tuttavia, malgrado questi non lievi contrattempi operativi, il successo della radio fu grandioso. Quel poco che bene o male si riusciva a sentire, appariva tanto mirabolante (omne ignotum pro magnifico tenetur aveva detto Vico) da far perdonare gli svariati inconvenienti tecnici. Appunto un fatto magico, quasi un miracolo. E per spiegarcelo meglio ricordiamo che la maggior parte della popolazione, specie quella rurale allora in Italia maggioritaria, non aveva mai ascoltato prima direttamente musica e canto in un teatro o in una sala di concerto e forse nemmeno in una chiesa, se non canti e suoni di chitarra o di organetto durante le feste sull’aia delle grandi occasioni. Inoltre, a causa dell’analfabetismo an-

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La rivoluzione del “baffo di gatto” Dicendo “radio” oggi noi rievochiamo solo una piccolissima parte, ormai sbiadita dal tempo, del significato, per alcuni aspetti letteralmente rivoluzionario, che la rapidissima diffusione della radiofonia ha avuto nella seconda metà degli anni ’20 quale primo potente mezzo di comunicazione di massa. Parlare di tale primato e di rivoluzione oggi può apparire esagerato, ma basta riflettere un attimo sull’impatto che il nuovo mezzo ebbe per chi, senza muoversi da un paese della Carnia o del Gennargentu, poté allora percepire incredibilmente segnali sonori di avvenimenti che nello stesso istante (oggi diremmo “in tempo reale”) si stavano svolgendo a parecchie centinaia di chilometri di distanza, non importa se la radiocronaca di una partita della nostra nazionale di calcio in campo a Budapest o a Lisbona, il collegamento con l’esecuzione di un’opera lirica alla Scala di Milano o al S.Carlo di Napoli oppure la voce del Duce che stava pronunciando uno dei suoi “storici” discorsi dal balcone romano di palazzo Venezia, e tutto il resto. Nessun’altra applicazione tecnologica dei cento anni precedenti, durante i quali pure si erano realizzate cose stupefacenti nel campo della comunicazione a distanza aveva inciso tanto radicalmente, oltretutto, sul mutamento della percezione umana del senso di lontananza e di presenza, costituente importante della griglia psicologica fondamentale della vita di relazione e quindi della visione del mondo in senso proprio e in senso figurato. Quelle innovazioni ottocentesche, per quanto grandiose, avevano comportato sì forti accelerazioni, certamente clamorose e incisive nei rapporti pubblici e privati (pensiamo ai primi cavi telegrafici transoceanici gettati fra Europa e USA ancora prima della fine del XIX sec.) ma nessuna di esse, per quanto stupefacente, era stata in grado di azzerare l’intervallo di tempo fra emissione e ricezione (salvo in ultimo il telefono, però trasmittente della voce di un singolo parlante unicamente a un singolo ascoltatore e perciò non catalogabile quale mezzo di comunicazione di massa). Tuttavia il primo radioascolto era parecchio difficoltoso: avveniva per mezzo di un primitivo apparecchio a galena, poi presto su-

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La tipicità del prodotto radiofonico L’effetto così accattivante di apparire rivolta direttamente a ogni singolo utente, valeva anche per le conversazioni su temi vari e svolte con un linguaggio che, per quanto cercasse di essere divulgativo, non era certo alla portata di tutti. Eppure risultò che molti dicevano di non capire quasi nulla di quei discorsi ma di averli ascoltati lo stesso con piacere perché nessuno prima era arrivato fin dentro la propria casa a tentare di spiegare certe cose. Si trattava quindi di una sorta di bene accolta educazione popolare e insieme di un dovere-piacere di ospitalità verso una visita inattesa e gratificante. Mi pare che proprio questo –rapportato alla realtà sociologica degli anni ’20 o ’30 in Italia- vada sottolineato: la capacità di entrare direttamente nel privato, di cogliere il radioascoltatore nell’intimità familiare, caratterizzava l’emissione radiofonica in modo molto netto rispetto allo spettatore che sedeva nella platea di un cinema, di un teatro o di una sala di musica. Ogni medaglia ha il suo rovescio: per quanto coinvolgente e accattivante, il radioascolto aveva il tallone d’Achille di poter essere cambiato con altro o spento a piacere del singolo. Un autore radiofonico doveva sempre ricordarsi di questa particolarità che comportava prima di tutto la capacità di fissare l’attenzione del radioa-

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scoltatore: se era difficile che uno spettatore, pagato il biglietto, abbandonasse la sala perché insoddisfatto dello spettacolo, era molto facile invece che un radioascoltatore girasse la manopola per cambiare stazione o spegnere del tutto l’apparecchio o di allontanarsi senza bisogno di chiedere scusa ad altri spettatori. Non era vissuto insomma quale ascolto passivo, come qualcuno dirà invece quando le galene vennero sostituite dagli altoparlanti accesi o spenti dal semplice scatto di una manopola. Questo senso di magìa e di miracolo, non sfuggì naturalmente alla Chiesa. Con la tradizionale sua fine sensibilità ai processi formativi e alle modalità delle loro procedure, il magistero cattolico intuì la grande potenzialità del nuovo mezzo verso la massa. Il suo primo atteggiamento fu di reticenza, se non di condanna. Dal pulpito i fedeli erano posti dai pastori di anime, specie nelle zone rurali, sull’avviso che Satana poteva nascondersi in quelle voci e in quei suoni per corrompere i costumi (vedi le canzoni d’amore troppo passionali o scene di commedie piccanti o frivole) e per montare la testa suggestionando i poveri e ignoranti villici. Dopo aver sottolineato le percezioni soggettive del radioascoltatore, qualche considerazione oggettiva sul nuovo mezzo. La radio, per esempio, dava evidenza espressiva rendendo il suono (voce e rumori) attore, così come il cinema aveva reso attrice l’immagine di un oggetto, anche indipendentemente dal contenuto dell’uno e dell’altro. Al primo piano cinematografico e al dettaglio di un’immagine corrispondeva nella radio il primo piano fonico di una nota, di un sussurro o di un grido, ossia il tono e il timbro del suono attraverso il microfono. La radio non era quindi solo il mezzo che consentiva di comunicare notizie o di irradiare musica o recite di una commedia dal palcoscenico fino a luoghi remoti, si esprimeva anche con un proprio linguaggio. In altre parole la musica e le composizioni di qualunque genere per la radio, se volevano sfruttare veramente la specificità del mezzo, dovevano essere già pensate per essa e in vista di essa dovevano essere articolate o sceneggiate fino nei particolari, poi con la stessa cura eseguite. Nasceva insomma un’estetica della radiofonia. A Roma nel 1938, in un seminario di Rudolf Arnheim. Io ero una matricola universitaria di Filosofia e Arnheim era già un noto psicologo della Gestalt, in rapporto con i francofortesi: Walter Benjamin si rifà già a lui nei suoi primi scritti (1932) circa alcune posizioni sulla rap-

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cora sensibile in campagna e anche di un atteggiamento di auto-isolamento talvolta vissuto come un’orgogliosa protezione della propria identità contadina contro la moderna corruzione dei costumi, non aveva mai letto non solo un libro ma neppure un giornale. Ascoltare una voce o una musica che sembrava parlasse personalmente a ciascun ascoltatore (ecco l’arma segreta psicologica della grande capacità di penetrazione della radio) non solo attenuava molto quell’isolamento, ma accreditava ancor più il senso magico del mezzo. Inoltre ridava psicologicamente dignità alla manualità dell’ascolto, per così dire: anche il contadino che dopo molti tentativi riusciva a captare dalla “scatola parlante” Amami Alfredo! o La calunnia è un venticello eseguite da illustri cantanti e non più canticchiate dalla suocera che in gioventù era stata a servizio da certi signori in città, a questa imprevista soddisfazione aggiungeva l’orgoglio di essersi procurato l’ascolto grazie alla propria bravura manuale nel maneggiare il baffo di gatto. Insomma, si sentiva procacciatore attivo di quel suo arricchimento culturale.

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Prima e seconda generazione della radio Al momento in cui Benjamin aveva avviato quel discorso, alla radio di prima generazione mancava ancora la riproducibilità indefinitamente ripetibile, come invece il film possedeva fin dalla nascita. Il prodotto cinematografico infatti si elaborava, si montava e infine si impressionava su pellicola proprio in vista di una sua riproduzione, mentre l’emissione radiofonica, senza altra mediazione, non appena giunta alle orecchie dell’ascoltatore si annullava nell’etere. Era naturalmente già possibile incidere suoni e parole radiofoniche su disco per conservarle, ma implicava un processo laborioso e costoso, da riservarsi perciò alle grandi occasioni, per esempio ai di-

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scorsi di Mussolini. Solo nel dopoguerra comincerà a diffondersi la registrazione su filo e subito dopo su nastro Ampex che renderà meno laborioso e più preciso il montaggio, in forme analoghe a quanto era usuale con la pellicola cinematografica. Fino ad allora la radio poteva contare solo su una suggestione immediata, forte finché si vuole ma altrettanto volatile. In questo la radio non si differenziava ancora dal teatro (sebbene la regìa di un’opera eseguita sulla scena si differenziasse parecchio da quella adottata per la stessa davanti al microfono): una volta calato il sipario quella data esecuzione non era più riproducibile. Volendo, si poteva metterla in scena di nuovo, eseguita daccapo dagli stessi o da altri, ma di certo poco o molto differente dalla precedente. Era insomma ex novo un altro spettacolo, il che imponeva un costo maggiore sia in termini finanziari sia in termini di prevedibilità dell’esito. Così per la radio che, anzi, ancora più del teatro rimarrà affidata all’attimo fuggente, almeno fino alla prassi più tardi invalsa di salvare tutto su nastro. Anche fra cinema e teatro esistevano nette differenze: il primo era per molte cose teatro che però con le modalità della sceneggiatura e del montaggio (gioco dei piani, ritmo, flash back, inquadratura, effetti visivi e sonori, ecc.) indirizzava la percezione dello spettatore come guida condizionante del messaggio e della trama di connessioni interiori successive. Aspetto che era –si è accennato– in comune con il cinema. Inoltre, l’assenza della fisicità del palcoscenico, dell’orchestra e della platea, del vincolo del hic et nunc (dicevano i francofortesi), conferivano al testo composto direttamente per la radio cadenze simili alla sceneggiatura cinematografica, somiglianza che si accentuerà molto con la possibilità di manipolare, giocando sul ritmo, sulle voci e sui fondi sonori, i nastri registrati in funzione dell’effetto desiderato, come fossero pellicole cinematografiche. Con la registrazione su nastro nascerà poi la radio di seconda generazione. Arnheim poneva in luce un altro aspetto della radiofonia: per questa sua attitudine a raggiungere tanta diffusione e al tempo stesso a stabilire un contatto diretto e personale con ciascuno, la radio si prestava benissimo ad agire, con una parte di primo piano, nella nuova dimensione di massa che aveva caratterizzato gli anni ’30, sorta come strumento di reazione alla grande depressione conseguente alla grave crisi 1929 dalla quale gli USA erano usciti, trascinando a poco a poco gli altri, grazie alle indicazioni keynesiane. In

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presentazione pittorica. Arnheim era scappato in Italia a causa della campagna razziale che nella Germania hitleriana aveva subito toccato livelli drammatici e presto, quando Mussolini vi si allineerà, dovrà fare altrettanto dall’Italia. Ovviamente, come gestaltista, Arnheim era soprattutto interessato alle strutture visive. A Roma si dedicava a una certa analisi del cinema, moderna arte visiva per eccellenza. Ma per contrasto e quasi per un’inversione dei ruoli, aveva voluto interessarsi anche della non-visività, diciamo, che era la radio. Le elaborazioni di quel seminario saranno poi in buona parte pubblicate in un volume edito da Hoepli nel 1939, La radio cerca la sua forma. Se l’autore dell’Angelus novus si era rifatto ad Arnheim, questi a sua volta si rifaceva a Benjamin secondo cui le grandi modificazioni dei modelli di vita e di modelli culturali vissuti dall’umanità nella storia, comportano presto o tardi altrettante modificazioni nei modi e nei generi della loro percezione sensoriale. Ossia che la resa di una comunicazione di qualsiasi tipo, tanto più se di massa, non va ricavata da una valutazione della qualità del suo contenuto ma si misura da ciò che effettivamente di essa viene percepito, rilevando anche le modificazioni sensoriali di cui sopra. Così come l’effetto di un farmaco si giudica correttamente non solo analizzando il composto ma registrando le reazioni da esso prodotte progressivamente sull’organismo. Noi dell’ultima generazione ci chiedevamo come mai Benjamin nel suo discorso sulla riproducibilità dell’opera d’arte avesse incluso le opere d’arte tradizionalmente intese più il cinema, ma non avesse detto nulla della radio, che pure a noi pareva il linguaggio più nuovo e stimolante.

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L’esperienza di Radio Sardegna Un embrione di emittente radiofonica era già nato nell’isola dopo l’armistizio del settembre 1943 che aveva visto i tedeschi imbarcarsi in fretta, diretti in continente per non restare intrappolati, e gli alleati sbarcare indisturbati, grazie a un autocarro-radio ex militare che circolava diffondendo un notiziario e nei lunghi intervalli mandando in onda l’unico e ormai gracidante disco a 78 giri in dotazione che era La Cavalcata delle Valchirie. La potenza diffusiva di quell’apparato di fortuna era assai debole e all’atto pratico pochi ebbero la fortuna di ascoltarlo. Ma presto intervenne lo Psycological Warfare Branch, ossia il servizio stampa e propaganda del governo militare alleato, quella soluzione molto zingaresca ebbe termine e la prima emittente stabile di Radio Sardegna piantò le antenne nella parte alta di Cagliari, precisamente nelle grotte di Is Mirrionis (nella zona dove ora sorgono molti edifici universitari). Venne dotata di attrezzature un po’ meno improbabili delle precedenti, il consunto disco wagneriano trovò la pace eterna in qualche discarica e la nuova emittenza si estese fino al punto di comprendere, oltre a qualche essenziale notiziario che informava delle importanti novità della vita quotidiana (la distribuzione delle patate con i tagliandi della tessera annonaria, l’acqua nelle case erogata solo dalle 3 alle 5 del mattino, e così via), trasmetteva anche qualche disco di canzoni americane (fu un piacere riascoltarle dopo anni di embargo decretato dal fascismo), qualche conversazione di varia umanità, qualche disco d’opera (un po’ meno gracchiante

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delle Valchirie) gentilmente offerto da privati appassionati di lirica e perfino qualche atto unico recitato dalla locale compagnia filodrammatica dopolavoristica. Ma quella gestione spontaneistica durò poco. In seguito ad accordi stipulati fra il Military Allied Gouvernement e il governo italiano del Comitato di Liberazione Nazionale, il P.W.B., pur sempre controllandole dall’alto, passò le varie stazioni locali sorte nel sud e nelle isole dopo la cessazione dell’Ente Italiano Audizioni Radiofoniche (E.I.A.R.) fascista, al nuovo ente che ne prendeva l’eredità, la Radio Audizioni Italia (R.A.I.). Sembrò sulle prime che si concedessero larghi margini di autonomia da parte dei controllori alleati e dei nuovi gestori della R.A.I. che inviarono a dirigere la nuova stazione di Cagliari un giovane fiorentino, Amerigo Gomez, segnalatosi per avere avuto il coraggio di registrare su filo alcuni momenti della resistenza e dei combattimenti per la conquista alleata di Firenze nell’agosto 1944. Gomez era un giovane di idee e di gran voglia del nuovo. Radunò intorno a sé altri giovani, fra cui il sottoscritto che sottotenentino era stato inviato nella terra d’origine insieme a tutti gli ufficiali di origine sarda e poi congedato, tirava a campare in Sardegna come supplente di francese in un ginnasio per sfollati. La produzione della neonata Radio Sardegna si arricchì nei limiti concessi dalla nostra buona volontà (tanta) e dall’esiguità dei mezzi (altrettanta). Ognuno di noi faceva di tutto o almeno ci provava: redattore, speaker, elettricista, dattilografo, sceneggiatore, “sonorizzatore” ovvero addetto agli effetti fonici, e via dicendo. Solo in quello che allora si chiamava “teatro radiofonico”, la compagnia dei filodrammatici locali non ammetteva invasioni di campo. Personalmente mi dispiaceva perché proprio quello era il mio primo interesse. Riuscimmo comunque a trasmettere radiosceneggiati da Gogol a Dos Passos, Steinbeck, ‘O Henry (autori anglosassoni ben poco conosciuti da noi) e altri, nonché conversazioni varie sul cinema (importanti perché, come le canzoni, i film americani e inglesi negli ultimi anni erano stati vietati in Italia e quindi c’era molto da dire sul non visto), sul teatro, sulla letteratura, sullo sport. Bisogna pensare poi alla motivazione politica che nei primi tempi della riconquistata libertà spingeva fortemente noi giovanotti del tutto inesperti di quanti e quali limiti anche in un regime democratico si potessero porre per condizionare pesantemente la libertà di opinione, di parola e

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attesa della televisione, ancora a livello sperimentale, la radio funzionava come vettore ideale della pubblicità commerciale per tenere alto il livello dei consumi a difesa della produzione e quindi dei salari e della propaganda per suscitare e mantenere il grado di consenso necessario alla classe politica. Ma la radio ebbe anche un uso politico, molto evidente soprattutto nell’Italia di Mussolini e poi nel Terzo Reich di Hitler. L’altoparlante innalzato nella piazza del piccolo paese della Calabria o del Polesine per riportare la viva voce del Duce che annunciava dal “fatale” balcone di piazza Venezia che l’Italia fascista era ormai un impero o che quattro anni dopo entrava in guerra contro le potenze “demo-pluto-masso-giudaiche” per poi, vincitrice insieme all’alleato germanico, dominare il mondo, ebbe un ruolo di primo piano per la propaganda fascista.

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mo, con qualche esagerazione, i nostri contatti con Radio Andorra e il nostro progetto di una radio sarda indipendente. Il giorno dopo, mentre in una trattoria cagliaritana sedevamo di fronte a una frittura di pesce innaffiata da un biondo Nuragus, si avvicinò uno della Military Police fiancheggiato da un carabiniere: il comandante locale del P.W.B. voleva parlarci subito. Nemmeno il tempo di finire la squisita frittura che il maggiore italo-americano, mi pare si chiamasse Cuccillo o simile, voleva sapere di più del nostro progetto radioautonomistico in termini di fatti e persone coinvolte. Sulle prime molto arcigno, andava sciogliendosi man mano che si rendeva conto che noi non eravamo agenti di Hitler né (come probabilmente aveva sospettato visto il nostro colloquio in treno con Berlinguer e Laconi) di Stalin e che il nostro disegno era non molto di più che un sogno di giovanotti cui l’irrompere della libertà in democrazia aveva un po’ dato alla testa. Comunque, forse per avere riscontri alla nostra versione di discolpa o comunque per non farla troppo facile, ci trattenne la notte in una cella improvvisata, attigua ai gabinetti di una caserma della disciolta Milizia fascista, con il solo conforto di due brandine da campo e di un buon numero di scarafaggi paffuti cui il lungo periodo bellico sembrava non avere inferto alcuna privazione. Se noi due alla prova dei fatti eravamo innocui cani sciolti, ben altri personaggi potevano manovrarci in quella direzione. Soltanto ventiquattrore dopo tornammo a riveder le stelle. Il breve soggiorno coatto era stato sufficiente a farci capire che gli alleati, prima ancora della R.A.I., non avrebbero consentito una radio autonoma per timore che finisse in mano ai socialcomunisti. Il bello fu che lo stesso Laconi qualche tempo dopo ci disse che nemmeno i dirigenti del PCI vedevano di buon occhio il nostro progetto. Comunisti e socialisti erano (anche se per poco) al governo con democristiani e liberali e non volevano certo creare difficoltà alla propria attuale posizione per una questione tutto sommato secondaria come l’autonomia di Radio Sardegna. Le cose restarono come erano. Poco tempo dopo, liberata Roma, rientrai in continente. Non potendo dedicarmi alla mia vera passione, il teatro, perché nelle ristrettezze post-belliche di teatro fatto da giovani ce n’era ben poco, continuai con la radio. L’aria della radio di via Asiago a Roma non era così aperta all’apporto dilettantistico come l’esperienza cagliaritana. Gli organici dell’E.I.A.R. erano passati in massa alla R.A.I. e

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di stampa (quindi anche di radio), di cui ci eravamo fatti un’idea sicuramente troppo ampia. Sperimentammo presto quanto ci fossimo illusi. A noi, da poco calati in un mondo di libertà dopo oltre venti anni di dittatura, sembrava tutto di ovvia consequenzialità: finalmente abolita ogni censura preventiva, doveva essere concesso a tutti di scrivere un libro, di fondare un giornale, di fare un film, di far funzionare un’emittente radiofonica senza vincolo alcuno. L’idea di monopolio nei mezzi di comunicazione era per noi associata al fascismo: caduto il fascismo doveva sparire ogni monopolio, in primis quello radiofonico. Gli ascolti della poco potente Radio Sardegna si estendevano insperatamente. Numerosi ascoltatori scrivevano anche dalle Baleari e dalla costa catalana che seguivano i nostri programmi. C’era già un progetto di coinvolgere un giornalista di Alghero (dove si parlava ancora catalano) per un programma in quella lingua. C’era grande abbondanza di progetti. Non altrettanta però di attrezzature: dei due microfoni teoricamente disponibili (ancora primordiali: una lunga asta con una scatola nera in cima) uno era affetto da un filo ballerino che lo metteva fuori uso sul più bello. Ma ci voleva altro per smorzare i nostri entusiasmi. Eravamo arrivati all’idea di consorziarci per programmi in comune con l’emittente della repubblica indipendente di Andorra. In Sardegna i sogni sardisti, ossia d’indipendenza o almeno di forte autonomia dell’isola (poi in piccola parte soddisfatti dalla concessione, come alla Sicilia, di uno statuto regionale speciale), soffocati dal fascismo con l’esilio di Emilio Lussu e lo scioglimento del Partito sardo d’azione, erano risorti con il ritorno della democrazia. L’autonomia piena di Radio Sardegna in buona misura si poneva nella scia di quel sogno, favorito dal fatto che la R.A.I. aveva transitoriamente assunto come eredità E.I.A.R. il controllo di tutte le radio passate, presenti e future solo per un limitato solo numero di anni, finché durava la guerra, dopo di che si sperava che ognuna potesse andarsene per conto proprio. Invece alla scadenza –come chiunque meno dissennato di noi avrebbe previsto– quella convenzione le fu confermata senza colpo ferire. Trionfo e tramonto della radio Successe una volta che viaggiando in treno da Sassari a Cagliari, io e un altro redattore, incontrammo Enrico Berlinguer e il giovane segretario regionale del PCI, Laconi. E che a loro esponessi-

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1. Alcune premesse metodologiche Nel presentare i primi risultati di una ricerca ancora in corso, mi propongo di esaminare le modalità e i contenuti privilegiati dagli industriali italiani per orientare l’opinione pubblica attraverso i media, e in particolare la radio, durante gli anni Cinquanta. Si tratta di un periodo in cui la questione del Mezzogiorno diventa per l’imprenditoria privata terreno di verifica e di scontro politico sia all’esterno (con i partiti di governo) che all’interno (con la componente meridionale) e, al tempo stesso, costituisce un’importante occasione economica, un mercato interessante per l’espansione della domanda indotta dalla spesa pubblica nelle regioni meridionali. La scelta di questa prospettiva d’analisi nasce da alcuni interrogativi emersi da una ricerca più ampia condotta sulle politiche pubbliche per il Mezzogiorno nel secondo dopoguerra e sull’attività di pressione, di influenza e di condizionamento svolta dalla Confindustria sul Governo, sui partiti e sugli organi politicoistituzionali per condizionarne l’elaborazione e gli esiti1. Cercherò qui di dare una prima risposta ai seguenti quesiti: che ruolo attribuiscono gli industriali italiani ai mezzi di comunicazione di massa e, in particolare, alla radio? Come li utilizzano in concomitanza di importanti snodi politici ed economici, come nel caso dello sviluppo del Mezzogiorno? Una sollecitazione ad indagare in questa direzione è venuta, oltre che dalla documentazione archivistica e a stampa reperita presso l’Archivio della Confindustria, dagli studi sulla storia dei media, che negli ultimi decenni si sono arricchiti di numerosi contributi sia sugli aspetti aziendali e sui gruppi dirigenti, sia sul ruolo politico culturale, con particolare attenzione ai rapporti con la Chiesa, i partiti di Governo, la modernizzazione della società italiana e solo di recente sul ruolo del potere economico e dell’imprenditoria privata2. In particolare, nei suoi recenti lavori Ortoleva ha tracciato interessanti bilanci storiografici sulla storia dei media in una visione comparata e internazionale e ha indicato alcune piste d’indagine e pro-

anna lucia denitto nelle strategie confindustriali degli anni cinquanta

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con il ritorno dei reduci dai vari fronti si erano infoltiti. C’era però la possibilità di produrre radiodrammi, nuova forma alternativa al teatro radiofonico cioè alla semplice riproduzione di opere recitate sul palcoscenico. Se i buongustai dell’ascolto lamentavano che la ritrasmissione radiofonica dal vivo della lirica o dei concerti alterava parecchio la sonorità autentica e quindi l’espressione originaria di quelle opere, a maggior ragione era da lamentarsi l’imperfezione e lo snaturamento delle riproduzioni dal vivo di esecuzioni teatrali di prosa. Ciò si era già capito da tempo fuori d’Italia, soprattutto in Gran Bretagna e negli USA. Si prese così contatto con la produzione di alcuni di questi autori, fra cui primeggiavano allora Noel Coward e Tyron Guthrie, soprattutto quest’ultimo con il suo Annunci matrimoniali. Prendemmo a scrivere noi stessi radiodrammi. Fondammo il primo (e unico) Sindacato degli autori radiodrammatici e ci impegnammo per ottenere che la R.A.I. pagasse la trasmissione dei radiodrammi con compensi più decenti. La cosa non era semplice, perché il diritto di autore radiofonico non era ancora previsto. Alla fine ci fu riconosciuto perché la gente allora, in assenza della tv, era intorno alla radio quanto oggi si fa fatica a credere. Anche ora capita ogni tanto che qualcuno mi chieda se io sono lo stesso che in epoca protostorica scriveva radiodrammi di successo (bontà loro). Ma due avvenimenti segnarono presto la fine dell’epoca d’oro: l’uso sempre più generalizzato della registrazione su nastro e quindi la facile riproducibilità di ogni programma per un numero infinito di volte, il che ovviamente riduceva drasticamente il fabbisogno di programmi originali di prima esecuzione. Il secondo fu un vero colpo di grazia: la tv che già nei primi anni ’50 aveva saccheggiato le schiere dei radioascoltatori e poi con le prime Lascia e raddoppia di Mike Buongiorno la fece improvvisamente da padrona. Per un certo tempo i meno giovani ricorderanno che i cinema, se volevano riempire la sala, prima di iniziare le proiezioni serali dovevano munirsi di un certo numero di apparecchi tv in modo che gli spettatori, prima del film, si godessero i quiz di Mike. Via via che la gente si dotava di un apparecchio tv a casa i cinema uscirono da questa sudditanza e ripresero, se non tutta, buona parte della loro prospera autonomia. La radio invece ha patito più a lungo e più in profondità. I radiodrammi, come ogni altra espressione del linguaggio specificatamente radiofonico, già alle soglie degli anni ’60 non interessavano più. Ma siamo già a un periodo che travalica la mia esperienza diretta.

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2. La Confindustria e la formazione dell’opinione pubblica: obiettivi, destinatari, strumenti e tecniche Durante la Ricostruzione e con maggiore sistematicità tra il 1948 e il 1950 il management della Confindustria svolge una lucida e sofisticata analisi degli obiettivi, dei destinatari e delle tecniche da mettere in atto per “orientare” l’opinione pubblica. È il periodo in cui, sotto la presidenza di Angelo Costa (1945-1955), l’Associazione degli industriali italiani è impegnata su più fronti: rafforzare “l’immagine di una borghesia industriale coesa e solidale”, a fronte di un forte contrasto d’interesse presente tra industriali del nord e quelli del sud, tra grande e piccola industria; smorzare e controllare la forte conflittualità sociale e sindacale esistente nelle fabbriche e nel paese, dopo la fine dei governi di unità antifascista e la rottura sindacale del 1948, successiva al falli-

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to attentato a Togliatti; consolidare l’intensa collaborazione in atto con i governi centristi di De Gasperi e la grande capacità di orientare e influenzare le politiche industriali del paese5. Si rende perciò necessaria un’efficace azione collettiva degli industriali italiani, che deve agire su tre livelli, quelli “dell’informazione, dell’orientamento e della persuasione” e deve mirare ad un duplice obiettivo: quello prettamente economico e quello più propriamente politico. Come si legge in un documento confederale del 1951, tale azione non può limitarsi “ad una semplice difesa di interessi materiali”, ma deve “ampliarsi ed estendersi” alla difesa di “tutto il sistema economico e sociale in cui l’industria è sorta e vive”. Essa deve avere caratteristiche specifiche, come “una sufficiente elasticità ed un’ampiezza tale” da poter agire nei confronti di tutte “le varie stratificazioni dell’opinione pubblica”6. È particolarmente interessante l’analisi dei soggetti sociali che la Confindustria intende intercettare e nei confronti dei quali calibra tecniche e strumenti comunicativi. Al centro vi sono i rapporti con i lavoratori, che richiedono uno studio e una strategia specifica. È necessario, infatti, adattare il messaggio di informazione e di persuasione a seconda se ci si rivolge al lavoratore singolo o al lavoratore come elemento di una massa più complessa; a questa duplice azione verso il singolo lavoratore e verso la massa il management ritiene che la Confederazione debba rivolgere uno “sforzo costante” in modo da superare gli stereotipi correnti di un’insanabile conflittualità politica economica e sociale oltre che “umana” usando un linguaggio semplice e “intelligibile” che agisca su “ragione e sentimento”. Questo sforzo, che è in sostanza un atto di fede verso il lavoratore ed una esaltazione della sua individualità e del suo valore umano, viene soprattutto compiuto cercando di ricordare al lavoratore le sue capacità ragionatrici, i suoi sentimenti, le sue capacità professionali, le sue propensioni verso il bello che si manifestano nell’arte, in qualsiasi delle sue innumerevoli manifestazioni o espressioni. Esaltare nel lavoratore le sue qualità umane e condurre il lavoratore ad uno sforzo di ragionamento e di sentimento superando quella sensazione tanto diffusa tra i lavoratori di uno strano complesso di inferiorità, significa già aver compiuto una profonda azione di orientamento e di educazione, che è preliminare quasi ad una azione di persuasione7.

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spettive di ricerca, che mirano a superare una storiografia essenzialmente “politica”, secondo la quale i grandi mezzi di comunicazione di massa costituiscono strumenti di organizzazione e governo della società da parte del potere, e a favorire studi e ricerche sulla storia e l’evoluzione del pubblico, sulla programmazione e gli stili organizzativi e aziendali nel caso dei mezzi radiotelevisivi, in altre parole, su una “storia sociale” dei media3. Ai fini della mia analisi farò riferimento al saggio del 1997 apparso nel volume collettaneo sulla Storia del capitalismo italiano dal dopoguerra a oggi, a cura di Fabrizio Barca, in cui Ortoleva analizza la “molteplicità di funzioni” svolte dai mezzi di comunicazione di massa (editoria giornalistica e libraria, produzione discografica e cinematografica, radio, televisione, spettacolo dal vivo) all’interno del sistema capitalistico e ne individua almeno tre: 1) i media come imprese, piccole e grandi e dunque con prevalenza della logica economica; 2) la funzione politica dei media nell’orientare l’opinione pubblica; 3) i media come “strumento imprescindibile di circolazione delle informazioni necessarie a orientare i consumatori”, in altri termini come “tessuto connettivo del sistema”4. All’interno di una tematica indubbiamente molto ampia e articolata, mi soffermerò essenzialmente su tre questioni: la Confindustria e la formazione dell’opinione pubblica; le rubriche radiofoniche confindustriali dal 1948 al 1959; gli industriali, lo sviluppo del Mezzogiorno e la radio.

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Verso gli intellettuali, l’altro destinatario privilegiato per orientare l’opinione pubblica, bisogna far leva “sull’elemento del ragionamento”, anche se i contenuti mirano a raggiungere il medesimo obiettivo: la difesa di tutto “un sistema economico, un sistema sociale, un sistema di vita”, fondato sull’iniziativa privata, il risparmio, la responsabilità dell’individuo di fronte a se stesso e alla propria famiglia. In altri termini vanno difesi e diffusi i valori della società capitalistica, fondati sull’economia di mercato e sul benessere individuale, in cui i diritti sociali vanno lasciati alla libera contrattazione tra datori di lavoro e lavoratori e in cui lo Stato si deve limitare ad un’azione di “assistenza” e non di “sicurezza sociale”, come ripetutamente il management confindustriale sostiene. A tal proposito è esplicito e ripetuto il riferimento alla necessità che la Confederazione si attivi per contrastare l’orientamento sempre più diffuso nell’opinione pubblica, e soprattutto nei ceti intellettuali, di sostegno al Welfare State e al ruolo di guida e di regolatore dello Stato nei meccanismi economici, amministrativi, sociali. Si legge: “Le tesi che tendono ad affidare allo Stato compiti di «sicurezza sociale» e non di assistenza”, rafforzano la sensazione, soprattutto nei giovani, che “verso lo Stato debba necessariamente convergere ogni aspetto della vita economica”. Ed ancora:

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Gli strumenti messi in atto sono molteplici e vanno dal controllo della stampa quotidiana e periodica, mediante propri organi, alla diffusione capillare di informazioni relative all’industria e ai singoli imprenditori su tutti i giornali, con particolare attenzione alla stampa estera; all’utilizzazione dei nuovi mezzi di comunicazione di massa, come la radio –su cui mi soffermerò in seguito–, il cinema, la televisione, la pubblicità.

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Il rimontare la corrente, il ricordare il valore della personalità umana e, quindi, il libero esplicarsi di ogni iniziativa, il riportare l’individuo di fronte alla responsabilità di provvedere a sé e alla propria famiglia e alla responsabilità del proprio avvenire, non è facile, non soltanto per il contrasto di ideologie politiche, non soltanto per quei sentimenti o quell’invidia fra classe e classe che si fanno tanto più acuti quanto più il tenore di vita tende ad abbassarsi. Eppure questa è e deve essere la sostanza dell’azione di contatto e di orientamento della categorie industriali con quelle classi sulle quali occorre operare soltanto sulla base del ragionamento8.

Non è questa la sede per analizzare le attività promosse in relazione ai diversi media utilizzati; basti però ricordare alcuni settori che vengono seguiti e potenziati in modo particolare, come quello della cosiddetta “stampa aziendale” considerata da Confindustria particolarmente efficace sia sul piano strettamente produttivo sia su quello dell’orientamento dell’opinione pubblica e delle “relazioni umane” all’interno delle imprese. A metà degli anni ’50 la stampa aziendale rappresenta un gruppo editoriale di oltre 60 unità tra grandi, medie e piccole aziende, con una tiratura che raggiunge quasi le 600.000 copie e con una presenza su tutto il territorio nazionale; tra queste le più diffuse sono “Noi dell’Ilva”, “Nostra Radio”, “Notiziario Edison”. Il “padre spirituale”, il “propulsore” e l’“animatore” della stampa aziendale –come si legge nei rapporti confederali– è Attilio Pacces, amministratore delegato della Sip e vice presidente della RAI nel 1954. Per quanto riguarda il cinema, la Confindustria sostiene in via prioritaria la realizzazione di “corto-metraggi” per documentare “lo sforzo industriale” operato in quegli anni a vantaggio della vita del paese e il coordinamento di tutte le attività avviate nel campo delle programmazioni di interesse tecnico e didattico. Primi risultati di tale impegno sono i rapporti intrapresi in questo campo con i paesi esteri, la partecipazione della Confindustria alla Mostra del documentario tecnico scientifico di Venezia del 1951 e alla Mostra del film pubblicitario nel corso della Fiera internazionale di Milano dello stesso anno. Un altro terreno praticato è quello della raccolta sistematica dei cartelli pubblicitari che interessano l’industria e lo studio di iniziative di coordinamento e di potenziamento della pubblicità industriale intrapresa dalle singole aziende e dalle singole categorie9. 3. Le rubriche radiofoniche All’interno della strategia complessiva di formazione dell’opinione pubblica, un’attenzione particolare viene rivolta alla radio, dove la voce degli industriali è presente in vario modo nei palinsesti, come nel giornale radio, nelle trasmissioni culturali, nei dibattiti sull’attualità e, soprattutto con proprie trasmissioni. Sia Angelo Costa che Alighiero De Micheli, i due presidenti confindustriali che guidano rispettivamente l’Associazione degli industriali dal 1945 al 1955 e dal 1955 al 1961 utilizzano ampiamente i comunicati alla radio non solo per informazioni strettamente economiche ma anche per discorsi augurali in occasione di particolari avvenimenti o festività,

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premiato, e di Luca Di Schiena; le grandi inchieste, come quella avviata nel 1954 da Guido Piovene con “Il viaggio in Italia” per delineare “un ritratto vivo e organico” –come si legge negli Annuari Rai– delle cento città italiane. Nei palinsesti radiofonici le trasmissioni economiche sindacali e sociali rappresentano nel 1954 il 2,4% dell’intera programmazione delle tre reti (con circa il 2,3% sul programma nazionale, il 4,7 sul Terzo e percentuali insignificanti –al di sotto dell’1%– sul Secondo) a fronte del 27% della musica leggera, che tocca le punte di oltre il 34% sul secondo Programma. Se si guarda agli ascolti e nello specifico all’ora in cui viene messa in onda la rubrica confindustriale, si possono trarre alcune indicazioni sul numero potenziale dei radioascoltatori e quindi sul livello di circolazione delle informazioni trasmesse. Secondo alcuni dati rilevati dal Servizio Opinioni della RAI nel dicembre 1956, quando già da due anni la televisione ha fatto il suo ingresso trionfante nelle famiglie italiane, le punte di ascolto radiofonico si verificavano alle ore 13 ed alle ore 20 (le trasmissioni di cui ci occupiamo andavano in onda il sabato alle ore 19,45); furono rilevati rispettivamente 12 milioni di adulti in ascolto alle 13 e oltre 11 milioni alle ore 2013. Si tratta di dati puramente indicativi, che in ogni caso rivelano la vastità del pubblico radiofonico. Sia nella rubrica settimanale “Economia italiana d’oggi” sia in “Prodotti e produttori italiani” si alternano i massimi esponenti del mondo imprenditoriale italiano nelle sue diverse articolazioni settoriali e territoriali e del gruppo di comando confindustriale, i quali sotto forma di conversazioni –un genere particolarmente diffuso nella radio di questi anni– illustrano di volta in volta temi e problemi di carattere sindacale, in relazione alla più scottante attualità, di carattere politico economico attinenti sia a questioni generali che a singoli settori industriali. Il ciclo annuale delle conversazioni è aperto in genere dal Presidente confederale e prosegue poi per le varie categorie industriali. Procedendo ad un’analisi dettagliata dei temi e delle questioni dibattute è possibile cogliere alcune continuità e discontinuità nell’arco del decennio esaminato, che rispecchiano in larga parte i mutati equilibri politici nazionali e internazionali e i caratteri delle due presidenze confederali, che si susseguono, Costa prima e De Micheli poi14. Il primo è più attento a mantenere l’azione di influenza e di pressione dell’Associazione degli industriali sui pubblici poteri in

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in cui i temi sviluppati riguardano il valore della famiglia, la funzione morale del lavoro individuale, il risparmio, (temi più accentuati in Costa) le responsabilità collettive degli industriali, la loro funzione di classe dirigente, chiamati non solo ad essere i “tecnici della produzione”, ma “aperti alle esigenze complessive della vita nazionale” (su cui insiste maggiormente De Micheli)10. In questa sede mi soffermerò essenzialmente su due trasmissioni che dal 1948 al 1958 vengono ininterrottamente messe in onda sul programma nazionale in collaborazione con la Confindustria; si tratta di due rubriche radiofoniche settimanali trasmesse il sabato sera, alle ore 19,45, precedute nel palinsesto della serata dalle estrazioni del lotto e dall’Orchestra della canzone diretta da Angelini e con i cantanti di grido come Carla Boni, Gino Latilla, il Duo Fasano e seguite alle 20 dalla musica leggera, il piatto forte delle trasmissioni radiofoniche degli anni cinquanta, e negli intervalli, dai cosiddetti “comunicati commerciali”11. Dal 3 gennaio 1948 al 1 ottobre 1953 va in onda “Economia italiana d’oggi” alla quale subentra con una nuova denominazione la rubrica “Prodotti e produttori italiani”, trasmessa fino al gennaio 1959. Rispetto ai generi dei programmi, le rubriche confindustriali sono inserite nelle trasmissioni giornalistiche del programma nazionale, e più precisamente nelle cosiddette “rubriche economiche, sociali e sindacali”, che danno voce a varie categorie sociali, come “La voce dei lavoratori”, rubrica bisettimanale dedicata ai problemi del lavoro e delle classi operaie, con una media di 102 trasmissioni annue; “Vita nei campi”, dedicata ai problemi dell’agricoltura e delle classi rurali, settimanale con una media di 52 trasmissioni annue; “Lavoro italiano nel mondo”, rivolto agli emigranti, bisettimanale con 101 trasmissioni; i bollettini d’informazione economica come la trasmissione quotidiana “Listini della Borsa Valori di Milano”, (229 trasmissioni) e la rubrica settimanale curata da F. Di Fenizio “Congiunture e prospettive economiche”12. Complessivamente le trasmissioni giornalistiche del programma nazionale, oltre alle rubriche su citate, comprendono le edizioni ordinarie del Giornale Radio, le conversazioni e rassegne politiche, le discussioni di attualità, all’interno delle quali la rubrica “Il Convegno dei Cinque” è quella di maggior successo, diretta a turno, tra gli altri, da Silvio D’Amico, Igino Giordani, Francesco Canelutti; i documentari, tra i quali si segnalano quelli di Sergio Zavoli, più volte

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chimica, dei laterizi, della carta), ma anche a questioni, che seppur presentate con toni apparentemente asettici, mirano a contrastare la strategia politica fanfaniana di cui si è già detto: si dà spazio e legittimità alle esigenze della piccola e media impresa, che viene sempre più risucchiata nell’orbita della Dc, la quale lavora per un suo distacco dalla Confindustria, accusata di tutelare esclusivamente gli interessi delle grandi famiglie del capitalismo italiano; si confrontano le esperienze internazionali ispirate al liberismo; si discute sulla funzione sociale ed economica dell’economia di mercato; si esprimono forti preoccupazioni per l’intervento pubblico in economia. Su questi temi si sofferma nel 1954 Alighiero De Micheli, presidente dell’Assolombarda e futuro presidente confederale, il quale in una trasmissione sul tema Iniziativa privata e compiti dello Stato, sviluppa i temi cari all’imprenditoria italiana della tendenza ad “un’invadenza pesante dello Stato” nell’attività economica “non sempre necessaria né utile”, che provoca crescente imposizione fiscale, aumento degli investimenti pubblici su quelli privati, e rafforza il pericolo dell’«avanzata dello statalismo»16. Temi e questioni che ritornano –anche se con toni sfumati– negli anni successivi, quando De Micheli alla guida della Confederazione porta avanti il suo programma di organizzare un blocco conservatore e antigovernativo nelle elezioni amministrative del 1956 e nelle politiche del 1958, che si rivelerà fallimentare17.

4. Gli industriali, lo sviluppo del Mezzogiorno e la radio All’interno dell’attività complessiva delle trasmissioni mandate in onda negli anni Cinquanta, alle questioni del Mezzogiorno d’Italia e del suo sviluppo viene dedicato uno spazio progressivamente crescente, in relazione anche al rinnovato interesse dei vertici confederali alle politiche pubbliche per l’industrializzazione delle regioni meridionali. Piuttosto limitato durante la trasmissione di “Economia Italiana d’oggi”, l’interesse per l’economia meridionale e per le sue prospettive di sviluppo, diventa centrale tra il 1953 e il 1956 in concomitanza anche di alcune novità legislative, come il varo degli istituti speciali per il credito industriale nel 1953, la legge quadro del 1957, che introduce novità sostanziali nella durata, dimensione e qualità dell’intervento statale nel Sud, ed avvia la politica dei poli di sviluppo industriale. I temi maggiormente dibattuti riguardano, da un lato, l’analisi

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quella che possiamo definire “un’arena invisibile”, tessendo un fitto sistema di relazioni con De Gasperi e la Dc, destinato ad entrare in crisi tra il 1952-54, di fronte alla sfida vincente lanciata dalla Dc di Fanfani di potenziare l’intervento pubblico in economia e di rafforzare la propria autonomia dal potere delle élites economiche e del capitale privato. Il secondo, in risposta a tale sfida, è fautore e protagonista dell’intervento diretto della Confindustria nella sfera politica e nelle competizioni elettorali. Non a caso è nel corso del 53-54 che la rubrica cambia denominazione, dando maggiore centralità alle esperienze produttive di maggior successo, alle questioni commerciali di carattere internazionale, alla difesa insistente dell’impresa privata. Esaminando le trasmissioni andate in onda tra il 1948 e il 1953 si possono notare alcune differenze. In quelle del ’48 prevalgono non a caso le questioni del lavoro (contratto dei metalmeccanici, blocco dei licenziamenti e ripercussioni sul Mezzogiorno) e della conflittualità sociale e i toni sono piuttosto duri e polemici, anche se il management confindustriale precisa che le trasmissioni radiofoniche della rubrica “Economia italiana d’oggi” hanno consentito agli industriali di “precisare” la loro posizione, che “molto spesso è stata alterata dalla propaganda svolta, anche a mezzo della radio, dai rappresentanti delle organizzazioni operaie”15. Successivamente, quando il grado di influenza e di condizionamento della Confederazione sulla direzione delle politiche industriali e del lavoro è molto alto, le conversazioni radiofoniche mirano a trasmettere l’immagine rassicurante e operosa degli industriali, protèsi verso gli interessi generali del paese e non legati alla difesa aziendalistica di interessi settoriali o di gruppi monopolistici. Sono gli anni in cui vengono dedicate alcune trasmissioni al contributo rilevante dato dagli industriali alla Ricostruzione del paese e al ruolo di classe dirigente svolto dall’industria italiana nei primi cinquant’anni del secolo per lo sviluppo complessivo del paese. Da qui le conversazioni sulla storia dell’industria italiana e di alcuni capitani d’industria, con l’obiettivo di un’autorappresentazione che legittimi e rafforzi nell’opinione pubblica la funzione a favore dell’intera collettività svolta dalla borghesia industriale italiana. Con l’avvio, alla fine del 1953, della rubrica “Prodotti e produttori italiani” le questioni dibattute diventano per così dire più direttamente legate ai settori produttivi emergenti (industria editoriale,

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fino all’espulsione del siciliano La Cavera, nelle trasmissioni radiofoniche lo spazio dedicato al Mezzogiorno va sempre più riducendosi, fino quasi a scomparire19. I conflitti in atto tra Confindustria e Governo sulle politiche pubbliche per il Mezzogiorno e tra le diverse componenti del mondo imprenditoriale italiano non emergono mai in modo esplicito dalle conversazioni radiofoniche, ma è facile coglierli nella scelta dei temi da approfondire e dei rappresentanti imprenditoriali chiamati al microfono. I messaggi radiofonici attenuano e sfumano, fino quasi a scomparire, i toni della polemica e dello scontro in atto sia all’interno del mondo imprenditoriale (tra industriali del Nord e industriali del Sud) sia tra Confederazione e DC sulle modalità e finalità dell’industrializzazione del Mezzogiorno, anche perché l’obiettivo da essi perseguito è –come si è detto– quello di orientare e persuadere l’opinione pubblica e in specie i lavoratori e gli intellettuali e di rappresentare una borghesia industriale coesa e impegnata nel bene pubblico. Diversi sono, invece, i toni, gli argomenti, i linguaggi messi in campo dagli industriali nelle sedi decisionali (Parlamento, Governo, commissioni parlamentari, comitati ministeriali, segreterie di partito, organi direttivi confindustriali), in cui si elaborano e si attuano le politiche pubbliche per il Mezzogiorno, come ho avuto modo di documentare in altre ricerche20. Al di là dei risultati conseguiti nel pubblico dei radioascoltatori italiani così eterogeneo per fasce sociali, per età e collocazione territoriale, è utile evidenziare come per gli industriali italiani nella metà degli anni Cinquanta il binomio radio/Mezzogiorno acquista una sua centralità per vari motivi. In primo luogo per orientare l’opinione pubblica in uno snodo politico dei più difficili, quando sull’intervento dello stato nell’industrializzazione del Mezzogiorno la Confindustria misura la sua debolezza politica nei confronti della sinistra democristiana, “meno liberale e più sociale”, ed anche la frammentazione sul piano della rappresentanza degli interessi industriali. In secondo luogo per le opportunità che l’incremento dell’utenza radiofonica prima e radiotelevisiva poi (soprattutto dal 1957 per il Sud) apre allo sviluppo dell’industria elettrotecnica, in particolare per l’accresciuta domanda di apparecchi radiofonici e poi televisivi, opportunamente sostenuta e guidata dagli amministratori della RAI. Presente già nella Relazione del Presidente al Consiglio d’Am-

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della realtà economico-sociale del Sud, nelle sue diverse articolazioni regionali (come si evince dalle conversazioni specifiche sulla Puglia, la Sardegna, la Sicilia); dall’altro la discussione sulle prospettive di sviluppo del Sud grazie agli incentivi pubblici e sull’interesse della grande industria settentrionale, verso alcuni dei settori ritenuti trainanti, come ad esempio l’industria petrolifera in Sicilia, dove la cosiddetta “febbre del petrolio” richiama la Montecatini, l’Edison, l’Eni e il cartello americano della Gulf Oil, quella metallifera in Sardegna, l’industria tessile, in specie quella laniera. Si avvicendano nelle conversazioni settimanali dedicate al Mezzogiorno gli esponenti più rappresentativi della componente meridionale presente nei vertici confindustriali, che sono fautori convinti dell’industrializzazione del Sud e rivendicano una maggiore attenzione agli interessi delle regioni meridionali nell’azione politica della Confindustria. Basti citare le conversazioni di Giuseppe Cenzato, il più grande manager dell’industria meridionale, vicepresidente della Confindustria dal 1953 al 1956, figura chiave dell’imprenditoria meridionale, impegnato fin dagli anni Trenta a perseguire su piani diversi (dall’attività manageriale, come responsabile della Società Meridionale di Elettricità, all’organizzazione culturale, alla rappresentanza degli interessi) la formazione di una classe dirigente meridionale, qualificata professionalmente e politicamente capace di guidare in modo autonomo lo sviluppo del Sud; di Domenico La Cavera, ingegnere palermitano, dal 1951 al 1958 membro della Giunta Esecutiva confederale, l’organo politico più importante, agguerrito portavoce in Confindustria della complessa realtà regionale siciliana; Leopoldo de Lieto, potente costruttore napoletano, presidente della locale Unione degli industriali, dirigente confindustriale dal 1951 al 1954, impegnato a diffondere dai microfoni della radio i problemi e le prospettive dell’industrializzazione del Mezzogiorno; Isidoro Pirelli, presidente dell’Unione degli Industriali della provincia di Bari, presente in Confindustria dal 1946 al 1956, interprete dell’esigenza di una forte linea unitaria tra industriali del Nord e industriali del Sud per favorire lo sviluppo del Sud e sottrarlo “all’iniziativa dei politici”18. Non è certo un caso che tra il 1956 e il 1958, quando all’interno dei vertici confindustriali la componente meridionale più convinta della via industriale per lo sviluppo autonomo del Sud viene progressivamente emarginata,

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sviluppo del Mezzogiorno e delle isole, organizzato a Palermo nell’ottobre del 1955, dove si riunisce il mondo economico italiano alla presenza delle massime autorità politiche italiane e dei rappresentanti dell’economia europea, siano chiamati tra gli altri a svolgere delle relazioni il presidente della RAI Antonio Carrelli e il presidente dell’ANIE (Associazione Nazionale Industrie Elettrotecniche) Piero Anfossi rispettivamente su I compiti della radiotelevisione: i programmi e su I compiti della radiotelevisione: gli apparecchi riceventi, a conferma dell’interesse notevole dell’imprenditoria ai mezzi di comunicazione di massa in rapporto sia alla produzione culturale che alla produzione dei mezzi tecnici. Il presidente della Rai si limita ad un intervento piuttosto modesto, in cui si sofferma sulle scelte e i criteri che devono guidare la programmazione radiofonica e più ancora quella televisiva, per la quale si richiede “grandissima responsabilità” per evitare eccessiva drammatizzazione, arbitrarietà, faziosità, data la grande “potenza rappresentativa e comunicativa dell’immagine”24. Molto più articolata e mirata ad obiettivi di politica economica è la relazione di Anfossi, il quale dopo aver richiamato il ruolo sociale della radio, considerato “strumento di progresso civile che ha rotto il silenzio di ogni solitudine” si sofferma ad esaltare la politica di forte impegno sociale, che –a suo dire– l’industria nazionale costruttrice di apparecchi radio e televisivi sta portando avanti nel paese e particolarmente nelle regioni meridionali, immettendo sul mercato apparecchi a basso costo, acquistabili anche a rate da parte delle popolazioni meridionali. Dopo aver tracciato un puntuale andamento dell’utenza radiofonica nelle regioni meridionali e aver rilevato il notevole incremento ed anche le capacità di espansione del mercato degli apparecchi radiofonici, Anfossi dichiara l’interesse pieno dell’industria del settore a collaborare con lo Stato per aumentare “le occasioni” di lavoro e facilitare l’impianto di “nuove e libere” imprese. A tal fine non esita ad avanzare le consuete richieste di sgravi fiscali, tributari, di incentivi creditizi, in altri termini di un intervento dello Stato a sostegno dell’impresa privata, nell’ottica prevalente negli industriali italiani di uno Stato sovventore e non regolatore. Sostenere la diffusione della radio e della tv nel Mezzogiorno –dichiara infine il presidente dell’ANIE– significa in definitiva favorire la penetrazione di “uno dei più potenti strumenti di civiltà, che possano essere ri-

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ministrazione del 1950, l’impegno a migliorare e potenziare la rete radiofonica nelle regioni meridionali e a sviluppare quella televisiva, ancora limitata solo ad alcune regioni del Nord e del Centro, viene ribadito in quella del 1954, al fine di assicurare “la piena parità” alle popolazioni meridionali21. All’inizio degli anni Cinquanta la RAI sviluppa un’intensa campagna per reclutare nuovi abbonati, promuovendo una serie di attività promozionali (concorsi a premi) e favorendo l’immissione sul mercato di apparecchi a basso costo, accessibili a settori di pubblico a basso reddito. A tal fine la RAI, d’intesa con i Ministeri delle Poste e delle Finanze, conduce in porto un accordo con l’ANIE (Associazione Nazionale delle Industrie Elettrotecniche) per promuovere la costruzione di un apparecchio economico. Nascono così gli apparecchi «serie ANIE», alla cui costruzione partecipano le principali industrie nazionali e sono presentati per la prima volta alla Mostra della radio nel settembre 195122. Tale iniziativa riscuote particolare successo anche nelle regioni meridionali, dove tra il 1953 e il 1954 si registra un numero di nuovi abbonati più alto rispetto al Nord e al Centro. Nel 1953 l’aumento dei nuovi abbonati è superiore al 20% ed in qualche caso, come a Nuoro, Foggia, Teramo, superiore al 25%. Il numero complessivo, però, degli abbonati alla radio nel Sud è ancora molto basso: nel 1953 raggiunge appena il 15% mentre al Nord è del 58%, al Centro del 20%, nelle isole del 7%. Nel 1958 gli abbonati nelle regioni meridionali diventano il 16,3%, al Nord scendono al 56%, al Centro sono il 19,5%, nelle isole 8,2% e registrano il più alto incremento rispetto alle altre zone del paese (8,2% rispetto al 6% del Nord). A livello nazionale il dato complessivo segna una crescita notevolissima degli abbonati alla radio: nel 1946 gli abbonati erano circa 1.850.000, diventarono 2.204.580 nel 1948 per poi raddoppiare in appena sei anni, alla fine del 1954 superavano i cinque milioni (5.250.000), nel 1958 erano diventati oltre sette milioni (7.138.000), di cui 1.165.556 al Sud. Naturalmente il «bacino d’utenza» dei radioascoltatori era molto più alto: nel 1954, ad esempio, contava 18 milioni di persone; si calcolava in media una radio ogni due famiglie23. Non è certo un caso, dunque, che in un importante convegno internazionale dedicato al tema Stato ed iniziativa privata per lo

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volti a sviluppare gli intelletti, a plasmare le coscienze, a mantenere ed accrescere la cultura e la coesione sociale”25. Quando il convegno di Palermo, dove si gioca una partita durissima tra la Dc e i centri principali del capitalismo italiano per la direzione dello sviluppo industriale del Mezzogiorno, si avvia alle ultime battute, nella mozione finale in cui si tenta un’ultima mediazione, si rivolge un invito esplicito alla stampa nazionale e ai mezzi di comunicazione di massa per un’informazione corretta del problema dello sviluppo industriale delle regioni meridionali, considerato il ruolo determinante da loro svolto nella formazione dell’opinione pubblica. Come abbiamo avuto modo di sottolineare in precedenza, alla classe imprenditoriale italiana, che controlla finanziariamente la maggior parte della stampa quotidiana e periodica, non sfugge l’importanza della funzione politica e di quella economica che i mezzi di comunicazione di massa possono svolgere nel Mezzogiorno. In un momento in cui, nella metà degli anni ’50, la questione meridionale diventa il terreno privilegiato dei nuovi equilibri politici tra il capitalismo privato e la Democrazia Cristiana e costituisce il banco di prova per sventare “il pericolo rosso” nel Mezzogiorno, la borghesia industriale italiana chiede l’appoggio incondizionato dei media.

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1 A. L. Denitto, Confindustria e Mezzogiorno (1950-1958). Dibattiti e strategie sull’intervento straordinario, Galatina (Le) 2001. 2 Tra i numerosi contributi si segnalano La radio: storia di sessant’anni: 1924-1984, Torino 1984; N. Tranfaglia e G. De Luna, Radio e potere in Italia dalle origini agli anni Sessanta, in “Problemi dell’informazione”, 1986, XI, 1, pp.47-60; F. Monteleone, Storia della radio e della televisione in Italia. Società, politica, strategie, programmi. 1922-1992, Venezia 1992; la discussione a più voci Sulla storia e la storiografia dei media, in “Problemi dell’informazione”, 1992, 2; F. Di Spirito, P. Ortoleva, C. Ottaviano (a cura di), Lo strabismo telematico. Contraddizioni e tendenze della società dell’informazione, Torino 1996; P. Ortoleva, I media. Comunicazione e potere, in F. Barbagallo (a cura di), Storia dell’ Italia repubblicana, vol. III, L’Italia nella crisi mondiale. L’ultimo ventennio, Torino 1997 pp. 865-84; A.Varni (a cura di), Storia della comunicazione in Italia: dalle Gazzette a Internet, Bologna 2002; V. Castronovo – N. Tranfaglia (a cura di), La stampa italiana nell’età della TV, vol. VII, Roma-Bari 2002. Utili indicazioni metodologiche sull’uso dei media come fonti storiche in P. Ortoleva, Cinema e storia. Scene dal passato, Torino 1991; Id., La rete e la catena. Mestiere di storico al tempo di

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Note

Internet, in “Memoria e ricerca”, 1999, n.s., VII, 3, pp. 34 sgg; G. De Luna, La passione e la ragione. Fonti e metodi dello storico contemporaneo, Milano 2001. 3 Si vedano per tutti P. Ortoleva, Mediastoria. Comunicazione e cambiamento sociale nel mondo contemporaneo, Milano 1997 (in particolare il cap. VI) ed anche Id., Linguaggi culturali via etere, in S. Soldani e G. Turi (a cura di), Fare gli italiani. Scuola e cultura nell’Italia contemporanea, II, Una società di massa, Bologna 1993, pp.441-488. In questa prospettiva si collocano gli studi di A. L. Natale, Gli anni della radio (1924-1954). Contributo ad una storia sociale dei media in Italia, Napoli 1990; G. Isola, Abbassa la tua radio,per favore. Storia dell’ascolto radiofonico nell’Italia fascista, Firenze 1990; Id., Cari amici vicini e lontani. Storia dell’ascolto radiofonico nel primo decennio repubblicano. 1944-1954, Firenze 1995. Dello stesso Ortoleva cfr. La radio e il suo pubblico: verso una storia degli ascoltatori, in La radio: storia di sessant’anni, cit., pp.54-59. 4 P. Ortoleva, Il capitalismo italiano e i mezzi di comunicazione di massa, in F. Barca (a cura di), Storia del capitalismo italiano dal dopoguerra a oggi, Roma 1997, pp.237-264. 5 M. Legnani, L’Italia dal fascismo alla repubblica. Sistema di potere e alleanze sociali, Roma 2000, pp. 174-235; V. Castronovo, Storia economica d’Italia. Dall’Ottocento ai giorni nostri, Torino 1995; M. Abrate, La politica economica e sindacale della Confindustria (1943-1955), in S. Zaninelli (a cura di), Il Sindacato nuovo. Politica e organizzazione del movimento sindacale in Italia negli anni 1943-1955, Milano 1981, pp. 519-547. 6 Stampa e propaganda, in Confederazione Generale dell’Industria Italiana (d’ora in poi Cgii), Annuario 1951, Roma 1952, pp. 317-324. 7 Ivi, pp. 317 sgg. 8 Ivi, p. 320. 9 Per notizie dettagliate sulle diverse iniziative promosse in questo campo si vedano gli Annuari della Confindustria per il periodo considerato. 10 Per le dichiarazioni del presidente A. Costa si vedano i tre volumi dei suoi Scritti e discorsi, Milano 1980; per il presidente De Micheli cfr. la trascrizione dei suoi interventi radiofonici nei “Notiziari Confederali”. 11 La ricerca è stata condotta sulle annate del “Radiocorriere” e sul catalogo multimediale delle Teche della Biblioteca Centrale della Rai. 12 Nota introduttiva sui programmi del triennio 1953-1955, in Rai, Annuario 1954, 1955, 1956, Roma 1957, pp. IX-XXXI. I dati sopra riportati si riferiscono al 1953. Ivi, p. 87. 13 Rai, Annuario 1957, Roma 1958, pp. 318-319. 14 Per un’analisi dettagliata dei temi affrontati si è proceduto ad uno spoglio sistematico del “Notiziario Confederale”, pubblicazione periodica della Confederazione Generale dell’Industria Italiana, in cui erano riportati integralmente i testi delle due rubriche radiofoniche settimanali. Ringrazio, a tal proposito, il dott. Oreste Bazzichi, responsabile dell’Archivio Storico della Confindustria, per la preziosa collaborazione. 15 Cgii, Annuario 1949, Roma 1950, p. 332. A titolo d’esempio, nel solo mese di gennaio del 1948 si alternano ai microfoni della radio E. Battagion e I. Petrelli, D. De Micheli e N. Resta, A. De Micheli e O. Sinigaglia, T. Prudenza e L. Caetani per

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parlare rispettivamente del nuovo contratto nazionale della Fiom (10 gennaio); dello sblocco dei licenziamenti e delle sue ripercussioni in Italia e nel Mezzogiorno (17 gennaio); dei costi nella produzione industriale (24 gennaio); della piccola industria (31 gennaio). Cfr. il resoconto mensile in Cgii, Notiziario Confederale, cit. 16 Trasmissione del 22 maggio 1954, in “Notiziario Confederale”, cit., pp. 984-985. 17 A. L. Denitto, op. cit., pp. 204-210. 18 Cfr. a titolo esemplificativo nei “Notiziari Confederali” le trasmissioni del 14 novembre 1953 (Leopoldo De Lieto), del 3 aprile 1954 (Giuseppe Cenato), dell’8 maggio ’54 (Domenico La Cavera), del 5 giugno ’54 (Isidoro Pirelli), 22 gennaio 1955 (Cenzato), 12 marzo ’55 (Arrigo Chiavegatti), 4 giugno ’55 (La Cavera), 13 agosto ’55 (Enrico Musio), 17 settembre ’55 (Pirelli). 19 È quanto si evince dallo spoglio dei “Notiziari Confederali” di quegli anni. 20 A.L.Denitto, op. cit. 21 Il presidente della Rai sostiene che tale esigenza “è stata sentita come primo inderogabile impegno a cui la Rai non poteva sottrarsi, non solo per il fatto che anche su questo piano occorre assicurare la piena parità alle popolazioni di quelle zone che stanno affrontando uno sforzo così intenso per il loro elevamento economico e sociale, ma anche per l’opportunità di una sempre maggiore presenza, nelle nostre programmazioni, della cultura e delle umane esperienze delle genti meridionali”. Relazione del Consiglio d’Amministrazione 1954, Rai, Annuario 1954, 1955, 1956, cit., p. 327. 22 Rai, Annuario 1952, Torino 1953 ed anche F. Monteleone, op. cit., pp. 266 sgg. 23 I dati riportati sugli abbonamenti e sugli ascoltatori sono tratti dagli Annuari della Rai. Cfr. anche S. Golzio, Lo sviluppo della utenza radiofonica in Italia, in “Radiocorriere”, 4-10 luglio 1954. 24 A. Carrelli, I compiti della radiotelevisione: i programmi, relazione al Convegno del Cepes del 13-15 ottobre 1955, in Archivio Storico della Confederazione Generale dell’Industria Italiana, Fondo Mezzogiorno, serie Convegni sullo sviluppo, col. 31.7/1, pp. 1-4. 25 P. Anfossi, I compiti della radiotelevisione:gli apparecchi riceventi, Ivi, pp. 1-13.

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alberto a. sobrero la radio modello di lingua?

che cosa ne pensano i giovani, all’inizio del 2000

Illustro in questa sede i risultati del Seminario di Linguistica italiana, che nei mesi di aprile e maggio ha avuto per protagonisti gli studenti del primo anno di Scienze della Comunicazione. Il Seminario non era obbligatorio ma le adesioni sono state numerose e, soprattutto, la partecipazione è stata –da parte di quasi tutti– attenta e intelligente: a dimostrazione del fatto che le attività didatticamente più efficaci sono proprio quelle in cui la didattica e la ricerca (anche se non a livello di ricerca avanzata) si fondono e reciprocamente si motivano e si rinforzano. Grazie, ragazzi.

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Sergio Raffaelli, in questo stesso volume, delinea magistralmente la funzione normativa della radio, dalle origini al primo dopoguerra: ci mostra come il regime fascista –ma anche, di conseguenza, il pubblico– fin dagli inizi, cioè dagli anni Trenta, vedesse nella radio lo strumento di diffusione del modello di lingua, soprattutto di pronuncia, che doveva essere seguito in tutta Italia; e come questo stretto collegamento fra radio e norma linguistica sia continuato ben oltre la fine della seconda guerra mondiale. Possiamo dire che fino al 1976 la maggior parte del parlato radiotelevisivo era costituita dalla lettura di un testo scritto, fatta da un annunciatore di professione, che leggeva con una pronuncia molto controllata, di base fiorentina ma priva di caratterizzazioni fiorentine troppo marcate. L’accuratezza e l’impegno furono tanti che “secondo alcuni interpreti di questi fenomeni la radio ha offerto per molto tempo una sorta di modello implicito verso il quale l’italiano parlato si è orientato nel suo configurarsi come norma diffusa”1. Dunque un modello seguito, sentito come tale. La riforma del 1976 introdusse cambiamenti radicali: all’unico e ben controllato speaker si sostituì una miriade di giornalisti che prima scrivevano e poi leg-

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M cl.soc. medio-alta F cl.soc. medio-alta M cl.soc. medio-bassa F cl.soc. medio-bassa

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10-15 anni 1 1 1 1

16-20 anni 1 1 1 1

21-30 anni 1 1 1 1

Il questionario comprendeva tre serie di cinque domande ciascuna: A) domande 1-5: 1. In generale, preferisci la radio o la TV? 2. Perché? 3. Che tipo di trasmissione preferisci? 4. Ieri hai ascoltato la radio? 5. (se sì) Quali trasmissioni, e per quanto tempo? Tendono a rilevare la preferenza dichiarata per la radio rispetto alla TV, e le preferenze di genere. Le domande 4 e 5 sono di controllo. B) domande 6-10: 6. Preferisci i canali della RAI o le radio locali? 7. Perché? 8. Tra le radio locali, quale ascolti di solito? 9. Come mai? 10.Secondo te c’è differenza tra i canali della RAI e le radio locali, per quanto riguarda il modo di parlare (italiano, dialetto, in modo naturale o ricercato ecc.)? Mettono a fuoco temi via via più specifici, iniziando dalla scelta fra canali nazionali (RAI) e radio locali, proseguendo con le radio locali e con i criteri di selezione fra di esse, per finire con una domanda di ‘sensibilità metalinguistica’ che fa da ponte fra questa serie e quella successiva. C) Domande 11-15: 11. Hai mai notato qualche errore grossolano di lingua italiana, per radio? 12. (se sì) Ad esempio? 13.Secondo te la radio è un mezzo utile per migliorare la capacità di esprimersi? 14.Pensi che giornalisti e conduttori, alla radio, debbano parlare: q in modo naturale, come parlano a casa q in modo naturale, ma stando attenti a evitare errori e parole dialettali q in modo accurato q in modo molto accurato, con dizione perfetta e in ottimo i-

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gevano il testo, ciascuno con la sua caratteristica –in primo luogo fonetica e intonazionale, ma a volte anche sintattica e lessicale– regionalmente determinata. Questa tendenza si accentuò con la diffusione delle radio e TV commerciali –o, come si chiamavano allora, ‘private’– che segnò il graduale ma definitivo prevalere nel testo radiotelevisivo del parlato-parlato –con tutta la gamma delle sue varietà– sullo scritto. Dall’abbandono dell’ideologia che vedeva nella radio un –anzi il– modello linguistico per tutti gli italiani è passato un quarto di secolo. Ascoltando il ‘libero’, variegato, imprevedibile mondo linguistico che si affaccia sul palcoscenico della radio vien da pensare che di quel carattere costitutivo dell’emittenza radiofonica si sia persa ogni traccia. È senz’altro così per quanto riguarda la maggior parte della produzione linguistica delle varie emittenti, locali e nazionali; ma è così anche per gli utenti? Da questo dubbio è nata l’idea di un’indagine sulla presenza (o assenza) di una percezione normativistica del parlato radiofonico attuale. Poiché ci interessava rilevare, più che lo stato delle cose (e l’eventuale presenza di residui di antiche mentalità), una linea di tendenza proiettata verso il futuro, abbiamo selezionato, fra il pubblico dei radioascoltatori, i più giovani, così che dai risultati dell’inchiesta si possa leggere, in controluce, ‘in che direzione stiamo andando’. Sullo sfondo, naturalmente, ci sono le domande più ovvie, trattandosi di radio e del terzo millennio: l’interesse per la radio è ancora vivo, oggi, nei giovani? E se sì, per quali trasmissioni? Il futuro è delle emittenti RAI o di quelle locali? O potranno coesistere ancora a lungo? Le inchieste sono state svolte a Lecce e provincia, in 38 località: uno o due blocchi di 12 interviste in ogni paese (qualcuna in più nei centri più grandi, 8 a Lecce), per un totale di 52 blocchi e di 624 interviste. All’interno di ogni blocco il campione –casuale, ma non in senso statistico– era suddiviso per età, sesso, classe sociale secondo il seguente schema:

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Queste domande sono incentrate sulla sensibilità metalinguistica dei nostri giovani, e in particolare sul tema che qui ci interessa: i nostri giovani attribuiscono ancora alla radio –e se sì, in che senso e entro quali limiti– la funzione di ‘regolatore’ o addirittura di modello di lingua? Il primo gruppo di domande offre alcune risposte interessanti: il 62% preferisce la TV, il 5% è indifferente, ma alla radio vanno le preferenze dichiarate del 33% degli intervistati, percentuale tutt’altro che trascurabile (un giovane su tre). La distribuzione delle preferenze è uguale nei due strati sociali individuati e nelle tre classi di età, varia invece per quanto riguarda il genere: la radio è preferita più dalle ragazze (42%) che dai ragazzi (24%): simmetricamente, i maschi preferiscono nettamente la TV (71%, contro il 52% delle femmine). Perché un terzo dei giovani sceglie la radio? Essenzialmente per due motivi: perché trasmette più musica (42% dei radioascoltatori dichiarati) e perché si può ascoltare più comodamente, anche quando ci si muove o si gioca e si studia (30%). Fra le altre motivazioni –presenti in percentuali decisamente inferiori– ‘è meno impegnativa’ ‘è più divertente’, ‘è più interessante’ ‘fa offerte più variate’. Appare meno sicura la motivazione di coloro che preferiscono la TV: l’argomento principe ‘perché offre immagini’ è utilizzato solo dal 37% di loro. Gli altri distribuiscono le loro risposte in varie motivazioni, spesso di scarso vigore argomentativo: ‘fa offerte più variate’ (11%) ‘mi piace di più’ (8%), ‘è meno faticosa’ (8%) ‘non è noiosa’ (5%) ‘è più interessante’ (4%) ecc. Ascoltare la radio appare come una scelta, vedere la TV sembra piuttosto una pigra consuetudine. La domanda n. 3 ‘Che tipo di trasmissioni preferisci?’ vuole cogliere le preferenze di ‘genere’, indipendentemente dal mezzo –radio o TV–. In testa troviamo la musica (27%), seguita da ‘talk show’ (23%), film e telefilm (19%), notiziari e attualità (12%), sport (10%),

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genere ‘talk show’ ha un notevole contenuto musicale, si può dire che la metà dei ragazzi intervistati sia alla radio che alla TV chiede soprattutto musica e spettacolo. Questa percentuale è probabilmente sottodimensionata: si consideri infatti che una parte delle altre risposte –soprattutto quelle relative a film, notiziari, documentari– può essere stata condizionata dal desiderio di offrire all’intervistatore un’immagine di sé ‘colta’ e impegnata3. Il secondo gruppo di domande dà un quadro delle valutazioni e delle preferenze dei giovani per quanto riguarda le trasmissioni della RAI e delle radio commerciali. Il 59% delle preferenze va alle radio locali, il 29% ai canali RAI: solo il 12% non ha preferenze per l’una o per l’altra. La distribuzione è identica, fra ragazzi più e meno giovani, maschi e femmine, variamente posizionati sulla scala sociale. Vari sono i motivi per cui si preferiscono le emittenti locali. A parte le risposte evasive (non c’è un perché), le motivazioni generiche o tautologiche (perché sono più interessanti, perché mi piacciono, perché la RAI mi sta antipatica), i motivi statisticamente prevalenti4 sono tre: 1. TIPO DI PROGRAMMI: trasmettono più musica / trasmettono musica migliore. Una motivazione complementare: non ci sono dibattiti, notiziari ecc., che non mi piacciono, mi annoiano (ma anche: si sente più parlato, o addirittura sono più istruttive) 2. ARGOMENTI: si parla di cose che conosco, cose che stanno intorno a me; programmano anche musica locale, in dialetto ecc.; 3. STILE: sono più divertenti, allegre; sono più spontanee; sono più naturali; i programmi sono meno vecchiotti e meno impostati; sono più alla mano. Fra gli altri motivi (meno frequenti): 4. AMBITO: c’è gente che conosco 5. LINGUAGGIO: il linguaggio è più semplice (una variante rivelatrice: la RAI ha un linguaggio troppo complesso e lento) 6. TARGET: sono più dirette ai giovani 7. ACCESSIBILITÀ / CONSUETUDINE: sono le uniche che conosco; si ascoltano meglio; non ho mai ascoltato programmi RAI 8. P U B B L I C I TÀ : c’è meno pubblicità (ma anche c’è molta pubblicità) 9. AUTONOMIA: sono meno pilotate. Il quadro che si delinea è molto chiaro. Chi sceglie le emittenti

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taliano 15. Secondo te, nelle trasmissioni delle radio locali, l’uso del dialetto: q rende più naturale il parlato q va bene, ma solo in certe circostanze q deve essere comunque evitato q altro

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locali lo fa perché le percepisce, in una parola, come più amichevoli: per l’adeguatezza alle richieste del pubblico giovanile, per il tipo di programmi prevalenti, per lo stile e il linguaggio più semplici e diretti. Simmetricamente, chi sceglie le trasmissioni RAI lo fa perché percepisce le sue trasmissioni come qualitativamente migliori (anche se più fredde). La motivazione di gran lunga prevalente (quasi la metà delle risposte favorevoli alla RAI) è infatti: 1. PROFESSIONALITÀ: la RAI ha giornalisti e conduttori più professionali; più specializzati; offre più qualità nei servizi; è più matura; è più tecnica; i programmi sono più istruttivi e aggiornati; hanno più esperienza; c’è più competenza; i programmi sono migliori; è più seria; sono più acculturati (sic!); ci sono cose più serie e interessanti; ci sono trasmissioni meno stupide. Altre motivazioni –molto meno ricorrenti– fanno corona a questa: 2. RICCHEZZA E QUALITÀ DELL’OFFERTA: la RAI ha un palinsesto più ricco; 3. AMPIEZZA DELL’INFORMAZIONE: informa di più su fatti nazionali e internazionali; 4. QUALITÀ DELLA MUSICA: ha musica migliore / più attuale; 5. STILE: RAI e TV sono rilassanti; la RAI è più giovanile; 6. NOTORIETÀ: i personaggi RAI sono più famosi; 7. LINGUAGGIO: la dizione dei conduttori delle radio locali è fastidiosa; 8. ACCESSIBILITÀ: si vede meglio; 9. PUBBLICITÀ: c’è meno pubblicità.

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Questa percezione così netta dei due ‘stili’ si manifesta anche, e altrettanto nettamente, a livello metalinguistico. Alla domanda “Secondo te c’è differenza tra i canali della RAI e le radio locali, per quanto riguarda il modo di parlare (italiano, dialetto, in modo natu-

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Emittenti pubbliche e private sono dunque ben caratterizzate e ben differenziate, agli occhi dei nostri ragazzi. Alcuni dei quali –il 5% circa– danno anche risposte particolarmente equilibrate ed informate, come: entrambe possono fare trasmissioni interessanti; dipende dai programmi; la RAI per i notiziari e le emittenti locali per la musica; la RAI informa di più in ambito nazionale, le radio commerciali di più in ambito locale.

rale o ricercato ecc.)?” risponde affermativamente il 72% degli intervistati, con una certa differenziazione per classe sociale e per sesso: dichiara di riconoscere differenze nel modo di parlare l’83% delle ragazze di classe sociale medio-alta, e solo il 61% dei ragazzi di classe sociale medio-bassa. Difficile dire se si tratta di differente sensibilità metalinguistica (magari correlata al sesso), dell’attribuzione residuale di una funzione normativa alla radio (favorita da un livello più alto di scolarità) o semplicemente dell’esibizione di un’immagine di sé coerente con le attese attribuite all’intervistatore. La domanda successiva consente di dire qualcosa di più su questa sensibilità metalinguistica. Il 54% dei ragazzi intervistati dichiara di avere notato ‘qualche errore grossolano di lingua italiana, per radio’: si tratta per lo più di maschi (58%, contro il 51% delle femmine) di età compresa fra 16 e 20 anni. Ma alla domanda di controllo (“Ad esempio?”) risponde solo il 47% di coloro che hanno risposto positivamente alla domanda precedente –e si tratta ancora, in prevalenza, di maschi–. Il dato generale, relativo alla sensibilità dichiarata, va dunque ridimensionato (si collocherà fra il 30 e il 40%); rimane l’ipotesi di una relazione significativa fra sensibilità metalinguistica e sesso. È interessante osservare quali sono, e con che frequenza ricorrono, gli ‘errori grossolani’ di lingua rilevati. A parte le risposte generiche (‘errori di grammatica’ ‘errori di sintassi’’) troviamo che: 1. quasi la metà degli errori (il 45% del totale) riguarda i verbi: al primo posto l’uso dell’indicativo in luogo del congiuntivo in dipendenza da verbi di opinione e di volontà (tipo penso che tu hai ragione:quasi la metà dei casi), seguito dall’uso del condizionale al posto del congiuntivo nella frase ipotetica (tipo se staresti zitto sarei contento); 2. di seguito (20% del totale) si classificano gli errori relativi al dialetto: battute in dialetto, dizione fortemente regionale (accento meridionale; l’accento del posto; inflessioni regionali) o meglio salentina (con i gruppi di consonanti marcati), uso di parole dialettali italianizzate e di regionalismi (te lo imparo io), uso misto di italiano e dialetto. Seguono, con poche ma significative occorrenze: 3. la pronuncia errata delle parole straniere 4. l’uso di parolacce 5. ma però

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produzioni linguistiche naturali o più o meno accurate, ma sempre in buon italiano, senza inserti dialettali. I maschi della classe sociale medio-alta sono significativamente più ‘normativi’ delle femmine di classe sociale medio-bassa: si aspetta un parlato ‘naturale’ solo l’11% dei primi, ma il 33% delle seconde. Infine, alla domanda n.15, che riguardava la presenza e la funzione del dialetto nelle trasmissioni delle radio locali, si sono ottenute queste risposte: 10% rende più naturale il parlato 61% va bene, ma solo in certe circostanze 29% deve essere comunque evitato. Si conferma in pieno l’atteggiamento contrario a un uso diffuso del dialetto nelle emittenti commerciali: sostiene questa posizione addirittura il 90% degli intervistati, un terzo dei quali ha una posizione intransigente (“deve essere comunque evitato”). Abbiamo infine scorporato dal campione l’insieme dei sensibili e normativi, cioè di coloro che, oltre a mostrare capacità di osservazione e riflessione metalinguistica, notando differenze linguistiche fra RAI e emittenti commerciali (domanda 10) e rilevando errori di lingua (domande 11 e 12), hanno chiaramente attribuito alla radio una funzione di educatore (domanda 13) e di normatore linguistico (risposte b-c-d alla domanda 14 e risposte b-c alla domanda 15). Si tratta del 13% degli intervistati: un gruppo costituito da maschi e femmine nella stessa percentuale, ma diversificato socialmente: si tratta per il 59% di giovani di classe medio-alta e per il 41 di classe medio-bassa. La variabile più significativa è però la ripartizione per classi di età:

a. in modo naturale, come parlano a casa b. in modo naturale, ma stando attenti a evitare errori e parole dialettali c. in modo accurato d. in modo molto accurato, con dizione perfetta e in ottimo italiano

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6. a me mi 7. gli per le 8. il superlativo ultimissimo 9. fatismi (‘praticamente’). Osservando sia la tipologia che le occorrenze relative dei fenomeni rilevati, appare evidente l’azione del modello scolastico: usi come quello dell’indicativo pro congiuntivo, di ma però, a me mi, gli per le sono esempi classici di ‘facili prede’ della matita blu, in una scuola che recrimina su usi ormai considerati, se non corretti, accettabili (si noti che quelle elencate sono tutte forme del cosiddetto neo-standard) e magari transige su errori comunicativi, semantici, testuali ben più gravi. Alla domanda esplicita “Secondo te la radio è un mezzo utile per migliorare la capacità di esprimersi?” risponde positivamente ben l’80% del campione: ancora una volta, la distribuzione per sesso, età e classe sociale è identica e dunque queste variabili sono ininfluenti. È molto probabile che questa percentuale sia da considerare ‘gonfiata’, in quanto la domanda è formulata in modo tale che può indurre nell’interrogato la certezza che da lui si attenda una risposta positiva. Le due successive sono le domande centrali dell’indagine. Vediamo le risposte:

Si conferma la grande attenzione (quanto meno dichiarata) per la correttezza linguistica: sommando b+c+d si può dire che l’86% degli intervistati si aspetta da giornalisti e conduttori radiofonici

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Note 1 R. Simone, Radio giornalismo: le modalità di costruzione linguistica del messaggio, in “Italiano e oltre” 4 (1990), p. 193. 2 Il totale è superiore a 100 perché qualcuno, benché le istruzioni richiedessero una sola opzione, ha indicato più di un genere. 3 Questi dati non sono dissimili da quelli riscontrati in altre inchieste realizzate da vari Istituti di ricerca nell’ultimo decennio, con scopi diversi. Si vedano, per tutti, Mass media, letture e linguaggio. Indagine multiscopo sulle famiglie, ISTAT 1995 (su un campione nazionale di circa 21.000 famiglie per un totale di circa 60.000 individui) e I giovani e la lettura. Indagine “Grinzaneletture ‘95”, Mondadori, Milano 1995, cap. 2 (indagine Censis, con un campione nazionale di 2380 giovani, alunni di scuole medie superiori). 4 Insieme coprono il 60% circa delle risposte. 5 Se non indirettamente, attraverso il diverso livello di scolarizzazione: ma il punto andrebbe approfondito.

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Semplificando, si può dire che via via che passano dalla scuola media alle superiori e all’Università i ragazzi diventano via via più attenti all’aspetto linguistico delle trasmissioni radiofoniche, considerano sempre più la radio un modello di lingua e perciò richiedono ai giornalisti e conduttori una lingua accurata, una dizione perfetta, l’assenza di ogni inflessione o intrusione dialettale. Per completare il quadro generale, appare significativa anche un’altra considerazione. Parallelamente ai sensibili e normativi siamo andati alla ricerca del gruppo –opposto– degli insensibili e tolleranti: abbiamo cercato coloro che alle stesse domande ora elencate rispondessero negativamente (domande 10, 11 e 13) o con opinioni aperte all’uso del dialetto e di varietà colloquiali o regionali dell’italiano (risposta a alle domande 14 e 15). Ebbene: non abbiamo trovato nessuno che rispondesse a tutte queste caratteristiche. Dunque: il gruppo di coloro che mostrano una certa attenzione per il problema e sostengono posizioni ‘puristiche’ è relativamente piccolo, ma non c’è nessuno dei nostri intervistati che, essendo indifferente al tema di cui si tratta, sia coerentemente attestato su posizioni ‘tolleranti’ e filo-dialettali. Le conclusioni sembrano chiare. La passione della radio è tutt’altro che sopita: i ragazzi la preferiscono alla TV soprattutto perché consente un ascolto migliore della musica, che a loro interessa più di ogni altro programma, e che la radio offre in abbondanza. Sanno fare una diagnosi perfetta delle differenze fra tipologia e qualità delle trasmissioni in radio e in TV, e scelgono a ragion veduta tra emittenti RAI e commerciali: sono consapevolmente poco interessati alla ‘qualità’ dei programmi, di cui pure accreditano più la prima che le seconde; sono però più attenti di quanto si immagini alla qualità della lingua (forse influenzati in questo dagli stereotipi scolastici). In questo campo non sono affatto tolleranti, anzi in buona parte ostentano atteggiamenti decisamente puristici: non gradiscono l’uso del dialetto e di varietà colloquiali di italiano, ritenendo tuttora doveroso, da parte della radiofonia sia pubblica che privata, un comportamento linguisticamente ineccepibile (o quanto meno corretto). La differenza di classe sociale non ha mai nessuna incidenza5 nell’atteggiamento verso la radio; le differenza di età e di sesso incidono in qualche misura, nel senso che col passar degli anni matura un atteggiamento sempre più intransigente nei confronti delle ‘licenze’ di lingua, e nel senso che i maschi più delle femmine tendono tuttora ad attribuire alla radio una funzione normativa.

Radioricevitore FADA L.P., mod. 361 Mobile a consolle, 1934

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sergio raffaelli la pronuncia alla radio nel periodo fascista Linguaggi & società 90

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tecedente alle due iniziative annunciate, sappiamo assai poco. La storiografia risulta avara d’informazioni ad esempio sulle qualità fonogeniche (come si diceva allora) tanto dei professionisti quanto dei profani al microfono, che furono subito numerosi: ben oltre 50, nel 1928, e fra essi Sibilla Aleramo, F. T. Marinetti, Arnaldo Mussolini, Luigi Pirandello. Per incoraggiare ricerche capillari, assai promettenti e a volte curiose, ricordo qui almeno l’impacciato avvio della carriera oratoria alla radio di Benito Mussolini, il quale in una solenne allocuzione europea alla Scala di Milano, il 15 novembre 1925, “di tutto si curava fuorché di mantenere lo stesso tono di voce e la stessa distanza dai microfoni” (così secondo la rivista amatoriale “La Radio per tutti”). Dobbiamo perciò ritenere preziosa la notizia che verso il 1933 il giornalista Andrea Rapisarda, vincitore di concorso come radiocronista, non fu assunto dall’Eiar a causa del suo accento siciliano. E attende un’apposita ricerca l’istituzione presso l’Eiar nel dicembre 1936 –sotto la spinta di situazioni nuove, quali il passaggio nel 1935 all’emissione di programmi irradiati da Roma sull’intero territorio nazionale, l’aumento delle trasmissioni parlate (che nel 1936 superarono definitivamente quelle musicali), l’esempio di settori affini (nascita dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica nel 1935 e del Centro Sperimentale di Cinematografia nel 1936)– di un Centro di Preparazione Radiofonica per tecnici e artisti (rimasto attivo fino al 1943), i cui corsi annuali prevedevano fra l’altro lezioni di “dizione e di fonetica italiana”. I tempi diventarono maturi, dopo il 1935, per progetti più impegnativi, a beneficio non soltanto dei professionisti della radio, ma anche degli ascoltatori. Mi riferisco al corso radiofonico La lingua d’Italia, trasmesso nel corso del 1938, e al manuale Prontuario di pronunzia e di ortografia di Giulio Bertoni e Francesco Ugolini, uscito nel 1939. Essi possono apparire, oggi, di poco conto e quasi oziosi. Però acquistano spiccato valore politico e culturale qualora siano considerati nel contesto sociale e ideologico del momento. Si ricordi infatti che il regime tentò allora di riparare al fallito tentativo di costruire il nuovo “italiano di Mussolini”, moltiplicando le disposizioni ed applicandole con metodi coercitivi. In ambito linguistico in particolare continuò la lotta contro l’uso pubblico dei dialetti e dei forestierismi, sostituì lo ‘snobistico’ lei con il voi (14 e 15 febbraio, 14 aprile 1938) e intensificò la cura per la corretta lingua nazionale

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Verso il 1938 Fu la radio a mettere in evidenza che gli italiani pronunciavano in modi differenti la lingua nazionale. Il fenomeno, certo, era noto da secoli e aveva suscitato qualche preoccupato intervento soprattutto dopo l’unificazione nazionale; però era passato da semplice tema di studio per linguisti a problema anche professionale degli addetti alla comunicazione sociale soltanto dopo l’avvento della trasmissione attraverso l’etere di parole simultaneamente rivolte a un uditorio sparso e variegato. Ora mi propongo di contribuire alla conoscenza storica della pronuncia radiofonica in Italia, soffermandomi sulla cruciale fase del periodo fascista e in particolare su due importanti iniziative miranti a disciplinarla, che furono attuate, dietro impulso del Ministero dell’Educazione Nazionale, dall’Eiar e dall’Accademia d’Italia nel biennio 1938-39. Prima di entrare in argomento ritengo opportuno segnalare che la cura della dizione alla radio e l’adozione di una pronuncia unitaria furono attuate nel più ampio contesto dell’elaborazione di un parlato che fosse da una parte consono alle esigenze del nuovo mezzo di comunicazione e dall’altra conforme agli orientamenti della politica linguistica del regime fascista. Sul contesto storico-linguistico del primo ventennio della radiofonia in Italia mi limito a ricordare che fu precoce e continuo lo sforzo di adattare la lingua nazionale (carente, per note cause storiche, di risorse colloquiali) alle capacità ricettive e alle attese del composito pubblico degli ascoltatori, puntando soprattutto sulla linearità sintattica e sull’evidenza lessicale: basti ricordare, per rimanere ai primordi, l’utilizzazione a Radio Genova, verso il 1930, d’una raccolta d’istruzioni per annunciatori e conferenzieri, dal titolo Del modo di parlare alla radio; o poco dopo le indicazioni del ‘manifesto’ La Radio come forza creativa di Enzo Ferrieri, pubblicato sul “Convegno” del 1931; e ancora, per limitarci a episodi ideologicamente connotati, la sostituzione del lei con il voi, imposti dal censore teatrale Leopoldo Zurlo a testi anche illustri da eseguirsi alla radio: così Il Copernico di Giacomo Leopardi (gennaio 1940) e Come tu mi vuoi di Luigi Pirandello (gennaio 1941). Sul problema della pronuncia radiofonica nel quindicennio an-

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Parola nostra Passo ora alla presentazione del corso radiofonico La lingua d’Italia, iniziando dai promotori. Il primo posto spetta al ministro dell’Educazione Nazionale, Giuseppe Bottai, che fu l’ideatore e il sostenitore dell’operazione (egli infatti, stando a numerosi documenti in massima parte tuttora inediti, era molto vigile alle scelte di politica linguistica del regime; e quando il buon senso richiedeva, dissentiva: così, per esempio, si pronunciò contro il bando dei costrutti ‘cerimoniosi’ tipo Sua Maestà nel 1939, e soprattutto contro i criteri non scientifici adottati per italianizzare i forestierismi nel 1941-43). L’Accademia d’Italia (istituzione culturale fiancheggiatrice del regime, che raccoglieva dal 1929 alcuni dei maggiori scienziati e umanisti dell’Italia del tempo) svolse un essenziale compito di preparazione dei testi per il corso, attraverso gli acca-

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demici Alfredo Panzini e Giulio Bertoni (che fu coadiuvato dal discepolo Francesco Ugolini). Il suo non era un ruolo improvvisato. La sua attenzione verso la radiofonia, in verità, era stata sempre occasionale e debole: ad esempio nel gennaio 1930 decise d’inserire propri rappresentanti nei “comitati di vigilanza” delle manifestazioni radiofoniche (e anche cinematografiche, musicali e teatrali); nel giugno del 1935 poi affidò ad Angiolo Silvio Novaro l’incarico di stendere “proposte sul tema radio” da consegnarsi a Mussolini: il documento (“una cicalata”, civettò lui; davvero modesto, a parer mio), diceva fra l’altro: “Bisognerebbe anche badare alla pronunzia”. Va aggiunto inoltre che l’Accademia dedicò per anni energie e risorse alla lingua italiana, soprattutto per realizzare impegnative imprese lessicografiche, guidate da Bertoni: il Dizionario di marina medievale e moderno, deliberato nel 1932 e posto in vendita all’inizio del 1938; il Vocabolario della lingua italiana in cinque volumi, iniziato nel 1935 e concluso nel 1941 (ma pubblicato in parte: A-C); un inedito Dizionario di aeronautica , pronto per la stampa nel 1941; un Vocabolario etimologico italiano, avviato nel 1938 e mai continuato. Quanto infine al ruolo svolto dall’Eiar, sono costretto ad affidarmi, per mancanza di fonti dirette, alle testimonianze fornite dal “Radiocorriere” e alle notizie della stampa dell’epoca. La gestazione della trasmissione radiofonica del 1938, finora del tutto sconosciuta, è ricostruibile attraverso documenti reperiti da poco. Il 7 ottobre 1937 Bottai propose all’Accademia d’Italia l’istituzione di un Centro per la lingua italiana e ne indicò i compiti: “che dia pareri, indichi errori e storture, corregga pronuncie sbagliate”; inoltre suggerì di affidarlo all’accademico Bertoni e di dargli sede presso l’Istituto di Filologia Romanza dell’Università di Roma. L’Accademia si mostrò tiepida: dapprima dilazionò la decisione (lettera del vicepresidente Carlo Formichi a Bottai, 14 ottobre); poi dichiarò di avere “accolto in linea di massima la proposta” (Formichi a Bottai, 2 dicembre); inoltre promise di mettersi all’opera (“nella settimana entrante procederà a preparare uno schema che serva di base all’Ufficio di questo consiglio, che potrebbe essere informativo, ortografico, pratico”: lettera del cancelliere Arturo Marpicati a Bottai, 11 dicembre). Bottai allora, il 13: “Caro Formichi, ricevo la comunicazione ufficiale circa l’istituzione di un Centro per la lingua italiana. Debbo dirti, ch’essa mi appare redatta in tono troppo dubitativo, tale che traspare chiara la volontà di non farne nulla. Ora, io

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(ad esempio, aumentarono le ‘veline’ ai giornali di soggetto linguistico). Infine passò alle disposizioni legislative: un decreto del 28 giugno 1937 proibì di etichettare imballaggi di prodotti italiani con espressioni straniere; il decreto 5 dicembre 1938 vietò le denominazioni in lingua straniera dei locali di pubblico spettacolo; il decreto 9 luglio 1939 proibì di attribuire nome straniero a neonati italiani; infine la legge 23 dicembre 1940 vietò l’uso pubblico dei forestierismi. In tale contesto la normalizzazione fonetica dell’italiano parlato in pubblico assunse un evidente valore anche ideologico, in quanto assecondava la politica linguistica autarchica, antiborghese, antisnobistica in atto; e oggi appare anche specchio del modellamento culturale e persino comportamentale degli italiani: da oltre un decennio inquadrati nei riti di piazza, essi dovettero diventare allora uniformi anche nella dizione. Insomma, la ritualità investì anche la comunicazione radiofonica: sorvolando sulle ‘voci littorie’ degli annunciatori nelle trasmissioni e nei cinegiornali “Luce”, ricordo solo che per disposizione del Ministero della Cultura Popolare dal 1942 la lettura del Bollettino del Comando Supremo in apertura del giornale radio delle 13 doveva essere ascoltata, nei luoghi pubblici, in piedi, come mostra per esempio anche il film Bengàsi di Augusto Genina, 1942 (ma Gaetano Polverelli, neoministro della Cultura Popolare, non accolse la richiesta, proveniente dal direttorio del Partito Nazionale Fascista e datata 25 giugno 1943, d’introdurre quella lettura con “tre squilli di riposo”).

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go (tipo traffici ma chirurghi), e sul plurale dei composti (tipo biancospini, altopiani, ma mezzetinte, piazzeforti); appaiono comunque soddisfatte anche le richieste spicciole: si suggerisce ad esempio di preferire avemmo a ebbimo, il soprano, un’ora e mezzo; oppure è spiegato come la scelta fra sono potuto e ho pututo dipenda dal verbo all’infinito. Hanno il netto sopravvento invece i dubbi di pronuncia (e di scrittura) che si direbbero tormento comune a quasi tutti gli ascoltatori d’ogni parte d’Italia; la trasmissione perciò appare soprattutto un corso di “galateo” fonetico (e grafico). Le risposte comunque, sempre corredate da semplici ma persuasive spiegazioni, presentano un interesse tuttora vivo. Qualche menzione. La tendenza a ritrarre l’accento sulla terz’ultima sillaba è popolare e riguarda le parole dotte e difficili: si pronunci rubrìca, blasfèmo, sicomòro, alcalìno, emisfèro, zaffìro, duodèno, mollìca, balaùstra. Correttezza etimologica esige invece dàrsena, pànfilo, cìnema (non cinèma né tanto meno “l’orribile francesismo” cinemà ), circùito, càtodo, elèttrodo. Per rispetto all’uso ormai radicato si conservi càlibro e rècluta, prestiti in origine piani. La forza dell’uso legittima voci come regìme (francesizzante) o cattivèria. Ancora: il “favore popolare” e il maggiore riscontro con altri toponimi antichi consigliano di adottare Cecoslovàcchia anziché Cecoslovacchìa; invece pàlpebra è da preferirsi a palpèbra, perché la voce sdrucciola prevale nel ceto colto di Firenze e Roma. Tra le forme verbali all’indicativo presente, elabòro e intìmo vanno adottate per ragioni etimologiche, mentre invece si accolgano sepàro e implìco in virtù della maggiore popolarità. I chiarimenti relativi al vocalismo tonico sono per così dire all’ordine del giorno: si consiglia, alla luce della grammatica storica, il fiorentino colónna, e il romano léttera; si raccomanda ai settentrionali bène, biciclétta, tré. E la regola del dittongo mobile (tipo vuole ma vogliamo) è spiegata con efficace chiarezza. Sono meno frequenti le menzioni sul vocalismo atono, come ad esempio la spiegazione del carattere squisitamente toscano di birreria, libreria; e si raccomanda di mantenere come “reliquie” talune forme dialettali, quale il toponimo romano Via della Dataria. Le forme soprattutto e soqquadro offrono l’occasione per spiegare il raddoppiamento fonosintattico. Quanto alla grafia, soltanto qualcuna delle numerose soluzio-

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desidero sapere se l’Accademia intende o non dare attuazione all’iniziativa, che mi riserverei, in caso, di attribuire a altri enti”. Formichi si affrettò quel giorno medesimo ad assicurare Bottai, scrivendo che già Panzini e Bertoni erano stati incaricati “di preparare uno schema di lavori per detto Centro” di consulenza linguistica (che, a parte l’attività radiofonica, sarebbe rimasto quasi inattivo, fino alla primavera del 1943, quando si sarebbe rianimato, sotto la guida di Alfredo Schiaffini, per occuparsi della toponomastica nazionale e di quella dei territori percorsi dai fronti di guerra). All’inizio del 1938 si aggiunse l’Eiar come terzo interessato, tramite il suo direttore generale Raoul Chiodelli. Il 10 gennaio 1938 l’Accademia propose infatti a Chiodelli, Bottai e Alessandro Pavolini, ministro della Cultura Popolare, un articolato piano per un corso radiofonico di lingua italiana a puntate. Il corso, intitolato La lingua d’Italia, cominciò il 10 marzo 1938 con una convenzionale prolusione del vicepresidente dell’Accademia, Carlo Formichi (bando ai forestierismi, ai dialetti, alle pronunce anomale). Esso si svolse poi in due fasi. Fino al 31 marzo Bertoni e Alfredo Panzini si alternarono al microfono per sei puntate, il giovedì e la domenica sera, con lezioni sulla storia linguistica dell’italiano, sulla pronuncia, sui dialetti. La seconda fase, iniziata il 7 aprile e proseguita ogni giovedì (ma con qualche salto) per 17 puntate, consistette nella lettura, fatta da un annunciatore, di risposte a quesiti posti dagli ascoltatori (le centinaia e centinaia di lettere, smistate dall’Eiar all’Accademia e poi forse a Francesco Ugolini, probabile estensore dei testi, risultano finora irreperibili). Questa seconda fase della trasmissione appare –stando alla trascrizione fornita nel “Radiocorriere”, dal n. 23 del 5 giugno al n. 44 del 30 ottobre 1938– una sorta di guida via etere alla grammatica italiana, che pur assecondando le richieste del momento, riesce a occuparsi, in misura peraltro assai difforme, di tutti i principali settori della lingua. Il lessico vi appare alquanto sacrificato: trovano spazio infatti soltanto alcune parole in quel periodo di gran voga o discusse, come autarchia, eia, razza; sono condannate inoltre le parole straniere non adattate, tipo garage, ma non quelle radicate nell’uso, come bar e blu (senz’accento!); e naturalmente è bandito il pronome di riverenza lei. Le questioni di morfologia e di sintassi ottengono uno spazio un po’ maggiore: prevalgono le questioni generali, come sull’esito plurale di -co e -

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Il prontuario di pronunzia Naturale frutto del corso radiofonico del 1938 fu il ben noto e fortunato Prontuario di pronunzia e di ortografia, come del resto si può desumere a prima vista dalla sua paternità (la coppia Bertoni e Ugolini), dalla proprietà editoriale (Eiar), dalla sezione iniziale (un compendio delle risposte fornite nelle 17 puntate radiofoniche); nuovo appare soltanto il copioso prontuario alfabetico di corretta pronuncia. Il libro, commissionato dall’Eiar, fu allestito in breve da Ugolini (il suo maestro Bertoni era oberato dagli impegni lessicografici), presso l’Istituto di Filologia Romanza: già il 2 giugno 1939 Bertoni poté chiedere a Mussolini, invano, un’udienza per offrigli la prima copia dell’imminente opera (che trattava “problemi di lingua e di pronunzia oggi particolarmente sentiti dal pubblico”); si rassegnò a scrivergli subito una lettera (3 giugno 1939), per segnalargli fra l’altro che essa era il “primo tentativo di disciplinamento nazionale di difficili e delicati problemi, i cui riflessi nell’insegnamento italiano all’estero” erano “gravi”; e infine a inviargliela tramite la Segreteria Particolare, il successivo 4 luglio (ribadendogli, nel biglietto d’accompagnamento, che rispondeva “a un bisogno vivamente sentito dal pubblico e dagli studiosi”). Nella “Introduzione” del Prontuario gli autori illustrano il noto principio dell’asse Roma-Firenze, secondo il quale chi parla alla radio o comunque in pubblico è tenuto a seguire, nei pochi casi di discordanza fonetica tra Firenze e Roma, la “pronunzia colta” della Capitale. E a giustificazione della priorità accordata a Roma adducono ragioni sia sociali e politiche (la città è in espansione, è capitale dell’Italia imperiale) sia linguistiche (Firenze si “ritro-

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va” quasi sempre nella varietà romana). Ho ricostruito altrove la celere “conversione” di Bertoni (modenese e vecchio “fiorentinista”) a quest’orientamento, indottovi dal romano Ugolini. Stando a testimonianze fornite da articoli, lezioni e interviste, che qui segnalo appena, l’8 marzo 1938 egli risultava ancora situato sul versante fiorentino; il 31 marzo, invece, già spostato sul crinale tra Firenze e Roma: segnalava infatti la presenza, nella Capitale, di “alcune pronuncie non propriamente romanesche ma romane” che rappresentavano “un contemperamento fra l’uso fiorentino e quello della restante parte d’Italia”; comunque nei casi di divergenza andava seguita la forma sorretta dalla grammatica storica; egli infine, nel testo introduttivo del Prontuario, “L’asse linguistico Roma-Firenze” (apparso anche nel numero inaugurale di “Lingua nostra”, finito di stampare il 2 marzo 1939), dichiarava assieme a Ugolini che una “sistemazione fondata sulla grammatica storica” era “di difficile e quasi impossibile attuazione” e che perciò era preferibile semplificare: che Firenze si facesse da parte ogni qual volta non si accordasse con Roma. In effetti il repertorio lessicale fornito dal Prontuario privilegia l’orientamento romano, segnalando, in posizione subordinata, l’eventuale variante fiorentina.

Reazioni Questa scelta fonetica dei due filologi assunse il valore di legge, come del resto accadeva all’epoca per ogni altra indicazione linguistica “di regime”. A essa si adeguarono la radio e, con fatica, il teatro e il cinema, in quanto gli attori di professione erano di formazione tradizionalmente rispettosa della pronuncia fiorentina. Gli addetti ai lavori manifestarono consensi per lo più tiepidi, si direbbe di opportunità e contro voglia (tipo la recensione di Silvio d’Amico al Prontuario, su “Scenario” del 1939). Da parte dei cultori della lingua, silenzio pressoché totale. L’innovazione comunque fu notata dal grande pubblico. E stimolò anzi l’estro creativo di qualcuno: così per esempio quello d’un commediografo, Alfredo Vanni, che in un brillante “atto radiofonico”, Mi cadrete tra le braccia!… (approvato dalla censura teatrale il 24 gennaio 1940), inserì un innocuo dileggio del rigorismo fonetico imperante sui palcoscenici; ecco infatti l’arguto battibecco fra una Lei e un Lui (il quale ha promesso di scriverle “una dichiarazione in piena regola”):

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ni. L’etimologia e la tradizione letteraria consigliano il mantenimento della -i- in sogniamo, scienza, coscienza. Sul trattamento della desinenza - io al plurale: la - i- tonica rimane e si avrà pendìo/pendii; se invece è atona, amore di semplicità vuole un’unica vocale (studio/studi); tuttavia le eccezioni sono ammesse, onde evitare confusioni (palio/palii, tempio/tempii, a causa di palo/pali, tempo/tempi). Quanto in particolare al verbo avere, è raccomandato l’uso dell’h (ho, ha, hanno), e perciò sconsigliato il ricorso sostitutivo all’accento (notoriamente praticato per esempio dal ministro Bottai).

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(sostenuta) Dichiarazione… platonica? LUI No. Una domanda formale di matrimonio. Una léttera coi fiocchi. LEI (sorridendo) Grazie. Però… lèttera. LUI Léttera. LEI Lèttera. LUI Be’, léttera o lèttera, sarà un’epistola ardente di passione. E voi che cosa risponderete?

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Finora sono riuscito a reperire ben poche voci subito dissenzienti. Menziono appena Vasco Restori, un bastian contrario mantovano, che dopo avere scritto fra l’altro un libello contro la scelta bertoniana ( Appunti al “Prontuario di pronunzia e di ortografia” edito dall’E.I.A.R., 1939), perdette il posto d’insegnante. E sorvolo sull’autorevole giornalista Michele Campana, conterraneo di Mussolini e notevole cultore della lingua, che nel 1938 poté tacciare impunemente di meschinità le discussioni linguistiche alla radio. Merita invece risalto l’accademico d’Italia e glottologo Clemente Merlo, che condusse una tenace e isolata campagna pubblica contro la supremazia accordata alla soluzione fonetica “romana”, contribuendo al dissolvimento, nel 1941, del vecchio sodalizio scientifico con Bertoni. In una lezione tenuta il 18 marzo 1940 a Lucca (apparsa poi, col titolo Volgare romanesco e volgare toscano, nel volume datato 1939 dell’“Italia dialettale”) egli denunciò, con argomenti storico-linguistici, l’inconsistente fondamento “politico” della teoria di Bertoni e Ugolini. E il 17 maggio 1943, in piena guerra, egli ripropose quel medesimo tema all’adunanza dell’Accademia fiorentina “La Colombaria”, e ottenne dai presenti l’adesione unanime al voto “che nelle radio-comunicazioni” fosse “preferita la pronunzia toscana cólta, la sola italiana di fatto e di diritto”. La notizia di quel voto arrivò poi, tramite il Ministero dell’Educazione Nazionale, all’Accademia d’Italia, che con nota del 10 luglio 1943 (il giorno dello sbarco in Sicilia!) assicurò al Ministero che avrebbe esaminata la questione all’apertura del “prossimo anno accademico”, cioè in autunno. Negli anni di guerra la norma di Bertoni e Ugolini fu in pieno vigore, per lo meno alla radio, stando anche alla testimonianza di un sensibile osservatore quale Giorgio Pasquali, che verso il 1941 trovava la pronuncia radiofonica “piuttosto romana”; e si chiedeva: “Che ci si avvicini allo spostamento del centro linguistico da Firenze a Roma?”.

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Epurazione Ben presto la soluzione “romana” perdette il sostegno ideologico e politico, in seguito alla caduta del regime fascista, il 25 luglio 1943. Essa diventò immediato e facile bersaglio, soprattutto giornalistico, della rivalsa contro l’oppressione fascista, fatta anche di autoritarismo linguistico. La stampa fiorentina in particolare intervenne più volte nella fase transitoria dei “45 giorni” del governo di Pietro Badoglio, richiedendo che fosse cancellata l’onta della passata retrocessione linguistica di Firenze, mediante l’immediata sconfessione della priorità fonetica di Roma. Però il recupero effettivo di Firenze iniziò soltanto nel 1945, come testimonia fra l’altro un noto intervento “fiorentinista” di Bruno Migliorini, Pronunzia fiorentina o pronunzia romana? (un libretto in forma di dialogo, finito di stampare il 30 luglio 1945). Non sono in grado di valutare la vitalità delle varianti fonetiche romane nella radio e più in generale nella comunicazione pubblica dopo il 1945, per carenza di studi adeguati: resta infatti tuttora isolato, e comprensibilmente datato, lo studio sul parlato radiofonico dell’immediato dopoguerra, offerto da Ornella Fracastoro Martini, La lingua e la radio, del 1951. Indicazioni di superficie –come la sostanziale continuità fra Eiar e Rai (per lo più stessi dirigenti, stessi giornalisti, stessi tecnici)– inducono a ritenere che fino verso gli anni Settanta il modello fonetico “romano” abbia in qualche misura retto, anche grazie al sostegno del vecchio Prontuario d’epoca fascista: esso, infatti, per iniziativa della Rai tornò a circolare in una riedizione del 1949, a cura di Francesco Ugolini e quindi inalterata; e non trovò autorevole opposizione fino al 1969, quando uscì presso la Rai il Dizionario di ortografia e di pronunzia di Piero Fiorelli, Bruno Migliorini e Carlo Tagliavini, che assegna la precedenza a Firenze.

Nota Le notizie fornite in questo contributo sul ruolo di istituzioni e personalità pubbliche provengono per lo più dall’Archivio Centrale dello Stato, “Segreteria Particolare del Duce. Corrispondenza Ordinaria”, fasc. 515666.1; inoltre, dall’Archivio dell’Accademia d’Italia (presso l’Accademia Nazionale dei Lincei), tit. IV, b. 16, fasc. 47; ivi, tit. XII, b. 1, fasc. 6 e b. 2, fasc. 9. Per altre informazioni su fonti archivistiche e bibliografiche, nonché per ulteriori notizie storiche, si veda: S. Raffaelli, La norma linguistica alla radio nel periodo fascista, in Gli italiani trasmessi. La radio, Accademia della Crusca, Firenze 1997, pp. 31-67, a cui tacitamente spesso si rinvia.

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momenti di un (contrastato) rapporto

antonio lucio giannone radio e letteratura: Linguaggi & società

1. Il Manifesto della Radio di Enzo Ferrieri e l’Inchiesta del “Convegno”. Una conferma di questo atteggiamento si può avere già in quello che deve essere considerato, in senso assoluto, il primo momento di riflessione sul nuovo mezzo di comunicazione da parte della cultura italiana, l’Inchiesta sulla Radio, bandita dalla rivista “Il Convegno” nel 1931. Non è un caso che proprio nel fervido ambiente della rivista milanese, fondata da Enzo Ferrieri nel 1920, si sia manifestato per la prima volta uno specifico interesse per la radio, ad appena sette anni dall’inizio della radiodiffusione in Italia ad opera dell’URI (Unione Radiofonica Italiana). “Il Convegno” infatti, che era affiancato dall’omonimo Circolo di cultura, dove si svolgevano spettacoli teatrali, conferenze, concerti, e da una Biblioteca, si distingueva tra le riviste di quel tempo, oltre che per l’apertura europea, per l’attenzione prestata a ogni forma di arte e di spettacolo, dalla letteratura al teatro, dalla musica al cinema, anche d’avanguardia2. Tutto nacque, dunque, da un lungo e articolato saggio del direttore della rivista, il quale diverrà anche un apprezzato regista radiofonico, dal titolo La radio come forza creativa 3. Nel suo scritto, la cui prima parte è costituita da un vero e proprio Manifesto della

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Radio, Ferrieri affrontava i vari aspetti di questo nuovo medium, che da semplice mezzo divulgativo doveva diventare, a suo avviso, una “forza creativa” di nuove forme giornalistiche, drammatiche, musicali e letterarie. Alla base del saggio c’era la convinzione infatti che se si volevano sfruttare fino in fondo tutte le potenzialità della radio si dovesse usare un linguaggio specifico nei vari campi espressivi. Fino ad allora invece la radio, secondo l’autore, si era limitata a trasmettere testi e musiche composti per altre occasioni (il palcoscenico o le sale da concerto), mentre era necessario creare opere concepite appositamente per questo nuovo mezzo, le quali dovevano avere perciò caratteri ed esigenze speciali. Lo scritto di Ferrieri è ricco di osservazioni su tanti aspetti della radio, come la voce, la materia delle trasmissioni, lo stile radiofonico, il carattere tipicamente giornalistico del mezzo radiofonico, la musica per radio, ecc. Per quanto riguarda l’aspetto più specificamente letterario, Ferrieri si sofferma in particolare sul teatro per radio, che deve fondarsi “sulla sintesi piuttosto che sull’analisi, sul dinamico piuttosto che sullo statico”4 e ancora “sulla complicità del silenzio”, come elemento di grandiosa e paurosa suggestione e sul “senza limiti dello scenario”, oltre che sulla “individualità delle voci”. “Nella individualità delle voci, –scrive ancora Ferrieri– nel loro avvicinarsi e intrecciarsi, nei loro cori, nelle loro pause, starà molta della forza originale del nuovo radiodramma”5. La commedia per radio, a suo giudizio, non dovrà limitarsi al genere drammatico, ma anche comica, grottesca e dovrà avere un carattere popolare. Il contributo creativo dei singoli attori infine “dovrà comporsi con un altro elemento specifico: la necessità di una sorveglianza assoluta da parte del direttore o ‘régisseur’”6. Questo saggio di Ferrieri diede vita, come s’è detto, a un’Inchiesta sulla Radio7, alla quale parteciparono ben trentaquattro fra scrittori, critici, commediografi, giornalisti, musicisti, più o meno noti. Non potendo dar conto in questa sede di tutte le posizioni emerse, esaminiamo brevemente quelle dei letterati presenti, che possiamo suddividere in quattro categorie: coloro che sono nettamente contrari alla radio, gli scettici, i favorevoli con riserva e gli entusiasti in senso assoluto. Decisamente ostili alla radio sono, ad esempio, Alberto Carocci e Guido Piovene, i quali non nascondono la loro idiosincrasia per questo nuovo mezzo. Piuttosto scettico e distaccato si dimostra pure Emilio Cecchi, il quale ritiene di non

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Il rapporto tra radio e letteratura in Italia non è stato sempre felice, idilliaco, come forse si potrebbe immaginare. Anche per la radio infatti vale quello che è stato notato per gli altri media, nei confronti dei quali gli scrittori italiani hanno manifestato, soprattutto all’inizio, una certa diffidenza, se non un aperto disprezzo. “Quale che sia il medium in questione –ha scritto Gianni Canova– (prima la radio, poi il cinema e la televisione), l’atteggiamento non cambia: lo scrittore italiano vede in esso un potenziale concorrente o addirittura un pericoloso nemico, destinato a insidiare e a involgarire –più ancora che i media precedenti– il primato della letteratura nei processi di produzione delle forme estetiche e dell’immaginario collettivo. Ne deriva un più o meno esplicito ‘rifiuto a collaborare’, fondato su motivazioni che oscillano di volta in volta fra l’esorcismo astioso e la difesa corporativa della propria supposta superiorità”1.

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ragione, che al di là dei pareri espressi nelle varie risposte pervenute, “è certo che la radio ha acquistato in Italia soltanto ora il suo diritto di cittadinanza nell’interesse degli scrittori e degli artisti. Oggi –continuava– è possibile di chiedere a un autore una commedia nuova da trasmettere per radio (e anche di ottenerla!)”15. E in effetti si può dire che il merito principale di Ferrieri è stato soprattutto quello di essere riuscito a imporre all’attenzione della cultura militante questo nuovo mezzo di espressione “nella sua totale e globale presenza indicandone prerogativi e limiti, forza di penetrazione e dimensione”16. 2. La Radio e i futuristi La riflessione sulla radio continuò in quegli anni proprio negli ambienti dell’avanguardia e ad essa diede un contributo importante il futurismo, che aveva dimostrato interesse, fin dagli inizi, verso ogni linguaggio dello spettacolo e della comunicazione di massa e verso ogni espressione artistica nuova, che si rivolgesse direttamente al pubblico: dal teatro al cinema, dalla fotografia alla pubblicità. Per di più, nella radio i futuristi vedevano lo sbocco naturale delle loro ricerche espressive in campo letterario, teatrale e musicale, dal paroliberismo all’onomatopea, dal teatro sintetico all’“arte dei rumori”. Il 22 settembre 1933, sulla “Gazzetta del Popolo” di Torino, venne dunque pubblicato un manifesto specificamente dedicato a questo nuovo medium, La Radia, termine con cui i futuristi designavano tutte le manifestazioni della radio. In questo scritto, firmato dallo stesso F. T. Marinetti e da Pino Masnata, erano riprese e ribadite alcune idee già esposte dal primo nella sua risposta all’Inchiesta di Ferrieri. Anche qui, infatti, è detto che la radio deve avere una sua specificità, non deve essere cioè teatro, cinema o libro, e deve essere libera da ogni punto di contatto con la tradizione letteraria e artistica. Così pure si ribadiva che le parole in libertà dovevano essere lo strumento espressivo del “radiasta”, che però poteva ricorrere anche allo stile parolibero, già diffuso “nei romanzi avanguardisti e nei giornali”. In più, nel manifesto, c’è un approfondimento teorico, dovuto forse a Masnata, delle prerogative di questo nuovo mezzo che abolisce lo spazio, il tempo, l’unità d’azione, il personaggio teatrale, il pubblico. Le manifestazioni della radio dovevano tendere verso “un’Arte nuova”, “essenziale”, “senza tempo né spazio senza ieri e senza domani”, “umana universale e cosmica”, in grado di captare, amplificare e trasfigurare le

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poter rispondere a questo referendum, avendo “poca o punto pratica della ‘radio’”8. Fiduciosi nelle possibilità artistiche della radio, sia pure con qualche riserva, sono altri scrittori come Lucio d’Ambra, Carlo Linati e Nino Savarese. Anche un grande critico teatrale, come Silvio D’Amico, nutriva qualche dubbio sul teatro radiofonico, che definiva un teatro sui generis, in quanto con esso si ritorna “all’esclusività della parola”9, a una forma di “oratorio”, ossia al dramma recitato, non rappresentato. Da questo punto di vista “può anche segnare la ripresa, e la novissima trasformazione, di un’arte antichissima”, in quanto ci riporta “tout court alle origini della tragedia primitiva, la greca”10. Così pure il commediografo Gino Rocca sosteneva che non si poteva parlare di teatro per la radio, mancando l’elemento “spettacolo” e l’elemento “pubblico”11. Obiezioni più o meno analoghe rivolge a Ferrieri una personalità di primo piano dell’avanguardia artistica, Anton Giulio Bragaglia, il quale fa notare che il teatro radiofonico perde “mezza rappresentazione”, quella visiva. Esso diventa perciò puro “teatro di poesia”, per cui è più appropriato il termine “auditocolo”. Ma, a suo giudizio, “il vero teatro resta quello teatrale”, perché “il teatro è un’altra cosa”12. Il maggiore consenso, anzi un’entusiastica adesione, alle proposte di Ferrieri venne da quegli scrittori più aperti alla modernità, come Massimo Bontempelli e F. T. Marinetti. Bontempelli approva “in pieno” il saggio di Ferrieri sulla radio “enorme trasformatrice di civiltà”13 e promette di tentare qualche saggio di dramma radiofonico. Il fondatore del futurismo, in un breve ma incisivo intervento, sostiene che la radio deve rompere con la tradizione letteraria e artistica e ispirarsi alla creazione futurista. Il teatro radiofonico perciò “deve forzatamente essere un teatro futurista, cioè sintetico, veloce, simultaneo, a sorpresa, senza nessuna introspezione, lungaggine, né analisi di psicologia”14. Ovviamente questo tipo di teatro deve servirsi delle parole in libertà, che sono “il suo linguaggio congenito”. Esse infatti sono le più adeguate a esprimere ciò che non si vede, contenendo “tutta un’orchestra di rumori e di accordi rumoristici (realistici o astratti)”. Al massimo l’autore di teatro radiofonico potrà esprimersi nello stile parolibero “tipicamente veloce, scattante, sinteticissimo e simultaneo”, che costituisce una variante più attenuata del paroliberismo. Tirando le fila dell’Inchiesta, Ferrieri poteva concludere, a giusta

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questioni relative alla radiofonia, da quelle strettamente estetiche a quelle tecniche (scrive ad esempio articoli sull’acustica o su alcune invenzioni), dalla programmazione alla produzione di apparecchi radio, alla stampa specializzata, in una considerazione globale, a tutto campo, di questo medium. Nei suoi interventi, in particolare, si batte a favore dell’ “Arte fonica”, che è una “nuova arte” e ha “sue esigenze, sue caratteristiche, suoi canoni, sue non comuni possibilità”24. Nelle opere trasmesse alla radio nota, invece, lacune tecniche oppure “l’insufficienza di cultura e di studio, la mancanza di preparazione e di passione per l’arte radiofonica”25. In una breve nota afferma che “con solo dialogo non si può fare una commedia fonica […] bisogna curare i rumori, l’ambiente, la vita insomma di tutto l’intreccio”26, perché “qualunque cosa si trasmetta essa deve avere qualità essenzialmente foniche”27. La radiofonia insomma, per Ginna, costituisce un’arte a sé e “non deve e non può riprodurre un’opera fatta per il palcoscenico”28. Auspica perciò la nascita del “radiodramma”, a suo avviso non ancora sviluppato e sfruttato, in cui il problema artistico non deve essere disgiunto da quello tecnico. Anche sull’organo ufficiale del movimento, “Futurismo”, diretto a Roma da Mino Somenzi, nel 1932-33 era presente una rubrica, intitolata Cinema Teatro Radio, nella quale si arriva ad affermare che l’apparecchio radio “con l’aeroplano, potrebbe condividersi il diritto di costituire l’emblema del nostro secolo”29. Lo stesso Somenzi interviene direttamente su questo argomento un paio di volte. Nella prima si lamenta del poco spazio dato dai dirigenti dell’EIAR al futurismo nei programmi “ultra passatisti” della radio, dove predominano “‘sinfonici’ sonniferi, commedie da ricreatori giovanili clericali, commenti letterati interessati e novelle relative, lugubri necrologi a ripetizione (siamo arrivati al 149.), piagnistei storico-nostalgici […] e via di seguito”. Ma il pubblico intelligente, stanco di questo repertorio “si è tuffato con la nuova sensibilità nello sconfinato e sublime oceano della radio con una prepotente sete di nuovo”30. Nel secondo articolo, al grido di Futuristizziamo la radiofonia, si augura invece una netta inversione di rotta, in modo da svecchiare i programmi dell’EIAR31. 3. Scrittori al microfono Al di fuori del futurismo, in questi anni, è soprattutto Massimo Bontempelli che, dopo aver approvato in pieno il saggio di Ferrieri,

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“vibrazioni emesse da esseri viventi” e “dalla materia”, di offrire la “sintesi di infinite azioni simultanee”, di restituire la “vita caratteristica di ogni rumore” e le “lotte di rumori e di lontananze diverse”17. I due firmatari del manifesto diedero anche un contributo creativo in questo campo, componendo entrambi delle “sintesi radiofoniche”. Quelle di Marinetti sono brevi sequenze, dove suoni, rumori, note musicali si alternano ai silenzi e alle pause, che hanno spesso un valore determinante, in anticipo quasi su certa musica sperimentale18. Ad esempio, nella sintesi intitolata I silenzi parlano fra di loro, alcuni secondi di “silenzio puro” si interpongono, di volta in volta, a suoni di flauto, di pianoforte, di tromba, al pianto di un bambino, al rombo di un motore, ecc.19. Più ampia è la “trisintesi radiofonica” Violetta e gli aeroplani 20, dove suoni, rumori, il canto del mare, quello degli uccelli, i rombi degli aeroplani costituiscono lo sfondo sonoro della vicenda. Questo lavoro venne mandato in onda dall’EIAR nel settembre del 1932 e ritrasmesso il 19 gennaio dell’anno seguente. Le sintesi radiofoniche di Pino Masnata, anch’esse brevissime, sono popolate invece di voci umane che danno vita a dialoghi un po’ surreali e non privi d’ironia, alternandosi a rumori, che si creano, s’intrecciano, svaniscono e si trasformano21. Anche di Masnata, il 20 dicembre 1931, venne mandata in onda una “radio-opera sinfonica”, Tum tum ninna nanna, con musiche di Carmine Guarino, in cui il protagonista è il cuore di una donna, Wanda, con i suoi battiti e il suo ritmo, che generano per l’appunto una sorta di danza e di ninna nanna22. Ma direttamente ispirate alla radio e anzi composte, almeno in parte, espressamente per questo nuovo mezzo sono le Liriche radiofoniche di Fortunato Depero23, dove ha grande rilievo l’aspetto fonico dei testi, che sviluppa precedenti ricerche dell’autore sull’onomatopea e sull’“onomalingua”. In due composizioni, in particolare, La voce dell’antenna e La febbre del telegrafo, Depero fa ricorso anche a modi di comunicazione desunti dalla radiotelegrafia, per raggiungere quelle caratteristiche di brevità, sinteticità, simultaneità esposte nella premessa del libro. La radio inoltre è al centro dell’interesse anche di altri futuristi, come Arnaldo Ginna, che le dedica una nutrita serie di interventi, dal 1930 al 1932, sul settimanale romano “Oggi e domani”, su cui cura pure una rubrica, forse la prima in assoluto in Italia, di critica radiofonica, e poi sull’ “Impero”. In questi articoli affronta varie

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musicisti importanti, da Berio a Nono, da Bussotti a Maderna. Ma dal secondo dopoguerra aumenta anche il numero di letterati che collaborano in vari modi alla radio, curando rassegne o rubriche, componendo testi originali o riduzioni e adattamenti di opere preesistenti, presentando o traducendo testi altrui. Ciò è dovuto anche al maggiore spazio che viene ora riservato alla cultura dai dirigenti della RAI. In questo periodo nascono infatti alcune rubriche culturali, come “L’Approdo”, “Il contemporaneo”, “Il teatro dell’usignolo”; al 1949 risale la prima edizione del Premio Italia, a cui, nelle varie edizioni, partecipano scrittori e musicisti di fama mondiale; il 1° ottobre 1950 viene creato infine il Terzo programma con finalità specificamente culturali. Tra gli scrittori che collaborano alla RAI, il più famoso è senza dubbio Carlo Emilio Gadda, che prende servizio il 1° ottobre del 1950 come praticante giornalista ai servizi culturali del Giornale radio, di cui era redattore-capo Giovan Battista Angioletti. Dal 1° giugno 1952 diventa redattore ordinario e passa al Terzo programma, dove rimane fino al 31 marzo 1955, allorché lascia volutamente la RAI, anche se continua a collaborare come esterno35. Il catalogo dei lavori gaddiani, in questi cinque anni, è assai vario e comprende: serate a soggetto, come quella su Cristoforo Colombo; conversazioni; recensioni parlate; interventi in dibattiti; interviste; traduzioni e rifacimenti, come quello intitolato Hàry Jànos36, che lui definì in una lettera “un radiodramma per modo di dire”37. Cura inoltre il ciclo I Luigi di Francia e dirige le rubriche “L’osservatore dello Spettacolo” e “L’osservatore delle Lettere e delle Arti”. Ma il risultato più noto di questa collaborazione è costituito da uno scritto, apparso nel 1953, le Norme per la redazione di un testo radiofonico38, in cui Gadda affrontava il problema del linguaggio radiofonico, indicando alcune regole improntate all’estrema semplicità e chiarezza nella sintassi e nel lessico (periodi brevi, uso della paratassi, eliminazione di parentesi, incisi, allitterazioni involontarie, parole desuete, forme poco usate, ecc.). In esso insomma lo scrittore italiano, che è quasi il simbolo, l’esempio più alto del pastiche, del plurilinguismo novecentesco, consigliava di usare un linguaggio e uno stile del tutto antitetici a quelli da lui adottati nelle sue opere. Forse soltanto allora i letterati italiani incominciavano a capire le specifiche necessità del mezzo radiofonico e poteva finalmente nascere una maggiore intesa tra radio e letteratura.

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si occupa a più riprese, anche se in maniera un po’ contraddittoria in verità, della radio. In un articolo del 193432 confessa di avere una “vaga fiducia” nel “radiodramma”, invitando al tempo stesso i “radioautori” a non perdere tempo in tentativi inutili e a tener conto di alcune peculiarità di questo mezzo. Qualche anno dopo invece, intervenendo in un dibattito sul “radioteatro”, sviluppatosi sulle pagine del “Radiocorriere”, a cui aveva incominciato a collaborare fin dal primo numero, esprime forti dubbi sulla possibilità di creare un vero e proprio genere radiofonico, per la mancanza dell’elemento visivo e del pubblico, che sono invece tipici del teatro33. Nonostante le perplessità di Bontempelli però, il radiodramma, vale a dire il genere creativo per eccellenza della radio, si era sviluppato già dalla fine degli anni Venti. Il primo tentativo risale al 18 gennaio 1927, allorché l’URI mandò in onda il giallo Venerdì 13 di Gigi Michelotti, ma il primo esempio di radiodramma è considerato L’anello di Teodosio, con cui il drammaturgo Luigi Chiarelli, iniziatore del cosiddetto “teatro del grottesco”, vinse il concorso bandito nel 1929, dopo che nel 1927 la prima edizione era andata deserta. Ma questa radiocommedia, in trenta “fonoquadri”, è stata giudicata un’opera piuttosto “modesta” e superficiale da un esperto come Franco Malatini, che ha ricostruito la storia di cinquant’anni di teatro radiofonico in Italia34. L’esempio di Chiarelli comunque, negli anni Trenta, venne seguito da altri commediografi, come Gino Rocca, Alessandro De Stefani e Ettore Giannini, e da scrittori come Lucio d’Ambra e Carlo Linati, che avevano partecipato all’Inchiesta promossa dal “Convegno”. Ma è soprattutto dal secondo dopoguerra e dagli anni Cinquanta che la produzione di radiodrammi si intensifica dal lato quantitativo e migliora sotto il profilo qualitativo. Accanto a un gruppo di autori che si dedicano quasi esclusivamente alla creazione di opere radiofoniche, scrivono per la radio infatti scrittori e commediografi di prestigio. Tra questi ricordiamo Diego Fabbri, Vasco Pratolini, Alberto Savinio, Giovan Battista Angioletti, Riccardo Bacchelli, Nicola Lisi, Dino Buzzati, Raffaele La Capria, Luigi Compagnone. Questa tendenza prosegue negli anni Sessanta e Settanta, allorché compongono opere per la radio, fra gli altri, Primo Levi, Arpino, Rea, Bigiaretti, Dessì, Fruttero e Lucentini, Cassieri, Palumbo. Anche scrittori della neoavanguardia o comunque vicini ad essa, come Sanguineti, Balestrini, Pagliarani, Malerba, Manganelli, Volponi, Ottieri si cimentano in questo campo, spesso con la collaborazione di

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G. Canova, Gli usi multimediali della letteratura, in Manuale di letteratura italiana. Storia per generi e problemi, a cura di F. Brioschi e C. Di Girolamo, vol. 4, Dall’Unità d’Italia alla fine del Novecento, Bollati Boringhieri, Torino 1996, p. 711. Sul rapporto radio-letteratura cfr. anche A. Abruzzese e F. Pinto, La radiotelevisione, in Letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa, vol. II, Produzione e consumo, Einaudi, Torino 1983, pp. 837-870. 2 Su questa rivista cfr. AA.VV., Il “Convegno” di Enzo Ferrieri e la cultura europea dal 1920 al 1940. Manoscritti, Immagini e Documenti, Pavia 1991. 3 In “Il Convegno”, a. XII, n. 6, 25 giugno 1931, pp. 297-320. 4 Ivi, p. 306. 5 Ivi, p. 307. 6 Ivi, p. 309. 7 In “Il Convegno”, a. XII, n. 7-8, 25 agosto 1931, pp. 361-437. 8 Ivi, p. 385. 9 Ivi, p. 400. 10 Ivi, p. 401. 11 Ivi, p. 424. 12 Ivi, p. 373. 13 Ivi, p. 368. 14 Questa come le altre citazioni di Marinetti sono a p. 416. 15 Ivi, p. 367. 16 F. Malatini, Cinquant’anni di teatro radiofonico in Italia 1929-1979, ERI, Torino 1981, p. 27. 17 F. T. Marinetti-P. Masnata, La Radia, in “Gazzetta del Popolo”, 22 settembre 1933; poi, col titolo Manifesto della radio, in “Futurismo”, a. II, n. 55, 1 ottobre 1933. 18 Le “sintesi radiofoniche” del fondatore del futurismo sono comprese in F. T. Marinetti, Teatro, a cura di G. Calendoli, Vito Bianco editore, Roma 1960, vol. I, pp. 221-225. 19 Ivi, p. 224. 20 Ivi, pp. 228-261. 21 Alcune “sintesi radiofoniche” di P. Masnata si possono leggere in “Autori e Scrittori”, Mensile del Sindacato nazionale, a. VI, fasc. 8, agosto 1941, pp. 8-10. 22 Ora in “Carte segrete”, a. VIII, aprile-giugno 1974, n. 25, pp. 122-124, in appendice a M. Verdone, Radia fonica visionica, pp. 105-112. 23 F. Depero, Liriche radiofoniche, Morreale, Milano 1934; di questo volume esiste una ristampa anastatica (Firenze, S. P. E. S., 1987), con una postfazione di L. Caruso, appendice documentaria ed interventi critici di A. L. Giannone e C. Wagstaff. 24 A. Ginna, L’arte della radiofonia, in “L’Impero d’Italia”, 23 gennaio 1932. 25 A. Ginna, Considerazioni polemiche sul radiodramma, in “Oggi e domani”, 9 giugno 1930. 26 A. Ginna, Radio ascolto - 1 R. O., in “Oggi e domani”, 9 dicembre 1931. 1

A. Ginna, Questioni radiofoniche. “Stampa radiofonica italiana”, in “Oggi e domani”, 6 gennaio 1932. 28 A. Ginna, Problemi d’attualità. Teatro e radiofonia, in “Oggi e domani”, 24 dicembre 1931. 29 Cinema Teatro Radio, Radiopiccinerie, in “Futurismo”, a. I, n. 14, 11 dicembre 1932. 30 M. Somenzi, Spettacoli radiofonici futuristi, in “Futurismo”, n. 1, 1° gennaio 1933. 31 Cfr. M. Somenzi, Futuristizziamo la radiofonia, in “Futurismo”, n. 18, 8 gennaio 1933. 32 M. Bontempelli, L’ultimo venuto (avvertimenti ai radioautori), in L’avventura novecentista, a cura e con introduzione di R. Jacobbi, Vallecchi, Firenze 1974, pp.291-294. 33 M. Bontempelli, Radioteatro? No! non ci credo, in “Radiocorriere”, a. I, n. 5, 2-8 dicembre 1945. 34 Cfr. F. Malatini, Cinquant’anni di teatro radiofonico…, cit., p. 21. 35 Sulla collaborazione di Gadda alla radio cfr. G. Cattaneo, Il gran lombardo, Einaudi, Torino 1991; Gadda al microfono. L’ingegnere e la Rai 1950-1955, a cura di G. Ungarelli, Nuova ERI, Torino 1993. 36 Ora in C. E. Gadda, Scritti vari e postumi, a cura di A. Silvestri, C. Vella, D. Isella, P. Italia, G. Pinotti, Garzanti, Milano 1993, pp. 1037-1091. 37 Ivi, p. 1437. 38 Ora in C. E. Gadda, Saggi giornali favole e altri scritti, a cura di L. Orlando, C. Martignoni, D. Isella, Garzanti, Milano 1999, pp. 1081-1091. 27

Radioricevitore RADIOMARELLI mod. Faltusa, 1936

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mario proto lettura, ascolto, visione: radio e media system Linguaggi & società 110

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nalisi storica sulla radio era risultato prevalente; e quello continua, si infittisce, si perfeziona sul piano storiografico (con riferimento al periodo tra fascismo e secondo dopoguerra). Sotto il profilo teorico la riflessione sulla radio appare grosso modo omogenea all’interno di varie scuole sociologiche, da quella olandese (Mc Quail e Van Dick) a quella americana (De Fleur), a quella londinese (Sylverstone). L’esito complessivo dell’operazione teorica si è concretizzato nella delineazione di una tipologia sequenziale (giornali, radio, televisione), in cui la continuità appare il connotato di una modellistica artefatta. In realtà si tratta di una sequenzialità controversa, in cui il passaggio attraverso i vari gradi della comunicazione risente di dislivelli e di contraddizioni. È diffuso tra gli studiosi un termine con il quale si intende cogliere il processo di assorbimento destrutturante che il medium venuto dopo opera nei confronti di quello precedente: il fenomeno è quello della “cannibalizzazione”. Ciò appare particolarmente visibile nella prospettiva della definizione dei mass-media, mediante le categorie di: lettura, ascolto, visione. Si pensi al fenomeno della lettura. Siamo proprio sicuri che il rapporto con il quotidiano sia da ascrivere ad una tendenza sistematica a leggere le pagine stampate? È il caso di domandarsi se il rapporto non debba essere inteso nel senso che, di fronte al quotidiano, molto spesso si colloca il non lettore; che pur l’acquista, o considera l’acquisto un rituale quotidiano degno della massima attenzione. Già alla fine degli anni ’70 il linguista De Mauro proponeva una tipologia dei lettori di quotidiano, riferendosi al carattere sistematico o saltuario di quel rapporto, quando non si ponesse l’obbligo scientifico di studiare la figura del non lettore. La lettura, naturalmente, è collegata con la capacità della scrittura. La difficoltà di leggere è niente altro che il pendant della difficoltà di scrivere. Il modo come si trasmette, nei sistemi scolastici più evoluti, la pratica della scrittura, fa capire il perché di quella esperienza negativa. La scrittura non la si insegna secondo criteri di creatività, ma la si affida all’acquisizione di una tecnica nella quale confluiscono rituali, formalismi e normative rigide. La scrittura molto spesso ha allontanato, perché alla sua base si sono cristallizzati fenomeni di “socializzazione autoritaria” (H. M. Enzensberger). Il giornale esprime un scrittura giornalistica nella quale la transizione costante da un livello espressivo ad un altro è l’elemento suo più peculiare, perché, in termini linguistici, si ha

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La radio, medium di antica data e di suggestiva tradizione, non ha rappresentato per molti anni un elemento forte di richiamo legislativo, soprattutto in presenza di una concorrenza nuova, quale quella della televisione generalista. Il fenomeno si spiega facilmente con l’accrescersi della rilevanza politica del mezzo televisivo, in presenza di cambiamenti strutturali sul terreno più recente delle competizioni elettorali. Molto spesso gli addetti al settore radiofonico non sono risultati espressione di scelta oculata e significativa, ma si è preferito puntare su personale genericamente qualificato e burocraticamente affidabile. Le trasmissioni radiofoniche, per lo meno nello scenario italiano dei media, non hanno raggiunto livelli alti di ascolto e di interesse da parte del pubblico. La televisione è apparsa il mezzo più appetibile sul terreno dell’informazione e su quello della spettacolarizzazione delle vicende politiche. La radio è vissuta come in una sorta di limbo e, per questo, non ha sollecitato investimenti pubblicitari degni di attenzione. La ripresa di interesse per questo medium appare, perciò, del tutto esterno al sistema. Il fenomeno, infatti, è dovuto all’accrescersi di indici di ascolto da parte di radio ascoltatori giovani e attenti sul piano, soprattutto, dell’informazione politica e della cronaca ragionata. La congiuntura favorevole allo sviluppo della radio, pubblica e privata, sul terreno dell’ascolto, coincide con la guerra del Golfo. La cosa può essere spiegata anche in termini di critica e perplessità nei confronti di una informazione televisiva che, proprio sul fronte della guerra, tradiva l’incapacità di essere esplicita ed esauriente, preferendo la sistematica subordinazione ai comunicati trasmessi dalla televisione planetaria CNN. L’incremento dell’ascolto radiofonico è stato un fenomeno territorialmente omogeneo; ha interessato sia il nord che il sud, le emittenti nazionali e quelle locali. I radio ascoltatori sono aumentati a dismisura in Italia, passando da venticinque a trentacinque milioni, con una diffusione di più di mille emittenti radiofoniche (un vero e proprio primato in Europa). Di riflesso il lavoro critico sulla radio si è venuto sviluppando e perfezionando, allargandosi a questioni di carattere teorico in senso mass-mediologico. È noto, infatti, che il registro di a-

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gevano l’Europa di quegli anni, attraverso la diffusione della radio come strumento di sollecitazione ad ascoltare e a seguire i consigli di una pubblicità consumistica, che appariva sulla scena nelle forme di un vero e proprio uragano. La radio, diceva Brecht, parla in realtà a tutti, ma ha ben poco da dire. La radio è strumento a una sola dimensione, mentre dovrebbe averne due (distribuzione e comunicazione). Il problema consiste nella necessità politica di superare la scissione tra consumatore e produttore, per una riappropriazione pubblica della radio come strumento comunicativo che ne agevoli l’uso democratico. Con Walter Benjamin la riflessione sulla radio assume le caratteristiche di un’analisi più specifica sulla dimensione critica e creativa della radiofonia. Il grande critico tedesco, come si sa, era stato in Unione Sovietica ed aveva potuto vedere ed ascoltare da vicino le esperienze più avanzate dei media posti in essere dall’esperienza rivoluzionaria dell’ottobre. Si pensi al significato politico e culturale del radio dramma di W. Maiakowski, che può essere considerato l’archetipo, in Europa, della più importante scuola radiofonica nella quale convergevano letteratura, teatro e recitazione. Era forte la consapevolezza che ormai la radio optasse per una pratica dell’oralità quale presupposto per la creazione di una forma rinnovata di popolarità, oscillante tra parola e suono. Anche in Benjamin appariva forte la convinzione che si dovesse operare una appropriazione critica della radio nei momenti di maggiore crisi sociale. 3) I francofortesi (Adorno e Horkheimer) hanno elaborato, a partire dagli anni ’30, ma portando avanti la loro esperienza intellettuale nei decenni successivi, una visione sostanzialmente pessimistica del ruolo sociale dei mass-media tipica, per lo meno nella fase iniziale, di quella cultura del marxismo borghese che ha condizionato tanta parte della sinistra storica occidentale. Adorno, in particolare, ha assorbito l’esperienza americana e ha posto le basi per una rilettura dei nuovi fenomeni dell’industria culturale, raffreddando l’entusiasmo per la visione illuministica del progresso e contestando l’efficacia culturale dei nuovi media. Il suo discorso si allargherà alla musica, alla radio, al cinema, ai periodici, in una varietà di temi con cui si intendeva illustrare le abilità strategiche della società borghese sul terreno delle politiche della comunicazione nell’Occidente più avanzato. Il pessimismo interpretativo dei francofortesi può essere considerato un elemento capace di in-

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nient’altro che una riformulazione dal primo al secondo discorso, dalla fonte all’esito narrativo. Il linguaggio giornalistico, abbondantemente analizzato dagli esperti, si presenta come un mix di sottocodici: politico, burocratico, tecnico-scientifico, economico-finanziario (M. Dardano). La difficoltà del rapporto con il quotidiano, sul terreno della comprensione autentica dei vari sotto-codici, provoca forme di fuga del lettore verso cronache di costume, di nera e di sport. Ciò può far capire come l’uso cosiddetto pubblico dell’informazione giornalistica abbia sostanzialmente un carattere elitario e circoscritto esclusivamente a quanti sanno fare uso critico della lettura dei sotto-codici. Dalla lettura all’ascolto radiofonico il passaggio non è né lineare, né graduale. Siamo in presenza di una sequenzialità interrotta, che vede la radio emergere nel gusto dell’opinione pubblica per motivi sostanzialmente opposti a quelli del lettore di giornali. La radio interrompe il circuito mass-mediologico ed apre alle seduzioni della oralità secondaria. Per chiarire le caratteristiche dello specifico radiofonico si può fare riferimento all’insieme rilevante di teorie della radio che si sono sviluppate nell’area tedesca tra il 1927 e il 1933. Si possono segnalare tre indirizzi: 1) L’autore di riferimento è R. Arnheim, analista originale del fenomeno radiofonico interpretato sul terreno dell’ascolto e del suo significato psicologico e cognitivo. Secondo Arnheim la radio mobilita, per la prima volta nella storia dei media, la capacità dell’orecchio a percepire ciò che accade o si muove nel mondo, provocando reazioni emotive legate con l’immaginario. Si sviluppa nel radio-ascoltatore l’interesse percettivo dei suoni, da quello musicale a quello naturale, secondo principi di successione e simultaneità. La radio legittima un superamento ed un elogio della cecità e rende possibile la liberazione dal corpo. Ma l’elemento che sovrasta su tutti è la capacità di parlare senza distinzione di ceti e di classe. Arnheim è stato un autore molto noto negli anni ’30. Si ricordi che il suo libro sulla radio e l’arte dell’ascolto è stato tradotto anche in Italia durante il fascismo, nel momento in cui si ponevano le basi della scuola radiofonica del regime, fenomeno collegato anche con la politica fascista nei confronti del cinema e della cultura popolare (istituzione del minculpop). 2) Con B. Brecht e W. Benjamin si entra nella fase più complessa della cultura tedesca sulla radio e sui media. Brecht prende in considerazione gli stimoli e le spinte che dagli Stati Uniti coinvol-

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ca latina, radio a transistor a una sola frequenza. Ma il controllo non riesce totalmente. In molte vicende della lotta anticoloniale, soprattutto in Africa, la radio a transistor appare come l’unico mezzo di comunicazione politica. Si pensi al caso della rivoluzione verde nella Libia di Gheddafi. La radio oggi rinasce soprattutto nel mondo giovanile, da cui parte una istanza di verità reale o scomoda, purché espressiva di vicende contraddittorie del mondo contemporaneo; nel quale il controllo politico sembra aver preferito il mezzo televisivo, per agevolare una assuefazione con le immagini, compromettendo o condizionando una informazione più anticonformista e critica che nelle democrazie post-parlamentari appare sempre più una risorsa difficile e rara.

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fluenzare una parte cospicua della cultura mass-mediologica della sinistra europea degli anni del secondo dopoguerra. Può essere un esempio il caso del ’68 parigino. I giovani contestatori occupano il teatro dell’Opera e lasciano libera la sede della radio; si preferisce scrivere sui muri (l’immaginazione al potere), e non ci si adopera ad usare i nuovi mezzi più veloci per la riproduzione dei testi scritti. Nello stesso periodo si sviluppa una teoria critica della televisione, che sembra tutta concentrata sul tema della visione e dell’immagine, mettendo da parte molte questioni collegate con la lettura e l’ascolto. Ma la prima visione mass-mediologica scarica sulla televisione un concetto pessimistico che nasceva dalla utilizzazione di una teoria della radio elaborata negli anni dei dispotismi politici, come strumento di propaganda di massa. Ciò provoca nella mass-mediologia un primo grave ritardo teorico, che impedisce di cogliere, nella sua specificità, le novità e i limiti del mezzo televisivo. Ma è solo con gli anni di maggiore fervore politico e culturale che la radio risale la china delle incomprensioni e degli abbandoni, collocandosi ad un punto nuovo di rilevanza e di centralità per un pubblico di giovani interessati alla creatività espressiva. Si pensi alla rilevanza di una esperienza radiofonica come quella di Radio Alice a Bologna, nel 1977, che con l’avallo anche di un intellettuale come Umberto Eco, potè fruire di un rilancio cospicuo in tutta Italia, anche nel Mezzogiorno. La radio usciva dal limbo della stagnazione politica e si ravvivava, grazie anche a un fermento di iniziative che sono da collegare con la riforma del sistema radiotelevisivo approvato in Italia a partire dal 1975. È da lì che parte una spinta alla proliferazione creativa di nuove emittenti radiofoniche, dalle quali si trasmette non solo musica ma anche interviste a personaggi scomodi o anticonformisti, mentre il linguaggio rifiuta le tecniche della trasmissione paludata, per aprirsi alla libertà e soggettività della comunicazione. Sul piano internazionale, nel secondo dopoguerra, soprattutto nei paesi come allora si diceva del Terzo mondo, la radio assiste a un rilancio imprevedibile e si collega con i nuovi movimenti di liberazione. Ma non dappertutto la situazione sfugge al controllo di chi ha interesse a non favorire la diffusione di un mezzo di comunicazione capace di informare e di coinvolgere. Nel secondo dopoguerra, infatti, l’amministrazione americana favorisce una incontrollabile diffusione del mezzo radiofonico, distribuendo gratis, nei paesi sottosviluppati dell’Ameri-

Radiofonografo MARELLI mod. Calipso II Mobile a consolle, 1934

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daniele pitteri vocazioni culturali, vocazioni di consumo

Inizio proponendo una serie di affermazioni, abbastanza concatenate fra loro. Affermazioni che, dette come ora le dirò, possono apparire anche un po’ azzardate. Servono però, perché introducono subito e senza esitazioni il tema che voglio affrontare –il ruolo che le radio, in particolare quelle locali, giocano nella vita delle culture giovanili metropolitane– e in qualche modo ne costituiscono anche la spiegazione.

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Bene. Proverò adesso a dare un senso a queste quattro affermazioni. Proverò a darlo non tanto attraverso un discorso ben costruito, ma raccogliendo prove, inanellando uno dietro l’altro indizi. Ecco il primo indizio.

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Che tipo di linguaggio è la radio? È un linguaggio che si attua nel tempo. Per questo motivo è dotata della caratteristica di essere attuale, intendendo questo vocabolo sia nel suo significato italiano, che nell’accezione dell’inglese actual, ovvero ciò che è effettivo, ciò che è in atto. La radio è sempre attuale, non solo perché avviene qui e ora, ma anche e soprattutto perché ottiene i suoi effetti nel momento stesso in cui trasmette. La radio è, dunque, un linguaggio che tende a privilegiare le modalità di ascolto. Questa caratteristica di attualità evidenzia altri tre aspetti rilevanti del linguaggio radiofonico. È un linguaggio diegetico, un linguaggio che nel raccontare o nel dire fa leva su pochi essenziali elementi, tutti altamente significativi, lasciando all’ascoltatore la responsabilità di costruirsi un’immagine mentale di ciò che è detto, di ciò che è raccontato. È un linguaggio a bassa disposizione metalinguistica. Questo lo obbliga ad una modalità di comunicazione che si sviluppa su un solo livello –il piano della relazione diretta fra chi trasmette e chi ascolta– e che per tale motivo necessita di una coerenza continua, di una forte identità punto per punto. È un linguaggio del fare: la radio, ad esempio, fa musica in un momento preciso rispetto a chi ascolta. Per chi ascolta, quel momento preciso può essere un momento mobile, un momento di rilassamento, un momento di attività, un momento di studio. E qui sorge una nuova questione. Quello della radio è un linguaggio che –oltre che nel tempo– ac-

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La prima affermazione è questa: la radio, soprattutto nella sua dimensione locale, è il primo mezzo –ma forse sarebbe meglio dire: strumento di comunicazione– che ha iniziato a fornire risposte e soluzioni concrete a quell’abbassamento delle capacità comunicative degli individui tipico delle società contemporanee e frutto dell’enorme e indistinto flusso di informazioni –per lo più di natura visuale– cui le persone sono quotidianamente sottoposte. La seconda affermazione è più breve: le radio locali rappresentano uno snodo di straordinaria importanza nel segnare il passaggio dai media generalisti ai personal media. La terza affermazione dice: grazie a queste caratteristiche –o se volete: grazie a questi postulati– la principale funzione assolta dalle radio locali consiste nel rafforzare e nel rivitalizzare le culture locali, quindi anche a dare voce a minoranze culturali, sociali, etniche. L’ultima affermazione, infine: la trasformazione delle radio locali in syndication è avvenuta attraverso la trasmissione di alcuni caratteri ereditari –il rivolgersi a pubblici particolari– e attraverso l’introduzione di alcuni caratteri innovativi –la trasfigurazione delle minoranze in target–, spostando così il baricentro identitario delle radio da un ambito socioculturale ad un ambito socioeconomico.

Prima ancora di essere mezzo, la radio è un linguaggio. Una testimonianza evidente di ciò è data dagli svariati supporti fisici di cui nel tempo essa si è dotata: l’apparecchio fisso del soggiorno di casa, l’apparecchio portatile a transistor, l’autoradio, la radio sul web, la radio sui canali satellitari. Ciascuno di questi “hardware” ha determinato modalità di ascolto differenti, le quali hanno attualizzato il significato dell’esperienza della fruizione radiofonica. Proprio per questa ragione, esse rappresentano delle occasioni di consumo che dimostrano che la radio è vissuta dall’utente prima come un sistema di comunicazione e poi come un oggetto.

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Declinate in linguaggio radiofonico –un linguaggio di flussi ininterrotti– queste peculiarità dell’oralità si traducono in una necessità di forte pertinenza –qualunque cosa trasmessa deve avere senso e importanza, altrimenti costituisce solo un elemento di disturbo– e in una necessità di contatto continuo –il silenzio è bandito. Soprattutto si traducono in una centralità della materialità della voce, della grana, quindi, più che delle parole. La voce è in qualche modo una parte del corpo, è un qualcosa che emana da esso e che, quindi, rafforza la soggettività del discorso, rafforza l’assunzione di responsabilità insita nell’enunciazione. Un aspetto, questo, che in modo molto singolare evidenzia l’esistenza di una fisicità del linguaggio radiofonico anche sul versante dell’enunciazione.

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Quello della radio, allora, è un linguaggio del corpo per il corpo. Il secondo indizio non è proprio un vero indizio, semmai si tratta di assonanze. Julian Jaynes è uno psicologo alquanto bizzarro. Anche nel suo ambiente è ritenuto un tipo dalle teorie un po’ azzardate. Talvolta addirittura si oppone ad ipotesi scientifiche molto ben strutturate, dimostrate, accettate. Alcuni anni fa, Jaynes ha pubblicato un libro dal titolo Il crollo della mente bicamerale. Si tratta di un esempio abbastanza estremo del suo azzardo scientifico, dotato però di una straordinaria capacità di fascinazione. Lasciamoci dunque affascinare. Nelle pagine del suo saggio, Jaynes ci dice che la coscienza così come noi la conosciamo –una coscienza oggettivante, che vede il mondo da lontano– è un fatto recente, qualcosa, per intenderci, che è giunta a maturazione circa 3.000 anni fa, epoca in cui il genere umano aveva già prodotto alcune civiltà per certi aspetti molto raffinate. Prima di quell’epoca, la nostra coscienza funzionava in un modo differente, perché la separazione fra l’emisfero destro e l’emisfero sinistro del cervello era molto più netta di quanto non sia oggi. Anche allora la parte sinistra era quella deputata alla razionalità. Nella parte destra, invece, risiedevano gli dei. Dice proprio così, Jaynes. E poi ci spiega che quegli dei avevano la forma della coscienza collettiva, la quale –però– invece di tradursi in noi sotto forma di coscienza autoriflettente, si traduceva in voci. Eh sì, perché gli antichi sentivano le voci. Anche noi lo sappiamo. Tutti conosciamo molte antiche leggende o le opere di Omero o le tragedie di Sofocle o le commedie di Aristofane dove molti personaggi sentivano voci. Ebbene, quelle voci che gli antichi sentivano, secondo Jaynes in realtà provenivano dal loro cervello. Erano prodotte da una parte del loro cervello che era usata in maniera molto più vicina alla sintonia collettiva del gruppo piuttosto che all’interiorità individuale. Quella parte di cervello che lasciava libere quelle voci di parlare era una sorta di grande magazzino della memoria sensitiva ed evocativa. E proprio per questo motivo era inconsapevole. Cosicché, i doveri, l’organizzazione sociale, la divisione dei compiti fra i singoli e tutte le altre norme che regolavano i gruppi, era ordinato da queste voci. Ora, al di là del suo reale fondamento scientifico –la maggior parte degli storici della mente umana sostengono che in antichità i due

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cade anche nello spazio, almeno nello spazio prossemico di chi ascolta. Tutte le onde sonore, percorrendo l’atmosfera provocano dei piccoli spostamenti d’aria. Masse più o meno grandi di aria sospinta che impattano contro i corpi solidi. Quindi anche contro il corpo umano, che tuttavia è un corpo solido concavo. Da questo punto di vista, l’esperienza di ascolto non è più soltanto uditiva è anche tattile, profondamente fisica, perché le onde sonore sotto forma di piccole masse d’aria impattano con la nostra pelle –una membrana che vibra e che trasmette le sensazioni tattili dall’esterno all’interno del corpo– e perché, grazie ai vuoti presenti nel nostro organismo, penetrano in noi, amplificandosi, usandoci come cassa di risonanza. Quello della radio, dunque, è anche un linguaggio del corpo. Naturalmente la caratteristica più rilevante del linguaggio radiofonico è costituita dalla sua natura orale. Una caratteristica certo centrale, che, però, nell’economia del nostro discorso, sposta il baricentro dal piano dell’ascolto al piano dell’enunciazione. Ogni atto orale è un’assunzione di responsabilità. Non essendo esso un deposito di sapere, ma un qualcosa che invece attraversa il tempo in maniera molto veloce e fugace, implica una serie di accorgimenti, anche perché la durata del grado di attenzione e la capacità di memorizzazione di chi ascolta sono molto limitate. Prima di ogni altra cosa, dunque, l’atto orale richiede una capacità di comunicare per pacchetti significativi brevi. Poi, un uso modulare di elementi espressivi che a scansioni più o meno regolari devono essere reiterati proprio per ravvivare la debolezza mnemonica dell’ascoltatore. Infine, un tono di voce caldo e persuasivo, soggettivo e di forte impatto.

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emisferi agissero in modo non separato, ma unitario– c’è da dire che l’idea di queste voci allucinatorie che legano l’individuo al resto della comunità è davvero molto interessante. Voci interiori che assolvono alla funzione di fine regolazione nei confronti della collettività e senza le quali, addirittura, ci si sente perduti, ci si sente male. Voci evocative che forniscono identità e coscienza collettiva a chi le ascolta. In un suo recente volume –Previsioni e presentimenti– Francesco Morace –parlando delle dinamiche che regolano in questo scorcio di secolo il rapporto fra merci e consumatori, ma sarebbe meglio dire: individui– rileva che le scelte di consumo sono sempre meno guidate da un approccio razionale e sempre più, invece, sono il frutto di pulsioni profonde. Come se –dice Morace– ci fosse una rivalutazione dell’emisfero destro del cervello. E poiché le scelte di consumo –quindi il rapporto con le merci– sono sempre più connesse all’essere e all’agire dell’individuo nella società, si può per estensione dedurre che quello attuale è un mondo regolato da impulsi emotivi.

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È una frase molto bella, che mi è parso interessante riproporre qui perché trovo che assieme all’affascinante teoria di Jaynes e assieme alle considerazioni di Morace abbia molto a che vedere con la radio, con il suo linguaggio e con le funzioni cui la radio assolve. In qualche modo, per le caratteristiche del suo linguaggio –attuale, che agisce nel tempo e nello spazio, diegetico, espressione del fare, vibrafono del corpo, che privilegia l’ascolto e contemporaneamente pone forte enfasi all’enunciazione– la radio parla alla parte destra del nostro cervello. Serve cioè a riempire il magazzino inconsapevole, che abbiamo nella parte destra del cervel-

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Il terzo indizio è più che altro una constatazione. La tecnologia del suono è quella che maggiormente si avvicina all’esperienza della percezione uditiva in natura, capace com’è di comprendere tutto lo spazio che ci circonda e di rimandarci l’incertezza della fonte sonora. Proprio come in un campo di grano: dov’è quella cicala che sento cantare? Sfumature. Stiamo imparando sempre più velocemente a percepire col nostro udito raffinate sfumature. Una sorta di involontario training auditivo. Ancora un indizio: la radio è democratica. Lo è per almeno due motivi: innanzitutto perché è stato il primo media a dimostrare la possibilità di rottura dell’oligopolio di detenzione del sistema mediale; le stazioni pirata prima, le stazioni “libere” poi hanno ampiamente dimostrato che essa è un media accessibile a tutti, dunque gestibile dal basso. In secondo luogo, ha un linguaggio che ponendo particolare enfasi alla dimensione dell’ascolto, richiede e stimola un feedback, dunque una relazione a doppia via con chi fruisce. E non è un caso che tale dinamica dialogica sia stata inaugurata proprio dalle radio indipendenti e che su di essa si sia tratteggiata una delle peculiarità principali di quelle stazioni. L’ultimo indizio. La radio è l’unico mezzo in cui il conflitto fra globale e locale va in scena palesemente. Lo spazio etere di ogni città è percorso da centinaia di frequenze, ciascuna delle quali occupata da una stazione radiofonica, alcune solo ed esclusivamente locali, altre nazionali. Se provassimo a visualizzarlo quello spazio, certamente ricorreremmo a quella scena di Gosthbuster in cui un coacervo di forze e

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Il disertore è il titolo di uno straordinario racconto di Jean Giono. Ad un certo punto della storia –raccontando di questo uomo misterioso, dalla barba folta e dalle mani bianche che dipingono ex-voto, quadretti che gli abitanti del piccolo villaggio fra le montagne ove egli si è stabilito trovano estremamente affascinanti, pur senza comprenderne il perché– Giono scrive: “le leggende nascono sulla base di fatti reali osservati o sentiti, interpretati da immaginazioni poco abituate a sentirli e a osservarli”.

lo, di memoria sensitiva ed evocativa. È una sorta di mediatore fra la coscienza di sé e la coscienza collettiva. E, riferendosi all’emisfero delle emozioni, in qualche modo aiuta le pulsioni profonde ad emergere, a generare leggende, a stimolare immaginazioni poco abituate a sentire e ad osservare fatti reali –ricordate la scarsa capacità comunicativa affermata all’inizio?– anche grazie ad un coinvolgimento tattile, grazie a un’esperienza interamente fisica. Insinua in noi le voci che generano la coscienza collettiva.

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di tensioni si concentra sopra New York per poi essere attirato e scaricato a terra da un grattacielo, sorta di grande antenna ricevente. Ebbene, l’unica differenza fra le stazioni locali e le stazioni nazionali che occupano l’etere di ogni città sta nel fatto che solo le prime vengono catturate dal grattacielo/antenna e scaricate a terra. Sta, dunque, nel radicamento che esse hanno con il territorio. Le altre no, non lo hanno questo radicamento. Continuano ad agitarsi nell’aria. In alto, sopra. È l’unica differenza, sì, ma è una differenza sostanziale, che regola le modalità espressive e le forme organizzative sia delle radio locali che dei network, generando le tipologie di relazione con i pubblici cui le une e gli altri si rivolgono.

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È un legame che data quasi trent’anni, dall’epoca delle prime radio private, dal momento in cui milioni di ragazzi italiani iniziarono a trovare in quelle piccole e talvolta scalcinate emittenti una risposta ai propri desideri. Desiderio di musica, in primo luogo, di ascolto di note che fuggissero la stantia tradizione melodica nostrana, delle parole un po’ esistenzialiste dei cantautori così vicine ai tormenti adolescenziali, dei suoni ruvidi delle band pop e progressive rock. Desiderio di politica, di fatti reali, di informazione non filtrata, di ragionamenti liberi e talvolta tortuosi, ma comunque diversi, caldi, arrabbiati, lontani dall’asetticità degli speaker della radio di stato e più in generale dell’informazione tradizionale. Desiderio di infrangere tabù, di parlare di sesso e di amore, di confessare le proprie tribolazioni, di discutere apertamente di argomenti banditi dalle aule di scuola e dai puliti tinelli familiari. Ma desiderio, anche, di sentirsi più dentro la comunità locale, di vivere la quotidianità momento per momento, di sapere del proprio vicino o di quella parte di umanità presente comunque dentro la città, eppure lontana, separata da steccati sociali, da convenzioni, da pregiudizi. E le radio che a quell’epoca nascono dal nulla come funghi dopo il temporale –sono quasi mille nel 1977 e oltre 2.600 alla fine

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La radio diventa la voce della collettività, la voce del territorio. In particolare è la voce di parti omogenee di collettività, di aree culturalmente definite del territorio, soprattutto di quello metropolitano. Ma che tipo di territorio è quello in cui le radio private locali sono profondamente radicate? È il luogo dove insistono comunità di natura e cultura diversa, negli anni Settanta tutte di natura autoctona, oggi alcune autoctone, altre di origine esterna. È il luogo del crossover, della convivenza possibile, e il luogo dove esplodono tutti i conflitti. È il luogo dove la necessità di socialità passa sì dallo scambio fra le varie comunità, ma passa anche dalla chiusura cieca e sorda all’interno della propria comunità. Il territorio di ogni città, dunque, è il luogo dell’interagire dialettico di identità diverse. Per questo è luogo di incontro, per questo è luogo di scontro. Le radio locali danno voce in vario modo alle diverse culture e alle diverse identità. Ciascuna di esse si rivolge ad una comunità differente, intendendo per comunità anche quelli che poco alla volta iniziano a definirsi come target, gruppi omogenei di persone in base ai consumi, che sul territorio cittadino, però, incarnano un’identità, ovvero una modalità di occupare, vivere e fruire il territorio. Dando voce alle varie comunità che insistono su un territorio e che ne esprimono la vocazione, le radio locali agiscono sia da mediatrici dell’incontro, ma anche da estremizzatrici dello scontro. Favoriscono il meticciato fra le identità culturali delle varie comu-

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Giunti a questo punto, penso sia opportuno, però, fare una piccola pausa, riporre per un momento tutti gli indizi raccolti e soffermarsi sull’aspetto che più interessa in questo contesto, la relazione che i giovani hanno con la radio.

del decennio– si conformano secondo una duplice tendenza, che spesso converge nelle stessa emittente: da un lato un forte spirito localistico, dall’altro un carattere antagonista. Entrambe gli aspetti fanno sì che le radio private –o libere, come si diceva allora– siano percepite come un agente di innovazione e di progresso, come un fattore di unificazione e di riconoscimento, un qualcosa di duttile, di immediato e versatile, capace di cogliere, di documentare e di rappresentare il mutamento, si tratti di semplici trasformazioni musicali o di più complesse evoluzioni sociali.

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nità o esasperano la cecità e la sordità della chiusura di ciascuna di essa all’interno del proprio specifico. Una cosa è certa, però. Qualunque cosa le radio locali facciano in tal senso, non lo fanno mai staticamente. Perché la radio locale parla di una quotidianità prossima all’ascoltatore –è lì, dietro quella porta– senza mai descriverla. Perché la radio locale, grazie alla contiguità fisica, esaspera la relazione di contatto con l’ascoltatore, amplificandone l’importanza e, comunque, assumendosi la responsabilità dell’enunciazione. Perché, proprio per tutto ciò, la radio locale non riflette ciò che è, ma fa esattamente quello che sto facendo io in questo momento: produce indizi su ciò che è, lasciando all’ascoltatore l’onere di interpretarli.

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Il secondo esempio: le radio locali napoletane che hanno giocato invece un ruolo molto importante nell’affermazione della musica neomelodica, trasformandola da patrimonio esclusivo di una delle comunità autoctone a patrimonio collettivo di tutte le comunità autoctone. In qualche modo si è verificato un processo inverso a quello appena descritto. Un allargamento in luogo di un restringimento. Una contaminazione dal basso, in luogo di una quarantena volontaria. Ciò è stato possibile in virtù di uno strano fenomeno

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I giovani sono il sostegno di questi apparati. Sono il pubblico preminente, seppur col tempo non più quello esclusivo. Ma rappresentano, comunque, l’organismo vitalizzante delle radio, lo humus dal quale esse traggono la propria fertilità e sul quale esse riescono a fermentare, a crescere, ad evolversi. Infine a mutare. Quando le radio locali, infatti, iniziano a organizzarsi in syndication, si assiste ad una lenta metamorfosi che ne trasforma alcune –quelle che appunto si riuniscono in network– e che ne radicalizza altre, tutte quelle che restano ancorate –sia quelle “storiche”, che quelle che comunque continuano a nascere– ad una dimensione locale. In entrambe i casi si tratta di scelte vocazionali che danno luoogo a due modelli diversi. Quello dei syndication è un modello che tende a proporre delle modalità di palinsesto e di relazione con il pubblico in qualche modo totalizzanti. Assolutamente non generalista, ma tuttavia certamente funzionale ad una cultura uniformante che, pur traendo origine da varie culture locali anche molto distanti fra loro, è proposta in modo molto forte, quasi monolitico. Insomma, i network propongono un modello e dei contenuti che

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Mi vengono in mente alcuni esempi. Ne scelgo due. Penso alle stazioni radio di Brooklyn o a quelle del cosiddetto ghetto nero di Los Angeles, le quali, esaltando il principio di identità, hanno contribuito in modo determinante alla nascita e all’affermazione della cultura hip-hop e di alcune sue apparenti degenerazioni, come ad esempio il gangsta-rap. Apparenti, perché proprio quest’ultimo in realtà è esemplificativo di una modalità di risoluzione dei conflitti di identità all’interno delle comunità autoctone di un territorio. Esso è completamente fondato sull’esaltazione fondamentalista dell’identità nera, afroamericana. In esso, non va in scena il conflitto neri/bianchi. In esso i bianchi, così come tutte le altre etnie che popolano il territorio di quelle megalopoli, semplicemente non esistono. Esistono solo ed esclusivamente i neri, i loro conflitti, le loro diversità interne. È il grado estremo della localizzazione: il massimo della frammentazione corrisponde alla massima rivendicazione dell’identità.

di emigrazione semantica di cui è stato protagonista Nino D’Angelo, da anni eroe canoro delle comunità popolari del territorio. Grazie ad alcune infiltrazioni esterne, provocate da altre comunità –mi riferisco alle attenzioni di intellettuali come Goffredo Fofi e Mario Martone–, dalla comunità originaria D’Angelo, pur mantenendone inalterati tutti i tratti identitari, si è improvvisamente trovato nel territorio culturale di un’altra comunità. Si è trattato di un vero e proprio spostamento di un tratto distintivo di un campo semantico in un altro campo semantico. Ciò ha generato una sorta di “meticciato significativo”: le radio locali non rivolte alla comunità originaria cui si riferiva D’Angelo, hanno iniziato ad attingere al patrimonio culturale di quelle comunità, non spogliandole, ma semplicemente trasferendone alcuni tratti e favorendo in tal modo la nascita di una comunità allargata e trasversale, fondata proprio sul riconoscimento comune di quei tratti distintivi. D’Angelo ha fatto da testa di ariete. Dopo di lui sono venuti tutti gli altri, tutti cantanti destinati, senza quel trasferimento semantico, ad un’onesta carriera fatta di matrimoni, battesimi e feste di piazza. Travasati in altre comunità sono diventati “i neomelodici”.

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Le radio locali, al contrario, propongono un modello esattamente opposto. Anche se attingono certamente all’esperienza dei network e quindi manifestano una certa tendenza a riproporne morfologicamente i palinsesti e ad avvicinarsi alla loro sofisticazione tecnologica –dialogano comunque con un pubblico oramai abituato a determinati standard qualitativi–, sul versante dei contenuti tendono a lavorare sull’esaltazione del principio di identità culturale, patrimonio della comunità metropolitana alla quale si rivolgono. Sottolineano dunque per differenza la diversità con le altre comunità. E talvolta lo fanno proprio allontanandosi il più possibile dai modelli proposti dai network, fondando dunque la propria capacità di relazione con il pubblico su un certo grado di grossolanità o su elementi grezzi, sia dal punto di vista espressivo che dal punto di vista tecnologico. Le radio locali estremizzano gli aspetti identitari delle comu-

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nità, talvolta anche tendendo a folclorizzarli, ma sempre riuscendo a non tradirne i cromosomi. È ora di fare un passo indietro. Di tornare a quelle affermazioni iniziali. Ricordate? Le radio rispondono all’afasia comunicativa attuale; quelle locali sono uno snodo del passaggio fra i media generalisti e i personal media e rivitalizzano le culture locali; i syndication spostano le affinità identitarie dal piano della cultura a quello del mercato. Alcuni degli indizi raccolti fin qui e delle riflessioni successive qualche spiegazione a queste affermazioni già la hanno data. Altri indizi, invece, possono ancora risultare inammissibili ai fini di una vera indagine, perché certamente non hanno e non riescono ad avere quelle certificazioni di autenticità e di verificabilità che l’istruzione di un’ipotesi probante dal punto di vista scientifico richiede. Tuttavia li abbiamo chiamati assonanze quegli indizi, un qualcosa che ha che vedere col clima, coll’atmosfera dell’indagine, con quell’insieme di percezioni impalpabili che –nella migliore tradizione poliziesca, reale o romanzata– costituiscono la base, l’essenza della sensibilità dell’investigatore. E così se pure Jaynes o Giono forniscono appena sensazioni leggere e non certo elementi probatori, mi pare che l’insieme degli indizi raccolti ricomponga un mosaico, un quadro unico abbastanza complesso, tale comunque da non far più apparire quelle affermazioni iniziali come enunciazioni di puro principio. Nelle radio locali le caratteristiche proprie del linguaggio radiofonico, la democraticità propria del mezzo e il rapporto identitario fra enunciante e ricevente si moltiplicano in maniera esponenziale. Il radicamento sul territorio fa sì che quell’afasia comunicativa, frutto dell’esposizione ai flussi informativi dei media, si abbassi sensibilmente, o quantomeno cambi di registro, grazie all’intrinseca necessità e alla palese richiesta di dialogo e di interattività con l’utenza. È la stessa cifra che fa identificare le radio locali con un personal media, piuttosto che con un media generalista. Esse sono la quotidianità. Anzi, sono l’attualità della quotidianità. Soprattutto è come se riuscissero davvero ad essere voci, perché in qualche modo nella loro relazione con gli ascoltatori sono carnalmente evocative. Pensate alle radio di Brooklyn o a quelle di Napoli: si tratta di una fisi-

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pur rivolgendosi ad un pubblico tutto sommato omogeneo –ovvero ad una comunità allargata di tipo transterritoriale– deve comunque tenere nel debito conto che le centinaia di migliaia di persone che compongono quel pubblico, assieme ad una lunga serie di elementi che le accomunano, hanno anche una lunga serie di elementi che le differenziano. Debbono quindi lavorare sull’esaltazione dei tratti comuni, perché se prevalessero le differenze il pubblico rischierebbe di sbriciolarsi, di disperdersi. I modelli di palinsesto e i contenuti di queste radio, dunque, non tendono a lavorare sulle sfumature culturali patrimonio di ciascuno dei piccoli gruppi che compongono la totalità pubblico. E, laddove in qualche modo riescono a farlo, tendono comunque a declinare ciascuna di quelle culture in modo diluito per far sì che siano comprensibili a tutti, anche agli altri piccoli gruppi cui quelle microculture non appartengono. I network indeboliscono le identità, perché pur muovendo da esse non ne cesellano le peculiarità, ne smussano invece gli spigoli, ricostruiscono in un’unica filiera pulsioni emotive e culturali contigue ma diverse, trasformandole in stimoli che preludono alla costruzione subcosciente di una serie concatenata di azioni di consumo sostenute da un impianto dai tratti forti, ma poco definiti, che affonda le proprie radici nell’immaginario collettivo generato non da un territorio ma dalla totalità dei media. I syndication trasformano le comunità in nicchie di mercato.

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cità emotiva, un qualcosa che va ben oltre l’impatto delle onde sonore sul nostro corpo, che va ben oltre la sottoposizione a frequenze simili, ma non esattamente uguali, a quelle cui siamo normalmente abituati. La nostra pelle non impatta solo con onde sonore, ma con colori, con odori, con sapori, con atmosfere, con corpi, con spazi. Con la vocazione di un territorio, con l’identità di una comunità, con i suoi flussi di coscienza. Nello spazio locale, le radio elidono la distanza fra mezzo e utenza. La ricollocano su un piano di relazione interpersonale. Roba palpabile, roba che rafforza e ravviva le culture espresse dal territorio. Ne moltiplica la necessità di coesione, avvenga essa in senso meticcio o in senso di rivendicazione identitaria.

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Quanto le radio locali agiscono secondo una linea di sviluppo verticale, tanto i syndication si muovono lungo una linea orizzontale. Essi mantengono una serie di caratteri che fanno parte del proprio Dna, della propria origine localistica e antagonistica –e proprio per questo trovano consenso presso il pubblico giovanile–, ma li rivitalizzano nello spazio indefinito e ampio del mercato e col tempo tendono a tematizzarsi, ad accogliere dunque pubblico, piuttosto che a raccoglierlo, definendolo quindi secondo “identità di ritorno” e non secondo tratti identitari peculiari, genetici, per così dire. Ciò non significa che tali radio e i loro pubblici non abbiano un carattere. Significa piuttosto che mentre fra le radio locali e i propri pubblici c’è un’omogenea convergenza caratteriale, fra network e pubblici di riferimento tale convergenza non si verifica, perché a fronte del carattere determinato dalla trasversalità –che può appunto definirsi anche come tematicità– tipico dell’emittente, esiste un carattere fittizio o quantomeno parziale del suo pubblico, la cui omegeneità è costituita solo dal riconoscere nel carattere del network una parte, non necessariamente la più rilevante, del proprio panel identitario.

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Tuttavia, le leggende servono ancora. Soprattutto ora, allorquando le scelte individuali, sia sul versante dell’esercizio del diritto di cittadinanza che sul versante delle azioni di consumo, paiono essere guidate da impulsi emotivi più che da scelte pienamente razionali. Cosicché, seppur con le differenze evidenziate, radio locali e syndication sono entrambe in grado di offrire risposte ai desideri. Quei desideri, proprio, che i giovani vogliono esauditi.

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gianluca nicoletti radionet

Spesso si parla di radio del passato come di una civiltà scomparsa. La definiamo usando termini come recupero della sua memoria o restauro degli archivi sonori, tutto questo come se la radio non stesse più vivendo nell’attualità. Premetto che non voglio lasciarmi andare alla facile retorica e affermare che la radio è viva, è bellissima e va meglio che la Tv. Questo è ciò che solitamente si dice per mettere a tacere la propria coscienza mediatica, un po’ come firmare una sottoscrizione che condanna il maltrattamento degli animali… non ci si può tirare certo indietro. Quindi nessuno si esimerà mai di lanciare un peana nostalgico verso i bei tempi della radio perduta, quando tutto era così pieno di atmosfera e il rapporto era così caldo. Certo niente a che fare con la detestabile Tv che è luogo/nonluogo del banale e superficiale. Eppure la nostra contemporaneità è raccontata dalla Tv e non dalla radio. È la televisione la vera interfaccia del nostro mondo, il resto non conta o può essere valutato solo in rapporto all’immaginario televisivo. Della radio infatti si dice sempre che è migliore della televisione, è più intelligente della televisione, è più “culturale” della televisione, può essere seguita anche facendo altro, al contrario della televisione. Insomma la radio esiste ancora, ma unicamente a rappresentare una sorta di “parte luminosa della forza” per essere contrapposta a quella oscura, ma così seducente, che è rappresentata dalla televisione. Forse è proprio l’umanità che segue una deriva molto particolare. Il bisogno di essere rappresentati da parte degli utenti ha portato l’industria televisiva all’iperrealismo dell’assurdo. Il caso umano abnorme come paradigma della normalità nel tempo del palinsesto. Nessuno certo ambisce ad essere collocato in una cornice così rarefatta e raffinata come la radio, che richiede comunque una capacità di allucinare in visioni ciò che si ascolta. Troppo difficile in assoluto, fare radio e apprezzare chi fa radio appartiene a un esprit troppo raro per avere un mercato e il mercato oggi condiziona ogni estetica. Tale apocalittica visione mi riempie non di tristezza ma di gioia:

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web e interazioni più dirette e viscerali con i propri pubblici. La radio che fino a ieri accompagnava la mattina di artigiani e casalinghe oggi è pure il sottofondo di chi lavora con un computer collegato in rete e dunque arriva negli avamposti più stimolanti di chi pensa la modernità. Pensavamo che questo avrebbe aperto degli orizzonti nuovi: al tempo scrivemmo e manifestammo l’entusiasmo per il fatto che la radio non era morta, anzi, mentre tutti la davano per cadavere, la radio si prestava benissimo a sperimentare una metodologia di comunicazione in un campo che non sapevamo ancora bene cosa fosse. Riuscimmo ad evocare da un Pc qualcosa che non fosse solo una schermata da leggere e da scrivere. Ci sembrava che avessimo scoperto una chiave fantastica. Ricordo una delle prime operazioni che riuscì veramente a creare un rapporto forte, immediato e scatenante una serie di reazioni nel pubblico tradizionale del nostro programma mattutino: in un sito di archeologia avevamo trovato una registrazione proveniente dagli archivi della BBC, si trattava del suono delle trombe d’argento ritrovate nella tomba del faraone Tutankhamon. Fu uno dei risultati più sorprendenti dell’interazione tra radio e rete, il rapido nascere di un mito metropolitano legato al suono di trombe pescato in real audio nella rete e trasmesso per alcuni giorni alla radio come contrappunto ironico alle critiche sul quotidiano televisivo. La tromba conica d’argento che accompagnava Tutankhamon in battaglia e nelle parate militari fu ritrovata dall’archeologo inglese Howard Carter nel 1922. Ora è conservata nel museo egizio del Cairo. Solo una volta fece riudire all’uomo moderno la sua voce, nel 1939 di fronte ai microfoni della BBC. Solo una volta, poi si è rotta per sempre, non prima di aver fatto bloccare per alcune ore gli impianti dell’emittente inglese. Da allora si pensò bene di far sparire la bobina della registrazione che nessuno, tra l’altro, avrebbe potuto ripetere. Tutto tranquillo fino a che con l’avvento di Internet un certo signor Hans van den Berg pensa bene di mettere in rete il suono delle trombe in un sito dove ne racconta la singolare storia con foto e documenti vari. Dopo un mese di strombazzamenti vari ho dovuto smettere perché la leggenda era andata oltre i limiti: centinaia di messaggi mi avvertivano del potere del suono di bloccare i computer che lo riproducevano. Al suono delle trombe i computer casalinghi si pian-

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so bene che c’è ancora chi ha il desiderio e la capacità di esprimersi attraverso canali che non vivano unicamente per riprodurre l’apparenza, ma abbiano il gusto di un’elaborazione del reale o la sua traduzione in un pensiero; questi, anche se semplicemente parla, fa radio indipendentemente dal fatto che la sua emissione sonora sia collocata in un sistema di organizzazione o in un’industria di comunicazione. In questo momento faccio radio semplicemente perché sto parlando a un pubblico per raffigurazioni, perché il pensiero fuoriesce spontaneo attingendo a qualcosa che è dentro di me. Non ho bisogno di immaginare, di pensare, non ho bisogno di pianificare e preoccuparmi del gradimento di chi mi ascolta cercando di massimalizzare ciò che accomuna i miei interlocutori nel modo di pensare, nello stile di vita, nei gusti e via dicendo: quindi sono alla radio. Non sono circoscritto da un oggetto/contenitore, e questo significa volatilità. Facendo radio si ha la consapevolezza che si agisce in un medium che è un vuoto a perdere, che non ha necessità di sedimentarsi, di creare una memoria, di lasciare qualcosa ai posteri. Anche a me affascina il fatto che la radio del passato venga rievocata con apparati digitali sofisticatissimi che però si devono interfacciare magari con dei vecchi giradischi o con quegli antichi registratori a filo perché le voci, che sono vestigia del passato, sono rimaste immagazzinate, imprigionate in supporti che oggi non hanno alcun apparato funzionante per farli girare. Perché nuovamente vibrino della sonorità che racchiudono al loro interno occorre un’operazione esoterica, spiritistica. Ricreare la condizione, l’ambiente di un tempo perduto perché la voce ridoni l’attualità. Occorrerà forse accordarsi sul fatto che la radio di cui si parla è una pura convenzione. Solo perché si lega il termine a un oggetto non è assolutamente detto che esista ancora una corrispondenza tra quell’involucro e ciò che lo anima. Per prima, tra gli altri media, la radio si è staccata dall’involucro che la definiva e si sta trasformando in comunicazione pura, senza supporti. La radio si ascolterà sempre di più senza aver bisogno di possedere un apparecchio radiofonico, la new radio muta oltre ai linguaggi le modalità di fruizione, di trasmissione, di rilevamento dei dati di ascolto. L’Internet ha forse salvato la radio dall’estinzione, ma ha estinto ogni iconografia radiofonica. Mai come oggi la radio è pura sonorità, ma allo stesso tempo possibilità affascinante di trasformare suoni e voci in grafica

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simo), ci trovavamo dinnanzi a qualcosa di clandestino, in un contesto Rai dove il computer era visto unicamente come l’evoluzione della macchina per scrivere. Nel cominciare clandestinamente a forzare queste prime macchine, obsolete ancor prima di essere acquistate, ci sentivamo dei pionieri soltanto perché il programma che producevamo per l’etere poteva anche essere riascoltato attraverso il Pc. Oggi le radio si espandono in rete. Difficile dare cifre esatte sul numero delle web radio considerata la facilità con cui queste aprono e chiudono un ciclo di trasmissioni. Una fonte attendibile come il M.I.T. ne calcola approssimativamente 27.000 alla fine dell’ottobre 2001. Solitamente il carattere di massima economicità nella realizzazione di una web radio può permettere a chi la pensa e la realizza di fornire una programmazione altamente specializzata per un pubblico di nicchia. La web radio americana Live365.com rappresenta l’estremizzazione di tale concetto, fornendo a chiunque la possibilità di trasmettere con una propria stazione individuale anche se paradossalmente il titolare della radio ne è anche l’unico utente. Con il web si amplifica al massimo la vocazione della radio in quanto strumento di dissidenza e di controinformazione, concetto caro per chi ama pensare a questo medium come ordigno finalizzato a destrutturare, svelare, minare alla base. Siamo di fronte a una versione meno pericolosa da realizzare rispetto alla performance romantica delle radio pirata: trasmissioni come atti eroici e rivoluzionari, continua fuga dai gendarmi e ricerca di derive verso momentanei ormeggi nell’etere, solo il tempo di dire: “ci siamo” e poi fuggire per non essere individuati. Questo medium povero, ma altamente specializzato, spezza decisamente ogni legame che una radio ha con il proprio territorio; la vocazione di una radio che galleggia nel web è di proiettare verso l’umanità connessa qualsiasi particolarismo, costituire un nesso labile per nuove tribù dissidenti già in sinuosa ibridazione con Internet. La tecnologia streaming permette alle sonorità della radio di espandersi tra i meandri del web in espressività che vanno oltre il semplice ascolto. Filmati, testi e immagini dal vivo di concerti ed eventi musicali, oltre a un’ elevatissima partecipazione del pubblico, in modalità più coinvolgenti della semplice telefonata, attraverso tutti gli strumenti di una community web.

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tavano o, peggio ancora, auto-cancellavano l’hard disk, poi interi centri di calcolo di biblioteche e università si bloccavano per ore perché qualche studente vi aveva immesso il file wave delle trombe. Si sono aperte dotte dissertazioni nei miei forum sulla vulnerabilità o meno dei vari sistemi operativi al suono virale. Qualcuno ha poi cominciato a usare la registrazione come deterrente sonoro da inviare via telefono a persone antipatiche, interi uffici si sono mobilitati in mail bomb con la concorrenza sempre a suon di trombe. Quando mi sono accorto che la cosa stava superando i limiti dello scherzo e cominciavano ad arrivare messaggi che incolpavano lo strombazzamento di incidenti automobilistici, malattie improvvise, sfortune professionali, ho pensato bene in accordo con la redazione di bandire per sempre le trombe dal programma. Tale semplice operazione di travaso è talmente banale che oggi non meriterebbe particolare attenzione, eppure consente di ascoltare alla radio un reperto sonoro archeologico che la rete ha permesso di conservare, mantenere e trasferire al presente. Oggi web e radio sono talmente integrati che è comune il fenomeno di emittenti che nascono e si sviluppano unicamente nella rete internet e non abbiano altra possibilità di fruizione oltre allo streaming audio. Anche se è comune il tendere a generalizzare il concetto di web radio allargando tale definizione a qualsiasi stazione radiofonica che, oltre a trasmettere i suoi programmi via etere, riproduca l’intero palinsesto o parte di questo anche come supporto multimediale alla propria area di comunicazione web. Trovo non esatta tale generalizzazione in quanto questo servizio viene oramai fornito dalla stragrande maggioranza delle radio pubbliche o commerciali e quindi non rappresenta una modalità di comunicazione originale, ma piuttosto la declinazione di un medium su diverse piattaforme di distribuzione. Web radio sono, secondo me, esclusivamente le radio che trasmettono solo per il web un programma in streaming. Anche se non è possibile attribuire una data precisa alla nascita della prima web radio, si può facilmente collocare l’inizio del fenomeno con la possibilità di poter usufruire della prima release del software RealAudio realizzata da Rob Glaser nell’aprile del 1995. Quando fu commercializzato e distribuito per la prima volta il player che permetteva di ascoltare una trasmissione di musica e parole attraverso un PC (soli sette anni fa, anche se sembra un passato lontanis-

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Da sinistra: Radioricevitore CGE, mod. Radiobalilla, 1937; Radioricevitore PHONOLA, mod. Radioroma, 1939; Radioricevitore PHILIPS, mod. Radiorurale, 1936

Non capita spesso di guardare al mondo radiofonico come luogo dove nascono e si consolidano professionalità specifiche. Parlando di radio e lavoro esprimiamo infatti un concetto che ha molte sfaccettature, e che cambia a seconda dei periodi e delle diverse realtà di riferimento. Certo, la radio pubblica in Italia come negli altri Paesi europei realizza sin da subito una struttura complessa, facendo nascere al suo interno una serie di competenze specifiche e di grande valore; e non avrebbe potuto essere diversamente, considerando le basi ideologiche e le finalità del servizio pubblico in Europa, volto a fornire all’ascoltatore cittadino un servizio sociale che lo facesse crescere culturalmente; inoltre, considerato che la finalità non era il guadagno, non esisteva alcun limite strutturale rappresentato dalle risorse economiche scarse. Impegno e investimenti determinano una ricchezza di generi ed una ricchezza nei palinsesti, e la conseguente crescita di nuove figure professionali; la radio attira uomini del mondo della cultura, delle scienze, dello spettacolo che si cimentano con il nuovo mezzo cercando di adattare e modificare le proprie competenze, di sfruttare al meglio le proprie conoscenze; sono le professionalità cresciute nel mondo radiofonico la prima linfa per la neonata televisione. La struttura organizzativa è complessa, le risorse numerose, le funzioni ben distinte, il lavoro parcellizzato; si crea una macchina produttiva che distingue responsabilità ed aree di competenza. Le modalità di sviluppo della radio privata creano altre condizioni per lo sviluppo delle professionalità radiofoniche: nel periodo pionieristico della radiofonia, il periodo artigianale, quello in cui quasi chiunque con investimenti bassissimi poteva divenire un editore radiofonico, l’approccio al mezzo era legato all’impegno politico o ideologico (radio comunitarie, legate a gruppi o movimenti) o alla passione musicale. Chi si trova a lavorare nelle neonate radio lo fa senza preparazione specifica e senza percorsi professionali di riferimento; non esistono modelli organizzativi che non siano quello della RAI, troppo costoso e inadatto al nuovo modo di fare radio, o quelli delle radio private americane, calate in una realtà totalmente diversa. Al momento della nascita delle radio private non esistono competenze di settore, se non quelle acquisite dai

alessandra scaglioni lavorare alla radio

Il fascino sottilmente paradossale della tecnologia a basso livello nella web radio raggiunge il suo grado zero. Questa non ha i riferimenti simbolico-liturgici che segnano l’evoluzione di ogni altro medium, non può essere ad esempio simboleggiata dal microfono d’antan che richiama per antonomasia l’idea della radio tradizionale, ne tanto meno possiede un suo oggetto hardware che ne delimiti il messaggio in una struttura solida come alcune radiosimbolo di particolari controculture legate a generi musicali. Contenuto e contenitore combaciano ed hanno lo stesso livello di immaterialità. La web radio è il player attraverso il quale si può ascoltare, è il suo suono, è la comunità nomade che si raccoglie attorno alla sua voce. Da un altro punto di vista la web radio anima uno strumento di lavoro come il computer e ne svela un uso improprio, ne estrae l’essenza sconosciuta, fa palpitare plastica e silicio e crea un sottofondo fascinoso al ticchettio dei tasti di chi lavora. La web radio si ascolta quasi unicamente seduti davanti a una tastiera, in questo rinnega uno degli specifici più declamati della vecchia radio che poteva essere ascoltata ovunque e facendo qualunque altra cosa. Nasce per fornire un tappeto sonoro all’uomo collegato a una macchina, o se vogliamo è la voce della macchina che vuol sedurre l’uomo perché resti più tempo possibile ad accarezzarla. Oggi la radio non esiste più. È un file digitalizzato, è un suono e ha sostituito quella che era la macchina, il mezzo che è scomparso e rimane il suo fantasma parlante.

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all’estero (per esempio in Francia o negli Stati Uniti, dove c’è chi realizza soltanto interviste o chi si limita a rivedere e condurre prodotti preparati da altri). L’impegno, nelle realtà italiane, riguarda solitamente almeno una fase significativa del processo di produzione in un determinato settore: realizzare un giornale radio vuol dire scrivere i testi e realizzare e montare un’intervista; chi conduce un programma lavora alla sua preparazione ecc… Si è passati in sostanza da un’assegnazione confusa delle mansioni ad una specializzazione di settore attenta alla continuità del risultato; è però bene ricordare che si tratta di un processo tutt’ora in corso, in atto all’interno delle radio nazionali e delle locali più forti, ma dal quale sono rimaste fuori, del tutto o in parte, piccole radio locali sopravvissute alla razionalizzazione del settore. In generale, non è possibile però identificare un modello organizzativo comune all’interno delle emittenti, in modo da definire quali sono e che mansioni svolgono le diverse figure professionali della radiofonia. Ciascuna radio presenta un modello organizzativo diverso, dove alcune funzioni sono valorizzate ed altri minimizzate. Inoltre, le attribuzioni di compiti e responsabilità può essere differente a seconda delle stazioni prese in esame anche in presenza delle stesse figure professionali. L’unico processo di teorizzazione possibile è quindi quello che identifica una serie di aree funzionali all’interno delle quali operano le differenti professionalità; tra le aree funzionali possiamo identificare quelle del management e della direzione, della programmazione musicale, della produzione dei programmi parlati, della conduzione, l’area tecnica di alta e quella di bassa frequenza, quella che si occupa della raccolta e della programmazione pubblicitaria ed il settore dei servizi, che comprende le mansioni di segreteria ed il rapporto con gli ascoltatori; a queste si aggiunge oggi anche l’area legata all’informatica. Nella realtà specifica di ciascuna emittente non sempre sono presenti tutte le funzioni sopra accennate; a seconda del suo formato, ciascuna stazione sceglie le aree utili, ne definisce la rilevanza e i rapporti. Pensiamo ad esempio a radio musicali dove è totalmente assente l’area della conduzione, radio di parola che non hanno programmazione musicale, radio rivolte ad un pubblico giovane che decidono di eliminare il settore di redazione. Questa linea di tendenza si è tanto più rafforzata quanto più le

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pochi che avevano lavorato all’estero. Chi si avvicina alle nuove radio proveniva da mondi contigui come la musica, l’informazione, lo spettacolo, oppure è totalmente privo di esperienza; in ogni caso il mestiere resta tutto da inventare. Il personale è scarso, a volte non retribuito, spesso senza contratto; i confini tra compiti di genere diverso in molti casi sono sfumati o inesistenti. La valenza positiva di questa realtà vitale ma fragile e destrutturata è stata la sua agilità, e quindi la sua capacità di sopravvivere in una situazione di risorse economiche scarse e di regolamentazione assente e di adattarsi progressivamente alle nuove esigenze del mercato. Inoltre era assolutamente in linea con il clima di trasgressione che ha accompagnato i primi anni della radiofonia privata. Per chi lavora all’interno di queste strutture vale, a seconda delle necessità, la definizione di “tutti fanno tutto”: direzione artistica, programmazione musicale e fasce di conduzione o contratti pubblicitari possono essere gestiti insieme, chi conduce un programma in onda al mattino può occuparsi al pomeriggio della programmazione pubblicitaria o della creazione degli spot e via di seguito. È noto qual è il processo che determina la crescita ed il rafforzamento del settore radiofonico, il circolo virtuoso che passa attraverso il miglioramento del prodotto, la certificazione e la crescita degli ascolti, l’aumento delle risorse pubblicitarie, un migliore assetto normativo ed una razionalizzazione del settore. Con il consolidamento delle radio nazionali e di alcune forti emittenti locali (Radio Norba, tanto per fare un esempio, o Radio Babboleo in Liguria) si determina anche la spinta ad una migliore organizzazione del lavoro e ad un impegno più strutturato; questo processo porta innanzitutto ad una selezione che tende a minimizzare l’apporto di chi vive il lavoro radiofonico come un’attività secondaria e poco importante; in secondo luogo determina una più specifica definizione dei ruoli all’interno della struttura produttiva, con la crescita di competenze specifiche e la distinzione dei settori professionali. Si supera, in sostanza l’indeterminatezza che aveva permeato un certo periodo della radiofonia privata, e viene progressivamente riconosciuto il valore distinto delle singole competenze. La ristrutturazione non è però arrivata ad una parcellizzazione del lavoro troppo spinta, come è invece avvenuto in alcune realtà

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tori e fornitori di servizi (ad esempio personale che si occupa della manutenzione degli impianti, ecc…). Da questi dati risulta che ruotano intorno al mondo delle radio circa 10 mila persone, e di queste un po’ meno della metà con un impegno stabile. Si evince uno degli elementi di criticità del lavoro nelle emittenti radiofoniche: il numero significativo di collaboratori rappresenta in alcuni casi una ricchezza (i collaboratori sul territorio che contribuiscono all’informazione nelle grandi radio nazionali, ad esempio), nella maggior parte delle situazioni è invece il sintomo del disordine contrattuale che persiste ancora in parte del settore. Per quanto riguarda invece la questione della formazione e dell’accesso, il percorso all’interno delle radio sta diventando più impegnativo e più selettivo: le emittenti richiedono maggiori capacità professionali, ed anche maggiore preparazione. Diminuisce contestualmente il numero delle piccole radio locali che per un lungo periodo hanno costituito il canale principale di accesso, con una formazione realizzata attraverso l’esperienza operativa, mentre percorsi formativi per creare competenze specifiche nel settore della radiofonia si stanno sviluppando in questi anni; alcune Università sono particolarmente attive nel realizzare corsi, studi e ricerche sul mondo della radio, e ad affidare alcuni spazi di formazione a professionisti della radiofonia in modo da creare un ponte tra radio ed Università; anche se questo è un canale di accesso alla professione della radio ancora poco diffuso, si tratta comunque di un segnale di crescita del settore di assoluto rilievo. Anche in questo caso si tratta semplicemente di una linea di tendenza, e non certo di una realtà consolidata: il percorso più spesso intrapreso passa ancora per la formazione sul campo. I tempi di crescita sono divenuti più lunghi e decisamente più selettivi, anche perché la prima ondata dei professionisti della radiofonia, quelli nati con le radio private, ha occupato i ruoli più importanti ed ha davanti ancora un lungo periodo di vita lavorativa. Infine l’apporto di novità tecnologiche, in particolare la digitalizzazione. Utilizzo di PC, regie automatiche, sistemi per la gestione della scaletta musicale (come Selector), programmi per la gestione integrata di testi ed audio hanno modificato in due direzioni il modo di lavorare all’interno della radio: da una parte sono cambiate le competenze richieste, considerando che oggi tutte le figure professionali che lavorano in un’emittente devono avere compe-

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radio italiane hanno seguito un processo di specializzazione dei formati, costruendo offerte mirate per pubblici differenti. Contestualmente sono aumentati nei palinsesti delle radio private gli spazi dedicati alla parola, a quel ”parlato di contenuto” che si voleva per un lungo periodo appannaggio unico della radio pubblica. Con la nascita di programmi e spazi di informazione anche nelle radio commerciali (nella maggior parte delle radio comunitarie la funzione informativa è sempre stata elemento fondante) sono aumentati gli spazi e le attività di redazione e di conduzione, legate a giornali radio o programmi. C’è una grande varietà di compiti, oggi, all’interno delle radio private, compiti che spaziano dalla musica all’informatica, che richiedono competenze tecniche o manageriali, che impegnano giornalisti e uomini di marketing. Anche la radio pubblica si è mossa in un percorso di differenziazione dei canali, alla ricerca di offerte appetibili per pubblici differenti. Così si è aperta la strada per professionalità tradizionalmente legate alla radio privata, come la conduzione di programmi giovanili. Così alcuni personaggi nati nel modo delle private sono stati ingaggiati dalla radio pubblica, mentre ci sono esempi anche del percorso inverso: professionisti, soprattutto legati al mondo dell’informazione, che dalla Rai passano a collaborare o a lavorare per radio private (pensiamo ad esempio a Demetrio Volcic direttore del circuito CNR o Giancarlo Santalmassi a Radio 24). Questo scambio di professionalità, che avviene anche al livello delle redazioni dei programmi, è sicuramente un segno di maturità per il settore della radiofonia. Anche l’età anagrafica di chi lavora nella radio pubblica e nella radio privata è cambiata. Nella RAI c’è la ricerca di un maggior apporto dei giovani in ruoli significativi, come quello della conduzione; nelle radio private arrivano anche voci mature. Ma se le radio nazionali e la maggior parte delle grandi radio regionali o pluriregionali hanno raggiunto un assetto stabile, tra le piccole radio restano realtà difficili, che vengono gestite con poco personale, e situazioni professionali fragili. Una stima forfettaria fornitaci dalle associazioni di categoria parla di 3.200 dipendenti e 5-6mila collaboratori nella circa 1.300 radio locali italiane, tra le quali si trovano grandi realtà così come emittenti piccole e piccolissime, mentre le 13 principali radio nazionali raccolgono circa 1.500 persone, tra dipendenti, collabora-

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salmente riconosciuta nel settore radiofonico, e l’affermarsi di imprese radiofoniche solide ed importanti sia nella realtà nazionale che in quella locale. La radio non si fa più, ormai da tempo, solo per passione, impegno sociale o divertimento; fare la radio è un lavoro, ma l’impegno e la passione per il mezzo restano una componente irrinunciabile per acquisire una buona professionalità: è un lavoro più difficile di quanto chi è all’esterno possa immaginare, il mezzo resta comunque povero dal punto di vista delle risorse economiche, se confrontato con la televisione o anche con realtà radiofoniche di altri Paesi, e inoltre non fornisce le gratificazioni legate all’apparire così connaturate in una civiltà dell’immagine.

Radiofonografo DUCATI, mod. RR 3404, mobile a consolle, 1940

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tenze informatiche da buone a ottime (pensiamo solo ai tecnici di regia, ai giornalisti, al lavoro di gestione della scaletta pubblicitaria); dall’altra, il supporto di nuovi strumenti tecnologici ha modificato le condizioni di lavoro, semplificando le operazioni ed allo stesso tempo rendendo più sofisticati i processi. Pensiamo, per fare un esempio, al lavoro all’interno degli studi, dove il tecnico di regia non deve più gestire una serie di supporti tecnologici differenti ma una macchina sofisticata dalle molte funzioni, oppure ai procedimenti di editing e di montaggio, realizzati ormai completamente, quasi ovunque, su PC, che ha limitato il rischio di errore ed ha aperto la strada a infinite possibilità per migliorare, modificare, tagliare e riassemblare con estrema facilità e in tempi brevi qualunque suono o registrazione. La digitalizzazione ha influito sul lavoro all’interno delle emittenti anche permettendo un diverso assetto organizzativo, grazie al supporto delle macchine che svolgono del tutto o in parte ruoli prima eminentemente manuali (ad esempio la regia automatica); il rapporto tra tecnologie ed organizzazione del lavoro, e quindi figure professionali, è infatti molto stretto; un maggiore ricorso all’automazione dei processi prevede un diverso utilizzo del personale disponibile. Molte radio locali di dimensioni piccole o medie hanno attuato una razionalizzazione dell’organizzazione del lavoro grazie ad investimenti non particolarmente onerosi in tecnologie. Assieme a tutti gli elementi che abbiamo delineato c’è un processo in atto che è conseguenza delle trasformazioni avvenute ed in atto nel mondo radiofonico. Riguarda la percezione del lavoro alla radio. Per motivi diversi, (la preminenza della televisione per la radio pubblica, il lungo periodo pionieristico per la radio privata) il valore e soprattutto la specificità delle professioni relative al mondo della radio difficilmente sono state riconosciute, sia all’esterno, come percezione sociale delle figure professionali della radio, sia, in molti casi, all’interno del settore stesso. Oggi le professioni radiofoniche hanno assunto una dignità diversa. A questo ha contribuito il rafforzamento generale del settore che si è tradotto, come abbiamo detto, in un miglioramento dei palinsesti, ma anche in un approccio al mercato in grado di lavorare anche sull’immagine della stazione con una maggiore attenzione al marketing editoriale ed alla promozione; ha contribuito anche la presenza ormai significativa di grandi gruppi editoriali con una credibilità univer-

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enrico menduni la terza generazione Radio in rete 144

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sturbate e ha ragione, perché è uno spettacolo a cui si accede a pagamento. Si ottiene così il diritto di non essere disturbato in quello che si è scelto attraverso un preciso atto di acquisto. La televisione, per esempio che si afferma negli Stati Uniti negli anni quaranta, in Europa nel decennio successivo, è fin dall’inizio un ingombrante apparecchio per la fruizione audiovisiva domestica, non facilmente riducibile: se trasformate un grande televisore a 28 pollici in uno schermo a 8 pollici avete una drastica perdita del piacere della visione. Per queste caratteristiche che sono sociali, prima che tecniche, il televisore viene piazzato nel salotto di casa, sostituisce subito la radio nel suo ruolo di nuovo focolare e diventa un luogo della conversazione familiare, non appena viene superata una prima fase di ascolto collettivo (in un bar o a casa dei vicini) per necessità, cioè perché non si ha ancora il televisore, per motivi essenzialmente economici. Questa funzione, una volta fissata all’interno delle abitazioni, rimane costante. Si moltiplicheranno pure i televisori in giro per la casa (in cucina, nella camera dei bambini etc.), però siamo sempre in posizione seduta davanti a una macchina che ci fornisce automaticamente uno spettacolo audiovisivo. Rispetto a questo paradigma di alcuni media (si cerca una funzione sociale, poi appena la si è trovata ci si fissa in essa), il percorso della radio è molto diverso, è pieno di colpi di scena. All’inizio, intanto, c’è una fase in cui la radio non è intrattenimento ma è comunicazione, comunicazione radiotelegrafica. Marconi non ha inventato la radio come la intendiamo noi; ha concepito un apparato di trasmissione, essenzialmente per le navi, che permettesse di superare il vincolo del filo, del cavo: la “telegrafia senza fili”. Il telegrafo aveva modificato il mondo ottocentesco, l’aveva piegato alle coordinate della ragione e delle carte geografiche, però ogni nave che andava oltre l’orizzonte rimaneva un oggetto irraggiungibile, poteva affondare senza che nessuno mai riuscisse a ricostruire proprio nemmeno dove e quando si era persa. Di qui il grande successo dell’invenzione di Marconi nei primi vent’anni del Novecento. Dopo la prima guerra mondiale c’era una vasta disponibilità di apparati radiofonici a basso prezzo che erano stati prodotti al servizio degli eserciti in lotta, e molte persone che sotto le armi avevano imparato a comunicare con la radio. Qui nasce una crescente fascia di uso amatoriale della radio (vorrei ricordare che esistono i “radioamatori” ma non i “teleamatori”), un bricolage di iniziative comu-

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Questi cento e più anni, da quando la radio è nata, sono la storia di un mezzo estremamente mobile; e non solo perché, nel corso della sua evoluzione tecnologica, ad un certo punto comincia a miniaturizzarsi, a divenire portatile, a comparire sul cruscotto delle nostre automobili e dunque a muoversi insieme ai suoi ascoltatori, ma soprattutto è mobile nel corso del Novecento quanto a funzioni e usi sociali. In realtà spesso i media, quando appaiono sulla scena, non hanno ancora una funzione sociale precisa; per un po’ si fanno attorno ad essi vari esperimenti d’uso (alcuni graditi ai potenziali clienti, altri presto abbandonati), poi alla fine i mezzi di successo trovano una collocazione stabile e lì rimangono. Altri vengono abbandonati o rimangono curiosità antiquariali. Quando è nato il cinema, intorno al 1895, si discettava se dovesse essere uno spettacolo da proiettarsi in uno spazio pubblico, su grande schermo, oppure un piccolo spettacolo in un chiosco, che un singolo spettatore vedeva grazie ad una moneta infilata in una macchina a gettone. Non si sapeva se sarebbe stato qualcosa di itinerante, un’attenzione mostrata nei baracconi e nelle fiere, oppure un teatro automatizzato in luoghi fissi. È affascinante questa storia degli inizi del cinematografo, che però dopo il 1910 aveva già avuto il suo esito, dando luogo a forme e funzioni del cinema sociali non diversissime da quelle di adesso, ossia un sistema di luoghi fissi riforniti periodicamente di pellicole, che poi in Europa e nelle due Americhe degli anni Venti sono diventati grandi sale cinematografiche, costruite come grandi teatri. Ancora oggi in ogni città, quando non sono stati scioccamente distrutte, ci sono un paio di grandi e maestose sale di questo tipo, nelle quali si è svolta, ormai per un’ottantina d’anni, l’attività cinematografica. Certo, esse hanno visto la successiva introduzione di molti perfezionamenti tecnici, tra cui i principali sono il sonoro e poi il colore. Tuttavia ancora oggi, come nel 1920, andiamo al cinema sostanzialmente nello stesso modo: possibilmente in compagnia (cioè in una forma spiccatamente sociale), in una occasione di festa, andiamo alla cassa, se c’è un po’ di fila aspettiamo, compriamo il biglietto, ci sediamo, poi finalmente si spegne la luce e assistiamo alla proiezione del film. Non dobbiamo fare nessun rumore, perché subito dalle altre file c’è qualcuno che si volta seccato perché lo di-

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in Italia, essa fu fortemente sostenuta dagli apparati più populisti della Democrazia Cristiana (i fanfaniani con Bernabei) in funzione modernizzante, sotto la particolare chiave della fidelizzazione dei ceti popolari al nuovo stato. All’interno della Rai, ciò significò concentrare sulla televisione tutti gli intellettuali moderni e i giovani, confinando alla radio la cultura più tradizionale: i torinesi, il partito d’azione, molte brave persone e molti pensosi intellettuali cattolici che furono messi in una specie di riserva indiana, mentre la televisione bruciava le tappe di una socializzazione di massa. La televisione, quindi, complessivamente ha in Italia e in tutto il mondo un effetto di sostituzione totale rispetto alla funzione familiare della radio. La radio, come una moglie abbandonata, si deve “rifare una vita”, e ci riesce con una certa brillantezza. Grazie anche a innovazioni che la rendono portatile ed estremamente economica, in America diventa un mezzo giovanile, che si allea con la musica prima con l’avvento del rock e poi con la musica leggera degli anni Sessanta e Settanta. Senza questo passaggio non si capisce lo spostamento della radio verso i giovani. La radio diventa un medium personale, non familiare, il primo di essi, mentre la tv non è ancora mai riuscita a compiere questo salto. La radio diventa qualcosa che sta in tasca, che pesa poco, che si porta con sé. La Sony chiese ai progettisti che il suo primo modello di largo smercio in America, la T 55, potesse stare nel taschino della camicia, come un pacchetto di sigarette. Siamo quindi in presenza di un marketing molto sapiente. La radio così si trasforma, abbandona funzioni precedenti per diventare un’altra cosa, prima di tutto in America dove diventa il rock medium cioè il medium del rock. In Italia e in Europa questa trasformazione è più lenta perché in Europa c’è il servizio pubblico, più legato ad una funzione mainstream, di collegamento con i valori centrali della società anche per via della propria filiazione politica. Il servizio pubblico che interpretò meglio questi cambiamenti non fu la Rai ma fu la BBC, la quale consegnò con coraggio BBC 1 (come dire Rai Radio 2) alla musica giovanile. Come? Arruolando i protagonisti delle radio pirata, illegali, che diffondevano la musica al largo delle coste britanniche: i famosi disc jockey, professione di cui prima nessuno alla BBC conosceva l’esistenza ma che era ben nota nelle discoteche. Arruolando in massa gli animatori della radiofonia pirata e facendo di BBC 1 il centro di irradiazione del pop inglese dei Beatles

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nicative di piccoli gruppi o di individui che ritroveremo più volte nella storia della radio, e corrisponde ad una bassa soglia di accesso a una tecnologia complessivamente facile e poco costosa. Qualcosa di simile, nelle proporzioni infinitamente minori del tempo, al “popolo di Internet” nella seconda metà degli anni Novanta. Da questo uso amatoriale, che si compiace di mandare in onda concerti, discorsi, comizi, canzoni, nasce il broadcasting, cioè la trasmissione (non più radiotelegrafica) di un contenuto audio da parte di un apparecchio assai potente a una molteplicità di apparati semplificati (solo riceventi) sotto l’unica condizione che essi si trovino nell’area di ricezione della trasmissione. Questo broadcasting, commerciale negli Stati Uniti, pubblico in Europa, modificherà presto le funzioni domestiche perché, entrando nelle case e collocandosi nella vita familiare quotidiana, diventerà il primo strumento di intrattenimento domestico continuamente rifornito dall’esterno, la prima corposa alternativa alle forme di intrattenimento che richiedono di uscire. Questi sono i cosiddetti “radio days”, quella radio degli anni Trenta e Quaranta a cui si riferiscono complessivamente i lavori della giornata di ieri, e che sostanzialmente vede una fruizione della radio con caratteristiche analoghe a quelle con cui oggi vediamo la televisione, ossia una fruizione familiare oppure un ascolto collettivo per necessità, perché non si ha l’apparecchio radio o perché c’è un regime autoritario che impone un rito collettivo di fruizione politica dei mezzi di comunicazione. Un ricordo glorioso, ma una radio che non esiste più. Infatti questo tipo di radio (di uso sociale del mezzo radio) sarà totalmente travolto dalla televisione, che la sostituirà integralmente in tutto il mondo, in un processo che in Italia si colloca fra la seconda metà degli anni Cinquanta e gli anni Settanta. Le statistiche Doxa dell’epoca sul passaggio dalla radio alla televisione (naturalmente la Rai era il committente) sono addirittura brutali, quanto ad effetto di sostituzione della tv nelle funzioni che prima aveva avuto, in famiglia, la radio. La televisione si mostrava come un apparato della modernità e del benessere rispetto ad una certa vecchiezza della radio su cui l’uso della radio in tempo di guerra (i bombardamenti, i bollettini di guerra, Radio Londra) aveva lasciato un ricordo indelebile e complessivamente penoso. Dunque la televisione è connessa all’avvento della modernità e ad un certo edonismo di massa che a essa è collegato. Per questo,

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perché tutti appartengono alla stessa nicchia culturale e la comunicazione è sorretta da una simpateticità dell’enunciazione. Il telefono permette in radio una bidirezionalità straordinaria, che supera l’unidirezionalità della comunicazione di massa e semplifica molto la produzione perché permette di fare cronaca, di fare giornalismo, di fare testimonianza, di aggiornare le notizie, di comunicare con la radio anche muniti semplicemente di un telefono. Quando poi questo telefono diventa un cellulare, e prima ancora dell’arrivo di Internet, noi abbiamo la possibilità di fare la radiocronaca di un evento pubblico, anche complesso e cruento come i fatti di Genova, semplicemente parlando dentro un cellulare, senza gli ingombri tecnici delle telecamere. Senza le tecniche intrusive della televisione, senza la pericolosità televisiva, senza la capacità della televisione di modificare radicalmente gli eventi a cui prende parte. Internet potenzierà al massimo facoltà già presenti nell’imprinting della radio, e in particolare permetterà alla trasmissione radiofonica di superare lo spazio, essendo ricevibile in streaming in tutto il mondo in tempo reale, ben al di fuori dell’area di ricezione di una emittente. In questa terza generazione radiofonica, multimediale, alleata di Internet, ibridata con i media personali, c’è un prepotente ritorno dell’oralità. Studiosi come Walter Ong hanno parlato di una prima oralità, che poi viene cancellata dall’avvento della scrittura, dalla mente che sopravanza la memoria, dalla razionalità del leggere e dell’organizzare la sintassi contro la paratassi. Ci rendiamo conto che la radio rappresenta una terza oralità, dove la parola non è più l’emanazione di uno scritto ma è qualcosa di più: è un testo nuovamente orale. In qualche modo riprende quelle tecniche formulaiche proprie delle società primitive. Se ricordate Lupo solitario, il famoso disc jockey e intrattenitore radiofonico di American Graffiti (che interpreta se stesso), vi renderete conto che egli parla come lo stregone di una tribù primitiva. Dunque la radio è molto interessante dal punto di vista linguistico perché è un consistente esempio (forse il corpus più ampio, oggi) di oralità senza scrittura. Una terza oralità, vicina alla musica, ma senza scrittura, a cui sembra devoluta una funzione empatica nella razionalità che è il pensiero unico della modernità. Le radio sono degli intarsi dell’emozione dentro la razionalità contemporanea.

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e dei Rolling Stones. Probabilmente la “copertura” radiofonica è stato un elemento essenziale nella diffusione mondiale del pop inglese. La Rai invece, si è limitata a trasmissioni per i giovani, spesso ben fatte, ma c’era l’idea del flusso che è prepotente nella radio musicale. Per avere questo passaggio in Italia dobbiamo aspettare Radio Montecarlo e poi la radiofonia privata. La radio dunque cambia totalmente veste e ruolo sociale e viene anche liberata dalle responsabilità di dover rappresentare l’ufficialità, che passano integralmente alla tv. Svincolata dal peso di dover essere la memoria del suo tempo, diventa un mezzo molto più agile, interstiziale, molto più discusso e discutibile. Questa è sicuramente la seconda generazione della radio: come vedete non ho considerato la radiotelegrafia, altrimenti le generazioni sarebbero addirittura quattro. In questa seconda generazione la radio è mezzo non domestico ma personale, che nel suo comparto commerciale è soprattutto mezzo della musica, mentre è esclusivamente radio parlata nelle radio politiche e nelle radio comunitarie. E questa è la radio degli anni Settanta, Ottanta e di parte dei Novanta. Questa seconda generazione però ormai è totalmente sostituita. La radio non solo adesso la tieni in tasca, la radio la puoi cucire nel bavero della giacca, la radio può non esserci, la puoi far diventare un simulacro, una icona sulla schermata di un computer, qui c’è un suo deperimento fisico ma una straordinaria vitalità, un continuo ibridarsi, un continuo cambiare. Nel corpo di questa seconda generazione della radio sono avvenuti fenomeni che hanno predisposto la radio all’incontro con i nuovi media, molto più della sua ricca e statica sorella televisione. La congiunzione della radio con il telefono è molto più felice di quanto sia in tv perché è molto più paritaria (anche se non è ovviamente paritaria al 100%), e permette flussi di un intensità che può essere molto forte. In questo suo scarico di responsabilità sociale, in questo suo diventare giovanile, la radio diventa un medium di nicchia. La radio non è più un medium di massa. Il mezzo si scompone in una elevata articolazione di radio piccole grandi e medie in cui ciascun ascoltatore, senza zapping, fa le proprie scelte. Tra ascoltatori di una emittente siamo membri della stessa nicchia; tra i tifosi di una determinata squadra che parlano in trasmissione con i capi della loro tifoseria della loro squadra c’è uno scambio intensissimo,

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2. I momenti esplosivi Gli anni Settanta, in Italia come in buona parte d’Europa, si aprono seguendo due tendenze solo apparentemente antitetiche: continuità e rottura col decennio precedente. Il tasso di scolarità cresce in maniera impressionante ma contemporaneamente la domanda di lavoro supera l’offerta, evidenziando le prime difficoltà strutturali del mercato italiano. In questo periodo –come abbiamo già notato altrove (Sorice, 2001)– si riallocano le spese per i consumi culturali in un quadro d’insieme sostanzialmente stabile: in questa situazione è la musica a mostrare segnali di progresso, evidenziando anche un cambiamento nel suo stile di fruizione: alla diminuzione dell’interesse (e delle spese) per il juke-box si accom-

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pagna un incremento del mercato fonodiscografico. Come per la televisione è la fruizione collettiva ridotta che viene abbandonata, in favore di due stili che reciprocamente si rafforzano: a) l’ascolto personale domestico e b) la partecipazione ai concerti di musica pop (dai cantautori al rock e alle altre forme espressive), che si avviano a diventare gradualmente veri e propri eventi mediali. Se la protagonista del decennio è ancora la televisione2 –che passa da 9 milioni e mezzo di abbonati agli oltre 13 del 1980– il vero fatto nuovo è costituito dalla fine del monopolio radiotelevisivo. Uno dei suoi portati (al tempo stesso causa ed effetto del mutato clima sociale) è costituito dal mutamento nella percezione collettiva degli italiani: la radio gioca un nuovo ruolo e mostra tutte le sue potenzialità. La radio, anzi le molte e diverse radio indipendenti (che, significativamente, verranno subito definite “libere”, in contrapposizione alla radiofonia della Rai, percepita come troppo legata al potere politico e troppo ingessata nello stile e nella programmazione) troveranno un primo punto di forza proprio nel carattere trasgressivo e “locale”. La radio diventa così “local medium” ma è già pronta ad evolversi in glocal medium3. La vecchia radio che resisteva con fatica, e apparentemente immutabile dai tempi dell’Eiar (anche se numerose erano state le innovazioni di linguaggio) attiva un processo che porterà in brevissimo tempo alla destrutturazione del sistema radiotelevisivo nazionale4. Le prime esperienze di radio libere nascono quasi clandestinamente e senza eccessivi clamori. I protagonisti non ricercano la qualità tecnica, come era stato nel periodo pionieristico dell’Uri, bensì la possibilità di aprire nuovi spazi di libertà d’espressione. E così nel 1970 è Danilo Dolci a trasmettere dalla valle del Belice con la sua Radio Sicilia Libera. Un esperimento dichiaratamente illegale, voluto più per richiamare l’attenzione sul problema della libertà dei media che non per avviare nuovi processi produttivi: Radio Sicilia Libera verrà spenta, rapidamente, per intervento delle forze dell’ordine. Quello di Dolci, però, non è un fenomeno isolato: in pochi anni, infatti, fioriscono le iniziative, contrastate dall’Escopost (l’organismo delle Ministero delle Poste per il controllo delle trasmissioni via etere) ma spesso legittimate dai provvedimenti di diversi pretori. È il caso di Radio Milano International che si vede sequestrare gli impianti, poi restituiti grazie a un provvedimento pretorile di Milano che, fra l’altro, ne legittima il diritto a trasmet-

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michele sorice glocal medium

1. Introduzione La radio deve gran parte del suo rinnovato successo ad alcune sue caratteristiche: facile trasportabilità, facilità d’uso, ricchezza e poliedricità della programmazione. Inoltre essa assolve a diverse funzioni fra cui –l’ha lucidamente messo in evidenza Enrico Menduni (2001)– una forte capacità connettiva e una spiccata funzionalità identitaria. Se la radio sa essere al tempo stesso strumento di connessione e luogo di riconoscimento delle identità sociali, lo si deve al suo particolare ancoraggio con lo spazio. La radio, infatti, è al tempo stesso idonea a superare ostacoli (persino, grazie alla tecnologia, quelli derivanti dalla natura del territorio) ma anche a definire con precisione un territorio ibrido: il bacino d’utenza è, in effetti, spazio fisico e non-luogo identitario. In una radio ci si riconosce perché segna un territorio e definisce i contorni di identità plurali: contorni, è ovvio, sfumati, imprecisi, incerti ma non per questo meno evidenti. Nel tempo della globalizzazione dei media, la radio si connota decisamente come glocal medium, ammesso –lo avevamo già affermato circa un anno fa (Sorice, 2002)– che la nozione di “medium” possa ancora avere –e ne dubito– validità e statuto teorico. Per parlare del carattere “glocal” della radio, comunque, è necessario segnalare alcuni momenti dello sviluppo storico della radiofonia “locale”; momenti che si connotano come tournant epocali o, se si preferisce, svolgono una vera e propria funzione “esplosiva”1.

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tere. Con Radio Milano International si è soliti –nella tradizione di studi sull’industria culturale italiana– far iniziare la cosiddetta stagione dei “cento fiori”5: sono tante, infatti, le coloriture, non solo ideologiche ma anche relative alla programmazione e agli stili produttivi e trasmissivi, delle nuove radio libere. Il successo, comunque, è determinato da almeno tre fattori che marciano paralleli: a) un forte consenso sociale che legittima un uso diverso del medium radiofonico: personalista, interlocutivo, simulacrale, pur all’interno di una modalità organizzativa ancora centrata sul broadcasting; b) una programmazione tendenzialmente di flusso che destruttura la tradizione del palinsesto, ottenendo un riconoscimento di pubblico nella dimensione dell’incremento dell’accesso democratico alla vita sociale; c) lo sviluppo degli investimenti pubblicitari in ambito locale che consentono la nascita di un mercato –prima inesistente– accessibile anche ad operatori medio-piccoli6. È significativo che già nel 1977 gli investimenti pubblicitari locali rappresentino quasi un terzo del fatturato del settore radiofonico. In quell’anno le stazioni radiofoniche censite sono già quasi mille.

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Capoluoghi Altre località

Nord 216 255

% 45,86 54,14

Totale

471

100

Tab. 1

Centro % Sud/Isole % 108 54,54 122 45,35 90 45,46 147 54,65 198

100

269

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Distribuzione stazioni radiofoniche in Italia nel 1977 Fonte: S. Trasatti, Geografia delle radio locali

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Italia 446 492

% 47,55 52,45

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Di queste, oltre il 28% sono localizzate nell’Italia meridionale e insulare: minoranza, certo, ma dato significativo (più alto di quello del Centro Italia dove pure si trova la realtà propulsiva di Roma). La radio diventa subito un luogo privilegiato per lo sviluppo delle identità meridionali e per il bisogno di libertà e democrazia che attraversa le regioni troppo a lungo abbandonate del Sud del Paese.

Dalla tabella 1, insomma, è immediatamente evidenziabile una delle tendenze peculiari dello sviluppo della radiofonia in Italia negli anni Settanta: nascono e si sviluppano stazioni collocate anche in zone tradizionalmente escluse dalla diffusione di massa della comunicazione7. Non è casuale che un’altra tendenza fosse rappresentata dall’evoluzione di stazioni radiofoniche dichiaratamente “antagoniste”: i movimenti di opposizione più marginali rispetto al potere politico trovano nella radio lo strumento tattico per accedere al sistema dell’informazione, dal quale erano stati tradizionalmente esclusi. Se per un lungo periodo convivono radio fortemente “politicizzate” ed emittenti che privilegiano l’offerta di musica8, sono però queste ultime ad avere il sopravvento e innestare articolati processi di cambiamento nel mercato dei media. Il variegato mondo della radiofonia libera –sia quello delle emittenti più “politiche” sia quello delle stazioni con una più evidente vocazione commerciale– rappresentano un importante elemento di unificazione e di riconoscimento di identità nazionale. Alla metà degli anni Settanta, infatti, il Paese è insanguinato dal terrorismo e sono proprio le radio libere a dare informazioni, ad attivare reti di conoscenza e sensibilizzazione, a definire processi di costruzione di identità, spesso proprio a partire dal consumo musicale9. Uno degli elementi centrali di questo periodo è costituito dalla trasformazione dei palinsesti: quelli rigidi e strutturati –tipici delle radio “statali”– diventano i clock fluidi e dinamici delle radio libere. La radio scopre il “flusso”, il broadcasting si evolve verso il narrowcasting. È significativo che la teoria della comunicazione fatichi non poco a stare dietro alla radio. Le teorie della comunicazione, infatti, dalla fine degli anni Cinquanta in poi sono tutte elaborate, studiate e applicate sulla televisione o, per quelle più recenti, sul computer (Sorice, 2000). La radio è sostanzialmente assente, al punto che anche nella migliore manualistica si parla di sistema “radiotelevisivo”, come se radio e televisione fossero la stessa cosa. Ma, ovviamente, non è così. Persino il broadcasting radiofonico è diverso da quello televisivo, sorta di area ibrida fra la comunicazione uno-molti e quella punto-punto della telefonia cellulare10. E d’altra parte la radio, almeno dall’invenzione del transistor, è diventata oggetto nomade (Flichy, 1994), che segue il suo fruitore quasi diventandone una protesi sensoriale11, un “medium” realmente glocal.

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4. Da local a glocal Con le radio libere degli anni Settanta e poi con il vasto movimento che porta –con lunghe e profonde trasformazioni– al panorama radiofonico di questi ultimi anni, giunge a compimento l’intuizione di Arnheim del 1933: “l’ascoltatore può attraversare lo spazio anche da solo invece di farsi guidare dalle direttive di un artista. Egli può, con il suo apparecchio, passare in fretta da una stazione all’altra, può abbandonarsi completamente all’ebbrezza della vastità e molteplicità della vita terrena oppure può trarre dai numerosi programmi del momento ciò che gli piace per costruirsi con questi prodotti di tutto il mondo un suo montaggio soggettivo”. Se è negli anni Settanta che nasce, è con la radiofonia degli anni Novanta e di questo inizio di secolo che l’esperienza del montaggio soggettivo diventa la modalità attraverso la quale la radio modifica e trasforma i processi comunicativi. “La comunicazione per flusso avviata dalla radio trasforma i processi di massificazione e di socializzazione in senso orizzontale e quotidiano: offre ai suoi fruitori non più degli ideali lontani o dei criteri astratti, ma veri e propri modelli di cultura” (Abruzzese, 2001). Come dire, parafrasando Alberto Abruzzese, che la radio di flusso definisce modelli di azione e di comportamento e gioca un ruolo non secondario nella costruzione delle identità collettive. La radio, possiamo ancora affermare, si pone come elemento attivatore di nuove soggettività, spesso in funzione di bisogni sociali inespressi e di spinte antagoniste. In questo quadro, la radio –diventando, come aveva intuito Flichy, oggetto nomade– attiva un processo di ipertrofia dei non-luoghi. In altri termini, la radio diventa “oggetto culturale” al tempo stesso locale e globale –glocal appunto– ponendosi contemporaneamente dentro e fuori le cornici di rappresentazione mediatica della società. La nuova radio glocal spezza le cornici, mescola il dentro e il fuori della realtà sociale e mediatica. Casi estremamente interessanti di radio intese come glocal media sono quelli delle cosiddette radio di movimento. Da Radio Alice a Radio Gap di tempo ne è passato, e con esso sono cambiati i linguaggi, le competenze, le strutture produttive, persino le strategie di fidelizzazione del pubblico. Rimane tuttavia invariata la dimensione al tempo stesso globale e locale del fenomeno. È evidente, infatti, che le radio vicine al movimento “new global”15 si

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3. La radio al margine della cultura Per tutto il periodo che va dal 1970 all’inizio degli anni Ottanta, il consenso sociale alla radiofonia “libera” cresce in maniera decisa. Non si tratta di un consenso che investe solo le stazioni “alternative” con una forte e marcata connotazione politica ma anche –e soprattutto– quelle che stavano procedendo, anche a loro insaputa, allo “svecchiamento” del mercato fonografico nazionale. Il successo di alcuni generi di nicchia fu di grande portata, un fenomeno solo apparentemente paradossale rispetto alla difficoltà del mercato fonodiscografico interno. In realtà si spiega molto facilmente ricorrendo –come abbiamo già avuto modo di fare (Sorice, 2002b)– al concetto di “margine” dell’industria culturale12. I fenomeni “local” e il successo di generi musicali e di programmazione “di nicchia” si spiegano all’interno di un tessuto connettivo profondo nel quale i contenuti originariamente esterni ai circuiti tradizionali di successo vengono assorbiti per prossimità dalla produzione culturale, poiché essi appartengono comunque a identità culturali e di consumo molto vicine ai fruitori potenziali previsti e promossi dalla stessa industria culturale. L’applicazione del modello del diamante culturale di Wendy Griswold (1997) –meglio ancora nella variante che ne ha recentemente proposto Fausto Colombo (2001)– è molto efficace per comprendere il successo e i meccanismi processuali della radiofonia italiana –soprattutto quella “libera”– dagli anni Settanta a oggi. E, più generalmente, per individuare le linee di sviluppo del medium radiofonico all’interno dell’industria culturale italiana13. La radio si situa nell’industria culturale nazionale fra assorbimento e interdizione, sospesa fra spinte omologatrici e improvvisi impeti rivoluzionari. Un caso evidente di “assorbimento” è rappresentato proprio dalle radio libere e locali: di origine esterna al sistema ma con un alto grado di compatibilità col sistema stesso (si pensi alle convergenze e alle sovrapposizioni con alcuni segmenti dell’industria fonografica da un lato e di quella dell’informazione dall’altro), esse si posero –e ancora spesso si pongono– come coagenti di cambiamento del/nel gusto musicale14. Nonché mezzi tecnologici “dalla parte del pubblico”, svolgendo un ruolo di vera e propria rappresentanza sociale, spesso di tipo identitario, come rilevato anche di recente nel caso delle emittenti “di movimento”.

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connotano forse più di altre come espressioni “glocali”, capaci di definire forme ibride di identità, fondate al tempo stesso su fenomeni di identificazione e di individuazione16. La radio, come in parte aveva fatto la tv pedagogica dell’era Bernabei (ma in una prospettiva completamente diversa) definisce nuove modalità di connessione identitaria: da un lato le dinamiche di identificazione che consentono la crescita del senso di appartenenza dei pubblici, dall’altro i fenomeni di individuazione che permettono lo sviluppo di un consumo sempre più personalista. Dentro questo doppio movimento, che conduce anche istanze marginali al centro della produzione culturale, si sviluppa e si articola la presenza della radio oggi: sempre meno “medium” e sempre più “glocal”.

Note

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La nozione di “processi esplosivi” è stata concettualizzata più volte da Lotman (1993; 1994) che, analizzando modelli di cultura, identificava la radice delle situazioni prevedibili nei processi ciclici e graduali mentre “la novità è il risultato di situazioni imprevedibili per principio (…) Il momento dell’esplosione interrompe la catena delle cause e degli effetti e proietta in superficie uno spazio di eventi parimenti probabili di cui è impossibile per principio dire quale si realizzerà” (Lotman, 1994, p.35). Un’applicazione dei concetti lotmaniani di “esplosione” e “implosione” nell’analisi della produzione culturale in Sorice 1998b. 2 Trasformazioni nella programmazione, cambiamento negli stili di conduzione delle trasmissioni d’intrattenimento, liberalizzazione dei costumi costituiscono gli aspetti più innovativi del periodo. 3 Ho già avuto modo di notare l’inadeguatezza concettuale del termine “medium”, che qui, comunque, viene usato con particolare riferimento “ampio” a un periodo storico e a funzioni specifiche della radio. A proposito del concetto di “medium” mi si permetta di citare quanto già affermato in un convegno a Siena, nel 2001: “ Come per qualunque apparato produttivo e linguaggio dell’industria culturale, la radio non può essere studiata al di fuori di una rete di connessioni strettissime che costituiscono e definiscono l’immaginario collettivo. La radio non è semplicemente un medium (la stessa nozione di “medium” non è sufficiente all’analisi dei “fatti mediali”). Il medium, inoltre, non può essere considerato un oggetto teorico, pena la stessa legittimità scientifica della “mediologia” (che, dunque, non è la scienza dei media ma quella che studia i processi mediali, le dinamiche produttive e le modalità di fruizione dei prodotti culturali). La radio non è semplicemente un linguaggio, non è solo un apparato produttivo e non è nemmeno l’insieme delle teorie che la rappresentano; la radio, come d’altra parte la televisione, il cinema, il fumetto, l’esperienza letteraria, il 1

teatro, i videogiochi, è essenzialmente un processo. Si tratta, naturalmente, di un processo articolato, complesso e multidimensionale che coinvolge attività creative, routines produttive, meccanismi di standardizzazione, apparati tecnici, innovazioni tecnologiche, modalità organizzative dell’offerta, stili e comportamenti di fruizione. La radio, in sostanza, è prima di tutto un “fatto sociale”: e se il termine “medium” ne spiegava benissimo l’essenza fino alle importanti elaborazioni di McLuhan, oggi esso appare inadeguato, riduttivo e teoricamente discutibile”. 4 Molte delle elaborazioni di questa parte sono già state condotte in Sorice 2001. 5 In realtà già erano sorte altre iniziative: Radio Sicilia Libera aveva iniziato a trasmettere nel 1970 e poi subito spenta; nel novembre 1974 era nata Radio Bologna e nel gennaio 1975 Radio Parma (quindi due mesi prima di Radio Milano International). Secondo Aldo Grasso (2000) l’alternatività al sistema pubblico inizia realmente con la nascita di Canale 96, iniziativa politicamente orientata promossa dalla Cooperativa Culturale Sempione di Milano. Bisogna, peraltro, segnalare il valore simbolico che assunse a Bologna Radio Alice, guida e punto di coordinamento per le rivolte studentesche del 1976, e poi il consorzio che raggruppava le emittenti con un impegno politico di tipo “democratico” (Fred, Federazione Radio Emittenti Democratiche) che, schiacciato dal successo delle stazioni commerciali e “musicali”, si dissolse in breve tempo. 6 Si noti che un processo simile si era avviato negli anni Venti negli Usa, quando la libertà d’antenna precedente al Radio Act del febbraio 1927 determinò dapprima lo sviluppo di mercati locali e successivamente la nascita di network che adottavano forme di programmazione “a finestra” (che quindi garantivano la conservazione di tali mercati locali). 7 I costi di impianto e gestione della radio sono, come è noto, più contenuti di quelli di altri media. C’è da notare tuttavia che molte emittenti meridionali stentano a consolidarsi e presentano spesso vite medie estremamente brevi. 8 Accanto, ovviamente, a emittenti di impostazione prevalentemente “culturale” che, però, non riuscirono mai realmente a imporsi. 9 Per l’importante discussione sul ruolo del clock e delle radio “pirata” inglesi sul cambiamento europeo della radiofonia si rimanda a Menduni 2001 e a Sorice 2001. 10 Non è casuale che nell’immaginario tecnologico di inizio Novecento la radio venga tematizzata come uno strumento per la comunicazione punto-punto: nelle riviste dell’epoca, infatti, la rappresentazione avveniristica del nuovo mezzo è quella di un ingombrante ma funzionale “telefono” che avrebbe dovuto permettere di parlarsi a distanza senza dover sopportare la tirannia del filo (Cfr. Jeanneney, 1996). 11 Con la radio degli anni Settanta l’elaborazione concettuale di McLuhan torna paradossalmente attuale. 12 “Per “margine” dell’industria culturale intendiamo dunque una zona che non è di per sé né interna né esterna, ma che costituisce una riserva di possibile avanzata o arretramento” (Colombo, 2001, p.20). 13 Per un’analisi più approfondita di tale questione ci permettiamo di rimandare a Sorice 2002, oltre che al già citato saggio di Fausto Colombo. 14 “Esemplare è il caso del cambio del gusto musicale che non fu affatto trai-

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nato dalla grande discografia, ma semmai –viceversa– trascinò con sé e guidò i mutamenti della canzone italiana” (Colombo, 2001, p.33). 15 Per una prima ricognizione a più voci sulle diverse questioni intorno ai movimenti new global, cfr. Di Sisto - Zoratti 2002. 16 Con il concetto di identificazione si intende l’assunzione di caratteri socialmente riconosciuti che fa dell’individuo un appartenente al sociale mentre con il termine individuazione si intende la differenza da altri che fa dell’individuo un “unicum”.

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Riferimenti bibliografici A. Abruzzese, L’intelligenza del mondo, Meltemi, Roma 2001. R. Arnheim, 1936, La radio, l’arte dell’ascolto, Editori Riuniti, Roma 1987. F. Colombo, L. Farinotti, F. Pasquali, I margini della cultura. Media e innovazione, Franco Angeli, Milano 2001. M. Di Sisto - A. Zoratti, Europa in movimento, Fratelli Frilli Editori, Genova 2002. P. Flichy, Storia della comunicazione moderna, Baskerville, Bologna 1994. A. Grasso, Radio e televisione. Teorie, analisi, storie, esercizi, Vita & Pensiero, Milano 2000. J. N. Jeanneney, Storia dei media, Editori Riuniti, Roma 1996. J. M. Lotman, La cultura e l’esplosione, Feltrinelli, Milano 1993. J. M. Lotman, Cercare la strada, Marsilio, Venezia 1994. E. Menduni, Il mondo della radio, Il Mulino, Bologna 2001. E. Menduni, (a cura di), La radio, Baskerville, Bologna 2002. M. Sorice, L’esplosione dei paradigmi. Modelli comunicativi e dinamiche di consumo nel nuovo scenario mediale, in Morcellini - Sorice, Futuri immaginari, Logica University Press, Roma 1998. M. Sorice, Le comunicazioni di massa. Storia, teorie, tecniche, Editori Riuniti, Roma 2000. M. Sorice, Radio Days in the ‘70s, in Gli anni delle cose, numero monografico di “Comunicazioni Sociali”, n. 1, a. XXIII n.s., Vita & Pensiero - Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano 2001. M. Sorice, La radio nell’industria culturale italiana, in Menduni 2002.

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antonio bottiglieri radio & regioni

Avevo telefonato al mio amico Alberto Abruzzese per definire un appuntamento necessario ad un progetto pensato sul futuro della radio: un progetto pensato soprattutto per favorire e consolidare il rapporto tra la radio e le nuove generazioni. Nel mio progetto c’è un riferimento preciso alla possibile collaborazione tra la radio, le radio e soprattutto la RAI con i vari corsi di laurea in Scienze della Comunicazione. Potrei dire che Abruzzese mi ha dato appuntamento qui a Lecce, all’Università di Lecce, nel senso, cioè, che proprio da quella telefonata ha avuto evidentemente origine l’invito a me ed alla divisione radiofonia della RAI a partecipare a questo seminario. Voglio dire, dopo avere fin qui seguito i lavori del Seminario, che effettivamente non c’era posto migliore per riflettere sul futuro della radio. Il mio contributo ai vostri lavori, a questo punto, penso dunque che possa essere proprio una sintesi rapidissima di quanto avrei detto al Prof. Alberto Abruzzese per illustrargli la proposta. Prima però non voglio sfuggire alla “domanda-protesta” del Prof. Semeraro. A proposito del recente cambio di direttore –e ad avviso dello stesso professore Semeraro– anche di palinsesto di RADIO TRE, mi viene rivolta una domanda che correttamente può essere solo indirizzata al Direttore Generale ed al Consiglio di Amministrazione della RAI. I dirigenti della Divisione Radiofonia, infatti, rappresentano, almeno nell’organizzazione dell’ Azienda che fu avviata dalla direzione Celli, un tentativo di separare segmenti della RAI per meglio fissare le autonomie strategiche e, quindi, di bilancio. Ma le divisioni ovviamente non incidono sulle scelte editoriali dei direttori di rete. Né tanto meno sulle nomine dei Direttori stessi. Per queste ragioni non posso certamente rispondere sulla nomina del nuovo Direttore di RadioTre. Oltre tutto sincera e convinta è la mia stima per il valore professionale sia di Roberta Carlotto che di Sergio Valzania. Forse –ma non sono io a doverne parlare– ci sarebbe da dire

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Antonio Ghirelli su Radio Napoli, pensavo alla difficoltà di ritrovare non soltanto le registrazioni del passato più lontano, ma anche di quello più recente, perché tutta la programmazione regionale è stata condannata ed è stata in buona parte distrutta. Una delle leggi di pubblica sicurezza impone a chiunque, anche ad una parrocchia sperduta di un paese lontano che stampa un giornaletto periodico, di consegnarne tre copie in Questura. Una delle tre copie arriva alla Biblioteca nazionale di Firenze, per cui è forse sempre possibile rintracciare qualcosa realizzata con la carta stampata. Curiosamente della radio, da quando esiste, non c’è stato un archivio ed è davvero difficilissimo recuperare la sua storia. Eppure c’è un patrimonio di voci e di musiche che, ritrovate, rappresenterebbero sicuramente materiale prezioso. Oltre tutto le tecnologie oggi consentono di utilizzare al meglio anche registrazioni malridotte. È un lavoro non solo di archivio, ma anche di organizzazione delle nuove produzioni. Devo dire che la divisione Radiofonia della RAI sta facendo in questa direzione alcune cose importanti. Mi piace citare tra tutte “l’archivio sonoro della canzone napoletana”. Lo faccio non perché è stata una mia idea, ma perché il lavoro di Paquito del Bosco (curatore e direttore artistico dell’archivio) ha già raggiunto risultati importanti: 10.000 titoli catalogati. 10.000 brani restaurati ed ascoltabili presso il Centro RAI di Napoli, dove tecnici e consulenti hanno ritrovato non solo la radio di ieri, ma il piacere di fare radio oggi. È uno sforzo della Divisione Radiofonia della RAI. È un lavoro del centro RAI di Napoli. È un impegno della Regione Campania, della Provincia e del Comune di Napoli. C’è, infatti, in corso di approvazione, una convenzione tra la RAI e questi Enti. Sarà possibile a tutti (curiosi, appassionati, studiosi) digitare qualsiasi titolo ed ascoltare non solo interpreti noti, ma anche cantanti e gruppi italiani e stranieri di cui non si conosce e non si sospetta l’esecuzione di brani napoletani. Insomma tutto quello che c’è, che c’era –e non si conosceva o che era in condizioni di inascoltabilità– e che ci sarà della canzone napoletana, sarà nell’Archivio che si sta realizzando a Napoli. Devo dire che proprio il percorso appena avviato dell’archivio sonoro della Canzone Napoletana, rivela la difficoltà nel reperimento del materiale sonoro e anche di quello cartaceo di supporto al lavoro della radio.

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qualcosa sul ritorno ad un unico direttore di due reti radiofoniche, che finalmente erano state separate. Il discorso sarebbe lungo perché sarebbe necessario considerare le specificità di ogni rete. In altre parole sarebbe importante anche fissare obiettivi e target diversi per ogni rete. In questo senso mi pare interessante quello che ha detto proprio Sergio Valzania, confermato direttore di RADIO DUE e neo direttore di RADIO TRE, in una recentissima intervista al quotidiano “La Stampa”. Valzania si chiede se fra quelle trasmissioni, recentemente cancellate dal palinsesto di RADIO TRE non ci fossero molte rimaste da troppo tempo nello stesso palinsesto, tanto da essere definite “collaudate”, ma più probabilmente invecchiate insieme con il pubblico. In altre parole Valzania mi è sembrato preoccupato di avere sempre lo stesso pubblico, e soprattutto un pubblico sempre più anziano, mentre lui vuole trovare nuovo pubblico per la radio. Ed ha ragione. Questo è un problema serio, perché da quelle disordinate rilevazioni di ascolto della radio (anche la rilevazione è uno dei temi di cui ci si dovrebbe preoccupare per smontare finalmente il sistema “audiradio”, che è un sistema primordiale), emerge il dato di un pubblico RAI che rispetto a quello di altre radio è il “meno giovane”. La questione dell’AUDIRADIO, come accennavo, è un altro paragrafo dello stesso capitolo dedicato al “futuro della radio”. Non appare certamente interessante invocare per la radio il sistema AUDITEL, ma è certamente da rivedere l’attuale sistema di rilevazione degli ascolti radiofonici. Ed è soprattutto necessario ritrovare e valorizzare appieno la specificità del mezzo, utilizzando per questo anche le nuove tecnologie digitali. La radio richiede adesso non solo impegno e passione, ma anche nuove competenze e specializzazioni. Qui a Lecce siete riusciti brillantemente anche a collegare le prospettive della RADIO alla sua storia, soprattutto la storia del suo importante e forte rapporto con le popolazioni meridionali e con le più decisive vicende della storia del nostro mezzogiorno. La Storia della radio, la storia di Radio Palermo, di Radio Bari, la storia di Radio Napoli è stata, anche in questa occasione, ricostruita attraverso importanti testimonianze. E tuttavia mancano ancora pezzi significativi. Non tutto, come si sa, è stato rintracciato. Ascoltando il racconto della storia di Radio Bari, di Radio Palermo, della Radio in Sardegna e le cose che ha ricordato la lettera di

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non sia purtroppo difficile scoprire che nelle aziende audiovisive ci sono persone che non hanno ancora “scoperto” il mezzo che utilizzano. Ve ne accorgete, per esempio, quando vedete telegiornali realizzati con abuso di “immagini” di repertorio e di telefonate (coperte magari da fotografie) che determinano insopportabili “voci fuori campo”. Faccio questo esempio, ma ne potrei fare altri. Anche la regia televisiva spesso è guidata e distratta dalle parole del conduttore e non dalla giusta sequenza delle immagini. Insomma c’è il rischio evidente che si faccia radio con la televisione e che non si faccia bene la radio, che resta un mezzo importante e –come si evince anche dalle interessanti rilevazioni della indagine che il vostro corso di laurea ha effettuato a campione ed ha presentato in questo seminario– di grande interesse ed utilizzabilità per un pubblico dinamico, come quello giovanile. Ma anche il pubblico ovviamente, deve essere aiutato a crescere, e non soltanto numericamente. Ritorna qui –e chiudo– il progetto, del quale stiamo parlando con il Prof. Abruzzese: il collegamento da definire in termini di stabile e proficua collaborazione tra le sedi regionali della RAI ed i corsi di Laurea in Scienze della Comunicazione delle varie Università, pubbliche e private. Mi risulta che ormai i corsi superano in Italia il numero di 40 e sono, dunque, presenti in tutte le nostre regioni. Se la RAI dovrà trovare la strada del federalismo, in corrispondenza delle scelte politiche ed istituzionali del nostro Paese, dovrà saperlo fare, dovrà farlo correttamente, proficuamente e non solo –ancora una volta– (come successe con l’avvento delle regioni e, quindi, con la nascita delle sedi regionali), limitandosi quasi come ad una ubbidienza formale alle scelte della politica assolutamente slegata da un progetto produttivo. Bisogna, invece, subito avviare un’analisi attenta e predisporre le basi di questo progetto tra RAI ed Università. Credo che iniziare dalla radio sia più semplice e più giusto. Questo era, infatti, il discorso avviato con Abruzzese. L’ho fatto qui con lui e con voi. Continuiamolo insieme.

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A volte capita di trovare materiali Rai fuori dalla Rai, che qualcuno ha fortunatamente custodito altrove. Molto spesso a conservare materiale importante sono stati i tecnici. Questa considerazione invita a fare attenzione al ruolo dei tecnici, che rappresentavano insieme con tutto l’apparato tecnico della Rai, uno dei punti di forza e di competenza alta dell’azienda. Abbiamo in pochi anni fatto di tutto per distruggere questo patrimonio di competenza, di intelligenza, di esperienza. Dalla storia di Radio Bari, per esempio, emerge –come abbiamo ascoltato– che furono i tecnici Rai a difendere gli apparecchi per registrazione dalla distruzione dei tedeschi, addirittura nascondendoli. C’è bisogno a mio avviso di recuperare questo amore, questa competenza e questa presenza. Complessivamente c’è bisogno di recuperare una preparazione, una formazione, direi un’alta formazione del come fare comunicazione, del come fare radio. È un discorso che ovviamente riguarda e mette a centro il ruolo dei corsi di laurea in Scienze della Comunicazione. E non solo, ma anche i corsi DAMS, ed altre Facoltà universitarie, e corsi di alta formazione. Vorrei dire che abbiamo assistito in questi ultimi anni al nascere ed al moltiplicarsi di scuole, corsi, iniziative accademiche e non, centri pubblici e privati di qualità ed eccellenza. Ma non mi pare che si possa dire molto sul rapporto tra tutto questo e le Aziende che fanno comunicazione, in particolare la RAI, cresciuta ovviamente nella sua storia con professionalità fortunatamente e a volte fortunosamente acquisite sul campo. Faccio spesso un esempio che anche qui voglio ripetere. Chi nasce in una città di mare viene portato fin da piccolo alla spiaggia. Per questo, tutti (o quasi) gli abitanti delle città di mare ritengono di saper nuotare. Ma nessuno di loro ha ovviamente mai frequentato una scuola di nuoto. Potrebbe così scoprirsi che molti invece che nuotare sanno a stento galleggiare. I campioni di nuoto, quando manca la scuola, sono pochi. Potrebbe essere successo così per le figure professionali e manageriali necessarie anche alla RAI e alle altre aziende radio televisive. Ma adesso c’è necessità –come dicevo– di competenze e specializzazioni, per utilizzare al meglio le tecnologie, per rinnovare i contenuti. In questo senso si rende necessario un ricambio. Penso che

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stefano cristante radio & università

Vorrei sviluppare alcune semplici osservazioni dall’interno di questo convegno e delle sue tematiche.

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2. Esistono ancora oggi spazi in cui la radio ha una sua egemonia broadcasting –l’accompagnamento notturno di certe professioni addette alla sorveglianza– oppure addirittura un’esclusiva informativo-intrattenitiva –come in automobile. Ma sono spazi periferici. Oggi la radio non gioca più la propria battaglia sulla indispensabilità funzionale della (propria) informazione. Gli spazi che si prende –specie RadioTre, e soprattutto nella gestione Carlotto– sono spazi di approfondimento, di intensificazione colta, di raffinatezza conversativa. Oltre, naturalmente, al fondamentale recupero della funzione di scatola sonora, di music box, colonna sonora di parti non secondarie della giornata.

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4. È anche per questo –credo– che aumenta il numero delle emittenti che cercano un proprio spazio sul web. Ascoltare la radio in questo modo non è evidentemente come sintonizzarsi su una radio tradizionale (intanto occorre collegarsi, cioè pagare il dazio ai provider di telefonia fissa), ma i mezzi necessari alla produzione radiofonica ritornano essenziali, “poveri” come nelle prime radio libere di trent’anni fa. La direzione è chiara: fare radio è considerato ancora –almeno da alcuni– una scelta di libertà. Una libertà che consente anche operazioni di collegamento solidale tra esperimenti simili, come è successo a Radio Gap, circuito creato in occasione delle giornate anti-g8 a Genova 2001. Pur con il giusto plauso a talune di queste iniziative il nodo della radiofonia via etere resta da affrontare: un’imprenditoria meno disattenta alle risorse glocal dovrebbe pensare alla convenienza dello strumento radiofonico in quanto tale. Gli ascoltatori ci sono, e quando ci sono gli ascoltatori c’è anche la pubblicità. Ma in trop-

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1. La prima è sul ruolo della radio come mezzo informativo broadcasting “puro”. Nel 1938, come è arcinoto, il giovanissimo Orson Welles mandò in onda attraverso il network CBS una puntata eccezionale del suo Mercury Theatre: la trasposizione radiofonica della Guerra dei mondi del suo quasi omonimo H.G. Wells. I marziani arrivavano sulla Terra: era una fiction, tra l’altro annunciata ripetutamente prima della messa in onda e anche durante la trasmissione. Ma le tecniche utilizzate da Orson Welles furono tanto efficaci da risultare verosimili. Ne seguì la prima ondata di panico massmediatico storicamente conosciuto e, anche se una successiva indagine psico-sociologica dello studioso Hadley Cantril ne ridimensionò la portata, negli Stati Uniti si verificarono fughe scomposte dalle città, centralini intasati da cittadini terrorizzati, tentativi di suicidio e altre piccole catastrofi. Dal punto di vista della potenza del mezzo informativo, oggi la radio è distantissima dal medium che diffuse la Guerra dei mondi. Se qualcuno di noi avesse captato alla radio il drammatico resoconto degli attentati alle Twin Towers del settembre 2001, quasi certamente avrebbe fatto un gesto che all’epoca di Welles non era concepibile. Avrebbe immediatamente acceso il televisore. Lì è la cornice del nostro odierno verosimile. Lì è la potenza broadcasting per eccellenza.

3. L’organizzazione del flusso musicale radiofonico potrebbe anche non sembrare troppo modificata nel corso del tempo al semplice ascoltatore (in prevalenza giovane). Negli anni è cambiata la musica –certamente– ma non gli stili di conduzione, ammiccanti e “dedicati”. Ma se guardiamo alla produzione dei programmi è cambiato in realtà molto. Oggi le radio private sono molto distanti dai laboratori di effervescenza e di creatività inaugurati alla metà degli anni settanta. Per molte stagioni le radio sono state la voce di un movimento culturale che ha praticato uno svecchiamento dei contenuti ingessati delle radio di stato e una formidabile base d’appoggio per la formazione di giornalisti e dj capaci di far crescere un’audience non prevista dallo sviluppo dei media tradizionali (giornali in testa). Oggi in massima parte non è più così: il peso delle case discografiche è aumentato moltissimo, le scelte autonome dei dj si riducono a pochi brani nelle scalette già prenotate dalle major, la conduzione si avvale di software preformattati che assegnano tempi rigidissimi al parlato, il lavoro giornalistico, specie quello di inchiesta, è tutto affidato alle poche radio d’informazione e comunitarie superstiti. Le altre emittenti si somigliano troppo tra loro: i loro giornali radio sembrano bignami dei gr di stato oppure parodie di un giornalismo di cronaca nera sprofondato nella realtà locale.

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5. La radio non può competere con la tv sul piano informativo. La radio non è più il centro mediatico della sperimentazione giovanile, che si sta spostando casomai sul web. Tuttavia, ai fini universitari, specie a quelli di scienze della comunicazione, la radio potrebbe rivelarsi utile ad almeno tre livelli. Primo: a livello di servizio. Informazioni generali sull’università, sulle facoltà, sui corsi di laurea, sui diritti, sulle iniziative, e così via. E anche ore di lezione via etere, discussioni sulla preparazione degli esami, interviste ai docenti, inchieste, approfondimenti scientifici. Secondo: a livello formativo. Ideare, progettare e condurre programmi come formazione di primaria importanza per uno studente di scienze della comunicazione. Imparare un linguaggio mediatico e imparare a servirsene. Saper fare una scaletta e testarne la validità nella verifica operativa. Saper intervistare. Saper parlare di un certo argomento nei minuti preventivati. Saper organizzare un servizio e un’inchiesta. In uno slogan: saper comunicare. Terzo: a livello imprenditoriale. L’università, specie quando ha un impatto sul territorio così importante come nel caso di Lecce, deve pensare di dotarsi di un mezzo di comunicazione veloce e agile, fuori dalla semplice promozione pubblicitaria e dalle vie burocratiche all’accesso. L’università deve farsi imprenditore collettivo, capace di raccogliere le energie finanziarie per stare su un mercato stretto, ma in grado anche di allargarsi disinvoltamente di fronte alla bontà di certe intuizioni.

Nel rapporto fra Radio e Web si tende a vedere il Web come sostitutivo del supporto cartaceo nella pubblicizzazione del palinsesto/programmazione e come aggiuntivo nel contatto col pubblico (i canali IRC/Chat si aggiungono e/o si sostituiscono al telefono, come le eMail si aggiungono agli SMS della telefonia cellulare). Ma una Web Radio è prima Web, poi Radio. E urge una ridefinizione tecno/logica dei termini. Per Web Radio si intende la trasmissione in diretta di un programma di tipo radiofonico via Internet. In “diretta” perché la trasmissione in differita, per la tecnologia internettiana, non è altro che un file audio scaricabile da un sito web, al pari di un testo e di un’immagine o di un filmato. Nel caso di una Radio che, a seguito dello sviluppo della tecnologia di audio streaming via cavo/internet, trasmette principalmente via etere e diffonde i programmi anche via Web, non si può parlare di Web Radio ma solo di un’estensione del broadcasting. In ordine di importanza sociale e tecnologica, credo che sia corretto stilare una sorta di classifica di “autenticità”: - Web Radio: le stazioni che nascono per trasmettere sul Web e che nel Web trovano la loro primaria ragione d’essere; - WebNetwork: le Radio via etere a carattere locale che utilizzano Internet come sostitutivo dei ponti radio fra emittenti, per uscire dai propri ambiti locali (RadioGAP); - Radio’n Web: le Radio via etere che utilizzano il Web come frequenza aggiuntiva.

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Volendo trovare paragoni/precedenti storici, la nascita delle Web Radio è molto simile, nei suoi tratti sociali e politici, alla na-

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Ogni volta che ci si confronta con un mezzo di comunicazione “nuovo”, si tende a vedere contrapposizioni con i media esistenti e/o estensione degli stessi attraverso l’inglobamento del nuovo media. Con Internet, che rappresenta una piccola rivoluzione dei media e del concetto di “multimedia”, questa contrapposizione/estensione si è manifestata prepotentemente e ha determinato una quasi riduzione delle potenzialità del Web.

enrico fedi web & radio

po pochi pensano alla radio come media di orientamento locale ma non provinciale; così proliferano gruppi e gruppetti che clonano una radiofonia allegrotta e battutista, infarcitata di musica esclusivamente di mercato e in collegamento diretto con un unico centro strategico: la discoteca. Troppo poco per creare nuove tendenze nei consumi, abbastanza per piccoli profitti che si moltiplicano grazie alla proprietà unica di più emittenti, che si diversificano solo a scopo di lucro e non di progetto editoriale. Meno pluralismo, insomma, anche nei consumi giovanili.

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Altro elemento importante è il rapporto fra informazione (ufficiale), contro informazione e informazione indipendente. Anche qui la terminologia è importante: - informazione: è tutto ciò che offre elementi conoscitivi e di riflessione. L’informazione “ufficiale” è rappresentata dai media gestiti da grandi gruppi e che necessitano di flussi finanziari consistenti; - la controinformazione: è parte integrante dell’informazione alternativa e ha, come riferimento costante, l’informazione ufficiale, di cui tende a correggere errori, incompletezze e/o mistificazioni; - informazione alternativa: è il mondo (universo?) del flusso di informazione e di informazioni autonomo dai media ufficiali con una propria agenda tematica ed i propri canali (identici, paralleli e/o alternativi a quelli dei media ufficiali). Internet rappresenta, nella sua virtualità, un mondo “realmente” nuovo, attualmente utilizzato al minimo delle sue potenzialità proprio perché si tende a ricondurlo agli schemi e ai format conosciuti. Uno degli errori più frequenti è proprio quello di voler osser-

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vare il cyber spazio frammentandone gli aspetti tecnologici (navigazione, eMail, IRC/Chat, scaricamento file, etc.) e di replica/estensione dei media conosciuti (informazione testuale, Radio, TV). E un breve volo pindarico puramente tecnologico è indispensabile. Lo sviluppo dell’informatica si basa sullo studio del sistema nervoso animale, e dei processi cognitivi e di creazione del pensiero degli esseri umani. Nell’iniziale impossibilità di ricreare la complessità del pensiero umano, i ricercatori si sono orientati verso una semplificazione del processo dei dati attraverso la sequenza lineare delle singole istruzioni.

Quando diamo l’ordine al nostro braccio di muoversi, in effetti inviamo una mole impressionante di istruzioni senza rendercene conto, e siamo ancora meno coscienti dell’ancor più impressionante mole di istruzioni inviate dal nostro sistema neurovegetativo a tutto il nostro corpo, semplicemente per “tenerci in vita”. Il lavoro fatto dai pionieri dell’informatica è stato quello di creare sequenze (prima A, poi B, poi C, etc.) di istruzioni semplici per arrivare ad un insieme di attività complesse (o apparentemente tali). Il nostro pensiero si muove su piani paralleli e contemporanei, come se ogni nostro neurone fosse un microprocessore autonomo ma collegato a molti altri, procedura recentemente denominata “multi tasking” e riportata nei processori informatici prima virtualmente poi effettivo.

Prendendo in esame i microComputer o Personal, i processori di classe x86 processavano i dati inizialmente in modo esclusivamente lineare (8086 e 286), poi in multi tasking virtuale (386, 486) ovvero, prendendo tre sequenze differenti e autonome (A1-A10, B1-B10, C1-C10) li processavano in contemporanea ma rimescolando la sequenza (A1, A2, B1, A3, C1, B2, C2, A4 etc.). I processori più recenti, supportati da adeguati sistemi operativi (inizialmente solo Unix, poi anche DOS/Windows), riescono a processare effettivamente e realmente, in parallelo e in contemporanea, diverse linee di istruzioni. Internet, che nasce sotto Unix (il primo sistema operativo in multi tasking reale), risente fortemente di questo elemento tecno-

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scita delle prime radio libere nel 1975. Questi due momenti sono accomunabili perché: - entrambi potevano essere sviluppati a bassissimo costo (la trasmissione via etere era comunque più costosa in proporzione ma era accessibile largamente); - i “nuovi operatori” erano dei non addetti ai lavori per cui comparivano all’orizzonte nuovi format, come sta accadendo oggi; - la strutturazione interna si basa tendenzialmente sulle dinamiche sociali interne al gruppo (rapporti di amicizia, competenze tecniche e contenutistiche, etc.) e non come replica delle strutture esistenti; - il piano politico trova spazi e margini ben diversi rispetto all’effettiva attività politica. I casi di Radio Alice ieri, e di RadioGAP (Radio Onda Rossa e altre) oggi non rappresentano la vera innovazione politica perché la “rivoluzione” avvenne ed avviene con quanto detto sopra e con una serie di elementi meno eclatanti ma molto più importanti, fra cui il semplice trasmettere musica che non trova spazio nei palinsesti ufficiali, il doversi auto-organizzare, la compartecipazione diretta di tutte le persone coinvolte in tutti i processi decisionali e programmatici, la costituzione naturale di una community di supporto, etc.

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Ancora sul piano tecnologico, Internet nasce dalle ceneri di ArpaNet (sistema di comunicazione e controllo a carattere militare) ed è basato sulla “trasmissione a pacchetti”, ovvero sulla scomposizione dei dati in frammenti che vengono inviati da A a B utilizzando il percorso più libero e funzionale del reticolo di connessioni (non necessariamente il più breve), bypassando automaticamente interruzioni di segmenti e/o intasamenti. Sul piano logico il meccanismo diventa ancora più interessante e sorprendente. Come nel cervello, quando un impulso si ritrova a passare frequentemente da A a D, inizialmente passa per B e C ma, se si verica relativamente spesso, tende a creare una connessione sinaptica diretta A-D; nello stesso modo si sviluppano i rapporti sociali e culturali su Internet. La casualità di contatti crea incontri di interesse comune e/o di affinità progettuale, da cui si sviluppano contatti diretti e la cui molteplicità crea nuovi gangli (da una community generalista si sviluppano contatti diretti basati su affinità che si evolvono nella creazione di nuove community specialistiche) che attraggono nuove sinapsi e si auto evolvono. La costante interazione fra strumenti tecnologici e progettualità socio-culturale rende Internet la prima replica virtuale del cervello umano e come tale deve essere considerata. Il cyber spazio internettiano è dunque un magma in cui ogni singolo frammento è correlato a tutti gli altri ed è per questo che Internet deve essere vista e analizzata sempre nel suo insieme ed in costante interazione “multiunivoca”. Partendo da questo presupposto, anche se entrare in questo ordine di idee è obiettivamente complesso e difficile, diventa più chiaro il vedere i futuri sviluppi dove tendono a coincidere i diversi elementi della catena dell’informazione (infrastruttura tecnologica, raccolta delle informazioni, elaborazione, produzione, trasmissione, fruizione) perdendo di sequenzialità e di importanza. Carta stampata, Radio e TV si fondono su Internet, o meglio ritrovano la propria unità originaria e anche la sequenza tradizionale, vedo un servizio in TV o leggo un articolo ed assorbo informazione, tende a scomparire perché Internet è un tutto dinamico in

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cui ognuno deve cercare e trovare le informazioni e dove ognuno diventa fonte e produttore di informazioni. Quasi una sorta di “primitivismo tenologico”, ovvero la tecnologia che evolvendosi ci riporta al “buon selvaggio”. INDYMEDIA A LECCE… non si è quasi vista, almeno come “logo”, ma era presente… ha solo preferito lasciare spazio alle idee e ai veri protagonisti del Sabato pomeriggio: il Gruppo P.A.Z. Indymedia è l’esempio pratico più vicino agli scenari sopra descritti. È un insieme di individui non strutturato e non organizzato (dunque senza vertici, portavoce, etc.) che fa politica attraverso questa sua non strutturazione, e fa informazione senza necessità di redazione. Ogni partecipante porta con sé la propria storia personale e politica, e le tante anime presenti in Indymedia non entrano quasi mai in conflitto reale perché Indymedia non è un “movimento politico” e non prende posizioni politiche. L’organo decisionale è una mailing list che funziona come un’assemblea permanente e dove, per continuare con gli esempi di tipo biologico, il mailServer che gestisce tecnologicamente la lista rappresenta una sorta di scatola cranica e i partecipanti rappresentano la materia grigia, scomponibile in tanti neuroni. Le connessioni sinaptiche si creano in modo naturale in base alle affinità di interessi temporanee e/o permanenti (ma la permanenza presuppone la continuità del flusso bi/multiunivoco di informazioni e contatti). Le decisioni seguono un metodo consensuale (si cerca di mediare fra le diverse istanze) senza votazioni e/o maggioranze/minoranze. Questo anche perché, non prendendo mai posizioni politiche e non schierandosi mai con entità politiche strutturate, non ne ha bisogno. In assenza di un “vertice” e di una “redazione” è impossibile stabilire un concetto di appartenenza e/o di militanza e si può parlare unicamente di “partecipazione”. Ed è per questo che risulta impossibile “parlare a nome di” e/o “in rappresentanza di”, si può solo parlare della propria individuale “esperienza di partecipazione”. Un altro elemento, sempre affiorato più che affrontato, è stato quello relativo alla verifica delle fonti e delle notizie. Premesso che

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logico e si presenta come un reale sistema neurale a connessione sinaptica al pari del nostro cervello.

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Radioricevitore PHILIPS mod. 523, 1934

Certamente non è facile tirare le fila di giornate di discussione così intense e al pari variegate. Proverò a farlo, mettendo l’accento sui momenti per me più interessanti del discorso che qui è stato fatto, sempre e comunque con lo slancio emotivo che il tema sembra suscitare quasi automaticamente (e già questo è un motivo centrale di riflessione, nel cuore della domanda sostanziale che ci dobbiamo porre sulla natura non solo tecnica e sociale, ma simbolica e esperienziale della radio). Cercherò soprattutto di toccare alcune questioni generali che mi sembrano meritevoli di ripresa e approfondimento, nonostante la lunga serie di appuntamenti seminariali e pubblicazioni –in ultimo il poderoso lavoro di bilancio e rifondazione compiuto da Enrico Menduni– di cui attualmente i linguaggi e gli apparati radiofonici stanno godendo. Una prima considerazione. Una serie di storici si sono susseguiti durante questi giorni. Essi appartengono tuttavia a una categoria di storici che non lavora tanto sulle fonti scritte, quanto piuttosto sulla propria esperienza di testimoni e protagonisti. Professionisti che già da tempo conoscevano bene la radio, perché vi hanno dedicato fasi centrali del proprio lavoro e una forte vocazione. È stato dunque molto interessante ascoltare dalla loro viva voce i fatti e non solo le opinioni di chi ha partecipato alla vicende passate, spesso originarie, della radio, potremmo dire alla sua storia corale, con la preziosità documentaria dei suoi infiniti accadimenti. Con i suoi altrettanto preziosi localismi. Molti se non tutti i giovani studenti qui raccolti nell’ascolto di queste autobiografie professionali sino ad ora non conoscevano l’esperienza di radio locali che hanno avuto un significato totalmente diverso (oppure assai meno di quanto si creda?) da quello che i tempi nostri attribuiscono alla proliferazione in tutto il territorio nazionale di stazioni trasmittenti private. Hanno potuto verificare, così, la natura di uno sviluppo tecnologico e di nuovi profili professionali, che hanno avuto la loro radice non nelle culture dei consumi, ma nella militanza ideale, politica e sociale di chi, alla fine della Seconda Guerra mondiale, ha partecipato all’uso del linguaggio radiofonico immediatamente dopo la Liberazione. La distruzione bellica di gran parte del mondo civile (la Bomba, i lager del nazismo e dello stalinismo), dunque il panorama delle

alberto abruzzese dalla parte dell’ascoltatore

l’open publishing, applicato da Indymedia e da altri, ha in sé un meccanismo di autoverifica attraverso la possibilità di commentare le news e/o di pubblicare contro-news e/o correttivi, il problema è realmente risolvibile solo attraverso un approccio critico permanente da parte di chi legge/vede un servizio giornalistico. Approccio critico che dovrebbe costituire una costante: ogni notizia dovrebbe essere vagliata attentamente, sempre, indipendentemente dalla fonte e da chi la pubblica.

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che questa definizione riguarda emittenti nazionali di regimi sociali particolarmente autoritari, ad esempio l’uso angoscioso e terroristico che della radio fu fatto da Hitler (e così genialmente ridicolizzato da Chaplin), ma anche organi di informazione di “società chiuse” e persino le forme più evolute di radio democratiche, in cui la ricchezza dei consumi coincide pur sempre con sofisticate strategie di controllo e di consenso. L’Impero soffia la sua voce anche attraverso i microfoni della radio. E potrebbe tornare a farlo nelle sue forme più tragiche, illiberali e delittuose. In questo momento sta sicuramente facendolo in più parti del mondo civile e incivile. Sicuramente nei luoghi del fondamentalismo religioso (e vedremo, tornando su questo, la ragione profonda di una parentela diretta tra religione e radio –del resto assai bene intuita e praticata dai militanti cattolici italiani, che alla radio, attribuirono la definizione esplicita, quanto impegnativa, di “microfono di Dio”). Qui entriamo nella materia più problematica della nostra esperienza di contemporanei. Nel cuore delle democrazie occidentali e in Italia. Tra le radio di cui abbiamo ascoltato la storia, ve ne sono alcune che hanno avuto, come si è detto, un forte significato locale, una sentita capacità di interazione con il territorio in quanto comunità reale, fisicamente presente. Fu il momento di una esperienza che potremmo dire neo-risorgimentale. Ben presto tuttavia la continuità dei grandi apparati nazionali ha necessariamente preso il sopravvento e la radio ha svolto, prima della TV, il ruolo che ai media pubblici, monopolio di Stato, è stato affidato dalle strategie della riunificazione ideale della Repubblica Italiana, della sua costruzione identitaria e culturale (solidarietà, alfabetizzazione, educazione civica, emancipazione, istruzione, socializzazione, opinione pubblica, e anche esercizio della vita politica). Oggi il quadro delle dinamiche di conflitto e integrazione tra culture locali e culture nazionali, tra media pubblici e media privati, tra dimensione nazionale e dimensione internazionale, tra valori e strategie delle istituzioni dello Stato e dei Governi e valori e strategie del mercato e dei prodotti di consumo, è assai più complesso. Assai più potenti, ma anche difficili e contraddittori, sono i meccanismi di identificazione e partecipazione dei media generalisti, in cui a prevalere non sono state le radici “interiori” del linguaggio radiofonico, ma la portata “esteriore”, spettacolare dei linguaggi televisivi. Immagini e non voci. Ce ne ha parlato, tra gli altri, Michele Sorice. E tutto questo

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sue rovine, aveva creato il clima adatto a riproporre non solo gli strumenti ma anche i valori dell’oralità. Un clima di rifondazione. A parte il fascino di queste memorie e l’apporto storiografico che esse ci donano, possiamo trovare in questo stesso quadro di considerazioni alcuni utili suggerimenti teorici e operativi, intorno a una specifica vocazione della radio, quella di emergere in situazioni locali, di disastro, di catastrofe. Dunque, ci è possibile avanzare la tesi di un legame costante, di una affinità elettiva, tra le parole dette e non viste della radio e le fratture e ferite del mondo, i momenti tragici, terribili, ma anche cruciali, innovativi, segni evidenti e irreversibili di trasformazioni radicali della vita quotidiana, di mutamenti sociali e istituzionali, di nuove dimensioni locali e nazionali, di nuove culture emergenti. Se così è, a questa tesi bisognerebbe rifarsi non solo per il passato ma anche per il presente della radio. Cercare di capire cosa significhi il fatto che essa abbia vissuto in questi ultimi anni un “ritorno” d’attenzione particolarmente forte e ancora più netta, più calda, si sia fatta la sua fortuna sul piano simbolico. E i simboli, contrariamente a quanto in genere si crede, sono luoghi di massima operatività, di potenti insorgenze umane, di azioni sociali. Vuole dire –certo non mancano analisi sociologiche, politiche e culturali per sostenerlo– che in profondità, al di sotto del luccichio tecnologico dei new media, dei loro lampi e delle loro ombre, stiamo di nuovo vivendo una congiunzione terribile ma produttiva tra parola e grandi mutamenti della nostra identità collettiva e individuale? Credo che a farci rispondere affermativamente sia il permanente carattere di catastrofe che lo sviluppo del pianeta ha assunto. Tuttavia dobbiamo frenare l’entusiasmo con cui siamo portati a valorizzare la radio come l’unico mezzo di comunicazione di massa da contrapporre ai valori e agli effetti più negativi dell’industria dei consumi. Infatti, nel vasto panorama temporale e mondiale degli usi storici e presenti della radio, bisogna includere non solo le sue punte “eroiche” e le sue dinamiche di “movimento”. L’avvertenza vale anche per l’Italia, si tratti dello spirito democratico, che –sin dai primi mesi della Ricostruzione– andava contrapponendosi allo spirito autoritario del fascismo, si tratti della effervescenza anti-istituzionale di emittenti come “Radio Alice”, postazione avanzata di insubordinazione mediale durante gli anni Settanta. La radio non è di per sé dalla parte del Bene. Nel quadro che intendiamo farcene, bisogna includere anche le “radio di regime”, sapendo

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perché scritto mettendo a confronto, intrecciando, due dimensioni espressive: il cinema e la radio. Appunto le immagini e i suoni. Non solo la parola –comunque così legata alla scrittura o quantomeno ai valori gerarchici dei testi scritti– ma anche la musica e il rumore, componenti semantiche della radio che, invece, di solito vengono trascurate o enfatizzate, in positivo da parte delle culture dei consumi e, in negativo, da parte dei pregiudizi ideologici che dividono la dimensione dell’intrattenimento dalla dimensione dei contenuti. Il cinema, alla sua origine, è immagine senza parole, mentre la specifica natura tecnica della radio è invece quella di essere parola senza immagine. Le due sfere espressive non si incontrano nel cinema sonoro (immagine filmica arricchita di voci, compimento della riproducibilità tecnica del set). Ma si incontrano nella televisione. Essa soltanto è l’effettiva unione di radio e cinema, della natura di flusso della prima e della natura di immagine in movimento del secondo. La televisione –con tutta la sua autorità di tecnologia estremamente adatta a risolvere e superare i problemi di efficacia commerciale e sociale del grande schermo (la sua dimensione di spettacolo pubblico, caratterizzato ancora dalla rigida appartenenza del suo consumo alla dimensione fisica della sala e del territorio urbano) e della radio (una forma di rappresentazione, locale e simultanea, del mondo reale, costretta tuttavia a rinunciare alla visibilità, all’emozione collettiva dello spettacolo)– spazza via l’illusione che al linguaggio radiofonico e al linguaggio del cinema muto potesse spettare la stessa stabilità e cristallizzazione dei linguaggi della civiltà premoderna (architettura, scrittura, pittura, scultura, musica, teatro, danza). La televisione superò brutalmente l’idea che, nella tarda modernità, nelle sue forme di rappresentazione più forti e egemoni, potesse sussistere una parola senza immagine ed una immagine senza parola. È da quel momento che televisione e radio entrano in una contrapposizione emblematica. Per quanto le relazioni sociali espresse dalla radiofonia siano state di fatto subordinate a quelle tele-visive, il “vuoto di immagine” su cui si fonda il linguaggio della radio ha sempre continuato a esercitare una fortissima attrazione. A produrre significati inattesi. Ma vediamo meglio. Arnheim attribuisce un particolare carico di valori estetici al cinema muto e alla radio. La sua teoria affonda dunque sino alle radici delle tradizioni estetiche della modernità. Attentissimo studioso della pittura, da cui per più aspetti la fotografia non sembrava essersi discostata, tende a trattenere in un quadro

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ha a che vedere con la nuova dimensione che diciamo “glocal”. Parola “magica” questa, ma ricca di senso, efficace e arcana allo stesso tempo, parola che con compiacimento, riscontro finalmente essere usata senza pudore e inibizione. Per molti anni è stata una “brutta parola”. In quanto neologismo, risuonava infatti cacofonica. Ma dietro alla evidente forzatura espressiva dei neologismi vi è sempre la sostanza più profonda di un mutamento, l’apparire di un qualcosa che “prima non c’era”. Ora, se si ha il coraggio di pronunciarla, vuole dire che ci rendiamo conto della nuova qualità di cui vuole dare il senso. Sentiamo la necessità di dire questo “paradosso”. E la radio appartiene proprio a questo paradosso: l’ormai inestricabile congiuntura tra strategie della globalizzazione e tattiche del localismo. Ma procediamo con ordine. Abbiamo ascoltato non solo le varie chiavi interpretative della dimensione espressiva e sociale della radio, ma anche le fonti, la letteratura scientifica su cui esse si fondano. Da questo tipo di interventi sono nati suggerimenti interessanti, di ordine artistico, espressivo o politico-culturale, per quanto, in certi casi almeno, piuttosto sbilanciati su testi che, magari contrariamente alla loro intenzione originaria (si pensi al filone marxista e a quello francofortese), hanno fatto da impedimento ideologico ai fini di una oggettiva valutazione dei mezzi di comunicazione (e, quando non si riesce a vedere l’oggetto del discorso, si perde anche la possibilità di vederne il soggetto). In effetti, guardando alle origini dell’industria culturale novecentesca, abbiamo a disposizione un gran numero di testi, per non limitarci soltanto al volume di intuizioni fornito da McLuhan (raro che noi si possa ancora oggi dire qualcosa che vada oltre questo straordinario “veggente”). Certo disponiamo assai più di libri e ricerche sui linguaggi dell’immagine che su quelli della radio (si scrive assai più su ciò che domina il mercato di quanto si scriva su ciò che gli resiste o se ne differenzia o lo anima). Anche per me si tratta di indicare un autore chiave, essenziale per la mia formazione, estremamente utile in merito alle cose per cui e su cui ho lavorato in tutti questi anni, sin da quando il mio primo oggetto di studio è stato il cinema (l’immagine dunque e non la voce). Penso che un autore su cui riflettere, tornare a riflettere, debba essere Arnheim. Credo, infatti, che egli possa tuttora darci preziose indicazioni su quanto di problematico va emergendo da questa nostra giornata di studio. A tal fine, bisogna risalire a un suo contributo molto interessante,

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l’arte classica” e dunque mondanizzazione delle forme) e abbastanza analogo a quello del primo Lukacs. Infatti, in perfetta analogia con Arnheim, Lukacs –proprio ragionando sulla tecnica– aveva visto nel cinema il rilancio delle estetiche romantiche del bizzarro e del fantastico, quindi una radicale manipolazione e falsificazione della realtà fisica. Sul piano dei linguaggi espressivi, qui arriviamo sin dentro la crisi delle forme artistiche tradizionali del romanzo (interiorità della voce) e del teatro (esteriorità della voce): rispetto a queste grandi forme di rappresentazione del mondo, cinema muto e radio si annunciavano adeguati a incarnare le grandi metamorfosi interiori più ancora che esteriori della dimensione metropolitana. Si legga, a questo proposito, il fondamentale saggio di Franco Moretti sulle “opere mondo”, testi con codici di lettura alfabetica che, pur essendo al culmine della civiltà letteraria, non reggono più la polifonia dei territori metropolitani e, “scendendo” su questo piano, perdono terreno –perdono di pregnanza territoriale– rispetto ai linguaggi audiovisivi (in particolare proprio quella scrittura di flusso, quell’interiorità appunto radiofonica, che spiega, ad esempio, la struttura testuale di un James Joyce). Opere che perdono di efficacia rispetto alla vocazione mondana dei media che avevano sviluppato l’esperienza metropolitana. Ma –si risalga alle analisi di Simmel sulla moda e alle elaborazioni individualiste e altoborghesi di Broch sul fenomeno del kitsch (in cui erano compresi anche radio e cinema)– si trattava di una mondanità che vive tuttavia il senso di morte di una intera civiltà e l’attesa collettiva di una radicale trasmutazione dei valori. Le nuove tecnologie dello schermo e della radio risultavano dunque adatte a comunicare –mettere in comune– l’esperienza vissuta assai più che le istituzioni del sapere e il quadro millenario delle arti. È per questa via che, attingendo alla impostazione estetica del discorso di Arnheim sulla radio, tocchiamo la sostanza originaria del suo conflitto con la televisione (che tuttavia proprio dalla radio è scaturita in quanto linguaggio “di flusso”). Infatti Arnheim, ebbe modo di affrontare il senso delle sperimentazioni televisive già in atto negli anni Trenta, dunque in concomitanza con l’applicazione cinematografica della colonna sonora (a sua volta derivata dalla lunga storia della riproducibilità tecnica del suono e dal ruolo che il fonografo aveva avuto nella strategie di consumo familiare della musica e della parola, un settore fondamentale per tutto lo sviluppo dell’industria culturale di massa e per le relazioni di reciprocità

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interpretativo di natura artistica anche i linguaggi del primo novecento. Infatti, Arnheim sosteneva che la radio rientrava nel dominio dell’arte, perché costretta a rappresentare il mondo creando immagini attraverso una materia invisibile o se volete uno spettatore cieco. Al contempo sosteneva che il cinema delle origini (cioè quello senza colonna sonora) rientrava nel dominio dell’arte, perché costretto a rappresentare il mondo creando parole, senso, attraverso una materia muta o se volete uno spettatore sordo. Radio e cinema hanno dunque la specificità di una tecnica che non può riprodurre la realtà così come essa è, ma solo rielaborarla, “fingerla”, tradurla in altro (appunto come la pittura o la scultura o la musica). Alcune premesse delle migliori teorie ma anche delle cadute ideologiche presenti nella letteratura sulla radio sono in relazione alle varie modalità storiche e culturali con cui questa differenza tra arte e realtà è stata via via elaborata da tradizioni che vanno dalle prime regole neoaristoteliche sul verosimile alla nascita settecentesca del romanzo borghese (individuo versus storia e autorità), alle estetiche del primo romanticismo (spirito versus mondo; soggetto versus oggetto), del genere fantastico (immateriale versus materiale) e delle grandi narrazioni popolari di massa (soggetti collettivi versus i rapporti sociali dei vecchi regimi), sino, da un lato, alle teorie del realismo borghese e poi marxista (linguaggi del rispecchiamento e disvelamento economico-politico della realtà) e dall’altro lato alle avanguardie storiche (reale versus realtà, l’invisibile versus il visibile) e, per più aspetti, alle “teorie critiche” sulle forme di rappresentazione della società capitalista (mondo autentico versus mondo inautentico, cultura versus civilizzazione). Seppure con qualche forzatura, fra tante tradizioni potremmo individuare due aree culturali (e di ceto, sociali) che le attraversano: chi si orienta verso estetiche impegnate a esprimere la dimensione delle arti come modi di produzione e riproduzione della realtà e chi, invece, si orienta verso la loro radicale alterità rispetto al mondo reale. Questi ultimi a loro volta si dividono tra quanti interpretano tale alterità sul piano dei contenuti sociali (vi possiamo includere anche molte teorie e pratiche dell’informazione) e quanti, al contrario, la interpretano sul piano delle forme espressive. Per gli uni vale la comprensione di un testo, per gli altri la percezione. Arnheim si colloca sul versante della percezione, ma anche su un asse estetologico fortemente influenzato da Hegel (“morte del-

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Del resto, tornando a riflettere sui passaggi che hanno storicamente caratterizzato il rapporto tra radio e tradizione (cultura, impegno intellettuale e artistico, missione divulgativa), potremmo trattare, con strumentazioni più ricche e articolate, questioni che costituiscono gli elementi di crisi e insieme di sviluppo anche della radio di oggi. Mi riferisco, ad esempio, al dibattito tra chi vorrebbe una radio con più testi verbali e chi, invece, la vorrebbe interamente affidata a testi e performance musicali. Un dibattito che non a caso passa anche tra vecchie generazioni (alfabetizzate, dedite a prodotti culturali e di informazione) e nuove generazioni (immerse nella sfera audiovisiva, sempre più acustica, fluida e emotiva dei consumi). Dunque: più parole o più suoni. Lo schematismo che emerge da queste contrapposte posizioni mette in luce soltanto la prevalente caduta di attenzione per la sperimentazione da parte di chi pensa e governa la qualità e progettualità degli apparati di produzione radiofonica (soprattutto quelli di grande dimensione –penso quindi alla RAI– in cui le risorse da destinare ad attività sperimentali dovrebbero essere assai alte, mentre invece radio di dimensioni più ridotte, magari proprio a causa degli scarsi mezzi di cui dispongono, tentano e a volte riescono a conseguire qualche innovazione di processo e di prodotto). Il conflitto tra contenuti e forme (che di questo si tratta) è la risorsa di base per la sperimentazione di nuovi linguaggi. Ma non può certamente essere praticato ricorrendo a paradigmi oppositivi (che sono causa, in tutta la loro staticità e ripetitività, di esiti negativi anche sullo stesso piano del profitto, della resa economica). Se la differenza e la distanza tra tradizioni della parola e tradizioni della musica vengono affrontate soltanto sul piano ideologico o su quello del mero interesse di mercato (abbandonate quindi a una altrettanto rigida segmentazione delle fasce di pubblico in target tra loro incomunicabili), cade ogni possibilità di passare dalla tendenziale chiusura espressiva, tipica dei paradigmi culturali di natura oppositiva, alla maggiore apertura semantica che invece le strategie di contaminazione e ibridazione, tipiche delle culture post-moderne, sono assai più in grado di garantire. Si tratta, allora, di trasformare in musica i bisogni sociali che stanno minando le strutture lessicali e sintattiche della parola e di trasformare in parola i bisogni sociali che stanno sempre più caricando di senso identitario e narrativo le strutture spazio-temporali della musica, dei suoni e dei rumori. Credo che ricerca, sperimentazione e for-

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che essa ha determinato tra sfera pubblica e sfera privata, domestica). A giudizio di Arnheim, il linguaggio audiovisivo fuoriusciva dall’orizzonte delle arti perché la sua tecnica consentiva una immediata capacità di riproduzione della realtà. Tecniche della rappresentazione e mondo finivano per coincidere. La specificità della televisione sarebbe stata dunque quella di intervenire sulla società, ma non quella di lavorare sulle forme della sua trasfigurazione simbolica. Seppure segnata da una riserva estetica, appare qui la consapevolezza che le forme di comunicazione stavano mutando di statuto. Un passaggio che avrebbe dovuto imporre agli studi sui media una particolare attenzione a valutare le ricadute di questo processo tanto sulla sfera artistica (il restringersi della sua significatività sociale) quanto sulla comunicazione sociale (la sua progressiva estetizzazione). Ma la questione, come cercherò di chiarire più avanti, è assai più complessa. I grandi mutamenti della comunicazione non sono mai una semplice trasformazione delle forme espressive, il solo avvento di nuove tecnologie, ma anche e soprattutto la presa d’atto di contenuti “diversi” e dunque dei bisogni identitari di soggetti che emergono dal buio e dal silenzio in cui i sistemi sociali li hanno confinati e trattenuti proprio grazie alla qualità delle piattaforme comunicative di cui hanno saputo e voluto disporre. Proprio su questo versante credo che si debba cercare di ripensare la radio. Ma, prima, vorrei riprendere qualche altro spunto tematico da utilizzare per il mio ragionamento. Proprio tenendo presente il quadro teorico in cui, alla sua origine, la radio è stata inserita, ho trovato molto interessanti i contributi che qui hanno sviluppato in particolare un punto di vista storico-linguistico e storico-letterario. Anzi, mi auguro che su questo piano si possa ritornare in futuro, rileggendo criticamente i momenti in cui la radio ha pesato sulle trasformazioni della lingua italiana (di volta in volta variando e miscelando la proprio vocazione generalista, mirata a creare una coinè nazionale, e la propria vocazione localista, mirata invece a creare il recupero o il rilancio di tradizioni dialettali e ancor più una loro reinvenzione). In particolare i momenti in cui ha fatto emergere il proprio nesso costitutivo con la scrittura e con la lettura a viva voce (attingendo ai giornalisti della carta stampata e ai letterati che, nella radio emittente pubblica, si concentrarono –per autentica convinzione o per opportunità– nel ruolo di scrittori di testi radiofonici e di ideatori di programmi culturali).

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sue frasi melodiche, dei suoi effetti di partitura, delle sue capacità multisensoriali). Ma in questo percorso sinestetico, a costituire un momento in tutto centrale perché vero e proprio scatto generativo, sono state le avanguardie storiche (si pensi alle eccitazioni sensoriali dell’espressionismo, del dadaismo e del surrealismo; alle sonorità ritmiche dell’astrattismo) e poi la sperimentazione delle neoavanguardie (si pensi alle performance scaturite dai nuovi materiali espressivi messi in opera da Cage creando eventi senza più confine tra un’arte e l’altra, tra una forma di comunicazione e l’altra; si pensi alle regie dei gruppi teatrali “romani”, in cui il ruolo della parola evaporava a vantaggio della musica, che finiva così per sostituirsi persino alla testualità verbale, sino ad allora obbligata, del repertorio classico). Infine, tornando allo specifico linguaggio di cui stiamo parlando, mi pare che qui sia stato ricordato anche Walter Benjamin, il suo fondamentale suggerimento di dare luogo a una specifica drammaturgia radiofonica (un genere –ricordiamo anche Bertold Brecht– in cui avanguardia e realismo si incontrano). È proprio sul versante di tutte queste capacità sperimentali che la radio ha dimostrato assai bene la propria capacità di iniziativa e elaborazione. Come mezzo in sé e come invenzione di programmi, formati in grado di lanciare prototipi per il futuro (si pensi anche soltanto alla fortuna televisiva che avrà la “soap opera”, genere di fiction seriale inventato dalla radio; in Italia si pensi all’apprendistato radiofonico di un Alberto Sordi e di molti altri attori che saranno la marca di qualità del cinema italiano, ma si pensi anche alle invenzioni “demenziali” di Boncompagni e Arbore, che proprio usando il linguaggio radiofonico per fare ironia sulle culture della TV, per dissacrarle, hanno dato luogo a prodotti neotelevisivi altamente innovativi, a mio giudizio vertici sino ad oggi insuperati nel campo dei programmi d’intrattenimento). A suo tempo, dunque, la ricerca radiofonica è stata spesso assai più vivace di quella televisiva (escludendo da questo confronto ciò che i programmisti televisivi sono andati creando sul piano dei prodotti di consumo massivo). Per quanto riguarda la sperimentazione italiana, si ha la possibilità di verificare alcune punte di investimento culturale che la radio della RAI ha saputo raggiungere e che ora, come s’è già detto, ha abbandonato, venendo meno al suo ruolo pilota. Proprio quando se ne avrebbe più bisogno. Il caso da ricordare –ancora oggi in grado di

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mazione –se mai verranno riattivate– dovrebbero muoversi proprio in questa direzione. Si pensi, in tal senso, a ciò che sta accadendo nel cinema ad alto livello spettacolare, il cinema degli effetti speciali, del sublime tecnologico: forti traumi percettivi, realizzabili solo attraverso la costruzione di dimensioni del visibile sempre più notturne e di ambienti acustici sempre più in primo piano, “punti di immersione” in cui gettare lo spettatore. Fu il primo romanticismo a porsi l’obiettivo di dare alla parola le stesse proprietà formali della musica, la stessa libertà assoluta dal significato, dal contenuto apparente della vita civile, ovvero dalle norme della razionalità sociale, delle sue grammatiche e sintassi, delle sue figure e narrazioni. Fu dunque l’ambito della poesia e della letteratura fantastica a innestare processi innovativi che hanno avuto a che vedere tanto con le punte autoriali più alte della cultura d’élite, quanto con la progressiva crescita della società dello spettacolo (sino a consegnare a quest’ultima un ruolo egemone nelle strategie di metabolizzazione simbolica della realtà). È ancora tutta da fare la lunga storia ottocentesca e novecentesca dei modi in cui i “sensi” del soggetto fruitore sono stati progressivamente strappati a condizioni testuali rigidamente fondate su una precisa gerarchia tra funzioni semantiche affidate alla vista o all’udito o al tatto. Potremmo dire che proprio il dispositivo poietico della sinestesia (uso il termine in senso lato) è stato direttamente alla base delle modalità espressive (e di sviluppo) dell’industria culturale. Sino ad arrivare ai casi a noi più vicini. Ne elenco alcuni. Per primo, ovviamente, il ruolo che parola (anzi, scrittura) e musica stanno svolgendo nella grafica digitale, in particolare laddove esse fanno da sigla o da segnaletica a fini di guida e rafforzamento dell’immagine iconica (in larga analogia con la fortuna che i formati “corti” hanno avuto nel processo di frantumazione delle grandi narrazioni e dei palinsesti dell’audiovisivo). Altrettanto significativa la “radiofonizzazione” della TV, ridefinizione in chiave acustica tanto della testualità televisiva (trasmissioni a prevalenza verbale) quanto delle condizioni del suo consumo situato (ascolto distratto, dislocato rispetto all’immagine). Significativa anche l’ambientazione video delle clip musicali (verifica non tanto della potenza delle immagini quanto piuttosto della loro totale immersione nella sensibilità mnemonica e evocativa della musica, dei suoi ritmi, delle

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Una domanda da rimandare alle conclusioni. È invece il momento di riflettere sul termine medium, che, nel suo uso al neutro plurale, media, dice qualsiasi forma di comunicazione ad alto livello tecnologico. Ad un certo punto delle strategie di mondializzazione del tempo e dello spazio, questa parola latina, ha perduto il proprio semplice e generalissimo significato di mezzo, per stravolgersi nell’interpretazione “americana” che la contemporaneità televisiva le ha imposto, facendola diventare la più forte “parola simbolo” della tarda modernità. Persino più forte di metropoli. Forse più forte di politica o guerra o sovranità. O di società. O di tecnologia. Avendo assorbito in sé l’anima di ognuno di questi domini, sembra avere a che fare direttamente con la vita e morte, ammantarsi del loro mistero. Medium: tutto ciò che sta nel mezzo delle cose del mondo. Tutto ciò che, appunto, le media, le mette in relazione, in comune. Le fa comunicare. Parola di accesso diretto all’universo metaforico e reale delle più tipiche forme d’esperienza del Novecento, di questo nostro “ultimo” secolo di storia. Parola che –pronunciata in lingua straniera– risuona come eclatante ibridazione tra Antico e Moderno. Trionfo del presente sul passato. Dell’inautentico sull’autentico. Una parola che indica il punto di sintesi immateriale di tutti i processi di artificializzazione. Una parola che assorbe in sé tutti i significati delle più tipiche forme espressive delle società altamente industrializzate e massificate. Rivelazione (apocalisse) di forme egemoni su ogni altra “arte” della rappresentazione. Nella loro forte commistione tra vita ordinaria e strategie del potere, i media hanno pienamente rivelato la loro sostanza più autentica: emanazioni dei nostri corpi, protesi fisiche, mentali e percettive dei nostri sensi. Dunque –dal più umile attrezzo primordiale ai più sofisticati dispositivi del computer– il medium è sì un utensile, un’arma e un ornamento, ma è parte di noi e dell’altro da noi. Il medium è lo spazio sensibile in cui si producono e consumano identità e conflitti. L’uso di questo termine resta tuttavia vincolato all’idea istintiva (ma spesso teorizzata anche nella vecchia letteratura scientifica sulla “specificità” dei vari linguaggi e di conseguenza sulle gerarchie tra loro socialmente negoziate) secondo la quale, nella struttura di un singolo medium, i sensi impegnati nell’essere consumati costituirebbero una sorta di “barriera” rispetto ai linguaggi fondati su altre strutture sensoriali. Così, il medium della stampa

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fornire indicazioni molto utili, perché in largo anticipo sul contesto dei consumi– è Radiobox. Con chi ha partecipato al lavoro compiuto da Pinotto Fava nell’ideare e realizzare i prodotti destinati a questo contenitore (assai noto, seppure in una cerchia relativamente ristretta di iniziati e di amatori), sarebbe stato difficile ragionare sull’opposizione tra parola e musica come ci costringono a fare oggi. L’esperienza di Radiobox si inserisce nella storia dei rapporti tra lavoro intellettuale e apparati radiofonici. In questo convegno vi abbiamo fatto riferimento. In questa storia possiamo distinguere alcuni momenti significativi. Nello spazio radiofonico della RAI abbiamo avuto una prima fase di strutturazione istituzionale, quando, dagli anni Cinquanta agli anni Sessanta, alcuni scrittori (penso a autori come Pratolini, che la utilizza in chiave neorealista, ma l’elenco da fare sarebbe lunghissimo) e letterati di qualità (a parte Gadda, penso a Giulio Cattaneo) potevano contare su una dimensione dei mass media italiani (e dei loro pubblici) ancora fortemente innervata nelle tradizioni della cultura e della scuola. Successivamente, proprio con una trasmissione come Audiobox, lo slancio istituzionale è venuto meno a fronte della crescente complessità sociale e, passando alla sperimentazione, si è avuto l’ingresso (in qualità di collaboratori) di giovani creativi (penso in particolare a Gabriele Frasca), parimenti versatili nel campo della parola poetica e drammaturgica, della musica e dell’immagine. In grado cioè di percepire le maggiori novità espressive non più in base a una vocazione educativa ma in rapporto a culture emergenti dai processi di innovazione tecnologica e caratterizzati da una oggettiva sperimentazione linguistica. Questa ha avuto alle sue spalle una fase di innesto tra apparato radiofonico e culture delle neoavanguardie e si pensi, sul piano della scrittura, all’esempio già offerto dal Gruppo 63, da intellettuali e scrittori, come Umberto Eco, Edoardo Sanguineti e Angelo Guglielmi (divenuto a lungo non poco influente in RAI). Eppure, in una fase di mutamenti clamorosi come quelli “messi in forma” dai new media, la progettazione di un linguaggio radiofonico adeguato allo spirito del tempo sembra invece rifiutare questi antecedenti (e i tanti altri che ho tralasciato). Sembra essere assente. Perché? Forse perché queste tradizioni appartengono ad un rapporto tra apparato di produzione e sperimentazione che oggi non può più rinascere negli stessi termini. A chi e in nome di chi dovrebbe essere affidata l’innovazione di prodotto?

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re il piacere dalla conoscenza, il desiderio dalla sovranità sociale. La singola persona dall’identità collettiva in cui viene astratta. Su questa forma moderna di divisione del lavoro umano impegnato nei fenomeni espressivi del consumo culturale fa dunque perno la possibilità di una ricomposizione dei singoli mezzi di comunicazione in una sola dimensione antropologica. Questa ricomposizione dipende da un’idea guida apparentemente opposta alla precedente e invece altrettanto tipicamente moderna, proprio perché rovesciamento ideologico e metafisico della dimensione immanente dei rapporti di potere. Infatti, questo genere di ricomposizione identitaria viene affidata alla astrazione di un soggetto universale, non più fatto di sensi ma di spirito, non più corpo ma sapere, non più individuo ma società. Soggetto dotato di una identità che è la storia del mondo, il suo “dovere essere” in quanto memoria e destino dell’Occidente. Così, ciò che la tecnica divide, lo spirito ricompone. Queste idee, rivelano a mio avviso elementi di una realtà che, nelle condizioni dei nostri sistemi di potere, possiamo definire oggettiva e insieme falsificata. Soprattutto aberrante, quando ci induce a credere in percorsi autonomi e paralleli tra le diverse arti, tra i diversi linguaggi. È la tesi di quanti, pur ammettendo relazioni trasversali, prestiti, influenze, contaminazioni, calchi e analogie tra un linguaggio e l’altro, sostengono che la nascita del cinema e la nascita della radio hanno lasciato inalterato lo statuto delle precedenti arti e che anche la televisione generalista si salverà dai new media, continuerà a marciare accanto a loro, resterà al mondo come la scultura o la pittura. Soprattutto indicativa, quando la realtà che stiamo enunciando ci aiuta a capire che determinate forme espressive soddisfano sensorialità legittimate da regimi di potere ad esse speculari. Attraverso specifiche modalità di consumo dei testi, tali regimi filtrano e controllano i rapporti sociali che vi sono inscritti, privilegiando determinate soggettività rispetto ad altre. Ad esempio: solo alcuni ceti si esprimono attraverso la scrittura alfabetica (e da essa sono espressi). Solo alcune fasce di pubblico apprezzano la trivialità o la pornografia, le sentono ricche di senso, desiderano abitarle. Solo i corpi delle nuove generazioni hanno familiarità con i linguaggi del computer. Solo a soggetti socialmente forti sono destinate gran parte delle strutture semantiche della modernità. La sensibilità femminile è respinta dalla scrittura ma-

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viene concepito, studiato, interpretato, criticato sempre all’interno della sua dimensione alfabetica. La sfera letteraria all’interno della sua stessa tradizione letteraria. Così pure per il cinema o la radio o la televisione. Si tende a dividere e ridurre il corpo in segmenti: la parte del lettore, quella dell’ascoltatore o quella dello spettatore. Si tende a trattenere questo corpo inibito e diviso all’interno dei rispettivi campi semantici (manovra di controllo, analoga a quelle strategie di sorveglianza che hanno sempre temuto la stretta vicinanza dei corpi, le condensazioni della folla, le contaminazioni tra spirito e carne, in quanto motivo di eccessi fisici e mentali, di alterazioni percettive, di deliri, desideri e azioni socialmente pericolose). L’identità corporea viene così inchiodata ai testi della comunicazione sociale sempre soltanto per una parte. L’intero non le appartiene. Il corpo non possiede la sua espressività, se non sul fronte più aspro e irriducibile, instabile e discontinuo, tattico e quotidiano, della vita ordinaria: nel trivio, al di là delle mura, dove non v’è la sicurezza di strutture definite, di testi ospitali, di territori ben ordinati. All’identità psicosomatica non è data la possibilità testuale, comunicativa, di prodursi e ricomporsi in una unità. Essa è Frankenstein: desiderio a cui è stato concesso l’uso di pezzi di corpo divisi e dunque morti (così come, nella fabbrica, accade al lavoro operaio e intellettuale, privato dei propri mezzi di produzione, della conoscenza dell’intero processo produttivo e della proprietà del prodotto). La possibilità di riconoscersi e essere riconosciuta come persona sensibile al mondo le è data altrove, lontano dal corpo: nell’astrazione metafisica del soggetto moderno, nella sua intelligenza generale. Invece di rovesciare l’ordine del discorso, rimettendo al suo centro la pienezza sensoriale della dimensione corporea, si procede in direzione opposta: ciascun dominio dei sensi è proiettato –in tutta la sua specificità tecnica e in tutta la sua parzialità– su una speculare mappatura di forme di consumo: libri, radio, cinema, televisione. Qui, le condizioni sensoriali prestabilite dai singoli modi di produzione testuale (le parole della scrittura, le immagini del cinema, i suoni della radio, ecc.) vengono fatti contare assai più che l’identità sensoriale del soggetto della fruizione. In tal modo si arriva a teorizzare e praticare una brutale separazione tra le esperienze comunicative localizzate in ciascun medium e la dimensione cognitiva dei soggetti di queste stesse esperienze. Si arriva a separa-

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corpo, si fa esperienza. Sono le piattaforme espressive che possiamo riconoscere solo dopo averle liberate, strappate alla loro falsificazione ideologica, alla loro necessità di dividere e imperare, alle loro pretese e coperture universaliste. Se ci muoviamo in questa prospettiva, allora dobbiamo sapere riconoscere che, dietro alle ideologie e politiche della modernità (dalla stampa alla televisione generalista e dunque, al suo giusto posto di primo linguaggio di flusso, anche la radio) ogni innovazione tecnologica delle forme di comunicazione ha avuto come suo soggetto emergente, suo volano e motore, una sensibilità corporea nuova, prima non contemplata dal “panopticon” dei dispositivi di controllo e mediazione sociale. Se così è, l’analisi dei linguaggi radiofonici dovrebbe concentrarsi sui suoi punti di rottura, sui momenti in cui ha più mostrato e mostra di sentire il proprio limite a fronte di sensibilità che la “invadono” (si torna qui al problema della sperimentazione). Ecco, proprio a questo punto del nostro ragionamento, dovremmo collocare la questione che oggi viene messa sempre più in rilievo e cioè il rapporto tra radio e new media. Un tema che viene giustamente trattato sia nei termini di affinità tra le due loro rispettive culture (in comune hanno personalizzazione, localismo, comunitarismo, oralità), sia di opposizione (la solidarietà pubblica e sociale della tradizione radiofonica per molti ancora si contrappone alla dispersione tribale delle reti), sia –naturalmente e credo inevitabilmente– di conversione digitale della radiofonia (esaltazione della sua già pienamente acquisita dimensione di mezzo mobile e miniaturizzato attraverso la potenza connettiva, l’interattività e l’ubiquità spaziotemporale dell’ICT). Ma veniamo alle uniche conclusioni di cui sono capace e che forse sono in grado di dare in una giornata così ricca di spunti in ogni direzione. Purtroppo non sono così paziente da essere uno storico né così preparato da essere un linguista. Sono un mediologo. Per questo fare una relazione sulla radio mi sembra così difficile. A me impone di pensare al presente e al futuro. Su questo piano non si può che essere molto incerti, limitati, approssimativi. A maggior ragione ringrazio l’amico Angelo Semeraro di avermi invitato. È comunque una conferma della sensibilità con cui ha sempre mostrato di trattare le implicazioni comunicative di ogni istanza educativa e formativa. Spero di non deludere questa sua attenzione.

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schile. L’infanzia e la senescenza sono in ostaggio. Una infinità di soggetti non hanno altra forma di espressione che il loro disagio o il loro dolore. Per molti ceti chi è privo di tradizione culturale e di capacità comunicative ad essa commisurate risulta un barbaro. E, al barbaro, le forme espressive della civilizzazione risultano senza senso e un sopruso sulla loro sensibilità. E così via. Dunque –se questa può essere, come io credo, una tesi convincente– i media, per più di un secolo della loro storia, sono andati rinnovandosi, arricchendosi e diversificandosi secondo progressive e distinte opzioni formali, sempre risultato di negoziazioni “politiche” strategicamente operate proprio in relazione alla dimensione percettiva che la qualità tecnica del medium mostrava di riuscire a soddisfare. Ne possiamo ricavare due modi di intendere i media: uno ideologico, l’altro politico. L’uno spiega l’altro. La povertà dei conflitti che si manifestano dentro le attuali culture dell’Impero si spiega nella caduta di ogni reciproca differenza e distanza tra ideologia e politica, nell’uniformità dei loro rispettivi linguaggi. Al primo modo di intendere i media, quello più ideologico –l’ideologia di un loro unico soggetto storico, di un’unica filosofia del mondo– possiamo rispondere con la rilettura politica del loro sviluppo lungo tutto l’arco dei processi di modernizzazione, mirando a dimostrare quanto invece cinema, radio e televisione siano nati da processi di destrutturazione dovuti ai mutamenti sociali. Dall’emergere di nuove soggettività. A tal punto da imporre alle pretese d’universalità dei soggetti espressivamente egemoni una continua ridefinizione sociale delle loro piattaforme comunicative. Vale a dire che, al culmine dell’Ottocento (ma già a partire dalla sua prima metà, si pensi a Edgar Allan Poe), la struttura semantica dei testi scritti e letti, è stata messa in crisi al suo stesso interno dalla forza emergente di appartenenze antropologiche esterne alla sua storia, sino ad allora aliene. Così da avere progressivamente indebolito, se non disgregato, il tradizionale sistema di potere, pretendendo di dare luogo –dare spazio– a nuovi bisogni espressivi e dunque nuove soggettività: quelle già emerse dal grande laboratorio dei linguaggi territoriali della metropoli. Processi di destrutturazione che tuttavia sono stati la materia conflittuale di cui la modernità si è nutrita per potere sopravvivere. Il secondo modo di intendere i media è prevalentemente politico. Essi sono appunto le spaziature in cui il potere si localizza, si fa

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zione del consumatore tanto da “illuderlo” in una esperienza priva di ogni legame con la realtà (ma non per questo meno “reale”). I linguaggi digitali hanno la possibilità di lavorare direttamente sulla percezione e di raggiungere un grado finzionale mai prima raggiungibile sul piano tecnico. Su questo piano, la radio appartiene al tipo di virtualità concesso ai media tradizionali (dal libro al televisore). Eppure, se in essa individuiamo una particolare attinenza alla dimensione interiore del corpo, a uno spazio sensoriale fortemente immateriale e a capacità poietiche tanto più elevate quanto più libere dai condizionamenti della visibilità esterna (della scrittura e soprattutto dell’immagine), allora vi possiamo individuare una delle matrici “iconoclaste” del virtuale, la sua più viva componente etica. Veniamo al senso della parola territorio. In un certo tipo di letteratura il termine territorio si contrappone a mappa. Vale a dire che esprime un luogo non in modo oggettivo (esso esiste di per sé, ha una realtà in sé, ha un senso di per sé) ma in modo soggettivo (esso esiste nelle forme di chi lo abita, è la forma stessa dell’abitare, è vita vissuta, esperienza). Pierre Lévy, tra i più attenti teorici del virtuale, volendo descrivere le dinamiche diacroniche e sincroniche delle società umane, ha fornito uno schema assai interessante: terra, libro, merce, intelligenza collettiva. La sequenza indica la simultaneità di quattro dimensioni territoriali, ma anche il progressivo loro slittamento da contesti comunicativi pesanti a contesti comunicativi sempre più leggeri, rarefatti, fluidi, ad alto potere connettivo. La radio ha rappresentato uno snodo fondamentale per i processi di smaterializzazione. Come la fotografia. Per questo l’una e l’altra si offrono oggi alla svolta digitale assai più nella qualità di territorio che di tecnologia. Per essere più chiaro sulla qualità dei transiti tecnologici in cui penso sia corretto e utile inserire storia, presente e futuro della radio, debbo fare riferimento alla svista teorica con cui a mio avviso la sociologia non ha saputo riconoscere nei media un netto salto di qualità delle relazioni sociali. Credo allora che la attuale attenzione per il linguaggio radiofonico possa essere sottratta alla sua componente sociologica in quanto esso manifesta una dimensione territoriale dell’esperienza vissuta molto adatta a soddisfare l’emergere di soggettività che la tradizione identitaria del moderno ha sino ad ora mortificato. Una radio dunque che non si approssi-

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La domanda che mi pongo ogni qual volta sento parlare di radio o sono chiamato a parlarne riguarda il rapporto che essa può stabilire con gli altri media. Mi sono già soffermato su questa domanda: perché diamo un carico di senso così forte e esclusivo alla radio? È corretto teorizzare questo suo primato (di volta in volta dato per storico, estetico, ideologico, sociale, morale, politico)? Dovrei qui riprendere gli interventi di molti altri oltre a quello di Stefano Cristante. Dovrei intrattenermi sul quadro problematico suggerito dalle tracce di ricerca di Alberto Sobrero. Tenterò invece di insistere su alcuni concetti chiave: interattività, virtualità, territorio. In ultimo cercherò di avvicinare questi concetti alla particolare qualità tecnica della radio. L’interattività è la dote che i new media rivendicano con più forza: non più linguaggi unidirezionali tra centro e periferia, vertice e base, dunque non più media monoculturali, vincolati ai valori della produzione e al controllo dei consumi. La rigidità dei mass media su questo piano è sicuramente un dato di fatto, fondato sull’organizzazione stessa dei loro apparati e sulle condizioni di fruizione dei loro testi. Anche se questo non deve portarci a credere o far credere che, seppure condizionate, deboli e assai tarde, non vi siano state e non vi siano tuttora modalità di comunicazione nella direzione opposta, cioè dal pubblico verso le stazioni emittenti. Anzi, proprio da queste forme di interattività latente, sommersa, ma costantemente all’opera nell’espressività degli orientamenti di mercato, le tecnologie dell’industria culturale hanno oggi ricavato l’energia per innovarsi, per dare luogo ai new media. Per quanto riguarda la radio, indubbiamente siamo di fronte a un mezzo che ha una storia tutta particolare (per alcuni aspetti assai vicina alla recente storia dei new media): nasce infatti interattiva, dunque con la qualità tecnica di un personal media. Ma ben presto diventa un mezzo unidirezionale (esito radicale di quelle spinte economico-politiche che anche oggi, nonostante siano venuti meno molti punti di forza della società di massa, premono per un uso monoculturale e unidirezionale esteso anche alle reti telematiche e ai linguaggi digitali). La virtualità è un mito che le nuove tecnologie digitali hanno ridefinito e rilanciato su grande scala. La virtualità è per certi aspetti la dimensione proiettiva, immersiva e fantastica di qualsiasi fiction, cioè di qualsiasi piattaforma espressiva che esalti la perce-

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Abbiamo accumulato una serie di considerazioni. Ora possiamo tornare a ragionare sulla qualità tecnica della radio. Ma questa volta –per il motivo che ho appena indicato (il consumatore che si fa produttore)– dobbiamo riflettere sulla qualità tecnica di chi parla e non di chi ascolta. Per fare questo, debbo partire dalla mia esperienza diretta. Del resto stiamo ragionando su protesi, estensioni corporee, e dunque è in gioco anche il corpo di chi, in questa sede, vi sta di fronte. Il mio corpo. Quando vengo invitato a concedere una intervista televisiva, mi accade di riuscirci con qualche spigliatezza. Mi vedo parlare e so di parlare a chi mi vede. Lavoro sui gesti e sul mio apparire, sapendo di usare una piattaforma espressiva che ha a che spartire con le consuete finzioni pubbliche, con cerimoniali ben riconoscibili. La presenza in scena del mio corpo finisce per compensare ogni errore o silenzio della voce, ogni caduta del senso. Quando invece mi accade di essere invitato a parlare attraverso un microfono radiofonico, le sensazioni che provo sono tanto più affascinanti quanto più smarrite. Persino traumatiche. Il mio corpo e non solo i miei occhi sono ora immersi nel buio. Le parole da trovare non possono più essere il riflesso di chi ascolta, l’esteriorità che mi guarda e in cui io mi guardo, ma debbo cercarle nella mia interiorità. Dentro. In un luogo di cui non conosco i confini e che tuttavia devo sentire “ripieno”, se non voglio precipitare nel nulla e far sentire il mio nulla a chi mi sta scavando dentro per ascoltarmi. La postura del mio corpo nel parlare all’obbiettivo della telecamera tiene conto di una messa in scena, di una prospettiva, di uno spettatore di cui lo schermo decide comunque la situazione con larghi margini di prevedibilità. In quel momento sfrutto la pregnanza storica e sociologica del visibile, le geometrie euclidee delle imma-

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gini e del loro consumo. Mi rassicuro della distanza tra me e l’altro che il mezzo mi offre. Invece, la postura del mio corpo nel buio della parola radiofonica non può godere di alcuna bussola, di alcun orientamento. Sono fuori da ogni spazio euclideo. Nessuna mappa possibile. Sono immerso in una terra che so essere senza sfondo e che, attraverso la mia parola, devo trasformare in territorio. Non sono differenze da poco. Da un lato, quello televisivo, l’interiorità del dire può trovare il confortevole ambiente in cui apparire. Dall’altro lato, quello radiofonico, l’esteriorità del dire va in rovina. E la rovina, come sappiamo, non offre soluzioni estetiche, ma etiche. Impone domande. Richiede una scelta. Attende decisioni da prendere su quale soggettività dare alla propria voce (mai come in situazioni di questo genere, ci si accorge di quanto persino la nostra voce sia una “macchina” necessaria a dare identità a qualcosa d’altro, un mezzo senz’anima, privo di contenuto). Il linguaggio radiofonico, vissuto dall’interno, vissuto come dimensione produttiva del consumo, è dunque un linguaggio radicalmente interiore. Soggettività assoluta. Nella necessità di vincere tutto ciò che nel mondo, prendendo forma materiale e visibile, le resiste. È questo un dato che può confortare la tesi di una radio tanto dolce e discreta quanto aspra, urlata, esibizionista sarebbe la TV? Tanto colta, civile e democratica quanto l’immagine televisiva sarebbe incolta, incivile e autoritaria? Non credo. Anzi, con la radio, siamo nella materia arcana che fa da puntello al sacro prima che la sua violenza simbolica si faccia religione e società. E dunque essa può donarsi come microfono di qualsiasi identità. Anche della più terribile. Anche del più atroce fondamentalismo. Del più spietato dei comandamenti. Il fatto che essa possa ora proporsi come linguaggio di una società aperta e pluralista, come vocazione neocomunitaria o estrema localizzazione di bisogni personali, non dipende da se stessa in quanto tecnologia ma dalle emergenze culturali che potrebbero rinegoziarne il significato in chiave post-moderna o anti-moderna. E comunque, se in alcuni contesti occidentali, come ad esempio il nostro, la radio ha assolto un ruolo espressivo socialmente più morbido rispetto ai linguaggi audiovisivi, è stato sicuramente perché in essa sono prevalse le culture politeiste dei consumi di massa. Ci siamo soffermati su una serie di punti di grande interesse. Non so davvero quanto sia riuscito a connetterli tra loro. Ma spero

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ma a forme di interattività e virtualità generiche, ma ad una innovazione radicale dei suoi contenuti. Questa innovazione ha le sue più forti premesse nella svolta post-industriale e post-fordista di modalità espressive che da soggetto del consumo si sono fatte soggetto della produzione. È nel luogo del prosumer che i conflitti tra ideologia e politica possono riaprirsi. Dall’esperienza poietica del consumatore vengono le soggettività in grado di negoziare il senso e l’uso delle nuove tecnologie. Nell’esperienza di questi luoghi e di queste soggettività la radio può ritrovarsi e rigenerarsi.

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Biblioradio SCHEDE A CURA DI GIOVANNI FIORENTINO

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di essere stato capace almeno a dire che, parlando di rado, la cosa più importante è cogliere interamente la ricchezza dei suoi significati metaforici. Intuire, grazie ad essa, ai suoi exempla, la effettiva qualità relazionale degli ambienti comunicativi che viviamo. La radio ci ha suggerito la possibile dimensione di un luogo di appartenenza fluido, di una forma aperta e dinamica dell’abitare, dunque di politiche del territorio adeguate. Professionalmente adeguate. Questo convegno è nato dall’iniziativa di studenti e docenti che appartengono all’area dei Corsi di Scienze della Comunicazione. Mi piacerebbe che i nostri corsi, sottraendosi all’ipoteca accademica, letteraria e sapienziale della più parte delle scienze umanistiche, sociologiche e persino mediologiche, potessero davvero attivare laboratori di produzione radiofonica, aprire radio di ateneo e magari radio locali situate nei nostri rispettivi bacini di appartenenza. Qui a Lecce come a Roma o a Siena o a Salerno. Ma non credo che il nostro obiettivo possa essere solo quello di riuscire ad avere risorse economiche e capacità formative adeguate a innovare il quadro delle professioni in campo radiofonico o a servirci di stazioni emittenti per svolgere la didattica, garantire intrattenimento agli studenti. Bisogna sapere creare una territorialità simbolicamente più ricca. Prima di tutto, cioè, il nostro compito dovrebbe consistere nel produrre condizioni ambientali, dimensioni di vita personale e collettiva, in cui ricerca e insegnamento possano acquisire la stessa qualità di un ambiente radiofonico attento all’innovazione: quella dimensione di radio, interiore e insieme votata all’ascolto, che appunto abbiamo scelto tra le varie opzioni che la “tecnica” può offrirci. Ma che abbiamo scelto a patto che si faccia espressione di sensibilità sino ad oggi mortificate proprio dai saperi che hanno ridotto a tal punto di degrado fisico e culturale le nostre istituzioni scientifiche e didattiche. Non vi è medium che basti a comunicare, a formare, a farci vivere. Siamo noi la materia che lo fa vivere. Nostro il corpo e l’ambiente che vi si esprime. Se così è –date le condizioni drammatiche in cui versano gli spazi universitari– siamo di fronte a una sfida quasi impossibile: fare radio senza territorio, poiché al massimo l’università a cui oggi apparteniamo è un labirinto di mappe.

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BARBARA FENATI e ALESSANDRA SCAGLIONI, 2002 La radio: modelli, ascolto, programmazione, Carocci, Roma

DAVID HENDY, 2000 La radio nell’era globale, Editori Riuniti, Roma 2002

Le Bussole/Scienze della comunicazione – pp.127, t 8,20.

prefazione di Enrico Menduni White Box – pp. 320, t 18.00.

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Da sinistra: Radioricevitore CGE, mod. Supergioiello, 1948; Radioricevitore SAVIGLIANO mod. 111, 1941

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avviene tra radio pubblica e radio commerciale, radio comunitaria e format radio, con specificità e orientamenti del presente. Si procede poi nel descrivere le logiche della programmazione e della produzione, fino all’organizzazione professionale e ai ruoli funzionali che alimentano la ferialità della macchina. Si chiude con lo studio dei meccanismi pubblicitari e dei pubblici della radio al tempo del medium personale, con una larga attenzione alla scena italiana e ai grandi target (casalinghe, giovani-studenti, anziani, automobilisti, artigiani e commercianti) che costituiscono in larga parte un’audience attestata comunque al di sopra del 50% della popolazione totale. Al termine di ogni capitolo una sintesi schematica e ulteriore consente di fermare le informazioni.

Dalle radionovelas dello Zimbabwe alle radio dei minatori colombiani, dalle emittenti rock della Russia post-sovietica alle Radios libres francesi, dall’Urban Rap Non-stop alle Business News, fino ad arrivare alla marginalità delle esperienze italiane, con l’eccezione delle radio politiche del 1977 bolognese, diffuse attraverso la mediazione culturale internazionale di Umberto Eco. Tradotto meritoriamente da Marta Perrotta per colmare una lacuna dell’editoria scientifica sui media e offrire un punto di vista internazionale sulla situazione contemporanea della radio, il libro di David Hendy (professore di Radiofonia presso la School of Communication and Creative Industries dell’Università di Westminster) analizza il ruolo della radio nelle società contemporanee, a partire dall’osservatorio privilegiato inglese per poi transitare dall’Africa agli Stati Uniti, dall’Europa all’America Latina. Si tratta quindi di un raro caso dove la geografia comparata dei media (Robins e Torchi, La geografia dei media, Baskerville) diventa prezioso e situato elemento di analisi. Lo sfondo sul quale ragiona Hendy è rappresentato da un sistema internazionale fondato su fitti scambi culturali e sostanziose interazioni economiche dove –e vale per molti paesi d’Europa– le proprietà delle emittenti in più casi sono già parte di conglo-

merati plurimediali e plurinazionali di grandi dimensioni. Il testo, appassionato e molto documentato, analizza la radio da molteplici punto di vista. Prima di tutto l’impresa, l’industria nella sua più recente evoluzione, dal finanziamento alla commercializzazione ai rapidi cambiamenti tecnologici, con il nodo centrale, assieme locale e internazionale, della concentrazione delle proprietà. Successivamente gli aspetti tecnologici e produttivi, i testi, nella duplice natura musicale e parlata e il pubblico nella sua centralità di “ascoltatore cooperativo”. La radio che ne esce, pur se mostra un profilo ridotto in ambito sociale generalista, è un mezzo di comunicazione di ampie influenze culturali sulla società, che si gioca intorno alla cultura democratica, al senso di identità, e alla capacità di modellare i gusti musicali. Sicuramente il contesto sociale è una variabile fondamentale, basta ricordare con Hendy, che in alcuni paesi africani la radio rimane l’unico mezzo di comunicazione a raggiungere la maggior parte della popolazione. Al centro di una sistemazione teorica ed etica del mezzo, resta un mezzo di comunicazione che presenta allo stesso tempo caratteristiche localizzate e frammentate da una parte, globalizzate e omogeneizzate dall’altra. Le caratteristiche contraddittorie quanto saldamente intrecciate sono, in una parola, connotazione di un medium glocal.

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Uno sguardo all’interno della comunicazione radiofonica, una guida all’analisi complessiva del mezzo per i neofiti dell’argomento. Il volume di Barbara Fenati e Alessandra Scaglioni, la prima si occupa di ricerca sul pubblico dei media, la seconda è caporedattore di Radio 24 – Il Sole 24 Ore e docente allo IULM di Milano di Teorie e tecniche del linguaggio radiofonico, è uno strumento di navigazione, appunto una bussola: informativo, classificatorio, chiaro, conciso, leggero, concreto, legato dichiaratamente al presente del medium, piuttosto che al passato. Il punto di vista è quello di chi alla specificità della ricerca affianca i benefici del vivere i processi dal di dentro, appunto operativamente. Il breve itinerario è organizzato in questo modo: innanzitutto i modelli e il loro contesto sociale, il confronto

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ENRICO MENDUNI, 2001 Il mondo della radio. Dal transistor a Internet, Il Mulino, Bologna Universale Paperbacks – pp. 281, t 12.91.

Enrico Menduni, 2002 I linguaggi della radio e della televisione. Teorie e tecniche, Laterza, Roma-Bari

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Questo spazio di segnalazione bibiliografica intorno al medium radio, incontra inevitabilmente e in più contributi la ricerca fondante che in questi anni è stata portata avanti da Enrico Menduni, prima nel Corso di laurea in Scienze della comunicazione dell’Università La Sapienza di Roma, poi nei corsi di laurea omonimi dell’Università di Siena e dello IULM di Milano. A Menduni si devono lavori preziosi sulla televisione ma in questo caso è utile ricordare che è stato tra i primi in Italia a sdoganare la radio negli spazi di ricerca scientifica (basti ricordare ad esempio un testo paradigmatico del 1994, La radio nell’era della TV. Fine di un complesso di inferiorità, Il Mulino, Bologna). Tra l’altro offrendo il punto di vista inedito e utile, di un ricercatore transitato a lungo nel mondo della prassi comunicativa in vesti di giornalista. Il mondo della radio, pubblicato per Il Mulino nel 2001, parte –come del resto capita spesso nelle ricerche di Menduni– da una grande attenzione per la storia sociale del medium, per ragionare poi, e quindi utilizzare anche elementi che appartengono al suo sviluppo diacronico, sul presente sociale della radio, con un ampio spazio di approfondimento per la situazione italiana. Si potrebbe partire proprio da qui, la situazione italiana, lo sterminato e vario carnet radiofonico offerto sul territorio regionale della penisola censito

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in appendice (da Radio Manbassa a Radio Stella Avezzano, da Radio Internazionale Costa Smeralda a Paneburromarmellata Musica Italiana, da Radio Piterpan a Radio Città Futura-Popolare Network, tanto per fare qualche nome) per far emergere una situazione mobile, complessa, animata, a un tempo ricca di fermenti locali e di concentrazioni globali, comunque in continua trasformazione. Il saggio si muove tra storia culturale e teoria sociale, ricchezza informativa dei dati e eterogeneità di una bibliografia che sta tra Arnheim e Zumthor, nelle dichiarate intenzioni dell’autore si costruisce per differenza, per distanza dalla visibilità generalista delle immagini, a partire da Marconi fino al fluttuare dei nostri tempi, alle tribù della musica, e al nuovo, intrigante triangolo di comunicazione definito da Internet, radio e telefonino cellulare. Dal momento in cui si è avviata per le vie del mondo sotto forma di transistor, di autoradio e di walkman, si è miniaturizzata come apparato, ha assunto le funzioni di medium delle identità e della connessione, di strumento di informazione in tempo reale e di contenitore soffice dell’oralità e dell’intimità. Il percorso ibrido e ibridante della radio, ci fa approdare a una terza e fortunata giovinezza della sua lunga vita in relazione intensa con i cosiddetti new media che si traduce in funzioni sociali connettive, identitarie e partecipative.

Un manuale che si fonda sulle esperienze didattiche ed è realizzato fondamentalmente per l’uso didattico. La radio, nell’Università italiana, viene accomunata quasi sempre alla sorella più visibile e potente, la televisione. Da circa una decina d’anni nei corsi di laurea in Scienze della comunicazione sono stati istituiti gli insegnamenti in linguaggio radio-televisivo. Menduni, che è appunto docente di Tecniche del linguaggio radiotelevisivo a Siena e Milano, tiene conto di come si insegna questa disciplina nelle università europee e americane, fa presente che, soprattutto in Italia, il solco tra teoria e pratica è tristemente ampio, dichiara la indispensabile necessità di laboratori. Naturalmente nel caso di questo volume, lo studio dei linguaggi radiofonici è stato sottratto a ogni subalternità o falsa simmetria rispetto alla televisione, mantenendo una sua trattazione autonoma. Il testo nella prima parte introduce in generale all’universo della comunicazione, e poi, specificamente, al mondo dei

“mass media nella società di massa”, seguono due brevi capitoli di ordine storico, dedicati rispettivamente a sintetizzare la storia di radio e televisione. Poi il cuore del libro, una seconda e una terza parte concentrati sul presente, appunto, dei linguaggi della radio e della televisione. Per quanto riguarda la radio, l’attenzione si concentra sul versante operativo, fino ad entrare in un tradizionale studio radiofonico: “una stanza abbastanza minuscola, accuratamente insonorizzata con materiali fonoassorbenti (per le piccole emittenti, gommapiuma e contenitori di cartone per uova) e con una porta molto spessa e silenziosa, in cui è collocato un tavolino ricoperto da un panno di feltro, su cui penzolano alcuni microfoni, in vista di un grande orologio…”. Anche qui al termine di ogni capitolo una funzionale bibliografia di riferimento e a conclusione del volume un utile Glossario che attinge naturalmente a mani larghe dalla lingua franca dei media (l’inglese), si veda a caso anchorman, audience, chroma key, jingle, syndication, ecc.

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Manuali Laterza – pp. 223, t 18,00.

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Enrico Menduni (a cura di), 2002 La radio. Percorsi e territori di un medium mobile e interattivo, Baskerville, Bologna

Collettivo A/Traverso, 1977 Alice è il diavolo. Storia di una radio sovversiva, Shake edizioni underground, Milano 2002

Biblioteca di Scienze della Comunicazione – pp. 570, t 22,00.

pp. 176, t 15,00.

Quantità e universalità, la radio al microscopio o al telescopio, secondo i punti di vista di sociologi, semiologi, giornalisti, storici, operatori radiofonici, psicologi, economisti, linguisti. Un volume di oltre 500 pagine dedicate alla radio, una enciclopedia dei saperi e delle conoscenze che insistono sul medium radiofonico, frutto in larga parte delle “Giornate di lavoro sulla radio” tenute all’Università di Siena nel novembre 2001 e promosse ancora da Enrico Menduni. Le riflessioni teoriche delle scienze sociali (Losito, Abruzzese, Colombo, Livolsi, Ortoleva), l’analisi dell’utenza e del consumo radiofonico (Fenati, Monteleone, Varvello, Moscati, Tonello, Roberti, Testa, Cacciari, Doglio), l’integrazione del medium radio in un più ampio sistema dell’industria culturale (Sinibaldi, Sorice, Natale, Diadori, Guidetti, Giomi, Muscio, Novelli, Perrotta, Fusi, Marchesini), il mondo della notizia, quel giornalismo che vive e si nutre di radiofonia (Agostini, Sorrentino, Scaglioni, Mazzoleni, Boni, Nanni, Achtner, Catolfi, Nicastro), il dibattito internazionale e le esperienze di paesi diversi (Hibberd, Kleinsteuber, Fran-

“Alice era il diavolo, l’assalto totale allo stato dell’oppressione, il nostro sorriso, il nostro corpo sempre più libero, capace di amare”. Edito per la prima volta nel 1976 da L’Erba Voglio e riedito oggi da Shake, questo libro conduce alla scoperta di Radio Alice, contiene tra l’altro la trascrizione delle prime trasmissioni della radio ed altri documenti storici, più un cd audio con una scelta godibilissima e attuale di registrazioni dalle trasmissioni. Curato da Bifo, studioso di filosofia della comunicazione, allora membro del collettivo Radio Alice che per le accuse rivoltegli ha subito carcere ed esilio, e Gomma, uno degli animatori della scena cyberpunk e hacker italiana, esperto di storia dei movimenti, il volume racconta la storia della “radio libera” che ha trasformato il volto della comunicazione via etere, e non solo in Italia, l’avventura di un collettivo di hackers, pirati della tecnologia e del linguaggio, innovatori della cultura underground, dadaisti, demenziali e libertari, anima del Movimento del Settantasette a Bologna, che pagarono con il carcere le loro imprese. Il 1976 era l’anno in cui le radio libere cominciavano a proliferare in giro per l’Italia, Radio Alice era probabilmente la più

quet, Maeusli, Grishenko), le prospettive digitali e le interazioni radio internet (Natucci, Vittadini, Borgnino, Fondelli). In ogni sezione del volume emerge comunque una sensibilità diacronica e sincronica, che del resto appartiene al curatore, non ultima un’appendice dedicata al ricordo di Gianni Isola, ricostruzione e analisi sintetica del lavoro di ricerca realizzato intorno al medium radiofonico dallo storico scomparso da poco. Dalla molteplicità dei contributi raccolti nel volume, risultano ancora una volta confermati i molteplici aspetti e fenomeni del suo mondo vitale e l’interesse –direi il fascino– esercitato su molti di noi. Nonostante questo e la varietà degli interventi, mi pare che si possa ancora confermare il parere del curatore: il territorio e i percorsi della radio rimangono in parte inesplorati e impalpabili, le sue funzioni sociali, il suo “senso” profondo, la sua collocazione nel sistema dei media e nell’industria culturale rimane difficile da definire, o comunque semplicemente da stabilire per differenza dalla televisione.

radicale, certamente la più bizzarra. Ma il caso esplode solo quando, il 12 marzo del 1977, nel pieno della insurrezione studentesca seguita all’omicidio del giovane Francesco Lorusso, la polizia entra nei locali da cui la radio trasmette, distrugge le apparecchiature, arresta i redattori, e spegne la voce dell’emittente. La radio riprende a trasmettere il giorno successivo con mezzi di fortuna, e la polizia la chiude nuovamente. Inizia così la leggenda della radio libera. In realtà Radio Alice non è stata solo una radio militante, uno strumento di controinformazione, anzi, i suoi redattori rifiutavano l’espressione controinformazione, pensando invece a una forma di comunicazione giocata sul registro dell’ironia, della leggerezza, della follia visionaria. Il libro, pubblicato da una casa editrice (appunto Shake) che si distingue per un lavoro incentrato sulle tecnologie digitali di comunicazione e sulla rete, cerca di ripercorrere i problemi della comunicazione alla luce dei nuovi equilibri di potere che si sono determinati negli ultimi anni, offrendo una sorta di cronologia molto animata di quegli anni, allo stesso tempo anni dell’ultima rivolta utopica e del primo esplodere del grido punk “Non più futuro”.

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Orson Welles, 1990 La Guerra dei Mondi, Baskerville, Bologna, 2002 prefazione di Fernanda Pivano, nota di Mauro Wolf Collana Blu – pp. 190, t 16,50.

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Nel 1938, il giovanissimo Orson Welles (aveva appena 23 anni) manda in onda via network CBS una puntata del Mercury Theatre, si tratta della trasposizione radiofonica della Guerra dei mondi scritto da Herbert Gorge Wells nel 1898. Quando la trasmissione va in onda, si verifica un fenomeno straordinario di schizofrenia collettiva che coinvolge l’intera nazione e crea la leggenda di Welles. Un annunciatore anonimo interrompe la trasmissione con la notizia che i marziani sono appena sbarcati nel New Jersey, a seguire, di volta in volta, altre comunicazioni, tra le quali un discorso drammatico del Ministro degli Interni. In effetti si trattava di una fiction, annunciata per altro ripetutamente e prima della messa in onda. Ma le tecniche utilizzate da Orson Welles furono tanto efficaci da risultare verosimili. Ne seguì la prima ondata di panico massmediatico della storia: milioni di ascoltatori credettero che fosse giunta la fine del mondo e ne derivò un panico assoluto, la gente fuggiva in tutte le direzioni, dalle città in campagna o dalla campagna in città. Mentre gli Stati Uniti erano in pre-

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da al panico, Welles, ignaro, continuava la sua trasmissione, precipitandosi poi con i suoi attori in teatro per le prove serali del suo Danton: scoprì il disastro soltanto l’indomani mattina. Il biografo di Welles, André Bazin, ricorda che quando, anni dopo, una trasmissione fu interrotta per annunciare che Pearl Harbour era stata distrutta dai giapponesi, molti americani che avevano ascoltato la trasmissione di Welles lo considerarono uno scherzo di cattivo gusto. Nel frattempo Welles era diventato voce popolare radiofonica, e stella nazionale, consacrata dall’uscita del film Citizen Kane (1941). Oggi la radio non è più il potentissimo medium generalista degli anni Trenta, eppure il volume che raccoglie il testo di Orson Welles, oltre ad essere la testimonianza creativa di un talento mediale unico nel Novecento (dalla recitazione teatrale alla regia cinematografica, fino alla performance radiofonica) ci offre un prezioso strumento in grado di provocare riflessioni e connessioni tra immaginario e informazione, passato e presente dei media, corredato e guidato da una puntuale nota di Mauro Wolf.

COMUNICARE LE INFANZIE

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Due contributi dall’Osservatorio interdipartimentale sulle infanzie e adolescenze dell’Università di Lecce, in continuità con i temi sviluppati nello scorso anno al convegno sul Glocale degli innocenti (le cui relazioni sono state pubblicate nel fascicolo n.1 di “Comunicazione”). G. Fiorentino argomenta sui benefici problematici del videogioco; V. De Vitis, una giovane pubblicista, studia l’impatto sui media di carta dell’infanzia “normale” e di quella “molesta” (ovvero del minore “maltrattante”).

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loredana de vitis infanzie di carta

Da una parte il timore, la dislocazione, l’imposizione della disciplina. Dall’altra la progressiva stratificazione di attese, speranze, metafore di futuro. Così gli adulti si sono rapportati per secoli, e continuano a rapportarsi, al soggetto più erratico che il mattatoio della storia abbia mai conosciuto: i bambini. Quando Paolo Rossi stabilisce un sottile ma tenace legame tra bambini, sogni e furori1, lo fa pensando alle definizioni che, nel tempo, si sono date ai bambini, che sono stati considerati “inviati dagli dei”, ai quali si è attribuita capacità oracolare ma anche una certa vicinanza ai “folli”. Queste come altre idee hanno influito, in epoca moderna, sull’immagine dell’infanzia e sul comportamento quotidiano degli adulti e dei bambini (Dieter Richter ha formulato con grande chiarezza questa distinzione tra “vita dei bambini” e “immagine dell’infanzia”2). Accogliendo le “provocazioni” della cronaca, mi sono chiesta in che misura e in quali modi, nella stampa italiana che parla d’infanzia, realtà e immaginario si sovrappongono. Il punto era capire che idea dell’infanzia si comunica, o meglio capire, attraverso le notizie di cronaca, gli approfondimenti, i commenti, che tipo di “cultura d’infanzia” si diffonde. Le principali testate prese in considerazione nel triennio 19992001 (“Corriere della Sera”, “la Repubblica”, “il Giornale”, “il manifesto”, “L’Espresso”, “Panorama”) hanno rivelato grande sensibilità per le notizie che riguardano bambini e adolescenti: basta pensare al gran numero di prime pagine loro dedicate e alle tante, sempre suggestive e spesso ambigue copertine patinate. Negli anni presi in esame la stampa si è addentrata nel mondo “bambino” cercando di rispondere alle richieste di un’opinione pubblica sempre più a disagio rispetto al rapido mutamento dell’identikit soprattutto adolescenziale. Ma nel farlo ha inevitabilmente utilizzato linguaggi, idee e stereotipi che, come abbiamo visto, vengono da più lontano. Lo stesso Paolo Rossi parla di un’oscillazione tra nostalgia e risentimento3, che –come vedremo– la carta stampata riprende ed amplifica. L’indignazione, per esempio, è il sentimento più presente nei commenti a notizie di pedofilia e sfruttamento:

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“Quelli” che odiano i bambini La sequenza di casi sconcertanti di pedofilia “della porta accanto” comincia alla fine degli anni Novanta con nomi noti come Simone Allegretti, Lorenzo Paolucci, Melissa Russo, Silvestro Delle Cave e con quelli di altri bambini le cui storie sono riuscite ad arrivare all’opinione pubblica, al contrario della maggior parte degli abusi che, dicono gli esperti, avvengono in famiglia. Nel triennio analizzato, i casi più eclatanti riguardano due bambine, uccise dopo tentativi di violenza a distanza di 24 ore l’una dall’altra nell’agosto 2000. È un agosto particolarmente “caldo”, in cui l’allarme dilaga, internet sconvolge con casi di pedofilia di rara ferocia, Vittorio Feltri dà scandalo pubblicando su “Libero” liste di pedofili “bollati” da una sentenza definitiva. Inizia peraltro una vivace querelle sulle più efficaci forme di intervento: qualcuno appoggia la pubblicazione dei nomi, altri invocano la castrazione chimica e la pena di morte. Ma torniamo ai due casi citati. È accaduto che la piccola Hegere Kilani, cinque anni non ancora compiuti, figlia di immigrati tunisini abitanti di un quartiere povero di Imperia, viene trovata uccisa da sette coltellate in un appartamento a pochi metri dalla piazza dove stava giocando con la bicicletta, prima di essere “attirata” in qualche modo dal suo carnefice (un giovane clandestino rumeno) che ha tentato di violentarla. Gabriella Mansi è l’altra bambina uccisa. Il caso è notissimo. La piccola, otto anni, di Andria (Bari), è figlia di una famiglia povera che vive grazie ai guadagni di una bancarella di noccioline. Attirata, mentre riempie un secchio d’acqua a una fontanella pubblica ai piedi di Castel del Monte, dal 18enne Pasquale Porpora, che le racconta di aver trovato dei cuccioli nel bosco vicino, viene bruciata viva dal ragazzo e da quattro suoi amici dopo un tentativo di violenza4. Questi casi, intanto, fanno riflettere su un cambiamento, diciamo così, di target: “Repubblica” riporta il parere del procuratore capo di Sanremo Mariano Gagliano, che sottolinea come da fenomeni di pedofilia che vedevano protagoniste, nei panni dei carnefici, “persone di una certa cultura o di pochissima cultura”, si sia passati a un tipo di pedofilo che “appartiene a tutte le razze e a tutti i ceti”: non si tratta più di “anziani viziosi, che trovano nei minori un surrogato al declino della loro sessualità” ma anche di giovani “che sono più determinati, più pericolosi” 5. E già si sente qualche commento che sposta l’attenzione dal particolare al gene-

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c’è indignazione verso chi compie atti a danno di bambini innocenti, minandone per sempre la “parte migliore dell’esistenza”. La rabbia, invece, è il sentimento che prevale quando si parla di adolescenti disimpegnati, perversi e magari assassini, che avrebbero bisogno di essere trattati, e dunque anche puniti, come gli adulti (emblematico il caso Novi Ligure). Gli specialisti invitati ad esprimere un’opinione professionale (ma spesso anche umana) sui fatti di cronaca che più hanno colpito l’opinione pubblica si sono richiamati a temi cruciali, come la mancanza di un’adeguata educazione emotiva, che si ripercuote sui rapporti interpersonali e sulla gestione delle sensazioni corporee; ma hanno anche indicato le responsabilità di un sistema dei media che sembra saper proporre soltanto sangue e violenza o, al più, accattivanti prodotti per uno dei tanti target di consumo. La stampa, in effetti, si è fatta carico di dibattere su problemi etici che erroneamente vengono attribuiti esclusivamente alla televisione, soprattutto quando si parla di adolescenti. La cronaca degli ultimi tre anni denuncia la pressoché totale assenza di capacità (e volontà) di rispettare il codice deontologico della “Carta di Treviso” e del successivo “Vademecum ’95”: troppi articoli, sintetizzati in titoli efficaci quanto sconcertanti, hanno trattato ragazzi poco più che bambini come semplici oggetti di scoop. Si sono fatti nomi e cognomi, si è indagato su ogni aspetto della loro vita, si è proceduto in modo manicheo e semplicistico, qualche volta si sono costruite icone mediali del Male assoluto. Erika, per esempio, è diventato un nome comune, sinonimo di figlia incomprensibile e pericolosa, ma anche un tipo di “sindrome” e il possibile emblema di una generazione. Voglio entrare subito nel merito, parlando prima dei bambini e quindi degli adolescenti, e utilizzando così una schematizzazione arbitraria, visti gli incerti confini tra le due fasi della vita. I fatti di cronaca che hanno destato maggiore preoccupazione sono quelli relativi a casi di pedofilia, con una maggiore attenzione per quella che potrebbe essere definita “pedofilia della porta accanto” e per i casi di pedofilia on line. È stato approfondito assai meno, invece, il fenomeno del cosiddetto “turismo sessuale” che, riguardando i bambini delle aree povere del mondo (i numeri più alti si registrano in Thailandia, India, Filippine, Sri Lanka, Pakistan, Nepal, ma anche in Brasile, nella Repubblica dominicana e in altri paesi caraibici), tocca meno la sensibilità dell’Occidente, più preoccupato dei “propri” bambini.

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rale, come nel caso della psicologa Tilde Giani Gallino e dello psichiatra Andrea Masini, pronti a sostenere che “non servono pene più severe ma un cambiamento culturale, che consideri il bambino un soggetto con una sua identità psichica, una sua fantasia inconscia, cui l’adulto deve sapersi rapportare senza prevaricazioni”6. Nel frattempo la storia irrompe nella cronaca: ad Andria, dove crescono la rabbia e la paura, i bambini vengono coinvolti in cortei accusatori, come era avvenuto negli anni precedenti in altri paesi d’Europa. Si ripropone così quel legame tra innocenza e massacro che gli storici dell’infanzia hanno segnalato nelle crociate e nella violenza perpetrata ai danni di ugonotti ed ebrei (nel primo caso in Francia, nel secondo in vari stati europei) tra il Quattrocento e il Settecento7. E mentre c’è chi si preoccupa di “castigare” il costume, il cardinale Ersilio Tonini collega la pedofilia a quel “fenomeno indomabile” che è la “sessualità sregolata”, generata dalla sua sovraesposizione: “Si può pensare che quando la sessualità non è guidata ed è buttata ai quattro venti non accada qualcosa? […] Come non pensare alle sollecitazioni che arrivano al pedofilo? È proprio vero che si è pedofili da sempre o non lo si è diventati?”8. Sul “Corriere della Sera”, Fulvio Scaparro attribuisce invece la pedofilia a persone che “ritenendo per l’infelicità delle proprie vicende personali di essere in credito con il mondo, sono giunte ad odiare il prossimo fino a desiderarne la distruzione pur mantenendo quel minimo di lucidità che consente loro di individuare il punto più sensibile, il cuore della comunità: i bambini e le donne”. Da qui l’auspicio che si possa ricostruire questa comunità, minata dallo “scollamento” tra cittadini e istituzioni e caratterizzata da una trama sociale sempre più logora. La comunità dovrebbe tornare ad essere, secondo Scaparro, quella “rete di relazioni” grazie alla quale i bambini possono essere “sicuri in ogni luogo”9. Interessante è, a sua volta, la valutazione di Dacia Maraini, nella quale la pedofilia assume “quel valore simbolico che ogni epoca dà ai propri mali”. Dopo la proposta di cambiare il termine pedofilia in pedofobia o misopedia, Maraini sottolinea come la violenza di singoli atti non sia “un’eccezione che riguarda pochi criminali, ma un modo di essere di una società che dice di amare i bambini, ma in realtà li vorrebbe distruggere prima che crescano”, volendo in ultima analisi ribadire “gli antichi privilegi dei padri sui figli”. Di cosa preoccuparsi, allora? Dell’“odio quotidiano, ben mimetizzato” che con-

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Di tutt’altro segno le scelte del “manifesto”, che tenta un’analisi a vasto raggio, intervistando due assistenti sociali di Milano che lavorano in centri di assistenza per bambini maltrattati e ribadendo –tramite questi interlocutori– che la maggior parte degli abusi si verifica in famiglia, visto che “gli istinti materni e paterni non sono così lineari come sembra. E per i bambini è più difficile districarsi da mamma e papà che dall’estraneo dei giardinetti”14. Nel fondo del 23 agosto, firmato da Guglielmo Ragozzino, si analizza il meccanismo per il quale, nell’Occidente contemporaneo, gli adulti lavorano molto per poi avere un figlio unico e magari vederlo poco, mentre i bambini non imparano a conoscere i coetanei, spaventati come sono in ogni modo “con i terribili pericoli del mondo”. Secondo Ragozzino bisognerebbe invece “insegnare ai bambini e alle bambine a difendersi da noi, padri violenti. […] A capire che nessun essere umano appartiene a un altro. […] Un figlio nasce, ha bisogno di aiuto, ma nasce libero, non nasce come oggetto”15. Infine, una lettura psicoanalitica dell’emergenza pedofilia da parte del neuropsichiatra infantile Martin George Egge, che sottolinea in particolare lo “spostamento dagli ideali agli oggetti di godimento”, perfettamente esemplificato dagli spot che fanno leva “allusivamente sulle varie Lolite: è come se dicesse, così fan tutti, anche tu puoi godere”16. Non mi soffermo sui settimanali “L’Espresso” e “Panorama”, che si limitano a riassumere ciò che i quotidiani hanno ampiamente dibattuto, entrambi parlando di “allarme”, di “guerra”, di necessaria “difesa”. Non posso soffermarmi neppure su quella aberrante forma di pedofilia che è il cosiddetto “turismo sessuale”: l’attenzione verso questo fenomeno è ridotta, si limita a casi eclatanti, a reportage una tantum17. I figli di cui si parla di più sono inevitabilmente quelli dell’Occidente ricco.

Pedofilia “virtuale”: il “mercato” in corto circuito Il caso di pedofilia che davvero ha innescato una spirale di panico, anche perché di poco successivo alle due vicende di cui abbiamo poc’anzi parlato, è un caso “virtuale”, un’occasione dunque per discutere anche sull’utilità e sulla pericolosità di internet per i bambini. Alla fine del settembre 2000 la Procura di Torre Annunziata scopre un traffico on line di immagini e videocassette tra Italia e Russia: undici arresti, 1.700 inquisiti, 490 avvisi di garanzia, 600 perquisizioni per scene non solo di stupro ma anche di omici-

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duce “alla pratica ordinaria della sopraffazione e del mercato”, perché è con le idee di “possesso” e di “razzismo sessuale” che si prepara il terreno ai pedofili10. Sul “Giornale”, un fondo di Ida Magli insiste invece sulla necessità di tutelare i bambini innanzitutto dalla paura. Come? Facendo circolare il meno possibile notizie su fatti di pedofilia, abbassando la soglia del “valore” sessualità, smettendo di usare i bambini come stimolo pubblicitario e, infine, mettendo i “malati mentali” in condizione di non nuocere11. Curioso che sullo stesso quotidiano un’intera pagina venga dedicata, lo stesso giorno, al libro scritto e pubblicato a proprie spese dalle psicoterapeute Stefania Rialti e Loredana Petrone dal titolo Chi ha paura del lupo cattivo? Con illustrazioni e raccomandazioni decise ma espresse in un linguaggio “affettuoso”, si consiglia tra l’altro di insegnare al bambino a camminare tenendo per mano i genitori, di farlo giocare solo in luoghi costantemente sorvegliabili, di non mandarlo da solo nei bagni pubblici e di evitare la visione di film violenti. Nell’articolo principale si annuncia anche l’uscita di un manuale per genitori, pubblicato da Franco Angeli nel 2002 e scritto dalle stesse autrici, e si indicano le tipologie di pedofili (latente, occasionale, regressivo, dalla personalità immatura, omosessuale, sadico) e i sintomi che potrebbero presentare i bambini vittime di violenza12. Chi aveva parlato di paura? Sempre sul “Giornale”, Marcello Veneziani aggiunge qualche provocazione: “si respira troppa morbosità sessuale in giro, in video, nella vita; si benedice troppo la trasgressione e la pornografia, si ripete da troppe parti che prima di tutto c’è il piacere. La famiglia diventa per le fabbriche della nuova morale una variabile secondaria e arretrata dell’accoppiamento. […] E poi si respira troppa violenza, troppo compiacimento per il sangue e l’efferatezza. Sesso e sangue diventano una miscela devastante. […] Questo probabilmente non crea comportamenti criminali, ma sicuramente li favorisce, fa cadere le ultime distinzioni fra il bene e il male, fa crollare gli ultimi freni inibitori, che sono un bene, e invece nella sociologia corrente passano per un male, al punto che oggi si dice malato non chi è sfrenato ma chi si frena. […] Poi non lamentatevi se crescono i pedofili e se le folle esasperate si danno al linciaggio: entrambi pensano che il miglior modo per vivere nella società sia sfogare tutto e subito, consumare crimini e vendette sul posto, come in un picnic della barbarie”13.

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c’è forse il desiderio di sbarazzarsi di questi problemi troppo ingombranti per l’inefficienza del mercato? Il trattamento che riserviamo ai bambini, e quindi alla generazione futura, ci fa propendere per la seconda ipotesi”19. Galimberti torna in seguito sul problema, soffermandosi sulle polemiche scatenate dalla messa in onda, la sera del 27 settembre, nelle edizioni del telegiornale di Rai Uno e Rai Tre, di immagini raccapriccianti relative all’inchiesta in questione. La visione di quelle immagini innesca, per Galimberti, un “cortocircuito emotivo” che rischia di azzerare la possibilità di dialogo tra genitori e bambini in fase di “pre-comprensione” della sessualità, un dialogo necessario per sottrarre i bambini a quella “pericolosissima ingenuità che li rende esposti a incontri malaugurati”20. L’ipotesi avanzata è che quelle immagini abbiano scatenato la Grande Indignazione per il loro aver “perforato” il Grande Silenzio, provocando di conseguenza non una rimozione (freudianamente una nevrosi) ma una negazione (dunque una psicosi, un atto di follia). A questa considerazione iniziale Galimberti si appoggia per additare la colpevole non conoscenza del fenomeno pedofilia, una “ignoranza”, un “silenzio” che viene subito dopo quello sulla sessualità. Con l’aggravante che l’informazione che bisognerebbe fornire ai bambini non è supportata, sottolinea Galimberti, da un corretto ed aggiornato sapere specialistico: un eloquente esempio è lo stesso equivoco generato dall’uso scorretto della parola pedofilia, che letteralmente indica l’amore per i fanciulli, un amore che, “opportunamente sublimato, può diventare anche attitudine pedagogica”. I rapporti sessuali con minori si collocano invece nell’ambito della pederastia, termine a sua volta confuso e mescolato all’omosessualità21. Questo per dire che se da una parte “sappiamo tutto dell’eterosessualità, dell’omosessualità, della bisessualità e della transessualità”, dall’altra non conosciamo “nulla della sessualità con i bambini anche se il fenomeno in Estremo Oriente e in America Latina ha cifre a sei zeri”22. Insomma, chi sono i pedofili? E dove sono? Contrastanti i pareri su quest’ultimo punto. Sul “Giornale”, nel fondo del 28 settembre Mario Cervi denuncia “le perversioni della Rete” sottolineando come, davanti a precedenti episodi che potevano essere ricondotti a comportamenti delinquenziali individuali, l’inchiesta della Procura di Torre Annunziata spalanca un insospettabile “abisso d’orrore”. Ecco perché, secondo Cervi, occorrerebbe prendere coscienza che “i pedofili sono tra noi, […] e che non vengono da una subumanità

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dio violento di minori, alcuni piccolissimi. L’inchiesta è durata circa 19 mesi ed è partita su segnalazione di “Telefono Arcobaleno”; tra gli indagati ci sono anche 18 minorenni. La base del traffico è in Russia, dove risiede l’ideatore, Dimitri Victor Kuzentov, 33 anni, fotografo per mestiere e animatore in campeggi estivi per hobby: due attività che gli consentono facile contatto con bambini e ragazzi. “Se l’Occidente ricco paga in dollari per i suoi piaceri perversi”, scrive su “Repubblica” Alberto Stabile, “nella Russia della transizione, senza legge né regole, si produce pornografia per pedofili, al pari di qualsiasi paese sottosviluppato”18. E il mercato, già fiorente, della pedo-pornografia viene amplificato da internet. Proprio della logica di questo mercato, che riesce a spostare il soggetto bambino verso la condizione di oggetto dell’adulto, parla, sempre su “Repubblica”, Umberto Galimberti. La vicenda dei necropedofili via internet rivela, secondo il filosofo, il vero volto di quella “pura e cruda violenza” che trova un mercato pronto a coinvolgere “una gran quantità di gente […] interessata […], qualunque sia la merce”. Il mercato non è dunque uno “strumento innocente”, perché, come internet, “non si cura della qualità della merce che si scambia”. Così, invece di essere “destinatario della trasmissione culturale” dell’adulto, il bambino è diventato proprio una “merce”, un “anello della catena della produzione materiale”. Galimberti parla di “materializzazione dell’infanzia”, un fenomeno che sembra avviare a quel “grande capovolgimento” che per Platone ha luogo quando Dio abbandona il governo del mondo e che Karl Marx esplicitò nel 1849 parlando di forze materiali che vengono dotate di vita spirituale e di esistenza umana avvilita a forza materiale, e di cui il sintomo odierno è il trattamento riservato ai bambini: “Se la sorte di troppi bambini oggi ci commuove non fermiamoci lì. La loro condizione non è una faccenda di lacrime o di buon cuore, ma il sintomo di un’umanità che, senza accorgersene, e in nome del mercato sta abdicando alla condizione della propria conservazione e alla conservazione della propria identità. Questa condizione si chiama trasmissione culturale che ha proprio nei bambini i loro destinatari. Dimenticarlo significa avviarsi rapidamente alla fine del modo con cui l’umanità ha finora propagato e conservato se stessa. Ma esiste un altro modo? C’è forse tra i segreti del mercato, nascosto in qualche recondito apparato, il modo di conservare l’umanità e i suoi tratti senza trasmissione culturale alla generazione successiva? O non

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La società dello spettacolo Riassumendo, i fatti di cronaca riguardanti i bambini che più hanno sconcertato l’opinione pubblica sono casi di pedofilia, della quale si è attribuita la responsabilità ultima, in fin dei conti, alla logica del mercato e a quella –che è poi la stessa– dei mezzi di comunicazione. Ora, se ci si limita anche semplicemente ad analizzare i periodici, cercando i servizi attinenti ai gusti e all’educazione dei bambini, è fa-

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primordiale ma da un’umanità che con sforzo devo definire apparentemente normale”23. Isabella Bossi Fedrigotti, invece, in un intervento sul “Corriere della Sera” parla di “altra razza umana”: chi paga per vedere on line gli stupri e gli omicidi dei bambini e i serial killer che li seviziano e uccidono le paiono una “razza aliena”, una razza da “scovare, emarginare, indicare a dito”24. Sui settimanali “L’Espresso” e “Panorama”, il dibattito continua su questi temi: il mercato, i problemi della rete, la necessità di una regolamentazione davvero difficile da applicare, le responsabilità dei media con le loro offerte di film e pubblicità in cui “trionfa il pulp & sex, straripano le immagini violente, l’erotismo da obitorio, la volgarità offensiva come un’arma. In dosi sempre più hard”25. Allo shock mediatico generato dalle immagini televisive (sfuggite –sia detto per inciso, visto che non è questo il luogo per approfondire la questione– al controllo dei direttori dei telegiornali Rai), si aggiunge la seconda “provocazione” di Vittorio Feltri, che il 29 settembre, sulla terza pagina di “Libero”, pubblica sette fotografie pornografiche con adolescenti e, a pagina quattro, una foto di violenza tratta da un video sequestrato dalla Magistratura in occasione dell’inchiesta di

Torre Annunziata26. Sotto, 150 righe di dialoghi brutali tra pedofili, trascritti da un sito internet. L’Ordine dei giornalisti della Lombardia notifica immediatamente a Feltri un avviso disciplinare, nel quale si legge che quelle fotografie “appaiono tutte contrarie al buon costume e tali”, “illustrando particolari raccapriccianti e impressionanti”, “da potere turbare il comune sentimento della morale e l’ordine familiare”27. Feltri rinuncia a comparire, non nomina un difensore di fiducia, non risponde all’avviso. Con la sua deliberata scelta di scandalizzare i lettori per svegliarne le coscienze (come il direttore aveva scritto nel fondo del 29 settembre) ha, secondo l’Ordine, “gravemente compromesso la dignità professionale fino a rendere incompatibile con la dignità stessa la sua permanenza nell’Albo”. Vittorio Feltri viene infatti radiato il 20 novembre 2000. Mi pare importante sottolineare come, nella deliberazione, non si faccia neanche il minimo cenno alla dignità lesa dei minori direttamente e indirettamente coinvolti in quella pubblicazione. È invece nella deliberazione che proscioglie Gad Lerner che si trattano questi argomenti: l’ex direttore del Tg Uno viene prosciolto dal Consiglio dell’Ordine dei giornalisti del Piemonte per essersi “attivato in tutti i modi perché quelle immagini non venissero trasmesse”, vedendo invece disattese le sue direttive. È qui da rilevare la presa di coscienza sul “modo in cui ancora oggi, nonostante i numerosi interventi degli Ordini professionali, del Garante per la privacy, delle direttive indicate dalla Carta di Treviso e dal Comitato nazionale di Garanzia per l’Informazione sui Minori, si continui a diffondere sia sulla carta stampata sia in tv immagini che, a giudizio di questo Consiglio, non dovrebbero mai essere rese pubbliche, seppure schermate”. Da questa vicenda sembra che “buona parte della categoria dei giornalisti” esca “sconfitta: la superficialità, la smania dello scoop e la mancanza di una sensibilità culturale fanno passare in secondo ordine una realtà drammatica che dovrebbe essere affrontata con il massimo della sensibilità”28.

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si sofferma anche –e siamo al punto– sulle responsabilità della stampa specializzata, anzitutto rivelando il ruolo spesso determinante delle giornaliste, assunte di frequente come stylist, cioè come consulenti di una o più case di moda. Tale consulenza si estende dalla selezione degli accessori alla scelta delle modelle, del trucco e dei fotografi, che magari, dopo aver fotografato i cataloghi, curano i servizi redazionali delle testate per cui lavorano le stesse giornaliste. A volte le stylist, se sono direttori, possono influenzare le scelte di stile, come denuncia Ennio Capasa, stilista internazionale d’origine salentina. Il commento di Franco Abbruzzo, presidente dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia, è secco: “Il giornalista è un informatore critico. Chi fa altro è moralmente fuori della professione. […] Il problema è che nessuno denuncia, con nomi e cognomi, questi patti col diavolo”31. Vogliamo parlare ancora di mercato? Nel 2000, l’uscita nelle librerie del quarto volume della serie dedicata al piccolo mago Harry Potter, geniale creatura della scrittrice inglese Joanne K. Rowling, e il grande successo riscosso dalla saga tra i bambini spinge i settimanali ad approfondire i motivi di un fenomeno che fa parlare “Panorama” di una Potter Generation. La fortuna della scrittrice viene ricondotta alla sua capacità di attingere e dare nuova linfa ai classici della letteratura per ragazzi, da Lewis Carroll a Francis Compton Burnett, ma anche della letteratura fantastica letta pure dagli adulti, da Tolkien a Dahl. Anche se diversi critici la contestano, molti concordano nell’attribuire a Rowling “una geniale capacità di entrare in sintonia con la mentalità dei piccoli, divertendo anche i grandi”, mescolando ingredienti “accattivanti per un lettore bambino”, come “buoni sentimenti, colpi di scena, identificazione con i personaggi positivi”32. Tra i pareri riportati, ci sono quello del “New York Times”, secondo il quale le storie della scrittrice inglese hanno la caratteristica positiva di “emozioni e trionfi” riportati da personaggi che, pur utilizzando mezzi soprannaturali, “si mantengono su una scala rigorosamente umana”; e quello del “Times”, che ha dedicato al piccolo mago –come il “Newsweek”– anche una copertina: in linea con le più moderne ricerche di genere sui libri, il critico Christine Schroefer ha stigmatizzato la misoginia delle storie di Harry Potter, nelle quali “le figure femminili […] agiscono solo da contorno”. Altri giudizi positivi sono invece stati espressi in riferimento al gradito ritorno dei bambini alla lettura e ad una nuova

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cile rendersi conto di come, fatti uscire dalla porta, questi problemi rientrino dalla finestra. Due i casi da segnalare. Il 23 novembre 1999 la Bbc manda in onda la trasmissione MacIntyre under cover, in cui un giornalista –vissuto in incognito per diciotto mesi tra Milano, Parigi e Londra– mostra il mondo della moda nelle sue perversioni: modelle drogate a quindici anni, clienti che chiedono sesso, autisti e procacciatori trasformati in sfruttatori. Le polemiche più accese nascono, naturalmente, a proposito dello sfruttamento di minorenni. Già nell’ottobre precedente, in realtà, si era discusso del problema: quando la estone dodicenne Tatiana Stsemeleva si fece notare sulle passerelle milanesi, molti stilisti cominciarono a discutere di etica, di immoralità, dissero che si trattava di “una bambina strappata alle grinfie di un pedofilo”. “L’Espresso” approfondisce il problema in un servizio sul numero del 14 ottobre, dove si racconta la storia di questa ragazza altissima e con lunghi capelli biondi, notata per strada e selezionata per frequentare una scuola serale di portamento e poi –molto prima delle sfilate milanesi– lanciata su gigantografie per un noto marchio di abiti per ragazze, con “il suo visetto dai colori albini, reso volutamente più infantile”. Sul finire dell’articolo, la “censura”: “Che cosa ha veramente indossato Tatiana Stsemeleva durante le sfilate milanesi? Ha davvero valorizzato come nessun’altra i vestiti di Mila Schön, di Romeo Gigli o di Etro? O invece ha portato in passerella soprattutto il suo seno che non c’è, il suo corpo senza ancora sesso, né malizie, né attrattiva? […] Tatiana ha fatto scandalo perché ha mostrato a tutti che il gioco si è fatto davvero estremo. Ciò che ci piace, ci attira, ci dispone a comprare merci deve essere sempre più indistinto, fissato in un’espressione e in un’età che non mostra la differenza tra infantile e adulto, tra femminile e maschile. […] Ci saranno sempre più ragazzine non cresciute ed esaltate in questa condizione, bambine vulnerabili vestite in modo da apparire disponibili, prodotti anche loro –e non modelli– di una società che non riesce più a far diventare adulti i propri figli”29. “Panorama” invece si occupa dello scandalo innescato dal servizio della Bbc in due servizi speciali30 e, riguardo alle piccole modelle, sottolinea maggiormente le responsabilità dei genitori. Il primo servizio precisa, per bocca di Riccardo Gay, della celebre agenzia di moda, che i luoghi di provenienza di queste modelle sono spesso non a caso paesi poveri come Russia, Ucraina, Bielorussia, Estonia, Lituania, Lettonia. Nel servizio successivo, il settimanale

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che si spinge verso dolciumi, bibite, prodotti per la pulizia personale. Difficile credere che di questa operazione commerciale non facciano parte anche i servizi di questo genere.

La fuga dei padri e i buoni consigli degli “esperti” La stampa è quindi artefice e vittima della mancanza, tanto evidente, di “cultura d’infanzia”. D’altra parte i saperi specialistici non aiutano. Quando, nel giugno 1999, Karol Wojtyla interviene sul ruolo della figura paterna contestando la tendenza dei nuovi padri a comportarsi come “amici” piuttosto che come genitori, “Panorama” mette a confronto i pareri di Silvia Vegetti Finzi, docente di Psicologia dinamica all’Università di Pavia, e del noto pediatra Marcello Bernardi36. Vegetti Finzi si dice d’accordo con il Papa, a suo avviso i ragazzi “hanno bisogno di regole, di un limite esterno, senza scontrarsi da soli con gli eccessi”. La famiglia, per come si è configurata negli ultimi anni, sembra a Vegetti Finzi permissiva in quanto “i genitori trascorrono poche ore insieme ai figli e non vogliono rovinarsi il poco tempo insieme”. La “fuga” dei padri sarebbe riconducibile in ultima analisi alla loro “paura di sbagliare”, di risultare “poco amati”. Bernardi è invece di tutt’altro avviso, già il concetto di ruolo non piace al pediatra: “Nella figura paterna la cosa più importante è saper esprimere la propria opinione, non

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passione per la magia, nella sua “accezione più innocente”. Quest’ultimo parere si scontra, come riportato da “L’Espresso”, con le detrazioni dei “fondamentalisti cristiani” d’oltreoceano, secondo i quali la serie di Harry Potter rappresenta “un’introduzione al mondo della stregoneria e dell’occulto”33. Il 6 dicembre 2001 debutta nei cinema italiani il primo film tratto dalla saga, portando con sé il merchandising tipico di fenomeni come questo: Harry Potter e la pietra filosofale guadagna una copertina di “Panorama”, insieme con il tentativo di comprendere “perché tutti i ragazzini (e non solo loro) sognano di cambiare il mondo con un colpo di bacchetta magica”. Nel servizio principale spicca la considerazione per la quale il successo del personaggio è legato al suo essere non un supereroe ma “un ragazzino molto normale, che va a scuola e fa grandi cose”. Sono parole del produttore del film David Heyman, che non manca di sottolineare che, se la storia si sviluppa in un contesto fantasy, le emozioni sulle quali si basa sono “condivisibili”. L’identificazione di “grandi e piccini” con Harry verrebbe inoltre facilitata dal suo provenire da una “famiglia disfunzionale”, dal suo non essere bravo a scuola, dall’avere problemi con gli insegnanti, ma pure dal portare gli occhiali: la “rivincita” del suo possedere poteri magici fa sì che “tutto sembri possibile e un po’ meno straordinario”. Anche l’amica Hermione, amatissima dalle bambine, ha caratteristiche ideali: su tutte, è figlia di “babbani” (di genitori privi di poteri). Nell’articolo si citano le opinioni del “New York Times” e del “Newsweek”, che hanno attribuito al film di Harry Potter il merito di aver “restituito il sorriso agli americani” dopo la tragedia dell’11 settembre: il cattivo Voldemort è stato associato a Bin Laden e i suoi seguaci ai membri di Al Qaeda, “mimetizzati fra la gente normale ma pronti a rientrare in azione ai comandi dell’Oscuro Signore”. Ironia della sorte, il perfido professor Raptor, seguace di Voldemort, è l’unico a indossare il turbante. D’altra parte lo studioso di religioni Massimo Introvigne, collaboratore di “Avvenire”, ha sostenuto che “Harry Potter può avere una funzione pedagogica importante in un momento come questo: riafferma i valori senza cadere in una rappresentazione manichea e fondamentalista della lotta fra bene e male”34. E, ritornando al mercato, ecco un articolo riguardante il merchandising che accompagna l’uscita del film35, operazione commerciale che supera di gran lunga la classica produzione di magliette e giochi da tavolo e

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Bollea: “L’ideale è rientrare sempre alla stessa ora, perché il bimbo segue un orologio biologico che non va deluso. E poi nella prima ora che si passa in casa la madre deve dimenticare sacchetti della spesa, fornelli, telefono e tv”. Se poi il bambino è in età scolare e “la madre non può essere a casa, che ci trovi almeno il padre”. Al padre, in particolare, dovrebbe spettare “la responsabilità di dare al figlio stabilità, protezione e indirizzo nella vita, […] la protezione dal mondo esterno”: tutti compiti che si potrebbero concretizzare in azioni come accompagnare a scuola i figli, parlare con i professori, essere presenti ai “debutti” scolastici, sportivi e così via. I consigli, naturalmente, non finiscono qui. Ciò che in questa sede conta osservare è che, in ultima analisi, vengono forniti pareri contrastanti (in particolare riguardo ai “no” da dire ai figli), in perfetta contraddizione con le ambizioni del servizio40. Le contraddizioni che fin qui ho avuto modo di sottolineare si amplificano quando si parla, invece che di bambini, di adolescenti. Per approfondire brevemente questo punto, voglio partire dal caso di cronaca che, nei tre anni presi in considerazione, ha destato maggiore sconcerto, dando adito ad una vera e propria “guerra” di interpretazioni: il delitto di Novi Ligure. La sera del 21 febbraio 2001, mentre Francesco De Nardo gioca ancora a calcetto con gli amici, la moglie Susanna Cassini (45 anni) e il figlio Gianluca De Nardo (12 anni) vengono trovati massacrati da circa cento coltellate in una delle tante villette a schiera del quartiere residenziale Lodolino di Novi Ligure, trentamila abitanti in provincia di Alessandria. Susy Cassini giace in cucina al piano terra, Gianluca nella vasca da bagno piena d’acqua al primo piano. Erika (16 anni), figlia e sorella degli assassinati, dopo aver simulato una fuga, racconta agli inquirenti di aver assistito ad un omicidio perpetrato da “immigrati slavi”, dei quali poi identificherà un albanese con un alibi fortunatamente inattaccabile. Anche se all’inizio la testimonianza sembra verosimile, i dubbi sorgono presto: dopo un sopralluogo, una registrazione “a tradimento” delle conversazioni tra la ragazza e il suo boyfriend Omar Favaro (17 anni) e un lungo interrogatorio, i due vengono arrestati. I giornali non perdono tempo, sottolineano subito che Erika sembrava una ragazza normale cresciuta in una famiglia normale, agiata e religiosa; con un padre, ingegnere nello stabilimento Pernigotti, molto amato e rispettato; con una madre bella, onesta e simpatica, che aveva lasciato il lavoro per

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imporla ai figli”. Il rischio del richiamarsi alla figura paterna sta, secondo Bernardi, nel ritorno ad una “forma di paternalismo bonario e religioso, cristiano e anche islamico, dove alla base di tutto c’è il padre”. Se il Papa giustamente si richiama alla necessità che il padre non sia soltanto un “amico”, ma anche “un sostegno, un aiuto reale, una persona degna di fiducia”, è anche vero che le regole non sono fondamentali, al contrario dell’“esempio”. Nello stesso anno “Panorama” dedica un ampio servizio all’approfondimento dei temi trattati in un libro dell’americana Judith Rich Harris, autrice di testi scolastici di psicologia infantile37. La traduzione letterale del titolo del testo dovrebbe essere Non è colpa dei genitori, ma la versione italiana edita da Mondadori si intitola La nuova teoria dell’educazione: perché i figli imparano più dai coetanei che dalla famiglia. La tesi di Rich Harris è che a determinare il “destino” dei figli è fondamentalmente “il tipo di coetanei che incontrano, gli amici, il gruppo che frequentano”. Di contro, ecco l’opinione dello psichiatra Paolo Crepet, che spiega il successo dell’autrice richiamandosi al contesto di una “società occidentale deresponsabilizzata ed egocentrica, che punta tutto sul lavoro”. Secondo Crepet, è come se questa teoria dicesse ai genitori “fate quello che volete senza preoccuparvi troppo dei figli”, ed aggiunge: “ognuno ha i figli che si merita e ogni società i giovani che si merita”. Si torna al discorso delle merci: “Se comunico solo attraverso gli oggetti, mio figlio capirà che l’unico modo per avere emozioni è possedere oggetti”. Il problema della corretta educazione dei bambini è lungamente sviluppato, infine, in un nuovo servizio su “Panorama”, in cui si esprimono psicologi e pediatri38. Sette le “regole d’oro” dello stesso Marcello Bernardi: “State con il vostro bambino il maggior tempo possibile durante il primo anno di vita: è fondamentale per la crescita; staccatevi in modo graduale e non improvviso quando tornate a lavorare; dite pure dei no, ma spiegate il perché; date delle regole, ma ricordatevi che l’esempio è il metodo più efficace; ascoltate i bambini e stimolateli a dialogare con gli adulti; rispettate il tempo dell’infanzia: non è un tempo cronologico ma emozionale, più lento del vostro, non stressate i bambini con troppe attività parascolastiche; evitate nuove paure ai bimbi: attenti a cosa guardano in tv e sui giornali”39. Sul problema di conciliare lavoro e vita familiare, altri consigli da parte del neuropsichiatra Giovanni

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Novi Ligure: la guerra delle interpretazioni Sulla “Repubblica”, Umberto Galimberti sottolinea subito che la “follia”, che un tempo si conosceva come “eccesso della passione”, oggi “veste gli abiti della freddezza e della razionalità, non lascia trasparire alcunché ed esplode in contesti insospettabili che nulla lasciano presagire e neppure lontanamente sospettare”. Ed è proprio questa “imprevedibilità” a scatenare in noi “l’angoscia primordiale”: in casi come questi, spiega Galimberti, quando la causa è irreperibile e occorre scavare più a fondo, la psichiatria parla di psicopatia. È la buona educazione “borghese” che, secondo il filosofo, riesce a tenere a bada gli “eccessi emotivi” e rende gli individui “impenetrabili e scarsamente leggibili alle altre persone”: una “mancata crescita emotiva” si può registrare in famiglie come quella dei De Nardo, nelle quali i problemi si affrontano in maniera pressoché asettica, di fatto senza autentica comunicazione. Al di là delle poche informazioni di rito (come è andata a scuola, l’orario di rientro serale), in queste famiglie i figli “sono lasciati nel rispetto della loro autonomia, dietro cui si nasconde il terrore (anche questo mascherato) dei genitori ad aprire quell’enigma che i figli sono diventati per loro”. I figli, per parte loro, sentono questa “paura” oppure percepiscono un “disinteresse emotivo”; questi figli “del benessere e della razionalità”, allora, invocano prima “attenzione emotiva”, quindi giocano d’anticipo “delusione” e “cinismo” per difendersi “da una risposta d’amore che sospettano non arriverà mai”. Ecco che il cuore si fa “piatto”, “non reattivo”, “pronto a declinare ora nella depressione ora nella noia, e quando nell’adolescenza la tempesta emotiva si abbatte nel loro cuore, ormai arido perché mai irrigato, si comprime tutto con le

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difese impenetrabili approntate dalla buona educazione, dalle buone maniere, dal buon allenamento nella palestra gelida della razionalità”. Questa “compressione della razionalità”, questa “difesa delle buone maniere (= insincerità)” e la “noia” formano “quella miscela che sotterra l’Io di questi adolescenti infelici, facendoli agire in terza persona”. Da tutte queste premesse, Galimberti giunge alla conclusione che, al fondo del problema, c’è il mancato insegnamento del “come “mettere in contatto” il cuore con la nostra mente, e la nostra mente con il nostro comportamento, e il comportamento con il riverbero emotivo che gli eventi del mondo incidono nel nostro cuore”41. Su “Repubblica” interviene anche Michele Serra, con uno dei corsivi più interessanti e dibattuti dell’intera vicenda. Serra contesta la tendenza a identificare l’“assassino” con il “vuoto”, che sia di valori, di ideali o di sentimenti: dire che “l’assassino è il vuoto” gli sembra una variante de “l’assassino è il maggiordomo”. Il fatto è che questo vuoto, secondo Serra, in Occidente non esiste, l’Occidente è “l’impero del Pieno”. Ecco perché l’assassino, semmai, è il pieno: “Proviamo a pensare […] che a interrompere la connessione tra una persona e il proprio sé possa essere […] l’occupazione costante e greve del suo territorio mentale, l’abuso della psiche, l’attivazione simultanea di tutti i suoi talenti e i suoi desideri”. Allora ciò che non si riesce a “donare” ai figli è “la forza del vuoto, il privilegio della solitudine, la ricchezza della contemplazione, il lusso impagabile della distrazione”. Tentando un “azzardo ideologico”, si potrebbe pensare, sostiene Serra, che “il sistema ci vuole schiavi del desiderio e del bisogno, consumatori avidi e sempre inappagati”: è questo sistema che non vuole concederci “la riflessione, l’interruzione, la vacanza vera”. Agli adolescenti di un tempo non lontano era concessa “la disciplina preziosa della svagatezza”, veniva loro risparmiata “questa leva obbligatoria di massa, che richiama anche i dodicenni e gli undicenni, ormai, ai loro doveri di bravi studenti bravi calciatori bravi nuotatori bravi schermidori bravi internauti bravi danzatori bravi figli bravi indossatori e bravi tutto”. Conclusione: c’è da augurarsi che covi in qualche ragazzino/a “il germe della diserzione”, magari con l’aiuto di qualche genitore capace di insegnare che è più ambizioso sognare la libertà piuttosto che il successo42. Sul “manifesto”, in un lungo editoriale Alessandro Dal Lago ricorda come siano state numerose le cronache di fatti simili a quello

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dedicarsi alla famiglia; con un fratellino amatissimo che la considerava la sua “migliore amica”. Omar, invece, che vive in una casa “modesta” e distante dal quartiere bene dei De Nardo, era “succube” della ragazza e la loro relazione, forse un po’ “morbosa”, probabilmente non piaceva a Susy Cassini. Il tutto descritto con precisione maniacale, riassunto con titoli da brivido e corredato da foto dei due ragazzi correttamente sfumate (ma la correttezza si ferma qui) nella zona degli occhi. Decine e decine le prime pagine dedicate al delitto, centinaia gli opinionisti interpellati: qui devo limitarmi a citare i pareri più rappresentativi.

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confine, dell’auto-limitazione”. È questa “emotività disordinata” che, secondo Spinelli, nel caso di Novi è sfociata in un gesto che fa parte non solo della realtà ma anche dell’immaginario. Occorrerebbe allora indagare sulla capacità delle famiglie di “vedere” le “verità sgradevoli”, “soffocate” come sono nel kitsch, cioè nell’“imbellimento della realtà, la sua falsificazione rassicurante e sedativa, il lindore di tende o cucine, il benessere senza più crepe, senza più orizzonti di sforzo, di attesa”. In questo contesto, l’orizzonte che accomuna padri e figli (e che “li spinge a sbranarsi”) è quello di “accampare diritti”: su tutto, il diritto di possedere ogni prodotto immediatamente consumabile. La meta è “il geloso possesso della felicità” assieme al “terrore di perderlo” e alla “chiusura al principio di realtà come al tempo lungo”. Emblematico le appare l’utilizzo, da parte delle famiglie nucleari della provincia ricca italiana, di un linguaggio “sempre più ricco di vezzeggiativi, che da un momento all’altro può generare mostri”. Qualche esempio: villetta, tendine, fratellino, mammina. Spaventa poi il tanto ricorrere alla parola normalità: possibile –si chiede Spinelli– che non si sia mai intravisto qualcosa di anomalo nella famiglia De Nardo? Oppure nessuno è stato in grado di vederlo perché la norma è diventata quella dell’assassino? Allora, se si vuole operare un “ricominciamento”, le fasi da seguire sono semplici: per prima cosa, occorrerebbe eliminare la parola “normale”, poi le locuzioni che declinano il verbo “sembrare”, quindi diminuire i vezzeggiativi. Infine, “mettersi a cena con i propri figli e tentare una conversazione, […] dilatare il presente e incorporare più passato, più futuro, […] impratichirsi in esercizi di ammirazione, a proposito di personaggi esemplari”. La cena dovrebbe essere “a televisione spenta”, e non per evitare di apprendere brutte notizie, ma perché il televisore sempre acceso è in grado di annullare la distanza “tra vita vissuta e recitata, tra fatti e immaginazione”. E poi “aiuta non poco a restar imprigionati nelle famiglie, e a odiarle”47. Per quanto riguarda i settimanali, è evidente la differente prospettiva adottata. L’8 marzo 2001 “Panorama” esce con una copertina cruenta, con l’illustrazione di una ragazza bionda che si accanisce contro una donna brandendo un coltello insanguinato; il titolo è Quelli che uccidono la mamma. Nel servizio interno, in cui compaiono anche diverse foto della famiglia De Nardo, si dà del delitto un’interpretazione per così dire “passionale”: il rapporto tra i due ragazzi assassini viene definito un “amore morboso, che non accet-

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di Novi, nei quali hanno giocato una parte importante sentimenti forti come l’avidità, la gelosia, ma anche la stupidità o “semplicemente il nulla”43. Luigi Pintor, invece, fa il punto sui commenti espressi dai vari specialisti per constatare come quasi nessuno di loro abbia parlato di “patologia individuale” o “insanità mentale”: hanno prevalso invece i riferimenti ad un “disagio giovanile” genericamente inteso, alla noia di provincia, all’eccesso di agiatezza e dunque all’egoismo, allo “smarrimento” di valori e di sentimenti, alla violenza che permea la “società” genericamente intesa, all’assuefazione al male, alle costrizioni e ai veleni delle comunità chiuse, alla vita familiare. Eppure, l’unica cosa che secondo Pintor si può concludere è che l’omicidio resta incomprensibile, fa paura perché evidentemente “questa “possibilità” esiste nella nostra natura”, “riconoscerlo potrebbe essere un aiuto, ma è un’umiliazione che rifiutiamo”44. Si tratta di una posizione interpretativa rimasta isolata. Sul “Corriere”, Aldo Grasso mette a confronto la “bella favola” della famiglia alla “Mulino Bianco” con lo spot della Telecom (in onda in quel periodo), in cui una madre elogia la propria figlia, diversa da “tutte le altre” salvo l’aggiunta di un inquietante “credo”. Mentre la donna parla, la figlia è intenta a scambiare sms di nascosto tramite un particolare telefono fisso (“se mamma sapesse…”). Questo è per Grasso uno spot emblematico, i ragazzi gli paiono “sempre più immersi nel mondo della comunicazione […] e sempre meno disposti al dialogo in famiglia, a farsi capire”45. Tra i numerosi servizi del “Giornale” colpisce tra l’altro un semplice trafiletto, che sintetizza le indicazioni di Maria Teresa Crotti, psicoterapeuta dell’infanzia e dell’adolescenza (l’articolo è certamente ripreso da un lancio d’agenzia)46. Nel pezzo si parla dei “segnali” che andrebbero tenuti sotto controllo per evitare l’insorgere di “atteggiamenti pericolosi”: aggressività (se eccessiva, con crisi di opposizione violenta); disturbi alimentari (anche semplicemente un anomalo rapporto con il cibo); insonnia; balbuzie; difficoltà nel rendimento scolastico; dislessia; enuresi; isolamento; onicofagia (mangiarsi le unghie); tic; cleptomania. Morale? Tutti a rischio, nessuno a rischio? Sulla “Stampa” uno degli interventi più interessanti è firmato da Barbara Spinelli, che denuncia la presenza, tra le mura domestiche, di “un torrente di passioni in parte occultate in parte urlate, informi e al contempo glaciali, ignare comunque di quel che è il senso del

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Erika e Omar sono stati condannati in primo grado, il 14 dicembre 2001, rispettivamente a 16 e 14 anni di carcere. Anche su questa condanna ci si è espressi approvandola o indignandosi e tornando sui consigli e le esortazioni, e gli articoli di cronaca hanno continuato a insistere, talvolta con rabbia, sulla figura di Erika, definita sulla “Repubblica” una “bambolina automatica”, una “primadonna all’ultimo spettacolo”, una “signora con troppe parolacce”52. Nei commenti sulla vicenda di Novi Ligure ci si è richiamati dunque alla responsabilità individuale di giovani considerati sempre più “adulti”, ad una responsabilità “sociale” in senso largo, alla responsabilità dei media e dei contenuti che propongono agli adolescenti, alla “banalità del male” anche nella variante del Male assoluto come entità metafisica. A fronte dell’evidente “smarrimento” dei saperi specialistici, rimane irrisolta la delicata questione di una necessaria, effettiva messa in atto della quasi sempre solo teorica deontologia della professione giornalistica: rileggere la “Carta di Treviso” e il “Vademecum 95”, francamente, è sconfortante. Un’ulteriore riprova? La possiamo trovare nei servizi dei settimanali che si occupano degli adolescenti e che, quando non si propongono di approfondire specifici fatti di cronaca, tentano analisi a più vasto raggio che finiscono per essere inevitabilmente generiche oppure si rivolgono, ancora una volta, ad uno dei tanti target di consumo. Con una strategia: la descrizione dei consumi culturali giovanili viene presentata, la maggior parte delle volte, come funzionale ai tentativi di comprensione dell’universo adolescenziale, e viene quindi inserita in servizi che parlano agli adulti fornendo una sorta di compendio dei possibili comportamenti da assumere. Tuttavia non mancano servizi strutturati per essere destinati direttamente ai ragazzi, perché descrivono ciò che li riguarda senza il dichiarato secondo fine di essere utili agli adulti, oppure essendolo in seconda battuta e in senso lato.

La generazione “invisibile” Nel 1999, uno dei servizi dedicati da “L’Espresso” ai teenager passa in rassegna “chi sono, come vivono, dove vanno, chi amano, cosa comprano” i ragazzi di “una generazione che ormai detta legge”53. La considerazione preliminare è che sono in molti a considerare l’attuale generazione di teenager una “Generazione Invisibile”, fatta di “ragazzini senza qualità e pure un tantino sfigati”, eppure “Tendenze”, newsletter dell’osservatorio sui consumi GPF&Asso-

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tava né divieti né limiti”, una “passione contro tutto e contro tutti. Perfino contro la madre e il fratellino”48. Puntigliosa la descrizione dell’assassina, di cui si cercano i segni di “squilibrio” in tanta “normalità” con interviste agli insegnanti: chi parla di “premonizioni”, chi del “magnetismo” della ragazza nei confronti di Omar. E poi sospetti di droga sullo sfondo di una “famiglia del Mulino Bianco”, anche questa puntigliosamente descritta. Il servizio è corredato da un approfondimento sui casi di quello che la criminologia definisce “omicidio intrafamiliare verticale” ed uno in cui si fa cenno a “chi influenza la fantasia dei giovani”49: le citazioni sono per Marilyn Manson, per alcuni film (Fight Club: “un gruppo di maschi bestiali che combattono a mani nude fino alla morte”; Sex crime; Boys don’t cry), per cartoni animati più o meno violenti e volgari (Beavis & Butthead, South Park) e videogiochi agghiaccianti (Hitman: “un’autentica gara di violenza”; Messiah: “l’obiettivo è quello di arrivare a Satana facendo a pezzi chiunque si metta di mezzo”). Prevale comunque l’accento sulla “responsabilità individuale”. Sulla “responsabilità sociale” insiste invece “L’Espresso” che, sempre l’8 marzo, esce con una copertina in bianco e nero che riproduce una nota foto dei due ragazzi mentre escono da casa De Nardo dopo il primo sopralluogo, con la solita sfumatura computerizzata nella zona degli occhi. Il titolo è in rosso: Figli nostri. Figli mostri. Lo stile del servizio principale50 è simile a “Panorama”: si descrivono i due ragazzi, le loro famiglie, i loro amici, si raccoglie qualche “indiscrezione” dal diario di Erika, si intervista il preside della scuola. A parte, si fa il punto dei pareri espressi dagli svariati specialisti interpellati da stampa e televisione, da psicologi, psichiatri, psicoterapeuti, psicanalisti (Paolo Crepet in testa, poi Vittorino Andreoli, Anna Oliviero Ferraris, Vera Slepoj, Giovanni Bollea, Maria Rita Parsi, Maria Teresa Crotti; l’unico apprezzamento è per l’antropologa Ida Magli), per concludere con un auspicio per il futuro: “Sappiamo di essere stati tutti attraversati nell’infanzia da desideri e impulsi a noi stessi inconfessati. Non c’è nessuno che non abbia fantasticato la distruzione delle persone più amate e che non conservi, ben riposta, questa vaga consapevolezza. Quei desideri universali sono stati però tenuti a bada dal corso naturale e armonioso della crescita. Ci è andata bene. E, in qualsiasi tempo e società, andrà probabilmente bene alla stragrande maggioranza dei nostri figli”51.

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Consumatori sofisticati, secondo “Tendenze” i teenager “hanno costruito un universo di consumi e di scelte autonomo, ricco di novità, che attinge a piene mani dalle nuove tecnologie”. Ecco allora lo scopo del servizio: una “guida per conoscerli da vicino”, citando i gusti in fatto di abbigliamento, accessori, viaggi, cibo e molto altro ancora. A completare e diversificare il quadro, la sintesi di un’ampia indagine curata dai responsabili dei COSPES, i “Centri di Orientamento scolastico-professionale e sociale” della Congregazione salesiana, pubblicata per Il Mulino a firma di Giorgio Toniolo con il titolo Adolescenza e identità54. L’indagine ha riguardato dodicimila ragazzi italiani tra i 14 e i 20 anni, che sono stati tenuti sotto osservazione dal 1990 al 1998. Questi i risultati principali: il 94% dei ragazzi ama stare con gli amici “lontano dai luoghi degli adulti” e quindi “in strada, in piazza o in casa di coetanei”, luoghi in cui “i maschi parlano di sport, musica e spettacolo, e le ragazze si scambiano confidenze o affrontano temi di natura esistenziale”; i media risultano “molto amati” e i teenager “si sentono in grado di dominarli”; la musica è tra i primi consumi, “dallo stereo alla discoteca, dai concerti ai cd”. Nella ricerca, gli adolescenti sono stati poi catalogati –in base al modo in cui impiegano il tempo libero– in organizzati, dispersivi, solitari, impegnati e trasgressivi. Il gruppo rimane “la prima palestra di vita autonoma” che ha “una funzione di accoglienza emotiva e affettiva” e che, nei casi in cui “la famiglia è debole, diviene la prima fonte di crescita”; nel gruppo avviene anche il primo approccio all’altro sesso, che “si traduce in precoci avvicinamenti fisici eterosessuali, in un contesto in cui è sfumata l’idea di un vincolo stabile e si anticipano le possibilità di libera espressione sessuale”. Il rapporto con i genitori e il clima familiare restano comunque i fattori più influenti sulla crescita, anche se con una “rinegoziazione delle relazioni”. Dalla ricerca emerge inoltre che la maggioranza dei ragazzi sotto i 20 anni “vede nel padre un genitore arrabbiato, deluso e intransigente”, mentre le madri “rappresentano di più un punto di riferimento”, essendo, tra l’altro, più “comprensive, democratiche e flessibili”. La scuola è un’istituzione giudicata “non al passo coi tempi e incapace di rinnovarsi”, che tende a privilegiare “i rapporti di profitto a svantaggio del rapporto umano e della comprensione delle situazioni individuali”. Il 37,2% dei teenager pensa inoltre che nella scuola ci sia “mancanza di dialogo e cordialità”, mentre per molti ragazzi i docenti dovrebbero essere “più stimolanti e fantasiosi”.

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ciati, diretto dal sociologo Giampaolo Fabris, ha dedicato alla generazione di nati tra il 1979 e il 1994 una lunga riflessione la cui conclusione parla di ragazzi “più pragmatici dei loro fratelli maggiori” e capaci di “scelte di consumo molto più personalizzate”.

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semplificare le richieste più frequenti sulla base delle dichiarazioni di rappresentanti di alcune aziende produttrici.

Pillole pedagogiche Anche nel caso degli adolescenti torna il problema dell’educazione. “L’Espresso” se ne occupa nel 1999 in Imparate a dirgli no59, un servizio che mira a fornire consigli utili ai genitori sulla base delle osservazioni di svariati specialisti: Asha Phillips, psicoterapeuta infantile formatasi nella Tavistock Clinic di Londra, che nel suo libro I no che aiutano a crescere, edito da Feltrinelli con una prefazione di Giovanni Bollea, sostiene che “il divieto, […] se accompagnato dalla sensibilità alle esigenze del bambino, aiuta nello sviluppo”, perché “il credo pedagogico più permissivo non sviluppa l’autocontrollo e favorisce la crescita di baby tiranni che non saranno equilibrati nella vita”; Jan-Uwe Rogge, docente a Tubinga e consulente di problemi familiari, nel suo Quando dire no. Per il bene dei nostri figli (traduzione italiana per Pratiche editrice) sottolinea come “chi desidera filtrare la vita per il bambino e lasciar posto solo agli elementi positivi […] riduce i molteplici aspetti dell’esistenza”, mentre imporre alcuni doveri ai bambini significa non soltanto orientare i comportamenti del momento, ma indicare “una meta da raggiungere” ed invitare alla ricerca, “oltre le frontiere conosciute, [di] nuove direzioni per nuovi cammini”; lo psicobiologo Alberto Oliviero, che, nel suo L’arte di imparare (Rizzoli), si esprime infine a favore dei “piccoli stress” di emulazione e competizione, perché l’“atteggiamento peggiore della nostra epoca” sembra ad Oliviero il “morettismo”, l’“elogio di quello che non si mette alla prova perché ha paura”. Ancora “L’Espresso”, con la copertina dell’8 febbraio 2001, preannuncia un’ampia analisi dell’universo adolescenziale ed un atto di accusa alla fallimentare politica delle tradizionali agenzie educative60. Lo spunto è offerto da un articolo apparso sulla prima pagina di “Repubblica”: con il suo Professori, tornate al sette in condotta, il 21 gennaio 2001 Mario Pirani rilancia “il principio d’autorità in una scuola descritta come una deriva di anarchia, disinteresse, maleducazione e violenza”. Il dilemma è sostanzialmente: sono “cattivi” i ragazzi oppure “incapaci” gli educatori? Per rispondere a questo interrogativo, si forniscono innanzitutto i risultati di un’indagine commissionata dal settimanale al CIRM e condotta su un campione di 570 ragazzi tra i 16 e i 18 anni, da cui emergono

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Nel 2000, invece, “L’Espresso” si occupa della “moda” (e del “business”) dei messaggi sms55. Il servizio parte dalla considerazione che gli utenti sono soprattutto “i giovani tra i 16 e i 24 anni”, visto che “82 studenti su 100 hanno un telefono cellulare”. Sui messaggi inviati, il giudizio di valore è immediato: “la maggior parte […] sono del tutto inutili, generati solamente dalla possibilità di spedirli, secondo le leggi del più entusiastico consumismo”. Dopo aver spiegato le modalità espressive di questi messaggi, caratterizzati da brevità e numerosi emoticon (emotion e icon = icona emotiva)56, vengono riportate brevemente le opinioni del sociologo Alberto Abruzzese (“Siamo agli albori di una nuova forma di comunicazione”) e del linguista Tullio De Mauro (“Ben vengano gli short message, potranno solo arricchire la comunicazione”). L’articolo continua illustrando le iniziative di mercato e le modalità di adozione del linguaggio degli sms anche da parte dell’editoria e della politica. Più interessante è un’intervista a Paolo Fabbri, docente di Semiotica al Dams di Bologna, il quale divide anzitutto i cosiddetti “messaggini” in tre categorie: stenogramma (“scrittura abbreviata, sul genere di quella sviluppata su Internet, ma ancora più essenziale”), memo (“un’asciutta informazione”), memoranda (“una comunicazione personale, […] fortemente enfatica. È la poesia del messaggino, il mondo del punto esclamativo. Perché lo spazio è ridotto, le frasi necessariamente brevi, e si vira su uno stile poetico che ricorda gli haiku giapponesi”)57. Partendo poi dal presupposto che “è un errore continuare a studiare da una parte i telefonini e dall’altra gli uomini”, poiché “bisogna rapportarsi con il nuovo ibrido: una persona con una cosa appiccicata all’orecchio”, Fabbri conclude che “il giovane uomo tecnologico ha ritrovato il gusto di scrivere. È una piccola vittoria di Gutemberg. Seppure con frasi smozzicate, prive di verbi e grammaticalmente discutibili, i ragazzi scrivono. Pensare che pochi anni fa eravamo tutti convinti che la tv avrebbe sepolto per sempre la comunicazione scritta”. E, tanto per tornare al mercato, è a questo “giovane uomo tecnologico” che “L’Espresso” dedica, sempre nel 2000, un importante servizio che parla di tecnologia prendendo spunto dal grande successo, riscosso presso i giovanissimi, del celeberrimo Futurshow58. Nell’occhiello si legge Tecnoadolescenti / La dittatura dei giovani sull’industria, ma il servizio, più che cercare di interpretare il fenomeno dell’uso massiccio di tecnologia da parte dei ragazzi, si limita a e-

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“baby sboomer” gli sembra essere il “disimpegno dei loro genitori”, un disimpegno “assimilato con merendine, hamburger, playstation e vacanze in camper. Politica in dosi omeopatiche, o al massimo per prescrizione televisiva. Religione quel tanto che basta per non dichiararsi del tutto scristianizzati”. In questo contesto, il telefonino appare non tanto uno strumento di comunicazione o semplicemente di consumo, quanto “un surrogato portatile delle infrastrutture”, se si considera che si comunica anche “per tenere sotto controllo l’organizzazione quotidiana, in una società che i padri si sono dimenticati di modernizzare”. Così si spiega pure l’imperare degli “oggetti” e delle “figure” della “rassicurazione collettiva”, come le chat-line, gli sms, la mamma, la monogamia61. Cito un ultimo servizio: quello in cui “Panorama”, a poco più di un mese dal delitto di Novi Ligure, cerca di “definire” gli adolescenti una volta per tutte. Ben sei giornalisti compilano, in questo servizio speciale, un elenco alfabetico di tutto quello che i genitori dovrebbero sapere su “cosa fanno i ragazzini” quando escono di casa62, mentre la sequenza di dati statistici commentati è corredata da schede che riguardano la vita quotidiana dei ragazzi di alcune grandi città italiane (Milano, Roma, Palermo) e di Treviso63. L’articolo viene introdotto riportando, intanto, il risultato di un’inchiesta svolta da Radio 105, che ha rivelato che i genitori italiani riescono a trovare appena otto minuti al giorno per parlare con i figli. Il servizio di “Panorama” vuole allora aiutare a capire, “in otto minuti, dove vanno e cosa fanno i figli adolescenti quando non sono in casa”. Perché quando sono in casa il problema, secondo il settimanale, non si pone: la vita familiare si basa su un “contratto” di questo tipo: “Tu fai il bravo e io ti do tutto quello che chiedi”. È con questo contratto che Carlo Buzzi, direttore ricerca dello IARD, spiega la tendenza a rimanere in famiglia fino a 30 anni: “semplicemente, è molto comodo”. Fuori di casa, invece, “i ragazzi vivono vite parallele, con regole diverse”, “regole” (in senso largo) che “Panorama” cerca di elencare come in un “dizionario dei segreti dei 3 milioni e mezzo di adolescenti nostrani”, “quasi una guida per genitori”, e comunque per chiunque volesse capire i dati dell’ultimo rapporto IARD, che indicano che il 28% dei ragazzi tra i 15 e i 17 anni si dichiara “preoccupato”, il 24,4% “turbato” e il 20,7% “irrimediabilmente solo”64. Qui è sufficiente elencare le voci per avere un’idea del tipo d’analisi cui siamo di fronte: alcool, ballo, compa-

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questi dati medi: i ragazzi dedicano cinque ore al giorno allo studio e due ore alla tv, leggono tre libri l’anno, ascoltano musica per un’ora e mezzo al giorno, per il 50% navigano in internet, dedicano allo sport due ore e mezzo a settimana, per il 79% posseggono un cellulare e per il 53% un motorino, hanno più confidenza con le madri che con i padri, nella maggior parte dei casi credono in Dio ma non vanno mai a messa, nella maggior parte dei casi non hanno mai fumato uno spinello (con una percentuale maggiore tra le ragazze), la discoteca è uno dei luoghi preferiti per ritrovarsi (seguito dalla strada, la pizzeria, il bar e casa di amici), nel 55% dei casi hanno avuto rapporti sessuali completi. Dal sondaggio emerge un’immagine piuttosto “tranquillizzante” degli adolescenti italiani, ancora una volta descritti come individui che usano quotidianamente la tecnologia, dal cellulare a internet ai cd-rom. Con i risvolti negativi del caso, perché “i ragazzini a scuola fanno cose nuove e strane”, “portano il cellulare in classe, non leggono più i romanzi, hanno noia della storia e ribrezzo della politica”, “danno del tu all’insegnante di 60 anni, parlano volgare, si stravaccano tra i banchi con l’anello al naso, si spinellano in bagno nell’indifferenza generale”. Nei giovani sembrano convivere “regressione ed esplorazione”, “tribalismo e tecnologia”. Che cosa pensare? È davvero utile il sette in condotta? O bisogna riflettere sulla “crisi” dell’istituzione scolastica? Il nodo cruciale sembra la mancanza di fiducia nell’insegnante da parte dei ragazzi, che, se ne avevano “molta o abbastanza” nel 70% dei casi nel 1983, quella percentuale è scesa al 63,1% del 1992 e al 58,1% del 2000. La psicologa Silvia Vegetti Finzi parla di “modelli deboli” cui i ragazzi sono costretti a fare riferimento, sia a scuola che in famiglia: se a casa ci sono “padri vacanti o dimissionari”, il problema “si riflette sulla scuola”, dove l’insegnante-amico non può certamente essere un sostituto valido. I ragazzi, conclude Vegetti Finzi, “devi farteli alleati, partecipare alla loro ricerca, sforzarti di cogliere i loro elementi di creatività”. Edmondo Berselli, infine, chiosa il tutto dicendo che, di fronte all’attuale generazione di adolescenti, “tutte le categorie apocalittiche suggellate dalla professione sociologica sbiadiscono in un alone indistinto”, mentre l’“unica certezza” rimane il fatto che non sono in corso “rivolte consapevoli, generazionali o politiche, ma neanche familiari o scolastiche”: la causa ultima delle “grandi percentuali di

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gnia, droga, e-mail, famiglia, gergo, hobby, interrogazioni, look, modelli, noia, orari, paghetta, qualunquismo, riti, sesso, telefonino, underground, videogame, zona proibita (la camera dei ragazzi).

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P. Rossi, Bambini, sogni, furori, Feltrinelli, Milano 2001. D. Richter, Il bambino estraneo: la nascita dell’immagine dell’infanzia nel mondo borghese, La Nuova Italia, Firenze 1992. 3 P. Rossi, Bambini…, cit., p.66. 4 I cinque sono stati condannati, Porpora a 30 anni e gli altri all’ergastolo, nel 2002. 5 R. Bianchin, Due assassini per Hegere, il clandestino che non era solo, “la Repubblica”, 22 agosto 2000. 6 D. Alfonso, “Pubblicate i nomi di questi criminali”, “la Repubblica”, 20 agosto 2000. 7 Cfr. D. Julia, L’infanzia agli inizi dell’epoca moderna (in particolare Innocenza e massacro, pp.236 e sgg.), in E.Becchi, D.Julia, Storia dell’infanzia, Laterza, Roma-Bari 1996, volume I, pp.231-311. 8 Riportato in M. Politi, “Un atto di barbarie. È roba da giustizieri”, “la Repubblica”, 24 agosto 2000. 9 F. Scaparro, Insieme contro i lupi, “Corriere della Sera”, 21 agosto 2000. 10 D. Maraini, Il silenzio degli ipocriti, “Corriere della Sera”, 27 agosto 2000. 11 I. Magli, La malattia abolita per legge, “Il Giornale”, 22 agosto 2000. 12 L. Arezzo, Ecco il manuale dei bambini per difendersi dai maniaci, “Il Giornale”, 22 agosto 2000. 13 M. Veneziani, Al picnic della barbarie, “Il Giornale”, 23 agosto 2000. 14 L. Fazio, “L’orco vive in famiglia”, “il manifesto”, 22 agosto 2000. 15 G. Ragozzino, Il paradiso dei bimbi, “il manifesto”, 23 agosto 2000. 16 L. Quagliata, Il pedofilo nella società del godimento, “il manifesto”, 26 agosto 2000. 17 Cfr. per esempio S. Pende, Bucarest. Periferia dell’inferno, “Panorama”, anno XXXIX, n.24, 14 giugno 2001, pp.44-48, in cui si parla dei bambini cosiddetti “figli di Ceaucescu”, sfruttati sessualmente e costretti ad affollare le fogne e a sniffare colla o assumere eroina per non sentire la fame e il dolore delle pratiche aberranti cui sono sottoposti. 18 A. Stabile, Il paradiso degli orchi nel caos della nuova Russia, “la Repubblica”, 28 settembre 2000. 19 U. Galimberti, Quando i bambini sono una merce, “la Repubblica”, 28 settembre 2000. Corsivi miei. 20 U. Galimberti, Il pericolo del silenzio, “la Repubblica”, 30 settembre 2000. 21 Galimberti sottolinea come nel “Nuovo Dizionario di Sessuologia” Longanesi, a pagina 920, la pederastia è definita come immissio penis in anum, definizione che non consente di distinguerla da analoghe pratiche omosessuali ed eterosessuali. In ogni caso questo dizionario dedica circa trenta linee alla pederastia, mentre –denuncia Galimberti– la ignorano completamente il “Dizionario di Psicologia” edito da Laterza, il “Trattato di Psicoanalisi” di Musatti e il “Manuale di Psichiatria” di Silvano Arieti. Diluiscono pederastia in pedofilia e vi dedicano poche righe il “Trattato di Psicoanalisi” di Alberto Semi, il “Dizionario di Psicologia” di Dalla Volta e l’“Enciclopedia Psichiatrica” della Roche. Gli dedica tre righe definendola 1 2

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Ciò che resta (dopo il diluvio) Come si vede, le interpretazioni degli specialisti (per lo più psichiatri, sociologi e criminologi) sono quasi sempre contrastanti, e le modalità di “lettura” delle notizie indicano la persistenza nella contemporaneità di quella che la storiografia d’infanzia evidenzia come una forma intramontabile di “alienazione dell’infanzia” 65. Sia i fatti di cui siamo informati che il modo di interpretarli (a livello giornalistico e non) indicano chiaramente la tendenza ad oggettivare bambini e ragazzi, facendo prevalere –cioè– le aspettative, le emozioni, le ideologie adulte su un universo infantile per interpretare correttamente il quale non si possiedono ancora gli strumenti adatti. Nella continua sovrapposizione tra vita dei bambini e immaginario adulto, rimane ben poco della “realtà” quotidiana degli infantes (ammesso che una realtà del genere si possa cogliere), ritratta in rare pagine di ottimo giornalismo eticamente corretto e capace, per questo, di un “racconto” privo di fuorvianti sociologismi. La maggior parte delle cronache cominciano e restano irretite nell’ambiguità adulta, e si convertono presto in consigli, esortazioni, prescrizioni per gli adulti. Prescrizioni che poi sono quasi sempre tradizionali: sorvegliare, disciplinare ed eventualmente punire. Le acquisizioni più raffinate, che rimandano alla complessità del soggetto infantile e, quindi, dell’approccio adulto ad esso fuori dal tenace velo metaforico denunciato dagli storici dell’infanzia, rimangono appannaggio di una ristretta élite. È evidente, dunque, il permanere di una profonda cesura tra “senso comune” e “consapevolezza dei chierici”: questi ultimi intervengono sui giornali (e magari in televisione) per distribuire le tessere di un puzzle difficile a comporsi. Che dire dunque del rapporto tra stampa italiana e cultura d’infanzia? Che dell’assenza di questa cultura la stampa italiana è insieme vittima e produttrice.

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U. Galimberti, L’abisso di ragazzi perbene, “la Repubblica”, 24 febbraio 2001. 42 M. Serra, Non accusate il vuoto, “la Repubblica”, 28 febbraio 2001. 43 A. Dal Lago, Chi fa paura, “il manifesto”, 25 febbraio 2001. 44 L. Pintor, Il coro, “il manifesto”, 25 febbraio 2001. 45 A. Grasso, Nello spot degli sms tutta la distanza delle famiglie, “Corriere della Sera”, 25 febbraio 2001. 46 Cfr. I dieci segnali da tenere sotto controllo, “il Giornale”, 26 febbraio 2001. 47 B. Spinelli, Famiglie, vi odio!, “La Stampa”, 1 marzo 2001, p.1 e p.6. 48 S. Pende, C. Abbate, A sangue freddo, “Panorama”, anno XXXIX, n.10, 8 marzo 2001, pp.38-47. 49 Brutti, sporchi e soprattutto cattivi, “Panorama”, anno XXXIX, n.10, 8 marzo 2001, pp.46-47. 50 R. Di Caro, Figli nostri assassini, “L’Espresso”, anno XLVII, 8 marzo 2001, pp.40-49. 51 S. Rossini, Benvenuti alla fiera della psico-interpretazione, “L’Espresso”, anno XLVII, 8 marzo 2001, pp.44-45. 52 M. Crosetti, “La mia vita finisce oggi”, “la Repubblica”, 15 dicembre 2001. 53 S. Pistolini, Teen-ager sì, coatti no, “L’Espresso”, anno XLIV, n.28, 15 luglio 1999, pp.112-117. 54 Cfr. l’articolo di G. Schwarz, Otto anni sotto la lente, ivi, pp.116-117. 55 S. Pistolini, Short Generation, “L’Espresso”, anno XLV, n.11, 16 marzo 2000, pp.84-88. 56 Ecco un esempio riportato nell’articolo: “xk 6: - (? xxx” significa “Perché sei triste? Tanti baci”. 57 S. P., È la rivincita di Gutemberg, ivi, p.87. 58 E. Manacorda, Generazione FuturShow, “L’Espresso”, anno XLV, n.6, 6 aprile 2000, pp.40-43. 59 M. Serri, Imparate a dirgli no, “L’Espresso”, anno XLIV, n.41, 14 ottobre 1999, pp.44-45. 60 E. Arosio, Guerra di classe, “L’Espresso”, anno XLVI, n.6, 8 febbraio 2001, pp.36-42. 61 Per esempio “gli “sprecati”, i “ragazzi senza tempo” i “suoni nel silenzio”, la “generazione in ecstasy”. Cfr. E. Berselli, Rimedio dal sapore antico, ivi, p.38. 62 D. Burchiellaro, S. Mangiaterra, G. Padovani, A. Piperno, B. Stancanelli, Ma cosa fanno i ragazzini (quando escono di casa), “Panorama”, anno XXXIX, n.13, 29 marzo 2001, pp.40-48. 63 La prospettiva locale è in verità trattata in maniera un po’ troppo schematica. Cfr. Tutte le mode nascono sul Naviglio, (Milano) p.43; Papà, usciamo e comprami tutto, (Treviso) p.45; Ma tu sei fighetto o hiphoppettaro?, (Roma) p.47; La piazza della birra e della marijuana, (Palermo) p.48. 64 Ivi, p.42. Non si capisce bene per che cosa o da che cosa gli adolescenti si sentono preoccupati o turbati. 65 D. Bertoni Jovine, L’alienazione dell’infanzia, Editori Riuniti, Roma 1963. Si allude ad una ricerca ormai datata, riproposta e attualizzata da Angelo Semeraro in edizione critica per Manzuoli, Firenze 1989. 41

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coitus per anum il “Dizionario di Psichiatria” di Hinsie e Campbell, e una colonna e mezzo sotto la voce pedofilia il “Lessico di Psichiatria” di Christian Muller. Lo stesso Galimberti ammette che nel suo “Dizionario di Psicologia” ha dedicato alla pederastia due righe e alla pedofilia quattordici. 22 Il riferimento è, naturalmente, al turismo sessuale. 23 M. Cervi, Le perversioni della rete, “Il Giornale”, 28 settembre 2000. 24 I. B. Fedrigotti, L’altra razza umana, “Corriere della Sera”, 28 settembre 2000. 25 C. Mariotti, Fortissimamente pulp, “L’Espresso”, anno XLV, n.41, 14 ottobre 2000, pp.45-49. 26 Trascurerò di rendere conto dell’inchiesta aperta per verificare la provenienza di queste immagini, che la Magistratura non era autorizzata a fornire. 27 www.odg.mi.it/feltri9.htm. La pubblicazione delle otto fotografie viola gli articoli 2 e 48 della legge 69/1963 sull’ordinamento della professione giornalistica in relazione all’articolo 21 (VI comma) della Costituzione e all’articolo 15 della legge 47/1948 sulla stampa. 28 www.odg.mi.it/gad.htm. 29 S. Rossini, Tatiana che avrà 13 anni nel Duemila, “L’Espresso”, anno XLIV, n.41, 14 ottobre 1999, pp.70-71. La tematica viene ripresa in un servizio successivo, a carattere più generale. Cfr. E. Attolico, Top bimbe in passerella, “L’Espresso”, anno XLIV, n.47, 25 novembre 1999, p.115. 30 Cfr. M. Tortorella, Nonsolomodelle; M. Boglierdi, Sotto il vestito, l’agenzia; G. Amadori, Il business dei sogni che restano tali; M. Bogliardi, A. Matarrese, Piacere, sarò il tuo model driver; ma soprattutto A. Matarrese, Facciamo le Barbie (e papà fa i soldi): tutti servizi facenti parte di un’inchiesta annunciata in copertina su “Panorama”, anno XXXVII, n.48, 2 dicembre 1999, pp.36-46. Il secondo speciale è M. Bogliardi, P. Busnelli, A. Matarrese, Moda. Tutto quello che non vi hanno mai raccontato, “Panorama”, anno XXXVIII, n.8, 24 febbraio 2000, pp.168-173. 31 M. Bogliardi, P. Busnelli, A. Matarrese, Moda. Tutto quello…, cit., p.172. 32 W. Ward, Potter Generation, “Panorama”, anno XXXVIII, n.29, 20 luglio 2000, p.135. 33 L. Soria, Tutti pazzi per Harry Potter, “L’Espresso”, anno XLV, n.29, 20 luglio 2000, pp.174-175. 34 E. Rosa-Clot, Harry Potter. Tutti vogliono essere così, “Panorama”, anno XXXIX, n.49, 6 dicembre 2001, pp.242-249. 35 B. Di Leo, Magico merchandising, “Panorama”, anno XXXIX, n.49, 6 dicembre 2001, pp.251-254. 36 I pareri sono riportati nella rubrica Pro & Contro. Cfr. “Panorama”, anno XXXVII, n.24, 17 giugno 1999, p.209. 37 Cfr. F. Amoni, Cari genitori non mi servite più, “Panorama”, anno XXXVII, n.32, 12 agosto 1999, pp.106-109. 38 M. Bogliardi, E. Rosa-Clot, Come si educa davvero un bambino, “Panorama”, anno XXXVII, n.45, 11 novembre 1999, pp.278-287. 39 Le sette regole d’oro per crescerli bene, ivi, p.281. Le parole in corsivo sono evidenziate in grassetto nel testo originale. 40 Anche “L’Espresso” si è occupato di queste tematiche, ma con un taglio diverso. Ne parlerò a breve.

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giovanni fiorentino play, sul videogioco

“Ma che fa il bambino della sua ragione, se non la usa, se non la utilizza? Che fa? Quello che fa di tutto: ci gioca”. J. Bergamin, Decadenza dell’analfabetismo, 1933

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Nello stesso anno, sul mercato dei videogiochi è arrivato il Nintendo 64, ultima versione di console a 64 bit prodotta da una delle grandi aziende del settore. La brochure recita in maniera spudoratamente pubblicitaria: “l’ultima grandiosa console in grado di affrontare le sfide del terzo millennio”. L’azienda giapponese si inscrive direttamente a vivere il futuro. “Le sue possibilità –continua il testo pubblicitario– di generare realistici mondi tridimensionali, la sua eccezionale risoluzione grafica, la sua straordinaria capacità di muovere figure e oggetti fluidamente, insieme alla possibilità di rappresentare due milioni di colori contribuiscono a realizzare il desiderio di ogni giocatore di vivere e non più solo osservare l’emozionante realtà virtuale”. La virtualità audiovisiva senza il filtro della tastiera. “Accendi e gioca!”, recita ancora con enfasi l’invito sulla confezione, per entrare nelle simulazioni a tre dimensioni, per “scegliere il punto prospettico da cui giocare, zoomare sui protagonisti e sugli oggetti, oppure girargli attorno…”. Il videogioco Super Mario 3D, realizzato da Shigeru Miyamoto, integra simulazione e immedesimazione, realismo ottico, sonoro e sensibile. Mario Bros, l’idraulico più conosciuto e apprezzato dai bambini1, attraversa

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La realtà che abbiamo di fronte è l’infinito “popolo dei joystick” (Herz, 1997), un bambino grande giocatore e grande consumatore che diventa manipolatore di schermi, oggetto di indagini di mercato, in grado di orientare i gusti degli adulti. Si delinea un mercato mondiale di consumi infantili e un’industria dei videogiochi in espansione costante, un sistema composito, fatto anche di giornali2, gadget, assistenza e scambi in rete, siti specializzati. Si constata uno spazio di confine tra fumetto, cinema, tv e cartoni animati che fa registrare un giro d’affari annuo di trentadue miliardi e solo negli Stati Uniti offre lavoro a centomila persone. Questa è la realtà ai margini delle agenzie formative classiche –scuola e famiglia–: un sistema tecnologico e culturale compiuto del presente sociale (Carzo-Centorrino, 2002; Colombo-Cardini, 1996; Fiorentino, 2000), fenomeno economico, tecnico, scientifico, affare in cui ognuno vuole entrare, dalle aziende specializzate in prodotti tecnologici, a quelle che operano nel campo delle comunicazioni, fino ai principali produttori di giocattoli, fenomeno mediale dalle dimensioni in crescita inalterata, nonostante la crisi della new economy, che coinvolge utenti bambini e giovani ma non solo, che viola le discriminanti generazionali, a favore di una comunità allargata di giocatori che talvolta non manca di ricongiungere padri e figli. Per comprendere un mercato dominato dalle console dei nostri fi-

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Nel dicembre 1997 ho intervistato lo scrittore ebreo Uri Orlev, che ha scritto molti libri per bambini. Alcuni, in particolar modo L’isola in via degli Uccelli, raccontano l’Olocausto dal suo punto di vista infantile. Nel raccontare la sua esperienza e i suoi libri dice: “I bambini hanno bisogno di giocare, sempre, proprio come hanno bisogno di mangiare: anche nel ghetto, anche nei campi di concentramento: finché non venivano ammazzati, i bambini giocavano. Saltavano, tiravano calci a palloni fatti di stracci, nelle case prive di vita del ghetto c’erano un sacco di giocattoli per i bambini. Anche nel campo di concentramento di Bergen Belsen, accanto alla morte c’era il gioco e la vita”.

stanze di palazzi meravigliosi e grotte sotterranee, passa da paesaggi ghiacciati a scenari con vulcani eruttanti, si infila nelle trame e nelle sottotrame del gioco, è identità mutante del bambino giocatore che controllando il joystick associa strategia e azione, si muove liberamente e si immerge nella virtualità di un ambiente tridimensionale fatto di suoni, immagini, spazi sinestetici da esplorare, sperimentare, vivere. Le macchine per giocare entrano a far parte del corpo, lo sguardo si indirizza verso l’universo di simulazione, ma è l’apparato percettivo nel suo complesso a sentirsi immerso nella dimensione del gioco: attraverso l’unità di mano e joystick, con il tatto, la sensibilità del palmo della mano, di pollice e indice, si ricostruisce la tangenza tra corpo e mondo (Serres, 1985; Semeraro, 2002), si recupera ampiamente una sensorialità che è sfera della realtà sfuggente all’occhio ordinario adulto, comunque dominante nella crescita, nello sviluppo e nell’apprendimento della prima infanzia.

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mancano: l’azienda di videogiochi di George Lucas, il regista della saga di Guerre Stellari, sviluppa e produce giochi dedicati ad Anakin e soci. Steven Spielberg, investe in sale giochi con il particolare che si tratta delle più avanzate nel mondo: nel 1997 ha inaugurato a Seattle Gameworks, un gigantesco centro giochi elettronico frutto della collaborazione tra la Dream Works, gli Universal Studios e Sega. Il centro vuole concretizzare la dimensione collettiva e spettacolare del videogioco con il contributo dei migliori programmatori di giochi e designer dei parchi tematici americani4. Ultimo dato da registrare è il convergere della ricerca tecnologica e scientifica con la grande industria dei giocattoli, nella prospettiva unica della simulazione in Internet. Le ludoteche telematiche proliferano, il mercato del videogioco rappresenta l’affare più ricco della rete e secondo i dati di Juppiter Communications il gioco interattivo in rete raddoppia di fatturato anno dopo anno. Nei laboratori del MIT di Boston si inventano i giocattoli del futuro, con partner economici come Lego, Disney, Mattel, Hasbro, Banday, Toys’r’Us, affiancati da aziende che producono computer o che operano nel campo delle comunicazioni. “Mai prima d’ora –afferma Nicholas Negroponte, fondatore del Media Lab del MIT– i principali produttori di giocattoli del mondo, le aziende di prodotti tecnologici e le organizzazioni sportive avevano collaborato in questo modo… i giocattoli del futuro porteranno con sé parte delle tecnologia più imponente e ispiratrice che l’umanità abbia mai inventato. Ed essa sarà in mano ai bambini, cui appartiene” (1998, p.11). Molto prima dei videogiochi, la ricerca sulla socializzazione ha mostrato i suoi limiti al confronto con i consumi culturali di massa. Se il Novecento lascia registrare l’ingresso pervasivo nell’ordinarietà della vita prima dei mezzi di comunicazione generalisti, poi dei personal media, è singolare costatare come parallelamente la storia dell’istituzione scolastica ha visto allontanarsi sempre più il suo ambiente naturale d’apprendimento dalla vita quotidiana dei suoi utenti. I limiti di una scuola che da sempre ha fatto pochissime concessioni ai media e vive un rapporto difficile con i mezzi di comunicazione tecnologica alternativi alla scrittura e alla parola, fanno il pari con la crisi d’identità della famiglia e delle istituzioni educative in genere, oltre che con l’inadeguatezza dei paradigmi classici della ricerca sociologica.

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gli, ma che viene a coincidere sempre più con lo sviluppo delle nuove tecnologie e che vede il contenuto ludico caratterizzare l’offerta di media diversi tra loro, dal telefono cellulare alla tv satellitare, è opportuno prendere in esame il caso e, sinteticamente, i numeri della Sony: per entrare nel mercato dei videogiochi, l’azienda giapponese ha creato appositamente nel ’92 la multinazionale Sony Computer Entertainment. Nel ’95 sul mercato arriva la prima Playstation, una console che somiglia a un computer e mira a un mercato che non è fatto di soli bambini. Dopo tre anni Sony ha raggiunto e superato la concorrenza, ha venduto duecentosessantaquattro milioni di giochi, ha diffuso trentasette milioni di console in tutto il mondo, delle quali circa un milione in Italia. Lo scontro commerciale che negli anni Ottanta ha visto sfidarsi aziende specializzate (Sega e Nintendo) oggi vede in campo i colossi dell’industria tecnologica giapponese e americana: nel marzo 2000 Sony ha immesso sul mercato l’ultimo modello di Playstation (PS2), vendendone in solo tre giorni 980mila pezzi3, dal canto suo Microsoft fa debuttare la console X-Box che prevede una maggiore realtà nella simulazione, un lettore DVD incorporato e la possibilità di connessione in Internet, con la vecchia guardia del videogioco, è il caso di Nintendo, che prova a recuperare il mercato perduto con la nuova console Game Cube. Ancora alcuni elementi di riflessione: dal cinema, l’illusione della vita si trasferisce ai videogiochi; i personaggi, i luoghi, le storie dell’immaginario cinematografico e mediale vengono controllate e personalizzate da un joystick; i videogiochi sviluppano le forme di narrazione classica, coinvolgendo il bambino con dinamiche interattive; gli interessi dell’industria dello spettacolo vanno a coincidere con il gioco sul piccolo schermo; le fasi di creazione, programmazione e produzione di un videogame ricordano sempre più il circuito produttivo dell’industria cinematografica (Grasso, 1985; Goldfinger, 1994; Ascione, 1999; Fiorentino, 2000). Il flusso dei contenuti si è fatto reciproco e mutuabile, Lara Croft approda allo schermo cinematografico, Harry Potter, scivola dalle pagine della saga testuale al cinema, ai file di videogiochi. Walt Disney, che rappresenta l’avanguardia multinazionale di un sistema che occupa in maniera invasiva ogni spazio della comunicazione mediale, fa transitare i suoi personaggi dalle pagine di libri e giornali a grandi e piccoli schermi, fino a diventare protagonisti di giochi interattivi su cd rom o di cacce al tesoro in Internet. Altri esempi caratterizzanti non

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dere la prima metà degli anni Ottanta per avere una prima specifica riflessione bibliografica (Grasso, 1985; Bates, 1985), e approdare agli anni Novanta per verificare un primo approccio sistematizzato al fenomeno in ambito sociologico (Le Diberder-Le Diberder, 1993; Colombo-Cardini, 1996). Indubbiamente percorsi ricorrenti, provengono dall’area di ricerca psicologica, inglobano i videogiochi nell’universo delle tecnologie informatiche e sembrano obbligati nell’orientare sempre e necessariamente un atteggiamento preciso a favore o, più spesso, contro6 l’utilizzo dei videogiochi da parte dei bambini, spesso, e non a ragione, pensati come unico interlocutore dell’oggetto in questione. Voci in difesa dei videogiochi, sebbene in quantità inferiore, tendono a evidenziare le potenzialità didattiche ed educative degli strumenti informatici (Graham, 1988; Loftus, 1983; Papert, 1980 e 1993; Turkle, 1996) e per quanto riguarda la ricerca italiana di ambito psicopedagogico non mancano di percorsi originali (Antinucci, 1992 e 1999; Maragliano, 1996). Contributi più recenti tendono a evidenziare lo statuto autonomo dei videogiochi in quanto prodotto dell’industria culturale, sottolineando l’aspetto articolato e complesso dei videogiochi (Sheff, 1994; Rich, 1991; Le Diberder-Le Diberder, 1993; Colombo-Cardini, 1996; Carzo-Centorrino, 2002). Inoltre alcune ricerche si misurano con la ricostruzione storica e la classificazione dei videogiochi, talvolta rivolte direttamente a un pubblico di giocatori, e in questo caso solo parzialmente da tenere in considerazione (Carlà, 1994; Jolivalt, 1994; Ascione, 1999). La storia e lo sviluppo dei videogiochi dimostrano un profondo radicamento nella storia e negli sviluppi dei nuovi media, oltre che nella sensibilità di percorsi già interiorizzati dalla natura del bambino. I fratelli Le Diberder (1993) sintetizzano il mutevole panorama del mercato dei videogiochi, dalla fase mitica e originaria di Pong (1972) fino alla metà degli anni Novanta, in tre fasi essenziali che corrispondono all’evoluzione delle case produttrici di hardware. Una prima fase vede la nascita e la diffusione delle prime console, con una scarsa e inadeguata produzione di software. Dal 1972 al 1977, i titoli offerti sul mercato rappresentano più o meno versioni aggiornate di Pong. Un secondo momento vede la diffusione degli home computer e la scissione fra editori e programmatori, con una immediata sovrapproduzione di console e cartucce e il conseguente svi-

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È il caso quindi, provando a sintetizzare e semplificare con Morcellini, di individuare nell’ambito delle ricerche sulla socializzazione, i due filoni fondamentali, radicati essenzialmente nella tradizione sociologica (1992, pp.75-77)5. Da una parte si riscontra un itinerario segnato dalla ricerca funzionalista, lungo una linea che parte da Durkheim (1922) per approdare fino a Parsons (1964) e Merton (1949). Si tratta di un’area che offre una versione problematica e “preoccupata” del processo di socializzazione, definito in quanto percorso essenziale ai fini della riproduzione delle condizioni di esistenza del sistema sociale stesso, come apprendimento e interiorizzazione di un complesso di regole definite che predeterminano il comportamento degli attori sociali, come processi educativi dalla funzione prevalentemente integrativa. Dall’altra parte un orientamento che fa capo all’interazionismo e trova riferimento centrale nelle riflessioni di Mead (1934) e Goffman (1959), tende a leggere la socializzazione dalla parte dell’individuo, come sviluppo delle sue potenzialità e capacità, come negoziazione e interazione di un minore che si fa soggetto attivo. È naturale constatare che entrambi i punti di vista si mostrano sostanzialmente inadeguati a porsi quali esclusivi presupposti teorici per un’interpretazione del processo di socializzazione. Impensabile accedere al mercato nero della socializzazione informale con tali paradigmi di riferimento, difficile affrontare la centralità che i media occupano nella vita quotidiana dei ragazzi. Per confrontarsi debitamente con l’ambiente d’apprendimento del bambino, con vere e proprie agenzie socializzanti –dal televisore al videogioco, fino al personal computer e alle reti telematiche– è opportuno muoversi su linee di confine e spazi di mutuo scambio tra ambiti disciplinari più diversi. È d’obbligo tener da conto riflessioni storicamente centrali in ambito educativo come quelle di John Dewey, per quanto concerne l’ambito della sociologia e della filosofia dell’educazione, o come quelle di Jean Piaget, sul versante più specificamente psicopedagogico, bisogna accogliere i più recenti contributi nell’ambito specifico della sociologia della comunicazione e della sociologia dell’educazione, bisogna controllare tutta quella eterogenea bibliografia pedagogica, psicologica, antropologica e sociologica, che porta da una parte il gioco, dall’altra i mezzi di comunicazione, al centro dei processi di apprendimento del bambino. Per quanto riguarda lo specifico dei videogiochi bisognerà atten-

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Se proviamo a interrogare la natura di un videogioco nella sostanza della sua interazione con il bambino, scopriamo un audiovisivo con il quale l’utente interagisce fisicamente oltre che mentalmente, che ci propone un itinerario narrativo su cui il giocatore interviene attivamente, trasformando la relativa passitività del pubblico in operatività dell’utente. I videogiochi ridefiniscono il rapporto tra corpo e tecnologia, affinano una nuova sensibilità, sviluppano abilità specifiche che si definiscono in sintonia con l’evoluzione tecnologica della società, mettono in gioco una intensa attività percettiva di natura psicomotoria che coinvolge sensi, azioni e figure che la tradizione della scrittura ha storicamente e socialmente mortificato (Abruzzese, 1996). Oltre il cinema e la televisio-

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ne, Maragliano (1996) prova a evidenziare come i videogiochi spingano in avanti i termini dell’espansione sensoriale, aggiungano alla vista e all’udito la nuova dimensione della tattilità, estendendo il grado di partecipazione del corpo al processo comunicativo. Il gioco nel video è l’ambiente naturalmente artificiale per il bambino della proiezione, dell’immedesimazione, della sfida, dell’esplorazione, dell’apprendimento. Il piano strategico è affiancato dall’azione, la storia porta a interpretare ruoli, incontrare personaggi, raccogliere oggetti, risolvere enigmi, la forza degli ibridi di grande successo su un mercato globalizzato dal target sempre più indifferenziato, e penso naturalmente all’esempio di Lara Croft, è affiancata dalla sfida locale di prodotti che nel mercato educational provano a ricalcare i modelli, localizzandoli su target e contenuti specifici, penso ad esempio alle esperienze e i prodotti per bambini di Daniele Panebarco, dove mutuando una provata e lunga esperienza sul fumetto si prova a far coincidere digitalmente animazione, avventura, gioco e apprendimento. Secondo l’ipotesi suggestiva di Maragliano, il videogioco potrebbe disegnarsi in fondo come “una macchina virtuosa per la cognizione” (p.42), in grado di offrire forme di conoscenza che dialogano con la realtà, comunque esperienze di una realtà, che sono personalizzate, negoziabili, graduali, e interattive oltre che multimediali. Seymour Papert, prima collaboratore di Jean Piaget, attualmente direttore dell’Epistemology Learning Group del Media Lab del Massachussets Institute of Technology (MIT) di Boston, impegnato in ricerche sull’intelligenza artificiale, ha studiato a lungo i videogiochi con grande attenzione pedagogica, provando a coniugare la simulazione digitale con l’aprendimento naturale, tracciando una strada che unisce il possibile tecnologico e il potenziale infantile. Con Papert la tradizionale scissione gioco lavoro viene ricomposta per trovare una naturale risoluzione sullo schermo. “I videogiochi –scrive semplicemente Papert– insegnano ai bambini che alcune forme di apprendimento sono rapide, coinvolgenti, gratificanti” (1993, p.16). In effetti sono il primo approccio dei bambini al mondo del computer, all’ambiente della simulazione come luogo dell’apprendimento negoziato e individualizzato, oltre che “rapido, coinvolgente e gratificante”. In Italia la ricerca di Papert arriva nel 1984 con la traduzione di Mindstorms. Bambini computers e creatività

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luppo di una concorrenza selvaggia. In Europa le aziende britanniche monopolizzano il settore, mentre negli Stati Uniti domina il Commodore Vic 20. La terza fase registra, come del resto già ricordato, l’ingresso di Nintendo e poi di Sega nel settore delle console che viene completamente recuperato. Prodotti tecnici curati e affidabili, prezzi più bassi rispetto alle cartucce, software gestiti in regime di monopolio, le aziende propongono un vero e proprio sistema all’interno del quale circolano periodici specializzati, gadget e una rete di assistenza specializzata, oltre che un’attenzione comunicativa costante nei confronti del pubblico determinante dei genitori. La situazione attuale viene presa in considerazione da Colombo-Cardini (1996, pp.241-243) che individuano il nodo problematico nelle modalità di coesistenza di console e pc. “Pc e console coesistono –scrivono i sociologi– ma si stanno configurando come due mercati distinti, con caratteristiche sempre più divergenti. Si sta imponendo, cioè, una precisa settorializzazione del mercato più che una omogeneizzazione pacifica” (p.241). Dall’analisi dello scenario fatta in precedenza in effetti non si può parlare di una omogeneizzazione pacifica, ma neanche di una precisa settorializzazione del mercato. L’irruzione della Sony sul mercato, i progetti di Microsoft, l’interesse delle aziende di telecomunicazione e dei maggiori produttori di giocattoli, i rapidissimi cambiamenti tecnologici legati allo sviluppo dei nuovi media, lasciano immaginare sovrapposizioni impensabili pochi anni prima, disegnano uno scenario in costante evoluzione, e caratteristiche sempre più convergenti nell’orizzonte dei nuovi media e di Internet.

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conseguono all’azione, riprovando, cambiando qualcosa e di nuovo, osservando i risultati. Gli psicologi lo chiamano apprendimento “senso-motorio” o “percettivo-motorio” contrapponendolo o affiancandolo all’apprendimento “simbolico ricostruttivo”. L’apparto senso motorio si configura come l’apparato più antico dal punto di vista dell’evoluzione umana –spiega ancora Antinucci– è anche l’apparato esclusivo che usa il bambino nei primi mesi della sua vita, quando ancora non parla (ibid.). È l’apparato che usa quando gioca, che lo avvia alla conoscenza, all’apprendimento, è anche l’apparato al quale la scuola ha a lungo rinunciato, è lo stesso preferito dal bambino, che alla forma libro, istituzionalizzata, spogliata della realtà, al mondo visto attraverso gli occhi dell’alfabeto preferisce il viaggio nella realtà, la conoscenza che avviene giocando: osservando, sperimentando, manipolando, costruendo, toccando anche fisicamente con mano. Sono stati due grandi pensatori, un pedagogista e un antropologo, Jean Piaget e Claude Lévi-Strauss, a scoprire la dimensione dell’apprendimento “concreto” e poi a negarlo nelle contrapposizioni bambini-adulti e primitivi-occidentali. Il bambino o il primitivo sono bricoleurs che giocano con concetti e oggetti allo scopo di conoscerli, e vengono superati rispettivamente da adulti e occidentali che vanno al di là delle operazioni concrete per approdare all’astrazione al formale, al testo. Seymour Papert rovescia le contrapposizioni di Piaget e Lévy-Strauss, apre un modo nuovo di pensare che si è fatto rapidamente strada: “la mia strategia, al contrario, –scrive ancora– consiste nel rafforzare e perpetuare il tipico processo concreto perfino alla mia età. Invece di spingere i bambini a pensare come gli adulti, faremmo meglio a ricordare che abbiamo a che fare con individui che imparano rapidamente e che dovremmo fare noi ogni sforzo per assomigliare a loro” (1993, p.168). Nell’ottica di Papert, come esseri che apprendono permanentemente, non possiamo che farci bricoleurs. Imparare significa costruire materiali e strumenti che è possibile maneggiare e manipolare. Significa aprire alla dimensione del gioco che è “modo di pensare in anticipo, di far girare una simulazione mentale” (Rheingold, 1992, p.502). Con il computer, il gioco si sposta sulla superficie dello schermo, lo sviluppo dell’intuizione avviene attraverso la manipolazione di oggetti virtuali. Il bricolage trova spazi nella cultura della simu-

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(1980). Da allora il videogioco come luogo dell’apprendimento è un motivo rinnovato anche per alcuni ricercatori italiani e trova sviluppi particolari che è utile recuperare. L’approccio più singolare all’argomento è senza dubbio dello psicologo Francesco Antinucci (1992; 1999) che con una rielaborazione originale classifica per contenuti i videogiochi, individuando tre categorie che coincidono perfettamente con i tre livelli di sviluppo cognitivo dell’età evolutiva individuati da Piaget: - nel primo livello ci sono i giochi di abilità che corrispondono al livello psicomotorio, in cui si sviluppano e si coordinano fra loro gli schemi che integrano la percezione e l’azione del soggetto; - al secondo gruppo appartengono i giochi di simulazione, che corrispondono al livello operatorio, in cui si formano il pensiero logico-razionale e il ragionamento inferenzialedi tipo “se… allora…”; - infine del terzo livello fanno parte i giochi adventure che sono speculari ai contenuti del livello rappresentativo, in cui si struttura il pensiero simbolico. Tutte le possibili forme di interazione con un videogioco rimandano alle tre categorie piagetiane, basate sui modi fondamentali dell’operare cognitivo. Nel percorso di Antinucci i videogiochi traducono visivamente i percorsi dell’apprendimento, li rendono interattivi e individualizzati, li differenziano dal punto di vista narrativo ed estetico, per incontrare i gusti e le sensibilità più diverse. Alla fine degli anni Novanta poi i videogiochi hanno accentuato un itinerario di moltiplicazione, diversificazione e integrazione reciproca dei contenuti (Carzo-Centorrino, p.147), traducendo in realtà una grande promiscuità delle tre categorie base individuate da Antinucci. L’itinerario ci porta a recuperare e ripartire dal bambino di Piaget. Dopo di lui si è diffusa sempre più la consapevolezza che la conoscenza non si trasmette in modo unidirezionale e acritico, ma sono i bambini stessi a costruire il proprio sapere. Il passaggio pedagogico dall’istruzionismo a un’educazione attiva, progressiva, aperta, puerocentrista, ancora costruttivista dovrebbe essere scontato anche negli ambienti naturalmente decretati alla socializzazione ma si scontra con una realtà che spesso offre altre situazioni di fatto. Provando a semplificare ulteriormente, è ancora Antinucci a ricordare seguendo una tradizione consolidata di studi psicopedagogici, che esiste anche un altro tipo di apprendimento, che si ha osservando, toccando, modificando, riosservando gli effetti che

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Tra i sociologi, Giovanni Cesareo non è l’unico a presentare il videogioco come presenza dominante e negativa delle applicazioni digitali (1996). Gli fanno eco psicologi, pedagogisti e una massa indeterminata di giornalisti. Il dibattito si attarda sul problema degli effetti che i videogiochi esercitano sui loro fruitori. Le critiche più comuni si appuntano nella rilevazione di contenuti evidentemente negativi (Greenfield, 1984), in grado di alimentare palesemente una cultura della violenza (Alloway - Gilbert, 1998), o ancora nei rischi psicologici dovuti a eccessiva sovraesposizione ai videogiochi (Le Diberder-Le Diberder, 1993), nella possibilità di influenzare una prospettiva egemonica della cultura al maschile, nella capacità di veicolare forme culturali estranee alla cultura europea, e infine di incrementare la natura simulacrale della rappresentazione che i media offrono della realtà. Anche in tal caso i videogiochi seguono il passo dei media, e la discussione di ogni singolo “effetto” porterebbe probabilmente a recuperare larga parte del dibattito sugli effetti sociali dei media (Wolf, 1983). Inoltre da una parte il collasso da videogioco, rappresenta il paradosso di una estraneazione completa dalla realtà, dall’altra il problema di una censura dei contenuti esiste in pratica dal principio della storia dell’educazione. Essere nella realtà vuol dire vivere tutta la realtà, accogliere il confronto

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con i rischi che comporta il reale. In tale prospettiva è interessante rovesciare il punto di vista utilizzando la riflessione di Howard Gardner (1991, pp.218-220): l’apprendimento comporta costantemente dei rischi e in tal senso offre continue opportunità. L’altro da sé rappresenta un pericolo costante, la conoscenza nelle sue molteplici forme comporta rischi tenuti distanti dalle sicurezze della scuola tradizionale. Al bambino vanno offerti scenari e ambienti diversi, nuovi parametri di lettura più che domande preventivate e sicurezze di sempre. Mi sembra che la risposta di Sherry Turkle possa offrire ancora ulteriori considerazioni (1996). La sociologa sposta in avanti il senso della questione, ripropone la sostanza del dibattito tradizionale sui mezzi di comunicazione, centrandolo intorno agli scenari virtuali di comunicazione, relazione e apprendimento determinati dal gioco sullo schermo del pc. Per la ricercatrice del MIT l’apprendimento deve percorrere inevitabilmente le strade ludiche dell’esplorazione virtuale, in quanto opportunità e ovvia presenza del reale. Il nocciolo del problema è intorno a una proprietà critica da costruire nei confronti dell’apprendimento negli ambienti virtuali. Anche la simulazione può e deve essere interrogata. Se le potenzialità dell’apprendimento per immersione in ambienti virtuali sono cosa ovvia, la sociologa sposta le coordinate del problema: le simulazioni possono essere “lette”. “Potremmo considerare la capacità di penetrazione della simulazione come una sfida allo sviluppo di una nuova critica sociale”. Scrive Turkle e continua: “una nuova critica in grado di operare scelte tra le diverse simulazioni. Avendo come obiettivo primario la realizzazione di simulazioni in grado di aiutare chi le utilizza a comprendere e mettere in discussione le ipotesi di partenza insite nei modelli proposti (1997, p.236). Non è in dubbio la centralità che videogiochi e nuovi media occupano nella realtà e che dovrebbero necessariamente trovare in un’istituzione scolastica di nuovo parte essenziale dello sviluppo sociale. Il problema per Turkle consiste nel provare a “sviluppare l’abitudine a una modalità di lettura che sia appropriata alla cultura della simulazione” (p.238). L’immediato futuro ci vede a cimentarsi nell’interpretare, giocando con il bambino, la natura della simulazione stessa.

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lazione. Lo schermo si disegna come superficie per simulazioni da giocare, o come porta per la comunicazione. I videogiochi e, passo integrato, il computer, con i suoi codici e i suoi linguaggi, con le sue immagini, i suoi suoni, i suoi testi, ci consentono di poter vedere a distanza, sentire a distanza, interagire a distanza, manipolare a distanza, ricreando elettronicamente ambienti e universi percettivomotori. Restituiscono spazio all’apprendimento concreto, più inconscio, più semplice, più potente. I bambini, più che imparare regole, vogliono creare ambienti da esplorare (Parisi, 1999). È ancora una ricercatrice al MIT di Boston, la psicologa e sociologa Sherry Turkle a ricordare che “il bambino non impara il linguaggio naturale conoscendone le regole, ma attraverso l’immersione nella sua cadenza” (1996, p.52). Allo stesso modo, la produzione di software didattici più aggiornata viene progettata per immersione. La produzione multimediale offre al bambino ambienti di realtà virtuale e d’immaginazione interattiva con personaggi, eroi in cui immedesimarsi, di cui i partecipanti si possono fidare.

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Note Uno studio piuttosto recente ha rivelato che i bambini americani conoscono Mario Bros più di Topolino (Kent, 2001). 2 “Anche nel caso dei videogiochi –scrivono Colombo e Cardini– il ruolo delle riviste è fondamentale in una prospettiva circolare, in cui da un lato esse vampirizzano il successo di un fenomeno mediale, dall’altro collaborano a definirne i contorni e le scansioni interne” (1996, p. 232). 3 Alla fine del 2002 sono presenti nelle case degli italiani circa 800.000 PS2. 4 È utile segnalare che il mondo virtuale dell’intrattenimento fatto di sale giochi, parchi tematici e luna park, in America genera un fatturato annuo di circa dieci miliardi di dollari, che rappresenta il doppio rispetto a quello del cinema. 5 Solo di recente lo studio dei rapporti tra le diverse istituzioni educative e la realtà sociale è venuto precisandosi come disciplina specifica (la sociologia dell’educazione). Per avere un quadro più ampio del problema è opportuno rifarsi agli studi di Ardigò (1966), Besozzi (1993) e Ribolzi (1993). 6 Basti citare in riferimento a tale atteggiamento ancora Herz (1997). 1

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IL CORSO DI LAUREA INTERFACOLTÀ IN SCIENZE DELLA COMUNICAZIONE DELL’UNIVERSITÀ DI LECCE

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È stato istituito nell’a.a.2000-2201 come corso di laurea triennale, anticipando di un anno la riforma degli Ordinamenti didattici (legge 509/99) come indirizzo di studi della Laurea in Lettere della Facoltà di Lettere e Filosofia. Nell’anno 2002-2003 si è trasformato in Corso Interfacoltà. La popolazione studentesca è di circa 900 iscritti. Presidente del Corso di laurea è il prof. Angelo Semeraro, che vi insegna Pedagogia della comunicazione. Vice-Presidente il prof. Alberto Sobrero, che vi insegna Linguistica italiana. Incaricata del Tirocinio con le aziende di comunicazione è la prof.ssa Viviana Colapietro, associata di Educazione degli adulti nella Facoltà di Lettere e Filosofia. Il logo del Corso di studi è stato progettato da Giancarlo Moscara, professore di Grafica. Si accede al Corso attraverso prove selettive per un numero annuale di 200 posti a disposizione per le iscrizione e 30 per i trasferimenti da altre sedi o Facoltà dello stesso Ateneo. Il piano degli studi ”guidato” prevede gli indirizzi di comunicazione pubblica, d’impresa e nei media. Il Corso ha un suo sito (www.unile.it/comunicazione). In esso è possibile compulsare l’Ordinamento didattico, i Regolamenti, i programmi e il calendario annuale nelle sue scansioni semestrali; il piano degli studi; il curriculum scientifico dei professori; le bacheche didattiche e di presidenza. L’anno accademico è ripartito in due blocchi didattici: le lezioni si tengono nei mesi di ottobre-dicembre e marzo-maggio. I mesi di gennaio, febbraio, luglio e settembre sono interamente dedicati agli esami. Nel mese di novembre del 2003 sarà tenuta la prima sessione delle lauree triennali. Il Corso ha sviluppato alcune iniziative, tra cui due Convegni sul Glocale (Oltre il senso del luogo e Il glocale degli innocenti nel corso del 2001 e il più recente Convegno su Mezzogiorno di radio:cento anni di storia/e, i cui atti sono ospitati in questo fascicolo. Pubblica la rivista di Comunicazione (un numero annuale). Nel corso dei due ultimi anni dieci studenti hanno frequentato corsi Erasmus (Malta, Paris Sorbonne, Lille, Nancy, Bilbao). Nel corso dell’ultimo anno cinquantadue studenti hanno seguito il Convegno internazionale di studi tenutosi a Fisciano il 29 nov.2002, costruendo un ipertesto sul tema Memoria/Oblio. Nel corso dell’ultimo anno trenta docenti del Corso hanno indirizzato al Presidente della Repubblica e ai Presidenti di Camera e Senato un appello in difesa della libertà d’informazione. È in corso un seminario interdisciplinare su “Semantica e Retorica della guerra e della pace”.

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